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La salute mentale dei migranti all’interno dei CPR

Nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio le persone ristrette vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico.”

L’inchiesta pubblicata da Altraeconomia ad aprile Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei CPR italiani dei giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni restituisce un’immagine dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) che rimanda alle condizioni dei vecchi manicomi in cui per tenere buoni i pazienti si abusava di antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici, le cosiddette ‘camicie di forza chimiche’.

Secondo gli autori la quantità di psicofarmaci acquistati dai CPR è spropositata e se giustificata, significa che tratteniamo in queste strutture persone che si trovano in uno stato psichico tale da essere incompatibile con il soggiorno nei CPR.

Analizziamo quindi cosa sappiamo sullo stato di salute dei migranti rinchiusi nei CPR per capire se l’utilizzo di psicofarmaci sia giustificato o meno.

Prima, però, qualche informazione in più su chi sono le persone trattenute nei CPR.

Cosa significa essere uno straniero in Italia

Con il termine ‘straniero’ la legge italiana indica chi non è cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea, quindi il cittadino extracomunitario.

Gli stranieri che si trovano in Italia senza visto o permesso di soggiorno validi vengono considerati irregolari. Il nostro Stato prevede delle misure volte sia a prevenire l’ingresso irregolare degli stranieri, sia a impedire la loro presenza irregolare sul territorio italiano: sono i provvedimenti di espulsione e respingimento. Se uno straniero irregolare viene intercettato alla frontiera viene respinto, altrimenti, se è già su territorio italiano, viene espulso.

Stranieri irregolari: chi sono e quanti sono

Si stima che attualmente in Italia ci siano poco più di 500.000 stranieri irregolari 

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM1

 

Si tratta di persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno oppure sbarcate sulle coste italiane o che hanno aggirato i controlli di frontiera, molti dei quali richiedenti asilo, altri, i cosiddetti migranti in transito, sono profughi intenzionati a raggiungere altri Paesi dell’Unione Europea e che per questo hanno fatto perdere le loro tracce.

Espellere gli stranieri irregolari: cosa sono i Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR)

I Centri di permanenza e rimpatrio, prima denominati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) e prima ancora Centri di Permanenza Temporanea (CPT), sono delle strutture nate per ospitare gli stranieri colpiti da un provvedimento di espulsione che non può essere eseguito immediatamente perché:

  • lo straniero deve prima essere soccorso;
  • sono necessari ulteriori accertamenti per stabilire la sua identità o nazionalità;
  • lo straniero deve reperire il proprio documento di viaggio (es. passaporto);
  • non è disponibile un mezzo di trasporto idoneo per rimpatriarlo.

I Centri sono gestiti da società private che hanno vinto un appalto bandito dal Ministero dell’Interno.

Al momento sono 10 i CPR attivi sul territorio italiano:

  • Bari;
  • Brindisi;
  • Caltanissetta;
  • Gradisca d’Isonzo (GO);
  • Macomer (NU);
  • Milano;
  • Palazzo San Gervasio (PZ);
  • Roma;
  • Torino;
  • Trapani.

Chi è trattenuto in un CPR può rimanervi solo per il tempo strettamente necessario a superare gli impedimenti che non ne permettono l’immediata espulsione; massimo 90 giorni, prorogabili a 120 in casi eccezionali.

Se entro questo lasso di tempo non si è riusciti a eliminare gli ostacoli che ne impediscono l’espulsione e a rimpatriarlo, lo straniero viene rilasciato e ha cinque giorni di tempo per abbandonare l’Italia, se non vuole incorrere in sanzioni penali che prevedono la reclusione.

Chi sono gli stranieri trattenuti nei CPR

Esistono diversi motivi per cui uno straniero può essere colpito da un provvedimento di espulsione ed essere portato in un CPR:

Espulsione amministrativa

Viene disposta dal Ministero:

  1. per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, se lo straniero è ritenuto pericoloso;

Viene disposta dal Prefetto:

  1. se lo straniero è clandestino, cioè è entrato nel territorio italiano irregolarmente eludendo i controlli alla frontiera;
  2. se lo straniero è irregolare, cioè privo di permesso di soggiorno valido.

Espulsione giuridica

A seguito di un procedimento penale, uno straniero può essere espulso dall’Autorità Giudiziaria:

  1. per motivi di sicurezza, perché è stato condannato per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza e ritenuto socialmente pericoloso;
  2. come misura alternativa alla detenzione in casi di soggiorno irregolare oppure se sta espiando una condanna definitiva per reati non gravissimi oppure se sta scontando gli ultimi due anni della pena;
  3. come sanzione sostitutiva alla detenzione, se ha commesso un reato non colposo, punito con detenzione inferiore a due anni o per il reato di ingresso e soggiorno illegale;
  4. come sanzione sostitutiva a una pena pecuniaria.

Le persone che vengono trattenute nei CPR sono per lo più clandestini o irregolari (es. migranti sbarcati illegalmente o soccorsi in mare) e in percentuale minore soggetti ritenuti socialmente pericolosi o che hanno commesso reati non gravi. Questi ultimi sono infatti una minoranza, come si evince dai dati dei rimpatri relativi all’anno 2021 (sebbene i dati si riferiscano solo ai rimpatriati, che sono poco meno del 50% delle persone trattenute nei CPR).

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM3

Lo stato di salute degli stranieri irregolari

Il tema della salute degli stranieri irregolari mostra un quadro fortemente condizionato da fattori che si intrecciano tra loro come per esempio l’effetto migrante sano (cioè è più facile che decida di emigrare chi è in migliori condizioni di salute) e l’effetto migrante esausto. Quest’ultimo interessa particolarmente gli immigrati irregolari che si trovano in situazioni di precarietà, di svantaggio sociale ed economico, con scarsissime possibilità di integrazione, una relazione problematica con i servizi sanitari (nonostante sia previsto il sistema STP che consente l’accesso anonimo alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative per malattia ed infortunio), scarsa compliance ai trattamenti di lunga durata; tutti fattori di rischio per lo sviluppo di disagi psicologici e psichiatrici.

Migranti economici

Alle considerazioni sopra elencate si aggiunge, per i migranti economici irregolari, il rischio di sviluppo di traumi legati al lavoro nero, dove le condizioni lavorative implicano totale assenza di tutela e sfruttamento.

Profughi

Le persone che sbarcano in Italia presentano – ma ciò non stupisce – un’alta incidenza di problemi psichici dovuti alle violenze che hanno subito sia in patria sia durante il viaggio, in particolare Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD).

Come affermato da Baglio e colleghi (2017), “Nel contesto delle migrazioni la salute degli irregolari si presenta maggiormente vulnerabile per il sommarsi degli effetti delle condizioni di partenza e di viaggio e per la marginalità in cui molti di loro si trovano a vivere nel Paese ospite.”

Lo stato di salute mentale nei CPR

I disturbi psichiatrici più diffusi

A fronte di quanto sopra descritto è verosimile che le persone trattenute nei CPR abbiamo un’alta probabilità di soffrire di ansia, PTSD, depressione, dipendenza da sostanze o più in generale di disagio psichico.

Autolesionismo e rischio suicidario

I fattori individuali, ambientali e situazionali che possono influenzare il rischio che uno straniero irregolare trattenuto in un CPR commetta atti di autolesionismo o si suicidi sono diversi. Per esempio:

  • la consapevolezza che il proprio progetto di migrazione, e quindi di cambio vita, è fallito
  • lo stress determinato dalla vita detentiva
  • lo stress determinato dalla carenza di informazioni
  • l’impatto che la vita detentiva può avere su eventuali traumi pregressi legati a violenze o torture subite prima della partenza o durante il viaggio
  • l’astinenza da sostanze in caso di tossicodipendenza
  • la difficoltà ad accedere a un’assistenza psichiatrica adeguata
  • l’isolamento all’interno della struttura e l’assenza di contatti con l’esterno
  • vulnerabilità psicologiche personali

Aggressività

Le condizioni in cui versano le persone trattenute nei Centri contribuiscono inoltre a esacerbare le problematiche psicologiche e psichiatriche. Per esempio, la totale assenza di attività (es. ricreative o sportive) e quindi lo stato di inerzia forzata a cui le persone trattenute sono costrette, determina un aumento di malessere e aggressività che spesso sfocia in sfoghi violenti all’interno delle strutture.

Chi si prende cura della salute mentale degli stranieri nei CPR

Quando una persona è destinata a un CPR, è necessario verificare che non soffra di patologie che siano incompatibili con il suo ingresso o la sua permanenza nel Centro; per esempio, malattie infettive o contagiose, disturbi psichiatrici oppure patologie acute o cronico degenerative che necessitano di cure idonee non erogabili all’interno della struttura.

Già in passato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (organismo statale indipendente che monitora i luoghi di privazione della libertà) ha segnalato quanto sia “deficitaria, nonostante le rassicurazioni in merito, l’adeguata presa in carico delle persone affette da disagio mentale” all’interno dei CPR, inclusa l’assenza di interventi di prevenzione del rischio suicidario. Ma chi dovrebbe occuparsene?

La valutazione di idoneità all’ingresso in un CPR

All’interno dei CPR è previsto un presidio medico coperto da professionisti sanitari contrattualizzati dalla società che gestisce la struttura.

Tuttavia per legge (articolo 3 del Regolamento unico dei Cie) la visita medica per stabilire l’idoneità all’ingresso e alla permanenza nel Centro deve essere affidata alla sanità pubblica ed essere effettuata da un medico della Asl o dell’Azienda ospedaliera. Spetta alle Prefetture stipulare Protocolli di intesa con le Aziende sanitarie locali.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha però evidenziato come nel corso del 2019 e del 2020 questa fondamentale verifica di garanzia sia spesso stata parzialmente disattesa: la valutazione all’idoneità era infatti spesso demandata al personale medico contrattualizzato dal gestore del Centro che si limitava a controllare l’assenza di malattie infettive e a un rapido esame obiettivo.

Nei casi in cui sia stata attivata la collaborazione con il Servizio Sanitario per accertamenti e visite specialistiche, se non è prevista una corsia preferenziale per i migranti trattenuti (vedi, per esempio, CPR di San gervasio, come segnalato dal report di ASGIAssociazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), si ha una dilatazione dei tempi di attesa per la valutazione di idoneità.

Ad oggi la situazione non sembra cambiata.

La valutazione di idoneità alla permanenza in un CPR

I medici della struttura hanno il compito di monitorare lo stato di salute dei trattenuti per cogliere l’eventuale insorgenza di sintomi di disagio mentale; in tal caso il paziente dovrebbe essere indirizzato verso visite specialistiche e a una nuova valutazione di idoneità alla permanenza nel centro da parte della Asl o Azienda ospedaliera del territorio.

Prevenzione del rischio suicidario

Nonostante i casi di suicidio e di autolesionismo che si sono verificati nei CPR, a oggi non sono previsti protocolli o interventi di prevenzione del suicidio.

Personale inadeguato

Il numero di professionisti sanitari che presta servizio presso i CPR (stabilito da tabella di dotazione minima del capitolato d’appalto) spesso è inferiore rispetto al numero di pazienti che devono essere gestiti. In alcuni casi si fa affidamento a gruppi di medici volontari grazie ad accordi con gli Ordini di provincia (es. CPR Torino), ma appare evidente come non sia sufficiente tentare di sopperire a una assistenza medica così critica tramite il volontariato.

Per di più, segnala il Garante, il personale non ha competenze specifiche in materia di medicina delle migrazioni e non segue specifici percorsi di formazione (per es. sulla prevenzione del rischio suicidario).

Ne consegue che l’assistenza fornita è fortemente inadeguata.

L’acquisto di psicofarmaci da parte dei CPR

L’inchiesta di Altraeconomia sostiene un massiccio uso di psicofarmaci all’interno dei CPR, in particolare di:

Benzodiazepine

Le benzodiazepine sono farmaci utilizzati per ridurre l’ansia e i suoi sintomi fisiologici poiché hanno proprietà ansiolitiche, sedative, anticonvulsivanti e miorilassanti (es. Bromazepam, Diazepam, Clonazepam).

Tra le benzodiazepine acquistate nei CPR  si segnalano, per esempio, Tavor, Valium, Tranquirit, ma soprattutto Rivotril. Colpisce che quest’ultimo sia il più acquistato, considerando che è indicato come prima scelta per il trattamento di stati di epilessia e che come ansiolitico è ormai stato superato da altri farmaci che hanno minor rischio di sviluppare dipendenza.

Antidepressivi

Gli antidepressivi SSRI sono farmaci utilizzati sia per il trattamento della depressione sia per il trattamento dell’ansia a lungo termine (es. Sertralina, Paroxetina, Fluoxetina).

Nei CPR si segnala in particolare l’acquisto di Zoloft (Sertralina).

Antipsicotici

Gli antipsicotici o neurolettici sono farmaci utilizzati nel trattamento di schizofrenia, disturbi psicotici, disturbo bipolare.

Altraeconomia segnala l’acquisto da parte dei CPR di Quetiapina (utilizzata per il trattamento di schizofrenia e disturbo bipolare), Olanzapina (schizofrenia) o Depakin (epilessia e disturbo bipolare).

L’acquisto di narcotici da parte dei CPR

L’inchiesta evidenzia inoltre un acquisto significativo di Metadone, un narcotico utilizzato per gestire le crisi di astinenza e ridurre l’assuefazione nella terapia sostitutiva della dipendenza da droghe oppiacee.

Rinchiusi e sedati per essere tenuti buoni?

La tipologia di psicofarmaci acquistati risulta in linea con i disturbi di cui verosimilmente soffrono gli immigrati irregolari sbarcati sulle coste italiane o che hanno vissuto in stato di clandestinità, anche alla luce dell’effetto migrante esausto citato in precedenza; in particolare ansia, depressione e dipendenza da sostanze.

Appare però evidente come l’inefficienza burocratica, il personale inadeguato per numero e per formazione e l’assenza di una valutazione psichiatrica che accerti l’eventuale presenza di disturbi determinano l’ingresso e la permanenza nei CPR di persone che soffrono di disagio mentale che la struttura non è in grado di gestire.

Dai dati in nostro possesso emerge un quadro in cui i CPR non hanno gli strumenti adatti per far fronte al complesso tema della salute mentale dei migranti irregolari (es. supporto medico specializzato, programmi di recupero per tossicodipendenti, assistenza psicologica adeguata, protocolli per la prevenzione del rischio suicidario, accesso a servizi esterni pubblici), se non l’utilizzo di procedure di isolamento e l’uso di psicofarmaci.

La speranza è che l’attuale attenzione mediatica sui CPR, data l’intenzione del Governo di aprirne, spinga a un ripensamento sulla loro organizzazione e a una maggiore attenzione alla salute delle persone trattenute, come sancito dalla nostra Costituzione che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, regolare o irregolare che sia.

 

La nuova era digitale: i selfie e l’immagine di sé

Il selfie, in quanto strumento di autopresentazione, può essere considerato un mezzo per migliorare la propria autostima, in quanto le persone tendono a mostrare solo la parte migliore di sé.

 

 Negli ultimi anni ha preso sempre più piede quella che si potrebbe definire una “nuova era digitale”. La comunicazione via web attraverso i siti di social networking (SNS) rappresenta, infatti, un’attività quotidiana molto diffusa soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti. In particolare, circa l’80% degli adolescenti tra i 13 e i 17 anni ha un profilo attivo sui social media (Mascheroni & Ólafsson, 2018). Questi profili sono diventati ormai molto rilevanti nelle interazioni sociali e nelle attività di svago degli adolescenti (Gioia et al., 2021). Infatti, i siti di social networking sono comunità virtuali che consentono agli utenti di interagire con amici, incontrare altre persone che condividono interessi comuni, visualizzare e commentare le attività degli altri e condividere varie forme di contenuti (Boursier & Manna, 2018).

Al giorno d’oggi, i social network vengono considerati, quindi, come un vero e proprio “modo di essere” (Kuss & Griffiths, 2017) ed influiscono sulla costruzione dell’identità degli adolescenti, rispondendo al loro bisogno di confronto e appartenenza tra pari (Boursier & Manna, 2018). Inoltre, sembrano essere soprattutto incentrati sulle immagini e sull’autopresentazione visiva (Gioia et al., 2020), rendendo la vita quotidiana una vita “più fotografica” (Gioia et al., 2021).

L’immagine di sé nell’era digitale: il selfie

L’immagine di sé nell’era digitale si alterna tra due tendenze opposte: quella del conformismo, ovvero tendenza ad uniformarsi ai criteri di bellezza estratti dai social network, e quella del “difformismo”, ovvero lo sforzo di curare l’immagine di sé, grazie anche agli strumenti di editing, per garantire la propria unicità (Nizzoli, 2021).

Una delle attività più popolari associate all’uso dei social e alla creazione di una propria immagine è la condivisione di selfie (Boursier et al., 2020). Il neologismo “selfie” si riferisce ad una fotografia scattata da sé stessi (da soli o con altre persone) tipicamente con smartphone o webcam e condivisa sui social media (Oxford Dictionary, 2013). Tuttavia, definizioni più recenti sottolineano il ruolo del fotografo nell’immagine, in quanto il comportamento dei selfie rappresenta un fenomeno sfumato e complesso che comprende azioni multiple, tra cui lo scatto (come la preparazione e la posa), la modifica (come l’editing e il filtraggio) e la pubblicazione sui social network (Lim, 2016).

Recentemente sono stati indagati i possibili meccanismi che sottostanno al comportamento dei selfie, tra cui la ricerca di attenzione, l’appartenenza, la pressione sociale, la documentazione, la conservazione di momenti speciali e la creatività (Boursier et al., 2020). In particolare, però, alla base del selfie-taking, si possono individuare due motivazioni comuni principali: l’autopresentazione e il bisogno di appartenenza (Nadkarni & Hofmann, 2012). La condivisione di selfie sui siti di social networking sembra migliorare la propria autostima e il proprio stato d’animo attraverso l’apprezzamento dei pari e sembra essere particolarmente legata alla creazione di una propria identità e alla costruzione di relazioni (Boursier & Manna, 2018). Tuttavia, ricerche recenti hanno evidenziato non solo aspetti positivi del fenomeno dei selfie, ma anche diversi aspetti negativi che vanno ad influire sul benessere degli adolescenti (Boursier & Manna, 2018).

Il selfie intacca il benessere e la fiducia nel proprio corpo?

Il selfie, in quanto strumento di autopresentazione, può quindi essere considerato un mezzo per migliorare la propria autostima, in quanto gli adolescenti tendono a mostrare solo la parte migliore di sé (Boursier & Manna, 2018): i social network consentono agli individui di presentare il proprio sé migliore e ideale attraverso attività basate sulle foto, tra cui l’editing (Gioia et al., 2021). Tuttavia, questa crescente centralità dell’autopresentazione visiva online potrebbe aumentare anche le preoccupazioni degli adolescenti legate all’aspetto, al monitoraggio problematico e alla manipolazione delle foto (Fox & Vendemia, 2016). Di conseguenza, la manipolazione digitale delle foto e la loro pubblicazione sui social media potrebbe generare un confronto sociale con una presentazione di sé online ideale, ma non realistica (McLean et al., 2019). Questo confronto può avvenire anche tra le proprie foto e le immagini idealizzate viste sui social network, rendendo così il modo in cui il corpo appare qualcosa da controllare per soddisfare gli ideali corporei socioculturali interiorizzati ed evitare giudizi negativi da parte degli altri (Gioia et al., 2021; McLean et al., 2019).

 Inoltre, il confronto con le foto postate da coetanei potrebbe indurre gli adolescenti a sperimentare una scarsa fiducia e soddisfazione nel proprio corpo o a desiderare di cambiare la propria immagine (McLean et al., 2019). Coerentemente, un recente studio ha dimostrato esserci una correlazione tra un maggior numero di selfie scattati e un minor benessere e fiducia nel proprio corpo: gli individui con una maggiore tendenza a confrontare il proprio aspetto con quello degli altri sembrano avere un maggior rischio di subire quelli che sono gli effetti negativi del selfie (Chang et al., 2019). In particolare, un fattore che sembra influire molto sulla soddisfazione e il benessere relativo al proprio aspetto fisico è il riconoscimento e il feedback da parte dei coetanei ai propri selfie pubblicati sui social network che può, conseguentemente, andare a motivare l’impegno e il tempo dedicato allo scattare ed editare i selfie (McLean et al., 2019).

A conferma di ciò, anche lo studio condotto da Gioia e colleghi nel 2020 dimostra una forte associazione tra la vergogna del corpo e il controllo dell’immagine corporea in ambienti online e offline: gli adolescenti che si vergognano del proprio corpo, poiché riscontrano una discrepanza tra la loro immagine corporea reale e gli standard culturalmente promossi, sembrano ricorrere attivamente a strategie volte a controllare la propria immagine corporea nelle foto (Gioia et al., 2020).

Conclusioni

In conclusione, si può dedurre che potrebbe esserci un’influenza reciproca tra l’uso dei social media e la soddisfazione sulla propria immagine corporea (Gioia et al., 2021; McLean et al., 2019), ma allo stesso tempo, secondo la letteratura citata, sembrano essere pochi gli studi che hanno esplorato la soddisfazione per il proprio aspetto fisico, in particolare per il volto, in relazione al comportamento del selfie.

Proprio per la mancanza di risposte ad alcuni interrogativi e la scarsa comprensione degli effetti che il selfie e i social network possono avere sugli adolescenti, il dipartimento di Milano della Sigmund Freud University e la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita Salute San Raffaele hanno dato vita al progetto SatisFACE, che ha l’obiettivo di indagare la percezione e la relazione con l’immagine di sé nell’era digitale, concentrandosi sul volto nell’esaminare l’entità e l’impatto del fenomeno del selfie-editing negli adolescenti. Questo progetto prevede la somministrazione di un questionario alle classi terze della Scuola Secondaria di Primo Grado e a tutte le classi della Scuola Secondaria di Secondo Grado interessate a partecipare. La finalità di questo progetto è sia conoscitiva, ovvero acquisire informazioni sui comportamenti target negli adolescenti, sia formativa, ossia aumentare la consapevolezza nell’uso delle tecnologie digitali e la promozione del benessere digitale.

Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi (2023) – Recensione

L’argomento del volume “Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi” è di grandissima attualità. Ce ne accorgiamo o meno, aspetti sempre più rilevanti della nostra vita sono controllati da computer, algoritmi e intelligenza artificiale.

Il tema del libro

 Sempre di più, tantissime funzioni svolte da noi saranno in un prossimo futuro gestite in nostra vece da macchine che, in linea teorica, saranno in grado di evitare gli errori umani. Ancora, macchine sempre più sofisticate sono in grado di produrre dialoghi e conversare in modo da risultare indistinguibili da un essere umano. Anche la produzione di testi può essere affidata a computer con memorie-dati prodigiose e in possesso di regole sintattiche raffinate, che possono sostituirsi a scrittori e saggisti. Ma sarà davvero così? Ed è ovvio che la vita affidata all’intelligenza artificiale (IA) che, comunque, da qualcuno sarà gestita, pone clamorosi interrogativi etici, politici ed economici. Come conservare sufficienti gradi di libertà nei confronti di algoritmi che conoscono tutto di noi? I nostri spostamenti, i nostri gusti, i nostri acquisti?

Si confrontano sul tema due posizioni estreme. Da un lato c’è chi è convinto (talvolta, perché ha interessi in gioco in tal senso) che affidarsi alle macchine e all’intelligenza artificiale porterà un sensibile miglioramento alle nostre vite, dall’altro c’è chi pensa preoccupato ai rischi di controllo e di possibile riduzione delle libertà individuali e collettive in un mondo sotto controllo orwelliano. Inoltre, tra gli apocalittici, c’è chi teme che il progresso tecnologico possa farci perdere abilità essenziali: con la calcolatrice abbiamo smesso di fare i conti a mente, con il Gps si riduce il senso dell’orientamento, con ChatGpt potremmo perdere abilità cognitive più sofisticate, fino all’estremo, con l’incapacità di produrre frasi di senso compiuto, a cui penserebbe l’intelligenza artificiale. Inoltre, l’evoluzione delle macchine pensanti, capaci di auto correggersi e di imparare dall’esperienza, comporta domande affascinanti: cosa è esattamente la coscienza e dove va situata? Cosa è un pensiero?

Il libro è un’utile raccolta di informazioni, ricco di esempi pratici che spaziano in ambiti diversi della vita quotidiana, tanto che  i diversi capitoli rischiano di essere un po’ scollegati tra loro. Gli argomenti trattati sono disparati e anche apparentemente banali. Ad esempio, il primo capitolo si occupa di verificare se gli algoritmi e l’intelligenza artificiale possono aiutarci in uno dei più complessi problemi umani, ovvero la ricerca dell’anima gemella. Si rivolge al grande pubblico, fornisce un’utile panoramica a chi vuole approcciare queste tematiche, mentre chi è più esperto di intelligenza artificiale e di tecnologie digitali probabilmente si orienterà verso testi più tecnici. L’autore afferma che lo scopo del volume è dotare le persone di una conoscenza realistica di ciò che l’intelligenza artificiale può darci e nel contempo di come possa essere utilizzata per influenzare le nostre scelte, da quelle commerciali a quelle di carattere politico. Egli prova ad assumere una posizione equilibrata, rifuggendo dal panico tecnofobico, nella consapevolezza che il progresso tecnologico è comunque inarrestabile e confidando nella capacità critica dell’essere umano.

Intelligenza umana e algoritmi

 Proprio perché gli algoritmi saranno sempre più presenti, Gigerenzer ribadisce l’importanza del discernimento umano, che deve ampliarsi per fronteggiare in modo attivo un mondo complesso e automatizzato. Affidarsi in modo acritico agli algoritmi complessi, laddove le scelte riguardano la vita delle persone, conduce a illusioni di certezza che sono una precondizione perfetta per un disastro. La tesi di fondo è che l’intelligenza artificiale, basata su una raccolta di dati sempre più imponente, può effettivamente sconfiggere l’intelligenza umana in una serie di problemi “del mondo stabile” (come ad esempio giocare a scacchi, dove effettivamente la velocità di calcolo delle possibili variabili è decisiva). L’intelligenza umana invece è abituata a gestire anche le situazioni di incertezza, laddove la soluzione giusta non è influenzata soltanto da calcoli statistici riguardanti le migliori soluzioni già adottate in passato. O, per fare un esempio, le macchine sono state in grado di predire con esattezza, anche a distanza di anni, il luogo dove una sonda spaziale sarebbe atterrata, perché si dispone di informazioni affidabili sul movimento dei pianeti, sulla velocità costante della sonda e sono noti altri dati astronomici. Al contrario, quando si tratta di predire il comportamento di un singolo essere umano, i fattori in gioco sono troppi e il risultato può essere imprevedibile. Così, la guida automatica di un’auto è oggi possibile in un ambiente stabile, ma diventa più difficile laddove le variabili (da quelle meteorologiche a quelle legate all’imprevedibilità degli altri guidatori umani) aumentano e paradossalmente risulta più facile, come già avviene oggi, far guidare in automatico un aeroplano.

Per il futuro, si ipotizza che cambieranno le nostre strade e il concetto di città per favorire l’uso di veicoli che non necessiteranno della guida umana. In pratica, i big Data si basano sempre sul passato e, quindi, sono utili a predire il futuro se esso si basa su risposte già messe in pratica, mentre, se il futuro non sarà come il passato, gli algoritmi rischiano di essere fuorvianti. Personalmente, ho trovato particolarmente interessanti le pagine dedicate alle fake-news e alle tecniche utilizzate per far apparire convincenti messaggi promozionali, talvolta persino fraudolenti.

L’autore

L’autore del libro, scienziato cognitivo nato in Baviera nel 1947, è un’autorità indiscussa nel suo campo. Ha insegnato in numerose università, tra cui l’Università di Chicago, l’Università della Virginia e attualmente dirige dal 1997 il Max Planck Institute for Human Development e dal 2009 l’Harding Center for Risk Literacy, entrambi di Berlino. Ha ricevuto tre lauree honoris-causa in università europee e numerosi premi e riconoscimenti. I suoi campi di ricerca comprendono l’uso della razionalità limitata e i procedimenti euristici con cui l’uomo giunge ad assumere decisioni in un tempo ridotto e con conoscenze parziali; le strategie per affrontare l’incertezza e i rischi in diversi ambiti; le differenza tra mente umana e sistemi di intelligenza artificiale. I suoi studi passati più noti hanno dimostrato come, identificando situazioni in cui “less is more”, l’euristica assume decisioni più accurate con meno sforzo. Ciò contraddice la visione tradizionale secondo cui più informazioni sono sempre migliori o almeno non possono mai nuocere se sono gratuite. Critico del lavoro del Premio Nobel Kahneman e Tversky, egli sostiene che l’euristica non dovrebbe portarci a concepire il pensiero umano come pieno di pregiudizi cognitivi irrazionali, ma piuttosto a concepire la razionalità come uno strumento adattivo che non è identico alle regole della logica o al calcolo delle probabilità; Gigerenzer e i suoi collaboratori hanno dimostrato teoricamente e sperimentalmente come molti errori cognitivi possano essere meglio compresi come risposte adattive a un mondo di incertezza.

Tre modi per ristrutturare i pensieri: logico-empirico, pragmatico e costruttivista

Il lavoro di Moorey (2023) ha lo scopo di analizzare le basi epistemologiche dei diversi interventi cognitivi per aiutare i terapeuti a scegliere di volta in volta quale tecnica adottare. Sono approfonditi i tre principali approcci epistemologici attraverso cui la tradizione cognitivo-comportamentale mette in atto la ristrutturazione delle credenze dei pazienti: logico-empirico, pragmatico e costruttivista.

La ristrutturazione cognitiva

Aiutare i pazienti a cambiare la prospettiva con cui vedono il mondo è un processo centrale nelle terapie di tipo cognitivo-comportamentale: con l’aiuto dello psicoterapeuta le persone arrivano a comprendere che, in qualche misura, le loro convinzioni sono false o inutili. Anche se la letteratura clinica si è spesa molto riguardo a questo tema, poco si è approfondito delle teorie della conoscenza che sottostanno agli interventi di ristrutturazione cognitiva. Le diverse scuole cognitivo-comportamentali assumono prospettive epistemologiche diverse nei criteri con cui valutano i pensieri dei pazienti come adattivi o maladattivi; analizzarle e comprenderle, secondo Moorey (2023), potrebbe essere d’aiuto ai terapeuti nella scelta della tecnica di volta in volta più adatta.

Gli stili epistemici

È possibile distinguere tre principali modi di conoscere la realtà o “stili epistemici” che sembrano essere associati al tipo di tecniche che i terapeuti utilizzano (Lee et al., 2013; Toska et al., 2010):

Logico-empirico: “La verità è là fuori”

Lo stile epistemico logico-empirico (ndr: rational-empiricist nel paper originale) implica il relazionarsi con il mondo attraverso le proprie capacità analitiche e secondo i propri sensi. Le credenze, pertanto, vengono valutate per la loro consistenza logica e la loro evidenza empirica (Royce, 1964). Secondo Lyddon (1991), l’approccio logico sarebbe proprio della Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (REBT) di Ellis e l’approccio empirico corrisponderebbe alla Terapia Cognitiva-Comportamentale (CBT) di Beck. Per entrambe le scuole di pensiero esisterebbe un concetto di verità oggettiva, in virtù del quale la logica e l’evidenza sono i metri di paragone per stabilire la validità di un pensiero. Per aiutare le persone a cambiare idea, la scoperta guidata alle proprie convinzioni attraverso il metodo socratico sarebbe l’ideale: con una serie di domande mirate, quest’ultimo cercherebbe di estrarre il significato idiosincratico del paziente rispetto a una situazione per esaminare le prove a favore e contro il pensiero, oltre che eventuali errori logici (Padesky, 1993). Successivamente, alcuni esperimenti comportamentali rinforzerebbero il cambiamento cognitivo.

Pragmatico: “La verità è ciò che funziona”

Lo stile epistemico pragmatico implica il relazionarsi con il mondo attraverso la dimensione dell’utilità: anche se alcuni pensieri automatici negativi possono essere veri, cioè compatibili con la realtà, non per forza sono anche utili per il nostro benessere psicofisico. Se la verità è dunque rilevante solo nella misura in cui aiuta ad affrontare le cose, le credenze possono cambiare nel momento in cui il paziente scopre la loro inutilità, soprattutto attraverso gli esperimenti comportamentali. Tecnicamente, l’approccio pragmatico valuta i costi e i benefici in relazione a ciascun pensiero o comportamento inutile o dannoso.

Costruttivista: “La verità dipende da me”

 Lo stile costruttivista implica il relazionarsi con il mondo attraverso l’esperienza simbolica: le credenze, pertanto, vengono valutate in base a un ragionamento analogico finalizzato alla costruzione e alla trasformazione dei significati della persona. Secondo Lyddon (1991), questo approccio sarebbe proprio della terapia cognitivo-costruttivista. Teoricamente, questa adotterebbe una visione della cognizione e dell’organismo proattiva (al contrario della tradizionale CBT reattiva), che promuove un modello di sistema complesso in cui pensiero, sentimento e comportamento sono espressioni interdipendenti dell’evoluzione delle interazioni tra il sé e i sistemi sociali lungo tutta la vita (Mahoney, 1991). Tecnicamente, tale terapia sarebbe meno strutturata, focalizzata sul problema e orientata all’obiettivo rispetto alla CBT tradizionale. Il suo scopo, infatti, sarebbe quello di facilitare la creazione di nuovi significati per il paziente, dando particolare interesse alla sua individualità e identità (Mahoney, 1991; Guidano, 1995). Coerentemente, i metodi che aiuterebbero a cambiare prospettiva di pensiero sul mondo sono più esperienziali e focalizzati sulle emozioni. Del resto, se la verità dipende dal punto di vista da cui si guarda il mondo, in terapia non sarebbe utile sfidare direttamente i pensieri, ma piuttosto aprire a nuove possibilità di visione della realtà.

Conclusioni

Quando usiamo la scoperta guidata per aiutare qualcuno a valutare i propri pensieri, lo stiamo invitando a cambiare prospettiva. Raramente, però, pensiamo al criterio che chiediamo loro di applicare per stabilire la validità dei pensieri. Alcune tecniche cognitive sono empiriche o razionali nelle loro assunzioni sulla verità, altre sono più pragmatiche e fanno riferimento all’utilità dei pensieri e altre ancora lavorano partendo dal presupposto che la conoscenza dipende dalla posizione in cui ci troviamo. Essere consapevoli di questi tre modi di invitare al cambiamento può dare ai terapeuti flessibilità nella scelta degli interventi, soprattutto ai professionisti più giovani che possono così sfuggire alla camicia di forza di pensare che confutare un pensiero sia l’unica forma di ristrutturazione cognitiva. D’altronde, uno dei motivi per cui alcune persone non rispondono a particolari tecniche potrebbe essere quello di non essere adatti a un modello empirico e più compatibili con uno stile epistemico costruttivista o viceversa.

Cervello e disturbi dissociativi dell’identità (DDI)

Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è un disturbo mentale caratterizzato da una perdita di integrità e coerenza dell’identità personale e una alterazione della memoria autobiografica.

Il disturbo dissociativo dell’identità

 Il disturbo dissociativo dell’identità è stato oggetto di studio per decenni, ma la comprensione delle cause sottostanti e del suo meccanismo di sviluppo rimane ancora incompleta. Negli ultimi anni, ci sono state molte ricerche che hanno cercato di mettere in relazione il funzionamento cerebrale con il disturbo dissociativo dell’identità, con l’obiettivo di comprenderlo meglio e sviluppare nuove strategie terapeutiche.

Recenti studi neurobiologici hanno mostrato che il disturbo dissociativo dell’identità è associato a disfunzioni nei sistemi di regolazione emozionale e nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica. Ad esempio, alcuni studi hanno dimostrato che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità hanno una minore attività nell’amigdala, una regione del cervello che è importante per la regolazione delle emozioni e la memoria emotiva. Inoltre, sono stati osservati deficit nei circuiti neurali che supportano la coerenza dell’identità personale, come il sistema di memoria episodica e il sistema di riconoscimento facciale.

Gli studi sul disturbo dissociativo dell’identità

Uno studio pubblicato nel 2012 (Schoenle et al., 2012) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esplorare il funzionamento cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità durante la percezione di immagini emotigene. Gli autori hanno scoperto che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità avevano una minore attività nell’amigdala rispetto ai controlli sani, e che questa disfunzione era associata a una maggiore incidenza di dissociazione durante la percezione di immagini emotigene. Questi risultati suggeriscono che la disfunzione nei sistemi di regolazione emozionale potrebbe essere un fattore chiave nello sviluppo del disturbo dissociativo dell’identità.

 Un altro studio pubblicato nel 2015 (Baker et al., 2015) ha utilizzato la tomografia ad emissione di positroni (PET) per esplorare la funzione cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità durante l’utilizzo della memoria autobiografica. Gli autori hanno scoperto che i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità avevano una minore attività nella corteccia prefrontale mediale, una regione del cervello che è importante per la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale. Inoltre, i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità hanno mostrato una disfunzione nei circuiti neurali che supportano la memoria episodica, che è una forma di memoria che ci aiuta a ricordare eventi specifici e personali.

Questi risultati suggeriscono che i deficit nei sistemi di memoria possono essere un fattore importante nello sviluppo del disturbo dissociativo dell’identità.

Prospettive future

In futuro, sarà importante continuare a esplorare il funzionamento cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità per comprendere meglio questo disturbo e sviluppare nuove strategie terapeutiche. Ad esempio, sarà importante condurre ulteriori ricerche sulla relazione tra il disturbo dissociativo dell’identità e la regolazione emotiva, la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale, al fine di comprendere meglio come questi sistemi siano compromessi nei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità.

Inoltre, sarà importante valutare l’effetto di terapie psicologiche e farmacologiche sulla funzione cerebrale dei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità. Ad esempio, sarà interessante esplorare se le terapie psicologiche, come la terapia psicodinamica o la terapia cognitivo-comportamentale, possono aumentare l’attività nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale nei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità.

In conclusione, recenti studi hanno fornito prove solide del fatto che il disturbo dissociativo dell’identità è associato a disfunzioni nei sistemi di regolazione emozionale e nei circuiti neurali che supportano la memoria autobiografica e la coerenza dell’identità personale. Questi risultati forniscono una base solida per ulteriori ricerche sulle cause sottostanti il disturbo dissociativo dell’identità e per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche.

 

Diventare Madre (2022) di Monique Bydlowski – Recensione

“Diventare madre” di Monique Bydlowski è un libro complesso che esplora le esperienze connesse alla maternità.

 L’autrice, psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, indaga la maternità attraverso una lente psicologica, guidandoci attraverso ogni fase del processo, dal concepimento in poi.

Non si tratta propriamente di un testo di natura pratica, finalizzato ad offrire, come altri manuali in circolazione, suggerimenti utili su come affrontare le sfide che possono sorgere durante la maternità (sonno del neonato, allattamento al seno, difficoltà nel rapporto con il partner dopo l’arrivo di un bambino etc.).

Il libro prende in analisi l’esperienza interiore della madre come individuo, e non solo come genitore. Bydlowski, basandosi sui colloqui effettuati e sui dati raccolti durante la sua lunga esperienza professionale all’interno dei reparti di maternità, esplora il modo in cui diventare madre può cambiare l’identità e la vita di una donna, e come la società spesso mette sotto pressione le madri per indurle a conformarsi a determinati standard.

L’esperienza della maternità viene inserita in un quadro più ampio, con approfondimenti anche sull’infertilità, sugli aborti spontanei, sull’interruzione volontaria di gravidanza, sulla fecondazione assistita e sulla maternità surrogata tramite utero in affitto, prendendo in esame le dinamiche psicologiche, coscienti e non, sottese a questi temi.

 Viene posto l’accento sulla necessità di promuovere la salute mentale delle madri, evitando di pensare che diventare madre si riduca a seguire un istinto materno innato. Bydlowski riconosce che la maternità può essere un’esperienza emotivamente intensa e stressante, e fornisce spunti di riflessioni che aiutano a comprendere problematiche come, ad esempio, la depressione post-partum.

L’autrice affronta con coraggio e sincerità il tema della maternità, analizzandolo in tutti i suoi aspetti, dalle aspettative che essa suscita alla realtà del suo vissuto, passando per le paure, le gioie e le difficoltà che ne derivano.

L’esperienza del diventare madre viene indagata anche nei suoi lati più complessi e conflittuali, in modo da riconoscere l’ambivalenza delle emozioni da cui è contraddistinta. In questo quadro viene dato ampio spazio alle paure, alla maternità non voluta e rifiutata, a livello cosciente e al di sotto della consapevolezza.

Il libro approfondisce, in uno dei capitoli, anche il tema scomodo e doloroso dell’infanticidio, proprio nell’ottica di esplorare la maternità anche nei suoi lati più “oscuri”, senza volerne a tutti i costi fornire una narrazione stereotipata ed edulcorata.

Ciò che emerge dal libro è la consapevolezza che, di fronte alla maternità, come di fronte alla vita stessa, non esistono risposte univoche o universali, ma solo la necessità di affrontare le proprie paure e le proprie fragilità, per riscoprire la propria forza interiore e il proprio senso di integrità interiore di fronte ad un’esperienza che può essere, al tempo stesso, profondamente entusiasmante e destabilizzante.

In conclusione, “Diventare Madre” è un libro che permette di approcciare il tema della maternità andando oltre gli stereotipi e i cliché cui, troppo spesso, viene associato.

La realtà virtuale nella valutazione e nel trattamento del Disturbo da Uso di Alcol 

Nell’applicazione clinica della cue-exposure therapy per il disturbo da uso di alcol sono stati riscontrati risultati incoerenti, pertanto alcune ricerche stanno sperimentando l’uso della realtà virtuale.

 Negli ultimi anni si sta assistendo ad un aumento di studi che si occupano di indagare le possibili applicazioni della realtà virtuale nei disturbi di carattere psicologico: disturbi d’ansia come la fobia sociale, bulimia nervosa e binge eating disorder, anoressia nervosa e anche nei disturbi da uso di sostanze.

Disturbo da uso di alcol

Il Disturbo da Uso di Alcol rientra, secondo il DSM-5 (Diagnostic and statistical manual of mental disorders; APA, 2013), all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi da Uso di Sostanze, e consiste in una modalità patologica di consumo della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi. Una condizione che caratterizza le persone affette da questo disturbo è il craving, ovvero un fenomeno multidimensionale che comporta un intenso bisogno di consumare la sostanza ed è percepito come un’esperienza individuale di “desiderio” dell’alcol che può provocare pattern comportamentali di motivazione e di ricerca della sostanza (Van Lier et al., 2018), un impulso impetuoso a consumare la sostanza (Hartwell & Ray, 2017).

Il craving è uno dei meccanismi principali nel disturbo da uso di alcol, poiché ha implicazioni cliniche nello sviluppo della psicopatologia e nel mantenimento del disturbo (Hernández-Serrano et al., 2020) ed è considerato uno dei principali fattori che promuovono la ricaduta dopo la dimissione dal trattamento (Sliedrecht et al., 2019, anche dopo un periodo prolungato di astinenza. Per queste ragioni in letteratura si trovano diversi approcci di trattamento psicologico che si occupano di esplorare il desiderio all’alcol, e tra questi troviamo il paradigma cue-exposure (Mellentin et al., 2017).

Terapia di esposizione (CET, cue-exposure therapy)

La cue-exposure therapy (CET; in italiano “terapia di esposizione allo stimolo”) è nota anche come Exposure and Response Prevention (ERP; in italiano, esposizione e prevenzione della risposta) e comporta un’esposizione ripetuta e prolungata a stimoli correlati all’alcol senza che gli individui possano mettere in atto alcun comportamento alcolico (Hernández-Serrano et al., 2020). Sulla base dei principi del condizionamento classico, alcuni stimoli legati all’alcol diventano trigger, o “altamente sensibili”, per le persone che hanno un disturbo di uso di alcol, in seguito al consumo sistematico e ripetitivo della sostanza accompagnato da proprietà positive e gratificanti dell’uso di alcol (Hernández-Serrano et al., 2020). Secondo questo approccio si ipotizza che tale esposizione ripetitiva e sistematica possa portare ad una riduzione delle risposte psicofisiologiche agli stimoli correlati all’alcol con l’obiettivo ultimo di estinguere le risposte/reazioni inizialmente condizionate agli stimoli alcolici, come il craving (Mellentin et al., 2016).

 Tuttavia, nell’applicazione clinica della cue-exposure therapy per il disturbo da uso di alcol sono stati riscontrati risultati incoerenti, in particolare uno dei maggiori limiti dell’approccio consiste nella difficoltà di generalizzazione gli effetti della terapia nelle situazioni della vita quotidiana (Mellentin et al., 2017). Questo limite è riconducibile al fatto che le sessioni di esposizione in vivo avvengono all’interno di un setting terapeutico, inevitabilmente differente dal luogo dove solitamente emerge il craving, e prevedono l’esposizione ad un solo stimolo alla volta e ciò non rispecchia quello che avviene nella quotidianità (Mellentin et al., 2017). In virtù di questo limite, la cue-exposure therapy si è evoluta attraverso lo sviluppo di approcci terapeutici più esaustivi che possano beneficiare della realtà virtuale (VR; Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

Terapia di esposizione in Realtà Virtuale per il disturbo da uso di alcol

La realtà virtuale è una tecnologia che permette di creare ambienti virtuali dove il soggetto interagisce in tempo reale e vive un’esperienza completamente immersiva, grazie a una vasta gamma di stimoli (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018). Infatti, per ottenere un buon livello di immersione è importante che siano presenti stimoli sensoriali multipli (uditivi, olfattivi, visivi e tattili) poiché questo fa sì che l’esperienza virtuale si avvicini sempre di più a quella reale e che i pazienti possano sperimentare un maggior “senso di presenza”, ovvero la percezione soggettiva di “essere dentro” l’ambiente virtuale (Simon et al., 2020).

Di conseguenza, i soggetti possono generalizzare meglio gli effetti della terapia di esposizione e le strategie di coping apprese in virtù della somiglianza tra ambiente virtuale e situazioni di vita quotidiana (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

Nel disturbo da uso di alcol la realtà virtuale è stata utilizzata sia come strumento di valutazione, per suscitare il craving, sia come strumento di terapia di esposizione, per ridurre l’intensità del craving (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018). Ghiţă e colleghi (2021) hanno svolto un case study sull’applicazione di un protocollo che prevedeva esposizione in realtà virtuale con un soggetto con diagnosi di disturbo da uso di alcol di livello grave. L’ambiente virtuale è stato creato sulla base di risultati di studi precedenti in cui sono stati individuati gli stimoli scatenanti correlati all’alcol (es: bevande alcoliche preferite) e i contesti significativi per l’attivazione del craving (per esempio: ristorante, bar, pub, ambienti domestici) in un campione di pazienti con diagnosi di disturbo da uso di alcol (Ghiţă et al., 2019). Per quanto riguarda l’efficacia del protocollo nel suscitare il craving gli autori hanno ottenuto risultati positivi in quanto, attraverso valutazioni self-report, hanno osservato che il paziente stava sperimentando un costante e intenso desiderio di alcol soprattutto in presenza di stimoli correlati all’alcol (Ghiţă et al., 2021). Dal punto di vista del trattamento, hanno ottenuto risultati altrettanto promettenti in quanto nella valutazione successiva alle sessioni di realtà virtuale è stata riscontrata una riduzione dei sintomi del disturbo da uso di alcol e del desiderio di bere, ovvero del craving.

In conclusione, si potrebbe affermare che l’esposizione in realtà virtuale per il disturbo da uso di alcol sia un’alternativa funzionale all’esposizione in vivo (Lebiecka et al., 2021) e, inoltre, permette una maggiore possibilità di generalizzazione al contesto di vita quotidiana e la possibilità di esporre il paziente a più stimoli contemporaneamente (Ghiţă & Gutiérrez-Maldonado, 2018).

L’efficacia dei trattamenti psicologici: alcune osservazioni

Ringraziamo Franco Del Corno, Vittorio Lingiardi e Paolo Migone che il 9 aprile 2023 sul Sole 24 Ore hanno risposto all’intervento di Gilberto Corbellini del 29 febbraio ribadendo l’efficacia delle psicoterapie: “esistono ormai prove incontrovertibili che per l’ansia e la depressione la psicoterapia in media è efficace e, in alcuni casi – anche se la contrapposizione è insensata – più dei farmaci”.

Inoltre, scrivono giustamente i tre colleghi, “la psicoterapia sembra essere efficace quanto le farmacoterapie a breve termine, ma più efficace a lungo termine. È questo dato del miglioramento a lungo termine che ci sembra particolarmente interessante, perché significa una minor incidenza di ricadute”. In particolare, Del Corno, Lingiardi e Migone hanno citato i dati della recente meta-analisi del 14 gennaio 2023 pubblicata su World Psychiatry di Pim Cuijpers “Cognitive behavior therapy vs. control conditions, other psychotherapies, pharmacotherapies and combined treatment for depression: a comprehensive meta-analysis including 409 trials with 52,702 patients”

L’intervento di Del Corno, Lingiardi e Migone è ulteriormente meritevole in quanto si domanda anche perché, con questi dati, si continui a “contrapporre l’approccio biologico alla psicoterapia, a volte addirittura svalutandola” quando invece è chiaro che “la psicoterapia sembra essere efficace quanto le farmacoterapie a breve termine, ma più efficace a lungo termine”. Nonostante questo, “dati come questi vengono ignorati dalla maggioranza dei medici e degli amministratori della salute mentale. Il trattamento principale è sempre quello farmacologico”. Invece sarebbe giusto investire sulla psicoterapia perché determina miglioramenti più stabili nel tempo e, come scrivono Del Corno, Lingiardi e Migone “è questo dato del miglioramento a lungo termine che ci sembra particolarmente interessante, perché significa una minor incidenza di ricadute”.

A nostra volta noi confermiamo tutto quello che scrivono i nostri tre colleghi e ringraziamo il loro sforzo a favore della psicoterapia. Ci permettiamo di aggiungere una sola notazione forse pignola che non vuole essere una critica. Del Corno, Lingiardi e Migone scrivono che il lavoro di Pim Cuijpers, dopo aver passato in rassegna ben 409 studi sulla terapia della depressione, per un totale di 52.702 pazienti, giunge alla conclusione che «è documentato che la terapia cognitivo-comportamentale per la depressione è efficace nelle sue diverse formulazioni e per differenti età, tipologie di pazienti e contesti. Tuttavia, da questa meta-analisi non emerge con evidenza una superiorità della CBT rispetto ad altre psicoterapie per la depressione»

Del Corno Lingiardi Migone - 2023-04-09 ilSole24Ore
Del Corno F., Lingiardi V., Migone P. (2023) “Una psicoterapia lunga ed efficace”. Il Sole 24 Ore, edizione del 9 aprile

Un commento all’articolo

È a quel “tuttavia” che vorremmo aggiungere un commento. Il lavoro di Cuijpers a favore delle psicoterapie si basa soprattutto sulla terapia cognitivo-comportamentale, che è il trattamento psicologico che mostra di gran lunga il maggior numero di dati a favore. Nel lavoro di Cuijpers, su 409 studi ben 271 sono dedicati alla terapia cognitivo-comportamentale che si dimostra più efficace dei trattamenti non psicologici. Quindi il dato a favore delle psicoterapie è soprattutto un dato a favore della terapia cognitivo-comportamentale. E le altre psicoterapie? Cuijpers cita altri 87 studi che hanno confrontato terapia cognitivo-comportamentale e altre psicoterapie. Il risultato è che la terapia cognitivo-comportamentale risulta leggermente superiore alle altre psicoterapie ma che questa superiorità non è più statisticamente significativa se prendiamo in considerazione solo i dati più rigorosi e più affidabili.

Questo dato pone varie questioni da discutere. La prima è che la psicoterapia cognitivo-comportamentale deve prendere atto di un parziale ridimensionamento della sua superiorità nel trattamento della depressione, superiorità che per anni è stata data per scontata e che era fondata sul fatto che questa psicoterapia era l’unica la cui efficacia fosse messa alla prova empiricamente. Ora, in base ai primi confronti, questa superiorità si ridimensiona, diventa solo leggera e scompare se prendiamo in esame i dati più rigorosi. Questo dato ci dice che la terapia cognitivo-comportamentale non può limitarsi a vantare i suoi pregi ma deve affrontare nuove sfide, dopo avere vinto quella di prima psicoterapia di provata efficacia.

La seconda è la natura di questo avvicinamento degli altri trattamenti alla terapia cognitivo-comportamentale. Anche gli altri trattamenti devono affrontare alcuni limiti del loro successo. Ci sono varie osservazioni che si possono avanzare. La prima è che è la terapia cognitivo-comportamentale stessa che si fa carico del confronto, organizzando o partecipando alla realizzazione degli 87 studi di confronto. La terapia cognitivo-comportamentale rimane quindi all’avanguardia dello sforzo di analisi, quello stesso sforzo che ha permesso a tutte le psicoterapie di non poter più essere considerate trattamenti inaffidabili rispetto ai farmaci.

Il programma IAPT e la Consensus Conference in Italia

Il ruolo chiave svolto dalla terapia cognitiva comportamentale è riconosciuto dagli stessi Del Corno, Linguardi e Migone, quando scrivono che “può essere interessante segnalare (…) che nel 2022 è stato pubblicato in Italia il documento finale della «Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione», costituita con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità a partire da un convegno organizzato da Ezio Sanavio a Padova nel novembre 2016. A quel convegno era stato invitato David Clark, che aveva presentato il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (migliorare l’accesso alle terapie psicologiche), da lui promosso assieme a Richard Layard, docente di Economia alla London School of Economics, e poi attivato dal governo inglese nel 2008. Secondo London School of Economics, migliorando l’accesso ai trattamenti psicologici nei Servizi di salute mentale è possibile ottenere non solo un maggiore benessere per gli utenti, ma anche un guadagno per le casse dello Stato (minori assenze lavorative, maggiori entrate per l’erario, minori spese sanitarie e costi indiretti dei disturbi, etc.)”. Non c’è bisogno di aggiungere che sia la Consensus Conference italiana che il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies sono iniziative promosse da esponenti della terapia cognitivo comportamentale come il prof. Sanavio di Padova e il prof. Clark di Oxford.

Quali sono gli altri trattamenti?

C’è poi da chiedersi quali siano questi altri trattamenti. Cuijpers confronta la terapia cognitivo-comportamentale con i seguenti trattamenti: psicoterapia supportiva, attivazione comportamentale, psicoterapia interpersonale, psicoterapia psicodinamica, psicoterapie processuali di terza onda, problem-solving e altre terapie. Osserviamo che vi sono almeno tre trattamenti che appartengono all’ombrello cognitivo-comportamentale in senso lato (attivazione comportamentale, psicoterapie processuali di terza onda e problem-solving), che la psicoterapia interpersonale promuove una ristrutturazione cognitiva consapevole di problemi interpersonali vietando una impostazione psicodinamica stretta basata su interpretazioni di relazioni transferali inconsce e che i trattamenti supportivi e altri, non sempre ben definibili, integrano in essi stessi aspetti di ristrutturazione cognitiva. Rimangono solo 7 studi che confrontano modelli davvero diversi tra loro in termini teorici come gli studi che paragonano terapia cognitivo-comportamentale e psicoterapia psicodinamica, anche se in termini clinici sappiamo che la psicoterapia psicodinamica ha mescolato all’oro della psicoanalisi il piombo delle tecniche spurie, compresi interventi di ristrutturazione cognitiva. Insomma, anche la distinzione tra terapie cognitivo comportamentali e terapie che non lo sono va ridimensionata. La componente cognitiva è diventata significativa anche in altri trattamenti.

In conclusione

Bene fanno Franco Del Corno, Vittorio Lingiardi e Paolo Migone a difendere l’efficacia della psicoterapia per i disturbi mentali contro i dubbi di Corbellini e bene anche fanno a citare, sia pure di sfuggita, che la psicoterapia efficace non è solo quella cognitiva-comportamentale. Tuttavia, a nostra volta ci riserviamo di ricordare che lo sforzo di analisi rigorosa dell’efficacia è merito dell’impostazione empirica della terapia cognitiva-comportamentale, impostazione che poi è stata accolta dagli altri paradigmi psicoterapeutici e che la possibilità di rendere misurabile l’efficacia dei trattamenti psicologici significa impostare questi trattamenti secondo linee guida tipiche della terapia cognitiva-comportamentale: interventi operazionalizzati, modelli di funzionamento della mente empiricamente controllabili, il che spesso significa l’abolizione delle variabili non verificabili, come quelle dell’inconscio profondo. A sua volta, la psicoterapia cognitiva-comportamentale sta iniziando ad assorbire dagli altri paradigmi descrizioni più dettagliate dei processi terapeutici che non consentono più di considerare la psicoterapia cognitiva-comportamentale una black-box il cui funzionamento è dato per scontato come descritto nel modello teorico ma un processo articolato che va investigato con l’osservazione diretta di ciò che accade in seduta tra terapeuta e paziente.

Quale stile genitoriale predice ansia nei figli?

La revisione di Yaffe (2021) ha evidenziato l’associazione tra stili genitoriali e lo sviluppo di ansia dei figli, soffermandosi sul ruolo di accettazione/rifiuto genitoriali, ipercontrollo e punizioni corporali.

Introduzione

 I disturbi d’ansia si riferiscono a una serie di disturbi che condividono caratteristiche come paura o apprensione eccessive.

Un’ampia letteratura si concentra sul contesto genitoriale, su vari aspetti della genitorialità e delle relazioni genitore-bambino che giocano un ruolo significativo nello sviluppo dell’ansia, sebbene l’entità di questo legame debba essere ancora chiarita (Bosmans et al., 2014; McLeod et al., 2007).

Per “stile genitoriale” si intende la modalità educativa con cui i genitori svolgono le funzioni genitoriali e, in generale, si rapportano ai propri figli. Gli stili genitoriali influenzano il clima familiare e condizionano il benessere psicologico dei figli. La revisione di Yaffe (2021) ha evidenziato l’associazione tra stili genitoriali e lo sviluppo di ansia dei figli, soprattutto per quanto riguarda il controllo eccessivo e le punizioni corporali. Bambini e adolescenti con disturbi d’ansia avevano più probabilità di essere cresciuti da genitori iperprotettivi o distaccati, i quali tendevano a mettere in atto forme di controllo eccessivo o del tutto assente.

Il legame tra rifiuto/accettazione genitoriale e ansia

Un consistente numero di ricerche si è concentrato sul legame tra rifiuto/scarsa accettazione e assenza di calore da parte dei genitori e il conseguente sviluppo di ansia nella prole (Ginsburdg  et al., 2004; McLeod et al., 2007; Wood et al., 2003). La scarsa accettazione e il calore genitoriale sono espressi tramite comportamenti di freddezza e rifiuto e sembrano influire sull’ansia dei bambini (Mattanah, 2001; Yaffe, 2018). In particolare, è emersa un’associazione tra l’accettazione/rifiuto dei genitori e sintomi di ansia sociale tra bambini e adolescenti (Weymouth & Buehler, 2018; Xu et al., 2017; Yaffe, 2018), suggerendo che il rifiuto dei genitori possa giocare un ruolo significativo nello sviluppo dell’ansia sociale nella prole, proprio perché i frequenti feedback negativi da parte dei genitori favoriscono la percezione di un mondo minaccioso e ostile; questo, a sua volta, potrebbe aumentare la percezione e le aspettative del bambino di conseguenze negative degli eventi sociali nella sua vita e, in alcune condizioni, sfociare in una grave ansia sociale (Yaffe, 2018).

È importante sottolineare la limitatezza di questi risultati, che mancano di considerare il temperamento e la predisposizione del bambino all’ansia, ovvero l’inibizione comportamentale, le quali a livello teorico sembrano interagire in varia misura con le caratteristiche genitoriali (Ollendick & Benoit, 2012).

Il legame tra controllo genitoriale e ansia

 Invece, le prove a sostegno dell’associazione tra i comportamenti di controllo dei genitori e l’ansia in bambini e adolescenti appaiono maggiormente convincenti. L’ipercontrollo genitoriale si manifesta tipicamente tramite una disciplina rigida, iper-regolazione del comportamento (cioè istruzioni su come comportarsi), iper-protezione e controllo psicologico (cioè istruzioni su come pensare e sentire; Barber, 1996; Barber et al., 2012). Tutti questi elementi possono ostacolare il progressivo e naturale sviluppo dell’autonomia da parte del bambino. L’aspetto dell’ipercontrollo è stato più volte correlato ai disturbi d’ansia della prole: questa relazione suggerisce che i bambini ansiosi hanno maggiori probabilità di essere cresciuti da genitori ipercontrollanti e meno favorevoli allo sviluppo di autonomia (Bosmans et al., 2014; Pinquart, 2017; Rose et al, 2018; Wood et al., 2003). Quindi, la mancanza di concessione dell’adeguata autonomia da parte dei genitori ostacola le opportunità del bambino di vivere adeguate esperienze di indipendenza, con conseguente carenza di senso di controllo e aumento dell’impotenza (Wood et al., 2003).

In ultimo troviamo le punizioni corporali, le quali comprendono qualsiasi tipo di misura punitiva fisica in risposta a comportamento inappropriato della prole. Tendenzialmente, le punizioni corporali possono diminuire il senso di controllo dei bambini sull’ambiente, amplificando così la loro sensibilità all’ansia (Graham & Weems, 2015). In diversi studi le punizioni corporali dei genitori sono risultate correlate positivamente con l’ansia di bambini e adolescenti (Gershoff et al, 2010; Graham & Weems, 2015; Lansford et al., 2014; Xing & Wang, 2013; Yaffe & Burg, 2014).

Cosa dico ai figli dei miei pazienti (2022) di Katia Roncoletta – Recensione

“Cosa dico ai figli dei miei pazienti” rappresenta un interessante approfondimento sulla vita dei figli di persone con dipendenze patologiche, sempre più considerate come malattie familiari.

 

 Le dipendenze patologiche, e in particolar modo la dipendenza da alcol, sono malattie dall’elevato carico familiare. A livello mondiale si stima che 237 milioni di uomini e 46 milioni di donne soffrano di disturbi legati al consumo di alcol e che questo sia aumentato esponenzialmente durante il periodo di pandemia da Covid-19.

Numerosi sono i testi scientifici o divulgativi di approfondimento del Disturbo da Uso di Alcol e del vissuto dei pazienti che ne soffrono. L’approccio della dottoressa Roncoletta in questo libro è invece innovativo: è reso centrale il punto di vista dei figli di persone con dipendenza da alcol. Spesso si tratta di giovani che sono stati adultizzati precocemente, imparando ad assumere le veci del genitore, figura da cui hanno ricevuto in alcuni momenti amore e protezione e in altri momenti stress e paura, in una fortissima confusione emotiva. In tale contesto si alimenta il disagio dei figli di alcolisti, i quali, quando non supportati adeguatamente, hanno una maggiore probabilità di sviluppare una franca psicopatologia rispetto alla popolazione generale. Tra i sintomi riscontrati più frequentemente ci sono l’ipervigilanza, l’ipercontrollo, la difficoltà nella gestione delle emozioni, la bassa autostima e altri problemi di salute fisica e mentale.

 “Cosa dico ai figli dei miei pazienti” è un manuale utile per quanti lavorano nei Servizi per le Dipendenze Patologiche ma, soprattutto, per loro, i figli di persone dipendenti, perché non si sentano soli, ma possano anzi trovare un aiuto competente. Interessante in questo senso la testimonianza di R, 20 anni: “finché non se ne parla, forse, il problema non esiste davvero, sembrava aleggiare nell’aria”. In questo libro si parla apertamente e si invitano i figli di persone con dipendenza da alcol a condividere il proprio vissuto affinché, una volta elaborato, non si ritrovino a viverlo successivamente in prima persona e non tendano a scegliere un partner con dipendenze, andando ad instaurare relazioni di codipendenza.

 

L’esperienza dell’adozione nei bambini istituzionalizzati: i correlati neurobiologici

Grazie a uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini istituzionalizzati negli orfanotrofi di Bucarest.

Introduzione

 L’infanzia rappresenta un periodo di grande importanza, durante il quale alcune funzioni come la comunicazione e l’acquisizione delle capacità di autoregolazione emotiva, riflettono uno dei processi fondamentali di sviluppo. Infatti attraverso la comunicazione visuo-spaziale, uditivo-prosodica e tattile-gestuale, sia il caregiver che il bambino imparano reciprocamente ad apprendere la struttura ritmica dell’altro (Papousek, 1995). Un vero e proprio scambio traducibile in un processo di co-creazione, che dà vita sia ad una interazione reciproca che ad un processo di adattamento sempre più graduale. Proprio attraverso le comunicazioni affettive, (come il contatto fisico), la madre si sintonizza psicologicamente con il bambino (Kohut, 1971). Non solo valuta le espressioni non verbali degli stati di attivazione interna, ma anche gli stati affettivi del bambino stesso, che verranno regolati e soprattutto ricambiati. Tuttavia questo scambio non sempre risulta fluido e lineare, e la rottura dei legami di attaccamento può provocare una disfunzione inerente sia le capacità di autoregolazione sia l’omeostasi dell’organismo (Tronick, 1989).

Da una prospettiva psicobiologica l’attaccamento è stato definito da Schore (2000), come “regolazione interattiva degli stati di sincronicità di tipo biologica”. Grazie ad essa è dunque possibile notare e comprendere come la sincronizzazione affettiva e la riparazione interattiva, nonché co-costruttiva, siano i capisaldi che costituiscono le basi dell’attaccamento e delle emozioni connesse ad esso (Oliverio, 2002). Le prime relazioni rappresentano infatti il punto centrale in grado di favorire un sano e adattivo sviluppo del bambino, sotto due importanti profili: quello cognitivo e quello affettivo. Nondimeno, nel loro insieme, consentono la fioritura di alcune funzioni psichiche come ad esempio il senso di Sé, l’autoconsapevolezza, le strategie di regolazione emotiva, le modalità con cui pensare, conoscere e percepire la realtà; funzioni che con il passare del tempo si sviluppano, maturano e rappresentano la lente con cui il soggetto inizierà a percepire sé stesso e il mondo circostante.

Prendendo dunque in esame le prime relazioni è possibile comprendere come esse diano vita ad uno stile di interazione che in alcuni casi può divenire disfunzionale e disadattivo. Spesso infatti esperienze negative quali maltrattamenti, abusi e trascuratezza emotiva, possono determinare gravissime conseguenze inerenti sia lo sviluppo psicologico che quello neurobiologico (Schore, 2003). Nel panorama dell’adozione si traducono in uno o più eventi traumatici che, se ripetuti e costanti, prendono il nome di “trauma cumulativo“ (Khan, 1963). Il trauma si riferisce non solo all’evento in sé, ma anche all’intensità con cui esso viene a presentarsi dinanzi al soggetto.

I correlati neurobiologici delle esperienze traumatiche

Col termine trauma si designa un’esperienza che in un breve lasso di tempo apporta delle modifiche somatopsichiche, che in futuro, se non elaborate in modo adattivo, possono innescare dei comportamenti e degli stili di risposta disfunzionali a determinati eventi (Bromberg, P. M., 2006). Evidenziando dunque un profilo psicologico caratterizzato non solo da una bassa autostima, ma anche da una fragilità psichica, che se non identificata e supportata può sfociare in un quadro psicopatologico.

L’esperienza adottiva (Oliverio, 2002) se non pienamente accolta ed elaborata può rispecchiare una condizione di profonda sofferenza, poiché possono essere presenti esperienze di contesti abusanti e/o trascuranti, come ad esempio la realtà degli orfanotrofi. Secondo Ross (Ross, C. A. 2000), il trauma evolutivo apre le porte ad un ventaglio di possibili fenomeni psicopatologici, infatti secondo l’autore più si è esposti a contesti relazionali abusanti e trascuranti durante l’infanzia, maggiore è la possibilità di sviluppare un disturbo mentale. Infatti, il bambino, acquisendo schemi cognitivi disfunzionali, interiorizza una percezione ed una rappresentazione di sé e degli altri disadattiva.

Più nello specifico si può assistere ad una ridotta capacità da parte del soggetto di identificare, rappresentare e monitorare i propri stati corporei, mentali, affettivi e comportamentali, i quali a livello somatico riflettono un cablaggio disfunzionale/neurobiologico che rischia di creare una lente attraverso la quale guardare la realtà esterna e i propri vissuti interni, in maniera non del tutto adeguata; spesso difficile da adoperare e a volte restrittiva e/o limitante sotto un profilo relazionale (Caretti, 2007).

Traumi di natura interpersonale precoci possono costituire dei “disorganizzatori psichici dell’esperienza” (Schimmenti, A., 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001). Dunque, il trauma nell’infanzia può portare ad esiti di natura psicopatologica influenzando in varia misura il meccanismo di attaccamento, la biologia, la regolazione affettiva, la dissociazione, il controllo comportamentale, le capacità cognitive ed il concetto di Sé.

Questa concatenazione di eventi rappresenta dunque non solo l’esito di esperienze traumatiche, ma anche l’ingresso verso l’esordio di disturbi mentali come la depressione (Bifulco, 1998), i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze da sostanze, il disturbo borderline (Fonagy, 2003) e i disturbi dissociativi (Nijenhuis, 2000).

A sostegno di quanto descritto sinora, lo psichiatra Van Der Kolk (2005), ha affermato come l’esposizione cronica ad una o a più forme di trauma a livello interpersonale (come l’abbandono, l’abuso e la violenza fisica) facciano emergere schemi di risposta disfunzionali a determinati eventi, che si possono riscontrare a più livelli. Infatti, ad essere inficiati sono il livello emotivo, somatico, comportamentale, cognitivo e relazionale; un insieme di fattori che nel loro insieme determinano un’alterazione delle rappresentazioni del Sé e degli altri e intaccano il modo di vedere la realtà circostante ed attribuirgli un significato.

La struttura cerebrale dei bambini istituzionalizzati: il Bucharest Early Intervention Project

 A sostegno di quanto introdotto e descritto, un ulteriore contributo deriva da uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, grazie al quale è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini vissuti negli orfanotrofi di Bucarest. Ben descritto dalla figura di Bottaccioli (2005), l’autore ha ampiamente introdotto non solo gli obiettivi stessi dello studio, bensì i cambiamenti biochimici e neurobiologici, che nel cervello dei bambini istituzionalizzati hanno tracciato un’architettura ben precisa. Nonché una modalità di autoregolazione emotiva e fisiologica che sulla base di esperienze pregresse rischiano dunque di ripercuotersi sul presente.

Iniziato nel 2001, lo studio faceva parte del progetto “Bucharest Early Intervention Project”, che ha coinvolto ben 6 orfanotrofi della capitale romena (Charles, 2007), tre Università statunitensi con capofila Harvard, il cui obiettivo è stato quello di esaminare da un lato gli effetti della istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo cerebrale e comportamentale e dall’altro verificare se l’affidamento familiare possa determinare il ripristino dei medesimi danni cerebrali. Secondo quanto riportato da Bottaccioli (2005), in un’intervista a La Repubblica, le caratteristiche dello studio si sono rivelate davvero uniche, “in quanto 136 bambini attorno ai due anni di età che stavano in orfanotrofio dalla nascita, o comunque da pochi mesi dopo la nascita, sono stati divisi in modo casuale in due gruppi, uno inviato in affidamento, l’altro rimasto invece in orfanotrofio. Nondimeno lo studio ha previsto un gruppo di controllo formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivono in famiglia”. Come riportato dall’autore, tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni ad intervalli regolari, monitorando il loro sviluppo intellettivo e comportamentale fino ad un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Valorizzando sempre più una visione olistica inerente sia lo sviluppo psicobiologico sia quello cognitivo. “Infine, un campione per ognuno dei tre gruppi è stato selezionato per essere sottoposto a una minuziosa ed estesa indagine cerebrale realizzata con la tecnica della Diffusione del tensore. Questa tecnica, in sigla DTI (immagini di diffusione del tensore), consente di visualizzare i fasci di fibre di materia bianca che connettono le aree cerebrali tra di loro”. Grazie ai risultati emersi è stato possibile notare come i bambini che avevano trascorso una parte della propria vita in orfanotrofio avessero riportato modificazioni strutturali e funzionali che coinvolgono diversi distretti cerebrali, tra i quali il corpo calloso. Quest’ultimo infatti ha inoltre permesso di constatare quanto il proprio background esperienziale sia in grado di ripercuotersi in un possibile esordio psicopatologico e comportamentale, accompagnato da eventuali deficit cognitivi ed emotivi, che spesso si riscontrano nei soggetti abbandonati. Traumi di natura interpersonale precoci possono dunque contribuire a far emergere veri e propri “disorganizzatori psichici” dell’esperienza, (Schimmenti, 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001).

Viceversa, nei bambini in affidamento si è riscontrata una modalità di autoregolazione emotiva differente, meno disfunzionale ma soprattutto in grado di essere maggiormente gestita dal bambino.

Attraverso questo studio (Gallino, 2015) è stato possibile valorizzare sempre più il ruolo delle esperienze traumatiche non solo durante l’infanzia, quanto piuttosto nei contesti di abbandono e trascuratezza emotiva, che spesso si riscontrano negli orfanotrofi. Questi ultimi, infatti, riflettono a pieno titolo un luogo entro il quale diversi fattori non sempre risultano lasciare una traccia adattiva e promotrice di cambiamenti, ma al contrario descrivono una realtà dove l’infanzia sembra essere una tappa mai vissuta. E che tuttavia andrebbe riconquistata, esplorata e vissuta.

Ruminazione in infanzia e adolescenza: quale contributo della genetica?

La review della Dott.ssa Scaini e colleghi (2020) pubblicata su Journal of Affective Disorders presenta una breve panoramica finalizzata alla sintesi dei risultati emersi dagli studi genetici che hanno analizzato i potenziali geni coinvolti nella ruminazione in infanzia e adolescenza

 

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative. La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 2008).  La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009). L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

Ruminazione e depressione

La ruminazione ha ricevuto grande attenzione dalla ricerca nello studio della depressione (Just, Alloy, 1997) ed è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva.

Anche in riferimento all’adolescenza la letteratura evidenzia come la ruminazione possa considerarsi un fattore di vulnerabilità cognitiva per l’esordio e il mantenimento della depressione in tale fase di vita (Treynor et al., 2003).

Eziologia della ruminazione: quali sono le cause della tendenza a ruminare?

In termini di determinanti eziologiche, ad oggi la letteratura presenta ancora risultati parziali e lacune da colmare. Alcuni studi hanno evidenziato l’importanza dei fattori ambientali nell’eziologia della fenomenologia della ruminazione (Hankin et al., 2009). Aspetti ambientali favorenti la ruminazione possono essere ad esempio eventi di vita stressanti, fenomeni di bullismo tra pari (McLaughlin and Hatzenbuehler, 2009), criticismo e iperprotettività genitoriale (Alloy et al., 2004; Manfredi et al., 201), esperienze di maltrattamento nell’infanzia (Spasojevic and Alloy 2002; Hankin, 2005; Hilt et al., 2012), psicopatologia genitoriale (Gibb et al., 2012).

La ruminazione potrebbe avere delle basi genetiche?

In considerazione di modelli eziologici multifattoriali, se da un lato i diversi studi sopracitati hanno evidenziato le origini ambientali alla base della ruminazione, ancora poca attenzione è stata dedicata dalla ricerca alle possibili basi genetiche coinvolte.

Solide e coerenti evidenze in letteratura dimostrano il contributo degli aspetti genetici nello sviluppo della depressione in infanzia e in adolescenza (Lau and Eley, 2006; Lau and Eley, 2010); di conseguenza è rilevante chiedersi se le differenze nella tendenza alla ruminazione possano essere correlate alla vulnerabilità genetica per la depressione. Diversi studi inoltre evidenziano che i bambini a rischio di depressione presentano elevati livelli di ruminazione (Gibb et al., 2012).

La review della Dott.ssa Scaini e colleghi (2020) pubblicata su Journal of Affective Disorders presenta una breve panoramica finalizzata alla sintesi dei risultati emersi dagli studi genetici che hanno analizzato i potenziali geni coinvolti nella ruminazione nei bambini e negli adolescenti.

La review si è basata su una ricerca bibliografica degli studi scientifici presenti in PubMed e Science Direct fino al mese di febbraio 2020. I termini chiave utilizzati per la ricerca sono stati: ‘rumination, ruminative thinking, repetitive thinking e ‘gene, gen*’.

Dalla ricerca bibliografica sono stati identificati otto studi inerenti alla tematica della ruminazione e degli aspetti genetici in bambini e adolescenti.

In termini di esplorazione degli effetti genetici, gli otto studi alcuni si sono focalizzati sull’indagine degli aspetti genetici coinvolti nella trasmissione della serotonina (5-HTTLPR) (Schepers and Markus, 2017), nel brain derived neurotrophic factor (BDNF) (Hilt et al., 2007; (Beevers et al., 2009; Clasen et al., 2011; Gibb et al., 2012; Stone et al., 2013) e nel rilascio dell’ormone della corticotropina (CRHR1) (Woody et al., 2016; Van Hulle et al., 2017).

I risultati presenti negli studi considerati dalla review evidenziano che le variazioni nei geni 5-HTTLPR e BDNF possono significativamente contribuire a una maggiore tendenza alla ruminazione nei bambini e negli adolescenti, andando a moderare la relazione tra eventi di vita stressanti e ruminazione.

Pertanto, la review va a supportare l’assunto secondo cui le variazioni individuali a carico dei geni 5-HTTLPR e BDNF sarebbero correlate a una aumentata vulnerabilità biologica per la tendenza alla ruminazione nell’età evolutiva e in adolescenza.

La presente review presenta diversi limiti: in primo luogo, va sottolineato che il campione degli studi considerati è comunque esiguo; in secondo luogo, tra gli studi considerati si riscontra un’elevata eterogeneità nei disegni di ricerca e negli strumenti utilizzati per l’assessment della ruminazione.  In conclusione, ulteriori studi sono necessari per approfondire ulteriormente il contributo della genetica nei processi ruminativi e replicare queste evidenze su campioni più ampi.

 

Il ruolo dello psicologo in ambito dell’assistenza umanitaria e della cooperazione allo sviluppo

L’articolo affronta il tema dell’assistenza umanitaria e della cooperazione allo sviluppo come un ambito emergente del lavoro dello psicologo.

 

 Viene sottolineato come questo nuovo e complesso ambito di intervento rappresenti una sfida e un’opportunità per i professionisti del settore, richiedendo conoscenze e competenze afferenti sia all’area delle scienze psicologiche sia delle scienze politiche. Viene poi descritto il lavoro dello psicologo in questi contesti, inclusi gli obiettivi e le attività, nonché le specifiche competenze richieste. Infine, viene descritto il profilo dello specialista e le opportunità lavorative in questo campo.

Gli ambiti emergenti

Il gruppo istituito dal Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi ha individuato l’assistenza umanitaria e la cooperazione allo sviluppo come uno degli “Ambiti Emergenti” del lavoro dello psicologo.

Per “Ambiti Emergenti” si fa riferimento a contesti diversi da quello clinico/sanitario, ovvero tutte le nuove aree in cui si rendono necessarie le conoscenze e le competenze dello psicologo.

Ciò di cui parleremo in questo articolo riguarda proprio uno degli ambiti d’intervento emergenti della professione dello psicologo: l’assistenza umanitaria e la cooperazione allo sviluppo.

Sia nei Paesi in via di sviluppo sia in Italia, in materia di diritti umani, tutela dei diritti dell’infanzia e dei giovani, cambiamenti nelle politiche sociali e sanitarie, la psicologia è diventata un campo di riferimento e una professione essenziale.

Questo nuovo e complesso ambito di intervento rappresenta allo stesso tempo una sfida e un’opportunità per i professionisti del settore. Per rispondere efficacemente a questo nuovo bisogno su scala umanitaria è necessario “integrare la promozione del benessere con dispositivi normativi che promuovono e tutelano i diritti della persona, le competenze organizzative e progettuali, le nozioni giuridiche e la conoscenza dei contesti e degli attori istituzionali e non governativi” (CNOP, 2019). La complessità degli interventi in questo ambito è legata anzitutto alle condizioni di emergenza, oltre che a fattori quali l’inter-disciplinarietà, la cross-culturalità e l’instabilità del contesto sociale in cui si opera. Dato ciò il CNOP (2019) ha delineato una serie di caratteristiche specifiche che lo psicologo interessato a questo ambito lavorativo deve possedere, considerando la legislazione internazionale (Organizzazione delle Nazioni Unite), comunitaria (Unione Europea) e nazionale (Italia) di riferimento.

Obiettivo di questo articolo è proprio quello di riportare brevemente quanto indicato dal gruppo di lavoro del CNOP (2019) in materia.

Assistenza umanitaria

In ambito internazionale si fa riferimento ad assistenza umanitaria se l’intervento è causato da un’emergenza complessa, dura al massimo 6 mesi e procede attraverso progetti coordinati tra agenzie di soccorso (Rossi, 2010).

L’aiuto umanitario consiste nel fornire sostegno materiale e logistico a persone colpite da catastrofi naturali, come terremoti e tsunami, o provocate dall’uomo, come conflitti armati e guerre. Ad oggi, circa l’80% delle esigenze umanitarie hanno origine da conflitti armati (Consiglio dell’Unione europea, 2022).

L’aiuto umanitario prevede diverse attività di soccorso, tra cui la fornitura di cibo e sostegno alimentare, acqua e servizi igienico-sanitari, rifugio, assistenza sanitaria, protezione da violenza fisica o psicologica, inclusa la violenza sessuale e di genere, istruzione in situazioni di emergenza e assistenza in denaro (Consiglio dell’Unione europea, 2022).

Cooperazione allo sviluppo

Si parla invece di cooperazione allo sviluppo se l’intervento avviene in un contesto estero di post-emergenza, emergenza cronica o sottosviluppo, e procede per progetti a lungo termine (Rossi, 2010).

L’Unione Europea (2018) spiega che la cooperazione allo sviluppo significa “concentrarsi sugli aspetti economici, sociali e ambientali dello sviluppo: generare crescita economica, conservando al contempo le risorse naturali e tutelando i diritti delle persone più vulnerabili. Significa anche andare oltre il mero aiuto, cooperando con i partner per migliorare la governabilità in linea con i nostri valori condivisi e rinforzare gli standard normativi al fine di promuovere gli investimenti, sia tra i Paesi partner, sia in Europa.”

Sono 5 le aree primarie nelle quali si coopera per garantire uno sviluppo sostenibile, definite dall’Unione Europea (per esempio, 2018).

  • Persone: porre fine alla fame e garantire dignità e uguaglianza.
  • Pianeta: proteggere le generazioni future dalla catastrofe ambientale e dall’esaurimento delle risorse.
  • Prosperità: garantire una vita prospera e appagante in armonia con la natura.
  • Pace: creare società pacifiche, giuste e inclusive.
  • Partenariato: lavorare sullo sviluppo attraverso un solido partenariato globale.

Il lavoro dello psicologo: risvolti operativi

 Uno psicologo nel campo dell’assistenza umanitaria e della cooperazione allo sviluppo è un professionista che utilizza conoscenze, tecniche e strumenti psicologici per lavorare principalmente a livello internazionale, all’interno di progetti di aiuto a comunità che si trovano a fronteggiare gravi crisi umanitarie causati da conflitti armati, flussi migratori su larga scala, diffusione di epidemie, e grandi disastri ambientali. Oppure può collaborare a progetti di cooperazione allo sviluppo finanziati da organizzazioni internazionali o non governative in Paesi che stanno superando una grave emergenza. Si occupa di questioni psicosociali, progettando, supervisionando, monitorando e valutando progetti o azioni specifiche. Da una prospettiva culturale, in un Paese può promuovere e sostenere attivamente sia la salute mentale che il benessere mentale nell’ottica del rispetto dei diritti umani. Oltre a fornire supporto psicologico al personale straniero nelle fasi di preparazione, intervento e post-intervento, piuttosto che al gruppo in caso di lutto e/o perdita di volontari, svolge attività di consulenza e cooperazione con organizzazioni non governative o altri gruppi e/o associazioni per quanto riguarda la selezione dei volontari e del personale, la formazione del personale straniero e di quello sul campo.

Il profilo dello specialista

Allo psicologo interessato ad operare in questo complesso ambito sono richieste conoscenze e competenze afferenti sia all’area delle scienze psicologiche sia delle scienze politiche.

Oltre all’iscrizione all’Albo A dell’Ordine degli Psicologi, è necessario essere preparati su teoria e pratica gestione dello stress, del trauma psichico e della psicologia dell’emergenza, nonché le linee guida in ambito di salute mentale e intervento psicosociale nel caso di interventi in condizioni di emergenza. Bisogna inoltre conoscere i fondamenti della psicologia di comunità, della psicologia sociale e dell’etno-psicologia.

Riguardo all’area delle scienze politiche è importante conoscere il diritto internazionale, i diritti umani, dei minori e di genere, nonché i principi base della cooperazione internazionale.

Data la natura internazionale di questo contesto lavorativo, è richiesto di parlare fluentemente almeno l’inglese e il francese; per lo stesso motivo è utile possedere degli strumenti di analisi dei contesti locali nei paesi in via di sviluppo. A questo proposito è importante saper gestire l’intero ciclo di uno specifico progetto di intervento sociale: dalla programmazione alla progettazione, dal monitoraggio alla valutazione degli interventi e la relativa pianificazione finanziaria.

Questo tipo di interventi fanno capo ad Organizzazioni non Governative (ONG), agenzie internazionali e settore dei servizi in generale che, pertanto, offrono opportunità lavorative. In questo ambito i rapporti di lavoro sono tipicamente di natura contrattuale e relativi a progetti definiti, gli annunci per le posizioni aperte sono generalmente accessibili tramite apposite sezioni all’interno dei siti delle agenzie/organizzazioni di competenza.

Conclusioni

In conclusione, il contributo degli psicologi in questo Ambito Emergente comprende il supporto psicologico negli interventi a favore di persone colpite da guerre, calamità o emergenze complesse, nonché la progettazione di azioni di prevenzione e sviluppo nei programmi umanitari, a breve e lungo termine.

Soffro dunque siamo (2023) di Marco Rovelli – Recensione

Il libro di M. Rovelli “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui” è una cruda, a tratti filosofica, analisi della società odierna, nella quale la depressione, l’ansia e i disturbi alimentari costituiscono le malattie più diffuse.

 

 L’autore suddivide il libro in due parti e riporta le testimonianze di chi ha vissuto un disagio psichico e di coloro che si ritrovano ogni giorno a lavorare, comprendere e combattere questo malessere. Attraverso quindi le storie e la descrizione della nostra società veniamo guidati durante tutta la lettura ad unire i puntini che delineano il quadro a cui tutti noi apparteniamo.

La malattia mentale nella società attuale

La prima parte è dedicata alla comprensione delle forme attuali di disagio psicologico relazionandole alla sfera sociale.

Fin dalle prime righe il lettore viene collocato temporalmente nella società post-lockdown: cos’ha provocato la pandemia? Perché la richiesta di aiuto psicologico è esplosa dopo il covid? In realtà, proseguendo nella lettura, l’autore Rovelli svelerà come la pandemia non abbia causato il disagio psichico che oggi stiamo vivendo, ma abbia scoperchiato un vaso di dolore e malessere più grande di quello che potevamo immaginare. La pandemia ci ha permesso, anzi ci ha costretto, a un periodo di riflessione, di messa in discussione della propria identità e volontà, della propria soddisfazione e capacità: tante domande, ma poche risorse per far fronte a tutti i pensieri; è lì che il malessere cresce in proporzioni smisurate.

Rovelli pone luce sulla malattia mentale come un sintomo sociale, in particolare come sintomo della “società degli individui”: il soggetto è attraversato dalle dinamiche sociali e transindividuali in quanto tale e per questo l’autore introduce il termine con-dividuo per indicare un ente attraversato sia da processi biologici che psicosociali in continua trasformazione.

Il libro è diretto, a tratti doloroso per quanto realista. L’autore mette nero su bianco ciò che tutti noi pensiamo, vediamo e a cui assistiamo ogni giorno e non sappiamo come fermare. Il primo passaggio fondamentale, per comprendere l’attuale tessuto sociale e le radici del malessere psicologico così diffuso, è quello che riguarda il concetto di narcisismo e performance. Ad oggi l’unica regola per tutti è ottenere prestazioni sempre migliori, aumentare le proprie performance, non accontentarsi mai. E questa impossibilità di fermarsi si riflette anche nelle relazioni perché non ci sentiamo legittimati a dire “no sono stanco”, che sia il partner, che siano gli amici che vogliono uscire, non si esplicita spesso la necessità di riposare. Ad oggi la stanchezza è un tabù, perché il raggiungimento degli standard e le prestazioni scandiscono il ritmo della giornata e della vita. Alla prestazione si unisce la competizione. La nostra società si basa sul possibile/impossibile: tutto si può fare e se non ci riesci vuol dire che non sei in grado. Quanto è vero? Quanto siamo bombardati da video che spiegano come diventare famosi con pochissimi passi, come diventare ricchi semplicemente comprando un corso online, come sia semplice diventare imprenditori o creare una propria azienda: basta un’idea innovativa. Se tu non riesci a pensare a qualcosa di incredibile e nuovo è perché non sei capace. Ed è proprio in quella frase “se non ci riesci vuol dire che non sei in grado” che crescono senso di inadeguatezza e senso di colpa, due sentimenti che nutrono l’ansia e la depressione.

Infatti, l’autore sottolinea un aspetto fondamentale per la comprensione di questo momento storico, ossia la tendenza delle persone, in particolare dei giovani (mi sento di specificare), ad identificarsi con le persone famose, che possono essere cantanti, attori, concorrenti di format televisivi e influencers. Queste categorie ti dicono che se vuoi puoi essere come loro. Il problema nasce nel momento in cui si realizza che questo non è possibile; questa realizzazione porta a vivere la disillusione, l’inadeguatezza e l’incapacità. Quando ci si confronta con quei modelli si è destinati alla sconfitta e al fallimento. Una persona depressa mette in atto questo meccanismo in continuazione, si confronta con gli altri e la sua mancanza di fiducia e di autostima la porta alla svalutazione, la cui causa è sempre attribuita internamente: sono io che non sono capace.

“Sempre di più siamo costretti a essere all’altezza dell’immagine che la società ci chiede”. Così Rovelli descrive precisamente la nostra società e indirettamente la causa dell’ansia sociale. Siamo troppo fragili, giustamente in quanto esseri umani, per soddisfare continuamente la richiesta, perciò temiamo il giudizio altrui: a scuola, a lavoro, nei luoghi affollati, ovunque c’è uno sguardo accusatorio che ci fa sentire sbagliati. Allo stesso tempo c’è un fortissimo bisogno di apparire, di essere visti, di essere sempre nella mente dell’altro: nell’apparire viene riconosciuto il proprio valore come persona, “Valgo se gli altri mi vedono e mi ammirano, valgo se gli altri vogliono essere me”.

 All’interno del quadro sociale descritto, oltre alla depressione e all’ansia trovano spazio i disturbi alimentari, il self-cutting e il disturbo da panico. Tutti vengono affrontati all’interno del contesto sociale e della loro eziologia, ma ciò che ricorre è l’importanza delle relazioni, perché è proprio al loro interno che questi disturbi trovano terreno fertile per crescere: i disturbi alimentari spesso sono legati al rifiuto materno, il self-cutting utilizza il corpo come unico mezzo per comunicare agli altri il proprio malessere, il disturbo di panico nasce dall’impossibilità di progettare un futuro economico e sociale certo.

La psichiatria odierna

Nella seconda parte l’autore si occupa di comprendere l’ideologia della psichiatria odierna, per analizzare nuovamente da una prospettiva diversa la società stessa e la considerazione delle psicopatologie. Anche in questa seconda parte vengono presentati tantissimi temi, che verranno riportati sinteticamente proprio perché ampi per definizione.

Viene affrontato inizialmente il tema degli psicofarmaci con l’intento di far riflettere su come questi debbano essere uno degli strumenti di un medico e di come sia aumentato esponenzialmente il loro utilizzo negli ultimi anni, riferendosi al panorama italiano.

Il tema degli psicofarmaci viene esposto partendo dall’origine di queste medicine e dei passaggi fondamentali che hanno condotto all’utilizzo che ne viene fatto oggi, una rassegna molto interessante per comprendere come nella teoria andrebbero assunti e prescritti e come, nella realtà, talvolta gli psichiatri li prescrivano senza considerare altre alternative; talvolta le persone li concepiscano come unica medicina per un malessere psicologico (es. l’ansia), quando in realtà il panorama dell’aiuto è ricco di interventi terapeutici ed educativi per far fronte, a volte in modo più efficace, allo stesso problema.

Successivamente al tema riguardante gli psicofarmaci e il loro utilizzo, l’autore affronta un altro tema caldo del panorama psicologico e psichiatrico: la diagnosi. La discussione in merito alla diagnosi e agli strumenti utili ad apporla, come il DSM-5, è una discussione vastissima, che racchiude numerose problematiche e numerosi punti di vista, prese di posizione estremamente diverse. Ciò che viene riportato nel testo e che da sempre è un dato oggettivo della psicologia e della psichiatria è proprio la mancanza di oggettività e l’uso di categorie diagnostiche. Il sistema proposto dal DSM è necessario per parlarsi tra colleghi perché aiuta a chiarire il quadro generale, però può essere disfunzionale nel momento del lavoro vero e proprio con la persona o per la persona stessa che in virtù della diagnosi può subire una cronicizzazione del disturbo. È semplicistico parlarne in questi termini, ma è sicuramente una discussione alquanto interessante e che non trova una risoluzione chiara; nel testo viene affrontata sotto diversi punti di vista piuttosto stimolanti.

Infine, viene discussa anche la relazione come cura dove vengono riportati sia degli esempi classici di relazione non funzionale alla guarigione, sia delle “novità” come “Dialogo Aperto” che meritano uno spazio proprio per la loro funzionalità nella gestione della relazione e della malattia.

Il libro si conclude con una critica al sistema psichiatrico e l’analisi dello stesso, che in alcune parti di Italia possiede il potenziale per funzionare in modo migliore.

È difficile racchiudere in un piccolo spazio la portata di questo libro, il quale merita una lettura approfondita da parte di tutti, esperti e non. Stiamo vivendo un periodo storico difficile, che necessita una riflessione per comprendere realmente da dove deriva tutto questo malessere e quale sia la strada migliore per provare ad “aggiustare” la direzione e stare meglio. Questo libro è una fotografia accurata e profonda che necessita di essere vista.

Resilienza e qualità di vita delle pazienti con tumore al seno

Il cancro al seno è la malattia maligna più comune nelle donne sia nei Paesi sviluppati che in quelli sottosviluppati e rappresenta la causa più comune di morte per cancro (Tan et al., 2020).

Il vissuto associato al tumore al seno

 L’aumento dell’incidenza del tumore al seno è legato allo stile di vita moderno, ma è incoraggiante il fatto che nei Paesi sviluppati la mortalità per tumore al seno stia diminuendo, soprattutto grazie a trattamenti più efficaci e all’introduzione di programmi nazionali per la diagnosi precoce (Boškailo et al., 2021).

L’eziologia del tumore al seno può essere influenzata da diversi fattori di rischio come l’età, l’anamnesi familiare positiva, l’esposizione a ormoni endogeni ed esogeni, la dieta, le malattie benigne della mammella e l’ambiente (Žitnjak et al., 2015). Nonostante la comprovata associazione tra un livello significativo di angoscia, la diagnosi di malattia e il relativo trattamento, molti pazienti oncologici presentano un elevato livello di resilienza (Gouzman et al., 2015).

Il termine resilienza si riferisce a un processo di superamento di eventi spiacevoli, tra cui lo stress, il trauma e la malattia, e ai tratti di personalità associati a tale processo (Seiler & Jenewein, 2019). Le ricerche dimostrano che il superamento delle difficoltà legate alla diagnosi e al trattamento del cancro rappresenta un’opportunità di crescita personale, nonché di miglioramento del benessere mentale ed emotivo, potenzialmente associato a una migliore gestione della malattia (Danhauer et al., 2013; Ruini et al., 2013). Tuttavia, non tutti rispondono allo stesso modo alla diagnosi di cancro (Chan et al., 2006).

La comprensione dei fattori che influenzano la crescita post-traumatica e il livello di resilienza può avere importanti implicazioni cliniche e costituire un principio guida per la progettazione di interventi psicologici volti ad accelerare la guarigione e a migliorare la qualità della vita dei pazienti oncologici (Seiler & Jenewein, 2019). Il tumore maligno e gli interventi terapeutici necessari, spesso aggressivi, possono portare a numerose reazioni fisiche e psicosociali spiacevoli in questa tipologia di pazienti (Pahljina-Reinić, 2004). Oltre alle reazioni fisicamente spiacevoli e dolorose, nella popolazione di donne con tumore al seno può verificarsi un significativo disagio psicologico, sostenuto dalla paura della morte, dal timore di recidive, da reazioni sociali sfavorevoli, da difficoltà nelle relazioni di coppia e/o da una ridotta competenza professionale (Boškailo et al., 2021). Tali condizioni sono spesso accompagnate da reazioni emotive spiacevoli come sentimenti di impotenza, colpa, rabbia, paura, vergogna, ansia e depressione (Jørgensen et al., 2015). Le risposte emotive negative non sono solo legate a questioni esistenziali di vita e morte o di salute e malattia, ma anche alle forme di trattamento medico applicato. Ad esempio, gli interventi chirurgici e il trattamento con corticosteroidi, citostatici e radioterapia gravano sul normale funzionamento organico e causano cambiamenti nell’aspetto fisico (Boškailo et al., 2021). Tali cambiamenti nell’esperienza corporea possono condizionare una serie di disturbi nell’esperienza e nell’accettazione dell’immagine corporea (den Heijer et al., 2012). In relazione all’immagine corporea, esistono anche problemi di funzionamento psicosessuale che possono manifestarsi attraverso ansia rispetto ai rapporti sessuali, evitamento delle attività sessuali e/o mancanza di desiderio sessuale. Tali reazioni possono indurre difficoltà a stabilire o mantenere relazioni intime, necessità di isolamento sociale e ritiro da un contesto sociale più o meno ampio (Jankowska, 2013; M Braden et al., 2014).

La presenza di un tumore maligno rappresenta uno stimolo di stress che si riflette nel mantenimento dell’omeostasi psicofisica (Boškailo et al., 2021). In altre parole, i cambiamenti nello stato biochimico e fisiologico sono associati anche a cambiamenti nello stato cognitivo, emotivo e comportamentale. Così, ad esempio, possono verificarsi alterazioni del comportamento espressivo e del funzionamento adattivo, problemi di memoria e concentrazione, disturbi del sonno e dell’alimentazione (Boškailo et al., 2021). Le conseguenze psicofisiche citate, accompagnate da riflessioni negative sulla malattia, sull’esito del trattamento, sulla femminilità, sull’accettazione sociale, sulla maternità, sul successo professionale, possono indurre un’eccessiva preoccupazione per la propria esistenza (Ormuž et al., 2018).

Tumore al seno, resilienza e qualità di vita

Lo scopo dello studio di Boškailo e colleghi (2021) è stato quello di indagare l’associazione tra resilienza e qualità di vita nelle donne con tumore al seno.

 Ad oggi sono stati condotti numerosi studi in tutto il mondo che hanno affrontato l’associazione tra resilienza e qualità di vita nelle pazienti con tumore al seno (Borgi et al., 2020; Kennedy et al., 2017). Molti autori affermano che la resilienza implica un buon esito in presenza di fattori di stress e che è importante studiare i meccanismi che influenzano l’insorgenza dello stress e il coping nelle donne con tumore al seno per aumentare i livelli di resilienza (Borgi et al. 2020, Kennedy et al. 2017). Uno studio che ha analizzato la relazione tra resilienza e qualità della vita nelle pazienti affette da cancro al seno mostra che il sostegno della famiglia e le relazioni sociali sono tra i fattori più significativi che contribuiscono a rafforzare la resilienza e hanno un impatto positivo a livello fisico ed emotivo (Kugler, 2001).

Lo studio di Boškailo e colleghi (2021) è stato condotto presso la Clinica di Oncologia dell’Ospedale Clinico Universitario di Mostar e ha incluso 60 partecipanti. L’obiettivo è stato raggiunto attraverso l’utilizzo di un questionario socio-demografico appositamente realizzato per questa ricerca, di un questionario sulla qualità della vita (World Health Organization Quality of Life Bref) e di un questionario sulla resilienza psicologica (Connor Davidson Resilience Scale-25).

I risultati dello studio hanno mostrato che i soggetti trattati con la radioterapia hanno ottenuto risultati statisticamente migliori nei test che valutano la qualità della vita, della salute mentale, delle relazioni sociali e dell’ambiente rispetto ai soggetti trattati con la chemioterapia (Boškailo et al., 2021). Rispetto alle altre aree della qualità di vita e alla resilienza, non ci sono differenze statisticamente significative tra i soggetti trattati con radioterapia e chemioterapia (Boškailo et al., 2021). Non ci sono correlazioni statisticamente significative nemmeno tra il livello di resilienza e le aree della qualità di vita nelle donne con tumore al seno (Boškailo et al., 2021).

Alcool in gravidanza: gli effetti sui bambini

Cosa si intende per sindrome feto alcolica? E per ADHD? In che modo le due cose sono in relazione?

 Differenti studi dimostrano che il Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è uno dei disturbi che più si presenta in comorbilità con la sindrome feto alcolica (FASD). Infatti si riscontra che i due disturbi presentano difficoltà neurocognitive molto simili e nello specifico la diagnosi di sindrome feto alcolica è associata ad un aumento del rischio di sviluppare ADHD.

Nel seguente articolo verranno messe in luce similitudini e differenze di questi due disturbi altamente correlati.

Cos’è la sindrome feto alcolica

Con il termine “FASD”, sindrome feto alcolica, ci si riferisce a uno spettro ampio di anomalie fisiche, mentali, comportamentali e cognitive, che si manifestano negli individui che sono stati esposti al consumo di alcol da parte della madre durante la gravidanza. Per definizione l’alcool ha un effetto teratogeno, ovvero è una sostanza in grado di indurre alterazioni del normale sviluppo del feto determinando danni permanenti di varia natura. Secondo delle ricerche, il 10% delle donne riporta di aver fatto uso di alcol nell’ultimo mese di gravidanza e il 3% di averne abusato (Weyrauch et al., 2017). I segni neurologici causati dall’alcol sono evidenti ma non si manifestano immediatamente, bensì quando il bambino cresce e deve andare incontro a richieste cognitive, di performance e di funzionamento sociale sempre più complesse.

In aggiunta agli effetti teratogeni, l’alcool causa una riduzione della placenta e ciò influisce sulla crescita fisica del feto, infatti i bambini con sindrome feto alcolica presentano tipicamente delle anomalie facciali.

Le disfunzioni che si generano a livello del sistema nervoso centrale portano allo sviluppo di anomalie in termini cognitivi e comportamentali specifici, come: la cognizione globale, le funzioni esecutive, l’apprendimento, la memoria, il linguaggio, le abilità visuospaziali, le funzioni motorie e attentive e il comportamento disadattivo (che impatta negativamente su abilità sociali e accademiche; Maya-Enero et al., 2021).

Spesso, persone con sindrome feto alcolica presentano disturbi esternalizzanti come il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), che risulta essere il disturbo mentale in maggiore comorbidità con la sindrome feto alcolica (Weyrauch et al., 2017).

L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo tipico dell’età preadolescenziale caratterizzato da “disattenzione e iperattività-impulsività che interferiscono con il funzionamento e/o lo sviluppo” (DSM-5; APA, 2014).

Le funzioni esecutive

Le funzioni esecutive sono un insieme di funzioni psicologiche definite come dei processi cognitivi complessi che permettono di mettere in atto dei comportamenti finalizzati a raggiungere e portare a termine con successo uno scopo specifico. Le funzioni esecutive sono l’area maggiormente deficitaria nei bambini con sindrome feto alcolica.

Sia le persone con sindrome feto alcolica sia quelle con ADHD vengono descritte come iperattive, impulsive, disattente, con incapacità di giudizio critico e incapacità di considerare le conseguenze dei comportamenti che mettono in atto. La disinibizione e la disorganizzazione sono fattori comuni ai due disturbi, in quanto sono correlate alle disfunzioni esecutive (Rasmussen et al., 2010). Bambini con ADHD hanno deficit in molte aree neurocomportamentali che si riscontrano anche in bambini con sindrome feto alcolica: funzioni esecutive, risultati accademici, memoria, comportamento adattivo e comunicazione.

Si è visto però che bambini con sindrome feto alcolica e bambini con ADHD hanno differenti profili per quanto riguarda i deficit dell’attenzione (Rasmussen et al., 2010). In particolare, individui con sindrome feto alcolica e ADHD iniziano a mostrare deficit nelle funzioni esecutive nella tarda infanzia; comunque non è ancora chiaro come le traiettorie di sviluppo delle funzioni esecutive varino tra i due gruppi. Probabilmente il motivo per cui molti bambini con sindrome feto alcolica hanno anche una co-diagnosi di ADHD potrebbe essere che queste due diagnosi condividono una base fisiologica o delle simili alterazioni a livello del sistema dopaminergico.

Se nell’ADHD i problemi comportamentali riguardano nello specifico l’incapacità di inibizione della risposta, della memoria di lavoro, di vigilanza e di attenzione, gli individui con sindrome feto alcolica presentano deficit nelle funzioni esecutive nella loro globalità, in particolare nell’organizzazione, nell’adattamento alla situazione, nella fluenza e nella memoria di lavoro. Per questo motivo i profili cognitivi dei due disturbi sono differenti (Khoury & Milligan, 2019).

Bambini con sindrome feto alcolica presentano comportamenti simili a bambini con ADHD e problemi psicosociali, ma ottengono punteggi inferiori nelle scale che misurano l’iperattività (sintomo centrale dell’ADHD).

Spesso le problematiche che si riscontrano in bambini con sindrome feto alcolica (problemi esternalizzanti, difficoltà attentive e inibizione della risposta) possono essere molto simili ai sintomi dell’ADHD. Il profilo comportamentale e neuropsicologico simile aumenta il rischio di non riuscire a riconoscere correttamente i bambini con sindrome feto alcolica (Rasmussen et al., 2010).

I due disturbi presentano similitudini e differenze, per questo motivo è molto importante discriminare le due diagnosi e migliorare così l’efficacia dei trattamenti (Weyrauch et al., 2017).

Attenzione

I bambini con ADHD presentano deficit dell’attenzione in generale, mentre nei bambini con sindrome feto alcolica l’attenzione viene inficiata in compiti specifici, come i tempi di reazione e l’attenzione visiva (Kingdon et al., 2016).

Per quanto riguarda l’attenzione, i bambini con sindrome feto alcolica hanno più difficoltà nella decodifica e nella capacità di spostare l’attenzione rispetto ai bambini con ADHD, che hanno più difficoltà nella focalizzazione e nell’attenzione sostenuta (Kingdon et al., 2016).

Abilità motorie

 Anche a livello delle abilità motorie i due problemi sono simili. Innanzitutto, i bassi livelli di stabilità suggeriscono che ci sono delle anomalie a livello del cervelletto (struttura neocorticale responsabile dell’equilibrio). A differenziarli è il fatto che mentre i bambini con sindrome feto alcolica presentano difficoltà motorie nel momento in cui devono svolgere compiti motori complessi, i bambini con ADHD presentano difficoltà anche nei compiti motori più semplici (Raldiris et al., 2018).

Controllo degli impulsi e abilità socio-emotive

Una caratteristica in comune ai due disturbi è anche il controllo degli impulsi che risulta essere compromesso, ma il deficit deriva da profili neurofisiologici differenti (Maya-Enero et al., 2021).

A differenza di bambini con ADHD, nella sindrome feto alcolica sono presenti deficit nella cognizione sociale e nel processamento delle emozioni, ciò li porta ad avere problemi comportamentali soprattutto nelle abilità sociali; in particolare, l’incapacità di rispondere in modo appropriato o di riuscire a comprendere le situazioni sociali. Questo profilo li porta a provare un forte senso di frustrazione personale (Maya-Enero et al., 2021).

Proprio il fatto di avere basse abilità socio-emotive porta i bambini con sindrome feto alcolica a manifestare dei comportamenti esternalizzanti (per esempio, agiti aggressivi o problemi della condotta).

Deficit intellettivi

I deficit intellettivi specifici che si manifestano quando i due disturbi sono in comorbidità intaccano la memoria a breve termine, le abilità verbali (a causa della diminuzione del volume corticale del nucleo caudato) e la comprensione (Raldiris et al., 2018).

La sindrome feto alcolica produce effetti negativi a livello neurocomportamentale, per quanto riguarda anomalie comportamentali, disattenzione e disobbedienza. Gli individui con sindrome feto alcolica presentano una carenza nell’ambito dell’attenzione e nella disregolazione comportamentale come i bambini con ADHD ma, a differenza di questi, mostrano una maggiore mancanza del senso di colpa e crudeltà (Koren et al., 2014).

Perché è importante differenziare tra i due disturbi?

I benefici clinici che si riscontrano quando si differenziano accuratamente sindrome feto alcolica e ADHD riguardano il fatto che gli individui con sindrome feto alcolica non rispondono ai farmaci che vengono utilizzati per il trattamento dell’ADHD. Riconoscere in tempo la sindrome feto alcolica permette di implementare dei trattamenti che prevedono migliori risultati accademici e cognitivi e diminuiscono i potenziali deficit secondari (per esempio, sviluppo professionale, relazioni sociali, ecc; Koren et al., 2014).

Interventi

Per questo motivo gli interventi mirano ad aumentare le performance a livello neurologico, in questo modo tendono a ridurre la gravità degli effetti dell’esposizione all’alcol prenatale.

In particolare, mirano ad intervenire sulle abilità accademiche, la regolazione del comportamento, le relazioni tra pari e la comunicazione sociale, e a potenziare le funzioni esecutive.

Gli impedimenti cognitivi di attenzione e iperattività sfociano in comportamenti disadattivi che rendono la loro esperienza all’interno della scuola molto difficoltosa. Per questo motivo è molto importante supportare questi bambini all’interno del contesto scolastico (Koren et al., 2014).

Le terapie dovrebbero concentrarsi su piani psicoeducazionali, che permettano di aumentare le capacità del bambino nel problem-solving, sia quando è a casa sia quando è a scuola. Gli interventi a livello cognitivo dovrebbero essere tarati sul livello del quoziente intellettivo del bambino con sindrome feto alcolica, che è spesso inferiore rispetto ai bambini con ADHD.

Si è visto che anche lo stato socioeconomico e le condizioni di vita di crescita del bambino impattano sullo sviluppo delle funzioni esecutive, quindi bisognerebbe adottare interventi con un approccio più olistico, che si focalizzi anche sugli stressor ambientali (per esempio cure parentali, stimolazione cognitiva, emotiva, fisica, motoria; Khoury & Milligan, 2019).

Il mio terapeuta non ha più risposto: il fenomeno del ghosting in psicoterapia

Lo studio di Farber e colleghi (2022) si è posto lo scopo di indagare la prospettiva del paziente rispetto al fenomeno e alle implicazioni etiche e cliniche del ghosting da parte del terapeuta.

 

 La conclusione della psicoterapia costituisce la fase finale della relazione fra paziente e terapeuta, dove il primo ha l’occasione di rivedere gli obiettivi postisi, descrivere i cambiamenti che ha affrontato e lavorare sui sentimenti che accompagnano la cessazione del rapporto terapeutico (Vasquez et al., 2008). Questo passaggio richiede che i terapeuti mettano in atto una serie di interventi appropriati, in sintonia con le esigenze del paziente, che ha il diritto di trarre il massimo beneficio dal trattamento. Quando un terapeuta fallisce nel soddisfare i requisiti clinici, etici e pratici della fase di conclusione della terapia si parla di “cessazione inappropriata”. In particolare, lo studio di Farber e colleghi (2022) si è proposto di indagare il ghosting, ossia un’inappropriata chiusura del trattamento psicoterapeutico in cui il terapeuta cessa di comunicare con il paziente senza preavviso. Sulla base di questa definizione, gli obiettivi degli autori sono stati due: valutare il punto di vista del paziente rispetto al processo, alle cause e alle conseguenze del ghosting del terapeuta e analizzare le implicazioni etiche e cliniche del fenomeno.

Il ghosting del terapeuta: cos’è e quali sono i suoi riferimenti normativi

Dal 2015 circa il termine “ghosting” è utilizzato principalmente in campo sentimentale per descrivere il fenomeno in cui un partner smette bruscamente di vedere, inviare messaggi o chiamare l’altro senza dare una spiegazione. Attualmente, il verbo è utilizzato in modo più ampio per riferirsi a tutte quelle situazioni in cui una parte cessa di comunicare con l’altra quando sarebbe atteso un ulteriore interscambio (come tra paziente e terapeuta).

Dal punto di vista normativo, a livello nazionale il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani stabilisce degli standard appropriati di condotta professionale che, rispetto alla conclusione etica del rapporto professionale, citano che lo psicologo debba fornire un supporto alla conclusione del trattamento, suggerendo servizi di salute mentale alternativi. Sono state avanzate varie proposte per fornire ai terapeuti istruzioni specifiche e pratiche per la fase di conclusione, come quella di un contratto terapeutico che includa informazioni su quando e come il trattamento terminerà, sui rinvii dei pazienti in caso di attesa o emergenza imprevista e sul supporto pre-terminale che aiuti i pazienti a gestire le potenziali sfide una volta conclusa la terapia (Vasquez et al., 2008).

Le reazioni dei pazienti

Secondo la letteratura, le reazioni positive dei pazienti alla cessazione del rapporto terapeutico sono associate all’opportunità di aver rivisto gli obiettivi di trattamento e i risultati, di essersi impegnati in discussioni orientate al futuro e di aver condiviso i loro sentimenti riguardo alla fine del trattamento con il terapeuta (Marx e Gelso, 1987). Similmente, è stato dimostrato che tali sentimenti positivi sono legati a una stretta relazione paziente-terapeuta e alla soddisfazione del primo per il trattamento complessivo (Roe et al., 2006; Knox et al., 2011). Al contrario, i soggetti che avevano sperimentato sentimenti negativi durante la fase finale della terapia hanno riportato di non aver avuto l’opportunità di riflettere insieme al terapeuta quanto inerente alla conclusione del percorso e, per questo, di aver vissuto una rottura della relazione (Anderson et al., 2019).

Lo studio di Farber et al. (2022)

Nonostante non esistano ancora studi empirici sul ghosting del terapeuta, il fenomeno è presente e discusso apertamente sui social media. Tuttavia, poco si sa sulle circostanze in cui si verifica e sulle conseguenze subite dai pazienti. In questa direzione, lo studio di Farber (et al., 2022), dopo aver intervistato 77 pazienti ghostati dai loro terapeuti, ha concluso che:

  • i pazienti hanno tentato di ricontattare più volte il loro terapeuta in seguito al ghosting;
  • la maggior parte di loro non è più riuscita a rimettersi in contatto con il proprio terapeuta;
  • essi molto spesso attribuivano l’abbandono al fatto che il loro terapeuta li trovava troppo difficili o ai problemi psicologici o agli eventi della vita del loro terapeuta;
  • riferivano shock, frustrazione, ansia, risentimento e tristezza come risultato del ghosting, anche se tali emozioni si dissipano nel tempo;
  • tendevano a considerare normale l’ultima seduta con il loro terapeuta, rinnegando la responsabilità di essere stati ghostati e credendo che il loro terapeuta debba sentirsi in colpa per questo comportamento.

Il fatto i pazienti che sono stati ghostati sperimentino emozioni negative non è sorprendente: essere respinti senza motivo da una persona con cui si sono condivise confidenze ed emozioni suscita comprensibilmente reazioni intense, specie per coloro che hanno subito esperienze di rifiuto interpersonali. In effetti, la maggior parte degli intervistati ha percepito la loro ultima seduta come abbastanza tipica, tanto che l’abbandono da parte del terapeuta è stato vissuto come scioccante.

 Nonostante queste considerazioni, la maggior parte dei pazienti sosteneva che il proprio terapeuta fosse una brava persona; essi sarebbero quindi contemporaneamente arrabbiati con il terapeuta, pensando che la responsabilità primaria dei terapeuti sia quella di prendersi cura dei propri pazienti fino all’ultimo, ma anche disposti a perdonarli per l’errore fatto, credendosi dei pazienti troppo difficili.

Per quanto emerso, sembra che la decisione di fare ghosting al paziente sia spesso data da motivi di autoprotezione (emotiva o fisica), disinteresse, vincoli di tempo (troppo occupato) o sentimenti sullo stato generale della relazione. L’alternativa al ghosting richiederebbe il coraggio di fidarsi delle conseguenze di rivelazioni difficili ma oneste ai pazienti.

Conclusioni

Visto l’impatto emotivo sui pazienti e il danno creato alla reputazione dei professionisti della salute mentale, il ghosting del terapeuta dovrebbe essere riconosciuto come una violazione etica specifica e particolarmente dannosa. Parallelamente, i principi che regolano la gestione appropriata della fine del trattamento dovrebbero porre attenzione alle implicazioni deleterie dell’abbandono del terapeuta. Infine, considerando che lo studio di Farber (et al., 2022) ha esaminato solo la prospettiva dei pazienti, le ricerche successive potrebbero indagare il punto di vista del terapeuta che ha deciso di non mantenere più il contatto con il paziente.

Psicologia investigativa (2022) di David Canter e Donna Youngs – Recensione

Per Psicologia Investigativa si intende il risultato dell’osservazione e dello studio del comportamento criminale al fine di comprenderlo e fornire così un ausilio nell’azione penale e di indagine.

 

 Criminal Minds, Mindhunter, Black Bird, Dexter, sono solo alcuni dei titoli più o meno recenti e più o meno di successo che vedono come protagonisti serial killer e la relativa squadra di investigatori deputati alla loro cattura.

Possiamo dunque pensare che, ormai, alcuni termini e meccanismi di indagine facciano parte dell’immaginario comune, spesso distorcendo e rimandando impressioni fantasiose e talvolta discoste dalla realtà.

Il ricco e dettagliato manuale “Psicologia Investigativa. Profilazione degli autori di reato e analisi criminale” non nasce per “correggere”, bensì per formare e consentire un completo approfondimento di una disciplina nata all’estero ma che si sta sempre più affermando anche in Italia.

La particolarità del volume non risiede solo nella sua ricchezza di fonti e di esempi, che consentono una lettura scorrevole e una comprensione del testo molto semplice, ma anche e soprattutto nei box di approfondimento alla fine di ogni capitolo, che consentono una autoverifica e hanno lo scopo di stimolare un eventuale formatore in aula.

Il testo è sicuramente lungo e richiede tempo e concentrazione, ma ci accompagna lungo la nascita e le successive trasformazioni di una vera e propria disciplina, partendo da una definizione chiara e immediata, che – come sottolineato – vuole portare la Psicologia Investigativa non tanto fuori dagli schermi tv, quanto più “oltre”.

Per Psicologia Investigativa si intende dunque il risultato dell’osservazione e dello studio del comportamento criminale al fine di comprenderlo e fornire così un ausilio nell’azione penale e di indagine.

La base teorica da cui partire prende le mosse dal crimine e non dalla motivazione, studia i rapporti dell’offender con l’ambiente e le vittime, rintracciando temi dominanti e analizzando le storie criminali pregresse.

Tutto questo, dunque, già ci pone in un quadro complesso e articolato, dove viene sottolineata la metodicità del procedere e soprattutto l’esistenza di linee guida e di un processo strutturato.

Particolarmente interessante risulta anche la sincera sottolineatura di ciò che spesso le fiction (e, talvolta, i romanzi) omettono: la scarsa formazione degli agenti, la presenza di un contesto omertoso, errori umani.

La prima parte del manuale sottolinea come sin dalla nascita della disciplina è stato facile cadere in errore, pensando che fosse sufficiente l’intuito per procedere, ignorando invece l’importanza del metodo scientifico che ad oggi l’accompagna.

David Canter, autore del testo, fu dunque il primo a rendersi conto di questa necessità, sviluppando così un metodo sistematizzato in tre step:

  • analisi delle informazioni;
  • quali conclusioni trarre dalle informazioni acquisite;
  • agire sugli elementi precedenti al fine di formulare una decisione.

Il libro presenta così l’evoluzione e la storia della Psicologia Investigativa soffermandosi e approfondendo anche la storia dei precursori volontari e involontari della disciplina dall’Ottocento ad oggi, accompagnando il lettore nella verifica puntuale del proprio apprendimento con domande mirate che stimolano anche la messa in discussione.

 Presenta casi di crimini passati (es: il vampiro di Dusseldhorf, lo strangolatore di Boston etc) cercando di far comprendere quali elementi hanno portato alla risoluzione del caso e quali lo hanno ostacolato o sono stati poi modificati nel corso dello sviluppo della storia della psicologia investigativa.

Il testo è sicuramente rivolto a personale tecnico, per fornire una formazione guidata o un auto approfondimento, ma risulta decisamente interessante e scorrevole anche per gli appassionati.

Fortunatamente, e questo forse è il suo tratto distintivo, non si limita ad attirare l’attenzione sul criminale o sui delitti, trasformandosi in un “giallo ben congegnato” ed evidenzia in modo sincero (e dunque utile) gli errori pregressi e gli strumenti sviluppati per “correggerli”.

Il Manuale risulta suddiviso in tre sezioni, ciascuna – come già sottolineato – approfondita, ben organizzata, fornita di box riassuntivi ad inizio e fine capitolo, domande conclusive per stimolare l’apprendimento e il confronto:

  • Parte I: la strada verso la Psicologia Investigativa, che fornisce un’ampia e ben discussa genesi della disciplina;
  • Parte II: fondamentali, che illustra gli strumenti teorico-pratici (e la loro evoluzione) imprescindibili e ad oggi in uso;
  • Parte III: profilare le azioni criminali, che classifica e differenzia le diverse tipologie di “reato” con una puntuale analisi delle stesse.

Sebbene si potrebbe pensare che la parte più interessante o discorsiva sia la III, sicuramente la lettura delle prime due consente, come sottolineato in apertura, di non cascare nell’errore di credere di essere in un telefilm o in un romanzo ben scritto.

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