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Lo psicologo in Unità Spinale

L’Unità Spinale è una struttura specializzata nella riabilitazione di pazienti con lesioni al midollo spinale. Il ruolo dello psicologo in queste unità è fondamentale per la riabilitazione e il supporto psicologico dei pazienti, favorendo il recupero funzionale, la gestione emotiva e l’autonomia. Inoltre, offre supporto psicologico anche ai familiari e al personale sanitario.

 

 In Italia sono circa 85 mila le persone con lesione al midollo spinale, con un’incidenza di circa 2.500 nuovi casi all’anno, di questi i due terzi hanno un’età inferiore ai 60 anni. Ma a fronte di una domanda di ricoveri che si aggira intorno ai 2.500, sia in fase acuta che in fase di secondo ricovero, l’offerta sanitaria rimane scarsa, con circa 400-500 posti letto qualificati sull’intero territorio nazionale (INAIL, 2011; Quotidiano Sanità, 2016).

Data la specificità e complessità della gestione di pazienti con questo tipo di patologia, la Società di Psicologia della Lesione Spinale, con la collaborazione di alcuni Ordini Regionali e il confronto di esperti nazionali e internazionali, come il Dottor Paul Kennedy, presidente della European Spinal Psychologists Association, ha stabilito le Linee Guida per l’intervento psicologico nell’Unità Spinale. Tali Linee Guida sono esito dell’esperienza professionale di psicologi impegnati nella riabilitazione di pazienti con lesione midollare in fase acuta, ovvero la fase immediatamente successiva all’evento lesivo (per esempio, incidente stradale o sul lavoro). È proprio in questa fase che è di fondamentale importanza riconoscere e affrontare tempestivamente le sfide psicologiche emergenti e attivare strategie di adattamento.

Implicazioni della lesione spinale

Una lesione spinale si verifica quando c’è un danno al midollo spinale, che consiste in un’interruzione del passaggio delle informazioni lungo le vie nervose che vanno dal centro alla periferia e viceversa; questo genera la perdita di funzioni al di sotto del punto in cui è presente la lesione.

A seconda della gravità e della posizione della lesione, possono verificarsi diverse condizioni.

  • La tetraplegia si verifica quando il movimento di tutti e quattro gli arti è compromesso a causa della lesione spinale. Questo può comportare la perdita delle funzioni motorie e sensoriali degli arti superiori e inferiori. Nel caso di tetraplegia grave, la respirazione autonoma può essere completamente compromessa e la sopravvivenza dipenderà dall’uso di un respiratore artificiale.
  • La paraplegia si verifica quando il movimento degli arti inferiori è compromesso a causa della lesione spinale. In questo caso, la persona avrà difficoltà o impossibilità di muovere le gambe.

La gravità, l’estensione e il tipo di lesione (completa o incompleta), insieme alle caratteristiche individuali, influenzano le conseguenze specifiche della lesione spinale. Ogni persona affetta da lesione spinale può presentare una combinazione unica di sintomi e disabilità.

In alcuni casi, la lesione spinale può anche compromettere le funzioni viscerali e il controllo degli sfinteri, portando a problemi di incontinenza e richiedendo l’utilizzo di manovre speciali per l’evacuazione della vescica e dell’intestino. Questo può causare una grande sofferenza e richiede adattamenti e riabilitazione che coinvolgono non solo la persona stessa, ma anche le sue relazioni familiari, poiché spesso è un familiare a svolgere il ruolo di caregiver.

Anche la sessualità può essere compromessa, creando implicazioni emotive e relazionali significative nella vita delle persone colpite.

Inoltre, il dolore è spesso presente e il dolore neuropatico, una forma di dolore cronico correlato alla lesione spinale, può seriamente compromettere la qualità della vita delle persone interessate.

Il danno al midollo spinale porta a cambiamenti biologici, psicologici e sociali sconvolgenti e drammatici. Le persone affette da questa condizione vivono una frattura a livello anatomico, psicologico e temporale, con una percezione alterata di sé stessi.

È importante sottolineare che ogni lesione spinale è unica e, insieme alle caratteristiche individuali, può comportare una vasta gamma di conseguenze fisiche, emotive e sociali che variano appunto da persona a persona.

Cos’è l’Unità Spinale

L’Unità Spinale è un tipo di struttura, presente in alcuni ospedali, altamente specializzata nella riabilitazione, che accoglie persone che hanno subito una lesione spinale. Questa struttura è composta da un team di professionisti provenienti da diverse discipline, come medici, infermieri, fisioterapisti, terapisti occupazionali, educatori, assistenti sociali e psicologi. Nonostante le evidenze scientifiche che dimostrano l’importanza dei fattori sociali nella riabilitazione di queste persone, le Unità Spinali si concentrano molto sul modello medico, focalizzato sugli aspetti biologici e fisici delle malattie. In questa prospettiva, l’idea di base è che le malattie siano principalmente causate da fattori biologici e che la guarigione avvenga attraverso l’intervento diretto sul corpo (con farmaci o interventi chirurgici). Questo approccio potrebbe non considerare in modo approfondito gli aspetti psicologici, sociali o ambientali che possono influenzare la salute di una persona. Ecco perché le conoscenze e l’intervento dello psicologo sono importanti nell’équipe multidisciplinare coinvolta nella gestione di questo tipo di pazienti, date le implicazioni complesse descritte precedentemente.

Le Unità Spinali sono state istituite in Italia con un decreto ministeriale nel 1988, ma attualmente sono presenti in modo limitato nel territorio nazionale, soprattutto nelle regioni del Centro e del Nord. Questo significa che molti pazienti devono spostarsi in altre località per ricevere cure e riabilitazione.

A causa della limitata presenza di queste strutture, non esistono dati epidemiologici nazionali aggiornati sulla lesione spinale.

Il ruolo dello psicologo in Unità Spinale

Innanzitutto, la formazione professionale dello psicologo è essenziale per lavorare in Unità Spinale, poiché richiede competenze specifiche, come le conseguenze neurobiologiche della lesione (per esempio, il dolore e le possibili compromissioni), nell’incontro con persone sofferenti e spesso spaventate da questa diagnosi.

Il ruolo dello psicologo è parte integrante del lavoro cooperativo di un team di professionisti che ha l’obiettivo di sviluppare un progetto terapeutico personalizzato che tenga conto delle condizioni fisiche, psicologiche e socio-familiari del paziente con lesione midollare. Questo progetto mira a promuovere l’autonomia del paziente e il recupero delle sue abilità nella vita di tutti i giorni –laddove possibile–, nonché la ricostruzione di una nuova identità personale.

Lo psicologo ha autonomia professionale all’interno del sistema sanitario nazionale e si assume la responsabilità del progetto terapeutico. Ha la libertà di scegliere i metodi, le tecniche e gli strumenti psicologici da utilizzare, e si occupa dell’uso, delle valutazioni e delle interpretazioni degli strumenti utilizzati. L’autonomia professionale viene esercitata in collaborazione con gli altri professionisti dell’équipe.

Lo psicologo prende in carico tutti i pazienti con lesione midollare, contribuendo con le sue osservazioni e analisi al progetto di riabilitazione individuale. Questo coinvolgimento è cruciale data la delicatezza e la complessità della situazione. Lo psicologo si mette in contatto con i Servizi di Psicologia del Territorio per condividere il progetto terapeutico con il paziente e, se presenti, i familiari, tenendo conto dei rischi clinici.

Una raccomandazione importante è che lo psicologo si occupi di prendere in carico tutti i pazienti. Inoltre, si suggerisce che lo psicologo faccia parte degli Organi Collegiali ed Istituzionali, mettendo a disposizione le proprie competenze per valutare il servizio offerto e contribuire al miglioramento dell’assistenza.

Il compito dello psicologo in Unità Spinale

Il compito dello psicologo nell’Unità Spinale è di contribuire al processo di riabilitazione e sostegno psicologico dei pazienti con lesione midollare, favorendo il recupero funzionale, la gestione emotiva e la promozione dell’autonomia. Per assolvere questo compito lo psicologo si occupa di molti aspetti, quelli essenziali sono descritti di seguito.

  • Diagnosi psicologica. Lo psicologo osserva e valuta il paziente per comprendere i meccanismi che influenzano il suo benessere e scegliere il trattamento più adatto. Utilizza strumenti come osservazione clinica, colloqui e test psicodiagnostici.
  • Comprensione dei bisogni del paziente. Lo psicologo aiuta a comprendere i bisogni individuali del paziente e dei suoi familiari, contribuendo alla definizione di obiettivi a breve, medio e lungo termine per il recupero e la partecipazione attiva alla vita quotidiana.
  • Valutazione e monitoraggio dei meccanismi di difesa. Lo psicologo valuta come il paziente affronta lo stress e identifica le strategie di coping disadattive che possono emergere, aiutando a individuare e sviluppare strategie adattive.
  • Sostegno nell’elaborazione del cambiamento. Lo psicologo supporta il paziente nel processo di adattamento alla nuova situazione, prevenendo o contenendo la comparsa di risposte patologiche, come sintomi depressivi o ansiosi.
  • Valutazione della necessità di consulenza psichiatrica e neuropsicologica. In collaborazione con il medico, lo psicologo valuta se è necessaria una consulenza da parte di uno psichiatra o di un neuropsicologo, specialmente in casi di situazioni complesse (per esempio, compromissione dell’esame di realtà o sintomi dissociativi) o di disturbi mentali precedenti (come dipendenza da sostanze).
  • Comprensione e gestione del dolore. Lo psicologo analizza l’esperienza del dolore e valuta i possibili fattori coinvolti. Contribuisce a individuare strategie di gestione del dolore, a mitigare gli effetti negativi sul benessere psicologico e le relazioni interpersonali del paziente.
  • Lavoro sulle parti sane e adattamento. Lo psicologo sostiene le parti sane del paziente, promuovendo la resilienza e l’adattamento. Aiuta a mantenere un buon funzionamento psicologico e sociale nonostante la lesione.
  • Promozione dell’autonomia. Lo psicologo individua e promuove attività e strategie per favorire l’autonomia del paziente, contribuendo al suo processo di recupero e integrazione nel quotidiano.

In aggiunta, lo psicologo deve occuparsi della documentazione clinica che gli compete, ovvero aggiornare la cartella clinica e il protocollo di colloqui/interventi. Questo è importante poiché facilita lo scambio di informazioni cliniche con gli altri professionisti. La cartella clinica è uno strumento di lavoro e documentazione a cui tutti gli operatori sanitari hanno accesso. Contiene informazioni importanti sull’intervento e note utili per l’assistenza. Il protocollo di colloqui/interventi è gestito dal professionista e vincolato al segreto professionale; infatti, le modalità di condivisione e conservazione delle informazioni seguono comunque le norme del codice deontologico dello psicologo.

Nella professione dello psicologo è inclusa anche la ricerca clinica. Lo psicologo promuove e partecipa a specifiche attività di ricerca per approfondire la comprensione dell’impatto degli eventi, dei processi di adattamento e dei percorsi riabilitativi.

L’intervento dello psicologo in Unità Spinale

Nell’ambito dell’Unità Spinale, lo psicologo svolge diversi interventi per aiutare i pazienti, i loro familiari e gli operatori ad affrontare la situazione. Si opera nella direzione di individuare e sostenere le parti sane, identificando le risorse e le capacità resilienti del paziente e della sua famiglia. Lo psicologo contribuisce anche all’organizzazione dell’Unità Spinale, considerando l’evoluzione delle pratiche di cura e l’acquisizione di nuove tecnologie.

 Nell’intervento con il paziente, il primo passo è raccogliere informazioni attraverso colloqui esplorativi con lui e, se necessario, con i familiari. Successivamente, attraverso il lavoro clinico, lo psicologo analizza le caratteristiche personologiche del paziente e cerca di capire come si sta adattando alla lesione midollare. L’obiettivo principale è aiutare il paziente ad adattarsi al cambiamento nella sua vita e a gestire eventuali problemi emotivi o psicologici che potrebbero sorgere a causa della lesione spinale. Lo psicologo tiene conto di diverse variabili, come l’età del paziente, la gravità della lesione, la situazione psicologica precedente, l’ambiente sociale e familiare, le influenze culturali e religiose. L’approccio e l’intervento psicologico possono variare da paziente a paziente, in base alle sue reazioni e capacità di adattamento, e devono considerare anche la resistenza al cambiamento e le strategie di coping disfunzionali che il paziente potrebbe mettere in atto dopo il trauma o dopo la comunicazione della diagnosi e prognosi.

Lo scopo finale dell’intervento psicologico è aiutare il paziente a ottenere il miglior adattamento possibile alla sua nuova realtà, compreso il periodo di degenza ospedaliera.

Nelle lesioni midollari, il tema della sessualità e della funzione sessuale richiede particolare attenzione, poiché possono verificarsi cambiamenti significativi nella sensibilità e nella funzionalità sessuale. In questi casi, lo psicologo può collaborare con specialisti come l’andrologo, il ginecologo o il sessuologo per fornire un supporto adeguato.

Lo psicologo si occupa anche dei familiari e dei caregiver del paziente, che giocano un ruolo importante nel processo di recupero, poiché anche loro possono essere emotivamente colpiti dall’evento traumatico e devono affrontare i cambiamenti che la lesione spinale comporta nella vita del loro caro. Perciò, lo psicologo offre sostegno ai familiari attraverso colloqui, aiutandoli a elaborare le proprie emozioni e ad affrontare le sfide che la lesione spinale comporta. L’obiettivo è quello di creare un ambiente familiare accogliente, facilitante e positivo per il paziente durante il percorso riabilitativo. Può organizzare incontri di gruppo per i familiari, dove possono condividere le proprie esperienze, ricevere supporto reciproco e ottenere informazioni specifiche sulla lesione midollare.

Di solito, vi è una buona accoglienza al colloquio con lo psicologo da parte del paziente e dei familiari, diventando un punto di riferimento importante nella routine dell’Unità Spinale.

Riguardo l’intervento con gli operatori sanitari, lo psicologo contribuisce alla crescita di un atteggiamento psicologico adeguato dell’équipe multidisciplinare, aiutandoli a comprendere e affrontare i problemi di vita quotidiana dei pazienti e dei loro familiari, prevenendo complicanze e facilitando l’adattamento alla nuova realtà. Si presta attenzione alle risposte emotive degli operatori per evitare conflitti nell’ambiente di lavoro. Lo psicologo fornisce momenti di ascolto, analisi ed elaborazione delle esperienze degli operatori per mantenere un ambiente di lavoro funzionale e promuove anche momenti di formazione.

Si raccomanda sempre di includere l’intervento psicologico fin dalla fase acuta della lesione midollare, considerando diverse variabili e fornendo sostegno non solo ai pazienti e ai familiari, ma anche agli operatori sanitari, per favorire un lavoro efficace in equipe.

In conclusione, la presenza di queste Linee Guida sottolinea la necessità dell’adozione di una prospettiva biopsicosociale di cura e, per questo, l’importanza cruciale degli psicologi nelle Unità Spinale per la cura delle persone che hanno subito danni al midollo spinale. Questi professionisti offrono sostegno emotivo e aiutano i pazienti e le loro famiglie a gestire le sfide legate alla loro condizione complessa e delicata, promuovendo la loro autonomia e il loro adattamento al cambiamento.

Neuropsicologia delle psicosi (2023) di Severin, Prior e Sartori – Recensione

Il volume “Neuropsicologia delle psicosi. Modelli e interventi cognitivi” è suddiviso in due parti: come recita il sottotitolo, la prima è dedicata ai modelli teorici e la seconda agli interventi specifici nel complesso ambito dei disturbi cognitivi nel paziente psicotico.

 

 Si inizia con un breve capitolo introduttivo dove sono riportati gli essenziali cenni storici sugli studi relativi alla schizofrenia, a partire da Kraepelin nell’Ottocento, per giungere a presentare i sintomi e i criteri diagnostici attuali per la schizofrenia, secondo il DSM-5.

Nel capitolo successivo viene descritto il modello neuropsicologico, dando spazio all’analisi dei disturbi cognitivi nel paziente schizofrenico, nella consapevolezza che l’alterazione cognitiva presente in tale patologia è molto più invalidante dei sintomi positivi.

Dal terzo capitolo si entra nel vivo dell’analisi dei disturbi cognitivi maggiori, suddivisi in: memoria, attenzione, linguaggio e aspetti comunicativi, percezione visuo-spaziale, intelligenza, con il confronto tra gravità clinica e quoziente intellettivo, e funzioni motorie, ove possono comparire un’eterogeneità di deficit. In queste pagine sono anche presentati i principali modelli, sia neuro-anatomici che cognitivi, che hanno provato a dare una spiegazione scientifica dei sintomi presenti nella schizofrenia. Dal punto di vista neuro-anatomico la schizofrenia è stata studiata sia come alterazione del sistema fronto-striato talamico che come alterazione del sistema fronto-temporale, mentre tra i modelli cognitivi sono citati quelli di Cohen e soprattutto quello di Frith, a cui è dedicato un paragrafo.

Si passa poi alla descrizione dei modelli che prendono in esame la teoria della mente applicata al disturbo psicotico. Con questa espressione si fa riferimento alla capacità cognitiva di rappresentare gli stati mentali propri e altrui, oltre che la capacità di attribuire pensieri, emozioni, intenzioni e credenze agli altri, andando oltre le spiegazioni personali. Come è noto, anche la comprensione delle metafore e dell’ironia possono risultare spesso compromesse in tali pazienti, ma pare che non vi sia correlazione neuro-cognitiva accertata tra queste due diverse competenze.

Infine, un capitolo è dedicato all’utilizzo delle moderne tecniche di brain imaging che consentono, in questa e in altre situazioni cliniche, non solo di approfondire le basi neuronali della malattia, ma anche di comprendere molto meglio quali aree cerebrali siano danneggiate. Comunque, nonostante i promettenti risultati già ottenuti, siamo tuttora lontani da una piena comprensione dei fattori neuro-anatomici della malattia, anche se è lecito attendersi dai progressi nell’ambito del neuroimaging, contributi significativi per una migliore comprensione della patologia, anche per proporre più adeguate strategie di trattamento.

 La seconda parte del volume è invece dedicata alla descrizione dei training specifici per i pazienti affetti da tale patologia psichica, suddivisi in training cognitivi e meta-cognitivi. Gli autori del testo concordano con un orientamento, ormai largamente condiviso, secondo cui è indispensabile affiancare alle terapia farmacologiche, solo parzialmente efficaci, programmi riabilitativi volti a migliorare non solo le performance cognitive ma anche la qualità globale della vita quotidiana dei pazienti.

Gli interventi cognitivi sono divisi in due tipologie principali: compensatori, focalizzati sul mettere in risalto le abilità residue, e riparativi o ristorativi, che mirano alla correzione delle disfunzioni cognitive, mediante esercizi che poggiano anche sul concetto più recente di “plasticità neurale”. Particolare e esteso spazio viene dato alla descrizione del Training Metacognitivo elaborato da Morit e Wooward nel 2007 e appositamente disegnato per i pazienti schizofrenici. Esso si attua mediante sessioni di gruppo in quanto il confronto, sia con i pari che con gli operatori, si rivela un fattore essenziale in tale procedura. La metodologia è costruita in 8 moduli che affrontano le principali distorsioni cognitive che si riscontrano in tale quadro clinico.

In sintesi, il volume è scritto in modo estremamente chiaro e comprensibile, fornendo un’agile panoramica d’insieme sullo stato dell’arte nell’ambito neuropsicologico dello studio delle psicosi. Estesa la bibliografia, sebbene siano davvero pochissimi i riferimenti ad autori italiani. Ovviamente, chi volesse approfondire questo specifico settore di studio, dovrà ampliare le proprie letture, anche a partire dai riferimenti teorici presenti nel testo.

 

Effetto Spotlight: il bias egocentrico

L’Effetto Spotlight può farci riflettere su come noi esseri umani siamo tutt’altro che lineari e razionalmente impeccabili nelle nostre valutazioni della realtà, la percezione che abbiamo di noi stessi può essere notevolmente dissimile rispetto a quella che gli altri hanno di noi.

L’Effetto Spotlight

 È oramai risaputo che noi esseri umani siamo piuttosto ambigui e contraddittori, protagonisti di fenomeni e situazioni costellate dalle più curiose opposizioni e paradossi. A tal proposito, negli ultimi anni è stato identificato un fenomeno al quale gran parte delle persone sono soggette e che presuppone la compresenza di due aspetti apparentemente contrastanti: una scarsa autostima e il sentirsi al centro dell’universo. Si tratta del cosiddetto Effetto Spotlight, un meccanismo per cui inconsciamente e in maniera del tutto innata siamo portati a sopravvalutare il grado di attenzione e di giudizio che le altre persone rivolgono al nostro aspetto fisico e al nostro comportamento (Gilovich, Medvec e Stavistky, 2000). Il nome dell’effetto, letteralmente tradotto con “effetto riflettore”, è in grado di rendere al meglio la soggettiva sensazione di sentirsi “socialmente” esposti e vulnerabili che lo contraddistingue.

È capitato a tutti di entrare in una stanza con altre persone e iniziare a pensare di avere tutti gli occhi puntati addosso o di credere che queste stessero parlando o ridendo proprio di noi, no? Ecco, è proprio questo l’Effetto Spotlight, e ci inganna tutti quanti. In realtà infatti – spoiler – siamo noi per primi a focalizzarci sui nostri difetti, insicurezze e difficoltà, e così ci convinciamo che anche gli altri vedano solo quelle quando in realtà anche loro stanno in primis prestando attenzione a sé stessi piuttosto che a noi. Ci sentiamo quindi osservati, sotto i riflettori e di conseguenza giudicati anche quando questo in realtà non accade e il riflettore ci illumina molto meno di quanto pensiamo.

Sull’Effetto Spotlight venne condotto un interessante esperimento presso la Cornell University negli Stati Uniti che consisteva nel chiedere ad un gruppo di partecipanti di indossare per un giorno una maglietta ritenuta da loro imbarazzante e calcolare il numero di persone che, a loro avviso, avevano notato quell’indumento ridicolo. Sarebbe poi stato fatto un sondaggio anche tra gli osservatori in modo da verificare l’effettivo livello di accuratezza delle risposte dei partecipanti.

I risultati furono sorprendenti e testimoniarono l’esistenza dell’effetto riflettore: la percezione che abbiamo di noi stessi può essere notevolmente dissimile rispetto a quella che gli altri hanno realmente di noi. Molti partecipanti, infatti, si sbagliarono significativamente e sovrastimarono abbondantemente il numero di persone che, secondo loro, li aveva notati con indosso la maglietta bizzarra.

Secondo gli esperti l’Effetto Spotlight deriva da un meccanismo di ancoraggio-e-aggiustamento e si origina per via di un “bias egocentrico” che ci porta ad attribuire un’eccessiva importanza alle nostre azioni poiché, siccome l’essere umano è essenzialmente al centro del proprio mondo, tende a sentirsi anche al centro dei mondi altrui.

Realismo ingenuo e Illusione della trasparenza

Inevitabilmente correlati e complementari a questo effetto vi sono altri due interessanti fenomeni. Il primo è il “Realismo ingenuo”, il quale consiste nel credere che vi sia una completa coincidenza tra il mondo così com’è e il mondo come noi lo percepiamo (realtà percettiva), con conseguente tendenza a credere che chi non ha la nostra stessa percezione sia irrazionale, disinformato o animato da pregiudizi. In riferimento all’Effetto Spotlight questo si potrebbe tradurre nel non contemplare la potenziale eventualità per cui le persone potrebbero non essere così focalizzate su di noi tanto quanto pensiamo.

Il secondo fenomeno, invece, è la cosiddetta “Illusione della trasparenza”, con la quale sopravvalutiamo la capacità delle persone di riconoscere con facilità i pensieri e le emozioni che proviamo, convinti che siano più visibili e per l’appunto trasparenti di quanto siano in realtà. In relazione all’effetto riflettore, quindi, ci convinciamo che le persone notino il nostro disagio quando mostriamo un nostro difetto o un elemento che ci crea imbarazzo e insicurezza.

Insomma, noi esseri umani siamo tutt’altro che lineari e razionalmente impeccabili nelle nostre percezioni e nelle valutazioni della realtà e delle situazioni che viviamo.

 Prendere consapevolezza dell’esistenza di questo fenomeno è molto importante poiché, a livello individuale, esso ha rilevanti implicazioni per la salute mentale. Chi è soggetto a questo bias in maniera particolarmente accentuata, infatti, può sviluppare pensieri molto rigidi sulla sua persona, con conseguenti aspettative e standard eccessivamente elevati sulle proprie performance uniti a una grande paura di fallire e di non riuscire a colpire positivamente le altre persone. Sforzarsi di proiettare sempre la migliore immagine di sé stessi, se da un lato è un ottimo stimolo a impegnarsi e a dare sempre il massimo, dall’altro purtroppo rende il soggetto in questione estremamente dipendente dall’opinione e dal giudizio altrui.

Effetto spotlight e ansia sociale

Coloro che soffrono di fobia sociale, poi, tendono con ulteriore facilità a sentirsi “sotto i riflettori” e a sviluppare credenze molto negative su sé stessi, costruendo standard di performance così elevati da essere praticamente irraggiungibili, e arrivando a dubitare delle proprie capacità di comunicare agli altri un’impressione positiva di sé stessi.

Le credenze disfunzionali possono quindi giocare un ruolo cruciale per la nostra salute psichica, ed è per questo che diverse strategie di de-biasing sono oramai parte integrante di molte terapie come ad esempio la terapia cognitivo-comportamentale, la quale si pone come primario obiettivo quello di identificare e correggere le concettualizzazioni distorte e di monitorare i pensieri negativi ricorrenti per sostituirli con interpretazioni cognitive maggiormente orientate alla realtà della situazione.

Dunque, dal momento che ognuno di noi fa dei propri pensieri, delle proprie sensazioni e della propria mente la principale misura di riferimento delle proprie esperienze, è facile rischiare erroneamente di dare per scontato che ciò che è saliente e importante per noi lo sia automaticamente anche per gli altri.

Prendere consapevolezza dell’esistenza dell’effetto Spotlight e delle insidie che esso può generare quando prende eccessivamente il sopravvento nella nostra vita può essere un primo grande passo per rafforzarci e invitarci a preoccuparci un po’ meno dei nostri difetti e delle nostre insicurezze imparando gradualmente ad affrontarli e ad accettarli, con un conseguente miglioramento della nostra autostima, della nostra salute mentale e della nostra quotidianità, a partire dalle più piccole azioni e abitudini.

Gamification: applicazione e implicazioni cliniche 

Con il termine gamification si intende l’applicazione di elementi tipici del gioco in ambiti non ludici. La gamification è diventata uno strumento nell’ambito di ricerca sulla salute per la sua potenziale capacità di motivazione al cambiamento. Infatti, il gioco per definizione è caratterizzato da un obiettivo da raggiungere seguendo determinate regole, tramite la partecipazione attiva del giocatore. La letteratura ha evidenziato come, nell’ambito sanitario digitale (e-Health), la gamification venga impiegata soprattutto per la riabilitazione di patologie croniche, e più in generale per l’incremento dell’attività fisica e della salute mentale.

Introduzione al concetto di gamification

 I giochi hanno la capacità di coinvolgere e motivare le persone che ne fa fanno uso e, proprio per questo, negli ultimi anni si è diffuso un nuovo ambito di applicazione, non più puramente ludico e di intrattenimento. Con il termine gamification si intende l’applicazione di elementi tipici del gioco in ambiti non ludici (Cheng et al., 2019). Questo concetto è tendenzialmente legato all’ambito dei serious games, ovvero i videogiochi sviluppati per uno scopo che non implichi soltanto il divertimento dei giocatori (Micheal & Cheng, 2005). Negli ultimi anni, il fenomeno ha attirato l’attenzione della comunità di ricerca sulla salute, per la sua potenziale applicazione in quest’ambito, grazie alla sua capacità di motivazione al cambiamento (Cugelman, 2013). Infatti, la caratteristica fondamentale dei serious game è proprio la capacità di coinvolgere e motivare in attività che non siano di puro intrattenimento (Ricciardi & Paolis, 2014).

La componente ludica è comunque sempre presente e funge da spinta motivazionale. Essa può essere applicata a svariati contesti di riferimento come, per esempio, la guida sicura, le fobie, la sensibilizzazione all’ecologia, l’incitamento a uno stile di vita meno sedentario. Ad oggi, lo studio dei meccanismi alla base della gamification è ancora in via di sviluppo ma in letteratura è stato evidenziato come il meccanismo cardine sia proprio la motivazione: sfide da superare, regole da seguire, progressi da monitorare, feedback basati sui punteggi e classifiche (Cugelman, 2013) sono tutti elementi che motivano l’utente a continuare il gioco tramite partecipazione attiva (Dominguez et al., 2013), fino al raggiungimento dell’obiettivo, che implicherà un rinforzo positivo (Schunk et al., 2010).

Applicazione in ambito clinico

In ambito clinico, la gamification è una tecnica utilizzabile nei training cognitivi e costituisce un’alternativa alla riabilitazione tradizionale, poiché implica un maggior coinvolgimento e una maggior spinta motivazionale. In ambito riabilitativo, il training cognitivo è un programma basato su esercizi mentali, che mirano a sviluppare diverse facoltà cognitive, come la memoria, e possono essere individuali o di gruppo (Clare & Woods, 2004). Un ambito di applicazione risulta essere quello dei disturbi neurocognitivi. Infatti, la letteratura ha evidenziato numerosi benefici dovuti all’applicazione di queste strategie di training: aumento della capacità e delle prestazioni a carico della memoria lavoro, sviluppo di nuove strategie mnemoniche, miglioramento della velocità di elaborazione delle informazioni e delle funzioni esecutive.

Inoltre, la letteratura mostra come, nell’ambito sanitario digitale (e-Health), la gamification venga impiegata soprattutto per la riabilitazione di patologie croniche, e più in generale per l’incremento dell’attività fisica e della salute mentale, come accennato in precedenza (Sardi et al., 2017).

Evidenze di efficacia

 Il meccanismo del videogioco, infatti, stimolerebbe il mantenimento della concentrazione e delle capacità di problem solving, portando le persone a trovare soluzioni nuove e innovative, in aggiunta ad un aumentato senso di motivazione verso lo scopo finale (Lumsden et al., 2016). Nello specifico, diversi studi hanno provato l’efficacia del training cognitivo tramite serious game, sia per quanto riguarda la memoria visuospaziale, sia per quanto riguarda il deterioramento cognitivo, tipico, per esempio, dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer (Cavallo et al, 2016; Boccia et al., 2016).

Limitazioni

Anche se la gamification viene solitamente associata ad alto coinvolgimento e divertimento, questo non significa necessariamente una maggior motivazione d’impegno (Rigby, 2014).

In ambito scientifico, la critica che viene mossa più frequentemente a questo nuovo ambito di ricerca è che la gamification utilizza un approccio prettamente comportamentale basato sul rinforzo positivo e fattori motivazionali esterni (Cheng et al., 2019).

Malgrado questo, i promotori della gamification insistono nel sottolinearne i vantaggi: economicità, accessibilità e flessibilità.

 

Terapia dei sistemi familiari interni (2023) di Richard C. Schwartz e Martha Sweezy – Recensione

La traduzione del libro “Terapia dei sistemi familiari interni” per Raffaello Cortina è stata curata da Matteo Selvini, uno degli esponenti di punta della terapia familiare.

 

 La terapia dei sistemi familiari interni (IFS) considera la psiche come un ambiente relazionale popolato da parti e guida a ricercare le interazioni di questa popolazione interna. Ogni parte ha una storia e recita un ruolo, interagisce con le altre parti nel sistema interno. La parte vulnerabile, la parte critica, la parte protettrice si alternano e vivono le relazioni in funzione di criticità da affrontare, a volte in modo estremo e distruttivo.

Il percorso è un’esplorazione del mondo interno fatto di protettori, pompieri, manager con i loro fardelli che si trascinano nel tempo a causa di traumi, abusi, maltrattamenti, disinteresse e si trasferiscono di generazione in generazione.

“Nei venti capitoli del libro gli autori, mostrano e spiegano le sfumature e le implicazioni dell’affiancare la consapevolezza del Sé – la nostra saggia sede della coscienza e origine della conduzione interna – a una consapevolezza della nostra molteplicità psichica. I capitoli illustrano le tecniche tramite dialoghi esplicativi commentati, con numerosi box riassuntivi riportanti gli elementi chiave”.

La prima parte del libro ripercorre lo sviluppo della terapia sistemica e familiare, fino alla scoperta della mente relazionale costituita di parti e voci che si confrontano e scontrano. L’obiettivo è sviluppare nei sistemi umani quattro principi: equilibrio, armonia, conduzione e sviluppo.

Il lavoro terapeutico, illustrato nel volume attraverso casi clinici, consiste nel far sì che le parti – svolgano un ruolo protettivo attivo (manager) o reattivo, siano parti sensibili (esiliati), o parti che lottano contro le parti esiliate (pompieri) – lascino lo spazio alla conduzione del sé per arrivare a una maggiore continuità e integrazione. Le parti non scompaiono, sono i ruoli estremi che cessano di avere una forte presenza. I ruoli estremi sono legati allo sviluppo personale degli individui, alle interazioni familiari, ai traumi che congelano alcune parti condizionando l’armonia e l’equilibrio del sistema interno di una persona. Quando le parti si congelano nel passato, si caricano di fardelli e assumono la conduzione, le loro relazioni interne passano dall’armonia al conflitto.

 Per Schwartz e Sweezy i sistemi interni possono curarsi da sé, se il terapeuta è in grado di creare un ambiente sicuro e affettuoso, indirizzando la persona in determinate direzioni. La relazione tra il Sé del paziente e le parti del paziente è l’elemento primario di guarigione, quindi il terapeuta ha il compito di favorire l’accesso del paziente al proprio sé.

La seconda parte del volume suggerisce le tecniche da utilizzare nella terapia individuale per identificare le parti e le loro funzioni e per consentire un dialogo che riconosce ad ognuna un ruolo armonico ed equilibrato.

Nella terza parte si illustra la terapia dei sistemi familiari interni con le famiglie, le coppie e i sistemi più ampi, mentre nell’ultima sono riportati i risultati di alcune ricerche sull’efficacia della terapia dei sistemi familiari interni.

Una lettura interessante quella di “Terapia dei sistemi familiari interni” che ci introduce in quel mondo interiore fatto di parti che spesso non riescono a convivere senza conflitti e che possono essere contenute se il Sé con le sue caratteristiche (curiosità, calma, chiarezza, connessione, fiducia, coraggio, creatività e compassione) riesce a metterle in relazione in modi che consentano loro di sentirsi viste, abbracciate, nutrite, protette e, quando necessario, messe alla prova o limitate amorevolmente.

Il lavoro di Schwartz e Sweezy ha molte similitudini con altri approcci che si occupano di trauma e disturbi dissociativi. Anche la Mosquera (2022), ad esempio, illustra procedure e tecniche su come aiutare il paziente a sviluppare il proprio Sé adulto, esplorare il sistema interno e comprenderne il conflitto interiore, come lavorare con le parti e le voci problematiche. Alcune questioni che affronta sono analoghe a quelle contenute nel volume di Schwartz e Sweezy: differenziazione tra realtà esterna e interna, co-coscienza per integrare le parti e le voci e integrazione delle stesse. La principale differenza che ci sembra vada sottolineata riguarda lo status delle parti. In “Terapia dei sistemi familiari” sono innate e rappresentano vere e proprie personalità che si caricano di fardelli, mentre in “Voci e parti dissociative” il mondo interno del paziente popolato di voci e parti è generato dal trauma sia esso con la T maiuscola o la t minuscola.

Vulvodinia: caratteristiche psicologiche e risvolti negativi di una neuropatia fortemente diffusa

La vulvodinia, conosciuta anche come vestibulodinia o vestibulite vulvare, è un disturbo neuropatico (ossia un disturbo dovuto ad una lesione o a un malfunzionamento dei nervi del sistema nervoso periferico o centrale), che colpisce circa il 10-15% delle donne in età fertile o in post menopausa (Stockdale & Lawson, 2014), in rapporto di 1 donna su 7.

Cos’è la vulvodinia?

 La vulvodinia è definita dall’International Society for the Study of Vulvovaginal Disease (ISSVD, 2003) come disagio vulvare, con assenza di segni evidenti o di un disturbo neurologico (Bonstein et al., 2015). La donna di solito lamenta bruciore e/o dolore persistente, fastidio intenso e irritazione, che si verificano all’ingresso della vagina e nella zona circostante, ossia la vulva, la parte esterna dei genitali femminili. Inoltre, vengono descritte sensazione come di spilli, ferite o lacerazioni. Di solito, il dolore può presentarsi anche con fitte o scosse, fino ad estendersi a glutei, ano e interno cosce. Può avere origine spontanea o provocata, data perciò da sfregamento o contatto, come avviene durante un rapporto sessuale con penetrazione, quando si praticano sport come ciclismo, equitazione, spinning, oppure con l’inserimento di tamponi o di ovuli vaginali. Spesso anche stare seduti, incrociare le gambe o indossare indumenti troppo stretti può innescare o peggiorare il dolore.

Tale patologia è spesso associata anche al vaginismo, ossia dolore e difficoltà alla penetrazione della vagina, causati dall’involontaria contrazione muscolare. Esistono altre condizioni ad essa associabili, come la cistite interstiziale, i dolori mestruali o la sindrome del colon irritabile.

Una patologia ad oggi sempre più riconosciuta

La vulvodinia è stata fino a non molto tempo fa una patologia invisibile, quasi sconosciuta, e quindi complessa da diagnosticare. Da una ricerca condotta nel 2020 dall’Associazione Italiana Vulvodinia su alcune donne italiane, è stato constatato come l’impatto della vulvodinia sulla vita di chi ne soffre sia molto forte. Molte donne ricevono la diagnosi con anni di ritardo rispetto ai sintomi, e solo dopo aver consultato almeno tre specialisti. Le problematiche per la risoluzione di tale condizione sono diverse; infatti, molte donne sono costrette a spostarsi e a viaggiare per curarsi da un esperto specializzato e qualificato e, inoltre, i costi delle cure sono elevati e non tutte possono sostenerli. Tuttavia, il fattore sicuramente più invalidante e forte, che costringe spesso a rinunce nella vita quotidiana, è il dolore.

Oggi la vulvodinia è una patologia che sta avendo anche in Italia l’attenzione meritata, grazie anche ad alcune attiviste, come Giorgia Soleri, che vivono spesso in prima persona la patologia, o a programmi come Le Iene, che hanno rotto il silenzio su questa condizione.

Affinché patologie come la vulvodinia vengano riconosciute come vere e proprie patologie, il 3 maggio 2022 è stata avanzata una proposta di legge alla Camera dei Deputati per il riconoscimento di tale patologia tra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) del Servizio Sanitario Nazionale. Viene richiesto quindi il riconoscimento di tali patologie tra le malattie croniche e invalidanti e, inoltre, è stata proposta la creazione di centri specializzati in ogni regione d’Italia e l’istituzione di una Commissione Nazionale che stili delle linee guida di diagnosi e cura.

Le difficoltà del convivere con una patologia così invalidante e dolorosa

Imparare a vivere con un dolore cronico come quello che caratterizza tale disturbo è molto complesso. Nello specifico, i sintomi della vulvodinia la rendono una malattia invalidante, che riduce la qualità della vita della donna che ne soffre.

I fattori psicologici sono correlati alla vulvodinia in maniera bidirezionale e possono quindi essere causa come anche conseguenza.

Tra i fattori di natura psicologica che possono predisporre alla vulvodinia vi sono i traumi sessuali e/o la familiarità per disturbi psicologici e della sfera sessuale (Puliatti et al., 2010). Altro fattore che ha un forte ruolo nel mantenimento del dolore cronico vulvare è la ruminazione mentale a seguito di un evento traumatico, come un abuso sessuale (Khandker et al., 2019).

D’altro canto, la vulvodinia comporta anche conseguenze a livello psicologico, perché compromette il benessere di chi ne soffre e ne influenza la qualità e lo stato di vita. Nonostante ciò, solamente pochi studi negli anni hanno evidenziato quali siano gli effetti psicologici che questa malattia ha sulla salute psicofisica delle donne che ne soffrono. Infatti, la sofferenza psichica provata porta a diverse ripercussioni negative a livello emotivo ma anche sul benessere soggettivo (Arnold et al., 2006). Si possono verificare livelli significativi di distress psicologico in domini come quelli di somatizzazione, ansia, stress, sintomi fobici, paranoia e, inoltre, difficoltà relazionali e sessuali, con peggioramento generale della qualità della vita di chi ne soffre. Inoltre, nei casi più complessi e gravi si può innescare una depressione reattiva, una forma di depressione che può comparire in risposta ad un evento stressante specifico (Wylie et al., 2004).

Secondo la letteratura (Plante & Kamm, 2008) le donne che soffrono di una patologia dolorosa e complicata come la vulvodinia hanno maggiori difficoltà a livello emotivo ed affettivo, ma anche per quanto riguarda la messa in atto di strategie per fronteggiare i problemi, rispetto alle donne che non hanno avuto tale diagnosi. Queste donne si sentono troppo spesso incomprese e giudicate come esagerate o mitomani, questo perché si tende a minimizzare i loro sintomi, oppure perché vengono ricondotti a una sindrome psicosomatica. È stato evidenziato che la difficoltà che queste donne hanno nel rapporto con loro stesse e con il loro corpo è traumatico; infatti, spesso le donne che soffrono di un tale disturbo si riferiscono come “rotte”, dicono di sentirsi “difettose”, e ovviamente tutto ciò ha importanti ripercussioni sull’immagine di sé stesse e sull’autostima (Kaler, 2006). La patologia ha dei risvolti negativi anche a livello relazionale e questo può comportare l’evitamento di alcune situazioni sociali, il sentirsi incomprese, la chiusura in sé, fino al disagio e al senso di colpa verso il partner. Le donne che soffrono di vulvodinia, ma anche di patologie ad essa correlate, raccontano che spesso il dolore mina la loro sicurezza nella messa in atto di alcuni ruoli sociali, come quello di amante o madre, ma anche genericamente di donna.

La vulvodinia si configura come un ostacolo alla realizzazione del ruolo sessuale di partner, infatti, il piacere e il desiderio sessuale sono inibiti dai forti dolori provati durante i rapporti (dispaurenia), che inficiano la serenità a livello intimo. Tutto ciò viene ancor di più complicato dal crearsi di una specie di circolo vizioso che parte dalla paura del dolore, che a sua volta porta all’irrigidimento dei muscoli vaginali e tutto questo rende la penetrazione ancora più dolorosa. Quindi, la donna, a causa dei dolori intollerabili, può voler completamente evitare di avere rapporti sessuali e ciò ha ripercussioni nella relazione con il partner e può minare l’autostima anche nella relazione. Reed e colleghi (2000) hanno affermato che alcune donne si vedono in modo più negativo come partner sessuali e meno desiderabili, definendosi persino come “sessualmente incompetenti”. Altre donne si sentono maggiormente limitate anche nell’adempiere a un altro compito unicamente femminile, ossia la maternità. È stato infatti sottolineato come queste donne abbiano maggior paura del parto a causa del dolore (Katz, 1995; Kaler, 2006), ma anche nell’affrontare la gravidanza stessa.

La gestione della vulvodinia su più fronti e il supporto psicologico

Nonostante tutto ciò, bisogna ricordare che la vulvodinia si può gestire, sia a livello fisico che psicologico. Innanzitutto, una diagnosi precoce è essenziale ed è ciò a cui in primis si deve puntare per dare un nome e riconoscere l’esistenza di un quadro sintomatologico di cui si soffre, per uscire dallo stato di incomprensione e iniziare il trattamento specifico della malattia, così da limitarne le conseguenze. In tutto ciò, la psicologia può essere un valido aiuto per le donne a cui viene diagnosticata questa neuropatia.

 Lavorare sulla vulvodinia vuol dire lavorare a più livelli: farmacologico, fisioterapico, alimentare ma anche psicologico (Corsini-Munt et al., 2017). Infatti, lavorare sull’aspetto psicologico del disturbo è molto importante per trovare risposte e soluzioni a domande che non possono essere trattate con l’uso di farmaci. Sembra essere efficace iniziare un percorso di psicoterapia, così le pazienti potranno far fronte alle problematiche psicologiche correlate alla patologia (ansia, emozioni negative, senso di inferiorità e inadeguatezza, etc.), imparare a gestire e alleviare il dolore attraverso tecniche di rilassamento come training autogeno e, inoltre, si potranno aiutare sia la donna che l’eventuale coppia ad elaborare possibili difficoltà di tipo sessuale. Quindi, è importante che la donna che soffre di una patologia così intensa trovi uno spazio definito e specifico in cui sentirsi ascoltata e sostenuta. Infatti, attraverso il dialogo e con il supporto dello psicoterapeuta ogni donna può esprimere liberamente come si sente, quali sono le difficoltà che incontra quotidianamente e cosa pensa della sua condizione, oltre che spiegare come lei stessa la vive e come crede che la vivano le persone che la circondano.

I trattamenti psicologici a cui le pazienti con vulvodinia possono sottoporsi sono individuali, ma anche di gruppo. Per quanto riguarda la terapia psicologica di tipo individuale, essa vede una prima fase di valutazione a livello globale della donna e una seconda fase di intervento vero e proprio. Invece, il percorso psicologico di gruppo avviene con un numero di soggetti tra gli 8-10 massimo, con la condivisione da parte delle donne della problematica. Il potere terapeutico del gruppo sta proprio nella condivisione delle esperienze della malattia.

Da tempo sembra che la psicoterapia funzionale stia ottenendo risultati incoraggianti nei casi di dolore cronico, come quello della vulvodinia, proprio per il suo intervento integrato e globale che coinvolge i vissuti, le emozioni ma anche ciò che riguarda il funzionamento fisiologico e posturale-muscolare. Perciò, con questo tipo di psicoterapia, la donna viene trattata e compresa nella sua globalità: mente e corpo. Alcuni studi (Turk e Meichenbaum, 1989) affermano che la psicoterapia cognitivo-comportamentale può aiutare le persone ad affrontare l’impatto che la vulvodinia, o altre condizioni di dolore cronico, ha sulle loro vite. Questa terapia mira ad aiutare le persone a gestire il dolore e i problemi personali, cercando di intervenire sul modo in cui pensano e agiscono.

Il panorama cognitivo-comportamentale è stato di recente ampliato grazie a due nuove modalità di trattamento: la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990) e l’Acceptance and Committment Therapy (ACT, Hayes et al., 1999). Questi due modelli, a differenza della psicoterapia cognitivo-comportamentale classica, si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico.

In particolare, il National Institute for Clinical Excellence (NICE) afferma che il modello psicoterapico più efficace per la gestione del dolore cronico, come per la vulvodinia, è l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy). Sembra che tale modello aiuti il paziente a una maggior adesione terapeutica e aumenti l’efficacia del farmaco utilizzato, agendo sul dolore e sulla sua percezione e aumentando la consapevolezza sulla necessità di aderire correttamente alla terapia (Deledda, 2022).

Inoltre, la consulenza psicosessuale è utile quando il dolore condiziona l’intimità nella relazione, perché aiuta ad affrontare problemi come paura e ansia durante il sesso e a ristabilire una relazione fisica con il partner.

Le sensazioni che affliggono le donne con questo tipo di patologia sono molte con cui fare i conti ogni giorno ed è questo il motivo per cui, dopo essersi rivolte ad un ginecologo, è importante trovare il coraggio di intraprendere un percorso psicologico per capire insieme ad uno specialista come affrontare il problema.

 

La crisi della salute mentale tra gli adolescenti statunitensi

Depressione, autolesionismo e suicidio sono in aumento tra gli adolescenti americani. Il New York Times ha trascorso più di un anno intervistando gli adolescenti, le loro famiglie e gli esperti di salute mentale e sviluppo infantile sulla crisi della salute mentale tra gli adolescenti, che numerosi gruppi di ospedali e medici hanno definito “un’emergenza nazionale”. Il risultato è un progetto in più parti intitolato “The Inner Pandemic”, di cui l’articolo principale “It’s Life or Death: The Mental Health Crisis Among U.S. Teens”, esplora i fattori potenzialmente responsabili di questa crisi.

Introduzione

 “Una sera dello scorso aprile, una ragazzina di 13 anni, ansiosa e libera, nella periferia di Minneapolis, è schizzata via da una sedia del soggiorno ed è scappata di casa, uscendo da una porta scorrevole, attraversando il patio, il cortile e il bosco. Qualche istante prima, la madre della ragazza aveva dato un’occhiata allo smartphone della figlia. L’adolescente, infuriata per l’intrusione, aveva afferrato il telefono ed era fuggita.”

Il noto quotidiano americano presenta la crisi attraverso la storia di M., una delle decine di ragazzi a cui si è rivolto per esplorare la natura mutevole dell’adolescenza negli Stati Uniti. Accanto a M. la madre, Linda, riferisce l’apprensione provocata dalle foto che aveva visto sul telefono. Alcune mostravano sangue sulle caviglie di M. dovuto a un atto autolesionistico. È così che Linda e suo marito si resero conto di far parte di un club poco invidiabile: genitori sconcertati di un’adolescente in profonda difficoltà. Non molto tempo prima della notte in cui M. è fuggita nella foresta, Linda è stata scossa dalla notizia che una ragazza del posto era morta suicida.

Le statistiche attuali

L’adolescenza americana sta subendo un drastico cambiamento. Tre decenni fa, le minacce più gravi per il benessere degli adolescenti negli Stati Uniti provenivano dal binge drinking, dalla guida in stato di ebbrezza, dalle gravidanze e dal fumo. Da allora queste minacce sono diminuite drasticamente, sostituite da una nuova preoccupazione per la salute pubblica: l’impennata dei tassi di disturbi mentali. Nel 2019, il 13% degli adolescenti ha dichiarato di aver avuto un episodio depressivo maggiore, con un aumento del 60% rispetto al 2007. Anche le visite al pronto soccorso di bambini e adolescenti in quel periodo sono aumentate notevolmente per ansia, disturbi dell’umore e autolesionismo. E per le persone di età compresa tra i 10 e i 24 anni, i tassi di suicidio, stabili dal 2000 al 2007, sono aumentati di quasi il 60% nel 2018.

L’impatto dei social media

Il declino della salute mentale tra gli adolescenti si è intensificato con la pandemia di Covid. Numerosi ospedali e gruppi di medici hanno definito la crisi un’emergenza nazionale, citando l’aumento dei livelli di malattia mentale, la grave carenza di terapeuti e di trattamenti e l’insufficienza della ricerca per spiegare la tendenza. La crisi è spesso attribuita all’aumento dei social media, ma i dati concreti sul tema sono limitati, i risultati sono sfumati, spesso contraddittori e alcuni adolescenti sembrano essere più vulnerabili di altri agli effetti del tempo trascorso sullo schermo. La ricerca, infatti, mostra che gli adolescenti dormono meno, fanno meno esercizio fisico e trascorrono meno tempo di persona con gli amici – tutti elementi cruciali per uno sviluppo sano – in un periodo della vita in cui è tipico mettere alla prova i limiti ed esplorare la propria identità. Il risultato per alcuni adolescenti è una sorta di implosione cognitiva: ansia, depressione, comportamenti compulsivi, autolesionismo e persino suicidio.

La ricerca dell’identità e la solitudine

 Nel corso dell’ultimo secolo, l’età di inizio della pubertà si è notevolmente abbassata per le ragazze, passando dai 14 anni del 1990 ai 12 anni di oggi; l’età di inizio della pubertà per i ragazzi ha seguito un percorso simile. Gli esperti affermano che questo cambiamento gioca probabilmente un ruolo nella crisi della salute mentale degli adolescenti. Quando arriva la pubertà, il cervello diventa ipersensibile alle informazioni sociali e gerarchiche, anche se i media lo inondano di opportunità per esplorare la propria identità. L’abbassamento dell’età della pubertà ha creato un divario crescente tra gli stimoli in arrivo e ciò che il cervello dei giovani può elaborare.

L’ossessione romantica di M. era un personaggio dell’anime Genocide Jack, una ragazza bruna che uccide i compagni di scuola con le forbici. Linda aveva visto M. entrare in un tunnel di depressione grave, autolesionismo e un tentativo di suicidio. Nell’intervista la ragazza riferisce di aver riflettuto a lungo sui pronomi e attualmente preferisce “loro”. La dottoressa Emily Pluhar di Harvard ha osservato che “la sfida e il progresso” dell’adolescenza moderna “è che ci sono tanti tipi di identità” – più scelte e possibilità, che a loro volta possono essere schiaccianti. Tra i fattori che influenzano la salute mentale c’è il rimuginio, che per M. aveva un nome: “solitudine”. Un fattore chiave, secondo gli esperti, è l’aumento della solitudine. Studi recenti hanno dimostrato che gli adolescenti negli Stati Uniti e in tutto il mondo riferiscono di sentirsi sempre più soli, anche in un periodo in cui l’uso di Internet è esploso.

Conclusione

Gli esperti della salute mentale notano che ad oggi, nonostante il suo peso, la crisi adolescenziale si sta manifestando in un ambiente più protetto. Questioni relative alla salute mentale si sono liberate in gran parte dello stigma che portavano con sé tre decenni fa, e sia i genitori sia gli adolescenti sono più a loro agio quando discutono dell’argomento e cercano aiuto. Ma questa impennata ha sollevato interrogativi. Si tratta di problemi intrinseci all’adolescenza, che prima non venivano semplicemente riconosciuti, oppure oggi vengono diagnosticati in modo eccessivo? I confronti storici sono difficili, poiché alcuni dati relativi a sofferenze come l’ansia e la depressione adolescenziale hanno iniziato a essere raccolti relativamente di recente. I tassi crescenti di visite al pronto soccorso per suicidio e autolesionismo lasciano pochi dubbi sul fatto che la natura fisica della minaccia sia cambiata in modo significativo e che sia necessario agire per contrastarla.

Declinazioni del trauma (2023) di Laura Porta – Recensione

Nel lavoro clinico, spiega Laura Porta nel suo libro “Declinazioni del trauma”, è importante uscire da un paradigma che concepisce il trauma solo nella prospettiva del rapporto tra la vittima e il carnefice e in questo frangente entra in giro il concetto di fantasma, ripreso dall’opera di Freud e l’insegnamento di Lacan.

 

 Ci sono diverse ragioni per sottolineare l’importanza del libro “Declinazioni del trauma. Esiti destrutturanti e tentativi di simbolizzazione” di Laura Porta. Nel suo lavoro l’autrice riprende l’opera di Freud e giunge fino alle prospettive della psicoanalisi contemporanea, esplorando in profondità anche quei contributi di ricerca che provano a costruire dei ponti tra psicoanalisi e neuroscienze. In particolare la Dottoressa Porta, che è una psicoanalista di formazione lacaniana, intreccia due filoni di studi che nella psicopatologia di orientamento psicodinamico si sono sviluppati su due binari paralleli: da un lato la tradizione che prende le mosse dalla prospettiva Freud e Lacan e dall’altro le prospettive che trovano le loro basi nelle teorizzazioni di Janet e Ferenczi.

Il panorama attuale sembra apparentemente diviso tra coloro che si proclamano seguaci di Freud e che mettono in valore il meccanismo della rimozione e coloro che invece seguono Janet e si occupano delle esperienze dissociative. La fenomenologia clinica però è più complessa perché a volte il confine e la distinzione tra dissociazione e rimozione sembra sfumare: i casi clinici affrontati secondo la logica della singolarità, uno per uno, mostrano infatti una problematicità che non si lascia risolvere attraverso rigidi schematismi.

Trauma reale e trauma fantasmatico

Il lavoro di Laura Porta risulta allora molto utile perché ci permette di affrontare questi dilemmi teorici e clinici focalizzando l’attenzione sulle differenti declinazioni del trauma. L’autrice è molto precisa sia nel distinguere i traumi sia nel distinguere i meccanismi di difesa specifici che possono essere messi in atto rispetto ai traumi. Nel libro non si parla del trauma in modo generalizzato, ma viene distinto il “trauma reale”, il trauma che è avvenuto realmente nella storia del soggetto, dal “trauma fantasmatico”.

Il trauma reale non lascia scampo alle possibilità del soggetto di costruire uno scenario interiore e un corteo di simboli con cui dare significato a quello che è successo. Il trauma fantasmatico non nega l’esistenza di un trauma realmente accaduto e si configura come una sorta di riconfigurazione simbolica dell’evento realmente accaduto.

Il trauma reale azzera o riduce drasticamente le possibilità di simbolizzazione del soggetto, il trauma fantasmatico si presenta invece come il frutto di un’elaborazione inconscia del soggetto.

Potremmo tradurre la differenza tra queste due declinazioni del trauma sottolineando da un lato il trauma reale e dall’altro la fantasmatizzazione del trauma. Nel primo caso la dimensione simbolica viene compromessa nel suo sorgere, nel secondo caso invece il soggetto riesce ad appoggiarsi alle possibilità offerte dall’ordine simbolico per transitare da una posizione di oggetto a una di soggetto. In tal senso, la fantasmatizzazione del trauma è una risposta del soggetto e si configura come un balbettio di soggettivazione di un’esperienza reale.

Grazie a questa distinzione la Dott.ssa Porta stimola l’attenzione dei clinici che non si accorgono dell’importanza di una certa clinica del trauma e della dissociazione, dove cioè il trauma è effettivamente avvenuto e dove bisogna lavorare affinché il soggetto possa umanizzare la sua vita.

Il trauma reale comprende esperienze molto diverse tra loro: il lutto, l’abbandono, l’odio da parte dell’altro, l’abuso, la confusione delle lingue tra tenerezza ed erotismo (a questo proposito la Dr.ssa Porta fa diversi riferimenti a Ferenczi e, in particolare, al saggio sulla “confusione delle lingue”). I traumi reali scaturiscono anche da fenomeni naturali e ancor di più da quegli accadimenti collettivi che negano l’umanità di chi ne viene travolto. Sono momenti dove scompare ogni possibilità di simbolizzazione e il lavoro del clinico è quello di restituire – o forse potremmo dire “istituire”? – una trama simbolica per ciò che interrompe la possibilità di costruire ogni trama. Si tratta di un lavoro che cerca di portare la luce della parola in un’esperienza che sovrasta ogni possibilità di rappresentazione del soggetto.

La terza dimensione: il concetto di fantasma in Freud e Lacan

Nel lavoro clinico è importante uscire da un paradigma che concepisce il trauma solo nella prospettiva del rapporto tra la vittima e il carnefice, tra l’evento traumatico e il soggetto che lo subisce. A questo proposito l’autrice inserisce quella che chiama una “terza dimensione”. E in questo frangente convoca il concetto di fantasma riprendendo l’opera di Freud e l’insegnamento di Lacan.

 Il fantasma è l’interpretazione che il soggetto dà al suo posto nella relazione con l’Altro. Il fantasma è la costruzione che il soggetto elabora riguardo al posto che ha occupato nella relazione con l’Altro. Quindi per il soggetto c’è trauma reale quando viene azzerata la possibilità di costruire il proprio fantasma. Il trauma reale segna l’impossibilità di costruire una propria posizione attiva, attiva nel senso che è capace di dare significato a quello che sta succedendo. La dimensione del fantasma apre dunque la possibilità di simbolizzazione dei vissuti generati dal trauma reale.

Va sottolineato però che la costruzione del fantasma, sebbene offra al soggetto una posizione simbolica nella relazione con l’Altro, mostra una ripetitività che si traduce in rigidità. Il fantasma è uno schema interpretativo poco flessibile che rende la posizione simbolica del soggetto poco permeabile ai cambiamenti. Quindi il fantasma da un lato toglie al soggetto la sensazione angosciosa di essere in balia del trauma reale, dall’altro però lo fissa a uno schema relazionale che lascia poco spazio alla dimensione trasformativa dell’incontro.

Il fantasma permette al soggetto di ripararsi dall’eccesso del reale, ma allo stesso tempo fissa il soggetto alla ripetitività di uno schema interpretativo. Esiste infatti una declinazione psicopatologica del fantasma che rinchiude il soggetto in una realtà troppo rigida. In questi casi allora il lavoro psicoanalitico è chiamato a perturbare quella postazione fantasmatica a partire da cui il soggetto percepisce sé stesso e gli altri. Di fronte alla ripetizione dello schema fantasmatico l’esperienza del trauma –intesa non come annichilimento del soggetto, ma come discontinuità che interrompe la ripetizione di una trama– diventa necessaria perché apre l’opportunità per riformulare in modo nuovo uno schema diventato troppo rigido. È questa la scommessa di un professionista che non vuole leggere il trauma soltanto come un evento reale, come un eccesso non simbolizzabile, ma anche come un’occasione per una nuova costruzione simbolica. In questo snodo teorico e clinico Laura Porta tiene insieme due tradizioni psicodinamiche, quella di Freud e Lacan e quella di Janet e Ferenczi, e realizza questo intreccio presentando anche dei casi clinici.

Alla fine del libro troviamo un ulteriore passo in avanti in cui la Dott.ssa Porta ci mostra, attraverso lo studio di un contributo autobiografico della filosofa Annie Leclerc, come possa avvenire la trasformazione simbolica del trauma reale. La scrittura autobiografica apre la possibilità per assumere una posizione attiva e creativa di fronte al trauma. Anche in questo capitolo finale la Porta ci permette di osservare l’importanza di una clinica dell’uno per uno, che pone cioè attenzione al caso per caso, alla singolarità. Parlare delle declinazioni del trauma vuol dire che ogni trauma va ascoltato come unico, ma per poterlo cogliere nella sua unicità è necessario un modello teorico di riferimento, un modo per fare posto all’unicità. È in questa attenzione al caso per caso che ritroviamo il punto di annodamento tra la posizione etica dell’autrice e l’originalità della sua proposta teorica e clinica.

 

La concettualizzazione del caso secondo il modello diatesi-stress attraverso la LIBET

Nella terapia cognitivo-comportamentale, la formulazione del caso si fonda sul modello diatesi-stress secondo cui la vulnerabilità ai disturbi emotivi viene precipitata da condizioni stressanti. La LIBET, una procedura di formulazione e condivisione del caso che si basa su questo modello, è stata recentemente validata a livello scientifico.

La formulazione del caso in TCC: il modello diatesi-stress

In terapia cognitivo comportamentale la formulazione condivisa del caso è la procedura attraverso cui il terapeuta si accerta e condivide con il paziente una data spiegazione psicologica del suo disturbo emotivo e fornisce un razionale per specifici interventi di carattere cognitivo-comportamentale.

Nella terapia cognitivo-comportamentale, la formulazione del caso si fonda sul modello diatesi-stress della sofferenza psicologica proposto da Beck e colleghi (Beck & Bredemeier, 2016; Clark & Beck, 2010; Dobson et al., 2018): tale modello spiega l’esordio del disturbi emotivi in termini di vulnerabilità pregressa che viene precipitata da condizioni stressanti; il disturbo viene mantenuto da schemi cognitivi negativi, credenze sul sé e strategie rigide di coping disfunzionale, che si traducono anche a livello comportamentale (Beck, 2011).

La LIBET

L’acronimo LIBET –  Life themes and plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment è una procedura di formulazione condivisa del caso appartenente al paradigma clinico della psicoterapia cognitivo-comportamentale. L’obiettivo principale di questa procedura è porre al centro dell’attività clinica il processo di condivisione della formulazione, scoprendone l’importanza e di aggiornarla. Con la condivisione della formulazione del caso il terapeuta cognitivo comportamentale gestisce non solo in termini pratici il trattamento del disturbo, ma attiva funzionalmente il processo terapeutico, sia nelle sue componenti specifiche delle terapie cognitive – ovvero l’accertamento e la ristrutturazione delle disfunzionalità cognitive -, ma anche in quelle aspecifiche e comuni ad altre psicoterapie, come la costruzione e la gestione relazionale dell’alleanza di lavoro con il paziente.

L’obiettivo della LIBET è tradurre i concetti clinici cognitivi in termini processuali denominati temi dolorosi e piani semifunzionali. Temi e piani della LIBET sono uno strumento di metarappresentazione dell’attività mentale.

Il tema di vita rappresenta la vulnerabilità emotiva. Il tema doloroso attrae la polarizzazione attentiva, ma in sé è solo una potenzialità patologica. Ciò che conta sono le condotte disfunzionali, sono esse che definitivamente cristallizzano una propensione in una sofferenza. I piani sono eredi dei vecchi circoli viziosi disfunzionali, individuati da Beck, come paura della paura (Beck, Emery, & Greenberg, 1995), da Ellis, come ABC secondario (DiGiuseppe, Doyle, Dryden, & Backx, 2014, pp. 64-65), e da Lorenzini e Sassaroli (1987), come circoli ricorsivi.

La validazione empirica della formulazione del caso LIBET

Lo studio di Sassaroli e colleghi recentemente pubblicato presenta la validazione empirica della formulazione del caso LIBET,  ed è la prima conferma concreta dell’affidabilità di una procedura di formulazione del caso che si  propone come una procedura di formulazione e impostazione di una terapia già affermata, la psicoterapia cognitivo comportamentale, che integra alcune tradizioni, dall’attenzione alle distorsioni comportamentali e cognitive di stampo funzionalista all’interesse per la storia di vita e gli scopi personali di ispirazione evolutiva.

Nell’articolo si descrivono e si validano i primi due assi organizzativi delle variabili LIBET, i “temi di vita” e i “piani semi adattivi”, termini che non si limitano a ribattezzare gli assi classici del modello cognitivo standard di Beck, le credenze centrali e le strategie di fronteggiamento, ma li rielaborano tenendo conto dell’aspetto evolutivo ed esistenziale del significato personale sia delle credenze centrali (che per questo diventano temi di vita) che delle strategie di fronteggiamento (che per questo piani semi adattivi).

Nell’articolo vengono descritti i diversi step implicati nelle fasi di elaborazione teorica, di operazionalizzazione e testing della procedura LIBET:

  • L’elaborazione teorica clinica della procedura: il concetto di formulazione del caso è stato esaminato criticamente dal gruppo di ricerca in interazione con il gruppo clinico di terapeuti, con brainstorming e review della letteratura sul tema;
  • Nel secondo step, dal 2014-2016 sono stati somministrati e videoregistrati i test della procedura LIBET sia tra terapeuti in sessioni peer-to-peer che nelle sedute cliniche con i pazienti, con ulteriori momenti di discussione critica.
  • Nella terza fase, è stata formalizzata una versione preliminare dell’intervista per guidare la procedura, il manuale di somministrazione e una serie di scale per l’assesment dell’aderenza.
  • La validazione della versione finale, in cui è stata pubblicata in italiano e in inglese la versione della intervista LIBET con relativo manuale di somministrazione e scale per assessment dell’aderenza (Sassaroli et al., 2016; Sassaroli et al., 2017a, b; 2021).

Nello studio sono stati coinvolti 86 pazienti ambulatoriali (di cui 53 femmine e 66 maschi; età media 36.89±11.54 anni) reclutati da una popolazione di pazienti in fase di valutazione iniziale per l’inizio di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

I pazienti avevano diagnosi di disturbi psichici secondo il DSM, tra cui depressione o ansia (o entrambi) e dovevano avere un’età maggiore di 18 anni; è stata prevista l’esclusione di pazienti con gravi disturbi psichiatrici e deficit cognitivi.

Lo studio ha utilizzato l’analisi testuale quantitativa (QTA) (Bolden & Moscarola, 2000) per validare la procedura LIBET su un campione clinico di pazienti come sopra descritto; e in particolare per esplorare primi due assi organizzativi delle variabili LIBET, i “temi di vita” e i “piani semi adattivi.

Temi di vita

Riguardo ai temi di vita, dai risultati dell’analisi quantitativa testuale sono stati identificati tre cluster, corrispondenti a tre temi di vita:

  1. il primo che corrisponde a uno stato di vulnerabilità/freezing/panico legato al tema di vita “sentirsi minacciato/inadeguato” o al bisogno di avere un posto di protezione per la propria sicurezza e cura.
  2. Un secondo cluster si riferisce alla tristezza e alla depressione, correlato a un tema di vita di “non amabilità/indeguatezza”, con bisogni esplorativi ostacolati o ambiente protettivo parzialmente e caratterizzato da freddezza emotiva, deprivazione e trascuratezza emotiva.
  3. Il terzo cluster riguarda la vergona e la colpa, legato a un tema di vita di “scarso valore e inadeguatezza”, caratterizzato da uno stile relazionale gravemente critico, controllante e oppressivo, in cui le regole vengono trasmesse in modo moralistico, oppressivo e punitivo.

Piani semiadattivi

D’altro canto, dai risultati delle analisi sono emersi tre clusters che suggeriscono l’esistenza di tre categorie di piani semiadattivi:

  1. il primo cluster che riguarda il piano prudenziale, in cui si tende a evitare le situazioni aversive e minacciose, con la riduzione o assenza di aspetti esplorativi e costruttivi.
  2. Il secondo cluster si riferisce al piano prescrittivo, in cui l’individuo tenta di controllare, prevenire e risolvere gli stimoli aversivi.
  3. Infine, il terzo cluster identificato fa riferimento al piano di immunizzazione, in cui il soggetto cerca di escludere dalla consapevolezza qualsiasi stato doloroso attraverso intense espressioni di rabbia e aggressività a livello interpersonale oppure modalità di autogratificazione o riduzione della consapevolezza (es. abuso di sostanze psicoattive).

In conclusione, i risultati delle analisi effettuate in questo studio confermano il modello diatesi-stress della terapia cognitivo-comportamentale e supportano la validazione della procedura LIBET in quanto procedura di formulazione e condivisione del caso in relazione a specifiche condizioni cliniche di ansia e/o depressione.

Per completare la validazione della procedura LIBET saranno necessari altri passi, come ad esempio la validazione dell’asse dei processi, ulteriore integrazione anche degli aspetti di terza ondata, e l’ampliamento ai disturbi di personalità.

 

8° Convegno Internazionale Autismi – Report dall’evento di Rimini

Report dall’8° Convegno Internazionale “Autismi: Vite ad ampio spettro, multidisciplinarietà e neurodivergenze”, tenutosi a Rimini il 28 e 29 aprile.

 

 L’ottavo convegno internazionale intitolato “Autismi: vite ad ampio spettro, multidisciplinarietà e neurodivergenze” proposto dal Centro Studi Erickson ha visto, dopo gli anni di pandemia, il ritorno alla fruizione in presenza oltre che online. Il numero elevato di partecipazioni, circa 800 in totale, dimostra come oggi più che mai sia presente un’attenzione elevata sulle tematiche riguardanti l’autismo e più in generale la neurodiversità.

Del resto i dati epidemiologici parlano chiaro, l’autismo diventerà una condizione sempre più presente all’interno della nostre famiglie, della scuola, del mondo del lavoro, dell’intera società. È perciò importante costruire a livello istituzionale strumenti e protocolli, anche legislativi, utili a rispondere ai bisogni di una fetta di popolazione sempre maggiore. All’interno del convegno grande spazio è stato dato al tema della multidisciplinarietà come caratteristica imprescindibile di qualsiasi intervento destinato alle persone nello spettro autistico, la cui condizione è caratterizzata da una complessità che richiede una diagnosi precoce e mirata e un supporto adeguatamente strutturato, che includa anche le famiglie, e fortemente orientato ad un progetto di vita.

È ancora giusto parlare di autismi?

Sì. Lo spettro autistico è ampio e al suo interno contempla una gamma di colori e sfumature pressoché infiniti ed è proprio in questa complessità che si identifica buona parte della popolazione autistica. A questo quadro già così complesso si aggiunge spesso il tema della comorbidità: una percentuale significativa di persone con autismo, presenta infatti altre condizioni come disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), ADHD, disturbi dell’umore o disturbi comportamentali. L’attenzione di oggi non è quindi più solo alla necessità di un intervento precoce ma anche ad un approccio clinico specifico in relazione alle peculiari caratteristiche della persona con autismo e al suo nucleo familiare. Non ha più senso parlare di un metodo di intervento valido trasversalmente per ogni individuo, pena la semplificazione di una condizione complessa attraverso metodi di intervento che, anche se scientificamente validati, non possono essere sempre efficaci. A complessità di condizione non si può insomma più pensare di rispondere con una semplificazione nelle modalità di intervento.

La complessità deve tradursi in un intervento che si fonda sull’interdisciplinarietà e sul concetto di rete. Non è più ammissibile la presa in carico di una persona autistica da parte di un’unica figura competente, così come non si possono escludere dal progetto di intervento le diverse figure che ruotano attorno all’individuo sia esso bambino, ragazzo o adulto. La qualità di vita delle persone con autismo, come quella di tutti del resto, riguarda diversi aspetti. Se consideriamo per esempio un bambino, il suo benessere passa attraverso la possibilità di sviluppare quegli apprendimenti utili alla crescita nei differenti contesti di vita ma è garantito anche dalla possibilità e capacità di socializzare con le altre persone e di costruire rapporti significativi, in particolar modo con i pari. La possibilità per un bambino autistico di star bene con i propri coetanei è il risultato di un lavoro che richiede a lui tanto impegno quanto ne dovrebbe essere richiesto anche a loro e agli adulti che li guidano in questo percorso di reciproca conoscenza e rispetto.

Gli interventi psicoeducativi

 Altrettanto spazio durante il convegno è stato dato alla riflessione intorno agli strumenti utilizzati all’interno degli interventi psicoeducativi con bambini, ragazzi o adulti con autismo. Come per gli interventi, anche per gli strumenti, seppur accompagnati da evidenze scientifiche, vale la regola della validità relativa: non esiste nessuno strumento né alcuna tecnica utile per ogni persona autistica. La conoscenza approfondita delle sue risorse e delle sue necessità, pensate all’interno di un progetto di vita, deve condurre alla scelta di un intervento sartoriale, in cui ogni strumento utilizzato viene indossato finché il percorso di crescita non richiede un abito più adatto o più comodo.

Se da un lato il facile reperimento in rete di materiali dedicati all’autismo stimola una maggior conoscenza di questa condizione, il rischio è però di incappare in strumenti a volte troppo distanti dalla loro versione originale, perdendo così quell’ancoraggio teorico che ne garantisce la validità. All’interno di una così grande offerta di risorse, risulta forse ancora più importante formarsi adeguatamente all’utilizzo di diversi strumenti operativi in modo da impiegarli nelle modalità opportune, ma anche per perseguire obiettivi adeguati. Il convegno è stato in questo senso un’ottima occasione per conoscere diverse risorse potenzialmente utili alla popolazione autistica ma anche alla società intera che attraverso esse può imparare a dialogare con maggior reciprocità con la neurodiversità.

Chiusura e prospettive future

A chiusura del convegno sono intervenuti i Terconauti, trio molto attivo sui social nella divulgazione e sensibilizzazione di tematiche riguardanti l’autismo i quali hanno portato la loro esperienza di persone con autismo che hanno ricevuto la diagnosi in età adulta evidenziandone possibilità e criticità.

Questo ottavo convegno, attraversato da grande vivacità, ha puntato i riflettori, in pieno stile Erickson, sull’importanza di parlare di autismo con competenza e consapevolezza, abbandonando i facili pietismi e costruendo modalità di diagnosi e intervento sempre più precoci e integrate.

Cosa significa essere destrimani, mancini o ambidestri? Una panoramica sulla lateralizzazione cerebrale

La lateralizzazione cerebrale è un processo biopsicologico che consente la specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali.

 

 Grazie a questo processo una vasta gamma di funzioni cognitive finiscono per localizzarsi in un lato o nell’altro del nostro cervello. È il caso del linguaggio, fortemente ancorato all’emisfero sinistro. Tuttavia, non solo le funzioni cognitive, ma anche i processi motivazionali e decisionali sono soggetti a una specializzazione cerebrale. Secondo la Sword and Shield Hypothesis, la lateralità emisferica della motivazione affettiva dipende dalla lateralità del controllo motorio per la mano dominante e per la mano non dominante. Inoltre, essere mancini o destrimani ha un impatto significativo sui giudizi che vengono espressi in merito a una serie di costrutti, tra cui il valore, l’intelligenza e l’onestà. Interessante è il caso degli individui ambidestri, nei quali permane invece la bilateralizzazione, ossia una maggior interazione tra l’emisfero sinistro, responsabile del mantenimento delle nostre credenze razionali, e l’emisfero destro, specializzato invece nella rilevazione di contraddizioni, incoerenze e aggiornamenti.

Definizione e storia della lateralizzazione cerebrale

A livello anatomico, le strutture che compongono il cervello dell’essere umano si presentano solitamente “in coppia”. Quest’ultime possono essere raggruppate in due emisferi separati dalla fessura longitudinale mediana, ma al contempo collegati da una lamina di sostanza bianca, detta corpo calloso. Sebbene la macrostruttura dei due emisferi cerebrali appaia pressoché identica, la diversa composizione delle reti neurali presenti al loro interno contribuisce a conferire una funzione specializzata a ciascun lato del nostro cervello. Durante l’infanzia, dai trentasei mesi ai quattro anni di vita, si verifica infatti un processo biopsicologico che consente la specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali; si tratta della lateralizzazione (Rogers, 2021). È grazie a questo processo alcune funzioni cognitive finiscono per localizzarsi in un lato o nell’altro del nostro cervello. Una delle prime prove circa la lateralizzazione cerebrale è emersa dagli studi sul linguaggio condotti dal medico francese Paul Pierre Broca (1865). Quest’ultimo si occupò del celebre Monsieur Leborgne, noto anche come paziente Tan, così nominato poiché “tan-tan” era una delle poche parole che costui riusciva ad articolare. Nel corso dell’autopsia, Broca osservò che il paziente Tan presentava una lesione a livello del piede della terza circonvoluzione frontale dell’emisfero sinistro. Questa porzione cerebrale prese il nome di area di Broca e venne associata alla produzione del linguaggio. Qualche anno più tardi Karl Wernicke notò invece che un danno alla circonvoluzione temporale superiore del medesimo emisfero causava una compromissione della comprensione del linguaggio (Goodglass & Geschwind, 1976). Dunque, le funzioni linguistiche sarebbero appoggio dell’emisfero sinistro del nostro cervello.

Lateralizzazione cerebrale, controllo motorio e motivazione

Non solo le funzioni cognitive, ma anche i processi motivazionali sarebbero soggetti ad una specializzazione cerebrale. Per esempio, la letteratura scientifica ha sostenuto per molti anni che la tendenza all’avvicinamento venisse elaborata dall’emisfero sinistro, mentre la tendenza all’allontanamento venisse processata da quello destro. Tuttavia, si trattava di risultati fallaci, in quanto provenienti da studi condotti unicamente su soggetti destrimani. Una prospettiva maggiormente accreditata è quella della Sword and Shield Hypothesis (SSH) che postula come la lateralità emisferica della motivazione affettiva dipenda invece dalla lateralità del controllo motorio per la mano dominante, cioè quella utilizzata preferenzialmente per eseguire azioni di avvicinamento (“mano-spada”), e per la mano non dominante, cioè quella impiegata preferenzialmente per compiere azioni di allontanamento (“mano-scudo”; Casasanto, 2009). A dimostralo sono stati Brookshire & Casasanto (2012), che hanno confrontato l’attività neuronale di soggetti destrimani e mancini proveniente dall’emisfero destro e da quello sinistro durante un periodo di riposo. Al termine dell’elettroencefalografia, i partecipanti hanno completato la Behavioral Activation Scale (BAS), un questionario autosomministrato che misurava il loro livello di tendenza all’avvicinamento. Nei destrimani, un livello maggiormente elevato di motivazione all’avvicinamento era associato a una maggior attività cerebrale nell’emisfero sinistro rispetto al destro. Nei mancini, al contrario, una maggior motivazione all’avvicinamento correlava con una maggior attività elettrica nell’emisfero destro rispetto al sinistro (Brookshire & Casasanto, 2012). In accordo con la Sword and Shield Hypothesis, le persone tenderebbero pertanto a utilizzare la propria mano dominante nelle di azioni di avvicinamento e la propria mano non dominante nelle condotte di allontanamento o repulsione. Ciononostante è necessario sottolineare che la maggior parte delle funzioni cognitive, a differenza di quelle motorie, non subisce l’effetto della lateralizzazione manuale. Per esempio, il linguaggio resta fedelmente ancorato all’emisfero sinistro sia nei soggetti destrimani, sia in quelli mancini.

Lateralizzazione cerebrale e decision-making

 Daniel Casasanto (2011) sostiene che la lateralità della mano dominante possa influenzare persino le nostre scelte. In particolare, quest’ultimo ha dimostrato che essere mancini o destrimani impatti significativamente sui giudizi che esprimiamo in merito a una serie di costrutti, quali il valore, l’intelligenza e l’onestà. Dai cinque anni di età, le persone tenderebbero infatti a preferire stimoli che incontrano sul lato del proprio arto dominante rispetto a stimoli che vengono loro presentati sul lato del proprio arto non dominate. A tal proposito, quando viene chiesto quale di due prodotti acquistare, quale di due persone assumere per un incarico di lavoro o quale di due creature aliene sia la più credibile, i destrimani scelgono con maggior frequenza il prodotto, la persona o l’alieno che hanno percepito sul lato destro dello schermo; viceversa avviene per i mancini (Casasanto, 2011). Questo potrebbe dipendere da una maggior fluidità nel processamento delle informazioni, gli individui apprezzano solitamente oggetti e persone più “semplici” da percepire e con cui risulta più agevole interagire. I destrimani interagiscono maggiormente nel corso del loro sviluppo con il lato destro rispetto a quello sinistro, il che potrebbe contribuire a formare un’associazione tra “buono” e “destro” e tra “cattivo” e “sinistro”. Non è un caso che quando un oggetto o una persona ci incute paura utilizziamo il termine “sinistro” per descriverla.

Il caso degli Individui ambidestri

A differenza degli individui destrimani e mancini, negli ambidestri permane la bilateralizzazione, cioè la non laterizzazione degli emisferi cerebrali. Le cause di questo fenomeno non sono ancora state chiarite, ma è stato ipotizzato che si tratti di una predisposizione ereditaria (Vuoksimaa et al., 2009). Il cervello delle persone ambidestre è caratterizzato da una maggiore interazione e integrazione delle informazioni processate dai due emisferi cerebrali, proprietà che potrebbe essere dovuta alle dimensioni aumentate del loro corpo calloso (Propper et al., 2005). Rispetto a destrimani e mancini, gli ambidestri mostrano una maggior propensione a sviluppare il pensiero magico, cioè credenze paranormali e percezioni extrasensoriali (Barnett & Corballis, 2002). Dato che l’emisfero sinistro è responsabile del mantenimento delle nostre credenze razionali rispetto al mondo, mentre quello destro è specializzato nella rilevazione di contraddizioni, incoerenze e aggiornamenti, la maggiore interazione tra i due emisferi può comportare una maggiore flessibilità cognitiva e una certa tendenza al pensiero divergente. Uno studio ha dimostrato infatti che individui ambidestri siano maggiormente “creduloni”, persuasibili o comunque aperti a nuove idee rispetto a soggetti destrimani e mancini (Christman et al, 2008).

In conclusione, è possibile che i sistemi cognitivi e motivazionali dell’essere umano siano localizzati principalmente in uno dei due emisferi cerebrali. Tuttavia il nostro cervello non è una struttura rigida e immutabile; esso cambia nel corso del tempo e con lui anche questi sistemi subiscono un’alterazione.

Eco-Mindfulness (2023) di Davide Viola – Recensione

Recensione del libro “Eco-Mindfulness. Meditazioni per connettersi con la natura e sviluppare una nuova consapevolezza ambientale” di Davide Viola.

 

 Negli ultimi anni numerose ricerche hanno mostrato il potere terapeutico del contatto con la natura per il miglioramento del benessere psichico e fisico. Alcuni studi giapponesi hanno mostrato ad esempio come trascorrere alcune ore nelle foreste (il cosiddetto “forest bathing”) possa portare benefici sul sistema immunitario, sulla pressione arteriosa, sull’umore e sui disturbi d’ansia. Da alcuni anni diversi centri di mindfulness propongono esperienze di consapevolezza nella natura, sfruttando gli effetti rigeneranti e ricentranti dell’ambiente naturale sul corpo e la mente.

Il libro di Davide Viola propone pratiche di mindfulness nella natura ed affronta il tema oggi attualissimo della consapevolezza ambientale, diventato di cruciale importanza anche dopo la pandemia di COVID.

 È un libro piuttosto breve e pratico, costituito essenzialmente da esercizi meditativi che vengono raggruppati in base all’elemento naturale che viene coinvolto (acqua, aria, terra, fuoco). Come scrive l’autore, del resto, “la natura è lo spazio privilegiato per metterci in contatto con noi stessi”. In una pratica che che mi ha colpito molto c’è ad esempio la costruzione di un “ecomandala” in cui partendo dalla raccolta di oggetti nella natura (sassi, legnetti, etc.) si costruisce una sorta di immagine rappresentativa di sé, che può essere condivisa con il gruppo o lasciata in dono alla natura. Molto interessanti anche le pratiche di gentilezza amorevole (metta) rivolte alla natura, invece che a sé stessi o ad altre persone significative.

Dopo ogni sezione c’è uno spazio per annotare le proprie osservazioni, come un diario della pratica.

Ho trovato interessante anche la parte sulle pratiche informali che si possono svolgere nel quotidiano e che hanno a che fare con il ridurre gli sprechi e favorire un atteggiamento più rispettoso dell’ambiente (per esempio, giornata senza auto, preparazione di ecodetersivi, spesa più consapevole).

Avrei apprezzato anche qualche pratica audio da integrare a quelle scritte, che a volte risultano un po’ ripetitive, che può essere un’idea per una futura pubblicazione.

Leccare rospi per stare meglio. Gli allucinogeni in psicoterapia o come autoterapia funzionano?

Di fronte ai benefici decantati con grande entusiasmo dai consumatori abituali di microdosi di allucinogeni, gli scettici penseranno che è tutto effetto placebo. Chi ha ragione?

 

PARENTAL ADVISORY

Explicit content – Don’t try this at home!

L’articolo è volutamente ironico, la redazione non intende promuovere il consumo di sostanze illegali

 Il primo funghetto ad Amsterdam non si scorda mai, nemmeno se non l’hai mangiato tu. A distanza di vent’anni ancora mi domando, caro Mattia, come sia sentirsi “la setola di una scopa che spazza il marciapiede” e quando attendo annoiata che scatti il verde ripenso all’omino rosso che hai visto scendere dal semaforo e lanciarsi di testa nella fontana di Leidseplein. Gli allucinogeni potrebbero renderci la vita un po’ più colorata e leggera, e dicono siano tornati di moda anche tra gli scienziati.

Allucinogeni: quali sono e come si ottengono

Gli allucinogeni sono sostanze che alterano temporaneamente la percezione e la cognizione senza produrre alcun tipo di delirium.

Anche se non siete avvezzi a trip psichedelici, avrete sicuramente sentito parlare di LSD (dietilammide dell’acido lisergico), mescalina, psilocibina e DMT (Dimetiltriptammina).

La mescalina si ottiene dal messicano peyote cactus, psilocibina e DMT sono tipici dei cosiddetti “Magic mushroom” (funghetti magici), mentre LSD è prodotto sinteticamente in laboratorio. Ci sono poi i rospi allucinogeni, come quelli del deserto di Sonora o del fiume Colorado; pare che leccarli non solo non li trasformi in principi azzurri, ma che il trip punti dritto in ospedale.

Terapie allucinanti

Gli allucinogeni in passato avevano creato grandi aspettative in campo medico. Per esempio, LSD è stato inizialmente utilizzato come modello di studio della schizofrenia, salvo essere abbandonato in quanto inadeguato. Considerati uno strumento utile in psicoterapia e psicoanalisi, furono usati negli anni Cinquanta nelle terapie psicolitiche e nelle terapie psichedeliche come spintarella per ampliare la mente, sbloccare ricordi rimossi e promuovere l’insight. Dopo l’ondata hyppie e la crescente preoccupazione per i problemi legati al loro utilizzo segnalati in diversi report scientifici (es. stress cardiaco dovuto all’uso regolare), negli anni Sessanta andarono incontro a un rovinoso declino.

Oggi se il vostro psicoterapeuta vi offrisse un pezzetto di Amanita muscaria da masticare tra un ABC e l’altro, verosimilmente lo guardereste con sospetto; anche se meno di quanto feci io col mio quando propose di ipnotizzarmi. Perdere il controllo sulla propria mente non è un’esperienza che attira tutti, però c’è chi sostiene che assumendo piccolissime dosi di allucinogeni (microdosing) sia riuscito a migliorare il proprio umore (ansia e depressione), a pompare la propria creatività e a dare una nuova pennellata di colore al mondo ottenendone una versione in full HD.

Detto così, senza la controindicazione delle allucinazioni, sembra allettante…

Dosaggi allucinanti

Se volete farvi uno di quei viaggi che non scorderete mai, procuratevi prima un buon trip-sitter. A seconda della potenza della sostanza scelta, i dosaggi da assumere cambieranno notevolmente:

  • LSD (per via orale): 0,05-0,10 mg
  • Psilocibina (per via orale): 10-20 mg
  • Mescalina (per via orale): 200-500 mg
  • DMT (vaporizzazione): 20-50 mg

Se invece vi accontentate della supposta sensazione di benessere causata dal trip allucinogeno, pare sia sufficiente il 5-10% del dosaggio comunemente utilizzato per un viaggio ricreativo.

Ricerche allucinanti

Di fronte ai benefici decantati con grande entusiasmo dai consumatori abituali di microdosi di allucinogeni, gli scettici penseranno che è tutto effetto placebo.

Chi ha ragione?

 Nel 2021 e nel 2022 sono stati condotti i due più grandi studi controlled-trial sull’argomento, i cui risultati sembravano stroncare qualsiasi speranza di una rinascita della terapia psichedelica. Infatti sia lo studio condotto dal Centre for Psychedelic Research dell’Imperial College London sia lo studio condotto dall’Institute of Psychology della Leiden University avevano dato lo stesso responso: nessuna differenza significativa tra i soggetti che avevano assunto microdosi di LSD e i soggetti che avevano ingoiato la pillolina vuota. I benefici riportati erano quindi ascrivibili all’effetto placebo. Inoltre l’efficacia della sostanza dipendeva dalle aspettative di chi la assumeva: chi nello studio olandese aveva assunto il placebo, ma pensava fosse la microdose, si era sentito meglio; chi aveva preso la microdose, ma era convinto fosse il placebo, non aveva riportato alcun effetto.

Tuttavia alcuni scienziati hanno sottolineato come anche basse dosi di LSD siano in grado di provocare alterazioni nell’attività cerebrale e avere effetti sulla neuroplasticità (per esempio, sui circuiti limbici coinvolti nella processazione delle emozioni) simili a quelli ottenuti a dosaggi più elevati; non si tratterebbe quindi solo di effetto placebo. Insomma, la partita sul microdosing sembra essere ancora aperta.

La rinascita della terapia psichedelica?

Dal 1 gennaio 2023 l’Oregon è diventato il primo stato americano ad autorizzare l’uso della psilobicina presso centri dedicati sotto la supervisione di un facilitatore certificato dallo stato (Measure 109). L’accesso ai centri è consentito solo ai maggiorenni, con o senza problematiche mentali perché si è scelto di non abbracciare un modello terapeutico.

Ciononostante, visti gli effetti promettenti delle sostanze allucinogene nel trattamento di disturbi psichiatrici quali depressione maggiore e PTSD o ansia nei malati terminali, non ci stupirà assistere, in un futuro forse non così remoto, alla rinascita della terapia psichedelica.

Nell’attesa, se volete farvi un trip serio o un viaggetto light con una microdose di psilobicina per stare meglio, vi ricordo che in Italia le sostanze allucinogene sono illegali. Potete provare in alternativa con del pane di segale andato a male: se infestato dal fungo Claviceps purpurea, da cui si ricava LSD, potrebbe regalarvi emozioni intense. L’importante, però, è che stiate alla larga dai rospi.

L’enigma del desiderio. Sesso, nostalgia e appartenenza (2023) di Galit Atlas – Recensione

Nel suo nuovo volume “L’enigma del desiderio” Galit Atlas pone al centro delle riflessioni la madre, in quanto è dal rapporto primario con lei, dalla sua costante presenza fisica, ma anche dalla sua inevitabile assenza, che derivano la sessualità e le forme del desiderio.

 

 Galit Atlas può essere definita, con un termine anglosassone nato in ambito sportivo e recentemente portato alla ribalta nel nostro paese, una “underdog”, una nata sfavorita che si tramuta in vincente.

Oggi pratica la psicoanalisi ed è un supervisore clinico a New York in uno studio privato, nella ricca Manhattan. È docente del programma di formazione post-dottorato in Psicoterapia e Psicoanalisi della New York University, nei corsi del National Training Programs e nel programma di formazione presso il National Institute for the Psychotherapies (NIP) di New York. Nel 2009, ha ricevuto il premio NADTA Research e l’Andrè Francois Research Award, fa parte del comitato editoriale di alcune riviste, collabora con il New York Times. Tiene numerose conferenze negli Stati Uniti e a livello internazionale. Recentemente è stata anche in Italia, presentando le sue opere a Genova, Torino e Milano.

Eppure la sua storia inizia in Medio Oriente quando, negli anni Cinquanta, i genitori, ancora bambini, e i nonni si trasferirono in Israele: il padre dall’Iran, la madre dalla Siria. Lei è nata a Tel Aviv nel 1971 e nei suoi libri descrive le difficoltà della sua famiglia a farsi accettare in una società dove i modelli culturali predominanti derivavano dall’Europa e chi proveniva dal mondo arabo veniva discriminato. La terra promessa immaginata come il luogo dove sentirsi al sicuro e accettati si rivelava anche un contesto dove occorreva rinunciare alla propria identità orientale per poter raggiungere ruoli di rilievo nella classe dirigente dello stato israeliano. Anche la psicologia e, ancor di più la psicoanalisi, erano professioni negate agli immigrati provenienti dagli stati arabi e solo con la sua generazione è avvenuto un graduale mutamento.

Nei suoi scritti, le tematiche affrontate più spesso riguardano il genere e la sessualità ed il suo contributo è riconosciuto proprio per il suo ripensamento del posto della sessualità e del desiderio nella teoria e nella pratica contemporanee.

L’altro suo libro recente, rivolto ad un pubblico più ampio, è “L’eredità emotiva” (2022), edito in Italia da Cortina, con cui ha vinto il Gradiva Award for Best Book 2022 (titolo originale “Emotional Inheritance: A Therapist, Her Patients and The Legacy of Trauma”), in cui intreccia le storie dei suoi pazienti, le proprie vicende personali e decenni di ricerca per provare a identificare i legami tra le nostre esperienze esistenziali  e “l’eredità emotiva” che tutti possediamo, esplorando le modalità psichiche attraverso cui gli accadimenti delle generazioni precedenti plasmano le nostre vite.

Invece, il titolo di questo volume, “L’enigma del desiderio”, è quello di un’opera di Salvador Dalí del 1929, il cui sottotitolo è: Mia madre, mia madre, mia madre. E proprio la madre è al centro delle riflessioni della Atlas, in quanto è dal rapporto primario con lei, dalla sua costante presenza fisica, ma anche dalla sua inevitabile assenza, che derivano la sessualità e le forme del desiderio.

Con lo stile letterario che ha contribuito al suo successo, esplora, dalla sua visuale di psicoanalista e facendo ampio ricorso ad esempi clinici, ciò che sappiamo e quanto ignoriamo a proposito di fantasmi e demoni, concernenti la sessualità e i desideri carnali. Concentrandosi sui livelli di comunicazione che si attivano nei contesti più intimi, prende in esame gli aspetti complessi di svariati ambiti: desideri insoddisfatti, desiderio femminile, inibizione sessuale, gravidanza, genitorialità e creatività. All’inizio di ogni capitolo, la narrazione di racconti terapeutici (l’autrice preferisce questa definizione a quella di “caso” clinico) esemplifica i desideri del paziente e quelli dell’analista, lasciando scorgere i modi in cui questi emergono e interagiscono nel dialogo. Ma non mancano suggestioni provenienti dai suoi ricordi d’infanzia e dalla sua vita privata.

 Dal punto di vista teorico, in questo libro presenta una riflessione sull’integrazione di ciò che ella definisce enigmatico e pragmatico, categorie che superano le opposizioni binarie tradizionali quali conosciuto-sconosciuto, interno-esterno, visibile-invisibile, maschile-femminile. Gli elementi pragmatici della soggettività e dell’intersoggettività sono razionali, logici, funzionali, definibili, pratici, realistici ed essenziali. Possono essere anche complessi, verbali e non verbali, ma in ogni caso si prestano ad essere osservati, misurati e valutati. Al contrario, gli aspetti enigmatici della soggettività e dell’intersoggettività sono complessi e ambigui, molto più difficili da conoscere e comprendere, complicati da identificare o definire. Essi sfuggono all’osservazione, misteriosi, oscuri, polisemici. Le dimensioni dell’enigmatico e del pragmatico non vanno considerate opposte, in quanto sono necessarie e complementari l’uno rispetto all’altro, mentre il compito della psicoanalisi consiste proprio nello studiarle entrambe, senza ridurne nessuna. Vi sono aspetti della nostra esistenza che possiamo vedere e verbalizzare, altri che possiamo soltanto percepire o sperimentare, ascoltando quello che non viene detto.

Altra questione teorica, Atlas contesta l’ordine gerarchico delle fasi edipica e pre-edipica, mettendo in discussione l’assunto psicoanalitico classico secondo cui quella edipica sarebbe la fase più evoluta, su cui poggia la sessualità. Secondo la sua proposta, la diade madre-bambino non va vista come disorganizzata o primitiva, ma è sin dall’inizio complessa e sofisticata, possedendo dinamiche, linguaggi e desideri propri. La confusione nasce perché il suo linguaggio è diverso dal linguaggio verbale strutturato, proprio della fase edipica, definito il linguaggio della prosa. Si tratta, invece, di  una lingua in cui le affermazioni non sono tanto importanti quanto le pause e i respiri: un linguaggio di musica e di spazi vuoti, enigmatico e pragmatico. Gli elementi pragmatici sono basati sull’interazione sensoriale multimodale tra la madre e il bambino: si toccano e si guardano, con elementi visivi, vocali, di ritmo e così via. Al contrario l’enigmatico, come la poesia, non è mai completamente percepibile e ogni tentativo di descriverlo ne altera inesorabilmente l’essenza.

Il Love Addiction Inventory, una misurazione della dipendenza affettiva

Costa e colleghi (2021) nel loro studio hanno sviluppato e validato il Love Addiction Inventory, un nuovo questionario per la misurazione della dipendenza affettiva.

La concettualizzazione della Love Addiction

 L’amore è un sentimento comune, provato dalla maggior parte degli individui. In letteratura sono numerosi gli studi che nel tempo hanno cercato di dare una spiegazione a questo fenomeno, interessandosi anche agli aspetti più problematici delle relazioni, quali la love addiction (o dipendenza affettiva; Fisher, 2014).

Quest’ultima può insorgere quando nelle relazioni l’amore è caratterizzato da ossessioni, ansia e dal costante bisogno di stare con il partner, nonostante la presenza di numerose conseguenze negative; infatti, la dipendenza affettiva può portare gli individui a non pensare ad altro se non alla propria relazione, con effetti negativi sull’umore e su varie aree della vita dell’individuo (Reynaud et al., 2010).

Il libro in cui venne concettualizzata per la prima volta la dipendenza affettiva fu “Love and Addiction” del 1975, dove gli autori (Peele & Brodsky, 1975) paragonarono il processo della dipendenza affettiva a quello della dipendenza da qualsiasi altra droga. Nonostante numerosi studi successivi confermarono queste similitudini, (Fisher, 2014; Wolfe, 2000) attualmente la dipendenza affettiva non è inserita nella terminologia psichiatrica e non è presente una concettualizzazione univoca che possa essere utilizzata da tutti gli studiosi (Griffiths, 2005).

Il love addiction Inventory

Per questo motivo, Costa e colleghi (2021) nel loro studio hanno sviluppato e validato il Love Addiction Inventory, un nuovo questionario per la misurazione della dipendenza affettiva.

Le domande sono state formulate basandosi sul “modello delle componenti della dipendenza” di Griffiths (2005) che, sebbene sia stato utilizzato per la composizione di numerosi test per le dipendenze ampiamente riconosciuti, non è ancora stato valutato nell’ambito della dipendenza affettiva. Questo modello prevede che il comportamento sia categorizzato come dipendente in presenza di 6 dimensioni principali:

  • La rilevanza, ovvero quando l’amore per un individuo diventa l’aspetto più importante della vita, che porta a dedicare ogni azione ed ogni pensiero al partner (es. Provi la necessità urgente di vederti con il/la tuo/a partner? )
  • La tolleranza, ovvero il bisogno di stare o di pensare, sempre di più, alla persona di cui si è innamorati (es. Senti il bisogno di aumentare gli incontri con il/la tuo/a partner per sentirti felice?)
  • L’alterazione dell’umore, che si riferisce al cambiamento del proprio stato umorale in base alla presenza o assenza del partner (es. Passi del tempo con il/la tuo/a partner per scordarti delle tue sofferenze?)
  • Sentimenti di astinenza, che si presentano sotto forma di malessere, irritabilità, frustrazione o ansia, in assenza del proprio partner (es. Ti senti agitato/a quando non sei insieme al tuo/a partner?)
  • Ricaduta, ossia la tendenza a ritornare a pensare o a stare con il partner (es. Non sono in grado di ridurre la durata degli incontri con il/la tuo/a partner)
  • Il conflitto, che l’individuo con dipendenza affettiva prova nei confronti di tutte le altre attività di vita quali lavoro, amicizie, hobbies… (es. Tralasci i tuoi impegni familiari e sociali a causa del rapporto con il/la tuo/a partner?)

La struttura del Love Addiction Inventory

 Il Love Addiction Inventory è stato creato attraverso l’utilizzo di 4 domande per ogni dimensione del “modello delle componenti della dipendenza” di Griffiths, per un totale di 24 items; ogni domanda inizia con “quanto spesso …” e le risposte vanno da 1 (mai) a 5 (molto spesso); maggiore sarà il punteggio ottenuto, maggiori saranno i livelli di dipendenza affettiva. In aggiunta, è stata proposta una versione breve del questionario utilizzando solo una domanda per ogni dominio, per un totale di 6 domande.

Gli autori dello studio (Costa et al., 2021), prendendo in considerazione un totale di 663 partecipanti, tutti coinvolti in una relazione intima con un partner, hanno somministrato oltre al Love Addiction Inventory, un test per la valutazione dello stato emotivo negativo e un test di auto-valutazione (il Love Addiction Self-Assessment), riguardante la dipendenza affettiva, per poterlo confrontare con il Love Addiction Inventory.

Le valutazioni sono risultate avere dei buoni livelli di affidabilità sia per quanto riguarda il Love Addiction Inventory, che per la sua forma breve, confermando la solidità rispetto alle caratteristiche psicometriche. Inoltre, un aspetto interessante è che lo stato emotivo negativo è risultato correlato con la dipendenza affettiva; questo potrebbe essere dovuto dal fatto che, in generale, gli individui con dipendenza affettiva sembrerebbero avere la tendenza a mantenere le relazioni, nonostante le conseguenze negative da essa causate (Matthews et al., 2009).

Conclusione

In conclusione, lo studio ha mostrato le buone caratteristiche psicometriche del Love Addiction Inventory e della sua forma breve, dimostrandone l’utilità nel campo della valutazione della dipendenza affettiva.

Neurodiversità al lavoro: intervista a Tony Attwood

Esplorate l’Autismo: scoprirete un nuovo mondo e vi sentirete meglio per averlo fatto.

 

 Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il Dott. Tony Attwood, esperto mondiale di Autismo e Sindrome di Asperger, e non ce la siamo fatta scappare! Una chiacchierata non solo volta a raccontare al grande pubblico chi sono le persone autistiche e come funzionano, ma anche una riflessione sui limiti di una società neurotipico centrata e sui rischi a cui va incontro il movimento che promuove la neurodiversità.

Chi sono le persone autistiche

State of Mind (SOM): Dott. Attwood, quali sono le caratteristiche principali di una persona autistica?

Dott. Tony Attwood (T.A.): È una domanda molto semplice, ma non è così facile rispondere.

La differenza principale è che le persone autistiche trovano difficile comprendere gli altri – che cosa pensano, che cosa provano – e leggere il linguaggio del corpo e le espressioni facciali. La loro più grande sfida nella vita sono le persone. Possono essere bravissimi con le macchine, la musica, gli animali, ecc., ma le persone per loro sono un enigma.

Ci sono poi altre dimensioni che sono associate al disturbo autistico, come per esempio la sensibilità sensoriale: suoni, rumori, l’intensità della luce, possono essere incredibilmente dolorosi per queste persone.

Io però ho una mia personale descrizione dell’Autismo: è un modo diverso di percepire, pensare, apprendere e relazionarsi. Il che significa che una persona autistica pensa in maniera differente e pertanto può essere estremamente creativa in tantissimi modi differenti; per questo abbiamo bisogno delle persone autistiche, per la loro originalità nella scienza e nell’arte. Ma la loro grande sfida sono le altre persone. Questa, secondo me, è l’essenza dell’Autismo.

Chi ha ucciso la Sindrome di Asperger?

SOM: In passato si distingueva tra Autismo e Sindrome di Asperger, ma con la pubblicazione del DSM-5 nel 2013 si è cominciato a parlare di Spettro Autistico. Cosa significa? Come mai c’è stato questo cambiamento?

T.A.: La decisione di cambiare non è stata mia, non sono stato invitato alla festa! L’idea era di eliminare quello che noi chiamiamo termine iponimo. Si ritiene che l’Autismo sia uno spettro che si esprime in un’ampia varietà di manifestazioni: ci sono le persone che sono affette da Autismo grave e si trovano in una situazione altamente disabilitante, e le persone descritte da Hans Asperger, che riescono ad avere successo nelle loro carriera o nelle loro relazioni. Quindi lo spettro autistico include la sindrome di Asperger.

Tuttavia questa decisione è stata presa da una commissione, non dalle persone autistiche, che invece desideravano mantenere questo termine. Queste persone infatti spesso preferiscono il termine Sindrome di Asperger perché è neutrale.

Il termine Asperger proviene dall’Europa, ha origine austriaca e gli Europei lo hanno sposato, a differenza degli Americani che non sono riusciti a comprenderlo; per questo motivo un gruppo di accademici in America ha deciso di abbandonarlo.

Il movimento della neurodiversità e le sue implicazioni

SOM: Negli ultimi anni si è assistito a un cambio di paradigma riguardo al concetto di Autismo. Ora si parla di neurodiversità. Può spiegarci cosa si intende per neurodiversità e quali sono le implicazioni di questo cambio di paradigma?

T.A.: Quando parliamo di Autismo di solito parliamo di Autismo+ dove con + intendiamo la compresenza di ADHD, disturbi d’ansia, disturbi depressivi, disturbi di personalità, ecc. L’Autismo riguarda il neurosviluppo, non è una descrizione psichiatrica, e presenta una grandissima varietà nella sua espressione.

I criteri diagnostici presenti nei manuali sono stati sviluppati per gli psichiatri, ma il punto è che forse la psichiatria non è il modo più appropriato per approcciare l’Autismo, poiché non è una malattia psichiatrica, ma un modo diverso di funzionare.

Certo, a causa delle difficoltà che può incontrare nella vita quotidiana, una persona autistica può sviluppare un disturbo d’ansia o depressione, e allora sì che ha bisogno di uno psichiatra, ma questo perché soffre di ansia o depressione, non per l’Autismo in sé.

SOM: Se le persone autistiche sono solo persone neurodivergenti il ​​cui funzionamento rappresenta una normale variazione neurologica (come il genere o la sessualità), che dire delle persone autistiche “gravi” che necessitano di cure speciali a causa della gravità delle loro difficoltà nel comunicare o nel relazionarsi?

Non c’è forse il rischio che i loro bisogni di cura si “perdano” in questo stato di variazione naturale? Ad esempio, il Governo potrebbe decidere di ridurre gli investimenti finanziari e sociali per una condizione che è “solo” una variazione neurologica e non un handicap a cui dare assistenza.

T.A.: Questa è una domanda molto importante su cui mi sono spesso interrogato. Ci sono persone in cui l’espressione dell’Autismo è decisamente lieve, che vogliono essere viste come qualsiasi altra persona, che vogliono essere viste come differenti, ma non difettose. Ci sono però persone che sono affette da una grave forma di Autismo e necessitano di grande supporto.

Una metafora che utilizzo spesso è quella del deficit visivo: esistono individui ciechi che hanno bisogno di molto supporto e poi ci sono quelli come me che hanno bisogno di un paio di occhiali; tecnicamente ho un deficit visivo, ma non sono cieco, se mi dai un paio di occhiali riesco a vedere bene. Puoi dare a una persona autistica un paio di occhiali e lei all’improvviso riesce a comprendere e leggere le situazioni sociali e le persone.

Quindi plaudo al movimento [per la neurodiversità, n.d.t.] per la sua integrità e per la spinta verso l’accettazione dell’Autismo. Tuttavia, quando hai un Autismo+ (con difficoltà di apprendimento, difficoltà di linguaggio…), hai bisogno di supporto e spesso i Governi cercano di evitare di dare sostegno. Quindi di fronte a un movimento politico che sostiene “dovremmo essere trattati come gli altri, siamo come gli altri!” i Governi diranno “D’accordo, siete come gli altri!” e abbandoneranno i servizi. E questa non è una buona idea.

Non è una società per neurodiversi

SOM: La nostra società è indubbiamente neurotipico centrata. Secondo Lei la nostra società crea disabilità? Come potremmo essere più inclusivi?

T.A.: C’è una certa arroganza tra le persone che noi chiamiamo neurotipici o non autistici: “Noi siamo esseri supremi, la socializzazione è la cosa più importante della vita e vedrai quanto è bello socializzare!”. Se dovessi descrivere una persona autistica direi che è una persona che ha scoperto cose molto più belle nella vita che socializzare. Il problema è che siccome è diverso, diventerà un bersaglio per prese in giro e atti di bullismo poiché la ragione principale per bullizzare qualcuno è proprio il fatto che è diverso.

È necessario che la società accetti queste differenze, proprio come è accaduto per esempio con i mancini, che in passato non venivano accettati e si cercava di cambiarli.

Se si vuole avere successo in alcune aree della vita, il modo di pensare delle persone autistiche è preziosissimo, ma è necessario accomodare le loro difficoltà relazionali.

La prevalenza dell’Autismo è di circa 1 su 36 e questa è una stima conservativa. Ciò significa che ognuno di noi a scuola, al lavoro o nella cerchia di amici, ha vicino a una persona autistica. Dobbiamo renderci conto che l’Autismo non è raro, è molto più diffuso di quanto pensiamo.

SOM: Parlando di diagnosi e del rischio di essere etichettati nella società, rivelare la propria diagnosi può essere d’aiuto o è controproducente?

T.A.: Quando faccio una valutazione diagnostica a un adulto e gli chiedo “Quando avresti voluto sapere del tuo Autismo e che le altre persone lo venissero a sapere?” quasi sempre risponde “Quando ero il più giovane possibile perché pensavo di essere cattivo, difettoso, matto, che ci fosse qualcosa di sbagliato in me”. E questo porta a depressione e a bassa autostima. Quando comunico la diagnosi ai genitori di un bambino, spiego loro che a sei anni il bambino si renderà conto che è diverso, che è interessato a cose che agli altri bambini non interessano, che i giochi sociali creano in lui confusione, perché pensa in maniera diversa e percepisce in maniera diversa e quindi saprà che è diverso. Racconterà che quando prova a unirsi agli altri bambini, gli altri lo guardano in modo strano e lui non capisce cosa stia succedendo. Questo è il momento in cui potrà avere una reazione negativa ed è il momento in cui è necessario che sappia del suo Autismo, così che possa affrontare sia le difficoltà sia essere consapevole dei talenti che l’Autismo può portare con sé, siano essi abilità matematiche o la capacità di disegnare in maniera fotograficamente realistica o di cantare in tono perfetto ecc. Deve sapere che ha dei talenti dovuti all’Autismo, ma anche delle difficoltà: il modo in cui percepisce i suoni, il modo in cui si relaziona agli altri, la probabilità che sia bullizzato o preso in giro…

Una volta affrontati questi aspetti – ci sono molti libri e molta letteratura per bambini autistici dove l’eroe è autistico – chiediamo loro “Chi altro deve sapere del tuo Autismo?” e spesso hanno un atteggiamento positivo rispetto al dirlo a scuola. Di solito chiediamo al bambino, ai genitori e agli insegnanti di trovarsi per discutere come spiegare ai compagni le sfide che deve affrontare e soprattutto come possono aiutarlo. Quindi se un bambino autistico sembra volersi unire agli altri bambini, ma non è sicuro, verrà tirato in mezzo e incitato dagli altri.

I teenager, invece, sono molto riluttanti ad accettare la propria diagnosi perché gli adolescenti sanno essere molto critici e crudeli verso chiunque sia diverso. Quindi un adolescente può non essere in disaccordo con la diagnosi, ma essere terrorizzato all’idea di cosa possano fare i pari verso qualcuno che è diverso da loro.

Per gli adulti, infine, diventa un aspetto importante in ambito lavorativo (in cosa sono bravi e in cosa non sono bravi), oltre che anche nelle relazioni. Pertanto preferiamo un approccio che sia il più trasparente possibile.

Autismo al lavoro

SOM: Lei ha scritto un libro intitolato “Autismo al lavoro” che è molto interessante e utile sia per le persone autistiche sia per le persone che hanno colleghi autistici.

Perché assumere persone autistiche

SOM: Ci sono aziende che cercano specificamente dipendenti autistici. Se fossi un imprenditore o un datore di lavoro, perché dovrei assumere qualcuno nello spettro dell’Autismo?

Innanzitutto per i loro talenti, come per esempio la loro abilità a rilevare errori. Certo, potrebbero identificare gli errori del capo…per questo dobbiamo spiegare al capo che quando una persona autistica evidenzia un errore, non è per farlo arrabbiare, ma per aiutarlo! C’è poi la loro abilità nell’identificare pattern e sequenze in dati e informazioni che altri potrebbero non notare. Inoltre il loro modo di pensare può essere molto creativo nel risolvere problemi e questo può essere molto utile per un’azienda.

Le persone autistiche possono essere molto brave anche in campo artistico. Se sei un artista e non sei particolarmente abile nelle relazioni sociali, non è poi così importante; finché disegni o canti o componi musica possiamo anche sopportarlo: l’eccentricità, si pensi a Andy Warhol, è accettata. Quindi l’arte può essere un’area in cui esprimere sé stessi, dalla recitazione alla scrittura e così via.

Infine, le persone autistiche sono molto brave nel prendersi cura degli altri. Poiché gli altri sono considerati un enigma sin dai tempi della scuola materna, le persone autistiche sin da piccolE osservano e analizzano le persone per cercare di capirle e di relazionarsi con loro e in seguito diventano degli psicologi di grande successo.

Quindi le persone autistiche possono trovare impiego non solo nel settore tecnologico, industriale o informatico, ma in tutti i settori.

Le difficoltà da gestire

SOM: Cosa può essere più difficile per un datore di lavoro o un collega quando assume o lavora con una persona autistica e cosa può fare?

T.A.: Una delle difficoltà che deve affrontare il loro capo è come far fronte alle situazioni in cui è coinvolto un team di lavoro. A volte le persone autistiche sono molto brave nel loro lavoro, ma se devono guidare un team, che è un compito che ha aspetti interpersonali, sociali, che implica aver a che fare con conflitti, questo potrebbe non essere un loro punto di forza. Di solito preferiscono andare al lavoro, fare quello che devono fare e tornare a casa, punto. Non sono interessati ad andare a fare un aperitivo, partecipare a ritrovi sociali. Sono lì per lavorare. Il senso della qualità, la determinazione, la loro abilità a perseverare dove altri si arrendono può portarli a ottenere successo sul lavoro, ma c’è bisogno che questo gli sia riconosciuto. A volte lavorano talmente bene che alcuni colleghi possono sabotarli deliberatamente proprio perché sono così bravi. Altre volte non ottengono una promozione perché non hanno abilità sociali. Spesso la persona che ottiene una promozione è una persona in grado di relazionarsi con il capo e con i colleghi e quindi riesce a essere popolare sul luogo di lavoro. Chi è socialmente popolare ha maggiore probabilità di essere promosso rispetto a chi lavora meglio di lui, ma non ha una rete sociale. Per questo motivo le persone autistiche vengono spesso ignorate dall’azienda.

Ci sono molte altre tematiche che devono essere affrontate. Una di queste, ne ho già parlato prima, è la sensibilità sensoriale. Bisogna assicurarsi, per esempio, che la persona autistica non stia seduta accanto a un frigorifero che produce un rumore di sottofondo o che la luce non sia eccessivamente brillante.

Pertanto è vero che bisogna considerare e gestire le difficoltà sociali e sensoriali, ma in cambio si avrà una persona che può essere straordinaria nel risolvere problemi.

Bullismo

SOM: C’è un capitolo nel Suo libro in cui parla della possibilità che le persone dello spettro autistico vengano prese in giro o siano vittime di bullismo sul posto di lavoro. Come reagire in quei casi?

T.A.: Il bullismo è un problema scolastico che non sparisce nel momento in cui ci si diploma. È una caratteristica umana verso chi è diverso, che porta un gruppo di persone neurotipiche a prendere di mira qualcuno che è diverso e le fa sentire più unite. Il bullismo ha varie forme, non è solo fisico, può essere anche verbale.

Se si verifica sul luogo di lavoro può portare a un calo nelle prestazioni lavorative o alle dimissioni. Il manager deve essere consapevole di ciò, osservare e fermare questi atti e allo stesso tempo la persona autistica deve comunicare quanto accade.

 È bene che abbia un mentore, una guida, sul lavoro, qualcuno che conosca i protocolli sociali, le personalità o le dimensioni sociali e possa fornire linee guida su cosa fare e dire, qualcuno a cui rivolgersi per chiedere “Questo è bullismo?” e che possa eventualmente rispondere “No, no, questo è sarcasmo. Certo, il sarcasmo non è molto carino, ma non prenderla sul personale”. Quindi hanno bisogno di qualcuno di cui possono fidarsi, che capisca la loro tendenza a interpretare letteralmente e che sia anche in grado di agire per suo conto e sia in grado di spiegare che “No, non voleva essere maleducato, è stato diretto”.

Spiegare la neurodiversità

SOM: I luoghi di lavoro sono neurotipico centrati e organizzati. Quale cambiamento suggerisce per rendere il posto di lavoro più adatto a persone neurodivergenti come le persone nello spettro autistico?

T.A.: Uno degli accorgimenti per rendere un posto di lavoro adatto alle persone autistiche è dare loro la possibilità di spiegare sé stesse, non cercare di cambiare il loro Autismo.

Per esempio, una delle caratteristiche dell’Autismo è la mancanza di contatto visivo, che manda in confusione chi interagisce con una persona autistica. Dobbiamo quindi dare la possibilità alla persona autistica di spiegare che non guardare l’interlocutore negli occhi la aiuta a concentrarsi su quello che l’altro sta dicendo.

Un altro esempio riguarda la capacità di riconoscere i segnali di stop: un collega è al telefono e la persona autistica lo interrompe improvvisamente con una domanda senza specificare il contesto. La persona autistica dovrebbe esplicitare che non è brava a cogliere i segnali di “Non ora!” e quindi chiedere che sia dato un chiaro segnale (es. fare segno di stop con la mano), così che possa fermarsi, ma deve essere un segnale chiaro.

Se diamo alle persone autistiche la possibilità di spiegare perché si comportano in un certo modo, quindi gli aspetti del loro Autismo che possono indurre negli altri imbarazzo o confusione, la reazione degli altri sarà “Aaah, ora ha senso! Ok!”

Come prepararsi a un colloquio di lavoro

SOM: Per ottenere un lavoro bisogna prima affrontare un colloquio di lavoro, che può essere molto stressante per le persone autistiche che hanno difficoltà nei rapporti sociali e nella comunicazione. Come possono prepararsi per affrontare il colloquio di lavoro in modo più sereno?

T.A.: La parola chiave è proprio prepararsi: bisogna fare prove, prove, prove.

Quindi, parlare con qualcuno, un membro della famiglia o un amico o impiegato dall’agenzia di reclutamento: a quali domande dovrò rispondere? Come dovrò rispondere? Quali domande posso fare?

Ma c’è un altro aspetto da considerare: quando una persona ti pone una domanda, come fai a sapere quando non hai detto abbastanza o hai detto troppo? Come fai a leggere il comportamento non verbale che ti segnala quanto dire?

Oppure ci sono domande particolari a cui può essere molto difficile rispondere per una persona autistica, come per esempio: “Noi non la conosciamo, quindi, ci parli un po’ di Lei. Chi è Lei?”

Pertanto è necessario organizzarsi: dove si terrà il colloquio di lavoro? Facciamo un po’ di pratica andando lì, così che la persona possa familiarizzare e rilassarsi. Queste sono le domande che potrebbero fare, proviamo a rispondere, così che tu possa fare commenti del tipo “Sto rispondendo alla tua domanda? Hai bisogno di più informazioni? Questa cosa mi confonde”.

Tuttavia la conversazione vis à vis è molto difficile per una persona autistica, per questo suggeriamo che abbia un portfolio video o prove tangibili di ciò che sa fare (es. lettere di raccomandazione).

Mindfulness

SOM: La mindfulness può essere d’aiuto?

T.A.: Le persone autistiche sono bravissime a preoccuparsi e si preoccupano tantissimo. Hanno ansia da prestazione, sono perfezioniste. La loro ansia è legata all’incertezza e al cambiamento e quindi hanno bisogno di strategie per gestire l’ansia.

Mindfulness, meditazione e yoga sono molto utili, ma non per tutte le persone autistiche. Una persona su 3 infatti rifiuta queste strategie. Sono coloro la cui mente corre veloce e che hanno bisogno di trattenere i loro pensieri accelerati. Se li lasciassero scorrere verrebbero travolti da pensieri ed emozioni e non riuscirebbero più a concentrarsi; sarebbe come avere un disturbo dell’attenzione. Queste persone hanno bisogno di attività fisica, come la corsa o la palestra, piuttosto che della mindfulness.

Psicoterapia cognitivo comportamentale

SOM: Nel Suo libro presenta un programma e offre strumenti pratici per affrontare il mondo del lavoro. Tra gli strumenti ha incluso anche le tecniche CBT (es. ABC). Come possono essere utili?

T.A.: Penso che la CBT sia utile per gestire l’ansia da prestazione sia in ambito lavorativo sia in ambito sociale perché permette alle persone di verificare la validità delle proprie ipotesi, come per esempio “Non sono bravo” oppure prendere un commento troppo duro come una critica. C’è una tendenza nell’Autismo al pensiero catastrofico e si possono presentare tutti i principali disturbi del pensiero, quindi la CBT è un modo per assicurarsi di cercare prove e verificarle.

Autistic burnout

Un ulteriore aspetto da considerare è il Burnout autistico. Vivere in un ambiente che non è Autismo-friendly alla fine rende la persona autistica depressa e la spinge ad abbandonare il lavoro perché non ha più energie ed è molto stressata. Può essere a causa delle pretese del mondo esterno, delle esigenze sociali, lavorative, sensoriali, che diventano troppo.

Quindi la persona deve domandarsi: “Quante ore alla settimana sono in grado di lavorare? Ci si aspetta che io lavori 38 ore alla settimana, ma non ce la faccio, ho bisogno di un lavoro part-time”.

Ci sono però lavori in cui non è importante se sei una persona autistica perché non c’è bisogno di incontrare altre persone, come per esempio il guardiano in uno zoo o la guardia forestale in un parco nazionale, dove tutto il giorno devi occuparti di badare ad animali e piante senza bisogno di interagire con altri.

Nessuno si accorgerà che la persona è autistica perché il modo principale per accorgersene è relazionarsi con lei. Se non hai persone con cui interagire, non sei autistico.

Un bellissimo messaggio da portare a casa

SOM: C’è un messaggio che vorrebbe che i nostri lettori si portassero a casa?

Esplorate l’Autismo: scoprirete un nuovo mondo e vi sentirete meglio per averlo fatto.

 

Il dott. Attwood sarà in Italia per l’evento Autismo al Lavoro che si terrà a Milano nei giorni 11-12 maggio 2023.

La cronofagia e la difficoltà a ritagliarsi del tempo libero nella società contemporanea

Quando è stato il vostro ultimo giorno libero, senza impegni, senza scadenze, senza nulla di cui occuparvi? Proviamo a riflettere sugli effetti della cronofagia nelle nostre vite.

Cronofagia e assenza di tempo libero

 Nella società contemporanea siamo perennemente impegnati, privi di tempo per noi stessi, per ciò che può essere piacevole o per stare nel “dolce far niente”, ormai un’utopia. Dedichiamo le nostre giornate al lavoro, o al massimo ai social network e a qualche acquisto (più spesso online), giornata dopo giornata, settimana dopo settimana, in modo talmente automatico da quasi non rendercene conto.

Lo Zeitgeist della nostra società (che qui usiamo per intendendere la tendenza culturale predominante in una certa epoca) consiste proprio nell’assenza di tempo, fagocitato dall’impostazione efficientista che caratterizza le nostre vite. Questa condizione è ben descritta dal termine cronofagia, che deriva dal greco χρόνος- (chronos, tempo) e -ϕαγεῖν (faghein, mangiare).

Il primo a parlare di cronofagia è stato Jean-Paul Galibert in “I cronòfagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo” dove ha messo in luce i risvolti negativi del capitalismo. Ogni nostro momento risulta ormai legato alla produttività e monetizzato, anche quando non siamo impegnati nella nostra attività lavorativa, infatti, siamo impegnati nella navigazione su Internet, nell’uso dei social network, nello shopping online promosso da efficaci strategie di marketing, tutte attività che portano un profitto a qualcuno anche se non direttamente a noi.

Che ne è quindi del nostro tempo libero?

Spesso siamo talmente fagocitati dai nostri impegni che arriviamo a pianificare con anticipo anche i momenti di svago, le telefonate con amici, le passeggiate, la doccia, in modo da sfruttare ogni minuto; i weekend liberi non esistono, ogni attività che non viene svolta durante la settimana viene pianificata durante il sabato e la domenica, non permettendoci di fermarci, rallentare, vivere.

Cronofagia e insonnia

Molto interessanti sono le riflessioni di Mazzocco (2019) in merito al legame tra cronofagia e sonno. A causa del sempre più diffuso utilizzo dei dispositivi elettronici con l’esposizione alla luce degli schermi, e grazie alla facile accessibilità di una grande quantità di film e serie tv, si riduce sempre di più il tempo dedicato al sonno, per difficoltà o per una sorta di dipendenza dalle varie piattaforme di streaming, che riducono il tempo dedicato al dormire. Quali sono gli effetti delle alterazioni del sonno sulla nostra vita? L’insonnia è il disturbo del sonno più diffuso nel mondo, e comporta una serie di problematiche relative alla salute (Chen et al., 2020).

La riduzione del sonno sembra risultata associata a 7 su 15 delle cause principali di morte negli Stati Uniti, che includono malattie cardiovascolari, cancro, malattie cerebrovascolari, ictus, diabete, sepsi e ipertensione. Inoltre, le persone con insonnia spesso lamentano stanchezza, nervosismo e debolezza e sono più inclini a sperimentare emozioni negative, cosa che può portare a depressione, abuso di sostanze, ridotte capacità sociali e lavorative. Inoltre, l’insonnia risulta essere spesso in comorbidità con disturbi psichiatrici come depressione, ansia e suicidio (Chen et al., 2020).

Cronofagia, internet e social network

In affiancamento alla riduzione del tempo dedicato a noi stessi e al sonno, si può notare un aumento del tempo dedicato all’uso della tecnologia.

 Essere perennemente connessi e contattabili rende difficile riuscire a staccare dal lavoro: a chi non è mai capitato di leggere o addirittura rispondere a qualche mail di lavoro durante un viaggio in metropolitana? La difficoltà nel differenziare tra lavoro e vita personale si è accentuata ancor di più nel periodo pandemico, con l’introduzione dello smartworking. Nonostante i suoi numerosi vantaggi, il lavoro da casa rischia infatti di prendersi più tempo di quanto avverrebbe in presenza, e di rendere difficile “staccare” del tutto a fine giornata, poiché le comunicazioni sono confinate online, e i nostri telefoni sono sempre pronti a suonare e segnalarci attraverso una notifica nuovi messaggi.

Altro grande cambiamento legato alla diffusione della tecnologia è l’uso dei social network, che risulta in costante aumento: nel 2012 il tempo medio trascorso sui social network era di 90 minuti, nel 2013 di 95, fino a 135 minuti nel 2017 (Picotti, 2019). I social network permettono per esempio di coltivare la sfera relazionale anche a distanza, di mantenersi aggiornati, di guardare materiale piacevole o divertente, ma non possiamo dimenticare come rappresentino anche un’enorme fonte di dati a livello economico e di marketing, dati non remunerati, ma appunto di enorme valore economico all’interno delle società capitalistiche.

Cronofagia e stress

Nell’antichità il lavoro era considerato un impedimento, ad esempio nell’antica Grecia era visto come un ostacolo dal coltivare le amicizie e la cura della città, mentre nel mondo moderno la realizzazione personale e sociale dell’individuo ha iniziato ad essere concepita come indissolubilmente legata al lavoro (Consiglio, 2022). Se ci fermiamo a riflettere, tra le prime domande che facciamo a qualcuno per rompere il ghiaccio c’è il tipico “Di cosa ti occupi?”, oppure, quando ci viene chiesto il classico “Che fai nella vita?” rispondiamo automaticamente parlando del nostro lavoro; questo può aiutarci e realizzare quanto il lavoro abbia un ruolo chiave nelle nostre vite.

Il rischio di tutto quanto sopra descritto è un assorbimento nella rapidità e nella frenesia della nostra società senza spazio per altro, senza tempo libero, e la cosa peggiore è che spesso andiamo avanti con il pilota automatico e non ne siamo consapevoli fino a che non iniziamo a sperimentare stress sempre maggiore e, infine, le sensazioni di un vero e proprio esaurimento.

Anche in assenza di un vero e proprio disturbo da stress, la frenesia delle nostre vite quotidiane può mettere a dura prova il benessere psicofisico. Come possiamo gestirlo? Prima di tutto è necessario prestare attenzione alle nostre emozioni e al nostro corpo, notando i segnali e i bisogni. Solo dopo esserci resi conto della necessità di un cambiamento sarà possibile metterlo in atto. Una pratica utile per rallentare e vivere più nel presente combattendo la cronofagia è la mindfulness: basata sul prestare attenzione al momento presente in modo curioso e non giudicante, offre un’alternativa alle strategie orientate alla risoluzione dei problemi che sono profondamente radicate nella cultura occidentale (Kabat-Zinn, 2004).

Quindi oggi proviamo a fermarci, prenderci cinque minuti e fare un piccolo bilancio della nostra quotidianità, in modo da capire se abbiamo bisogno o desiderio di rallentare i ritmi e riprenderci del tempo libero che sia veramente nostro.

P300 e neuropsicologia clinica: un parametro fisiologico per le disfunzioni cognitive associate all’emicrania

Le ricerche che mirano ad approfondire come i deficit cognitivi dei pazienti con emicrania si associano alle caratteristiche dell’onda P300 non sono molti, ma i risultati appaiono promettenti.

Emicrania e Deficit Cognitivi

 Inserita nell’International Classification of Headache Disorders-3, l’emicrania è una malattia neurologica cronica caratterizzata dalla comparsa di cefalee ripetute, prolungate e accompagnate da nausea, vomito, fotofobia e fonofobia. Spesso le cefalee sono precedute da sintomi reversibili che interessano il sistema visivo, somatosensoriale e motorio. Si pensi, per esempio, agli scotomi, ossia parziali alterazioni del campo visivo caratterizzate dalla comparsa di macchie scintillanti che riducono l’efficienza visiva del soggetto. In questi casi si parla di emicrania con aura (International Headache Society, 2018).

Nonostante la presenza di disfunzioni cognitive non sia esplicitamente inclusa all’interno dei criteri diagnostici, esse sono spesso rintracciabili nei pazienti emicranici. Una revisione della letteratura di Raggi & Ferri (2020) mostra infatti che individui affetti da emicrania presentano dei deficit moderati o severi riguardanti per esempio la memoria di lavoro (de Araújo et al. 2012), ovvero un sistema di immagazzinamento a breve termine che mantiene al suo interno una quantità limitata di informazioni per consentirne l’utilizzo nell’immediato. Di norma, i deficit cognitivi vengono misurati ricorrendo a dei test neuropsicologici, tra cui il Montreal Cognitive Assessment (MoCA; Nasreddine et al., 2005), uno strumento che comprende al suo interno una serie di prove guidate dall’operatore tese a individuare eventuali patologie dementigene nel paziente.

I potenziali evento-correlati e la P300

Negli ultimi anni è emersa la necessità di ancorare le disfunzioni cognitive del paziente non solo ai risultati di questi test, ma anche a dei parametri fisiologici, per esempio l’attività neuronale, il battito cardiaco, la temperatura corporea, la pressione arteriosa e così via. Un possibile biomarcatore dei deficit cognitivi esibiti dai pazienti emicranici è rappresentato dai potenziali evento-correlati (ERPs; event-related potentials), ossia dei brevi cambiamenti nell’attività elettrica del nostro cervello che si verificano in risposta a un evento o a uno stimolo (Zhong et al., 2019). Per esempio, quando udiamo un suono. Una volta rilevati attraverso l’elettroencefalogramma, quest’ultimi possono essere suddivisi in due macrocategorie. Le onde che raggiungono un picco entro i primi 100 ms dopo la presentazione dello stimolo sono definite “sensoriali” o “esogene”, in quanto riflettono l’elaborazione sensoriale di base dello stimolo. Al contrario, gli ERPs generati nei momenti successivi vengono definiti ERPs “cognitivi” o “endogeni”, poiché sottendono al processo di l’elaborazione percettiva e cognitiva dello stimolo (ovvero, riflettono il modo in cui il soggetto valuta lo stimolo; Sur et al., 2009). Guardando nel dettaglio il tracciato di un ERP è possibile notare come esso sia caratterizzato da molteplici componenti. Queste ultime vengono indicate con degli acronimi, in cui la prima lettera indica la polarità (ovvero la positività o la negatività dell’onda), mentre il numero che segue rappresenta la latenza tipica di quel potenziale post-sinaptico espressa in millisecondi. Tra di esse, P300 rappresenta l’onda cerebrale maggiormente studiata oggigiorno allo scopo di valutare la qualità del processamento delle informazioni in pazienti affetti da disturbi neurologici, poiché facilmente registrabile e dotata di un’elevata affidabilità (Polich, 2007; Li et al., 2021). Scoperta da Sutton e colleghi nel 1965, P300 risulta implicata sia nell’elaborazione della novità dello stimolo sia nell’allocazione di risorse attentive utili per l’aggiornamento della memoria di lavoro (Saliasi, 2013).

P300 ed emicrania

 Al momento, le ricerche che mirano ad approfondire come i deficit cognitivi dei pazienti emicranici si associano alle caratteristiche di quest’onda non sono molti, ma i risultati appaiono comunque promettenti. Uno studio condotto da Huang et al. (2017) evidenzia che individui affetti da emicrania mostrano una latenza di P300 significativamente allungata rispetto ai controlli. Siccome la latenza di P300 viene comunemente interpretata come la velocità di classificazione dello stimolo (Kapanci et al., 2019), latenze brevi rappresentano di norma indici di buone prestazioni cognitive, mentre latenze più lunghe segnalano la necessità di un lasso di tempo prolungato al fine di ultimare il processamento delle informazioni e, di conseguenza, la presenza di un possibile deficit cognitivo nel soggetto. Tuttavia, nel presente studio non è stata rilevata alcuna differenza statisticamente significativa nell’ampiezza di P300 tra i due gruppi, così come non è stata osservata nei pazienti affetti da emicrania alcuna robusta relazione tra i punteggi del MoCA (cioè funzioni visuospaziali, attenzione, linguaggio, memoria, funzioni esecutive, calcolo e orientamento) e le caratteristiche di P300 (Huang et al., 2017). Un allungamento significativo della latenza di P300 in pazienti emicranici è stata osservata anche in altri due studi (Wang et al., 1995; Titlic et al., 2015), nei quali è stata rilevata inoltre una marcata riduzione dell’ampiezza della stessa onda. Un’ipotesi è che queste evidenze possano dimostrare la presenza di un deterioramento cognitivo onnicomprensivo nei pazienti affetti da emicrania, o quanto meno di un deficit esteso delle loro capacità di elaborazione delle informazioni. Passando oltre, sono state condotte delle ricerche che hanno rilevato solamente una diminuzione dell’ampiezza di P300 nei soggetti con emicrania senza osservare alcun cambiamento significativo nella latenza di quest’ultima (Drake et al., 1989; Chen et al., 2007; Wang et al., 2014). Ciò indicherebbe pertanto la presenza di una compromissione a livello della memoria di lavoro, ma non supporterebbe l’ipotesi sostenuta dai lavori sopra citati riguardante l’eventualità che pazienti emicranici mostrino alterazioni significative nella velocità di elaborazione delle informazioni rispetto agli individui sani. In merito all’ampiezza e alla latenza di P300, altri studi riportano persino l’assenza di una differenza statisticamente significativa al basale tra pazienti emicranici e controlli (e.g. Buodo et al., 2004; Valeriani et al., 2009).

Data l’eterogeneità dei risultati che sono al momento a nostra disposizione, ulteriori studi che consentano di accertare il ruolo di P300 nei soggetti affetti da emicrania in relazione ai deficit cognitivi mostrati da quest’ultimi sono necessari. Guardando ai neuropsicologi del futuro, la possibilità di disporre, accanto ai tradizionali test di screening, di biomarcatori come la P300 consentirebbe un notevole passo in avanti nell’ambito clinico garantendo non solo la possibilità di individuare precocemente l’esordio della malattia, ma anche di monitorare puntualmente l’efficacia del trattamento somministrato al paziente.

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