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Disturbi alimentari e obesità: il ruolo della costituzione genetica individuale

I disturbi alimentari e l’obesità colpiscono circa il 6% della popolazione italiana e causano significativo disagio. Secondo studi recenti, però, questi disturbi non sembrerebbero solo causati da scelte consapevoli e/o tratti psicologici, bensì dall’azione di circa 60 geni specifici in grado di determinare in parte o anche completamente il nostro peso corporeo.

 

Introduzione

 I Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione, in particolare Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, sono una classe eterogenea di malattie mentali complesse caratterizzate da una disregolazione del peso corporeo e dell’appetito e da caratteristiche comportamentali e psicologiche distintive in base alla tipologia di disturbo (Bulik et al., 2022). Questi disturbi stanno diventando sempre di più oggetto di difficoltà a livello sanitario e sociale, a causa della loro diffusione soprattutto tra i giovani e per la loro natura multifattoriale complessa (Ministero della Salute, 2023). I disturbi alimentari colpiscono principalmente il genere femminile, con un rapporto femmine/maschi di circa 9 a 1, anche se questi disturbi cominciano ad aumentare anche all’interno del sesso maschile (Ministero della Salute, 2023). Ricerche nazionali recenti hanno riportato un aumento di questi disturbi di circa il 40% rispetto al 2019 (Ministero della Salute, 2023) oltre che rilevato difficoltà di accesso alle cure in molte Regioni italiane, fatto che porta con sé conseguenze sulla prognosi (Ministero della Salute, 2023).

L’obesità invece, nonostante sia anch’essa caratterizzata da un’assunzione di calorie continuata nel tempo ed eccessiva rispetto al consumo individuale, non è al momento classificata come disturbo mentale (APA, 2022).

I disturbi alimentari e l’obesità non sono rimasti esenti da giudizi. Molto spesso, infatti, questi disturbi vengono considerati come quasi esclusivamente dovuti alle scelte consapevoli dell’individuo o/e ai suoi tratti psicologici.

Ma è veramente tutta “responsabilità” del soggetto che ne è affetto? Cosa dice la scienza moderna? Ecco che lo studio del gruppo di ricerca dell’Università Laval (Canada) dimostra la falsità di questo stigma sociale.

La ricerca

Negli ultimi 40 anni, i cambiamenti nell’ambiente alimentare hanno indubbiamente contribuito al rapido aumento dell’Indice medio di Massa Corporea (IMC) in quasi tutti i Paesi, a causa dell’influenza che l’ambiente stesso ha avuto sui nostri comportamenti alimentari. È così che i ricercatori dell’Università Laval (Canada), hanno ritenuto che l’identificazione dei determinanti genetici e biologici del peso corporeo fosse di fondamentale importanza dal punto di vista evolutivo e della salute pubblica (Gagnon et al., 2023). Tuttavia, diverse evidenze suggeriscono che i fattori genetici hanno plasmato la risposta individuale all’ambiente obesogeno. Studi su gemelli e famiglie, infatti, hanno rivelato che le variazioni genetiche possono spiegare il 50-75% della varianza dell’Indice di Massa Corporea.

 Su questi dati, quindi, i ricercatori si sono proposti di determinare se le varianti genetiche legate all’Indice di Massa Corporea potessero essere mappate sulle proteine cerebrali. È stato così esaminato il genoma di 800 mila persone. Il team di ricerca si è concentrato, grazie all’uso di tecniche di proteomica (tecniche specifiche per lo studio delle proteine cerebrali) sulla corteccia prefrontale dorsolaterale, sede del cervello coinvolta all’interno dei processi di fame e sazietà.

I risultati della ricerca

Grazie alle tecniche di proteomica, sono stati identificati circa 60 geni attivi nella corteccia prefrontale dorsolaterale, geni che contribuiscono ad influenzare la nostra massa corporea. Essi, quindi, potrebbero svolgere la funzione di controllo dell’Indice di Massa Corporea umano tramite la loro espressione in quella specifica parte del cervello sopracitata.

Questi risultati evidenziano quindi il ruolo fondamentale dei geni nella regolazione del peso corporeo, permettendoci anche di dare una spiegazione alla variazione significativa dell’Indice di Massa Corporea da persona a persona.

Conclusioni

Questo studio dimostra come l’obesità e/o i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione non siano necessariamente la conseguenza di comportamenti volontari e quindi di scelte consapevoli dell’individuo che ne è affetto. Il nostro DNA, infatti, risulta essere determinante in maniera parziale (o anche completa) nella quantità di grasso corporeo che ognuno di noi possiede. Nonostante ciò, ci sono situazioni in cui questa espressione genetica è celata da alterazioni comportamentali individuali tipiche dei disturbi alimentari, come le perdite di controllo sul cibo, che rendono così difficile la comprensione di questo fenomeno. Esisterebbe quindi una differenza, sebbene non sempre evidente, tra “responsabilità” e “costituzione genetica” individuale. Dati questi risultati, la scienza riuscirà ad abbattere lo stigma esistente nei confronti di queste patologie?

 

Cosa vuol dire essere una persona altamente sensibile?

L’indagine qualitativa di Bas e colleghi (2019) ha l’obiettivo di comprendere il funzionamento delle persone altamente sensibili nelle loro percezioni, esperienze e strategie di coping.

Alta sensibilità: lo studio di Bas e colleghi (2019)

 Anche se ognuno di noi, per sopravvivenza, è sensibile agli stimoli ambientali, il livello di suscettibilità a tali informazioni differisce fra gli individui in base al tratto di “sensibilità all’elaborazione sensoriale” (Sensory Processing Sensitivity, SPS) (Aron et al., 2012). Anche se in passato la sensibilità all’ambiente era vista esclusivamente come un fattore di rischio, oggi le ricerche suggeriscono che, se gli individui possono essere diversamente suscettibili a contesti avversi o supportivi in funzione del loro grado di sensibilità (Homberg, J.R. e Jagiellowicz, 2021), allora le persone con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale avranno più probabilità di sperimentare problemi legati allo stress (Greven et al., 2019). In questa direzione, lo studio qualitativo di Bas e colleghi (2019) si è posto l’obiettivo di porre luce sugli aspetti positivi e negativi dell’elevata sensibilità, approfondendo le strategie di coping che gli individui con elevata sensibilità all’elaborazione sensoriale utilizzano per affrontare le conseguenze di tale tratto.

Percezioni ed esperienze degli individui altamente sensibili

Anche se la letteratura ad oggi presente sull’argomento definisce la sensibilità all’elaborazione sensoriale come un costrutto unitario, rimangono ancora poco chiare le sue caratteristiche centrali.

Rispetto alle percezioni e alle esperienze che gli individui con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale vivono quotidianamente, sono emersi 6 temi significativi con relativi sotto-domini:

Risposta emotiva

  • Forti emozioni negative in risposta a eventi avversi, emozioni o comportamenti negativi degli altri (es. rabbia o rifiuto), e triggers quali informazioni negative da parte dei media (sentire notizie allarmanti o vedere violenza);
  • Forti emozioni positive, incluso essere profondamente toccati dall’arte o godere intensamente delle piccole cose della vita;
  • Richiesta di più tempo per elaborare e regolare le emozioni, specie quelle negative.

Connessione con gli altri

  • Notare o sentire le emozioni degli altri e l’atmosfera delle situazioni in maniera intensa (ad esempio, avvertendo quando c’è del non detto);
  • Elevata attenzione ai bisogni altrui, anche se a volte a costo delle proprie necessità;
  • Elevata comprensione delle intenzioni degli altri, riuscendo ad adottare la prospettiva con cui questi vedono il mondo;
  • Agire sulla base dell’empatia (ad esempio, offrendo aiuto quando capiscono che qualcuno sta male);
  • Sentirsi connessi agli altri (anche con chi non si conosce), con i quali stabilire un contatto profondo e condividere i propri sentimenti.

Pensiero

  • Rimuginio e ruminazione, con la tendenza a preoccuparsi molto;
  • Pensare e riflettere a lungo, non riuscendo a concludere in breve tempo le decisioni;
  • Necessità di andare in profondità e carpire il significato delle cose

Facilità alla sovrastimolazione

  • Dagli stimoli sensoriali (rumori, luci, sensazioni tattili);
  • Dagli stimoli sociali (situazioni dove ci sono tante persone con cui interagire);
  • Effetti sulla cognizione (distrazione, affatticamento, confusione mentale);
  • Effetti sull’umore (maggiore irritabilità o rabbia).

Percezione dei dettagli

  • Percezione di una maggiore quantità di informazioni (“senza filtro”);
  • Percezione dettagliata delle informazioni, “in alta definizione” (ad esempio, le persone altamente sensibili percepiscono le sottigliezze della comunicazione non verbale)

Aspetti generali dell’elevata sensibilità

  • Diminuzione dell’autostima a causa dell’alta sensibilità;
  • Stress, perché questi individui si affaticano più facilmente e, contemporaneamente, trovano più difficile rilassarsi;
  • Stanchezza, riportando di avere spesso un basso livello di energia.

 Altre aree emerse come significative sono maggiori difficoltà nell’area lavoro/studio, elevata creatività, esperienze intense e un ricco mondo interiore, spiritualità, pensiero associativo, tendenza all’impulsività e capacità di trarre conclusioni da molteplici dettagli.

Le strategie di coping delle persone altamente sensibili

Rispetto alle strategie che gli individui con alti livelli di sensibilità all’elaborazione sensoriale utilizzano per migliorare il loro livello di benessere, sono emerse due strategie significative con relativi sotto-domini:

Ridurre l’input sensoriale:

  • Bisogno di solitudine e ambienti tranquilli come strategie per affrontare o prevenire la sovrastimolazione;
  • Specifiche strategie per ridurre le stimolazioni sensoriali, come utilizzare gli auricolari per attutire i rumori o gli occhiali da sole per schermarsi dalla luce.

Strategie psicologiche:

  • Ricevere supporto dagli altri, con i quali condividere le proprie esperienze interiori e sentirsi compresi;
  • Attività di mindfulness, meditazione per aiutarsi a lasciare andare i pensieri negativi.

Conclusioni

Anche se tende ad emergere presto nella vita, molti dei partecipanti riportano di aver purtroppo scoperto tardi la loro elevata sensibilità; alcuni di loro, infatti, hanno espresso che, se l’avessero saputo prima, molti dei loro problemi legati allo stress avrebbero potuto essere prevenuti. Di fatto, quando le persone sono consapevoli della loro ipersensibilità, possono esprimere al massimo il loro potenziale. Ad esempio, l’efficacia e la soddisfazione nell’ambiente lavorativo sono migliori quando le caratteristiche personali (come la sensibilità all’elaborazione sensoriale e le esigenze che ne derivano) e le caratteristiche ambientali sono compatibili. Oltre a creare consapevolezza nella popolazione, una maggiore conoscenza sull’alta sensibilità potrebbe essere utile nei programmi educativi per insegnanti e specialisti sanitari.

L’impiego dei sogni lucidi nei setting clinici

Cosa sono i sogni lucidi e come potrebbero essere impiegati nella pratica clinica e nei percorsi terapeutici?

 

 Sperimentare un sogno lucido significa acquisire un certo grado di consapevolezza della propria attività onirica durante il sonno (Baird et al., 2018). È raro ma non impossibile averne esperienza spontaneamente e la frequenza di presentazione può essere aumentata attraverso l’utilizzo di specifiche tecniche (Gott et al., 2020). Sebbene il fenomeno dei sogni lucidi non sia una novità, esistono pochi studi, spesso contrastanti, al riguardo; nella pratica clinica infatti non è ancora stato stabilito se possano essere utili o dannosi.

Sogni lucidi e incubi

Nel corso dell’ultimo decennio è nata l’idea di combinare i trattamenti psicoterapeutici per i militari affetti da Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e l’impiego dei sogni lucidi: questo progetto ha preso il nome di “Power Dreaming”. L’interesse per questa nuova pratica è nato dagli aspetti preoccupanti e dagli effetti a lungo termine causati dalla malattia sul personale militare, dal momento che il 52% dei veterani con PTSD riferisce di avere incubi frequenti, rispetto al 3-7% della popolazione generale (Kuhn, 2011). Secondariamente, la proposta di introdurre questa procedura innovativa combinata con strategie psicoterapeutiche alternative è stata dettata dalla necessità di trovare una soluzione ai nuovi problemi psicologici derivanti dal moderno servizio militare. L’utilizzo dei sogni lucidi potrebbe essere una possibilità per aiutare i militari, e generalmente i pazienti affetti da PTSD, a controllare consapevolmente i propri incubi legati al trauma e modificare le risposte fisiche ed emotive ad essi legate (Smith, 2020). In questo ambito, l’utilizzo dei sogni lucidi come pratica terapeutica potrebbe servire come strumento per aiutare gli individui a risolvere i propri conflitti interni, cambiando la percezione degli eventi traumatici già vissuti e allo stesso tempo preparare la psiche a potenziali scenari pericolosi nella vita reale, sperimentandoli in un ambiente controllato e sicuro (Zink & Pietrowsky, 2015).

Alla luce di queste considerazioni, è stato ipotizzato che possano avere un impatto positivo sulla riduzione dell’intensità e della frequenza di comparsa degli incubi, i quali possono essere fonte di disagio significativo e compromissione del funzionamento lavorativo e sociale. Possono essere anche connessi a sintomi di depressione e ansia e predire la comparsa del fenomeno delle paralisi del sonno. Pertanto, essere consapevoli di star sognando potrebbe essere molto utile in queste situazioni (de Macêdo et al., 2019).

 Eppure, sebbene l’induzione di sogni lucidi possa essere un possibile supporto nel trattamento dei soggetti che soffrono di incubi, riducendone la frequenza e l’intensità, la letteratura a riguardo è scarsa o quasi inesistente (de Macêdo et al., 2019), anche perché stabilire il legame tra incubi e sogni lucidi è estremamente complesso (Drinkwater et al., 2020). Ad esempio, Glicksohn (1990) ha osservato come solo credere nelle esperienze paranormali predicesse i sogni lucidi e, nel 2017, Denis e Poerio hanno dimostrato come la paralisi del sonno e i sogni lucidi fossero collegati alla credenza nel paranormale, suggerendo che una spiegazione valida per questo legame potrebbe essere l’apertura all’esperienza.

Sogni lucidi e insonnia

Il trattamento di prima scelta per l’insonnia è la terapia cognitivo-comportamentale specifica per questo disturbo (CBT-I). Tuttavia, è stato osservato come anche l’impiego dei sogni lucidi potrebbe attenuarne la sintomatologia, come affermato da Ellis e colleghi (2020) in uno studio pilota. L’obiettivo dello studio era quello di verificare se il training sui sogni lucidi per l’insonnia potesse influire positivamente su di essa e sui sintomi di depressione e ansia. Il training consisteva in quattro moduli distribuiti in un periodo di due settimane e prevedeva l’introduzione di cinque tecniche di induzione di tipo cognitivo, come la normalizzazione dei sogni, il controllo della realtà, le affermazioni lucide, la visualizzazione e l’autosuggestione. Dei 48 partecipanti dello studio, 37 hanno riferito di aver fatto sogni lucidi almeno una volta durante il percorso, mentre 11 non sono riusciti a sperimentarli. Al termine della procedura, 26 soggetti non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di insonnia e inoltre, nessuno dei partecipanti ha richiesto il supporto della CBT-I.

Ad ogni modo, a prescindere dai suoi possibili risultati terapeutici, l’utilizzo dei sogni lucidi nella pratica clinica è ampiamente dibattuto, soprattutto perché il loro innesco può causare disturbi nei pattern del sonno (Stumbrys et al., 2012) e nell’equilibrio dei sistemi serotoninergici e colinergici (Biard et al., 2016). A tal proposito, vi sono infatti opinioni contrastanti: ad esempio, alcune ricerche (es. Ellis et al., 2020) sostengono che i sogni lucidi possano conferire un buon livello di benessere e che perciò possano essere integrati alla terapia standard. Al contrario, altre si concentrano sulla possibilità che gli stati di sonno-veglia possano essere correlati a cognizioni bizzarre, stress e psicopatologia e, seguendo questa linea di pensiero, Aviram e Soffer-Dudek (2018) hanno condotto uno studio per osservare il legame tra quest’ultima e la comparsa o induzione dei sogni lucidi. Dallo studio è emerso che l’intensità del sogno lucido, le emozioni positive ad esso legate e l’uso di tecniche di stimolazione fossero profondamente associati a diversi sintomi psicopatologici, evidenziando soprattutto un forte legame con l’induzione deliberata e l’aumento della dissociazione e di sintomi psicotici in un periodo di 2 mesi.

Conclusioni

Il dibattito sull’impiego dei sogni lucidi nel trattamento delle malattie continua, poiché non è ancora chiaro se gli aspetti positivi del loro utilizzo possano essere più solidi di quelli negativi; inoltre, gli effetti a lungo termine sul cervello causati dall’induzione dei sogni lucidi necessitano di ulteriori studi.

In conclusione, sebbene la lucidità possa presentare aspetti sia positivi che negativi a seconda delle sue caratteristiche, questa procedura dovrebbe essere utilizzata con cautela, soprattutto in ambito terapeutico.

Funzioni esecutive. Il programma Unstuck and on Target! (2023) – Recensione

Alla base delle difficoltà che spesso si incontrano, non solo in chi ha una diagnosi psichiatrica, ci sono quelle riguardanti le funzioni esecutive, capacità con base neurologica per il controllo del comportamento e il raggiungimento di scopi (iniziazione, controllo inibitorio, memoria di lavoro, organizzazione e pianificazione, automonitoraggio, ecc.).

 

 Tra le funzioni esecutive la flessibilità cognitiva assume un ruolo molto importante, per tollerare i cambiamenti e gli eventi inaspettati, trovare nuovi modi di affrontare un problema, accettare interpretazioni flessibili delle regole, negoziare con gli altri e accettare punti di vista diversi.

Il libro di Cannon e collaboratori presenta un protocollo innovativo e specifico per lavorare sulle funzioni esecutive e applicabile per migliorare la flessibilità e le altre funzioni, la regolazione emotiva, il problem solving, l’organizzazione e la pianificazione.

La flessibilità ci consente di capire che si possono fare le cose in più di un modo, si contrappone al pensiero rigido che considera giusto un solo punto di vista e assume posizioni estreme.

Unstuck and on Target! è un piano d’azione per insegnare/apprendere a essere più flessibili e abili nella pianificazione e orientati verso scopi. La proposta del volume è stata sviluppata per i bambini con autismo, ma è applicabile in modo ampio.

 La struttura del libro comprende 21 sessioni divise in 6 fasi. Ogni fase e sessione prevede la definizione dello scopo, l’elenco dei materiali da utilizzare, la descrizione delle attività da svolgere e il monitoraggio dei progressi. Una guida per la pratica a casa e a scuola completa l’illustrazione del percorso.

La prima fase concerne le abilità fondamentali: conoscere sé stessi, identificare le emozioni, mettere a punto un piano, scegliere strategie di coping. La seconda fase è relativa alla flessibilità e alle attività per migliorarla.

La terza fase addestra ad avere un comportamento flessibile nell’affrontare i problemi e giungere a soluzioni di buon compromesso, anche quando si è di fronte all’inaspettato. Nella fase successiva sono presi in considerazione i vantaggi di un comportamento flessibile.

La fase cinque tratta di come raggiungere i propri scopi attraverso il format SMART (Scopo, Motivazione, Architettare un piano, Realizzare, Tenere d’occhio), mentre l’ultima fase evidenzia l’importanza della flessibilità quando si è orientati a uno scopo.

Il libro, corredato da pratiche schede di lavoro, è molto utile per chi opera con bambini con disturbo dello spettro autistico, con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, con disturbi d’ansia o problemi correlati, ma offre anche spunti e indicazioni interessanti per applicare alcune attività e procedure in modo più generalizzato con soggetti deficitari nelle funzioni esecutive.

Perché odiamo i regali costosi. Guida al regalo perfetto

 Per il compleanno del mio migliore amico non ho badato a spese.

Volevo fargli un regalo figo e siccome è il tipico milanese imbruttito stressato che lavora “accaventiquattro”, ho pensato: “Quale sorpresa migliore di un ingresso alle terme più esclusive della città?”.

Ho ignorato le proteste del mio portafoglio e ho concluso l’acquisto pensando che l’amicizia che ci lega dai tempi del liceo valeva senza dubbio il sacrificio economico.

Non vedevo l’ora di consegnargli il biglietto e condividere il suo entusiasmo per un regalo che, ammettiamolo, chi non vorrebbe ricevere?!

Qualche mese dopo, per il mio compleanno, mio fratello non ha badato a spese.

Voleva farmi un regalo figo e siccome sono la tipica milanese imbruttita stressata che lavora “accaventiquattro”, mi ha sorpreso con un ingresso alle terme più esclusive della città.

Quando ho aperto la busta contenente il regalo ho pensato: “E quando ci vado, che non ho mai tempo?! Non c’è nemmeno parcheggio e arrivarci coi mezzi è un incubo!!”.

Il buono fa ancora bella mostra di sé sulla mensola del salotto; probabilmente ormai è scaduto, non ho il coraggio di controllare.

Giudicare un regalo: meglio l’effetto wow o la praticità?

Un regalo (es. una cena in un ristorante) può essere giudicato in base a due parametri: la desirability, cioè il valore in sé, legato alla qualità e alle caratteristiche che lo contraddistinguono (es. in quel ristorante si mangia divinamente) e la feasibility, cioè gli aspetti non essenziali, come la praticità o la facilità di utilizzo (es. quel ristorante è comodo da raggiungere).

Lo stesso regalo, però, viene valutato da chi lo fa e da chi lo riceve in maniera differente: il primo tende a dare maggiore importanza alla desirability ed è questo l’aspetto che lo guida nella scelta; il secondo tende a considerare più rilevante la feasibility.

Date queste premesse, cosa potrà mai andare storto!

Un buon regalo costa tanto…

Quando scegliamo un regalo di solito riteniamo che più spendiamo più dimostriamo all’altro quanto teniamo a lui. Non solo, pensiamo anche che ciò che costa di più sia migliore di ciò che costa di meno. Questo perché c’è stato un tempo in cui, effettivamente, vi era una forte correlazione tra prezzo e qualità degli oggetti; è stato l’avvento della rivoluzione industriale a permettere la produzione di buoni oggetti a prezzi contenuti. Tuttavia tendiamo ancora a inferire la qualità di un oggetto dal suo prezzo e a odiare le cose che costano poco (Why we hate cheap things)… ma solo se dobbiamo regalarle!

Infatti chi fa un regalo considera il prezzo come indicatore di desirability più che di feasibility: se costa tanto significa che è di buona qualità e quindi è un buon regalo! Il fatto che sia ritenuto di buona qualità giustifica l’esborso e, anche se il portafoglio ne risente, il sacrificio economico percepito risulta accettabile.

 Al contrario, chi riceve il regalo non solo non considera il prezzo come indicatore di qualità, ma non percepisce nemmeno il sacrificio economico sostenuto (per forza, mica ha dovuto sborsare lui i soldi!) e scevro dall’influenza di questi due aspetti, valuta come migliori… i regali più economici!

Questi sono i risultati di uno studio del 2022 della Shandong Normal University su quanto il prezzo influenzi i nostri giudizi quando valutiamo un regalo. Pensate a quanti soldi avremmo potuto risparmiare in tutti questi anni, se solo Shouxin Li e colleghi avessero condotto prima le loro ricerche!

… o un buon regalo costa poco?

Prima di versare lacrime amare sul saldo della carta di credito, cerchiamo di capire come sia possibile che questi ingrati non apprezzino tanto quanto noi i regali che gli abbiamo fatto!

Il costo d’uso

Chi riceve un regalo è molto più sensibile al costo d’uso (per esempio alla feasibility). Di solito un oggetto che ha un costo elevato richiede maggiori cure, manutenzione o “sbattimenti” rispetto a uno che costa meno.

Il costo comportamentale

Chi riceve un regalo è molto più sensibile agli sforzi fisici, mentali e al tempo dedicati nella ricerca di un regalo personale. Un regalo costoso può essere percepito come il risultato di un minor investimento di tempo e sforzi nella sua scelta.

Il costo emozionale

A meno che non siate un asociale, quando ricevete un regalo dovete sopportare il peso della reciprocità insita nello scambio e ricambiare alla prossima occasione con qualcosa che sia all’altezza di quanto ricevuto. Questo può essere fonte di imbarazzo, ansia, stress o comunque una fastidiosa seccatura.

Le regole per un buon regalo

Un buon regalo deve rispondere alle esigenze utilitaristiche e psicologiche di chi lo riceve.

Ecco quindi alcuni consigli da seguire per non sbagliare e fare il regalo perfetto:

  • Puntate sulla feasibility, non sulla desirability. Immaginate come voi stessi utilizzereste concretamente quel regalo, così da coglierne più chiaramente gli aspetti di feasibility, e puntate su qualcosa che sia semplice e comodo da usare. La parola d’ordine è #zerosbattimenti.
  • Riducete la distanza psicologica tra voi e il destinatario del regalo. Quando scegliamo un regalo spesso seguiamo i nostri gusti. Scegliete invece qualcosa dalla sua lista dei desideri o chiedetegli cosa vorrebbe ricevere, così da essere sicuri di andare incontro ai suoi criteri di utilità e qualità (e non ai vostri).
  • Mostrate quanto ci tenete. Fate in modo che il regalo esprima il più possibile quanto tenete al destinatario della vostra sorpresa e che si veda che è un regalo dedicato e personalizzato.
  • Occhio al prezzo! Chi riceve un regalo considera il prezzo un criterio psicologico soggettivo: un prezzo basso indica premura (dice: “non è niente di impegnativo, ma quando l’ho visto ti ho pensato!”) e premura indica che si è in una relazione stretta con chi ha fatto il regalo e il regalo di un amico intimo è un buon regalo.

Alla fine, è davvero il pensiero che conta!

 

Lutto e EMDR: dalla diagnosi all’intervento clinico (2022) di Roger Solomon – Recensione

Lutto e EMDR: dalla diagnosi all’intervento clinico è un libro che fornisce ai professionisti della salute mentale informazioni dettagliate e complete circa il modello EMDR per l’elaborazione del lutto, definendo poi le differenti forme di lutto e i rispettivi modelli teorici, per poi guidare il professionista passo dopo passo nella diagnosi e nell’intervento.

 

 La morte di una persona amata può essere un momento di enorme sofferenza. Perdere qualcuno che amiamo, infatti, spesso significa anche perdere qualcuno che ci offriva un senso di sicurezza ed equilibrio nella vita, dando a quest’ultima prevedibilità e significato. All’indomani di una perdita, soprattutto quando essa è stata traumatica, improvvisa e inaspettata, è difficile capire chi siamo senza la persona amata o come la nostra vita possa andare avanti senza di lei.

La ricerca ha ormai dimostrato che la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è un approccio efficace per il trattamento del trauma psicologico. Può essere utilizzata per trattare anche il trauma legato alla morte di una persona amata e per facilitare i processi di assimilazione e adattamento alla perdita. Una perdita importante può infatti essere fonte di notevole sofferenza; possono esserci molti momenti, situazioni e ricordi che l’individuo immagazzina in modo disfunzionale, specialmente quando la morte è avvenuta in maniera improvvisa, inaspettata o violenta (Solomon, 2022).

Il presente volume, scritto da Roger Solomon –direttore del programma e docente dell’EMDR Institute di Watsonville, CA e insegnante della terapia EMDR a livello internazionale– e curato da Benedetto Farina –Psichiatra e Psicoterapeuta, dottore di ricerca in neuroscienze, professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università Europea di Roma–, offre una visione completa e dettagliata della terapia EMDR e del lutto, fornendo al professionista della salute mentale una guida strutturata su come procedere passo dopo passo dalla diagnosi all’intervento.

 Nella parte iniziale del libro, l’autore passa in rassegna i principi cardine su cui si fonda la terapia EMDR, specificando le varie declinazioni di applicazione, per poi proseguire con una descrizione accurata delle differenti forme di lutto e i diversi modelli del lutto.

Inoltre, viene dedicato un intero capitolo alla teoria dell’attaccamento, nonché alla comprensione dei diversi stili che essa stessa delinea. Difatti, la ricerca indica che lo stile di attaccamento è un fattore importante nel determinare come una persona affronti la perdita della persona cara.

Successivamente il volume passa a descrivere come per la terapia EMDR sia importante identificare le memorie, evocare e consolidare il ricordo positivo della persona defunta come forma di “rappresentazione interna adattativa” che fornisca alla persona in lutto un senso di connessione con il defunto.

Infine l’autore, attraverso un’alternanza di esempi pratici di casi clinici e parziali trascrizioni di sessioni di terapia EMDR, guida il lettore in maniera semplice e chiara nella formulazione della diagnosi e nella strutturazione di un intervento. In particolare, Solomon sottolinea l’importanza di comprendere come gli attuali fattori scatenanti possano essere dei dolorosi promemoria dell’assenza della persona amata e di identificare quali aspetti debbano essere affrontati, applicando così il protocollo a tre tempi della terapia EMDR al dolore e al lutto (Solomon, 2022).

Pertanto, questo libro risulta essere di fondamentale importanza per tutti quei professionisti che si trovano a lavorare con pazienti che stanno affrontando un lutto nella loro vita, offrendo in maniera completa e dettagliata tutti i passi da seguire dalla diagnosi all’intervento, per giungere così ad una risoluzione efficace della sintomatologia e della sofferenza associata.

Procrastinazione in ambito accademico: il ruolo mediatore dell’autostima

Con il termine procrastinazione si intende la tendenza a rimandare o un’azione o una decisione (Ferrari, Johnson, & McCown, 1995; Ferrari, 2010).

Il meccanismo di procrastinazione

 Diversi studi hanno evidenziato l’associazione tra procrastinazione e conseguenze psicologiche negative, ma ad oggi la definizione di questo costrutto non è ancora chiara (Ferrari & Tibbett, 2017; Howell et al., 2006; Klassen, Krawchuk, & Rajani, 2008). La messa in atto della procrastinazione, soprattutto in ambito scolastico e accademico, è risultata legata a una riduzione generale delle performances e un aumento di problematiche psicologiche come per esempio la presenza di credenze irrazionali, bassa autostima, basso autocontrollo, ansia, depressione (Ferrari & Tibbett, 2017; Chabaud, Ferrand, & Maury, 2010).

L’autostima, nell’ambito della personalità, è definita come il modo in cui gli individui percepiscono se stessi e il proprio valore come persone (Brown & Marshall, 2006). In quest’ottica, la messa in atto di procrastinazione in maniera cronica, ovvero ripetuta in eccesso malgrado le conseguenze negative, è inteso come un metodo di auto-protezione causato da una bassa autostima generale (Burka & Yuen, 1983; Ferrari & Tibbett, 2017).

Procrastinazione e autostima

La letteratura suggerisce che il concetto di performance riflette anche il concetto di abilità, che a sua volta influenza il valore personale di un soggetto e la sua autopercezione. Da questo punto di vista, il fallimento di un compito o obiettivo diventerebbe indicatore di un limitato valore personale. In ambito accademico, la procrastinazione, usata come comportamento protettivo da un ipotetico fallimento, potrebbe incrementare il senso di scarsa autoefficacia e fallimento, andando a intaccare ancora una volta l’autostima e generando un circolo vizioso maladattivo (Burka & Yuen, 1983). Queste ipotesi sono sostenute da numerose fonti presenti in letteratura che, nel corso degli anni, hanno messo in luce il legame tra procrastinazione e bassa autostima (Ferrari, 1994; Uzun Ozer, Demir, & Harrington, 2012; Beck, Koons, & Milgrim, 2000; Sirois, 2004). Dunque, l’autostima potrebbe essere una variabile mediatrice tra procrastinazione e ritardi nelle consegne in ambito accademico.

Procrastinazione e autocontrollo

 Un’altra variabile studiata in quest’ambito è l’autocontrollo, che si riferisce alla capacità di modificarsi e adattarsi all’ambiente esterno e alle richieste dell’ambiente verso l’individuo (Rothbaum, Weisz, & Snyder, 1982). Sono stati teorizzati quattro domini dell’autocontrollo: controllo su pensieri, emozioni, impulsi e performance (Vohs & Baumeister, 2004). L’autocontrollo implica l’abilità di limitare l’individuo dall’ingaggiarsi in comportamenti potenzialmente dannosi come per esempio: fumare, spendere in maniera eccessiva e procrastinare (Faber & Vohs, 2004). Alcuni autori suggeriscono che la procrastinazione potrebbe essere considerata come il fallimento dei meccanismi di autocontrollo che si attivano durante una performance, in situazioni di stress (Ferrari, 2010).

Uno studio su procrastinazione, autostima e autocontrollo

Uno studio di Uzun e colleghi (2020) ha indagato la relazione tra autocontrollo e procrastinazione in ambito accademico, considerando l’autostima come possibile mediatrice. Sono stati reclutati 426 studenti universitari, ai quali sono stati fatti compilare dei questionari funzionali alla misurazione di autocontrollo, procrastinazione e autostima. I risultati hanno rivelato che la procrastinazione in ambito accademico era negativamente correlata ad autostima e autocontrollo; questo significa che, in soggetti con bassa autostima e basso autocontrollo, la procrastinazione risultava essere maggiormente presente rispetto a soggetti con punteggi più alti in autostima e autocontrollo, i quali hanno riportato livelli inferiori di procrastinazione. Questi risultati suggeriscono che la percezione che un individuo ha di se stesso influenza il proprio autocontrollo e quindi il comportamento messo in atto come conseguenza, in questo caso la procrastinazione. Inoltre, l’autostima sembrerebbe avere una funzione autoregolatoria, la quale migliorerebbe la performance stessa e il suo risultato, proprio grazie al suo legame con l’autocontrollo (Rothman, Baldwin, & Hertel., 2004). In caso contrario, come emerso dai risultati appena citati, una bassa autostima potrebbe mediare il rapporto tra scarso autocontrollo e procrastinazione.

L’associazione tra il trauma infantile e il disturbo ossessivo compulsivo

Ou e colleghi (2021) hanno condotto una meta-analisi sull’associazione tra trauma infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva, esaminando i risultati provenienti da 10 studi comprendenti la popolazione Araba, Cinese, Italiana, Olandese, Tedesca o Turca

Introduzione

 Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è un disturbo caratterizzato da ossessioni, ovvero pensieri, impulsi o immagini indesiderati e vissuti come intrusivi e da compulsioni, ossia comportamenti ripetitivi messi in atto dall’individuo in risposta alle ossessioni. Sebbene il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni sia soggettivo e possa variare da persona a persona, sono stati identificati quattro temi ricorrenti: pulizia, simmetria, pensieri “proibiti” e di danno. Ad ogni modo, a prescindere dal contenuto, sia le ossessioni che le compulsioni sono molto dispendiose in termini di tempo e causano disagio significativo e una compromissione del funzionamento quotidiano nell’individuo. Il disturbo ossessivo-compulsivo può presentarsi in comorbilità (compresenza – NdR) con altre patologie, come disturbi d’ansia e dell’umore (APA, 2013).

Il trauma infantile è definito come una serie di esperienze avverse vissute dalla vittima prima del compimento dei 18 anni; comprende principalmente cinque macro aree, ovvero abuso fisico, emotivo, sessuale e neglect (trascuratezza – NdR) sia fisico che emotivo. È ormai assodato come i maltrattamenti subiti durante i primi anni di vita portino ad un maggior rischio di sviluppo di diverse forme di psicopatologia durante il corso della vita, come depressione e abuso di alcolici (WHO, 2020).

Il ruolo del trauma infantile nella sintomatologia ossessivo-compulsiva

È stato riscontrato come i pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo sembrino riferire maggiori vissuti traumatici rispetto alla popolazione che non presenta psicopatologie (Jaisoorya, et al., 2017; Osland et al., 2018).

A tal proposito, Ou e colleghi (2021) hanno condotto una meta-analisi (uno studio comparativo tra molte ricerche sullo stesso argomento – NdR) sull’associazione tra trauma infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva, esaminando i risultati provenienti da 10 studi comprendenti la popolazione Araba, Cinese, Italiana, Olandese, Tedesca o Turca, per un totale di 1611 partecipanti. Dai risultati ottenuti è stato possibile osservare una correlazione positiva tra la sintomatologia ossessivo-compulsiva del DOC ed esperienze avverse durante l’infanzia. Più nello specifico, è stata evidenziata una relazione positiva tra l’abuso e la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo, così come una forte associazione tra l’abuso sessuale e la componente ossessiva del disturbo. Similmente, anche Boger e colleghi (2020) hanno osservato una forte correlazione tra maltrattamento infantile e sintomatologia ossessivo-compulsiva: nello specifico, dopo aver osservato maggior abuso sia fisico che sessuale e neglect emotivo tra i pazienti affetti dal disturbo rispetto alla popolazione generale, gli autori hanno evidenziato delle forti associazioni tra la gravità dell’abuso emotivo e fisico e la gravità del disturbo ossessivo-compulsivo. Successivamente, attraverso un’analisi statistica specifica (ovvero, regressione multivariata) è stata messa in luce una relazione di causalità tra l’aver esperito abusi emotivi in infanzia e una maggior gravità della sintomatologia ossessivo-compulsiva in età adulta. Risultati simili sono stati riscontrati anche attraverso una revisione sistematica della letteratura scientifica pubblicata nel 2021 da Destrée e colleghi, sia nella popolazione clinica che nella popolazione generale.

 Per studiare tale fenomeno, Chu e colleghi (2020) hanno utilizzato la risonanza magnetica per immagini per osservare le differenze organiche tra 79 pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo (di cui 22 con alti livelli di trauma infantile e 57 con bassi livelli) e 47 partecipanti con nessuna patologia. I risultati hanno mostrato una significativa riduzione della connettività funzionale a riposo caudato-talamica in tutti i pazienti rispetto ai controlli sani; tuttavia, nei pazienti con alti livelli di trauma è stato anche evidenziato un aumento della connettività funzionale talamica a riposo con la corteccia prefrontale rispetto agli altri partecipanti. Gli autori suggeriscono che questi risultati potrebbero indicare che complessivamente i pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo con una storia di maltrattamenti presentano alterazioni patologiche nelle regioni talamiche, implicando che il trauma infantile possa essere un fattore predisponente alla sintomatologia ossessivo-compulsiva. Più nello specifico, Chu e colleghi (2020) hanno discusso come questa maggiore connettività talamica nei pazienti altamente traumatizzati possa essere associata a disfunzioni inibitorie, considerate deficit fondamentali nel disturbo ossessivo-compulsivo e concorrenti alla comparsa sia dei pensieri intrusivi che delle compulsioni (Kalanthroff et al., 2017), in quanto la connessione talamo-corteccia prefrontale laterale fa parte del circuito “cognitivo ventrale” associato alla risposta inibitoria (van den Heuvel et al., 2016).

Conclusione

In conclusione, si potrebbe supporre che la presenza di esperienze avverse durante l’infanzia potrebbe essere associata alla sintomatologia ossessivo-compulsiva in età adulta. Inoltre, è stato ipotizzato come nei pazienti altamente traumatizzati questa forte associazione possa essere causata da una maggior attivazione della connessione talamo-corteccia prefrontale.

L’ingannevole paura di non essere all’altezza (2020) di Roberta Milanese – Recensione

Roberta Milanese descrive l’utilizzo della psicoterapia breve strategica in soccorso all’autostima nel suo libro dal titolo “L’ingannevole paura di non essere all’altezza”.

 

 La terapia strategica breve non si occupa della ricerca delle cause dei problemi vissuti nel passato, che nessuno ha il potere di cambiare, ma si focalizza sull’introdurre cambiamenti nel presente. Quindi non sul perché c’è un problema, ma su come funziona il problema. Utilizza cicli di psicoterapia di durata contenuta, con una cadenza ottimale di una seduta ogni 15 giorni.

La paura di non essere all’altezza

È in costante aumento il numero di persone con la sensazione di non essere all’altezza, e questo può riferirsi a tutti gli ambiti della vita: dall’estetica, all’intelligenza, alla simpatia, alla cultura, fino a generalizzarsi e diventare un sentirsi inferiore agli altri in tutto.

In molti casi quello che si teme di più è il non essere all’altezza delle aspettative degli altri. Ci si sente come in vetrina, sottoposti ad un continuo giudizio che non si riesce a sostenere. La realtà è che molto spesso il nostro giudice più severo siamo proprio noi stessi, e la sensazione di inadeguatezza che percepiamo è del tutto infondata.

La capacità di valutare noi stessi è fortemente influenzata dalle nostre modalità percettive, ossia dagli autoinganni su chi siamo in relazione agli altri e al mondo. Il nostro accesso alla realtà non è mai diretto, ma è mediato dai nostri processi percettivi, emotivi e cognitivi.

John Weakland, uno dei grandi maestri della psicoterapia breve strategica, parla di “psicotrappole”, sostenendo che la maggior parte dei problemi che portano a patologie sono riconducibili alla tendenza di sopravvalutare o sottovalutare noi stessi, gli altri o la realtà. Una persona che teme il giudizio, ad esempio, può sopravvalutare la minima critica ricevuta e trasformarla in provocazione a cui reagirà con aggressività. All’opposto, una persona eccessivamente ben disposta avrà difficoltà a cogliere i segnali di pericolo anche di fronte a persone palesemente inaffidabili.

 Quando non ci si sente adeguati, la domanda da porsi è quale metro di valutazione si sta utilizzando. Possiamo distinguere due grandi categorie: coloro che delegano questa decisione ad un giudice interno e coloro che invece proiettano il loro giudice all’esterno, in persone specifiche o nel mondo in generale.

C’è chi teme maggiormente il giudizio di chi considera superiore a sé, ad esempio sul posto di lavoro, ma non teme il giudizio di colleghi e amici. Chi teme il giudizio di chi conosce e chi degli sconosciuti, fino a chi estende questo timore a tutti i campi.

Anche le cause dei presunti giudizi negativi variano: c’è chi teme giudizi negativi da un punto di vista intellettuale, chi estetico, chi di personalità.

Secondo l’approccio strategico, in tutti questi casi il rapporto tra sé e gli altri risulta in qualche misura compromesso.

La paura di esporsi

Essere impopolari fa paura, per farsi apprezzare si cade sovente nell’errore di essere sempre molto, troppo, attenti alle esigenze degli altri, con la speranza di ottenere in cambio le stesse attenzioni. Questo spesso non si realizza causando amarezza e irritazione. Da qui il desiderio di disinvestire da certi rapporti ma senza riuscirci mai completamente per paura di deludere l’altro. E qualora si dovesse riuscire a chiudere un rapporto troppo sbilanciato tra quello che si dà e quello che si riceve, per alcune persone il rischio è di replicarlo secondo un copione che finisce per intrappolare nuovamente. In realtà è solo un’illusione quella di pensare che tanta dedizione porti al successo della relazione.

Il passato è passato

Nel libro di Milanese L’ingannevole paura di non essere all’altezza” si evidenzia che se non è naturalmente possibile tornare indietro e correggere il passato, allora possiamo solo intervenire su quello che quel passato ha prodotto nel presente. Inoltre spesso quello che ha originato la causa del problema nel passato, non persiste più nel presente, ma rimangono solo le sue conseguenze.

Oltre alla parte teorica il libro riporta una serie di esperienze di terapie brevi, con pazienti che presentano diverse delle problematiche legate ad una scarsa autostima, esempi pratici che danno al lettore la possibilità di seguire in che modo è stata affrontata la situazione e come il paziente è riuscito, nel breve tempo previsto da questo tipo di terapia, a superare il blocco che frenava la sua fiducia in sé.

Rabbia da frustrazione, disregolazione emotiva e aggressività nel disturbo borderline di personalità

Le persone con Disturbo Borderline di Personalità provano più rabbia in una situazione di frustrazione? Un recente studio ha indagato la relazione tra rabbia da frustrazione, disregolazione emotiva e aggressività

Disregolazione emotiva e aggressività

 La disregolazione emotiva si riferisce ad un’aumentata sensibilità, con stati emotivi ad alta intensità, labilità e deficit nelle strategie di regolazione delle emozioni (Carpenter & Trull, 2013), che lasciano il posto a strategie maladattive come l’aggressività, intesa come un comportamento violento intento al danneggiamento di un altro individuo (Anderson & Bushman, 2002).

L’aggressività nel disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da disregolazione emotiva e da compromissione grave e duratura delle funzioni personali ed interpersonali (Gunderson et al., 2018).

Nel disturbo borderline di personalità l’aggressività è strettamente interconnessa ai sentimenti di rabbia, frustrazione, provocazione e minaccia e può causare differenti problematiche interpersonali e relazionali (Mancke et al., 2015); infatti differenti studi hanno dimostrato il ruolo di mediatore della disregolazione emotiva nell’aggressività nel disturbo borderline di personalità (Mancke et al., 2017; Scott et al., 2014).

In generale i pazienti con questa diagnosi riferiscono una maggior prevalenza ed una maggior intensità di emozioni negative; tra queste la rabbia risulta essere tra le più rilevanti e, quando associata a disregolazione emotiva, risulta interconnessa con l’aggressività (Ebner-Priemer et al., 2007).

Frustrazione, rabbia e disregolazione emotiva

Nel Disturbo Borderline inoltre l’aggressività è prevalentemente di natura reattiva, spesso innescata da frustrazione, provocazione o minaccia sociale ed è associata – come anticipato – a rabbia intensa e incapacità di regolare questa forte emozione negativa.

Per questo lo studio condotto nel 2021 da Bertsch et al. ha indagato l’emotività negativa in generale e la rabbia in particolare in un gruppo di pazienti con disturbo borderline prima e dopo aver provato una frustrazione.

I ricercatori hanno inoltre cercato di capire se la rabbia indotta dalla frustrazione fosse più forte in quegli individui con Disturbo Borderline che tendono ad agire in modo aggressivo nella loro vita quotidiana e che mostrano problemi di disregolazione emotiva.

Uno studio su frustrazione e disregolazione emotiva nel disturbo borderline di personalità

Attraverso la valutazione di un gruppo di pazienti donne con disturbo borderline e di uno di controllo (composto da individui senza tale diagnosi), lo studio ha valutato l’intensità delle emozioni negative (rabbia, frustrazione, imbarazzo, nervosismo) prima e dopo aver eseguito il “Titrated Mirror Tracing Task” (TMTT, (Ebner-Priemer et al., 2007), un compito che consisteva nel tracciare un punto rosso lungo le linee di una stella usando il mouse, in cui il mouse era programmato per andare verso la direzione opposta rispetto a dove era indirizzato e lo spostamento del punto fuori dalle linee della stella provocava un forte ronzio ed il ritorno del puntino al punto di partenza. Il TMTT induce in modo affidabile frustrazione e angoscia.

In linea con le ipotesi iniziali, lo studio ha messo in luce che:

  • le persone con Disturbo Borderline riportano un’intensità significativamente maggiore di emozioni negative prima e dopo la frustrazione rispetto ai partecipanti senza diagnosi.
  • Nello specifico, i dati hanno mostrato un aumento della rabbia indotto dalla frustrazione significativamente più forte, mentre le altre emozioni negative non sono state influenzate dalla situazione frustrante.
  • Inoltre la rabbia nelle pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, oltre ad essere risultata significativamente più alta rispetto a quella rilevata nel gruppo di controllo, si è vista essere correlata al comportamento aggressivo delle due settimane precedenti.

Questi dati confermano i risultati rilevati da studi precedenti che hanno evidenziato specifici bias di rabbia, come la tendenza a classificare erroneamente come rabbiose le immagini di volti emotivi o neutri o a riconoscere più spesso la rabbia nelle espressioni facciali ambivalenti (Bertsch et al., 2017; Izurieta Hidalgo et al., 2016). Inoltre, è stato riportato che gli individui con diagnosi borderline tendono a sperimentare la rabbia più frequentemente e più intensamente a lungo, mostrando anche una maggiore ruminazione rispetto a quest’ultima (Kockler et al., 2020; Martino et al., 2018).

La frustrazione genera sempre disregolazione emotiva?

 Contrariamente alle aspettative, tuttavia, lo studio non ha identificato un’associazione tra disregolazione emotiva e rabbia indotta dalla frustrazione; le situazioni frustranti (anche quando si tratta di piccoli fattori scatenanti), come quella esaminata dallo studio, possono attivare degli schemi maladattivi negli individui (come sentimenti di abbandono, di umiliazione o sentirsi attaccati e feriti) (Bach & Farrell, 2018) che a loro volta possono essere associati a strategie di coping maladattive e forti risposte emotive, come la rabbia (Dimaggio et al., 2021). Ciò potrebbe spiegare la presenza di una tendenza specifica alla rabbia, senza che si verifichi per forza una associazione con la disregolazione emotiva.

Prospettive future

Nel complesso, l’attuale studio ha confermato l’emotività negativa nelle donne con disturbo borderline in generale e ha inoltre rivelato uno specifico aumento della rabbia indotto dalla frustrazione, che era significativamente più forte in quelle donne che hanno riportato comportamenti aggressivi più frequenti nella loro vita quotidiana e hanno sperimentato più frustrazione durante l’esperimento. Tale frustrazione si è tradotta in maggiori livelli di rabbia a cui però non sono risultati associati maggiori livelli di disregolazione emotiva.

Sarebbero interessanti ulteriori ricerche che vadano ad indagare gli obiettivi frustrati dai compiti e le emozioni negative indotte, per una misurazione più dettagliata riguardante la durata e l’intensità di esse, prima del ritorno alla baseline e dopo l’esperienza frustrante. Esistono terapie mirate alla regolazione emozionale dei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, come la Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan, 1995, p. 19), che si focalizza sul monitoraggio delle emozioni, sull’aumento della consapevolezza dei fattori scatenanti e sul differenziare e riconoscere gli schemi maladattivi appresi nel corso della vita. Gli ultimi studi, assieme a quello attualmente valutato, hanno posto l’accento sulla rilevanza della rabbia causata dalla frustrazione, che risulta avere una durata prolungata (Jacob et al., 2008) e che può causare un aumento della ruminazione rabbiosa, correlata ad una maggior probabilità di sfoghi aggressivi (Martino et al., 2015, 2018). Alla luce di questo studio, le future ricerche dovrebbero considerare diverse fonti di rabbia e aggressività nel disturbo borderline e approfondire ulteriormente l’intensità e la durata della rabbia indotta dalla frustrazione, nonché il processo di ritorno alla baseline. La rabbia sembra giocare un ruolo fondamentale e prominente negli individui con questa diagnosi e sarebbe necessaria l’introduzione di nuove tecniche mirate alla riduzione e al trattamento di quest’ultima.

Una panoramica sulla paralisi del sonno e le variabili associate

Denis et al. (2018) hanno condotto una revisione sistematica della letteratura sulle variabili associate alla paralisi del sonno.

La paralisi del sonno

 La paralisi del sonno è uno stato di immobilità transitoria che compare fra la veglia e il sonno, o fra il sonno e la veglia. In tali condizioni, durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) il nostro cervello produce sogni bizzarri e intensi, causando una paralisi dei muscoli volontari che cessa una volta usciti completamente dal sonno REM. La funzione di tale processo è quella di impedirci di agire nei nostri sogni, ovvero seguirne le azioni con il nostro corpo rischiando di farci potenzialmente del male. L’alterazione della sincronizzazione dei meccanismi che separano la veglia dal sonno REM provoca le tanto temute paralisi del sonno (Plazzi, 2019). La persona inizia a svegliarsi ma non è in grado di muoversi o di parlare e frammenti di sogno producono allucinazioni ipnagogiche (al momento dell’addormentamento) o ipnopompiche (al risveglio), che possono verificarsi in tutte le modalità sensoriali. Le caratteristiche della paralisi del sonno includono comunemente l’udire passi e voci, nonché la levitazione, l’autoscopia (cioè esperienze extracorporee) e il “percepire una presenza terrificante”, di vedere una figura o una forma amorfa “intimidatoria” avvicinarsi al corpo durante l’evento (Jalal et al., 2021). In molti paesi, le esperienze di paralisi del sonno sono intrecciate con il folklore culturale e sono state proposte come spiegazione di presunti fenomeni paranormali come la stregoneria, la possessione demoniaca e il rapimento di alieni dallo spazio (French & Santomauro, 2008). Denis et al. (2018) hanno condotto una revisione sistematica della letteratura sulle variabili associate alla paralisi del sonno.

Paralisi del sonno, stress e trauma

Una storia di abuso sessuale infantile è risultata significativamente correlata alla frequenza degli episodi di paralisi del sonno. La frequenza e l’intensità delle allucinazioni sono risultate maggiori in individui che hanno riferito abusi sessuali rispetto al gruppo di controllo (Abrams et al., 2008). Un altro studio ha rilevato che la prevalenza riferita di paralisi del sonno non differiva in modo significativo tra i gruppi di partecipanti che ricordavano il proprio abuso (47%) e quelli che ritenevano di aver vissuto un abuso ma non possedevano ricordi autobiografici (44%) (McNally & Clancy, 2005). Anche altre esperienze di eventi traumatici sembrano essere correlate alla paralisi del sonno. In un campione di immigrati Hmong che vivono negli Stati Uniti, le esperienze stressanti vissute durante la guerra del Vietnam (ad esempio, “sono stato esposto alla guerra chimica”, “ho perso familiari, parenti stretti o amici”) erano correlate a una maggiore probabilità di sperimentare la paralisi del sonno (Young et al., 2013). Esperienze generali con eventi potenzialmente traumatici (come aggressioni, morte di una persona cara, disastri, ecc.) sono risultate correlate alla paralisi del sonno in termini di occorrenza. È stato inoltre riscontrato un legame tra il numero di eventi traumatici vissuti e la paralisi del sonno (Mellman et al., 2008). In modo correlato, i livelli di stress auto-riferiti hanno mostrato associazioni simili con la paralisi del sonno (Denis & Poerio, 2016).

Paralisi del sonno, dissociazione e convinzioni anomale

I livelli di esperienze dissociative allo stato di veglia, che comportano depersonalizzazione, derealizzazione e amnesia, sono risultati correlati sia alla frequenza delle paralisi del sonno (McNally & Clancy, 2005) sia alla frequenza/intensità delle allucinazioni (Abrams et al., 2008). In un campione universitario, una misura composita di “immaginazione”, che comprendeva propensione alla fantasia, pensiero magico, vividezza delle immagini, credenze paranormali e mistiche ed esperienze sensoriali insolite, era risultata correlata alla frequenza e all’intensità della paralisi del sonno (Spanos et al., 1995). Nello stesso campione, coloro che riferivano paralisi del sonno mostravano una maggiore ipnotizzabilità, valutata sia soggettivamente che oggettivamente. La vividezza delle immagini sensoriali non è risultata correlata alla frequenza delle paralisi del sonno, ma ha predetto in modo significativo l’intensità delle allucinazioni (Denis & Poerio, 2016).

Paralisi del sonno e abitudini del sonno

 Particolari aspetti dell’igiene del sonno, che si riferisce alle abitudini e alle pratiche che favoriscono un sonno regolare, sono stati associati a una maggiore probabilità di riportare la paralisi del sonno. In particolare, una durata del sonno eccessivamente breve (<6 ore) o lunga (>9 ore) e il sonnecchiare, in particolare per più di 2 ore, sono stati associati a maggiori probabilità di paralisi del sonno. Anche l’orario in cui si va a letto ha mostrato una certa relazione col fenomeno (Munezawa et al., 2011). Nello studio di Ma et al. (2014) le probabilità di aver mai sperimentato la paralisi del sonno (rispetto a quelle di non averla mai sperimentata) sono risultate significativamente ridotte nei partecipanti che riferivano di essersi coricati tra le 22:00 e la mezzanotte e significativamente aumentate nei partecipanti che riferivano di essersi coricati oltre la mezzanotte.

Paralisi del sonno e disturbi mentali

Nello studio di Simard & Nielsen (2005) i partecipanti che hanno sperimentato la paralisi del sonno con un’allucinazione di “presenza percepita” hanno mostrato livelli più elevati di ansia sociale rispetto ai partecipanti che hanno sperimentato la paralisi del sonno senza allucinazioni. Le allucinazioni di presenza percepita sono state anche correlate alla quantità di angoscia associata all’episodio di paralisi del sonno e il livello di angoscia riportato è stato associato a immagini sociali disfunzionali (Solomonova et al., 2008). Nei pazienti con disturbo di panico, sono stati riportati tassi di prevalenza nell’arco della vita del 56% e del 59%, significativamente più alti rispetto a quelli senza disturbo di panico, la cui prevalenza era di circa il 19% (Yeung et al., 2005). Punteggi più elevati nelle misure di autovalutazione dell’umore depresso sono stati associati alla frequenza della paralisi del sonno ed è stato anche dimostrato che questa relazione rimane significativa dopo la correzione statistica adottata per ridurre l’effetto dei sintomi d’ansia (Szklo-Coxe et al., 2007). Un solo studio ha esaminato il disturbo bipolare e la paralisi del sonno. In questo caso si è riscontrato che il disturbo bipolare si verificava più frequentemente in un gruppo di paralisi del sonno gravi, definite in questo caso come almeno un episodio alla settimana (19%), rispetto a un gruppo senza paralisi del sonno (2%) (Ohayon et al., 1999).

Attualmente sono state condotte numerose ricerche sulle variabili associate alla paralisi del sonno. Di conseguenza, esiste un’enorme opportunità di ampliare questa letteratura al fine di approfondire le origini e le opzioni di trattamento del disturbo.

Un modello cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche e della Violenza nelle Relazioni Intime 

Cosa c’è dietro la violenza nelle relazioni intime e le dipendenze affettive patologiche? Cosa spinge due persone a mantenere un legame che almeno per uno/a di loro genera sofferenza?

La dipendenza affettiva patologica

 Negli ultimi anni, diversi ricercatori e psicologi hanno iniziato a spiegarsi la creazione e il mantenimento di relazioni intime violente come conseguenza di una condizione chiamata dipendenza affettiva patologica (Pathological Affective Dependence, PAD). La violenza nelle relazioni intime (Intimate Partner Violence, IPV) avviene quando un/a partner o ex-partner agisce un comportamento che causa all’altro/a danni fisici, sessuali o psicologici. In genere, rientrano tra gli strumenti dell’abusante l’aggressione fisica, la coercizione sessuale, l’abuso psicologico ed emotivo o i comportamenti di controllo. Un’aggiunta importante a questa definizione è che la violenza nelle relazioni intime può verificarsi tra coloro che hanno età pari o superiore a 16 anni, indipendentemente dal genere di appartenenza e dall’orientamento sessuale, andando a sfatare l’idea stereotipica che la violenza nelle relazioni intime è unilateralmente un fenomeno che colpisce solo le donne. Se la violenza nelle relazioni intime non è un problema del genere maschile, bensì è un problema relazionale, cosa spinge dal punto di vista psicologico alcune persone a mantenere relazioni disfunzionali anche quando è la propria vita a essere a rischio?

Sebbene diversi studi abbiano analizzato gli antecedenti della violenza nelle relazioni intime soprattutto a livello sociale, mancava un modello clinico in grado di inquadrare il fenomeno e ricerche che indagassero le determinanti cognitive della vittima di violenza, riconducibili alla condizione di dipendenza affettiva patologica. Si ignoravano, dunque, le caratteristiche specifiche che spiegano il profilo psicologico di una persona che forma e mantiene legami caratterizzati da violenza e abusi ripetuti. Questo vuoto di ricerche non veniva colmato sebbene la comprensione dei meccanismi psicologici della violenza nelle relazioni intime legati alla condizione di dipendenza affettiva patologica fosse fondamentale proprio per guidare la pratica clinica, finalizzata a tirare fuori le vittime da relazioni più simili a trappole mortali. A tal fine l’autrice dell’articolo propone un modello clinico per la dipendenza affettiva: se infatti l’esperienza psicologica della dipendenza affettiva patologica influisce negativamente sulla salute mentale e fisica delle persone coinvolte, il mancato riconoscimento di questa condizione e/o un cattivo intervento del professionista possono condurre a esiti irreversibili come l’omicidio, il suicidio e il femminicidio (Perdighe et al. 2022).

Il dipendente affettivo tipico: un modello clinico

Per capire come agire con persone che vivono una sofferenza simile, è essenziale comprendere la mente del dipendente affettivo tipico (typical affective dependent, TAD), e il perché si congela in relazioni così insoddisfacenti e pericolose. Prima di tutto, procediamo con il definire la dipendenza affettiva patologica come una condizione relazionale (Pugliese et al., 2019; Pugliese et al. 2023a). In questo tipo di relazione, uno o entrambi i partner mettono in atto comportamenti abusivi, di controllo, violenti o manipolativi e la relazione è fonte di dolore per almeno uno dei partner. Tuttavia, si sentono incapaci di porre fine alla relazione o accettare che uno dei partner possa scegliere di separarsi. In caso di separazione/divorzio o rifiuto, si sentono estremamente ansiosi e stressati e prevengono con tutte le loro forze il verificarsi di questo scenario. Possono anche sentirsi disperati e/o arrabbiati e cercare di far fronte al conseguente disagio rimuginando continuamente su possibili soluzioni per riconnettersi con il partner violento, costringendosi alla sottomissione o aggrappandosi a una nuova relazione disfunzionale.

Gli individui con dipendenza affettiva patologica sperimentano stati d’animo e sentimenti negativi quando sono lontani dai loro partner. Un modo per affrontare la separazione/rifiuto e il conseguente craving (desiderio incontrollato) è forzare la vicinanza con il partner violento (Pugliese et., 2023a). Infine, la dipendenza affettiva patologica è sia una condizione di stato, ovvero temporanea, che di tratto, cioè stabile nel tempo.

I dati preliminari di uno studio di ricerca su un campione di vittime di violenza (Pugliese et al. 2023b), finalizzato alla costruzione di una scala di misura della dipendenza affettiva patologica, ha rivelato che la dipendenza affettiva patologica è una condizione latente, che può essere innescata da un partner o un ambiente violento. Gli autori hanno dimostrato che quando le persone sono in una relazione violenta, possono mostrare comportamenti, convinzioni o obiettivi disfunzionali tipici di un individuo con un disturbo di personalità. Questi tratti negativi e gli aspetti malfunzionanti sembrano scomparire quando sono fuori dall’ambiente patologico e la separazione dal partner violento è stata completamente elaborata. I partner violenti possono essere considerati un fattore scatenante della dipendenza affettiva patologica. Quindi, per prevenire l’effetto negativo del fenomeno sociale della violenza nelle relazioni intime, gli interventi dovrebbero essere mirati sia alle vittime che ai maltrattanti.

L’impossibilità di porre fine alla relazione patologica – a prescindere dalle conseguenze anche gravi che comporta – è ciò che definisce la peculiarità della dipendenza affettiva patologica (Pugliese et al., 2019; Pugliese et al., 2023a e Pugliese et al., 2023b). Le persone con dipendenza affettiva patologica possono essere o non essere consapevoli della condizione paradossale che stanno vivendo. Di conseguenza, questo scenario contraddittorio è strutturato in tre possibili conflitti interni, tra l’obiettivo di mantenere la relazione patologica e l’obiettivo di porvi fine. I dipendenti affettivi tipici oscillano tra questi due obiettivi apparentemente senza alcuna soluzione. A questo punto la guerra è nella loro testa, non solo in casa loro. Il conflitto può essere assente, alternato o akrasico (Pugliese et al., 2023a).

Il conflitto della dipendenza affettiva patologica

 Nel primo tipo di conflitto (assente), il dipendente affettivo tipico non è consapevole di essere in una relazione disfunzionale ma spesso sono le persone che lo circondano (come i familiari, gli amici o il terapeuta) a farglielo notare. Nel secondo conflitto (alternato) il dipendente affettivo tipico passa da uno stato all’altro senza integrare gli scopi: potrebbe quindi una settimana decidere di interrompere la relazione e la settimana successiva investire nella relazione con una proposta di matrimonio, o con la scelta di fare un figlio. Nel terzo conflitto (akrasico), gli scopi sono integrati senza risoluzione, il dipendente affettivo tipico è consapevole allo stesso tempo di essere in una relazione disfunzionale e di non riuscire a separarsi. Gli stadi del ciclo della dipendenza affettiva patologica sono quattro: stadio 0-1-2-3. Ad eccezione dello stadio 0 (o stadio della Luna di Miele), le altre fasi sono caratterizzate dai tre principali conflitti interni. Nello stadio 1 il conflitto è assente nella mente del dipendente affettivo tipico. Con l’aumento della consapevolezza della disfunzionalità della relazione, il dipendente affettivo tipico passerà allo stadio 2, oscillando tra i due scopi del conflitto alternato, fino allo stadio 3 nel quale diviene consapevole del conflitto ma non è in grado di risolverlo (conflitto akrasico). Gli stadi 1-2-3 potrebbero portare a una rottura, ma è proprio la condizione di dipendenza affettiva patologica a riportare la vittima dentro la relazione violenta. Il dipendente affettivo tipico infatti considera la relazione seppur insoddisfacente comunque indispensabile, il suo anti-scopo (evitamento dello scenario drammatico) è quello di mantenerla a tutti i costi, anche quando il sacrificio è la propria vita (Pugliese et al., 2023a). Sono state ipotizzate più tipologie di dipendente affettivo tipico: come suddetto, tutti i dipendenti affettivi tipici condividono la comune paura di porre fine alla relazione e i tre conflitti (che sono i fattori cognitivi nel mantenere la sofferenza). Ciò che distingue i vari cluster di dipendenza affettiva patologica, invece, sono le motivazioni cognitive ed emotive che spingono ad avere paura di chiudere il rapporto violento: alcuni dipendenti affettivi tipici non vogliono porre fine alla relazione perché potrebbero sentirsi indegni e disgustosi (tipo indegno), altri perché potrebbero sentirsi soli e impotenti (tipo traumatico), altri perché potrebbero stare male quando non si prendono (eccessivamente) cura e “salvano” il partner povero, fragile (tipo altruista), altri ancora per tutti e tre i motivi o alcuni di essi insieme (tipo misto). Questi ultimi sono i più problematici e caotici.

Per concludere

In conclusione, alla luce del modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche elaborato dall’autrice e dei risultati dello studio preliminare, la dipendenza affettiva patologica può essere considerata un antecedente psicologico fondamentale e una concausa della violenza nelle relazioni intime. Questi risultati sottolineano l’importanza di un intervento psicologico sia per le vittime che per gli autori di violenza.

Inoltre, se fino ad oggi la dipendenza affettiva patologica è stata trattata come una semplice declinazione del disturbo dipendente di personalità o di una delle forme di dipendenza (alcol, droghe, sesso, gioco d’azzardo), ne consegue che i trattamenti utilizzati non tengono conto della molteplicità della dipendenza affettiva patologica. Il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica, i quattro profili del dipendente affettivo tipico (indegno, altruista, traumatico e misto) e il ciclo a quattro stadi della dipendenza affettiva patologica permettono finalmente una maggiore comprensione del funzionamento mentale delle persone che vivono questa condizione, e sono la base per la creazione di un una scala di misura e di un intervento clinico mirato, basati su un modello teorico confermato per la prima volta da dati di ricerca. Questo oggi rappresenta un passo in avanti nella prevenzione e nell’intervento del ciclo inconvertibile della violenza nelle relazioni intime.

Sconfitta, entrapment e ideazione suicidaria: quale relazione?

L’obiettivo dello studio di Höller et al. (2022) è stato quello di fornire ulteriori prove sulla relazione causale tra sentimento di sconfitta, entrapment (interno ed esterno) e ideazione suicidaria, come proposto dal modello integrato motivazionale volitivo.

I concetti di sconfitta ed entrapment

 La sconfitta e l’entrapment (NdR – in italiano si tradurrebbe con intrappolamento) sono stati proposti come due importanti costrutti clinici con rilevanza transdiagnostica nello sviluppo di depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico (Siddaway et al., 2015). Gilbert e Allan (1998) descrivono la sconfitta come un sentimento di impotenza e umiliazione, mentre l’entrapment è caratterizzato dall’incapacità di fuggire da situazioni insopportabili (Gilbert & Allan, 1998). Hanno proposto che l’entrapment consiste in due sottotipi: l’entrapment interno e quello esterno, dove l’entrapment esterno descrive la sensazione di essere intrappolati da circostanze esterne e l’entrapment interno si riferisce all’essere intrappolati da aspetti interni come i propri pensieri (Owen et al., 2018). Inoltre, per quanto riguarda la rilevanza transdiagnostica del sentimento di sconfitta e dell’entrapment, è stato empiricamente testato che entrambi sono predittori per i tentativi di suicidio (O’Connor et al., 2013) e per l’ideazione suicidaria (Rasmussen et al., 2010; Wetherall et al., 2018), sottolineando il loro ruolo centrale nello sviluppo dell’ideazione e del comportamento suicidario in generale, nonostante la differenziazione tra entrapment interno ed esterno.

Il modello integrato motivazionale volitivo del comportamento suicidario

La recente ricerca sul suicidio si concentra sulla distinzione tra i predittori dell’ideazione suicidaria e quelli dell’effettivo comportamento suicidario nell’ambito delle cosiddette “ideation-to-action theories” (Klonsky et al., 2018), come il modello integrato motivazionale volitivo del comportamento suicidario (Modello IMV – Integrated Motivational–Volitional Model; O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo presuppone che i sentimenti di sconfitta e di entrapment siano di centrale importanza nello sviluppo dell’ideazione suicidaria (O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo è un quadro teorico relativamente nuovo, che consiste in tre fasi diverse. La fase pre-motivazionale, che comprende il contesto biopsicosociale, la vulnerabilità individuale e gli eventi di vita negativi e si basa su modelli di stress-diatesi del suicidio (Mann et al., 1999). La seconda fase è la fase motivazionale, che descrive lo sviluppo dell’ideazione suicidaria includendo i costrutti di sconfitta ed entrapment (senza però distinguere tra entrapment interno ed esterno) (O’Connor & Kirtley, 2018). L’ultima fase del modello integrato motivazionale volitivo è quella volitiva, in cui si verifica l’effettivo comportamento suicidario (O’Connor & Kirtley, 2018). Il modello integrato motivazionale volitivo propone che i sentimenti di sconfitta portino a sentimenti di entrapment e, di conseguenza, allo sviluppo di idee suicidarie (O’Connor & Kirtley, 2018).

Sentimento di sconfitta, entrapment e ideazione suicidaria

I risultati delle ricerche recenti sono eterogenei, con maggiori evidenze di un’associazione tra l’entrapment interno e quello esterno con l’ideazione suicidaria e una generale mancanza di studi che indagano la relazione differenziale tra entrapment interno ed esterno e ideazione suicidaria (Höller et al., 2022). Purtroppo, c’è mancanza di dati prospettici in questo settore. Finora solo Owen et al. (2018) hanno fornito dati prospettici con la distinzione tra entrapment interno ed esterno (Höller et al., 2022). Alla luce del fatto che, anche dopo decenni di ricerca, i dati sulla previsione di ideazione suicidaria, tentativi di suicidio e decessi risultano ancora insufficienti (Franklin et al., 2017), diventa chiaro che si rendono necessari più studi prospettici che abbiano il potenziale di far luce sui potenziali percorsi causali che portano all’ideazione e al comportamento suicidario (Höller et al., 2022). Pertanto, sono assolutamente necessarie ulteriori prove sulla relazione causale tra sentimento di sconfitta, entrapment (interno ed esterno) e ideazione suicidaria, come proposto dal modello integrato motivazionale volitivo, basate su un disegno prospettico appropriato, che questo studio cercherà di fornire (Höller et al., 2022). Inoltre, la maggior parte degli studi ha indagato popolazioni generali o campioni di studenti, ma mancano studi su pazienti psichiatrici ricoverati a causa di un tentativo di suicidio o di una grave ideazione suicidaria (Höller et al., 2022). Questo studio mira a colmare queste due importanti lacune, non solo fornendo dati prospettici, ma anche esaminando un campione di individui ad alto rischio di suicidio (Höller et al., 2022).

Lo studio di Höller et al. (2022)

L’obiettivo dello studio è quello di indagare empiricamente se il senso di sconfitta, l’entrapment interno ed esterno e l’ideazione suicidaria sono associati e se il percorso postulato nel modello integrato motivazionale volitivo dalla sconfitta, all’entrapment, fino all’ideazione suicidaria può essere confermato prospetticamente.

In questo studio si ipotizza che: (1) sentimenti di sconfitta siano associati all’entrapment interno ed esterno, e che (2) il senso di sconfitta possa prevedere l’entrapment interno ed esterno in modo prospettico. Per quanto riguarda l’ideazione suicidaria, si ipotizza che (3) la sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, siano associati all’ideazione suicidaria e che (4) la sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, possano prevedere l’ideazione suicidaria nel tempo.

Un campione di 308 pazienti psichiatrici (53% donne) di età compresa tra i 18 e gli 81 anni è stato valutato per i quattro costrutti subito dopo l’ammissione in un reparto psichiatrico e successivamente a sei, nove e dodici mesi dopo l’ammissione (Höller et al., 2022).

I risultati dello studio

In linea con la prima ipotesi, i risultati hanno indicato che il sentimento di sconfitta era associato sia all’entrapment interno che a quello esterno.

 La seconda ipotesi ha potuto essere confermata solo in parte in quanto il senso di sconfitta non era in grado di prevedere l’entrapment interno, né quello esterno né la variazione dell’entrapment esterno nel tempo. L’associazione tra l’entrapment (interno ed esterno) e i sentimenti di sconfitta è in linea con le ipotesi del modello integrato motivazionale volitivo (O’Connor & Kirtley, 2018) e con precedenti ricerche empiriche (Carvalho et al., 2013; Gilbert & Allan, 1998). Tuttavia, il modello integrato motivazionale volitivo indica che i sentimenti di sconfitta portano all’entrapment nella fase motivazionale, suggerendo un percorso prospettico, che ha potuto essere confermato solo in parte per l’entrapment interno, ma non per quello esterno.

In linea con la terza ipotesi, la sconfitta e l’entrapment interno sono stati associati all’ideazione suicidaria. L’entrapment esterno non è stato associato né all’ideazione suicidaria né alla variazione dell’ideazione suicidaria, evidenziando ancora una volta l’importanza di distinguere tra entrapment interno ed esterno.

Per la quarta ipotesi, che proponeva che il sentimento di sconfitta e l’entrapment interno, ma non quello esterno, fossero in grado di prevedere l’ideazione suicidaria nel tempo, i risultati sono stati contrastanti. L’entrapment interno, ma non il sentimento di sconfitta, può predire l’ideazione suicidaria nel tempo. L’entrapment interno e la sconfitta, ma non l’entrapment esterno, potevano prevedere un cambiamento nell’ideazione suicidaria nel tempo. È interessante notare che l’associazione tra l’entrapment interno e l’ideazione suicidaria, era positiva. Pertanto, su brevi periodi di tempo (come giorni o ore, dato che i questionari chiedevano di rilevare i sentimenti di sconfitta o entrapment e l’ideazione suicidaria negli ultimi giorni), alti livelli di entrapment interno coincidevano con alti livelli di ideazione suicidaria, il che è in linea con le ipotesi del modello integrato motivazionale volitivo.

Tuttavia, in questo campione, l’ideazione suicidaria e tutti gli altri costrutti valutati sono diminuiti nel tempo. In altre parole, i partecipanti si sono sentiti sempre meglio in tutte le variabili nel corso dello studio, mostrando i punteggi più alti nella valutazione iniziale e i punteggi più bassi nella valutazione finale.

In generale, quindi, i risultati evidenziano l’importanza di distinguere tra entrapment interno ed esterno e la loro specifica associazione con l’ideazione suicidaria. Le percezioni di entrapment interno sono di importanza centrale quando si sperimenta l’ideazione suicidaria e dovrebbero essere considerate nella pratica clinica.

 

Dipendenza affettiva (2022) di Lebruto, Calamai, Caccico e Ciorciari – Recensione

La dipendenza affettiva non sempre è facilmente riconoscibile, eppure essa riflette appieno un quadro psicopatologico rispetto al quale convergono fattori psichici, interpersonali e non ultimo di natura psicosomatica.

 

 Per quanto la dipendenza affettiva sembri condividere determinate caratteristiche con la dipendenza relativa all’uso di sostanze, quella di tipo affettivo sembra mettere a nudo la fragilità cognitiva e psicofisica della persona, che si scopre prigioniera di uno stato mentale ricorrente, invasivo e dinanzi al quale le proprie modalità di autoregolazione non sempre risultano funzionali (Siegel, J. D. 2001). Attraverso le pagine di questo saggio gli autori non solo offrono una panoramica ben dettagliata circa quello che oggi si presenta quale uno dei quadri psicopatologici maggiormente diffusi, bensì descrivono nel dettaglio la fisionomia attraverso la quale la dipendenza affettiva prende vita entro la cornice intrapsichica della persona. Offrono inoltre al clinico validi strumenti finalizzati all’esplorazione del disturbo e dei suoi numerosi volti, tra cui il colloquio psicologico, il diario dei desideri e non ultimo la colorazione di quelle parti corporee rispetto alle quali si manifestano i sintomi della dipendenza stessa.

Affondando le sue radici nel passato della persona, la dipendenza affettiva riflette quell’automatismo linguistico ed espressivo, in grado di tradursi in un quadro sintomatologico che dalla dimensione cognitiva intacca peraltro quella emotiva, relazionale e corporea. Quanto viene ad emergere e purtroppo ad instaurarsi sotto forma di “intossicazione acuta” (Lebruto, A., 2022) è un vero e proprio schema, che in maniera ripetitiva e ben strutturata non solo decentra la persona dalla sua individualità, bensì trasforma l’amore sano, fisiologico e passionale in un amore patologico, disfunzionale e rispetto al quale la propria individualità prende vita esclusivamente in funzione della persona amata.

A tal riguardo Reynaud (Reynaud, M., 2010) ha infatti proposto una prima distinzione tra le due modalità di sentire le emozioni e di condividerle con un’altra persona, descrivendo così l’amore sano da quello patologico quale riflesso di un processo fisiologico che, tuttavia, rischia di tradursi in comportamenti ossessivi, ripetitivi e che gradualmente limitano la libertà individuale dei due partner. Nondimeno l’autore propone la lettura del seguente quadro psicopatologico, come preceduto da una strutturazione tripartita delle fasi che pian piano sfociano in uno stato mentale disfunzionale e disadattivo.

 Partendo infatti dall’innamoramento, quale modalità di espressione del tutto fisiologica, si procede con il coinvolgimento sentimentale, rispetto al quale inizia ad emergere non solo una sincera complicità tra ambo i partner, bensì una piena conferma circa l’indispensabilità dell’altra persona, senza la quale la propria individualità verrebbe meno e attraverso la quale si è in grado di ottenere un riconoscimento, ergendo dunque l’altra persona a figura indispensabile e insostituibile, in funzione della quale il proprio Io assume importanza. L’indispensabilità, quindi, si traduce in vero e proprio trampolino di lancio entro il quale la cognizione, l’emozione e il sentire corporeo operano un investimento relazionale ed emotivo, innescando quel meccanismo ossessivo circoscritto al coinvolgimento.

Quest’ultima tappa infatti chiama in causa e a pieno titolo una nuova concatenazione di fattori che, oltre a manifestarsi sotto il profilo cognitivo, non tardano ad esprimersi anche sotto quello neurobiologico, trasformando il proprio sentire e le proprie modalità di autoregolazione in un’arma a doppio taglio. Nel dettaglio infatti emerge il tema della pianificazione, ossia quel comportamento attraverso il quale il legame con l’altra persona sembra non dover trovare ostacoli rispetto al proprio desiderio di stare con lei, di incontrarla e di ergerla sempre più a piedistallo della propria esistenza. Come sopra accennato, si assiste dunque ad un effetto domino ove l’attenzione selettiva, la pianificazione delle attività, la forte spinta motivazionale e le memorie pervasive rispecchiano appieno gli ingredienti essenziali, per rendere l’amore una sostanza difficile da ingerire.

Attraverso le pagine di questo libro, le caratteristiche sintomatologiche presentate e descritte invitano non solo a conoscere i numerosi volti di questa condizione psicopatologica, a prendere consapevolezza circa la fragilità che le persone (incastrate nel labirinto di questa forma di dipendenza) sperimentano nel quotidiano, ma al contempo a riscoprire e a riappropriarsi dei propri spazi. Anche e soprattutto in assenza di un’altra figura, valorizzando l’unico legame che più di ogni altro conta: quello con sé stessi.

Body positivity o body neutrality: un dilemma “apparente”?

Nelle società occidentali non è raro che il corpo venga considerato un oggetto da guardare, giudicare e di cui disporre, portando le persone a porre attenzione alla propria immagine corporea e suscitando insoddisfazione ed emozioni negative negative a riguardo. Tuttavia un movimento socioculturale noto come body positivity sta emergendo sempre di più sui social media..

Immagine corporea

 Schilder, nel 1935, definisce l’immagine corporea come l’immagine del proprio corpo nella propria mente, ovvero il modo in cui il corpo appare a se stessi. In seguito, Slade (1994) la descrive più precisamente come l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e alle singole parti del nostro corpo: cioè, la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo. Lo sviluppo della propria immagine corporea è un processo fortemente influenzato da alcuni fattori sociali e culturali: in primo luogo, l’esposizione a immagini mediatiche su piattaforme social e su riviste tradizionali; in secondo luogo, il confronto con la propria realtà socioculturale e con i propri pari (Thompson et al., 1999). In particolar modo, negli ultimi decenni l’aumento dell’utilizzo dei social – in particolar modo Instagram – in età pre-adolescenziale e adolescenziale ha reso necessario un approfondimento di questo fenomeno di influenza sulla percezione del sé corporeo. Un recente studio sperimentale condotto su un campione di giovani donne italiane (Di Gesto et al., 2022) ha dimostrato che, indipendentemente dai livelli di interiorizzazione degli standard socioculturali di bellezza, l’esposizione ad immagini di Instagram alle quali è associato un elevato numero di like rappresenta un fattore di rischio per l’aumento delle preoccupazioni e delle emozioni spiacevoli relative al proprio corpo, come insoddisfazione corporea e ansia sociale per il proprio aspetto fisico.

Oggettivazione corporea e auto-oggettivazione corporea

La percezione e la consapevolezza del proprio corpo come involucro della propria identità personale sono elementi fondamentali durante la transizione dall’adolescenza all’età adulta (Rollero, 2019). Nelle società occidentali non è raro che gli individui vengano depersonalizzati, spogliati della propria umanità e identità personale. Il corpo viene considerato un oggetto da guardare, giudicare e di cui disporre. Attraverso la Teoria dell’Oggettivazione, Fredrickson e Roberts (1997) hanno portato alla luce questa tendenza tipica delle società attuali: le persone vengono indotte ad interiorizzare questa prospettiva sul loro stesso corpo; si verifica quella che Fredrickson & Roberts (1997) definiscono auto-oggettivazione, consistente nella tendenza a percepire e giudicare il proprio corpo secondo un ipotetico sguardo esterno interiorizzato. La letteratura negli anni ha esaminato questo fenomeno focalizzandosi maggiormente sulle giovani donne, oggi però risulta doveroso considerare gli effetti allarmanti anche relativamente alla controparte maschile, dato che, sempre di più, sembra rappresentare un target altrettanto vulnerabile alle influenze socioculturali sulla rappresentazione del proprio corpo (Nagata et al., 2020). Secondo Calogero e Thompson (2010), sin dall’infanzia le bambine vengono spinte a focalizzarsi sul loro aspetto estetico e sulle qualità relazionali, mentre i bambini vengono incentivati a concentrarsi sulle loro qualità assertive e sulle loro competenze, anche fisiche (Eagly & Koenig, 2006). Sembrerebbe che in Italia i processi di oggettivizzazione e di sessualizzazione siano più pervasivi che in altri paesi europei (Dakanalis et al., 2015; Rollero et al., 2019): questa consapevolezza rende necessario estendere le ricerche all’interno dei diversi paesi europei e non, al fine di poter avere una visione più ampia rispetto alle differenze culturali in riferimento a tale ambito.

Thinspiration e fitspiration

Le piattaforme social basate sulla condivisione di fotografie, come Instagram, hanno contribuito alla diffusione di ideali basati sulla thinspiration (contenuti destinati a ispirare la perdita di peso) e sulla fitspiration (contenuti destinati a ispirare obiettivi di fitness) (Cohen et al., 2021; Fardouly & Vartanian, 2016). L’analisi dei contenuti di thinspiration e fitspiration sui social media ha rilevato che la maggior parte dei post e delle stories ritrae tipicamente corpi magri e tonici in pose sessualmente oggettivanti, con messaggi che inducono al senso di colpa rispetto a diete, peso ed esercizio fisico (es., Tiggemann & Zaccardo, 2018; Wick & Harriger, 2018), aumentando l’umore negativo e l’insoddisfazione corporea (Robinson et al., 2017; Tiggemann & Zaccardo, 2015). La letteratura dimostra che gli adolescenti e i giovani adulti, caratterizzati da cambiamenti nella fisicità (ad esempio, sviluppo dei muscoli e del seno, comparsa di brufoli), instabilità emotiva e comportamento esplorativo per costruire la propria identità, sono particolarmente bersaglio degli standard di apparenza nei contenuti promossi tramite i social media. Molti studiosi (ad esempio, Harriger et al., 2023) hanno espresso preoccupazione verso i giovani a causa delle rappresentazioni degli ideali di apparenza nei social media. I mezzi di comunicazione di massa tradizionali, come la televisione – quindi film e cartoni animati –, e quelli più recenti, come i social media, rappresentano in modo persistente una visione omogenea delle caratteristiche estetiche considerate ideali per uomini e donne, riducendo la possibilità di veder rappresentati tutti i corpi possibili. Per quanto si pensi che esista una dittatura del politicamente corretto, ad esempio, le persone con corpi grassi sono sottorappresentate a livello mediatico e social-mediatico e, quando appaiono sugli schermi, il loro aspetto è quasi sempre connesso a caratteristiche stereotipate e/o negative (es., Holland et al., 2015). Questo contribuisce a creare un immaginario collettivo che influenza non solo quello che la società pensa delle persone con un corpo considerato non conforme ai canoni estetici dominanti in una data cultura, ma anche ciò che tali persone pensano di loro stesse. Gli ideali estetici veicolati attraverso i media sono accompagnati da indici di accettazione sociale, come i like, che forniscono all’utente il punto di vista del pubblico social, influendo sui livelli di insoddisfazione corporea e ansia nel mostrare il proprio corpo per timore di un giudizio negativo (es., Di Gesto et al., 2022). Questa modalità stringente di rappresentare solo alcuni corpi si distacca dal concetto di salute promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui la salute è uno stato di totale benessere fisico, psicologico, sociale e spirituale e non semplicemente assenza di malattie o infermità. Una maggiore rappresentazione da parte dei media di personaggi e corpi che rispecchiano questo concetto potrebbe favorire negli utenti un maggiore riconoscimento del proprio corpo come uno dei corpi possibili, riducendo così le emozioni negative di frustrazione legate al gap presente tra la percezione del proprio corpo e gli ideali estetici rappresentati e rinforzati dai media. L’idea che la rappresentazione di determinati corpi possa “promuoverli” fra le persone, determinando un aumento del numero di persone con corpi grassi è contraria alle evidenze scientifiche. Non rappresentare o farlo in modo stereotipato e, quindi, marginalizzare e stigmatizzare le persone, spinge chi ha un corpo grasso a ritenere fuori dalla propria portata alcune cose che invece potrebbe avere piacere e voglia di fare (es. aumentare il proprio grado di fitness). Questa idea è confermata da decenni di studi scientifici sullo stigma (es., Bidstrup et al., 2022; Rojas-Sanchez et al., 2022). La rappresentazione di tutti i corpi è salute pubblica; nella rappresentazione la varietà educa a una realtà possibile ed è importante mostrarla tutta.

Body positivity e body neutrality

 Mentre gli account Instagram che mostrano immagini idealizzate continuano a crescere in popolarità, un movimento socioculturale noto come body positivity è emerso sempre di più sui social media, con l’obiettivo di portare alla luce modelli corporei non corrispondenti agli iconici ideali di magrezza, snellezza, perfezione proporzionale o cutanea. La body positivity mira a promuovere l’idea che sia importante accettare tutti i corpi, senza tralasciarne nessuno, indipendentemente da forma, dimensioni e caratteristiche (Rodgers et al., 2022). In una recente analisi del contenuto di 640 post di Instagram campionati da account popolari di body positive, gli autori hanno trovato che tali post includono tipicamente immagini che rappresentano forme e taglie corporee di diverse dimensioni e ideali estetici altrimenti sottorappresentati negli account tradizionali (Cohen et al., 2019). Hashtags associati con la body positivity e la fat acceptance sono #healthateverysize, #haes, #effyourbeautystandards, #fatspiration. Ciò è coerente con i principi Health At Every Size® (HAES), che sostengono un approccio alla salute a peso neutro, dando la priorità al benessere rispetto alla perdita di peso (Association for Size Diversity and Health, 2013). Attraverso tali post, i sostenitori del body positive mirano a dimostrare che tutti i corpi meritano rispetto e promuovono una relazione più positiva con il proprio corpo e se stessi. Alcuni recenti studi (es. Cowles et al., 2023) hanno mostrato che l’esposizione a post di body positivity si associava positivamente a maggiori livelli di soddisfazione corporea e un miglioramento dell’umore.

Tuttavia, non mancano in letteratura critiche mosse verso i contenuti promossi dalla body positivity, i quali, focalizzandosi in ogni caso sull’apparenza estetica, sembrano incrementare i livelli di oggettivazione e auto-oggettivazione corporea (Cortez & Alfonso, 2021). Cohen e colleghi (2019) hanno realizzato uno studio sperimentale in cui le partecipanti – giovani donne – sono state sottoposte alla visualizzazione di post di Instagram che promuovono ideali di body positivity, thinspiration e post neutrali rispetto all’aspetto estetico. I risultati hanno mostrato miglioramenti dell’umore e più alti livelli sia di soddisfazione che di apprezzamento corporeo in risposta all’esposizione a contenuti di body positivity, rispetto ai post volti a promuovere ideali di magrezza e ai post neutrali dal punto di vista dell’apparenza fisica. Tuttavia, sia i post che promuovono l’ideale di magrezza che i post di body positivity sono stati associati a un aumento dell’auto-oggettivazione rispetto ai post neutrali dal punto di vista dell’aspetto corporeo. Di conseguenza, questa ricerca preliminare suggerisce che, da un lato, la visione di immagini positive per il corpo è associata a un miglioramento dell’umore e a una maggiore soddisfazione corporea, dall’altro, è ancora associata a un’eccessiva attenzione focalizzata sull’aspetto corporeo.

I risultati emersi dallo studio condotto da Cohen e colleghi (2019) suggeriscono la necessità di nuove ricerche su un approccio al corpo meno oggettivante: la body neutrality sembrerebbe rappresentare la via di mezzo per i messaggi polarizzati su amore-odio verso il proprio corpo (Weingus, 2018). Mentre la body positivity mira a cambiare la definizione di bellezza nella società, promuovendo l’accettazione e l’apprezzamento di tutte le forme e dimensioni del corpo, la body neutrality mira a cambiare il valore che la società attribuisce alla bellezza, incoraggiando le persone a porre meno enfasi sul proprio aspetto fisico (Rees, 2019). Questo approccio potrebbe contribuire a ridurre la tendenza, ampiamente diffusa, a percepire e a giudicare il proprio corpo assumendo uno sguardo esterno.

Nel contesto dell’immagine corporea, negli ultimi anni la ricerca ha cominciato a focalizzarsi anche sui concetti di body compassion (Altman et al., 2017). La compassion è definita come un atteggiamento di sensibilità alla sofferenza propria e altrui in aggiunta al desiderio di alleviare tali stati di disagio; essa implica la combinazione di emozioni, motivazioni, pensieri e comportamenti che coinvolgono due dimensioni: gli attributi compassionevoli, cioè una sensibilità intenzionale alla sofferenza e la capacità di tollerare l’angoscia senza un atteggiamento giudicante, e le azioni compassionevoli, cioè la motivazione a intraprendere azioni utili per prevenire l’angoscia e/o affrontarla (de Carvalho Barreto et al., 2020). Alcuni autori (es., Policardo et al., 2021) hanno rivelato che alti livelli di body compassion, ossia un atteggiamento di gentilezza e accettazione delle proprie inadeguatezze corporee percepite, si associa a minore insoddisfazione corporea, incrementando i processi psicologici di: defusion, ossia la tendenza a non identificarsi eccessivamente con le imperfezioni, i limiti o le inadeguatezze percepite relativamente al proprio corpo; common humanity, cioè la capacità di considerare i propri difetti corporei percepiti come parte dell’esperienza umana; acceptance, cioè l’accettazione di pensieri, percezioni e pensieri dolorosi legati al corpo in contrapposizione a un atteggiamento critico e giudicante verso il proprio sé corporeo.

Alla luce delle ricerche in tale ambito, risulta fondamentale promuovere interventi di sensibilizzazione primaria volti a contrastare l’effetto delle influenze socioculturali sull’immagine corporea e a potenziare i fattori di protezione, come l’apprezzamento della funzionalità corporea e la body compassion.

 

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità attraverso la figura di Aaron Luke Stampler nel film “Schegge di paura”

Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è connesso a traumi emotivi intensi di esperienze molto dolorose che comportano la patologia come forma di difesa della mente da una realtà impossibile da gestire.

 

 Magistrale interpretazione dell’attore Edward Norton nel film “Schegge di paura” del 1996 nel ruolo di un giovane chierichetto balbuziente accusato dell’omicidio dell’arcivescovo di Chicago Richard Rushman. L’avvocato penalista Martin Vail (Richard Gere), è l’unico a decidere di difendere Aaron convinto della sua innocenza, seppure le prove raccolte sulla scena del crimine mostrino Aaron come unico indiziato e partecipe del delitto.

Il giovane soffre di perdite di memoria che non gli permettono di fare un riepilogo coerente dell’accaduto. L’avvocato Martin decide, dunque, di sottoporlo ad una analisi psichiatrica e dalle sedute si scopre che il ragazzo soffre di disturbo dissociativo dell’identità, disturbo sviluppatosi in seguito a imposizioni di carattere sessuale provenienti dall’arcivescovo quando Aaron era un ragazzino.

Negli studi di psicologia clinica, secondo il DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder dell’American Psychiatric Association) e secondo l’approccio teorico del modello postraumatico, il disturbo dissociativo dell’identità (DDI) è connesso a traumi emotivi intensi di esperienze molto dolorose che comportano la patologia come forma di difesa della mente da una realtà impossibile da gestire. Si pensi ai traumi subiti durante il periodo infantile, quali abusi sessuali e ripetuti maltrattamenti fisici. Tali eventi portano l’individuo a dissociare le esperienze soggettive in personalità multiple, i cosiddetti “alter ego”.

 Proprio la presenza degli alter ego è ben rappresentata da una particolare scena del film, una scena in cui il giovane Aaron subisce forte stress causato dal pubblico ministero Janet Venable (Laura Linney) in aula di tribunale attraverso un attacco fatto di parole incisive che gli fanno rivivere le violenze psicologiche subite. Ed ecco che, improvvisamente, Roy si sostituisce ad Aaron: cambia tono di voce, modifica la sua espressione facciale, mostra spavalderia verso la giuria e la pubblica accusa. Roy si differenzia da Aaron per il linguaggio senza balbuzie, per le parole che scadono nel volgare e per il suo scagliarsi verbalmente e fisicamente contro l’avvocato accusatore. A questo punto, le guardie intervengono, prendono di forza Aaron/Roy, portandolo fuori dall’aula mentre continua a urlare e minacciare il pubblico ministero Janet Venable.

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Da quanto emerge da diversi studi psicologici, le due o più personalità presenti in un unico individuo sono distinte, vale a dire, hanno modi di pensare, essere, sentire e agire totalmente indipendenti. Solitamente vi è una personalità principale, una identità che assume il controllo del comportamento della persona e ciascuna di esse non ha consapevolezza dell’esistenza delle altre personalità, né ha ricordo di ciò che fanno le altre. Ogni identità ha la sua personalità con i suoi modi di percepire, pensare e relazionarsi nei confronti di sé e dell’ambiente.

Tuttavia, nonostante le diverse identità riferiscano di non condividere i ricordi, in realtà alcune identità sembrano conoscere le altre ed interagire con esse. Infatti, nel film c’è una scena dove l’avvocato Martin ha un colloquio con Aaron per obbligarlo a dirgli la verità sull’omicidio dell’arcivescovo Rushman. Questa conversazione porta il giovane a far prevalere l’altra identità, quella di Roy, il quale fa capire di ricordarsi molto bene di Aaron. Ne parla come un debole, incapace di commettere un crimine così violento, ribadendo il concetto della fragilità e della viltà di Aaron.

Il ruolo del trauma infantile nell’aumento della disregolazione emotiva

L’Organizzazione Mondiale Della Sanità definisce il trauma infantile come un insieme di esperienze avverse esperite prima del compimento dei 18 anni. Comprende molteplici forme di maltrattamento, come l’abuso fisico, emotivo e/o sessuale, il neglect, cioè la trascuratezza, sia fisico che emotivo e l’essere spettatore di abusi su persone vicine.

 

 È stato stimato come più di 300 milioni di bambini tra i due e i quattro anni subiscano percosse, punizioni fisiche o abusi psicologici da parte di adulti e più di 40 milioni vengono uccisi ogni anno a causa di maltrattamenti, che spesso vengono riferiti come incidenti. Eventi traumatici durante l’infanzia possono causare conseguenze a lungo termine, come la depressione, l’abuso di alcolici e anche problematiche evolutive dovute a cambiamenti strutturali del cervello (WHO, 2020). Infatti, i bambini vittime di maltrattamenti spesso mostrano importanti modifiche nella modalità di elaborazione delle informazioni sociali e tendono a focalizzarsi su stimoli paurosi. Inoltre, di solito mostrano un’elevata reattività emotiva, una minore consapevolezza in termini di emozioni, problemi di apprendimento emotivo e difficoltà nella regolazione delle emozioni (McLaughlin et al., 2020).

Trauma Infantile e Regolazione delle Emozioni

I primi studi incisivi sugli effetti dell’abbandono risalgono al 1949, quando René Spitz condusse un esperimento su bambini sottoposti a neglect sia fisico che emotivo. Egli osservò che nella maggior parte dei casi, un periodo prolungato di neglect portava ad un progressivo deterioramento e sottosviluppo della personalità dei bambini e che ciò causava marasma e morte entro il secondo anno di vita (Patterson & Hidore, 1997). Sebbene casi come questo siano estremi, la letteratura sugli effetti del trauma infantile concorda sul fatto che esso sia un forte fattore di rischio per l’esordio di psicopatologie sia nell’infanzia che in età adulta. Ad esempio, nel 1998, Felitti e colleghi riportarono di aver notato come i bambini vittime di maltrattamento mostrassero maggiori difficoltà nella regolazione delle emozioni rispetto ai bambini “sani”. In aggiunta, Heleniak e colleghi (2016), hanno riscontrato un’associazione tra esperienze traumatiche infantili, maggior reattività emotiva e maggiori risposte disadattive al disagio, sia dal punto di vista cognitivo che da quello comportamentale; secondariamente, hanno osservato che queste ultime svolgevano il ruolo di mediatore nella relazione tra trauma e psicopatologia.

Tuttavia, come affermato da Gross (2015), il processo di regolazione delle emozioni in età adulta è sfaccettato e complesso. È stato osservato come una carenza di strategie di regolazione adattive risulti nella difficoltà di controllo dell’impulsività e a tal proposito, Oshri e colleghi (2015) hanno condotto uno studio su un campione di studenti universitari, grazie al quale è emersa una correlazione tra problematiche relative al controllo degli impulsi, al comportamento goal-directed (orientato al raggiungimento degli obiettivi) e un comportamento dirompente. In particolare, in un campione di studentesse universitarie è stato osservato che esperire abusi emotivi durante l’infanzia era associato ad una diminuzione della chiarezza delle proprie emozioni, dell’accettazione di esse, a minori azioni goal-directed e ad un maggior discontrollo degli impulsi (Burns et al., 2010).

Genitori con un passato di maltrattamenti

 Un altro risultato importante di cui tenere conto in questo ambito è la trasmissione generazionale della capacità di regolazione emotiva quando un genitore è stato vittima di abusi a sua volta durante l’infanzia. In tale ambito, Osborne e colleghi (2021) hanno condotto uno studio avente lo scopo di esaminare il legame diretto e indiretto tra una storia di maltrattamento subita dal genitore e la capacità di regolazione emotiva nella prole. Esaminando un campione di 101 diadi genitore-figlio, è emerso che il trauma infantile subito dal genitore era fortemente associato a disregolazione nel figlio; inoltre, per quanto riguarda l’effetto indiretto delle esperienze avverse esperite dai genitori sulla prole, esso è risultato significativo quando i primi esibivano maggiori difficoltà nell’assumere comportamenti goal-directed. In particolar modo, questo studio ha evidenziato che le figlie di sesso femminile presentavano una maggior difficoltà nell’autoregolazione indipendentemente dalla storia di abusi dei genitori, mentre le capacità di regolazione emotiva genitoriale sembravano impattare più significativamente nella trasmissione intergenerazionale della disregolazione nei figli maschi.

Infine, Gruhn e Compas (2020) hanno condotto una revisione della letteratura volta a stimare l’impatto dei maltrattamenti nelle prime fasi della vita sulle strategie di coping e di regolazione emotiva durante il periodo di infanzia e adolescenza. Sono stati inclusi nello studio 35 articoli, dai quali è emerso che il trauma infantile era fortemente associato a scarse strategie di regolazione e di conseguenza ad alti livelli di disregolazione in entrambe le fasce di età. Questo studio ha inoltre evidenziato un aumento dell’evitamento (una strategia comportamentale che porta le persone a sottrarsi dall’esporsi a situazioni, persone, eventi temuti per evitare di affrontare l’emozione negativa che ne può derivare) e della soppressione emotiva (ovvero l’inibizione cosciente dell’espressione emotiva) nei bambini traumatizzati.

Conclusione

In conclusione, vi è un ampio corpo di letteratura riguardante l’impatto del trauma infantile sulla regolazione delle emozioni durante tutto il corso della vita della vittima, così come studi riguardanti la possibilità che la disregolazione emotiva possa essere trasmessa a livello generazionale da un genitore vittima di abusi durante le prime fasi della crescita alla prole sana.

La salute mentale dei migranti all’interno dei CPR

Nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio le persone ristrette vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico.”

L’inchiesta pubblicata da Altraeconomia ad aprile Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei CPR italiani dei giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni restituisce un’immagine dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) che rimanda alle condizioni dei vecchi manicomi in cui per tenere buoni i pazienti si abusava di antipsicotici, antidepressivi e ansiolitici, le cosiddette ‘camicie di forza chimiche’.

Secondo gli autori la quantità di psicofarmaci acquistati dai CPR è spropositata e se giustificata, significa che tratteniamo in queste strutture persone che si trovano in uno stato psichico tale da essere incompatibile con il soggiorno nei CPR.

Analizziamo quindi cosa sappiamo sullo stato di salute dei migranti rinchiusi nei CPR per capire se l’utilizzo di psicofarmaci sia giustificato o meno.

Prima, però, qualche informazione in più su chi sono le persone trattenute nei CPR.

Cosa significa essere uno straniero in Italia

Con il termine ‘straniero’ la legge italiana indica chi non è cittadino di uno Stato membro dell’Unione Europea, quindi il cittadino extracomunitario.

Gli stranieri che si trovano in Italia senza visto o permesso di soggiorno validi vengono considerati irregolari. Il nostro Stato prevede delle misure volte sia a prevenire l’ingresso irregolare degli stranieri, sia a impedire la loro presenza irregolare sul territorio italiano: sono i provvedimenti di espulsione e respingimento. Se uno straniero irregolare viene intercettato alla frontiera viene respinto, altrimenti, se è già su territorio italiano, viene espulso.

Stranieri irregolari: chi sono e quanti sono

Si stima che attualmente in Italia ci siano poco più di 500.000 stranieri irregolari 

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM1

 

Si tratta di persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno oppure sbarcate sulle coste italiane o che hanno aggirato i controlli di frontiera, molti dei quali richiedenti asilo, altri, i cosiddetti migranti in transito, sono profughi intenzionati a raggiungere altri Paesi dell’Unione Europea e che per questo hanno fatto perdere le loro tracce.

Espellere gli stranieri irregolari: cosa sono i Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR)

I Centri di permanenza e rimpatrio, prima denominati Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) e prima ancora Centri di Permanenza Temporanea (CPT), sono delle strutture nate per ospitare gli stranieri colpiti da un provvedimento di espulsione che non può essere eseguito immediatamente perché:

  • lo straniero deve prima essere soccorso;
  • sono necessari ulteriori accertamenti per stabilire la sua identità o nazionalità;
  • lo straniero deve reperire il proprio documento di viaggio (es. passaporto);
  • non è disponibile un mezzo di trasporto idoneo per rimpatriarlo.

I Centri sono gestiti da società private che hanno vinto un appalto bandito dal Ministero dell’Interno.

Al momento sono 10 i CPR attivi sul territorio italiano:

  • Bari;
  • Brindisi;
  • Caltanissetta;
  • Gradisca d’Isonzo (GO);
  • Macomer (NU);
  • Milano;
  • Palazzo San Gervasio (PZ);
  • Roma;
  • Torino;
  • Trapani.

Chi è trattenuto in un CPR può rimanervi solo per il tempo strettamente necessario a superare gli impedimenti che non ne permettono l’immediata espulsione; massimo 90 giorni, prorogabili a 120 in casi eccezionali.

Se entro questo lasso di tempo non si è riusciti a eliminare gli ostacoli che ne impediscono l’espulsione e a rimpatriarlo, lo straniero viene rilasciato e ha cinque giorni di tempo per abbandonare l’Italia, se non vuole incorrere in sanzioni penali che prevedono la reclusione.

Chi sono gli stranieri trattenuti nei CPR

Esistono diversi motivi per cui uno straniero può essere colpito da un provvedimento di espulsione ed essere portato in un CPR:

Espulsione amministrativa

Viene disposta dal Ministero:

  1. per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, se lo straniero è ritenuto pericoloso;

Viene disposta dal Prefetto:

  1. se lo straniero è clandestino, cioè è entrato nel territorio italiano irregolarmente eludendo i controlli alla frontiera;
  2. se lo straniero è irregolare, cioè privo di permesso di soggiorno valido.

Espulsione giuridica

A seguito di un procedimento penale, uno straniero può essere espulso dall’Autorità Giudiziaria:

  1. per motivi di sicurezza, perché è stato condannato per uno dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza e ritenuto socialmente pericoloso;
  2. come misura alternativa alla detenzione in casi di soggiorno irregolare oppure se sta espiando una condanna definitiva per reati non gravissimi oppure se sta scontando gli ultimi due anni della pena;
  3. come sanzione sostitutiva alla detenzione, se ha commesso un reato non colposo, punito con detenzione inferiore a due anni o per il reato di ingresso e soggiorno illegale;
  4. come sanzione sostitutiva a una pena pecuniaria.

Le persone che vengono trattenute nei CPR sono per lo più clandestini o irregolari (es. migranti sbarcati illegalmente o soccorsi in mare) e in percentuale minore soggetti ritenuti socialmente pericolosi o che hanno commesso reati non gravi. Questi ultimi sono infatti una minoranza, come si evince dai dati dei rimpatri relativi all’anno 2021 (sebbene i dati si riferiscano solo ai rimpatriati, che sono poco meno del 50% delle persone trattenute nei CPR).

Migranti trattenuti nei CPR e psicofarmaci abuso o scelta giustificata - IMM3

Lo stato di salute degli stranieri irregolari

Il tema della salute degli stranieri irregolari mostra un quadro fortemente condizionato da fattori che si intrecciano tra loro come per esempio l’effetto migrante sano (cioè è più facile che decida di emigrare chi è in migliori condizioni di salute) e l’effetto migrante esausto. Quest’ultimo interessa particolarmente gli immigrati irregolari che si trovano in situazioni di precarietà, di svantaggio sociale ed economico, con scarsissime possibilità di integrazione, una relazione problematica con i servizi sanitari (nonostante sia previsto il sistema STP che consente l’accesso anonimo alle cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative per malattia ed infortunio), scarsa compliance ai trattamenti di lunga durata; tutti fattori di rischio per lo sviluppo di disagi psicologici e psichiatrici.

Migranti economici

Alle considerazioni sopra elencate si aggiunge, per i migranti economici irregolari, il rischio di sviluppo di traumi legati al lavoro nero, dove le condizioni lavorative implicano totale assenza di tutela e sfruttamento.

Profughi

Le persone che sbarcano in Italia presentano – ma ciò non stupisce – un’alta incidenza di problemi psichici dovuti alle violenze che hanno subito sia in patria sia durante il viaggio, in particolare Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD).

Come affermato da Baglio e colleghi (2017), “Nel contesto delle migrazioni la salute degli irregolari si presenta maggiormente vulnerabile per il sommarsi degli effetti delle condizioni di partenza e di viaggio e per la marginalità in cui molti di loro si trovano a vivere nel Paese ospite.”

Lo stato di salute mentale nei CPR

I disturbi psichiatrici più diffusi

A fronte di quanto sopra descritto è verosimile che le persone trattenute nei CPR abbiamo un’alta probabilità di soffrire di ansia, PTSD, depressione, dipendenza da sostanze o più in generale di disagio psichico.

Autolesionismo e rischio suicidario

I fattori individuali, ambientali e situazionali che possono influenzare il rischio che uno straniero irregolare trattenuto in un CPR commetta atti di autolesionismo o si suicidi sono diversi. Per esempio:

  • la consapevolezza che il proprio progetto di migrazione, e quindi di cambio vita, è fallito
  • lo stress determinato dalla vita detentiva
  • lo stress determinato dalla carenza di informazioni
  • l’impatto che la vita detentiva può avere su eventuali traumi pregressi legati a violenze o torture subite prima della partenza o durante il viaggio
  • l’astinenza da sostanze in caso di tossicodipendenza
  • la difficoltà ad accedere a un’assistenza psichiatrica adeguata
  • l’isolamento all’interno della struttura e l’assenza di contatti con l’esterno
  • vulnerabilità psicologiche personali

Aggressività

Le condizioni in cui versano le persone trattenute nei Centri contribuiscono inoltre a esacerbare le problematiche psicologiche e psichiatriche. Per esempio, la totale assenza di attività (es. ricreative o sportive) e quindi lo stato di inerzia forzata a cui le persone trattenute sono costrette, determina un aumento di malessere e aggressività che spesso sfocia in sfoghi violenti all’interno delle strutture.

Chi si prende cura della salute mentale degli stranieri nei CPR

Quando una persona è destinata a un CPR, è necessario verificare che non soffra di patologie che siano incompatibili con il suo ingresso o la sua permanenza nel Centro; per esempio, malattie infettive o contagiose, disturbi psichiatrici oppure patologie acute o cronico degenerative che necessitano di cure idonee non erogabili all’interno della struttura.

Già in passato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (organismo statale indipendente che monitora i luoghi di privazione della libertà) ha segnalato quanto sia “deficitaria, nonostante le rassicurazioni in merito, l’adeguata presa in carico delle persone affette da disagio mentale” all’interno dei CPR, inclusa l’assenza di interventi di prevenzione del rischio suicidario. Ma chi dovrebbe occuparsene?

La valutazione di idoneità all’ingresso in un CPR

All’interno dei CPR è previsto un presidio medico coperto da professionisti sanitari contrattualizzati dalla società che gestisce la struttura.

Tuttavia per legge (articolo 3 del Regolamento unico dei Cie) la visita medica per stabilire l’idoneità all’ingresso e alla permanenza nel Centro deve essere affidata alla sanità pubblica ed essere effettuata da un medico della Asl o dell’Azienda ospedaliera. Spetta alle Prefetture stipulare Protocolli di intesa con le Aziende sanitarie locali.

Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha però evidenziato come nel corso del 2019 e del 2020 questa fondamentale verifica di garanzia sia spesso stata parzialmente disattesa: la valutazione all’idoneità era infatti spesso demandata al personale medico contrattualizzato dal gestore del Centro che si limitava a controllare l’assenza di malattie infettive e a un rapido esame obiettivo.

Nei casi in cui sia stata attivata la collaborazione con il Servizio Sanitario per accertamenti e visite specialistiche, se non è prevista una corsia preferenziale per i migranti trattenuti (vedi, per esempio, CPR di San gervasio, come segnalato dal report di ASGIAssociazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), si ha una dilatazione dei tempi di attesa per la valutazione di idoneità.

Ad oggi la situazione non sembra cambiata.

La valutazione di idoneità alla permanenza in un CPR

I medici della struttura hanno il compito di monitorare lo stato di salute dei trattenuti per cogliere l’eventuale insorgenza di sintomi di disagio mentale; in tal caso il paziente dovrebbe essere indirizzato verso visite specialistiche e a una nuova valutazione di idoneità alla permanenza nel centro da parte della Asl o Azienda ospedaliera del territorio.

Prevenzione del rischio suicidario

Nonostante i casi di suicidio e di autolesionismo che si sono verificati nei CPR, a oggi non sono previsti protocolli o interventi di prevenzione del suicidio.

Personale inadeguato

Il numero di professionisti sanitari che presta servizio presso i CPR (stabilito da tabella di dotazione minima del capitolato d’appalto) spesso è inferiore rispetto al numero di pazienti che devono essere gestiti. In alcuni casi si fa affidamento a gruppi di medici volontari grazie ad accordi con gli Ordini di provincia (es. CPR Torino), ma appare evidente come non sia sufficiente tentare di sopperire a una assistenza medica così critica tramite il volontariato.

Per di più, segnala il Garante, il personale non ha competenze specifiche in materia di medicina delle migrazioni e non segue specifici percorsi di formazione (per es. sulla prevenzione del rischio suicidario).

Ne consegue che l’assistenza fornita è fortemente inadeguata.

L’acquisto di psicofarmaci da parte dei CPR

L’inchiesta di Altraeconomia sostiene un massiccio uso di psicofarmaci all’interno dei CPR, in particolare di:

Benzodiazepine

Le benzodiazepine sono farmaci utilizzati per ridurre l’ansia e i suoi sintomi fisiologici poiché hanno proprietà ansiolitiche, sedative, anticonvulsivanti e miorilassanti (es. Bromazepam, Diazepam, Clonazepam).

Tra le benzodiazepine acquistate nei CPR  si segnalano, per esempio, Tavor, Valium, Tranquirit, ma soprattutto Rivotril. Colpisce che quest’ultimo sia il più acquistato, considerando che è indicato come prima scelta per il trattamento di stati di epilessia e che come ansiolitico è ormai stato superato da altri farmaci che hanno minor rischio di sviluppare dipendenza.

Antidepressivi

Gli antidepressivi SSRI sono farmaci utilizzati sia per il trattamento della depressione sia per il trattamento dell’ansia a lungo termine (es. Sertralina, Paroxetina, Fluoxetina).

Nei CPR si segnala in particolare l’acquisto di Zoloft (Sertralina).

Antipsicotici

Gli antipsicotici o neurolettici sono farmaci utilizzati nel trattamento di schizofrenia, disturbi psicotici, disturbo bipolare.

Altraeconomia segnala l’acquisto da parte dei CPR di Quetiapina (utilizzata per il trattamento di schizofrenia e disturbo bipolare), Olanzapina (schizofrenia) o Depakin (epilessia e disturbo bipolare).

L’acquisto di narcotici da parte dei CPR

L’inchiesta evidenzia inoltre un acquisto significativo di Metadone, un narcotico utilizzato per gestire le crisi di astinenza e ridurre l’assuefazione nella terapia sostitutiva della dipendenza da droghe oppiacee.

Rinchiusi e sedati per essere tenuti buoni?

La tipologia di psicofarmaci acquistati risulta in linea con i disturbi di cui verosimilmente soffrono gli immigrati irregolari sbarcati sulle coste italiane o che hanno vissuto in stato di clandestinità, anche alla luce dell’effetto migrante esausto citato in precedenza; in particolare ansia, depressione e dipendenza da sostanze.

Appare però evidente come l’inefficienza burocratica, il personale inadeguato per numero e per formazione e l’assenza di una valutazione psichiatrica che accerti l’eventuale presenza di disturbi determinano l’ingresso e la permanenza nei CPR di persone che soffrono di disagio mentale che la struttura non è in grado di gestire.

Dai dati in nostro possesso emerge un quadro in cui i CPR non hanno gli strumenti adatti per far fronte al complesso tema della salute mentale dei migranti irregolari (es. supporto medico specializzato, programmi di recupero per tossicodipendenti, assistenza psicologica adeguata, protocolli per la prevenzione del rischio suicidario, accesso a servizi esterni pubblici), se non l’utilizzo di procedure di isolamento e l’uso di psicofarmaci.

La speranza è che l’attuale attenzione mediatica sui CPR, data l’intenzione del Governo di aprirne, spinga a un ripensamento sulla loro organizzazione e a una maggiore attenzione alla salute delle persone trattenute, come sancito dalla nostra Costituzione che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, regolare o irregolare che sia.

 

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