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Il senso di colpa: quando diventa patologico e come prendersene cura

La colpa è un’emozione morale. Se sostenuta nel tempo dalla ruminazione, può diventare patologica. Accettarla e perdonarsi per quanto commesso od omesso favorisce il benessere psicologico.

L’emozione della colpa

 La colpa è un’emozione che ognuno di noi sperimenta almeno una volta nella vita: quando infrangiamo una regola, quando non adempiamo ai nostri doveri, quando danneggiamo qualcosa o quando facciamo stare male qualcuno. Si tratta di un’emozione secondaria (Izard, 1979) che, a livello evolutivo, si sviluppa successivamente alle emozioni primarie di gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disprezzo e disgusto. Come la vergogna e l’orgoglio, si manifesta a partire dai 2 anni, quando il bambino, costruitosi un primo senso di sé, può pensare alla propria persona nel contesto sociale e avvertire su di sé il giudizio degli altri.

Di fatto, la colpa si genera anche dal nostro rapporto con la società e dall’educazione che ne deriva: interiorizzare le norme morali ed etiche del contesto di appartenenza significa assumersi la responsabilità di trasgredirle e, così, provare senso di colpa per aver commesso od omesso qualcosa. In questa direzione, la colpa avrebbe una funzione positiva e riparatrice: facendoci provare rimorso o rimpianto dopo aver compreso il danno di un atto o di un atto mancato, essa ci indurrebbe ad assumerci le nostre responsabilità e a muovere all’azione, piuttosto che a lasciare le cose insolute (Tangney et al. 2007).

Quali tipi di senso di colpa

Quando ci accorgiamo che le cose potrebbero non andare come vorremmo, nasce il senso di colpa. Si parla di senso di colpa quando si guarda allo stato anticipatorio della colpa, che ci preannuncia che qualcosa potrebbe essere trasgredito in senso commissivo od omissivo. Solo quando lo stato delle cose è già concluso e il danno è già stato fatto il senso di colpa si trasforma in colpa, pervadendoci di uno stato d’animo negativo. Anche se ognuno di noi ha una maggiore o minore propensione alla colpa, abbiamo la possibilità di esperire due principali tipologie (Mancini, 2008):

  • Deontologica, quando è indotta dalla violazione di una norma etica. Questo tipo di colpa si avverte quando l’individuo crede di aver violato qualche regola sociale o imperativo morale. Può provare tale emozione negativa per aver commesso delle azioni condannate moralmente, per comportamenti che non provocano danno materiale alla vittima ma la offendono o anche per disposizioni all’azione (ad esempio, avere un impulso aggressivo verso un’altra persona, anche se non lo si agisce).
  • Altruistica, quando è indotta dalla violazione di un principio altruistico. Questo tipo di colpa è interpersonale perché legato alla tendenza dell’individuo a provare empatia verso la sofferenza degli altri. Può essere definito come un senso di pena che si genera dalla credenza di aver danneggiato l’altro o di non averlo aiutato come avremmo dovuto. È il senso di colpa che, ad esempio, viene esperito dai sopravvissuti, che articolano un dialogo interno del tipo “Come ho potuto lasciarla da sola?” o “Non ho potuto fare niente per lui”.

Quando il senso di colpa diventa patologico

Anche se il senso di colpa è un’emozione universale, può diventare patologico quando assume i connotati di un’emozione negativa costante e sproporzionata rispetto ai gesti commessi od omessi, compromettendo la qualità di vita.

 Si manifesta quando l’individuo, nelle sue preoccupazioni, tende ad assumersi la responsabilità degli eventi su cui non ha potuto avere il controllo, continuando a guardarsi indietro e ad addolorarsi nel tentativo di capire cosa avrebbe potuto fare. La colpa viene così mantenuta attiva dalla ruminazione, ossia da un pensiero negativo e ripetitivo che si interroga su vicissitudini passate in modo circolare, senza trovare risposte utili nel presente.

Gli individui che sono assorbiti in maniera patologica da questa emozione finiscono per centralizzare la loro vita su di essa.  Questo tipo di funzionamento è spesso riscontrabile in alcuni disturbi psichici come:

  • depressione (l’individuo si auto-colpevolizza continuamente, in alcuni casi fino al delirio);
  • disturbi ossessivo-compulsivi (ad esempio, l’individuo si punisce deontologicamente per aver solo pensato a qualcosa di riprovevole);
  • disturbi d’ansia (ad esempio, l’individuo sente una discrepanza fra il Sé Reale e il Sé Ideale);
  • disturbo da stress post-traumatico (ad esempio, l’individuo si attribuisce la responsabilità dell’evento traumatico, anche quando effettivamente non ne ha);

Accettare l’emozione per perdonarsi

La natura complessa della colpa fa di essa un’emozione difficile da gestire, così intrinsecamente legata alla sfera della moralità. Prendere coscienza del fatto che ciò che si è commesso od omesso non può essere rimediato significa entrare in contatto con la parte di sé più umana, fallibile e limitata. Prendere atto delle proprie debolezze e mettere in discussione in questo modo il proprio senso di autoefficacia non è facile, soprattutto per quegli individui in cui la colpa può celare un senso di onnipotenza o perfezione (“E’ tutta colpa mia!” sta per “Tutto dipende da me, ho l’assoluto controllo sulla realtà: se mi sfugge qualcosa, sono un fallito”).

Il primo passo da fare è imparare a conoscere questa emozione negativa nei suoi correlati fisiologici, cognitivi e comportamentali: capire come agisce su di noi e a partire da quali situazioni, è di fondamentale importanza per familiarizzare con essa e poterla regolare.

Successivamente, sarebbe ottimale accettare quanto accaduto o non accaduto: visto che è la continua ruminazione al passato a mantenere attivo il senso di colpa, combattere contro di esso non fa altro che acuirlo. Accettare la realtà per quella che è stata e imparare a tollerare quest’emozione negativa come tale, e non come qualcosa di definente il valore personale, apre la strada alla possibilità di perdonarsi. La capacità di perdonare se stessi per i torti commessi appare correlata a una condizione di maggior benessere psicofisico, nella quale godere di maggiore capacità di empatia e minor rischio di depressione (Ross et al., 2007).

La psicoeducazione sul nervo vago come parte essenziale dell’intervento terapeutico

Con le parole di un più recente studio, il nervo vago funge da relè critico tra i visceri addominali e il cervello per trasmettere i segnali metabolici (Décarie-Spain et al. 2023).

Neuroscienze e stress

 L’evoluzione delle neuroscienze negli ultimi vent’anni hanno reso ormai opinione largamente diffusa fra gli operatori della salute, in primis psicologi e medici, la necessità di un approccio olistico al paziente, ossia, non soltanto una visione che superi l’obsoleta e anacronistica suddivisione cartesiana mente-corpo, ma l’esigenza di effettuare una diagnosi e un intervento che consideri la persona nella sua globalità e tenga conto delle molteplici interazioni tra fattori biologici, psichici, epigenetici, l’ambiente, la storia individuale e generazionale del paziente.

La psiconeuroendocrinoimmunologia (abbreviata in PNEI), disciplina che studia appunto le interazioni tra i sistemi nervoso centrale, endocrino e immunitario, nonché il loro effetto sul comportamento umano e animale, è un esempio che va in questa direzione, così come numerose ricerche scientifiche, quali quelle che studiano le reciproche interazioni fra microbiota intestinale e sistema nervoso centrale (con inevitabili riverberi anche sugli aspetti psichici e comportamentali del singolo).

In un certo senso “apripista” di tali indagini furono gli studi sullo stress che misero in luce il cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) già negli ultimi decenni del secolo scorso. Una connessione, questa dell’asse HPA, “organica” che riveste un ruolo fondamentale nella risposta a stimoli esterni e interni, inclusi in particolar modo gli stress psicologici (Pariante & Mondelli, 2006) e (Walker & Diforio, 1997).

In estrema sintesi, possiamo ricordare che in situazioni stressanti i centri corticali e sottocorticali modulano l’attivazione del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, il quale stimola una serie di reazioni neuroendocrine a catena, vitali per il mantenimento dell’omeostasi, e che provoca un aumento di glicemia e grassi nel sangue permettendo all’organismo di avere a disposizione l’energia di cui il corpo ha bisogno per fronteggiare particolari situazioni (Sheng, et al.2020).

É quindi un processo chimico-fisico, perfettamente “normale”, che ha una funzione adattativa agli stimoli ambientali. Comprendere, da parte del cliente/paziente, la “filosofia” e la funzione di tali reazioni del nostro organismo, è già una cospicua parte di intervento.

Il nervo vago

Nell’ottica di questa visione olistica e integrata può essere utile ed efficace, in sede clinica, andare a intervenire con la psicoeducazione anche su un’altra componente del nostro organismo: il nervo vago o, più esattamente, il decimo nervo cranico.

Tentiamo di fare chiarezza su questa struttura. Il termine “nervo vago” è in realtà una enorme semplificazione dal punto di vista anatomico, innanzitutto perché esso, come tutti i 12 i nervi cranici, è una coppia, uno per emi-lato del corpo, poi perché ciascun nervo vago è costituito da migliaia di fibre, è un nervo misto, con il 20% di fibre efferenti, coinvolte nel controllo della motilità e della secrezione del tratto gastrointestinale, nonché del tono parasimpatico cardiaco (Crick et al. 1994) e del CAP, Cholinergic Anti-Inflammatory Pathway (via antinfiammatoria colinergica) (Pavlov et al. 2003), e l’80% di fibre afferenti, che cioè trasmettono informazioni gustative, viscerali e somatiche (Prechtl & Powley 1990).

Come si renderà evidente più avanti, nella descrizione anatomica, il nervo vago rappresenta un componente fondamentale del sistema nervoso parasimpatico, che sovrintende a una vasta gamma di funzioni corporee cruciali, tra cui il controllo dell’umore, la risposta immunitaria, la digestione e la frequenza cardiaca. Stabilisce una delle connessioni principali tra il cervello e il tratto gastrointestinale e invia informazioni sullo stato degli organi interni al cervello tramite fibre afferenti (Breit et al.  2018).

Questo nervo, inoltre, stimolando l’attività parasimpatica in tutto il corpo, determina il rilascio di ormoni che consentono all’organismo di svolgere funzioni di sopravvivenza.

Cenni anatomici sul nervo vago

Il nervo vago esce dal tronco encefalico in corrispondenza del midollo allungato nel solco tra l’oliva e il peduncolo cerebellare inferiore, lasciando il cranio attraverso il compartimento medio del forame giugulare.

Nel collo, questo nervo fornisce l’innervazione necessaria alla maggior parte dei muscoli della faringe e della laringe, che sono responsabili della deglutizione e della vocalizzazione (Castoro et al. 2011). Nel torace procura il principale apporto parasimpatico al cuore e stimola una riduzione della frequenza cardiaca. Nell’intestino, il nervo vago regola la contrazione della muscolatura liscia e la secrezione ghiandolare. Inoltre, i neuroni pregangliari delle fibre efferenti vagali emergono dal nucleo motorio dorsale del nervo vago localizzato nel midollo (Ter et al. 1991), e innervano gli strati muscolari e mucosi dell’intestino sia nella lamina propria che nella muscolare esterna (Berthoud et al. 2000). Il ramo celiaco fornisce l’intestino dal duodeno prossimale alla parte distale del colon discendente (Mukudai et al.2007).

Altra importante connessione del nervo vagale è con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), poiché lo stimola attraverso le sue fibre afferenti a rilasciare glucocorticoidi dalle ghiandole surrenali, già individuata alla metà del secolo scorso (Harris 1950). Asse fondamentalmente implicato, tra l’altro, nella gestione dello stress (tra i molti: Stephens et al. 2012).

In sintesi, il complesso vagale dorsale del tronco encefalico rappresenta un importante centro riflesso del sistema nervoso autonomo. Infatti, l’attivazione delle afferenze vagali genera diverse risposte coordinate (autonomiche, endocrine e comportamentali) attraverso vie centrali che coinvolgono il complesso vagale dorsale (Bonaz et al. 2017).

Ma il nervo vago, come vedremo, ha anche interazioni con le strutture superiori del cervello. Infatti, il cervello riceve informazioni dalle proiezioni afferenti del vago (Liu, et al. 2020). Le fibre afferenti proiettano al nucleo tractus solitarius (NTS) e al locus coeruleus (LC) nel tronco encefalico (Nomura & 1984) e poi formano proiezioni ascendenti dirette e indirette dal nucleo tractus solitarius a molte aree del cervello (per es. mesencefalo, ipotalamo, amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale ventromediale) (Carreno & Frazer 2016), si veda anche Bonaz et al. 2017.

Quindi, per sintetizzare con le parole di un più recente studio, il nervo vago funge da relè critico tra i visceri addominali e il cervello per trasmettere i segnali metabolici (Décarie-Spain et al. 2023).

Ma non solo, recenti scoperte su modelli murini e umani rivelano l’impatto della segnalazione del nervo vago dall’intestino sul controllo dei domini neurocognitivi di ordine superiore, tra cui ansia, depressione, motivazione della ricompensa, apprendimento e memoria (ibidem).

Ad esempio, il consumo di pasti coinvolge la segnalazione afferente vagale originata dal tratto gastrointestinale che può contribuire ad alleviare l’ansia e gli stati depressivi, promuovendo anche funzioni motivazionali e di memoria.

Oltre ad essere fondamentale nel determinare i comportamenti regolatori dell’assunzione di cibo, i risultati emergenti dalla letteratura scientifica rivelano che l’asse intestino-vago-cervello modula vari processi cognitivi e comportamentali complessi. Infatti, le funzioni intestinali sono state intrinsecamente collegate a stati affettivi come ansia e depressione (Childs et al. 2019), (Bret-Dibat et al. 1995; De Witte et al. 1986), nonché a processi neurali che regolano l’apprendimento e la memoria (Ángyán 1981), (Ángyán 1975) e la motivazione (Sellaro et al. 2018).

Le connessioni tra l’intestino e i processi cognitivi sono state evidenziate nella comunità medica dai medici britannici del XIX secolo, che comunemente si riferivano allo stomaco come “il grande cervello addominale” e un forte regolatore del benessere emotivo.

Da questa breve e sommaria descrizione emerge l’importanza e le implicazioni che il nervo vago riveste in numerose manifestazioni psichiche, somatiche e comportamentali.

Nervo vago e Teoria Polivagale

È evidente quindi che la conoscenza e la consapevolezza della funzione di tale terminazione nervosa da parte dei nostri clienti/pazienti possa rappresentare un fondamentale punto di partenza per comprendere e gestire alcuni comportamenti considerati disfunzionali.

Tale psicoeducazione può/deve essere declinata secondo l’ipotesi teorica di colui che da oltre quarant’anni studia il nervo vagale, lo psichiatra e psicologo statunitense Stephen Porges, il quale, con la sua Teoria Polivagale (Porges 2007), ha rivoluzionato il nostro criterio di osservazione delle reazioni fisiologiche di sopravvivenza a fronte di situazioni percepite come pericolose.

In ambito applicativo questa teoria ha fornito, a chi lavora nel campo del coaching, counseling e della psicotraumatolgia un fondamentale modello di comprensione su ciò che accade, dal punto di vista neuro-autonomico, quando un individuo sperimenta un trauma persistente all’interno delle proprie relazioni di attaccamento.

Negli anni recenti, la Teoria Polivagale ha contribuito a costruire un solido ponte tra la ricerca e la clinica, rendendoci più consapevoli nel setting della relazione mente-corpo, valorizzando ancora di più le scoperte nell’ambito delle neuroscienze dello sviluppo emotivo, della psicobiologia dell’attaccamento sicuro/insicuro e dei correlati biologici del trauma complesso, dando nuova enfasi alle prospettive di intervento nella salute mentale (Kazanxhi 2022).

 Questa prospettiva terapeutica permette di intervenire non solo sulle memorie traumatiche del paziente e sui conflitti che ne sono derivati e che vengono riattualizzati anche nella relazione terapeutica, ma, fondamentalmente, ha lo scopo di rendere consapevole il paziente di come gli stati di tensione o di freezing (le difese di mobilizzazione e di immobilizzazione) derivanti dall’attivazione di memorie traumatiche non mentalizzate e dalla disregolazione autonomica dell’arousal fisiologico, abbiano effetti di profonda insicurezza nelle rappresentazioni di sé e degli altri e intervengano nel corpo.

Inoltre, le emozioni negative che non hanno avuto la possibilità di poter essere contenute, elaborate e trasformate nel sistema di attaccamento primario e neppure nell’ambito delle relazioni interpersonali successive, e che pertanto sono divenute croniche e persistenti, ovvero disregolate, mantengono il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) in uno stato di attivazione/difesa cronico (iper/ipoarousal) con la conseguenza di danni psicobiologici a sfavore degli organi più vulnerabili e dello stato mentale della persona.

Essenzialmente la Teoria Polivagale enfatizza il ruolo del nostro sistema nervoso autonomo nel segnalare la presenza o l’assenza di una minaccia attraverso l’attivazione di tre stati autonomici.

  • La stato ventro-vagale, che ci permette di calmarci quando ci troviamo in un contesto sicuro. Il battito del cuore diminuisce per permetterci di godere del nostro stato di sicurezza, circondati da coloro che ci amano e ci proteggono.
  • Lo stato simpatico, il quale al primo segnale di pericolo mette in moto la reazione di attacco o fuga. Questo ci permette di agire: fronteggiare la minaccia, se è concesso farle fronte, o fuggire, qualora affrontarla non fosse possibile.
  • Lo stato Dorso Vagale, che si attiva quando non siamo in grado né di lottare né di fuggire e allora ci immobilizziamo (il freezing), gli animali si fingono morti per sfuggire all’aggressione (Kazanxhi 2022).

I tre stati si attivano in base alle condizioni dell’ambiente circostante, in modo gerarchico e prevedibile; ossia, in base al proprio funzionamento autonomico è possibile prevedere quali eventi possano innescare reazioni simpatiche, o quali segnali abbiano il potenziale di riportarci alla regolazione ventro-vagale che ci permette di “sentirci al sicuro”.

La psicoeducazione sul nervo vago

Parte fondamentale dell’approccio polivagale alla terapia riguarda la capacità del paziente di valorizzare in termini cognitivi ciò che il proprio corpo gli comunica: ogni variazione, ogni spostamento di stato autonomico, ogni reazione corporea apparentemente avversa o “disturbante” viene attivata esclusivamente in risposta, funzionale secondo gli schemi corporei ereditati dai nostri avi, alla situazione ambientale e, in ultima analisi, in funzione della nostra sopravvivenza. Non esiste una risposta cattiva o sbagliata, ci sono solo risposte adattive. Il punto fondamentale è che il nostro sistema nervoso sta cercando di fare la cosa giusta e noi abbiamo il compito di comprendere, accettare e semmai modificare il senso di questo comportamento al fine di “normalizzarlo” e riportarci, ove necessario, al “posto sicuro”.

Ecco, dunque, la possibilità/necessità di attuare una psicoeducazione con il cliente/paziente.

L’essere umano, come tutti gli esseri viventi, è “programmato” per sopravvivere. La “sopravvivenza del più adatto” è guidata dal costante adattamento di una specie a un ambiente in evoluzione e richiede l’integrazione di informazioni esterne e segnali enterocettivi per orientare verso comportamenti vantaggiosi, in particolare verso l’alimentazione e altri comportamenti che promuovono l’acquisizione e il consumo di energia.

Ad esempio, le fluttuazioni degli ormoni metabolici possono orientare verso, o lontano, da determinati alimenti e da comportamenti ingestivi (Min et al. 2011a) e le interazioni sociali possono essere fortemente guidate dallo stato riproduttivo (Min et al. 2011b). Così la paura, l’immobilizzazione, la sudorazione, etc.

Attraverso un processo finalizzato ad aumentare l’insight dello scenario mente-corpo-relazione, il cliente/paziente impara non soltanto a comprendere le motivazioni delle proprie reazioni fisiologiche, ma a sostenere gli sforzi che il proprio sistema mette costantemente in atto allo scopo di proteggerlo da ciò che ritiene essere fonte di minaccia e di pericolo.

Ecco che allora le reazioni autonomiche potranno essere quindi mentalizzate e risimbolizzate sotto una nuova luce: il corpo, la consapevolezza degli stati corporei disregolati, le reazioni funzionali, diventano un campo di maturazione personale e interpersonale.

Naturalmente, come più volte ripetuto, la psicoeducazione è soltanto una prima possibile parte dell’intervento, alla quale potranno succedersi educazione/intervento sulla respirazione, sulla neurocezione personale, mindfulness e così via, tutte attività/esercizi che ineriscono e stimolano anche il nervo vago.

La stimolazione diretta del nervo vago con l’ausilio di strumentazione ad hoc, invece, sarà oggetto di un prossimo articolo.

Le rappresentazioni mentali 

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno.

 

Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole. 

Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’Abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere  l’Edificio.

La lettura di questo brano ci evoca immediatamente una visione, una rappresentazione cioè di quella che dovrebbe essere la realtà; attenzione però, non di quella che è realmente in senso oggettivo, né tantomeno di quella che vuole comunicarci l’autore, ma dell’immagine rappresentativa che ognuno di noi riesce a costruire mediante le proprie sottorappresentazioni su cosa sia una bella mattina di fine novembre o su come sia un terreno scosceso che si snoda intorno al monte.

Il concetto proposto è che noi non abbiamo un accesso diretto alla realtà, agli eventi del mondo esterno, ma il nostro è un approccio mediato dalla necessità di rappresentare tutti i dati sensoriali in una configurazione che è determinata  indissolubilmente dalle nostre conoscenze, aspettative, convinzioni e desideri.

Proviamo con un altro brano:

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un  promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’ Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni.

Molto probabilmente la maggior parte di noi avrà avvertito una maggiore fatica a rappresentare quanto letto e la rappresentazione stessa ci è apparsa un poco più sfocata rispetto alla precedente; questo perché la capacità rappresentazionale è stata resa difficoltosa dalla decodifica e dal recupero delle sotto rappresentazioni necessarie in ragione di un linguaggio desueto che non ha evocato immediatamente l’associazione simbolica, la quale invece è dovuta essere prima interpretata e quindi associata ad una immagine o un significato a noi conosciuti.

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno. Sono questi costruzioni intermedie che rappresentano alla mente gli oggetti reali. Ne consegue che il nostro approccio alla realtà è un approccio necessariamente mediato, condizionato dalle nostre predisposizioni biologiche, fisiologiche e psicologiche che definiscono e  selezionano gli stimoli da elaborare.

Come avviene la percezione dei dati sensoriali

Il cervello, attraverso i canali sensoriali acquisisce le informazioni dall’ambiente che tende poi a raggruppare in unità correlate che generano le immagini che sono successivamente richiamate in qualunque momento per orientare il comportamento e le decisioni.

Si comprende come la rappresentazione non risulti essere una riproduzione fotografica della realtà, ma è piuttosto il risultato ottenuto dalla elaborazione che i dati percettivi subiscono in ragione della personale storia dell’individuo e del soggettivo schema cognitivo utilizzato, divenendo un inevitabile interfaccia al quale la persona deve ricorrere per accedere alla realtà che rimane inaccessibile alla analisi diretta.

La rappresentazione quindi si interpone come metafora della realtà delimitando uno schema, una struttura, che ha alcune caratteristiche derivate dai dati sensoriali ed altre determinate dal processo di elaborazione attuato che ne definisce i significati  presentandosi “come se” fosse la realtà.

L’insieme dei modelli mentali che l’individuo utilizzerà per relazionarsi con l’ambiente, saranno quindi il prodotto della definizione delle rappresentazioni utilizzate e degli schemi di significato ad esse attribuiti, che a loro volta concorreranno a selezionare i dati sensoriali utilizzati per aggiornare le rappresentazioni, in uno schema circolare ricorrente.

Per assecondare il necessario principio di coerenza interna avviene quindi che le informazioni ritenute più significative vengano estrapolate dal contesto ed integrate con quelle preesistenti operando di fatto una manipolazione più o meno significativa delle informazioni stesse che non vengono mantenute nella loro forma integrale, ma in una loro versione “interpretata”, integrabile con i dati già presenti nel sistema elaborativo; un processo di assimilazione, descritto egregiamente da Piaget, che però non viene affatto abbandonato nei successivi stadi dello sviluppo cognitivo, ma al contrario rafforza nel tempo la propria autoreferenzialità.

L’esperienza del mondo esterno è dunque ineluttabilmente mediata dallo specifico funzionamento dei nostri organi di senso, dai canali neurali utilizzati dal nostro sistema nervoso e dall’insieme degli schemi conoscitivi e valoriali utilizzati dal singolo individuo. In questa misura, gli oggetti stressi sono creazioni soggettive e la percezione che abbiamo di essi è permeata dalle nostre personali convinzioni e credenze.

La rappresentazione mentale è dunque una immagine, una icona, un disegno, una rete di relazioni, che sta al posto dell’oggetto reale o dell’evento accaduto; il punto significativo è proprio questo, al posto di, ma non è l’oggetto o l’evento.

Prendiamo ad esempio la città nella quale viviamo e domandiamoci se l’abbiamo mai vista, la risposta immediata sarà: certamente! Ma se riflettiamo più attentamente ci renderemo conto che realisticamente non è vero e che di fatto è impossibile per ognuno di noi “vedere” nella sua interezza la città nella quale viviamo magari da decine di anni; infatti quello che noi abbiamo potuto percepire sono solo alcuni tratti, alcuni luoghi, limitati e circoscritti la cui dimensione dipende dalle nostre capacità percettive; abbiamo quindi assemblato questi specifici luoghi in una mappa mentale che rappresenta concettualmente la nostra città ma non la riproduce fedelmente. La nostra riproduzione non sarebbe fedele neanche se sorvolassimo la città vedendola dall’alto perché l’immagine risultante sarebbe bidimensionale e quindi di nuovo non rispondente alla realtà che è tridimensionale.

Dobbiamo al filosofo Alfred Korzybski la formulazione della distinzione intercorrente tra la realtà oggettiva esterna a noi e i modelli che costruiamo per rappresentarcela ed egli ha individuato nel linguaggio la forma strutturale di “mappa” o, per dirla meglio, di rappresentazione simbolica, che ci ha consentito di utilizzare modelli sempre più definiti per raffigurarci la nostra idea del mondo.

Rappresentazioni e realtà

Ma perché risulta di fatto impossibile creare una rappresentazione che sia uguale alla realtà?

Abbiamo già indicato i limiti biologici imposti alla nostra specie; i nostri organi di senso non sono in grado di percepire tutti i dati presenti in natura, molte cose non le vediamo, come i raggi ultravioletti o i microbi, altri ancora non li sentiamo, come gli ultrasuoni e tanti altri, non sono rilevabili dalla nostra attenzione perché avvengono troppo velocemente e sfuggono ai nostri occhi. Esistono poi limiti più significativi che sono quelli psicologici che dipendono dalla specifica configurazione del nostro cervello.

La mente ha la necessità di configurare dei modelli con cui ordinare e comprendere i fenomeni che avvengono nella complessità della vita e per farlo si avvale degli strumenti a sua disposizione. Il primo repertorio disponibile di un individuo è quello motorio e quindi il primo modello con cui le persone si rappresentano il mondo è quello derivante dalle sensazioni motorie; questo elementare ABC di azioni e sensazioni diventa il modo prototipico con cui gli esseri umani iniziano a configurare la loro relazione con il mondo.

Come asserisce Lakoff: “le metafore concettuali fanno parte di un insieme di meccanismi che, partendo da concetti con un diretto fondamento corporeo, si protendono verso concetti più astratti” (Lakoff 1998).

Quindi le nostre sensazioni fisiche diventano parte ineludibile del processo interpretazionale divenendo i pilastri sui quali successivamente andremo a costruire gli schemi più complessi, facendoci abbandonare definitivamente l’aspirazione di diventare esseri completamente razionali, dato che il processo interpretativo non può essere scisso da quello senso-corporeo.

Le immagini mentali nascono per influenzare il comportamento, prevedere il futuro e scegliere le azioni più utili alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere; ma il pensiero consapevole è un prodotto recente della nostra evoluzione e ancora oggi la maggior parte del lavoro mentale è basato più sul pensiero analogico che su quello analitico. La modalità di interpretare le nuove esperienze sulla base della loro analogia con quelle passate non può essere completamente sovvertita perché si basa su un processo di associazione iconica che è automatizzato nel nostro cervello arcaico e che non necessita dell’intervento cosciente.

Quindi, se ognuno di noi crea una serie di rappresentazioni del mondo in cui vive ed utilizza necessariamente questi modelli per orientare il proprio comportamento, le rappresentazioni adottate saranno sempre più automatizzate, determinando l’esperienza che avremo del mondo stesso e la variabilità delle scelte ritenute disponibili, senza esserne necessariamente consapevoli.

Ne consegue che ogni rappresentazione risulterà essere influenzata dal modo in cui pensiamo e percepiamo l’ambiente e che questo modello condizionerà la nostra capacità di analisi rilevando i dati congruenti al sistema ed escludendo quelli discordanti; di conseguenza la realtà di ognuno di noi sarà il prodotto di una “costruzione” profondamente soggettiva. Estremizzando leggermente il principio possiamo asserire che esistono tante realtà, tanti modi di vedere il mondo, tanti quanti sono le persone stesse.

Prendiamo ad esempio un gruppo di quattro amici che si reca al cinema, indubbiamente riteniamo che vedranno la stessa sequenza di fotogrammi, sebbene anche questa considerazione sarebbe opinabile, ma accettiamo pure l’ipotesi data, allora perché a qualcuno il film sarà piaciuto moltissimo, a qualcun altro un po’ di  meno ed altri lo potrebbero considerare al contrario un brutto film?

Perché la percezione del film sarà inevitabilmente guidata dalle personali preferenze ed orientamenti dei singoli individui che “vedranno” il film secondo le loro soggettive aspettative: chi apprezzerà la fotografia, chi la sceneggiatura, chi dissentirà dalla  ricostruzione storica o sociale, chi condividerà o meno i messaggi culturali veicolati dalla storia; in sintesi ognuno costruirà una rappresentazione mentale del film utilizzando il proprio personale bagaglio di esperienze, conoscenze e convinzioni, che risulteranno fondamentali nella realizzazione della mappa mentale, che non sarà  quindi corrispondente alla realtà, che come vediamo è letteralmente non percepibile in termini oggettivi, ma piuttosto il risultato di una personalissima elaborazione.

Ovviamente, questo non implica che la realtà percepita da più persone sia sempre e comunque sostanzialmente diversa, esistono situazioni od esperienze che possono essere parzialmente condivise, ma il punto nodale è che non c’è e non potrà mai esserci una realtà perfettamente uguale tra due diversi esseri umani in quanto, essendo distinti organismi biologici, con diversi sistemi nervosi, differenti storie di vita, esperienze, capacità cognitive, desideri, speranze, conoscenze, preferenze ecc. la loro elaborazione rappresentazionale non potrà risultare identica.

Tale principio è stato espresso chiaramente da Korzybsky quando nella legge dell’individualità afferma “che non ci sono due persone, o situazioni o fasi o processi che siano identiche in ogni dettaglio“ (Korzybsky, 1933).

La concezione proposta risulta antitetica a quanto ritenuto vero dalla maggior parte delle persone e si scontra con la tendenza umana a credere che vediamo il mondo intorno a noi in modo oggettivo e condiviso, che esista la realtà, intesa come unica e tangibile.

Realismo ingenuo

Questa corrente di pensiero definita con il nome di realismo ingenuo, riprende quello che in filosofia viene definito realismo del senso comune e si basa su tre principi: che il mondo sia percepibile in modo obiettivo e senza pregiudizi; che quindi tutte le altre persone “vedano” le cose esattamente come le vediamo noi; che qualora questo non accada è perché gli altri sono ignoranti, irrazionali o animati da pregiudizi.

Tali principi sono radicati in molti di noi perché rappresentano il combinato procedurale di due tra le più importanti distorsioni cognitive che influenzano il nostro pensiero, l’effetto del falso consenso che rappresenta la tendenza a proiettare sugli altri il proprio modo di pensare, presupponendo che tutti la pensino come noi, e quello che io definisco il bias dell’egocentrismo cognitivo, che presuppone che quello che penso sia vero per il solo fatto di pensarlo. Tale concezione si basa sull’assunto che io sono quello che penso ritenendo i pensieri non una astratta forma di ipotesi ma come elementi identificativi del mio essere.

Il problema di fondo è che il ragionamento umano si basa sull’impiego automatico di una vasta gamma di modalità elaborative, rapide ed intuitive, definite euristiche, che permettono di costruirci un’idea generica su un argomento o una situazione senza un eccessivo sforzo cognitivo. Le euristiche (dal greco heuriskein: trovare, scoprire) sono strategie veloci, semplici, che hanno il pregio di fornire rapidamente valutazioni e interpretazioni che ci consentono di agire spesso efficacemente.

Ma la loro rapidità ed il loro automatismo esulano necessariamente dall’uso del ragionamento analitico; dovendo soddisfare prioritariamente il criterio della velocità non possono indulgere in analisi troppo sofisticate e si fondano spesso su percezioni o errate o deformate, che rendono questi stili di pensiero rigidi e incapaci di adattarsi al mutare delle circostanze.

Abbiamo già visto come nella definizione delle rappresentazioni mentali concorrano tutte le funzioni mentali superiori, dalla percezione alla scala valoriale, e l’attività svolta dal cervello non si riduce ad una passiva registrazione che riproduce fedelmente un oggetto, un’immagine o un’idea, ma come un processo dinamico legato alle modalità elaborative del singolo soggetto che intervengono attivamente con le loro caratteristiche alla interpretazione ed alla trasformazione delle informazioni che poi concorrono alla costruzione della singola rappresentazione.

Per questo l’espressione “la mappa non è il territorio” che si deve ad Alfred Korzybski si è rilevata cosi potentemente anticipatrice, perché definiva in modo semplice ed efficace la netta distinzione che intercorre tra la realtà e la sua rappresentazione psicologica.

Inoltre l’accettazione della teoria rappresentazionale, oltre a restituirci una corretta interpretazione delle nostre capacità computazionali, ci permette di modificare il nostro approccio alla realtà introducendo un elemento proattivo; se infatti non siamo  dei semplici registratori di dati oggettivi il nostro ruolo si definisce in modo più efficace in quanto possiamo fattivamente operare per migliorare le nostre rappresentazioni implementando le conoscenze, migliorando le definizioni. Questo ci permette di adattarci meglio al continuo mutamento del nostro ambiente.

Diversamente da quanto proposto da Gregory Bateson, che sosteneva come migliorare troppo le rappresentazioni potesse comportare un danno piuttosto che un vantaggio, ritengo, al contrario, che mappe troppo grossolane e indefinite diventino inutili e spesso dannose, perché inadeguate a rappresentare efficacemente la complessità del mondo e quindi inadatte ad orientarci efficacemente in esso. Le nostre rappresentazioni devono necessariamente tenere il passo con la crescente complessità del mondo moderno; la massa di informazioni che siamo chiamati a computare giornalmente è enorme, specialmente se paragonata a quanto era necessario fare solo pochi decenni fa, e risulta in costante crescita esponenziale.

Basti pensare che nel 2010 le informazioni disponibili sul web sono state stimate in 1 Zettabytes (un miliardo di terabyte) una cifra praticamente immensa, ma che oggi a soli 13 anni di distanza la misura di tutti i contenuti digitali del mondo è vicina ai 79  Zb e si prevede che supererà il tetto dei 180 Zb nel 2025.

Risulta intuibile che opporre a questa sconfinata massa di informazioni strumenti che l’evoluzione ci ha fornito per fronteggiare computazioni infinitamente più semplici ci condanna all’impoverimento cognitivo; da qui la necessità di far evolvere le nostre regole elaborative implementando l’utilizzo del pensiero consapevole e finalizzato, sforzandoci di abbandonare il più possibile i meccanismi automatici, in modo tale da poter sviluppare rappresentazioni mentali più articolate e complesse e quindi  maggiormente rispondenti alla necessità di muoversi in un contesto di conoscenza così vasto ed eterogeneo.

Oltre il QI: la complessità dell’intelligenza umana

E se scoprissimo che Einstein e Hawking non hanno mai eseguito una valutazione della loro intelligenza e che i dati sul loro QI in realtà non esistono?

Che cos’è il QI?

 Il termine Quoziente Intellettivo (QI) è un termine familiare, usato per valutare le capacità cognitive di una persona. Ma quanto è affidabile come strumento per prevedere il successo o valutare la genialità delle persone? Secondo alcuni, il QI potrebbe non essere così valido come pensiamo.

Il QI è una misura numerica che viene utilizzata per valutare l’intelligenza di una persona. È ottenuto attraverso un test specifico che valuta le abilità cognitive di un individuo, come il ragionamento logico, la comprensione verbale, la memoria, la velocità di elaborazione e le abilità visuo-spaziali. Uno dei test più famosi e utilizzati oggi dagli psicologi sono le scale Wechsler, ne esistono specifiche per bambini e adulti.

Il punteggio di QI è calcolato confrontando le prestazioni individuali con quelle di una popolazione di riferimento. La media della popolazione è assegnata a un punteggio di QI di 100 e il punteggio di un individuo viene quindi confrontato con questo valore di riferimento. Un punteggio superiore a 100 indica un’intelligenza superiore alla media, mentre un punteggio inferiore indica un’intelligenza al di sotto della media.

Oggi l’affidabilità e l’interpretazione dei punteggi di QI sono oggetto di dibattito. Alcuni studiosi sostengono che il QI può essere influenzato da fattori culturali, socio-economici e di esperienza personale, e che non rappresenti in modo esaustivo la vasta gamma di abilità appartenenti agli esseri umani. Il QI è una misura specifica di alcune abilità cognitive e non rappresenta una valutazione completa dell’intelligenza complessiva di una persona. Esistono molteplici forme di intelligenza che non possono essere completamente valutate da un singolo test, come l’intelligenza emotiva e sociale, e altre capacità che possono contribuire al successo e al benessere di un individuo.

Pertanto, mentre il QI può fornire un’indicazione approssimativa delle abilità cognitive di una persona, se vogliamo avere una visione completa delle capacità di un individuo è importante considerare anche altri aspetti che riguardano l’intelligenza.

Ma che cos’è l’intelligenza?

Da tempo gli studiosi cercano di rispondere a questa domanda. In linea generale l’intelligenza è intesa come la capacità di adattarsi, comprendere, apprendere e risolvere problemi in modo efficace. Essa rappresenta la capacità di utilizzare le risorse cognitive per affrontare sfide, ragionare in modo logico, prendere decisioni informate e apprendere dalle esperienze. Gli studiosi nel tempo hanno cercato di definirla attraverso misurazioni come il QI. Tuttavia, secondo alcuni esperti c’è molto di più da considerare quando si tratta della nostra abilità di pensare e comprendere il mondo che ci circonda.

Ciò che rende interessante il dibattito sull’intelligenza è la scoperta che molti dei punteggi di QI attribuiti a famosi geni della storia, come Einstein e Hawking, sono in realtà frutto di invenzione, senza alcun supporto di evidenze concrete, poiché non esistono dati ufficiali che confermino i loro punteggi di QI eccezionalmente elevati.

Albert Einstein, famoso per la sua teoria della relatività, è spesso associato a un QI di 160 o addirittura superiore. In realtà, Einstein non ha mai fatto un test di QI e non esistono registrazioni ufficiali dei suoi risultati.

Un altro esempio è Stephen Hawking, il celebre astrofisico noto per i suoi contributi alla cosmologia e alla fisica teorica, anche lui spesso citato per avere un QI molto alto, con punteggi che vanno da 160 a 180. Tuttavia, non ci sono prove concrete che confermino tali punteggi. Hawking stesso ha sottolineato che il QI non era un fattore determinante nel suo lavoro e di non aver mai fatto un test ufficiale.

Questi esempi mettono in discussione l’idea diffusa che il successo o la genialità di individui straordinari possano essere semplicemente misurati attraverso un punteggio di QI.

I limiti del QI come misura dell’intelligenza

Il concetto del QI è stato oggetto di critiche per la sua natura limitata per vari motivi. Innanzitutto, tende a ridurre l’intelligenza a un singolo numero, ignorando la complessità e la diversità delle abilità cognitive. L’intelligenza comprende una vasta gamma di capacità, come la creatività, la risoluzione di problemi complessi, l’empatia e la capacità di adattarsi ai cambiamenti, che non possono essere adeguatamente valutate attraverso un unico test.

Inoltre, il QI è influenzato dal contesto sociale, culturale ed educativo in cui una persona vive. I test di intelligenza, spesso basati su aspetti specifici delle culture occidentali, possono essere inadeguati per valutare l’intelligenza di individui provenienti da contesti culturali diversi e ciò può portare a un’interpretazione errata delle loro capacità cognitive. Oltre al fatto che questi test sono soggetti a variabilità e possono fornire risultati diversi in base a fattori come lo stato emotivo, l’affaticamento o l’ansia della persona durante il test. Inoltre, il QI di una persona può fluttuare nel corso del tempo, poiché l’intelligenza può essere influenzata da fattori come l’apprendimento e lo sviluppo personale.

I test che stabiliscono il QI, essendo strutturati in modo da valutare principalmente abilità come il ragionamento logico, il linguaggio e le capacità matematiche, possono non cogliere appieno l’ampiezza delle abilità di un individuo e dare un’immagine distorta della sua intelligenza complessiva, trascurando aspetti come la creatività, l’intelligenza sociale o emotiva. Per esempio, l’intelligenza emotiva, che riguarda la capacità di comprendere ed esprimere le emozioni, gestire lo stress e stabilire relazioni interpersonali significative, può influenzare profondamente il benessere e il successo di un individuo, eppure non è valutata dai test di intelligenza.

Nonostante il QI sia spesso associato al successo accademico o professionale, essa non è una misura completa delle capacità di una persona. Altre qualità come la motivazione, l’etica del lavoro, le competenze sociali e l’adattabilità possono giocare un ruolo altrettanto importante nel determinare il successo di un individuo. Il QI, quindi, non può predire in modo accurato il successo o la genialità di una persona. Molti individui di successo e brillanti nel loro campo, come artisti, inventori o leader, possono non avere punteggi di QI eccezionalmente elevati. Allo stesso modo, persone con un alto QI non sono necessariamente garantite di avere successo nella vita o di essere considerate geni.

La teoria delle Intelligenze Multiple di Howard Gardner

Secondo Gardner, l’intelligenza umana è composta da diverse forme di abilità indipendenti e non può essere rappresentata da un singolo fattore generale, come il QI. Infatti, mentre il QI si concentra principalmente su aspetti logico-matematici e linguistici, Gardner ha identificato diverse forme di intelligenza che si manifestano in modi distinti nelle persone, ognuna delle quali rappresenta abilità cognitive specifiche. La teoria delle Intelligenze Multiple ci invita a considerare l’intelligenza come un insieme di diverse capacità anziché una singola misura.

  • Intelligenza linguistica: capacità di utilizzare e comprendere il linguaggio scritto e parlato in modo efficace, comprendere la sintassi e il significato delle parole.
  • Intelligenza logico-matematica: capacità di ragionare in modo logico, affrontare problemi matematici e scientifici, riconoscere schemi e relazioni.
  • Intelligenza spaziale: capacità di percepire e manipolare forme e spazi mentali, comprendere le relazioni spaziali, creare immagini mentali e navigare nello spazio.
  • Intelligenza musicale: capacità di apprezzare, eseguire e comprendere la musica, riconoscere melodie, ritmi e tonalità.
  • Intelligenza corporea-cinestetica: capacità di utilizzare il proprio corpo in modo coordinato e abile, comprendere i movimenti fisici, acquisire abilità motorie e coordinare i sensi con l’azione fisica.
  • Intelligenza interpersonale: capacità di comprendere e interagire efficacemente con gli altri, riconoscere le emozioni e le intenzioni degli altri, lavorare bene in gruppo e sviluppare relazioni interpersonali positive.
  • Intelligenza intrapersonale: capacità di comprendere se stessi, le proprie emozioni, i propri desideri e le proprie motivazioni. Include la capacità di riflettere, autovalutarsi e sviluppare una buona autostima.
  • Intelligenza naturalistica: capacità di riconoscere e classificare le caratteristiche del mondo naturale, comprendere le relazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente circostante.

Secondo Gardner, queste diverse forme di intelligenza possono interagire e integrarsi in modi unici in ciascun individuo, contribuendo alla sua specifica combinazione di abilità cognitive. Questa prospettiva delle Intelligenze Multiple suggerisce che l’intelligenza sia multidimensionale e che ogni persona possa eccellere in diversi ambiti, non solo in quello misurato dal QI tradizionale.

Implicazioni educative

L’approccio educativo tradizionale ha spesso privilegiato alcune forme di intelligenza a discapito delle altre. Una prospettiva basata sulle Intelligenze Multiple, invece, suggerisce l’importanza di sviluppare tutte le diverse abilità intellettive. Ciò implica un’educazione che incoraggi la creatività, la collaborazione e la plasticità cerebrale, attraverso approcci che si adattino alle diverse forme di intelligenza presenti negli individui. Perciò è importante riconoscere che ogni individuo ha abilità e stili di apprendimento diversi.

 Un focus esclusivo sul QI potrebbe portare a una valutazione inadeguata delle capacità degli studenti. Gli insegnanti dovrebbero adottare approcci differenziati, tenendo conto delle varie forme di intelligenza, promuovendo l’apprendimento individualizzato e offrendo opportunità di apprendimento diversificate. Per esempio, riconoscere che la creatività è un aspetto importante dell’intelligenza e incoraggiare gli studenti a sviluppare il loro potenziale creativo attraverso attività artistiche e stimolando la fantasia. In generale, fornire un ambiente di apprendimento stimolante, ricco di sfide e opportunità, stimola la curiosità degli studenti, promuove l’esplorazione e l’apprendimento attivo. Questo può aiutare a sviluppare diverse abilità cognitive e ad affrontare le sfide che vanno oltre il punteggio del QI.

Inoltre, riconoscere l’importanza delle competenze sociali ed emotive nel successo individuale e nella vita in generale, significherebbe includere nei progetti formativi lo sviluppo di abilità di comunicazione, collaborazione, gestione delle emozioni e consapevolezza di sé. Queste competenze sono essenziali per le relazioni interpersonali, il benessere emotivo e il successo nella società.

Ampliando la nostra concezione di intelligenza

Andare oltre il QI significa ampliare la nostra comprensione dell’intelligenza umana, riconoscere che l’intelligenza è un concetto composto da molteplici sfaccettature. Alcune forme di intelligenza potrebbero essere più evidenti in determinate persone, ma ogni individuo può avere una combinazione unica di abilità intellettive.

Ampliare la nostra concezione di intelligenza significa superare la visione tradizionale che identifica l’intelligenza come entità misurabile attraverso il QI. Significa riconoscere che l’intelligenza umana è composta da diverse abilità cognitive, capacità e talenti che vanno oltre il dominio delle abilità linguistiche e logico-matematiche. Implica accettare e valorizzare le diverse forme di intelligenza presenti in ogni individuo. Questo può includere l’intelligenza musicale, corporea-cinestetica, interpersonale e naturalistica. Ognuna di queste forme di intelligenza rappresenta un modo unico in cui una persona può eccellere e contribuire alla società.

Ampliare la nostra concezione di intelligenza richiede anche un cambiamento nell’approccio educativo. Significa adottare un’educazione olistica, che tenga conto delle diverse intelligenze e offra opportunità di apprendimento personalizzate. Gli insegnanti dovrebbero essere in grado di identificare e valorizzare le diverse abilità degli studenti, consentendo loro di sviluppare il proprio potenziale in modi diversi.

Infine, andare oltre il QI significa anche riconoscere che l’intelligenza non è l’unico indicatore di successo nella vita. L’intelligenza emotiva, ad esempio, che riguarda la capacità di comprendere e gestire le emozioni, può essere altrettanto importante per il benessere e la felicità. Le diverse intelligenze si influenzano reciprocamente e interagiscono per determinare il nostro modo di affrontare le sfide e di raggiungere i nostri obiettivi.

Conclusione

Misurare l’intelligenza umana è un’impresa complessa. Sebbene il QI abbia fornito un punto di partenza, la teoria delle Intelligenze Multiple di Gardner ci invita a esplorare altre e diverse forme di intelligenza e a valorizzarle. Questo approccio ci permette di apprezzare le differenze individuali e di riconoscere il potenziale di ogni individuo in modo più ampio e completo. Se andiamo oltre il QI, possiamo abbracciare una visione più comprensiva e rispettosa verso la complessità dell’intelligenza umana.

In un mondo sempre più complicato e interconnesso, avere una varietà di intelligenze può essere un vantaggio. Ad esempio, l’intelligenza sociale ci consente di comprendere gli altri e di stabilire relazioni significative, mentre l’intelligenza spaziale ci aiuta a visualizzare e manipolare oggetti nello spazio. Queste diverse abilità si combinano per creare un quadro più completo delle nostre capacità cognitive.

In conclusione, è importante notare che le intelligenze non sono fisse o immutabili. Possiamo sviluppare e migliorare le nostre abilità intellettive attraverso l’apprendimento, l’esperienza e la pratica. Questo sottolinea l’importanza di un’educazione che incoraggi la diversità e favorisca lo sviluppo di tutte le intelligenze.

L’impatto del trauma nei primi tre anni di vita a livello neuronale e metacognitivo

L’impatto del trauma psicologico nei primi tre anni di vita sulle strutture neuronali e sullo sviluppo delle funzioni metacognitive: una panoramica delle ultime ricerche condotte con l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale.

Introduzione

 I traumi psicologici in età precoce possono avere effetti duraturi sul benessere psicologico e fisico dei bambini e dei giovani adulti. La ricerca scientifica ha dimostrato che tali traumi possono causare danni neuronali e alterazioni nel funzionamento del cervello, che possono influenzare il comportamento, le emozioni, la cognizione e la salute fisica futura dei soggetti coinvolti.

In questo articolo esploreremo le scoperte più recenti riguardo all’impatto del trauma sui processi metacognitivi e sulla regolazione emotiva, basate su studi che utilizzano la risonanza magnetica funzionale (fMRI). In particolare verranno esaminati gli studi presenti in letteratura che indagano i danni neuronali conseguenti ad un trauma psicologico in età precoce.

Il trauma e le strutture neuronali

Effetti del trauma sullo sviluppo neuronale

Il trauma nei primi anni di vita può causare alterazioni nelle strutture neuronali, in particolare nelle aree del cervello responsabili della regolazione emotiva e delle funzioni cognitive superiori. Ad esempio, uno studio di Teicher et al. (2016) ha dimostrato che i bambini esposti a traumi avevano una riduzione del volume dell’ippocampo, una struttura cerebrale cruciale per la memoria e l’apprendimento.

Impatto sulla corteccia prefrontale e sull’amigdala

La corteccia prefrontale e l’amigdala sono due importanti strutture cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.

La corteccia prefrontale è coinvolta nella pianificazione, nella presa di decisioni, nella regolazione dell’attenzione, del controllo cognitivo e nella modulazione delle emozioni. In particolare, la corteccia prefrontale dorsolaterale è coinvolta nella regolazione dell’attenzione e del controllo cognitivo, mentre la corteccia prefrontale ventromediale è coinvolta nella regolazione delle emozioni negative.

L’amigdala, d’altra parte, è coinvolta nell’elaborazione e nell’integrazione delle informazioni emotive, nella valutazione del pericolo, nella risposta all’ansia e nella regolazione delle emozioni attraverso il feedback alla corteccia prefrontale. In particolare, l’amigdala laterale è coinvolta nella valutazione del pericolo e nella risposta all’ansia, mentre l’amigdala basolaterale è coinvolta nell’elaborazione e nell’integrazione delle informazioni emotive.

Entrambe queste strutture cerebrali sono importanti per la regolazione delle emozioni e del comportamento, e le loro disfunzioni possono contribuire allo sviluppo di disturbi emotivi e comportamentali.

Il trauma psicologico in età precoce può avere un impatto significativo sull’amigdala, una struttura cerebrale coinvolta nella regolazione delle emozioni. Gli studi presenti in letteratura hanno dimostrato che i bambini che hanno subito traumi psicologici in età precoce possono avere un’amigdala iperattiva, che può influire sulla loro capacità di gestire le emozioni e di adattarsi alle situazioni stressanti.

Uno studio condotto da De Bellis et al. (2002) ha utilizzato la tomografia ad emissione di positroni (PET) per esaminare l’attività dell’amigdala in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato un’amigdala iperattiva nei bambini che avevano subito abusi, che si correlava con l’esperienza di stress e la presenza di sintomi di ansia e depressione.

Uno studio condotto da Tottenham et al. (2010) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività dell’amigdala tra bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato un’amigdala iperattiva nei bambini che avevano subito abusi, che potrebbe spiegare le difficoltà nell’elaborazione delle emozioni e nell’adattamento alle situazioni stressanti. Inoltre, gli autori hanno osservato che i bambini che avevano subito abusi presentavano una ridotta attivazione della corteccia prefrontale ventromediale, una struttura cerebrale coinvolta nella regolazione delle emozioni negative. Similmente, uno studio di Malter Cohen et al. (2013) ha scoperto che i bambini con traumi precoci presentano una maggiore attivazione dell’amigdala in risposta a stimoli emotivi rispetto ai controlli. Inoltre, questi bambini mostrano una ridotta connettività tra l’amigdala e la corteccia prefrontale, suggerendo un’alterata regolazione emotiva.

Uno studio condotto da McCrory et al. (2011) ha utilizzato la risonanza magnetica (MRI) per esaminare le differenze nella struttura cerebrale tra adolescenti che avevano subito abusi fisici in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno rivelato che gli adolescenti che avevano subito abusi presentavano una riduzione del volume di alcune regioni della corteccia prefrontale, che sono coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.  Anche uno studio condotto da McLaughlin et al. (2014) ha utilizzato la risonanza magnetica per esaminare le differenze nella struttura cerebrale tra adolescenti che avevano subito un trauma psicologico in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una riduzione del volume di alcune regioni della corteccia prefrontale dorsolaterale, che sono coinvolte nella regolazione dell’attenzione, della pianificazione e del controllo cognitivo.

Un altro studio condotto da Tottenham et al. (2010) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività cerebrale tra bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una riduzione dell’attività nella corteccia prefrontale ventromediale, che è coinvolta nella regolazione delle emozioni, dell’empatia e del comportamento sociale.

Queste alterazioni strutturali potrebbero spiegare i problemi cognitivi e comportamentali che spesso si riscontrano nei soggetti che hanno subito un trauma psicologico in età precoce.

Effetti del trauma sulle funzioni metacognitive

Le funzioni metacognitive si riferiscono alla capacità di monitorare, valutare e controllare i propri processi cognitivi e affettivi. Queste abilità sono cruciali per il successo nella vita quotidiana e sono state associate a una serie di risultati positivi, tra cui una migliore regolazione delle emozioni, una maggiore resilienza e una migliore adattabilità sociale (Flavell, 1979).

Ridotta autoregolazione in bambini traumatizzati

La capacità di autoregolazione è un aspetto chiave dello sviluppo cognitivo e comportamentale dei bambini. Tuttavia, i bambini che subiscono traumi psicologici in età precoce possono avere difficoltà nell’autoregolazione, che può influire sulla loro capacità di gestire le emozioni, di adattarsi ai cambiamenti e di interagire con gli altri.

Uno studio di Kim et al. (2017) ha utilizzato la fMRI per esaminare le differenze nella connettività funzionale tra bambini con esperienze precoci avverse e controlli sani. I risultati hanno mostrato che i bambini con traumi avevano una ridotta connettività tra le aree prefrontali e le regioni limbiche, suggerendo un’alterata capacità di autoregolazione delle emozioni.

Uno studio condotto da Pollak et al. (2010) ha valutato la capacità di autoregolazione in bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce, utilizzando una serie di test comportamentali. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi presentavano difficoltà nell’autoregolazione, che si manifestavano in comportamenti impulsivi, difficoltà nell’adattamento alle situazioni nuove e difficoltà nell’interazione sociale.

Un altro studio condotto da Pechtel et al. (2013) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività cerebrale tra bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, che è coinvolta nella regolazione dell’attenzione, della pianificazione e del controllo cognitivo.

Infine, uno studio condotto da Cicchetti e Rogosch (2012) ha esaminato la capacità di autoregolazione in bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce, utilizzando una serie di test comportamentali e valutazioni psicologiche. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi presentavano una ridotta capacità di autoregolazione, che si manifestava in comportamenti impulsivi, difficoltà nell’adattamento alle situazioni nuove e difficoltà nell’interazione sociale.

Queste difficoltà nell’autoregolazione potrebbero essere legate alla maggiore esposizione al rischio di sviluppare disturbi psicologici come la depressione e l’ansia e sottolineano l’importanza di fornire un supporto adeguato ai bambini che hanno subito abusi in età precoce, al fine di aiutare a sviluppare la capacità di autoregolazione e di prevenire i rischi di problemi emotivi e comportamentali futuri.

Impatto sulla teoria della mente e sulle abilità sociali

La teoria della mente si riferisce alla capacità di comprendere e attribuire stati mentali ad altre persone, come credenze, desideri, intenzioni, emozioni e pensieri. In altre parole, si tratta della capacità di comprendere che le altre persone hanno un mondo mentale proprio, che può essere diverso dal nostro, e di utilizzare queste informazioni per comprendere e prevedere il loro comportamento.

La teoria della mente è una capacità fondamentale per la comunicazione, la comprensione sociale, l’empatia e la cooperazione. Gli individui che hanno difficoltà nella teoria della mente, ad esempio, possono avere difficoltà a comprendere le emozioni degli altri, a prevedere il loro comportamento o a seguire le regole sociali.

La teoria della mente si sviluppa durante l’infanzia, attraverso l’esperienza sociale e l’interazione con gli altri. Gli studi hanno dimostrato che il cervello umano ha una rete di regioni cerebrali specializzate nella teoria della mente, che sono coinvolte nell’elaborazione e nell’interpretazione degli stati mentali degli altri.

Uno studio di Puetz et al. (2014) ha esaminato le differenze nella teoria della mente tra bambini con traumi precoci e controlli sani, utilizzando la fMRI. I risultati hanno rivelato che i bambini traumatizzati mostravano un’attivazione ridotta nelle aree cerebrali associate alla teoria della mente, come il polo temporale e la corteccia prefrontale mediale, suggerendo un possibile impatto del trauma sullo sviluppo delle abilità sociali.

Uno studio condotto da Pollak et al. (2000) ha esaminato la capacità di comprendere le emozioni degli altri in bambini che avevano subito maltrattamenti in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato che i bambini che avevano subito maltrattamenti avevano una ridotta capacità di comprendere le emozioni degli altri, in particolare le emozioni negative, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Bos et al. (2011) ha esaminato la capacità di prevedere il comportamento degli altri in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi avevano una ridotta capacità di prevedere il comportamento degli altri, in particolare in situazioni sociali ambigue.

In sintesi, gli studi presenti in letteratura indicano che il trauma psicologico in età precoce può influire sulla capacità di sviluppare la teoria della mente, con una ridotta capacità di comprendere le emozioni degli altri, di prevedere il loro comportamento e di interpretare il significato delle espressioni facciali.

Regolazione emotiva e strutture corticali e subcorticali

Le strutture corticali e subcorticali svolgono un ruolo importante nella regolazione emotiva. Il trauma può influenzare lo sviluppo e il funzionamento di queste strutture, con conseguenze durature sulla capacità di un individuo di gestire le emozioni.

Corteccia cingolata anteriore e regolazione emotiva

La corteccia cingolata anteriore (CCA) è una regione cerebrale situata nella parte anteriore del giro del cingolo. È coinvolta nella regolazione emotiva e nella risposta al dolore fisico e psicologico.

 La corteccia cingolata anteriore è divisa in due parti, la corteccia cingolata ventromediale (CCVm) e la corteccia cingolata dorsolaterale (CCDl). La corteccia cingolata ventromediale è coinvolta nella regolazione delle emozioni e nella valutazione dell’importanza emotiva degli stimoli, mentre la corteccia cingolata dorsolaterale è coinvolta nella regolazione del controllo cognitivo e nel monitoraggio degli errori.

La corteccia cingolata anteriore è in grado di integrare informazioni sensoriali ed emotive provenienti da diverse regioni cerebrali, come l’amigdala, il talamo, la corteccia prefrontale e il sistema limbico. Inoltre, la corteccia cingolata anteriore è in grado di modulare l’attività di queste regioni cerebrali attraverso la sua connessione con il sistema neuroendocrino e il sistema nervoso autonomo.

La disfunzione della corteccia cingolata anteriore è stata associata a diversi disturbi emotivi, come la depressione, l’ansia e il disturbo da stress post-traumatico.

Gli studi presenti in letteratura hanno dimostrato che i bambini che hanno subito traumi psicologici in età precoce possono avere una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore, con conseguente difficoltà nella regolazione emotiva e nel controllo dell’impulso.

Uno studio di Marusak et al. (2015) ha esaminato l’attivazione della corteccia cingolata anteriore in risposta a stimoli emotivi in ​​bambini con traumi precoci. I risultati hanno mostrato che i bambini traumatizzati avevano un’attivazione ridotta della corteccia cingolata anteriore, suggerendo una compromissione nella regolazione emotiva.

Uno studio condotto da Carrion et al. (2010) ha esaminato l’attività della corteccia cingolata anteriore in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore nei bambini che avevano subito abusi, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Hanson et al. (2010) ha esaminato l’attività della corteccia cingolata anteriore in adolescenti che avevano subito abusi in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore negli adolescenti che avevano subito abusi, rispetto agli adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Infine, uno studio condotto da Kim et al. (2013) ha esaminato la connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato una ridotta connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore con altre regioni cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva nei bambini che avevano subito abusi, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Gli studi indicano che il trauma psicologico in età precoce può influire sull’attività e sulla connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore, con conseguente ridotta capacità di regolazione emotiva e di controllo dell’impulso.

Striato ventrale e ricompensa

Lo striato ventrale è una regione del cervello che fa parte del sistema dopaminergico di ricompensa. È coinvolto nella motivazione, nella valutazione delle ricompense e dei piaceri, e nella regolazione del comportamento motivato dalla ricerca di ricompense.

La funzione principale dello striato ventrale è quella di ricevere informazioni sulle ricompense e sulla motivazione provenienti dal sistema limbico e dal sistema dopaminergico, e di integrarle con informazioni sensoriali e cognitive provenienti da altre regioni cerebrali. In questo modo, lo striato ventrale è in grado di valutare l’importanza e il valore delle ricompense e di regolare il comportamento motivato dalla ricerca di ricompense.

Le ricompense sono eventi o stimoli che promuovono il comportamento motivato dalla loro ricerca. Il sistema dopaminergico di ricompensa è coinvolto nella regolazione della risposta alle ricompense, e lo striato ventrale è una delle principali regioni cerebrali coinvolte in questo processo. La stimolazione dello striato ventrale da parte di ricompense può indurre la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore associato alla sensazione di piacere e benessere.

Uno studio condotto da Mehta et al. (2010) ha esaminato l’attività dello striato ventrale in adolescenti che avevano subito abusi in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività dello striato ventrale negli adolescenti che avevano subito abusi, rispetto agli adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Pechtel et al. (2013) ha esaminato l’attività dello striato ventrale in adulti che avevano subito abusi in età precoce e adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività dello striato ventrale negli adulti che avevano subito abusi, rispetto agli adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Uno studio condotto da Dannlowski et al. (2012) ha esaminato la struttura dello striato ventrale in adulti che avevano subito abusi in età precoce e adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato una ridotta densità di materia grigia nello striato ventrale negli adulti che avevano subito abusi, rispetto agli adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Uno studio di Dillon et al. (2009) ha utilizzato la fMRI per esaminare l’attivazione dello striato ventrale in risposta a stimoli di ricompensa in adulti con storia di traumi infantili. I risultati hanno mostrato che i soggetti con traumi avevano una minore attivazione dello striato ventrale rispetto ai controlli, suggerendo una ridotta sensibilità alla ricompensa e potenzialmente una compromissione nella regolazione delle emozioni positive.

In conclusione la disfunzione dello striato ventrale e del sistema dopaminergico di ricompensa può contribuire allo sviluppo di disturbi emotivi e comportamentali, come la dipendenza da sostanze, la depressione e il disturbo da gioco d’azzardo.

Conclusioni

Immaginate di essere testimoni di uno straordinario viaggio alla scoperta del cervello umano, in particolare di come i traumi psicologici nei primi tre anni di vita plasmano il nostro sviluppo neuronale e cognitivo. Questo è ciò che le recenti ricerche hanno compiuto, rivelando sorprendenti connessioni tra trauma, funzioni metacognitive e regolazione emotiva, offrendo così nuove prospettive per la psicoterapia.

Grazie all’affascinante tecnologia della risonanza magnetica funzionale, gli scienziati sono riusciti a svelare i segreti nascosti dietro l’influenza del trauma sullo sviluppo cerebrale. Queste scoperte rivoluzionarie sono fondamentali per i professionisti della salute mentale e della psicoterapia, poiché aprono le porte a nuove e più efficaci strategie di trattamento.

I terapeuti possono attingere a questa conoscenza per aiutare i pazienti a gestire meglio le emozioni negative, grazie alla comprensione delle strutture cerebrali che regolano le emozioni. Un mondo in cui la consapevolezza di sé e la comprensione delle proprie reazioni emotive diventano strumenti preziosi per superare i traumi.

Ecco cosa queste scoperte significano per il futuro della psicoterapia: un approccio più mirato e personalizzato al trattamento, che può far emergere la guarigione e la resilienza in coloro che hanno vissuto traumi precoci. La conoscenza è potere, e in questo caso, la potenza di trasformare vite.

In conclusione, le ricerche sull’impatto del trauma psicologico ci hanno offerto nuove strade per affrontare le sfide della salute mentale. Con una migliore comprensione delle dinamiche cerebrali, i professionisti possono ora lavorare a strategie terapeutiche più efficaci, regalando una luce di speranza a chi ne ha bisogno.

La comprensione di come il trauma influenzi lo sviluppo delle funzioni metacognitive può aiutare i terapeuti a sviluppare strategie per aiutare i pazienti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie reazioni emotive.

Il concetto di arousal: un inquadramento teorico e le variabili socio-demografiche associate

L’arousal è definibile come il grado di eccitazione o di attivazione fisiologica e motivazionale che una persona sperimenta in risposta all’esposizione a uno stimolo, sia esso interno (e.g., pensiero) o esterno (e.g., ragno sul muro), che dà origine a una reazione caratterizzata da una serie di cambiamenti fisiologici

Una definizione di arousal

 È possibile considerare le risposte emotive emesse dagli esseri umani come delle reazioni complesse che si verificano in seguito all’esposizione a uno stimolo evocativo, es. un immagine, un suono o un odore. Queste ultime comprendono l’identificazione del significato dello stimolo, la produzione di uno stato affettivo e la regolazione di quest’ultimo (Phillips et al., 2003). Le risposte emotive coinvolgono molteplici aspetti, tra cui l’arousal. Nell’esperienza e nell’espressione emotiva, l’arousal gioca un ruolo fondamentale, poiché, assieme alla valenza (la proprietà di un affetto che specifica l’attrazione o l’avversione verso un oggetto, un evento o una situazione) viene considerata come una dimensione emotiva trasversale alle culture (Russell, 1994). Tuttavia, se la valenza emotiva riflette la misura in cui un’emozione è positiva o negativa, l’arousal si riferisce invece alla sua intensità, cioè alla forza dello stato emotivo associato (Citron et al., 2014). Nel dettaglio, l’arousal è definibile come il grado di eccitazione o di attivazione fisiologica e motivazionale che una persona sperimenta in risposta all’esposizione a un antecedente emotigeno, es. uno stimolo interno (e.g., pensiero) o esterno (e.g., ragno sul muro) che dà origine a una reazione caratterizzata da una serie di cambiamenti fisiologici, es. l’accelerazione del battito cardiaco, il cambiamento del ritmo respiratorio, il rossore in viso e così via (Bradley et al., 2001). Valstar (2015) definisce l’arousal come una sensazione globale di dinamismo o di letargia che coinvolge l’attività cerebrale e la preparazione fisica all’azione.

Arousal ed età

Per quanto riguarda l’andamento dei livelli di arousal nell’arco di vita, è possibile notare delle differenze significative legate all’età che influenzano il processamento delle emozioni di cui facciamo esperienza nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, è stato dimostrato che, rispetto ai giovani adulti, gli individui anziani mostrano generalmente una diminuzione dell’arousal dovuta all’esposizione a stimoli negativi e un aumento dell’arousal conseguente all’esposizione a stimoli positivi (Kessler & Staudinger, 2009). Questo risultato potrebbe allacciarsi al dato che, a differenza dei più giovani, i soggetti anziani prestino solitamente maggior attenzione agli stimoli positivi che ricordano peraltro più facilmente rispetto a quelli negativi (Isaacowitz et al., 2006).

Tuttavia, nel qui ed ora, ossia quando i soggetti vengono esposti a stimoli fortemente evocativi registrando i loro livelli di arousal per un lasso di tempo molto ristretto, le tendenze si invertono: gli individui più anziani valutano le immagini negative come più attivanti rispetto ai più giovani e le immagini positive come meno attivanti rispetto a quest’ultimi (Grühn & Scheibe, 2008). Queste differenze nell’arousal emotivo fanno pensare alla presenza di traiettorie dissimili di sviluppo nelle componenti di tratto (stabili), e di stato (temporanee), della regolazione emotiva (Dolcos et al., 2014), es. capacità di un individuo di modulare l’entità o la durata delle proprie risposte emotive (Gross et al., 2011). A tal proposito, soggetti anziani mostrano una maggiore capacità di regolazione delle emozioni rispetto ai giovani adulti (Urry & Gross, 2010). I primi possono persino essere apostrofati come regolatori cronici delle emozioni, in quanto le loro reti neuronali di regolazione delle emozioni risultano cronicamente attivate (Dolcos et al., 2014). In aggiunta, la letteratura scientifica comprende delle evidenze in merito a differenze di età nella percezione degli stimoli emotivi nella vita quotidiana.

In merito alla percezione delle espressioni facciali, per esempio, Svärd et al. (2014) hanno dimostrato che adulti più anziani sperimentano un minor livello di arousal in seguito alla visione di volti maschili arrabbiati rispetto a individui più giovani. Per quanto riguarda invece l’impiego di parole evocative, alcuni studi indicano una relazione tra l’età, l’arousal e la valenza. Ad esempio, è stato dimostrato che individui più anziani si sentano più felici quando vengono presentate loro parole che innescano un basso stato di arousal, mentre essi si sentono meno felici quando vengono presentate loro parole che producono elevati livelli di attivazione dell’organismo; questa relazione non è stata osservata nei partecipanti più giovani (Bjalkebring et al, 2015).

Arousal e genere

Oltre all’età, una seconda variabile associata ai livelli di arosual è il genere. Studi scientifici hanno dimostrato che le femmine sono maggiormente responsive agli eventi spiacevoli rispetto ai maschi e che mostrano al contempo un aumentato livello di arosual rispetto a quest’ultimi in seguito all’esposizione a stimoli emotigeni, soprattutto se questi sono negativi (Bradley et al., 2001). Tra gli studi che indagano le differenze di genere nell’arosual impiegando immagini di volti evocativi, Thayer e Johnsen (2000) ipotizzano che le femmine esibiscono una maggior attivazione fisiologica rispetto ai maschi e che si basino persino su quest’ultima durante il processamento delle espressioni facciali che stanno osservando.

 Passando alle parole evocative, Soares et al. (2012) hanno evidenziato delle differenze di genere nell’arousal di un campione di studenti ai quali erano state presentate una serie di parole in lingua portoghese classificate in negative, neutre e positive: le femmine mostravano dei punteggi di arousal più elevati rispetto ai maschi. Infine, sono state osservate delle differenze di genere nella regolazione di emozioni evocate da stimoli emotogeni particolarmente attivanti. In particolare, sono state rilevate differenze fisiologiche e neuronali tra maschi e femmine. Per esempio, McRae et al. (2008) hanno dimostrato che al diminuire dell’esperienza emotiva soggettiva, le femmine esibivano una maggior attivazione delle regioni cerebrali associate alla ri-valutazione cognitiva dello stimolo (re-appraisal), alla risposta emotiva e al processamento della ricompensa rispetto ai maschi. Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni e l’arousal sperimentato dai soggetti non sono state riscontrate differenze di genere a livello comportamentale (McRae et al., 2008).

Conclusioni

Riassumendo, l’arousal è un aspetto fondamentale dell’esperienza, dell’espressione e della regolazione delle emozioni e, proprio per questa ragione, esso costituisce un oggetto di studio degno di approfondimento. A questo scopo, volti e parole evocative possono rivelarsi degli ottimi antecedenti emotigeni e dunque fungere da strumenti eccellenti per l’indagine dell’arousal nell’essere umano. Studi futuri possono far luce sulla relazione tra attivazione emotiva e variabili diverse dal genere e l’età, come ad esempio il grado di difficoltà nella regolazione delle emozioni o la gravità di sintomi depressivi e ansiosi (Deckert et al., 2020).

Che cos’è la FOFO?

Per superare la FOFO (Fear Of Finding Out) è importante adottare un approccio dinamico, aperto alla ricerca di informazioni e al processo decisionale.

 

 Tutti sappiamo perfettamente che lo struzzo mette la testa nella sabbia, infatti utilizziamo abitualmente questa immagine per descrivere un comportamento peculiare in cui evitiamo le informazioni che riteniamo possano essere sgradevoli. Recentemente, è stato coniato l’acronimo “FOFO” (dall’inglese Fear Of Finding Out, letteralmente “la paura di venire a sapere”) per descrivere la barriera psicologica che ci impedisce di approfondire un potenziale problema per la paura di ciò che potremmo scoprire.

Il termine si è diffuso inizialmente in campo medico, per descrivere chi ha paura di sottoporsi a cure mediche e di scoprire di poter avere una patologia. Ma la FOFO è stata poi applicata a diversi contesti, tra cui quello lavorativo. In questo ambito, il termine FOFO si riferisce a un fenomeno che si verifica all’interno delle organizzazioni quando i leader sono riluttanti a cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro convinzioni, decisioni o azioni. Questa tendenza può avere molte conseguenze negative per le organizzazioni, tra cui un impatto negativo sulla motivazione e sul benessere dei dipendenti, una riduzione dell’apertura e della fiducia e una diminuzione complessiva della creatività, dell’innovazione e della produttività dei lavoratori. La FOFO può riverberarsi sulla salute mentale e sulla salute generale dell’individuo.

Perché preferiamo evitare?

L’evitamento è una modalità di comportamento che consiste nell’allontanarsi da situazioni che percepiamo come pericolose. Al cospetto di una minaccia, che sia reale o meno, il nostro cervello genera una risposta di allarme finalizzata a evitare il pericolo. L’evitamento, perciò, è funzionale alla sopravvivenza. Tuttavia, nel momento in cui riduce le nostre possibilità di azione o conduce a risultati negativi, non solo diventa disadattivo, ma diventa anche la reazione primaria a emozioni quali l’ansia o la paura, come nel caso della FOFO. Quando siamo allarmati dalla novità, tendiamo a tutelare la nostra condizione fino a chiuderci nei confronti di altre informazioni, al fine di non mettere a repentaglio la sicurezza attuale. Andare incontro alla verità, infatti, potrebbe corrispondere a uscire dai nostri schemi, mettere in discussione le nostre certezze e, di conseguenza, far fronte a un cambiamento.

Quali sono le cause della FOFO?

Sebbene molti professionisti abbiano proposto un’ampia varietà di cause, quelle principali relative alla FOFO sono complesse e possono derivare da più fonti:

  • Pregiudizi cognitivi. Una spiegazione della FOFO è rappresentata dai bias cognitivi, come i bias di conferma e i bias di auto-protezione. Il bias di conferma è la tendenza a cercare informazioni che confermino le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti, mentre il bias di auto-protezione è la tendenza a vedere le proprie azioni e decisioni in una luce più favorevole. Entrambi questi pregiudizi possono portare alla FOFO creando una mentalità che resiste alle informazioni nuove o contrastanti.
  • Fattori emotivi. Questi includono la paura delle critiche o dell’esposizione delle proprie carenze. I leader che temono di essere criticati o che sono preoccupati di mostrare qualche incertezza possono evitare di cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro convinzioni o decisioni.
  • Fattori sistemici e culturali. Infine, la FOFO può essere determinata anche da fattori sistemici e culturali all’interno delle organizzazioni. Ad esempio, le strutture gerarchiche che limitano il flusso di informazioni e scoraggiano le opinioni dissenzienti possono creare una cultura dell’evitamento. Allo stesso modo, la mancanza di trasparenza nei processi decisionali può portare a un ambiente in cui i leader si sentono meno responsabili delle loro azioni e meno motivati a cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro decisioni.

Cosa possono fare i leader per affrontare e superare la FOFO?

 Per superare la FOFO è importante adottare un approccio dinamico, aperto alla ricerca di informazioni e al processo decisionale. Ciò implica la proattività nel cercare informazioni che possano mettere in discussione le proprie convinzioni, decisioni o azioni ed essere aperti a considerare nuove idee e feedback.

La rivista statunitense Forbes ha stilato delle misure specifiche da adottare:

  • Impegnarsi nell’apprendimento e nello sviluppo continui. I leader devono cercare continuamente nuove conoscenze e approfondimenti per rimanere informati e aggiornati. Devono essere disposti a imparare dalle loro esperienze, dai loro errori e dagli altri.
  • Promuovere una cultura della ricerca e della trasparenza. I leader devono creare un ambiente in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel porre domande e sfidare le ipotesi. In questo modo si promuove una cultura della trasparenza, in cui le informazioni vengono condivise apertamente e tutte le prospettive vengono prese in considerazione.
  • Promuovere prospettive diverse e sfide costruttive. I leader devono incoraggiare la diversità di pensiero e cercare prospettive alternative per mettere in discussione il proprio pensiero. Questo aiuta i leader a prendere decisioni informate basate su una gamma più ampia di informazioni.
  • Abbracciare una mentalità di crescita. I leader devono avere una mentalità di crescita, riconoscendo che cercare e incorporare i feedback è essenziale per la crescita personale e professionale.
  • Seguendo questi passaggi, i leader possono migliorare il loro processo decisionale e creare un’organizzazione più informata, adattabile e resiliente.

La specifica funzione del lettino: quando e perché utilizzarlo nel setting psicoanalitico 

Il terapeuta è un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona.

 

 Lungi dal costituire un semplice elemento di arredo, il lettino si rivela un elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, perché in grado di favorire il raggiungimento di molti degli obiettivi preposti dalla terapia. Primo tra tutti quello della libera associazione (Freud, 1895) che permette l’attivarsi di contenuti dell’Es rimossi, scissi o scotomizzati, attraverso uno stato di attenzione fluttuante – fatto di simboli e memorie somatiche – che tanto ricorda quello della dimensione onirica. E dunque del sogno.

Le funzioni specifiche del lettino in psicoanalisi

Freud (1899) ha evidenziato in numerose occasioni l’effetto rivelatore del sogno, inteso come dimensione onirica in grado di creare un accesso nel contenuto inconscio individuale e di favorirne la graduale emersione. Ma dato che il sogno è raggiungibile attraverso l’esperienza del sonno notturno, si rende necessario riprodurre, all’interno del setting, condizioni in grado di agevolare l’instaurarsi di uno stato di rilassamento simile – per funzioni ed effetti – a quello del sonno stesso.

Il lettino riesce in questo compito per una serie di motivazioni:

  • Prima di ogni altra cosa esso consente di sdraiarsi, e dunque di assumere quella condizione orizzontale necessaria all’addormentamento (Bollas, 1989). Chiudere gli occhi cercando di estraniarsi dall’ambiente circostante rende più facile indagare il proprio mondo interiore in una modalità inconsapevole e tuttavia volontaria, in grado di favorire l’emergere di pulsioni arcaiche provenienti dall’Es. Al contrario, la posizione verticale favorisce il mantenimento di stati di vigilanza collegati all’investimento egoico e dunque al principio secondario, e non consente l’allentamento dei meccanismi difensivi coscienti;
  • La posizione orizzontale consente l’instaurarsi di una rilassatezza che coinvolge gli apparati muscolo scheletrici e le funzioni motorie, costruendo un micro ambiente protetto e protettivo, nel quale il paziente può trovare rifugio. Il terapeuta non si trova di fronte a lui: è seduto alle sue spalle, in una poltrona che gli consente un ascolto attento ma non invasivo, presente e tuttavia discreto, grazie al quale la partecipazione empatica può alternarsi a stati di ritiro consapevole;
  • Non sentire proiettato su di Sé lo sguardo del terapeuta può agevolare il ritiro dagli investimenti egoici, laddove un’eccessiva vicinanza oculare potrebbe evocare vissuti transferali di controllo e rigidità, di per sé amplificatori del mantenimento del processo secondario. “L’occhio dell’analista che guarda può ripetere un’intromissione traumatica nella mente, invadendo un segreto spazio di intimità (Nicolò, 2021, p. 129). L’occhio vigilante del terapeuta può essere identificato, in un transfert di resistenza, con la figura persecutoria di un genitore intrusivo che non consente spazio al sé, invalidando la funzione retrospettiva. Sono i figli di quelle famiglie psichicamente indifferenziate -e per questo preclusive della creazione di un Sé autonomo- in cui lo spazio vitale viene messo continuamente in discussione da un altro persecutore e ipercritico. Pazienti resi oggetto di invasioni psicosomatiche da parte di genitori incistanti, interiorizzati come oggetti sabotanti e persecutori, possono sentirsi giudicati e allo stesso modo perseguitati dall’elemento visivo. In questo caso l’occhio non osserva per vedere, ma soltanto per invalidare, annichilire, cancellare il Sé. Lo sguardo diviene così un elemento persecutore che delimita e mortifica il Sé, causando l’attivazione di massivi meccanismi di difesa;
  • Lo stesso terapeuta potrebbe infine sentirsi a disagio di fronte allo sguardo diretto e focalizzato del paziente, e dunque sperimentare controtransfert ostativi e confondenti alla collaborazione interpretativa (Bollas, 1989).

Lo spazio tra il lettino e la poltrona: luogo di contenimento-supportivo….

Senza la posizione orizzontale non sarebbe possibile regredire a quegli stati preverbali e presimbolici che consentono l’accesso all’inconscio non rimosso in cui tutto è sensoriale, pre logico e per questo minacciosamente incontenibile. Ed è qui che entra in gioco il ruolo supportivo dell’analista il quale, dalla sua poltrona alle spalle del lettino, ricorda al paziente che qualcuno lo sta accompagnando in questo incerto viaggio a ritroso nel Sé, finalizzato a significare eventi non dotati di significato, ad integrare sintomi disfunzionali, a sciogliere legami libidici patologici, a risolvere conflitti inconsci mai rielaborati. Il tutto in una finalità direzionante e mai direttiva.

Come una madre ambiente, che non guida il bambino con intento anticipante e narcisistico, ma attende che sia lui stesso a palesarle bisogni e necessità, egli lo rafforza in quel cammino necessario alla scoperta del Sé autentico, consentendogli al contempo ad aver fiducia nell’altro (Winnicott, 1965).

Nell’approccio psicoanalitico il terapeuta è una voce, un elemento sensoriale che sostiene senza toccare, che guida senza dirigere. È un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona, che ne costituisce una sottodimensione; quasi un “setting nel setting”, ad ulteriore protezione dei rispettivi spazi psichici e della neutralità dell’analista ( Freud, 1922).

Entrando ed uscendo da questo “bozzolo”, questo spazio fantasticato e tuttavia reale, il paziente comincia a familiarizzare con i confini del Sé, costruendoli laddove siano assenti o rafforzandone la struttura laddove, pur presenti, risultino eccessivamente fragili.

Egli è da solo, e tuttavia non lo è. La sua posizione orizzontale, in apparenza statica e immobile, disegna un vertiginoso viaggio interiore fatto di attese, conflitti, difese, associazioni che gli consentiranno di allontanarsi dal Sé solo allo scopo di farvi ritorno, rafforzato e arricchito dall’incontro con esperienze ri-significanti nella quale prende vita la capacità di stare da soli in presenza di un altro (Winnicott, 1958), intesa come la possibilità di mettersi in contatto con le parti più profonde del Sé senza temere di venirne fagocitati e distrutti.

Come una madre e un bambino che si trovano all’interno della stessa stanza e godono della reciproca presenza pur senza un contatto diretto, allo stesso modo tra il paziente e il terapeuta viene a crearsi un canale comunicativo silenzioso e tuttavia costante in cui entrambi sono consapevoli della presenza dell’altro, pur trovandosi in una solitudine che non è abbandonica né separativa, ma getta le basi di una stabile consapevolezza del Sé.

…e di poiesi trasformativa

Lo spazio consentito dalla presenza del lettino crea una specie di “zona franca” che unisce e divide i protagonisti del setting, garantendo il mantenimento dei rispettivi ruoli e consentendo al contempo la nascita di quella pulsione relazionale necessaria a ri-significare i contenuti asimbolici tratti dal serbatoio protomentale.

È proprio al fine al fine di non compromettere la solidità e l’autenticità della relazione terapeutica che nessuno dei due membri del setting potrà violare i confini di questo spazio, pur potendo attingere da esso l’intersoggettività “intuitiva”che caratterizza i primi rapporti diadici, e consente un adeguato sviluppo del Sé e una solida coesione dell’Io.

La sua presenza, neutrale e tuttavia partecipe alla relazione, contribuisce a delineare dei confini psichici laddove la regressione a vissuti arcaici potrebbe suscitare tentazioni fusionali in entrambi i membri del setting. Allo stesso modo esso contribuisce a bonificare stati transferali e controtransferali eventualmente sperimentati da paziente e terapeuta, rendendoli più accessibili e integrabili nel contenuto egoico.

Possiamo immaginarlo come una sorta di ventre psichico, un contenitore in grado di metabolizzare contenuti psichici selvaggi – i temibili elementi beta – riuscendo ad attivare una funzione trasformativa che evita lo straripamento pulsionale e favorisce il consolidarsi della funzione alfa. Ma anche come il luogo in cui prende vita quel terzo intrasoggettivo che Ogden (1997) definisce il risultato degli scambi di rêverie dell’analista e dell’analizzando, la cui compresenza, partecipe e collaborativa, dà luogo ad un pensiero fantasmatico che non appartiene né all’uno né all’altro in via esclusiva, perché nasce proprio dalla dualità continua e continuata della loro relazione. Del loro stare – consapevolmente e volontariamente- sul legame terapeutico, cercando di trarre dallo stesso motivazioni aumentative del Sé e del Sé con l’altro.

In quest’ottica, il processo analitico “implica la parziale consegna della propria individualità separata ad un terzo soggetto, che non è né l’analista né il paziente, bensì una terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica” (Ogden, 1997, p. 10). Nessuno dei due può considerare personali i contenuti dello terzo analitico soggettivo, perché si tratta di un’entità prettamente relazionale prodotta da una relazione. All’interno dello stesso l’evento diventa anzi relazione, soggettività, rapporto, riuscendo ad unire le personalità dei componenti del setting in una finalità reciprocante.

Quando NON è opportuno utilizzare il lettino

Si è detto dell’importanza del lettino in psicoanalisi, al fine di evocare nel paziente quegli stati arcaici che consentono una migliore e più autentica esplorazione del Sé, allentando i processo di difesa e le funzioni egoiche.

Ma non è sempre così.

Esistono alcuni pazienti nei quali la posizione orizzontale imposta dal lettino potrebbe comportare effetti addirittura opposti, provocando l’attivarsi di stati d’angoscia in grado di aggravare il vissuto difensivo e la chiusura relazionale.

 Il riferimento va a soggetti con alti livelli di paranoia o sospettosità, di diffidenza e ritiro relazionale, nei quali la necessità di delimitare il proprio spazio psichico rispetto a quello del terapeuta ricopre una funzione difensiva. Sdraiarsi li farebbe sentire terribilmente vulnerabili, così come non poter guardare negli occhi l’analista significherebbe perderlo di vista, e dunque trovarsi alla sua mercé. Questo potrebbe provocare un effetto contrastivo rispetto alla libera associazione perseguita, andando a rafforzare, anziché indebolire, l’utilizzo del processo secondario.

Al contrario, in pazienti con disturbi psicotici o con gravi vissuti abbandonici, lo sguardo potrebbe fungere da mezzo di contenimento, una sorta di holding materno che protegge dagli urti traumatici e tiene insieme i pezzi del Sé (Winnicott, 1965). Non essere guardati potrebbe destare in essi stati di angoscia, di lutto, di perdita irreparabile.

Lo sguardo contiene, abbraccia, tiene insieme in una fase della vita in cui l’approccio al Sé e alla realtà è meramente viscerale. Aggrappandosi allo sguardo il bambino percepisce un senso di contenimento e protezione. Si sente tenuto insieme contro pericolose angosce di frammentazione (Bick, 1967). Mentre guarda egli introietta l’oggetto buono che lo nutre e lo sostiene, mentre viene guardato sente di esistere con l’altro e per l’altro. Laddove uno sguardo assente servirebbe solo a rendere inconsistente la presenza della madre che abbraccia e nutre il Sé arcaico.

Esther Bick (1967) ha dimostrato il valore nutritivo dello sguardo nelle prime fasi della vita. Lo sguardo della madre, non meno del cibo, è in grado di fornire contenuti essenziali alla sopravvivenza fisica e psichica.

Ove sguarniti di questo supporto visivo i pazienti sperimenterebbero di nuovo quel senso di solitudine desertificante che hanno vissuto nell’infanzia, e che il setting riproporrebbe loro sottoforma di un vissuto transferale persecutorio. Al contrario, sostenuti da un contatto oculare empatico, essi riescono a maturare stati emotivi sintonizzanti e riflessivi, sapendo di essere tenuti insieme da un’enveloppe visiva – lo sguardo vis a vis col terapeuta – che, come l’abbraccio di una madre, li protegge. Li contiene. Non li fa sentire soli.

Dunque, lettino o non lettino?

Per rispondere a questa domanda è necessario affidarsi all’intuito relazionale dell’analista e alla sua capacità di comprendere le caratteristiche del setting specifico nel quale si trova ad operare. Dunque, prima di servirsi del lettino in psicoanalisi sarà sempre utile porre attenzione al tipo di disturbo che si sta trattando, e, nel rispetto della soggettività del paziente e dell’efficacia della terapia, valutare l’opportunità del suo utilizzo.

Si tratta di una conclusione ovvia. Fatte salve le singole metodologie e gli aspetti teorici, la psicoterapia è soprattutto una scienza vissuta sul campo, e per questo fondata sulle esigenze del paziente, il cui rispetto è a sua volta fondamentale per la costruzione di quell’alleanza necessaria al buon esito della terapia stessa.

Il rispetto dei canoni metodologici non può tradursi in un’applicazione standardizzata e inflessibile dei medesimi: è alla luce di ciò che il lettino, per quanto elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, non ne costituisce elemento imprescindibile.

Il suo impiego deve essere preventivamente reso oggetto di discussione tra paziente e analista il quale, di fronte ad un eventuale rifiuto, potrà eventualmente cercare di ottenere chiarimenti sulle motivazioni che lo hanno provocato. In seguito a ciò sarà possibile optare per un’introduzione successiva del lettino o, al contrario, escluderlo del tutto.

Eventualità che accade più spesso di quanto si possa credere. Al di là delle credenze collettive oggi si fa un uso molto meno frequente del lettino in psicoanalisi, gli analisti preferiscono instaurare con il paziente un rapporto più diretto e interfacciato, in grado di fornire importanti informazioni sulle sue competenze comunicative non verbali e sulla sua capacità di gestirle.

Neuropsicologia delle psicosi (2023) di Severin, Prior e Sartori – Recensione

Il libro “Neuropsicologia delle psicosi” è un vero e proprio manuale che guida alla conoscenza e alla comprensione dei modelli e degli interventi cognitivi nelle psicosi.

I disturbi psicotici

 Nella prima parte viene fornita una panoramica completa sulle caratteristiche diagnostiche e le manifestazioni cliniche dei disturbi psicotici, in particolare della schizofrenia. È un tassello fondamentale per la comprensione dei vari modelli ed interventi, in quanto il quadro psicotico è un quadro estremamente ampio e variegato: non esiste un solo sintomo patognomonico della schizofrenia. Anche l’esordio in età infantile/evolutiva è un aspetto molto delicato perché può essere preceduto da campanelli d’allarme non specifici e non sempre attribuibili al futuro disturbo psicotico. Quindi, la prima parte del manuale si focalizza proprio sulla prevalenza, sulla manifestazione, sulla teoria multifattoriale dell’eziologia, sui fattori di rischio e predisposizione.

Questa parte introduttiva è seguita da diversi capitoli dedicati alla spiegazione e all’analisi dei diversi modelli proposti. All’interno di questa presentazione vengono descritte le caratteristiche cognitive ed esecutive che si osservano nei pazienti psicotici, alcune dovute alla malattia, alcune che potrebbero predisporre o che sono presenti fin dall’esordio psicotico. Vengono descritte e affrontate le seguenti aree: funzioni esecutive, memoria, attenzione, capacità comunicative e linguaggio, percezione visuo-spaziale, quoziente intellettivo e funzioni motorie.

Successivamente viene introdotta la teoria della mente, capacità che permette di comprendere gli stati mentali altrui con una funzione adattiva e sociale. Vengono presentate numerose ricerche e dati che spaziano su diversi aspetti che caratterizzano sia la teoria della mente, sia la cognizione sociale. Le teorie proposte permettono di osservare le difficoltà presenti da punti di vista diversi: Firth riteneva che la ridotta capacità nella teoria della mente nei pazienti psicotici fosse attribuibile a un deficit di monitoraggio dei propri stati mentali e del proprio comportamento; mentre Hardy-Baylé ritiene che il deficit della teoria della mente nei pazienti schizofrenici sia correlato ai deficit esecutivi e di pianificazione.

Secondo Hardy-Baylé, l’assenza di una rappresentazione mentale dell’azione intenzionale andrebbe a compromettere anche la capacità del paziente di assegnare correttamente gli stati mentali altrui. I pazienti schizofrenici non riescono ad interpretare le credenze altrui come rappresentazioni soggettive della realtà, perché le confrontano con la propria rappresentazione caratterizzata da una difficoltà di distinzione tra soggettività ed oggettività. 

Anche se le interpretazioni possono essere diverse, gli studi con fMRI confermano un’alterazione nelle aree coinvolte nella teoria della mente. 

Psicosi, brain imaging e training cognitivo

Successivamente viene dedicato uno spazio al brain-imaging come strumento diagnostico e di supporto nella ricerca e nell’interpretazione delle diverse casistiche. Come detto inizialmente i disturbi psicotici hanno una manifestazione eterogenea e non sono caratterizzati da un solo sintomo patognomico che permette una diagnosi chiara fin dall’inizio; proprio per questo gli strumenti di imaging stanno sostenendo e consentendo un’analisi sempre più accurata. Nonostante le rappresentazioni si differenzino molto da caso a caso, sia per la quantità, sia per la gravità delle aree coinvolte, i processi tecnologici di neuroimaging permetteranno agli studiosi una comprensione migliore delle relazioni tra strutture e alterazioni, permettendo interventi sempre più precoci ed efficaci.

 Infine, si arriva al cuore del manuale: il training cognitivo. La necessità di promuovere interventi di training cognitivo (oltre alla terapia farmacologica e psicoterapica) nasce dalla consapevolezza della presenza di un deficit cognitivo nei pazienti psicotici e dal ruolo che esso svolge. Infatti, sembrerebbe che il deficit cognitivo, in questa tipologia di pazienti, possa costituire un fattore predittivo negativo dal punto di vista del funzionamento psicosociale e lavorativo. Gli interventi possono avere obiettivi diversi: possono essere finalizzati a migliorare e riacquisire una competenza cognitiva specifica, o possono puntare al potenziamento delle capacità e delle risorse a disposizione. Il capitolo descrive alcune tecniche di riferimento, il pensiero alla base e la struttura dell’intervento, al fine di perseguire l’obiettivo. Infine, viene introdotta la metacognizione, capacità di rendersi consapevoli delle proprie abilità cognitive, di pensiero e delle proprie competenze, e i relativi training metacognitivi. Quindi viene presentato il programma di training metacognitivo, intervento apposito per pazienti schizofrenici, finalizzato a renderli più consapevoli delle proprie difficoltà per promuovere un loro miglioramento “più autonomo”, limitando il mantenimento delle credenze patologiche. Il capitolo si dedica alla spiegazione di tutto il modello. 

Conclusioni

Per concludere, il libro è un vero e proprio manuale sulla neuropsicologia e la cognizione delle psicosi, estremamente dettagliato e ricco di riferimenti bibliografici, dati empirici e spunti di riflessione. Personalmente la ritengo una lettura e consultazione fondamentale per i professionisti che vogliono trattare e interfacciarsi con questa complessa psicopatologia.

Al giorno d’oggi le psicosi sono molto presenti sul panorama psicologico e psichiatrico, si osservano numerosi e frequenti esordi precoci in età adolescenziale e decorsi non sempre positivi: a maggior ragione la conoscenza e la formazione sul funzionamento cognitivo, neuropsicologico, sociale e sulle possibilità di trattamento permetterà, assieme alla ricerca, sia la possibilità di offrire un percorso realmente supportivo, sia una presa in carico più chiara e consapevole.

Il concetto di solitudine

La crescente consapevolezza che le relazioni sociali svolgono un ruolo fondamentale nel benessere psicologico ha portato i ricercatori della salute mentale ad approfondire il lavoro sulla solitudine e sul supporto sociale.

Introduzione

 La solitudine è un’esperienza umana universale, complessa e unica per ogni individuo, che può estendersi dalla separazione temporanea dai propri cari a uno stato più permanente di disconnessione associato a una malattia mentale o fisica.

Negli ultimi decenni, c’è stata una crescente quantità di ricerca empirica sulla solitudine che ha coinvolto una serie di definizioni. Molti ricercatori contemporanei riconoscono che la solitudine e l’isolamento sociale sono costrutti diversi. Tuttavia, questa distinzione teorica non sempre trova pieno riscontro nella ricerca empirica sulla solitudine, né tanto meno negli interventi per alleviarla.

La solitudine è un fattore di rischio per la morbilità e la mortalità negli esseri umani (Cacioppo & Patrick, 2008). Può essere transitoria – conseguenza di circostanze esterne come un lutto, un cambiamento di città o di cerchia sociale o dalla lontananza da amici, familiari o partner – oppure può essere un’esperienza cronica. Queste osservazioni hanno sollevato la questione se la solitudine debba essere caratterizzata come una patologia a sé stante e se mitigare la solitudine debba essere un obiettivo chiave per i clinici (Heinrich & Gullone, 2006). Risulta dunque fondamentale chiarire il concetto di solitudine a causa dei suoi effetti negativi sulla salute fisica e mentale.

La recente rassegna di Motta (2021) fornisce le definizioni di solitudine più condivise in letteratura.

Le definizioni di solitudine

Il primo tipo di definizione si basa sui bisogni sociali. I ricercatori sottolineano il ruolo delle influenze precoci nel generare e mantenere la solitudine (Weiss, 1973). La causa della solitudine, secondo questo approccio, è l’assenza di relazioni che permettono di soddisfare i bisogni sociali intrinseci di una persona. Questa prospettiva si ispira anche alla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969), che propone che legami precoci sicuri siano necessari per sviluppare la vicinanza nei legami sociali più avanti nella vita. Se si verificano disturbi precoci nei legami di attaccamento, ciò può portare a difficoltà nello sviluppo delle relazioni.

Il secondo tipo di definizione si basa sulla discrepanza cognitiva. Sebbene enfatizzi le conseguenze affettive della solitudine, questo tipo di definizione propone che i processi cognitivi ne siano la causa, definendola come lo stato di avversione sperimentato quando c’è una discrepanza tra le relazioni interpersonali che una persona vorrebbe avere e quelle che percepisce di avere (Peplau & Perlman, 1982). La prospettiva della discrepanza cognitiva si basa sulla teoria dell’attribuzione, suggerendo che il modo in cui le persone sole attribuiscono la causalità della loro condizione influenza il loro stato psicologico e la loro condizione.

Il terzo tipo di definizione deriva dall’approccio interazionista. Secondo questa visione, i tratti caratteriali (ad esempio, timidezza, introversione), interagiscono con fattori situazionali (ad esempio, ricoveri ospedalieri, trasferimenti o cambiamenti di vita) e culturali (ad esempio, le aspettative sui comportamenti nelle relazioni di coppia) per dare forma alle nostre relazioni sociali. Anche le aspettative sui ruoli che le persone dovrebbero svolgere hanno un’influenza (Heinrich & Gullone, 2006) sulla quantità e qualità delle relazioni sociali.

 Il quarto tipo di definizione presenta la solitudine come indicativa di deficit nelle relazioni sociali. Questa definizione si basa sul fatto che gli esseri umani sono esseri sociali con un bisogno essenziale di appartenenza. Quando questo bisogno non viene soddisfatto, emergono esperienze emotivamente dirompenti, come la solitudine. In questo caso, la solitudine è radicata in specifiche percezioni, valutazioni e risposte alla realtà interpersonale e si manifesta attraverso comportamenti, sentimenti e cognizioni strettamente correlati tra loro (Jones, 1982).

Anche il quinto tipo di definizione considera la solitudine come una conseguenza del bisogno umano universale di appartenenza e quindi la vede come una parte inevitabile dell’esistenza umana. In quanto tale, la solitudine può essere vissuta da tutti, indipendentemente dall’età, dal contesto economico, dallo stato sociale o di salute (Frie, 2012).

Conclusioni

Le definizioni di solitudine qui esposte possono sollevare alcune questioni. La prima riguarda il fatto che la solitudine è caratterizzata da comportamenti, emozioni e pensieri specifici. Questo concetto è sottolineato da una visione della soggettività che identifica l’esperienza soggettiva con queste manifestazioni. La seconda riguarda l’eccessiva attenzione alla natura degli esseri umani come esseri sociali. Trascurare uno studio approfondito dell’esperienza soggettiva della solitudine porta a interventi il cui unico obiettivo è aumentare le interazioni sociali. Tali interventi partono dal presupposto che la solitudine sia la stessa cosa dell’isolamento sociale. Ciò mina la distinzione ampiamente riconosciuta tra solitudine e isolamento sociale oggettivo (uno stato di assenza di contatti con altre persone). Cioè, anche quando la solitudine è caratterizzata da indici oggettivi e quantitativi delle relazioni sociali (come la frequenza dei contatti sociali o il numero di amici), è maggiormente influenzata dalle valutazioni soggettive di queste relazioni, come la soddisfazione per le relazioni o l’accettazione sociale percepita come risultato di tali relazioni (Motta, 2021).

Esplorare tali questioni ha implicazioni per le future ricerche sul concetto di solitudine. Ciò consentirebbe a sua volta di progettare nuovi trattamenti e interventi.

SAPAP3: un primo passo verso l’individuazione delle basi proteiche del Disturbo Ossessivo-Compulsivo 

Scoprire le cause neurobiologiche dei disturbi mentali rappresenta una delle sfide maggiormente complesse e stimolanti per i ricercatori del presente e del futuro. Nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) una delle spiegazioni più accreditate proviene al momento dagli studi di neuroimaging e fa riferimento alla presenza di alterazioni strutturali a carico del circuito corticostriatale (Calzà et al., 2019).

 

 A livello anatomico, il circuito corticostriatale comprende la corteccia orbitofrontale, la corteccia cingolata anteriore, i gangli della base e il talamo. Il suo funzionamento è fondamentale per il comportamento motorio e per la selezione delle strategie adattive. A livello funzionale, il circuito corticostriatale è implicato anche in una vasta gamma di processi cognitivi ed emotivi, tra cui: decision-making, comportamento orientato all’obiettivo, apprendimento basato sulla ricompensa, apprendimento procedurale e controllo dell’impulsività (Graybiel et al., 2000). Tuttavia, è possibile che la vulnerabilità psicologica presenti una radice ancor più profonda; vale a dire che essa sia rintracciabile già a partire da alcune proteine codificate dal nostro genoma.

Basi proteiche del DOC: SAPAP3

Esistono, dunque, delle basi proteiche del DOC?

Un articolo pubblicato su Nature da Soto e collaboratori (2023) ha provato a fornire una risposta a questa domanda. Il protide in questione è SAPAP3, ovvero una proteina citosolica codificata dal gene Dlgap3 ed espressa a livello striatale sia nei neuroni che negli astrociti, cioè delle cellule di supporto presenti nel nostro sistema nervoso centrale. L’evidenza che SAPAP3 fosse altamente implicata nell’eziopatogenesi del disturbo ossessivo compulsivo è stata il frutto di una serie di osservazioni.

Uno dei primi esperimenti in vivo condotti dai ricercatori consisteva nel somministrare SAPAP3 in maniera selettiva agli astrociti o ai neuroni presenti nello striato di topi knock-out per il gene che codificava per tale proteina (topi SAPAP3 KO, cioè animali nei quali era stato eliminato il gene Dlgap3 in modo tale da bloccare la sintesi di SAPAP3). Lo scopo era quello di verificare se l’espressione di SAPAP3 in uno dei due tipi di cellule attenuasse i comportamenti compulsivi emessi dagli animali sperimentali. Tra le compulsioni maggiormente osservate nei topi SAPAP3 KO –così come in altri modelli animali di DOC– vi è senz’altro la pulizia ripetitiva del proprio corpo (self-grooming), la quale, se reiterata, comporta delle lesioni cutanee a livello del muso dell’animale. I ricercatori hanno osservato che l’espressione di SAPAP3 sia negli astrociti che nei neuroni striatali produce una diminuzione dell’area delle lesioni facciali, del numero di lesioni, del numero di tentativi di self-groomig e del tempo totale che i topi trascorrevano a pulirsi.

Per quanto riguarda invece i comportamenti ansiosi e di evitamento, gli studiosi hanno considerato come unità di analisi la deambulazione degli animali nell’Elevated Plus Maze (EPM) test, ovvero un apparato sperimentale composto da due bracci aperti e da due bracci chiusi posizionati perpendicolarmente e separati da una piccola piattaforma centrale che consente all’animale di muoversi liberamente all’interno della struttura, e in campo aperto (open-field test), ovvero quando essi venivano posizionati in una struttura quadrata che non prevedeva particolari restrizioni. I ricercatori hanno notato come la distanza totale percorsa dai topi SAPAP3 KO e la loro velocità media di percorrenza in campo aperto venissero implementate in maniera similare dall’espressione di SAPAP3 sia negli astrociti che nei neuroni striatali. Al contrario, il tempo trascorso nei bracci aperti dell’Elevated Plus Maze test e al centro del campo aperto venivano incrementati solamente dall’espressione neuronale di SAPAP3, il che suggerisce la presenza di un effetto della sintesi di SAPAP3 sul comportamento ansioso limitatamente a quei casi in cui essa si verifichi a livello neuronale. Una volta ottenuti, questi risultati sono stati confrontati con gli effetti di una terapia di prima scelta per il trattamento del DOC, ovvero la somministrazione di fluoxetina. Nei topi SAPAP3 KO l’espressione di SAPAP3 negli astrociti striatali produceva effetti benefici simili a quelli della fluoxetina sul numero di tentativi di self-grooming e sul tempo totale che i topi trascorrevano a pulirsi.

ΔFosB e SAPAP3

 Con lo scopo di far luce sui legami tra i meccanismi molecolari e i comportamenti tipici del DOC, gli scienziati si sono poi concentrati sull’alterazione dell’attività cerebrale in vivo misurando negli animali sperimentali i livelli di ΔFosB, un biomarcatore dell’aumento dell’attività neuronale. I ricercatori hanno rilevato un aumento dei livelli di ΔFosB nei neuroni striatali dei topi SAPAP3 KO, il quale veniva però ripristinato dall’espressione di SAPAP3 sia a livello astrocitario che neuronale. D’altra parte, l’aumento dei livelli di ΔFosB nei neuroni appartenenti alla corteccia motoria e alla corteccia orbitofrontale laterale degli animali non veniva influenzato dall’espressione di SAPAP3 negli astrociti o nei neuroni striatali. Ciò indicava che gli effetti comportamentali sortiti dalla sintesi di SAPAP3 originavano specificamente dalle cellule dello striato.

Infine, è stata eseguita una proteomica striatale, ovvero un’identificazione sistematica delle proteine e la loro caratterizzazione, nei topi SAPAP3 KO in modo da verificare se i cambiamenti proteici osservati negli animali fossero correlati ad alterazioni dell’espressione genica nel tessuto post-mortem di individui con DOC o, più in generale, all’espressione genica astrocitaria e neuronale. Delle 66 proteine individuate, tutte erano espresse negli astrociti o nei neuroni. Inoltre, i geni che codificavano per 44 di esse risultavano up-regolati o down-regolati nel DOC umano. Molti di questi geni erano altamente espressi negli astrociti e nei neuroni in maniera differenziata tra i controlli sani e gli individui affetti da DOC.

Interessante è anche l’evidenza che gran parte dei geni associati all’emissione dei comportamenti ripetitivi tipici del DOC e della Sindrome e di Tourette venissero espressi negli astrociti o nei neuroni e che alcuni di essi figurassero tra gli interattori di SAPAP3 precedentemente individuati negli animali. Queste analisi condotte sull’essere umano supportano le scoperte fatte nei topi, secondo cui i cambiamenti molecolari associati al DOC influenzano la segnalazione sia negli astrociti, sia nei neuroni. Tuttavia, è necessario ricordare che nei topi l’espressione post-natale di Dlgap3 negli astrociti e nei neuroni è differente, il che apre le porte a future ricerche su come l’espressione di SAPAP3 possa essere correlata all’emergere del DOC durante lo sviluppo e l’adolescenza.

Guardando ai risultati ottenuti da Soto e colleghi (2023), l’ipotesi è che nell’eziopatogenesi dei disturbi mentali siano coinvolti non solo fattori ambientali, cognitivi e comportamentali, ma anche fattori genetici, o meglio, che esista una vera e propria base proteica della vulnerabilità psicologica.

The Whale: il trauma della perdita dell’Altro come condanna a vita – Recensione

Charlie (il protagonista di “The Whale”, il padre ed il “colpevole”) mangia per la moglie che dopo la separazione è diventata un’alcolista, mangia per la figlia che sente di aver perso, mangia per la perdita del compagno a causa e grazie al quale ha perso il nucleo centrale della sua vita: la famiglia che aveva costruito.

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

… la colpa è il fardello che il passato fa pesare sul futuro. È questo fardello che il perdono vorrebbe alleggerire, ma all’inizio questo fardello pesa: ed è il futuro che pesa… (Ricoeur, 2004).

 Un uomo, l’obesità, l’omosessualità e una storia che si dipana tra la fame d’amore sostituita dal cibo e la fragilità umana di fronte al vuoto: un abisso vorace che fagocita i protagonisti, che quasi senza voce per domandare ed orecchie che ascoltano non riescono a comunicare dell’Altro e con l’Altro.

Di questo film si è parlato molto: gli attori, la trama, le increspature della vita e l’urlo del regista che sembra parafrasare le parole di Lacan: “l’urlo è l’abisso in cui il silenzio precipita” (Lacan, 1965).

La scena che apre i rapporti tra i protagonisti è quella dell’incontro tra un padre e una figlia.

Gli occhi di questa figlia guardano il padre obeso, quell’uomo che a fatica si era lavato e sbarbato per l’incontro con il perturbante: lei.

“Freud con la parola tedesca unheimlich [perturbante] designa l’antitesi di heimlich [da Heim, casa}, heimirch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, e sembra plausibile dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare” (Jentsch, 1900).

Che un padre nell’attesa di una figlia sia divorato dall’incertezza e ne sia turbato, che una figlia vada all’incontro con il padre corazzata e pronta a difendersi mostra che, affinché questo incontro sia perturbante per entrambi, con probabilità si arriva a pensare che sia un avvenimento in cui non ci si “raccapezza”.

Entrambi non sanno raccapezzarsi e non sanno cosa dire. Il padre inizia con i suoi “mi dispiace”, che ricorrono più volte durante il film e che appaiono sinonimo di un uomo che ha detto troppi sì agli altri e grandi no a sé stesso, ed una figlia che lo guarda e chiede: “un giorno diventerò obesa come te?”. Ed è proprio in quel momento che il padre ri-trova la sua funzione paterna: nel rassicurare la ragazza dicendole che lui è stato sempre “grosso” e che lei è meravigliosa.

Charlie (il protagonista, il padre ed il “colpevole”) mangia per la moglie che dopo la separazione è diventata un’alcolista, mangia per la figlia che sente di aver perso, mangia per la perdita del compagno a causa e grazie al quale ha perso il nucleo centrale della sua vita: la famiglia che aveva costruito.

La figlia, Ellie, dopo poche parole ringrazia il padre per averla abbandonata ad 8 anni perché le ha insegnato una grande lezione: che le persone fanno “schifo” e l’ha preparata al futuro.

Il padre vende un po’ di sé stesso proponendo alla figlia di aiutarla nei temi e di pagarla, pagare la sua compagnia; questo sembra essere il patto, il compromesso, questa sembra essere l’eredità.

Il vero erede, però, è colui che ri-conquista ciò che è già suo.

Probabilmente l’eredità di Charlie è lasciare alla figlia la possibilità di ri-conquistarsi, smettendo di odiare gli Altri perché odia lui, e i soldi rappresentano una base sicura, l’unica base sicura che lui è riuscito a lasciarle insieme alla parole che ri-suonano più volte durante il film: “Tu, Ellie, sei meravigliosa ed intelligente”.

Alla fine del film, alla fine della vita di Charlie, la famiglia si ri-compone per qualche minuto e Charlie esclama “è la prima volta dopo anni che siamo stati di nuovo insieme..”;  una scena, quasi pirandelliana, inquadra la moglie che ascolta il suo sibilo, accoccolata tra le sue braccia.

In quel momento gli edemi, causati dall’obesità, il peso ponderale di Charlie, scompaiono, perché la scena che si pone e si impone è quella della tenerezza tra due persone, una tenerezza che sa guardare oltre.

La moglie chiude la scena parlandogli di Ospedale e lui sorride dicendo ancora “Mi dispiace”.

L’uomo non è soltanto la somma delle sue esperienze o relazioni che instaura, è ancor più la somma delle sue storie (Pittman, 1998), ed in questa storia i chilogrammi in più di Charlie, gli psicofarmaci e l’alcool della ex-moglie e la maschera di Ellie mostrano come la persona sia anche la sommatoria degli errori nella sua storia.

 In questo film la trama sembra soggetta a copione, mentre gli attori avrebbero avuto una possibilità di cambiare (Byng-Hall 1998): se Charlie, anziché chiedere alla figlia “chi mi vorrebbe nella sua vita?” alla fine della sua vita, lo avesse chiesto alla ragazza anni prima? Magari un dialogo si sarebbe aperto.. e se la ex moglie anziché anestetizzarsi avesse messo da parte sé stessa ed il rancore per il marito affinché la figlia riprendesse a comunicare con il famigliare? E se l’infermiera si fosse presa cura di Charlie affidandolo ai servizi?

In Charlie probabilmente la diagnosi sarebbe potuta giungere come una realtà dolorosa, ma conciliante, perché la malattia del singolo spiega le difficoltà del gruppo senza chiamare in causa quest’ultimo (Haley, 1963).

La storia, però, non si fa con i se e con i ma, ma con l’agito e questo film mostra duramente che il non agire è pur sempre una scelta.

I sintomi di questa storia appaiono sempre più come un segnale di disagio relazionale dell’intera famiglia, che sembra comunicare in questo modo l’esistenza di un conflitto tra continuità e cambiamento, tra legami di appartenenza e bisogni di individuazioni dei suoi singoli componenti. (Andolfi 2003)

Alla fine del film ciò che rimane impresso sono gli occhi di Charlie che si alza e cerca di andare verso la figlia, Ellie che lo cura leggendo un tema fatto da lei su “Moby Dick”, quella balena che ha accompagnato il padre durante i suoi vuoti, ed una luce che sembra fare un po’ di luce al buio di questa storia, svelando il ricordo della famiglia al mare, durante l’ultima vacanza insieme, i piedi di Charlie che si bagnano in quell’acqua che gli ricorda che è stato felice.

Gli occhi di Ellie che ascolta le parole del padre: “sei una meraviglia” si bagnano ed il film si chiude forse lasciandoci con la speranza che un giorno tutte le Ellie abbandonate da un genitore comprenderanno che “il padre non può essere pensato come ciò che riempie il vuoto centrale dell’Altro” (cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan, 2012, p. 199).

Componenti emotive, cognitive e comportamentali del black humor

Il black humor è un tipo di umorismo che tratta in maniera sfacciatamente divertente argomenti sinistri o infelici, tra cui la morte, la malattia, la deformità e la guerra (Mindess et al. 1985; Baldick 2001).

Che cos’è il black humor?

 Più semplicemente, si tratta di fornire una rappresentazione di situazioni tragiche, angoscianti o morbose in termini prettamente umoristici. Chiamato talvolta anche grottesco, morboso, forcaiolo o malato, il black humor viene utilizzato per esprimere l’assurdità, l’insensibilità, il paradosso e la crudeltà del mondo moderno. I personaggi o le situazioni oggetto di scherno vanno spesso ben oltre i limiti imposti della satira o dall’ironia, richiedendo così un maggiore sforzo cognitivo da parte dell’ascoltatore al fine di “cogliere” la battuta. Non è un caso che il black humor utilizzi frequentemente lemmi o strutture semantiche tipiche della tragedia, tant’è che talvolta esso viene equiparato alla farsa tragica (Lagasse et al. 2000). Malgrado la sua complessità, questa forma di umorismo viene percepita dagli individui non solo come morbosa, volgare, irriverente o contorta, ma anche, e soprattutto, come molto divertente e sagace (Maxwell, 2003).

Processamento dell’umorismo: componenti cognitive

Le indagini sui processi cognitivi coinvolti nella comprensione dell’umorismo si basano sul modello di risoluzione dell’incongruenza costruito da Jerry M. Suls (1972). Quest’ultimo postula che l’umorismo venga elaborato attraverso un meccanismo a due fasi:

  • la prima implica il richiamo alla memoria delle conoscenze di base necessarie per la comprensione del problema;
  • la seconda chiama in causa le capacità di problem-solving dell’individuo.

In altre parole, si tratta di comprendere prima l’enigma che si cela dietro la battuta per poi risolverlo subito dopo. Oltre al probem-solving, l’elaborazione dell’umorismo parrebbe dipendere anche da altre capacità cognitive, quali l’intelligenza e le abilità verbali (Shammi & Stuss 1999; Vrticka et al. 2013). A tal proposito, Feingold & Mazzella (1991) hanno messo in luce delle robuste relazioni tra misure verbali e ragionamento umoristico. Wierzbicki & Young (1978) hanno dimostrato che l’intelligenza verbale era positivamente correlata alla comprensione dell’umorismo. Greengross & Miller (2011) hanno sottolineato che le abilità umoristiche erano maggiormente associate all’intelligenza verbale, rispetto al ragionamento astratto.

Processamento dell’umorismo: componenti emotive

Nonostante la rilevanza dei processi cognitivi, l’elaborazione dell’umorismo coinvolge inoltre degli aspetti di natura emotiva. Difatti, possedere un’intelligenza elevata non influenza solo gli aspetti cognitivi dell’elaborazione dell’umorismo, ma anche le sue componenti affettive (Vrticka et al. 2013). Considerando, per esempio, il ruolo dell’umore nell’apprezzamento di battute sarcastiche, è stato osservato che un aumento dei sintomi depressivi si associava a un minor utilizzo dell’umorismo per affrontare eventi di vita stressanti (Deaner & McConatha, 1993). Neumann e colleghi (2001) hanno dimostrato che la risposta degli individui a questo genere di umorismo veniva influenzata principalmente dall’umore preesistente alla battuta, il quale aumentava l’intensità delle emozioni congruenti con esso e smorzava invece quelle incongruenti con lo stesso.

Secondo Ruch & Kohler (1998), i tratti dell’ilarità (cheerfulness), della serietà (seriousness) e del cattivo umore (bad mood) rappresenterebbero le basi temperamentali dell’umorismo. Individui con un alto livello di ilarità presentano infatti una bassa soglia per la risata, mentre coloro che riportano alti livelli di bad mood non sembrano essere in grado di cogliere battute di spirito e si mostrano tristi anche in situazioni che generalmente suscitano allegria.

Umorismo e Aggressività

Interessanti sono infine le evidenze disponibili in letteratura sul rapporto tra umorismo e aggressività. McCauley e colleghi (1983) hanno riscontrato una forte associazione tra queste due variabili in un gruppo di soggetti impegnati a giudicare una serie di vignette canzonatorie.

Prerost (1983) ha dimostrato che individui in uno stato d’animo aggressivo percepivano l’umorismo spinto come più divertente rispetto a partecipanti in uno stato d’animo non-aggressivo. Inoltre, elevati livelli di arousal nei soggetti aggressivi erano associati a un maggiore apprezzamento di questo genere di comicità.

 In un studio condotto da Herzog & Karafa (1998) è stata misurata la preferenza mostrata da un gruppo di studenti universitari per delle barzellette su temi di morte o di handicap (mero black humor) rispetto a delle barzellette nonsense, di satira sociale o filosofica; un umorismo che possibilmente, ma non necessariamente, toccava argomenti seri, ma non sinistri e tragici come accade invece con il black humor. Le analisi dei dati hanno mostrato che le prime battute venivano preferite meno rispetto alle seconde, ma che al contempo il senso dell’umorismo era positivamente associato con la preferenza per le prime. Mentre l’adeguatezza e la sorpresa risultavano positivamente associate alla preferenza, la crudeltà delle battute appariva negativamente correlata alla preferenza (Herzog & Karafa, 1998).

Chi comprende meglio il black humor?

Processi cognitivi, emotivi e aggressività in relazione al black humor sono state indagate in un unico studio pubblicato da Willinger e colleghi (2017) allo scopo di individuare dei gruppi di individui che differissero nelle capacità di elaborazione di questa forma specifica di umorismo. Il risultato più sorprendente ottenuto dai ricercatori è stato che i soggetti che mostravano valori elevati rispetto alla preferenza e alla comprensione del black humor presentassero anche valori elevati rispetto all’intelligenza e all’istruzione, mentre esibivano valori più bassi per quanto riguardava l’aggressività ed eventuali disturbi dell’umore. D’altra parte, coloro che ottenevano punteggi medi di intelligenza verbale e non verbale, elevati disturbi dell’umore e un’alta aggressività, riportavano valori più bassi circa la comprensione e la preferenza del black humor (Willinger et al., 2017). In altre parole, persone più intelligenti, meno aggressive e meno disturbate sul piano affettivo apprezzavano particolarmente il black humor, mentre individui meno istruiti, più aggressivi e dall’umore maggiormente instabile non lo gradivano affatto.

Al di là delle specificità inter-individuali, questi risultati supportano l’ipotesi che l’elaborazione dell’umorismo, in particolare del black humor, rappresenti un compito complesso che dipende da processi cognitivi ed emotivi decisamente eterogenei.

Esplorando le differenze tra timidezza e introversione

Timidezza e introversione sono comunemente sovrapposte e usate in modo intercambiabile nel linguaggio comune. Tuttavia, la timidezza è teoricamente ed empiricamente distinta dall’introversione.

Timidezza

 Il termine “timidezza” è stato utilizzato per riferirsi a un’ampia gamma di esperienze. La timidezza può essere definita come una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, in particolare quando si è di fronte a qualcosa di nuovo o quando si percepisce una valutazione sociale. Può manifestarsi in modi diversi, con comportamenti reticenti e diffidenti, e può essere correlata a diversi aspetti, tra cui la preoccupazione di valutazioni negative e dell’attenzione del pubblico, di situazioni formali e di violazione della privacy.

Le persone timide tipicamente sono indecise, insicure e impacciate, esitano ad agire a relazionarsi con gli altri.

La timidezza è concettualizzata come un tratto temperamentale, ovvero un aspetto innato che rimane stabile nel tempo. È un fenomeno di grande interesse nello studio del comportamento umano, poiché l’interazione e la connessione sociale sono fondamentali per gli esseri umani. Nonostante la timidezza sia una caratteristica presente in varia misura in tutti gli individui e che esiste da molto tempo, le ragioni che la sottendono sono ancora poco conosciute.

Gran parte della ricerca scientifica sulla timidezza si è focalizzata principalmente sui suoi aspetti negativi e sulle conseguenze che può avere. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, si è sviluppato un cambio di prospettiva che ha iniziato a considerare anche gli aspetti positivi e adattivi della timidezza. Nel tempo è avvenuta una vera e propria “de-patologizzazione” della timidezza. I ricercatori hanno iniziato a mettere in discussione l’idea di considerarla come una condizione patologica e ad evitare una medicalizzazione eccessiva, di quella che spesso è una normale variazione del modo di essere di una persona.

È anche vero che è stato osservato che le forme estreme di timidezza sono predittive del disturbo d’ansia sociale, dei disturbi internalizzanti (come depressione e altri disturbi d’ansia) e in generale difficoltà socio-emotive.

Tuttavia, sebbene alcuni individui timidi siano a rischio di sviluppare comportamenti disadattivi (per esempio riconducibili a sintomi internalizzanti), la timidezza non è sempre intrinsecamente problematica. La timidezza è un fenomeno onnipresente nell’esperienza umana, fino al 90% della popolazione la sperimenta in qualche momento della propria vita, invece una percentuale minore, pari a circa il 15% degli individui, è caratterizzata da timidezza temperamentale, che si presume abbia un esordio precoce e mostri stabilità nel tempo.

Ma le persone silenziose e riservate, si comportano in questo modo perché si sentono inibite e ansiose nelle situazioni sociali (quindi sono timide), oppure perché preferiscono stare da sole (quindi sono introverse)? E qual è la differenza?

Introversione

Nella società moderna, l’estroversione viene spesso lodata come un tratto di personalità desiderabile, associato a una vita sociale intensa e a un’energia contagiosa. Tuttavia, esiste un altro aspetto della personalità altrettanto prezioso e affascinante: l’introversione.

L’introversione è un tratto della personalità che si posiziona all’estremo opposto dell’estroversione nella dimensione introversione-estroversione, teorizzata nel modello della personalità a 5 fattori da McCrae e Costa (1987). Gli introversi sono caratterizzati da una predisposizione alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Preferiscono spesso trascorrere del tempo da soli, utilizzando quei momenti per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Gli introversi hanno spesso una vita interiore ricca e intensa. Sono riflessivi e trovano piacere nell’approfondire le loro conoscenze e intuizioni. La quiete li aiuta a concentrarsi su se stessi e ad esplorare le profondità della propria mente. Questa predisposizione alla riflessione e all’introspezione può condurre a una maggiore consapevolezza di sé, alla creatività e alla capacità di affrontare le sfide in modo ponderato.

L’introversione spesso è stata fraintesa come timidezza o mancanza di capacità sociali. Tuttavia, essere introversi non significa necessariamente essere timidi. Gli introversi possono eccellere nelle interazioni sociali quando si tratta di connessioni più profonde e significative. Preferiscono la qualità nelle relazioni alla quantità delle relazioni e possono offrire un ascolto attento e una presenza tranquilla, ciò crea un ambiente confortevole per l’altro.

La capacità di trascorrere del tempo da soli può consentire agli introversi di sviluppare una profonda comprensione di sé stessi, di coltivare le proprie passioni e di recuperare energie, cosa che spesso promuove le interazioni sociali. Inoltre, gli introversi sono spesso osservatori attenti, in grado di cogliere dettagli sfuggenti e di apprezzare la bellezza dei momenti tranquilli.

 È importante sottolineare che l’introversione non è un tratto esclusivo e che molti individui presentano caratteristiche sia introverse che estroverse. Non si tratta di un binario rigido, ma di un continuum in cui le persone possono trovarsi in posizioni diverse a seconda del contesto e delle circostanze. Comprendere e apprezzare il delicato equilibrio tra introversione ed estroversione può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità all’interno della società.

La cultura occidentale spesso enfatizza l’estroversione come l’ideale da raggiungere, promuovendo l’immagine dell’individuo socievole e carismatico come modello di successo. Tuttavia, altre culture valorizzano l’introversione come un tratto di saggezza e rispetto per sé stessi e gli altri. Ad esempio, in molte tradizioni orientali, l’introversione è considerata come una caratteristica preziosa per la meditazione.

La chiave per vivere appieno l’introversione è l’autenticità. Gli introversi possono migliorare il proprio benessere abbracciando la propria natura e ascoltando i propri bisogni, nonostante il modello di successo trasmesso dalla società (l’individuo estroverso). Ciò significa trovare modi personalizzati per bilanciare momenti di solitudine rigenerante con opportunità di connessione sociale significativa. Trovare un ambiente che favorisca l’espressione autentica della propria personalità può aiutare gli introversi a fiorire e a contribuire in modo unico alla società.

Differenze tra timidezza e introversione

L’introversione è diversa dalla timidezza dal punto di vista teorico ed empirico.

La timidezza è una predisposizione temperamentale, spesso associata a una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, specialmente quando si affronta qualcosa di nuovo o si percepisce una valutazione sociale. D’altra parte, l’introversione è un tratto di personalità caratterizzato da una preferenza alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Gli introversi non provano necessariamente ansia nelle interazioni sociali, ma preferiscono trascorrere del tempo da soli per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Le persone timide tendono a esitare nell’interagire con gli altri a causa dell’insicurezza e della preoccupazione riguardo le valutazioni negative e l’attenzione da parte dell’ambiente sociale. Gli introversi, d’altra parte, possono preferire poche relazioni sociali di qualità rispetto a numerose connessioni superficiali. Sono spesso in grado di offrire ascolto attento e una presenza tranquilla, creando un ambiente confortevole per gli altri.

La timidezza è principalmente correlata all’ansia sociale e ai pensieri negativi come la paura di essere giudicati, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete, la riservatezza e l’introspezione.

È importante notare che timidezza e introversione non sono mutuamente esclusive e possono coesistere in diverse misure nelle persone. Inoltre, non tutte le persone timide sono necessariamente introverse, e viceversa.

In conclusione, sebbene timidezza e introversione siano spesso intrecciate nel linguaggio comune, sono concettualmente ed empiricamente distinte. La timidezza è caratterizzata da una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, mentre l’introversione è una preferenza per la riservatezza e l’introspezione. La timidezza è una caratteristica del temperamento delle persone, e –se eccessiva– può predire un disturbo d’ansia in futuro, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete e la riflessione. Tuttavia, nessuna delle due caratteristiche è patologica di per sé.

Comprendere queste differenze può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità presenti nella società e ad apprezzarne le caratteristiche.

 

Self-discrepancy: di cosa si tratta e quali sono i fattori protettivi

L’individuo sperimenta self-discrepancy quando i concetti di sé reale, sé ideale e sé normativo non coincidono. Tale discrepanza può portare a sentimenti di depressione e ansia. L’attitudine alla resilienza e la capacità di regolare le proprie emozioni risultano fattori protettivi nel fronteggiare la discrepanza percepita.

Cos’è la self-discrepancy

 La discrepanza fra i diversi concetti di sé, o self-discrepancy, e il disagio psicologico che questo crea nell’individuo sono temi esplorati nel tempo da diversi autori (Freud, 1933/1964; James, 1890; Horney, 1950; Rogers, 1961). Tuttavia, solo Higgins (1987) fu in grado di proporre un modello sistematico che fosse capace di mettere in relazione specifici tipi di self-discrepancy con alcune tipiche conseguenze emotive.

Secondo la teoria della self-discrepancy di Higgins (1987), l’individuo possiede tre differenti concetti di sé:

  • Reale, che è definito dagli attributi che la persona crede di avere attualmente;
  • Ideale, che corrisponde all’insieme di caratteristiche che l’individuo idealmente vorrebbe avere, in base a speranze e desideri;
  • Normativo, che rappresenta gli attributi che l’individuo pensa che dovrebbe possedere, in base a doveri e responsabilità.

A completamento della concettualizzazione di Higgins (1987), Ogilvie (1987) propose l’aggiunta di un quarto concetto di sé, il Sé Indesiderato. Questo può essere definito come il peggiore dei sé possibili, come l’istanza che raccoglie in sé tutti gli attributi che la persona non vorrebbe avere. Poiché basato su eventi reali e vissuti, si tratta di un concetto cruciale nei processi di auto-valutazione e di benessere psicologico, a differenza del Sé Ideale, che si concettualizza più come un’idea solo immaginata di sé.

Ansia e depressione come risposte alla self-discrepancy

La teoria assume che, a seconda delle discrepanze fra i concetti di sé, possono emergere vulnerabilità a specifiche emozioni. In particolare:

  • La discrepanza fra il Sé Reale e il Sé Ideale causerebbe un generale sconforto, dunque tristezza, insoddisfazione e depressione;
  • La discrepanza tra il Sé Reale e il Sé normativo causerebbe uno stato di agitazione, dunque ansia, paura e nervosismo.

Di base, maggiore è lo scarto che l’individuo percepisce fra i concetti di sé e il numero di disallineamenti o mancate corrispondenze, maggiore sarà l’intensità del disagio psicologico che proverà.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di sondare l’evidenza scientifica delle relazioni suggerite da Higgins (1987) fra specifiche discrepanze del sé e specifiche emozioni, ma i risultati sono apparsi spesso contraddittori. Alcuni studi hanno confermato che soggetti con elevata depressione riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Ideale e soggetti con elevata ansia riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Normativo; una recente meta-analisi (Mason et al., 2019), invece, ha riscontrato che discrepanze relative sia al Sé Ideale sia al Sé Normativo possono far scaturire sia ansia sia depressione, senza che fra essi sussistano dei legami univoci come postulato da Higgins (1987). Secondo l’ipotesi di Ozgul (et al., 2003), dal momento che gli individui internalizzano norme, valori e regole culturali da cui discendono standard ideali e normativi differenti, per la ricerca potrebbe essere difficile tipizzare in senso categoriale e assoluto concetti di Sé Ideale e di Sé Normativo che siano uguali per tutti.

I fattori protettivi: abilità di regolazione emotiva e resilienza

Alla luce dei risultati contraddittori ottenuti, fu lo stesso Higgins (1999) a suggerire agli studiosi di focalizzarsi su una nuova domanda di ricerca: “quando c’è l’effetto?”, ossia “in quali condizioni specifiche discrepanze del sé portano a sviluppare specifiche conseguenze emotive, come predetto dalla teoria?”. Ciò spinse i ricercatori a sondare i possibili fattori in grado di moderare tale relazione. Lo studio di Gurcan-Yilirim e Gencoz (2020), partendo dal presupposto che, in presenza di self-discrepancy, alcune capacità psicologiche risultano dei fattori protettivi contro stati emotivi negativi, si è posto l’obiettivo di valutare la funzione protettiva dell’abilità di regolazione emotiva e di resilienza.

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva è il processo attraverso cui gli individui sentono, comprendono, gestiscono ed esprimono le loro emozioni. I suoi elementi distintivi sono la comprensione, la consapevolezza e l’accettazione delle emozioni, il controllare i comportamenti impulsivi, quando si sperimentano emozioni negative, e l’avere accesso a delle strategie che aiutino a modulare le risposte emotive.

 All’interno della cornice teorica di Higgins (1987), si presume che le persone che non riescono a raggiungere i loro standard ideali o normativi o a discostarsi dai loro standard indesiderati possono provare ansia e depressione. In questa direzione, la capacità di regolazione emotiva potrebbe proteggere gli individui da tali esiti emotivi negativi: in presenza di self-discrepancy, più un individuo agisce con consapevolezza e accettazione delle proprie emozioni, più riuscirà a regolare efficacemente quelle negative che conseguono la percezione dello scarto fra i differenti sé.

Resilienza

La resilienza è l’abilità di mantenere o riacquistare uno stato di benessere psicofisico nonostante le esperienze avverse vissute. Si tratta di un insieme di attributi personali che permettono all’individuo di crescere anche nel momento in cui si devono fronteggiare eventi di vita negativi: adattabilità, capacità di problem solving, fiducia in se stessi, senso di supporto sociale, tolleranza agli affetti negativi, capacità di definire chiari obiettivi, orientamento all’azione, attitudine ad accettare positivamente il cambiamento e ad avere un forte scopo nella vita.

È possibile ipotizzare che, in presenza di self-discrepancy, tali caratteristiche siano un fattore protettivo che non permette di sviluppare significativo disagio psicologico: di fatto, anche in presenza di emozioni negative, le persone resilienti potrebbero vedere lo stress come un’opportunità per crescere, abbandonandosi a sentimenti negativi per meno tempo.

Conclusioni

Alla luce di quanto considerato, sarebbe auspicabile che nei programmi di benessere psicologico gli interventi prendano in considerazione l’importanza che i diversi concetti di sé rivestono nella vita emotiva dell’individuo. Sarebbe opportuno sia comprendere gli obiettivi e gli standard che le persone hanno relativamente ai loro Sé Ideali, Normativi e Indesiderati, così da aiutarle a ridurre il disagio psicologico in presenza di self-discrepancy, sia concentrarsi sul miglioramento delle loro capacità di regolazione delle emozioni e della resilienza, in qualità di strategie di coping protettive.

Perdonare se stessi e gli altri (2023) di Guidalberto Bormolini e Roberta Milanese – Recensione

Il perdono, “un balsamo miracoloso” in grado di curare le ferite emotive. Questo il tema del testo “Perdonare se stessi e gli altri. Strategie per fare pace con il passato”, scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione di un noto monaco Guidalberto Bormolini ed una stimata psicoterapeuta, Roberta Milanese, entrambi autori di già numerose pubblicazioni.

Il perdono libera l’anima, rimuove la paura.
È per questo che il perdono è un’arma potente.

Cit. Nelson Mandela (p.5)

 Il perdono non è soltanto oggetto di interesse nell’ambito della religione, ma anche in quello di diversi altri settori, dalla psicologia alla spiritualità e alla medicina; negli ultimi trent’anni ne sono stati messi in luce i suoi effetti benefici a livello psicofisico. Un “balsamo miracoloso” per le ferite emotive, lo definiscono gli autori del testo, ma, seppur utile, estremamente difficile da concedere e concedersi.

Rabbia, risentimento, rancore sono tra le emozioni che abitano il cuore della persona ferita, emozioni che diventano tossiche più per chi le prova che per la persona a cui sono indirizzate, ossia l’offensore. Ma chi è in grado di ferirci di più?

Genitori, fratelli, figli, partner. Spesso infatti la ferita è molto più sensibile al tipo di legame affettivo che all’effettivo danno.

Ma, ancora, dolore, senso di colpa, rimorso, vergogna, paura di soffrire nuovamente, desiderio di vendetta, spesso attanagliano la persona ferita, ma come affermava Francis Bacon “un uomo che medita la vendetta mantiene fresche le sue ferite” (p.20).

Cosa rende difficile perdonare?

Gli autori offrono ampie riflessioni, tra queste il confondere il perdonare con il dimenticare, perdonare come “scusare”.

“Nel perdono non si scusa il torto, ma ci si libera di tutte le emozioni e i pensieri negativi legati al ricordo di ciò che si è vissuto” (p.41).

Tra le spiegazioni rientrano anche il bisogno di giustizia, spesso mascherato di desiderio di vendetta, la tendenza a giudicare, ritenere il perdono come atto di debolezza, temere che perdonare debba per forza corrispondere al riconciliarsi.

Nella seconda parte del testo viene approfondito invece, come tali ferite emotive, affinché possano guarire, necessitino di tempo e di cura da parte della persona.

 Il testo si focalizza anche sul lavoro in psicoterapia, offrendo utili spunti, tecniche per gli addetti ai lavori, funzionali all’accompagnamento nel difficile, ma non impossibile, viaggio del perdono. Tra queste la scrittura dei torti subiti, la “congiura del silenzio” come manovra terapeutica utile ad evitare il continuo socializzare del problema, l’“epistolario della rabbia e della vendetta”, utile strumento volto a far decantare emozioni tossiche che impedirebbero il perdono, ed altro ancora, esposto con chiarezza e precisione.

Infine, l’ultima parte apre le porte a riflessioni più profonde sul registro spirituale. Il significato e l’importanza del perdono all’interno della religione cristiana, la confessione come strumento potente di riconciliazione, il perdono concesso anche in ambito giuridico. Tutti gli ambiti dell’uomo sono intrisi di colpe, pene e perdono per tornare alla vita; ancora una volta si evidenzia come il perdono sia faticoso ma essenziale strumento di guarigione non tanto e non solo verso chi è rivolto, quanto per la stessa persona che lo concede.

Una lettura dal tema importante ma resa leggera, un pregio riconoscibile nello stile di entrambi gli autori del testo. Se il perdono è un prezioso dono, questo testo ne sa esaltare anche la bellezza e utilità.

L’accettazione del lutto

Approfondiamo di seguito il lutto e la sua elaborazione, soffermandoci sull’accettazione come fase finale e indicando infine gli orientamenti terapeutici di riferimento.

 Accettare una perdita significativa non è un processo semplice. Alla fine, però, si arriva a un punto in cui si può riconoscere che la perdita è avvenuta e ci si adatta al cambiamento. L’accettazione è considerata l’ultima fase della teoria del lutto ideata dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Tale teoria offre una visione del processo di elaborazione del lutto, la cui accettazione porta alla comprensione di una nuova realtà che può illuminare il cammino per uscire dal lutto.

Introduzione

L’incontro dell’uomo con la morte è uno degli argomenti su cui più si è scritto dall’inizio della stessa apparizione dell’uomo sulla terra. Numerosi sono i riferimenti bibliografici e filmici che ci accompagnano fin dall’infanzia; pensiamo, ad esempio, alla morte di Mufasa ne “Il Re Leone” o a quella della mamma di Bambi. Sono forse un mezzo fornitoci per normalizzare la morte e aiutarci a capire che è solo una parte della vita? Il nostro modo abituale di vivere e di pensare, tuttavia, ci spinge a negare la temporaneità dell’esistenza e ci permette di accorgerci della morte solo quando tocca altri a noi vicini. Il lutto è infatti riconosciuto come il più grande fattore di stress che affrontiamo come esseri umani (O’Connor, 2019).

L’elaborazione del lutto

Il processo di elaborazione del lutto può essere complesso e non è uguale per tutti. Alcune reazioni generali e universali alla perdita sono l’incredulità per la morte, la rabbia, il pianto, la negazione, il senso di colpa ecc. Il senso di vuoto e l’intensa nostalgia del defunto sono i sintomi principali di un lutto prolungato. Nell’edizione rivista della Classificazione Internazionale delle malattie (ICD-11), il lutto è descritto come un intenso dolore emotivo, difficoltà ad accettare la perdita e incapacità di sperimentare uno stato d’animo positivo. Queste reazioni sono associate a una compromissione funzionale e durano più di sei mesi dopo la perdita (Pop-Jordanova, 2021). Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) questa condizione viene definita “disturbo da lutto persistente e complicato” quando perdura per oltre 12 mesi.

Nel 1969 la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross, ha proposto una teoria secondo la quale il lutto avviene in cinque fasi: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione.

  • Negazione: nella prima fase del processo di elaborazione del lutto, la negazione ci aiuta a minimizzare il dolore schiacciante della perdita. Mentre elaboriamo la realtà della perdita, cerchiamo anche di sopravvivere al dolore emotivo.
  • Rabbia: la seconda fase del lutto è la rabbia. Stiamo cercando di adattarci a una nuova realtà e probabilmente stiamo vivendo un forte disagio emotivo. Le cose da elaborare sono talmente tante che la rabbia può sembrare uno sfogo emotivo.
  • Contrattazione: quando si affronta una perdita, non è insolito sentirsi così disperati da essere disposti a fare qualsiasi cosa per alleviare o minimizzare il dolore. In questa fase del lutto, si può cercare di contrattare per cambiare la situazione, accettando di fare qualcosa in cambio di un sollievo dal dolore provato.
  • Depressione: durante la nostra esperienza di elaborazione del lutto, arriva un momento in cui la nostra immaginazione si calma e iniziamo lentamente a guardare alla realtà della nostra situazione attuale. In questa fase del lutto, tendiamo a chiuderci in noi stessi man mano che la tristezza aumenta.
  • Accettazione: quando arriviamo a un punto di accettazione, non smettiamo di sentire il dolore della perdita, ma non stiamo più resistendo alla realtà della nostra situazione e non stiamo lottando per renderla diversa.

L’accettazione del lutto

“Accettare non significa essere felici della perdita. Piuttosto, in questa fase si accettano finalmente il dolore e la perdita subiti e si inizia a guardare avanti e a pianificare il futuro” (Stroebe et al., 2017).

 Questa fase consiste nell’accettare il fatto che esiste una nuova realtà che non può essere cambiata e nel capire come tale realtà avrà un impatto sulla propria vita, sulle proprie relazioni e sulla propria traiettoria. Accettare non significa scivolare di nuovo nella negazione, fingendo che la perdita non sia avvenuta. Piuttosto, accettare significa abbracciare il presente, comprendere la portata della perdita piuttosto che combatterla, accettare la responsabilità di se stessi e delle proprie azioni e iniziare il viaggio verso una nuova fase della vita con soddisfazione.

L’accettazione è un concetto essenziale in diversi orientamenti terapeutici, tra cui l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT). Nell’ACT, accettazione significa aprirsi e fare spazio a emozioni, sensazioni e sofferenze, abbandonando la lotta contro di esse. Questo non implica volerle o farsele piacere, ma semplicemente offrire loro una casa affinché l’impulso a evitarle non finisca per esercitare un controllo sul comportamento (Presti & Miselli, 2018). Nella DBT, accettazione significa comprendere che tutti noi stiamo facendo del nostro meglio. La pratica dell’accettazione convalida le proprie emozioni, i propri pensieri e le proprie azioni. Ciò può aiutare a cambiare la propria prospettiva su una situazione e, normalizzando esperienze come il lutto, si possono trovare meccanismi di coping per affrontare lo stress ed emozioni complesse (Theriault, 2012).

Conclusioni

Le emozioni provocate da una perdita significativa possono essere molto difficili e, in alcuni casi, possono creare l’illusione che la propria vita sia irrimediabilmente compromessa. Come non si può controllare la pioggia che ha rovinato un’uscita, il volo perso che è costato una fortuna o le conseguenze di una relazione sentimentale, non è possibile controllare la perdita di qualcuno o qualcosa. L’accettazione spesso non è una pratica facile da implementare. Tuttavia, crea la possibilità di acquisire fiducia per il futuro, e agganciarsi a questa scelta iniziale diventa fondamentale per plasmare la propria realtà e superare il dolore.

Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood – Report dall’evento di Milano

Report del Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood tenutosi a Milano l’11 e il 12 maggio.

 

 Tony Atwood, psicologo clinico britannico, che esercita a Brisbane (Australia) è considerato il più grande esperto mondiale di Sindrome di Asperger. La Sindrome di Asperger rientra, secondo la più recente classificazione diagnostica, all’interno dello spettro dell’autismo (DSM 5, 2013), che prevede tre livelli che aiutano a identificare la gravità dei sintomi nei domini della comunicazione e dei comportamenti/interessi ristretti o ripetitivi. Le persone con Asperger sono quasi sempre sovrapponibili per caratteristiche alle persone con autismo lieve (livello 1) proprio perché la condizione di neurodiversità che le caratterizza richiederebbe di per sé un supporto minimo per funzionare negli ambiti di vita. Spesso però la società, nel non fornire questo aiuto minimo nei vari contesti, si rende responsabile di impoverire le risorse personali e ostacolare un progetto di vita finalizzato alla piena autonomia. Il mondo del lavoro gioca in questo un ruolo decisivo e il Prof. Atwood dedica proprio l’intero convegno a questo tema.

Come è noto, la sfera lavorativa è molto importante per ogni individuo, sia per l’aspetto economico, che contribuisce all’indipendenza, sia perché partecipa alla costruzione identitaria. La dignità data dal lavoro è però tutt’oggi un diritto non garantito a tutte le persone, specialmente a quelle che divergono da quegli standard di produttività ritenuti fondamentali. Ma questa non è che una delle ragioni per cui le persone con autismo, seppur altamente qualificate, non solo ritardano l’ingresso nel mondo del lavoro ma faticano anche a mantenere un impiego nel lungo periodo. Le caratteristiche specifiche della maggior parte delle persone nello spettro dell’autismo le portano ad esempio ad avere difficoltà nella gestione dello stress oppure ad avere atteggiamenti con colleghi e capi considerati socialmente non adeguati (ad esempio correggere un errore del capo di fronte ai colleghi). Le difficoltà sociali e relazionali che ne derivano si sommano spesso a quelle riscontrate negli altri ambiti della loro vita, minando il senso del proprio valore personale e inducendo spesso veri e propri stati depressivi. Atwood, riferendosi alla realtà australiana e inglese, attribuisce grande responsabilità al contesto socioculturale ed economico nel determinare la possibilità che le persone hanno di esprimere il proprio potenziale e lo fa condividendo il racconto di esperienze che sono tipiche anche del contesto italiano, questo perché le caratteristiche riconducibili all’autismo, spesso hanno come risposta universale l’esclusione.

Ma quali sono nel dettaglio le caratteristiche tipiche dell’Autismo che possono avere un impatto negativo in ambito lavorativo?

Le persone con autismo sono caratterizzate da una spiccata sensibilità sensoriale e da una generale difficoltà nella comprensione dei comportamenti sociali che richiede la capacità di decifrare le espressioni facciali e comprendere le infinite sfumature delle norme sociali, che per le persone neurotipiche sono frutto di apprendimenti spesso inconsci. Le persone con autismo possono non sapere, finché non gli viene esplicitamente insegnato, che correggere gli errori è una buona cosa ma se chi sbaglia è il capo, potrebbe essere opportuno non farlo o farlo con alcuni accorgimenti.

L’ipersensibilità sensoriale può aumentare il carico di stress perché spesso gli ambienti di lavoro sono rumorosi, le luci possono essere molto forti o può essere richiesto il contatto con superfici che risultano particolarmente sgradevoli al tatto.

Secondo Atwood, parlare dunque di inserimento lavorativo per persone con autismo, non può limitarsi alle riflessioni riguardo la mansione lavorativa, ma deve riguardare tutta la complessità che ruota attorno all’avere e mantenere un lavoro, dal colloquio all’eventuale licenziamento o cambio di mansione o luogo di lavoro; sappiamo che per le persone con autismo gestire i cambiamenti può risultare complicato ed è per questo che devono essere adeguatamente accompagnati.

Lo psicologo australiano sottolinea inoltre come la condizione di neurodiversità non sia rara ma ormai ampiamente diffusa, ciò rende la questione non più solo di appannaggio degli addetti ai lavori o dei familiari, ma anche della società tutta, che ha convenienza nel riconoscere le potenzialità e le caratteristiche delle persone con autismo. Anche il comparto legislativo, in relazione alla situazione italiana, dovrà andare in questa direzione, con politiche in grado di garantire ai cittadini con autismo la possibilità di manifestare le proprie peculiarità all’interno dei contesti lavorativi.

Questo potrà avvenire solo se i neurotipici si sforzeranno di riscrivere in parte le norme sociali nella direzione di una maggior inclusione della neurodiversità e, a quel punto, un capo che si sentirà correggere da un dipendente con autismo, ne saprà apprezzare la trasparenza e la dedizione al risultato.

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