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Che cos’è la FOFO?

Per superare la FOFO (Fear Of Finding Out) è importante adottare un approccio dinamico, aperto alla ricerca di informazioni e al processo decisionale.

 

 Tutti sappiamo perfettamente che lo struzzo mette la testa nella sabbia, infatti utilizziamo abitualmente questa immagine per descrivere un comportamento peculiare in cui evitiamo le informazioni che riteniamo possano essere sgradevoli. Recentemente, è stato coniato l’acronimo “FOFO” (dall’inglese Fear Of Finding Out, letteralmente “la paura di venire a sapere”) per descrivere la barriera psicologica che ci impedisce di approfondire un potenziale problema per la paura di ciò che potremmo scoprire.

Il termine si è diffuso inizialmente in campo medico, per descrivere chi ha paura di sottoporsi a cure mediche e di scoprire di poter avere una patologia. Ma la FOFO è stata poi applicata a diversi contesti, tra cui quello lavorativo. In questo ambito, il termine FOFO si riferisce a un fenomeno che si verifica all’interno delle organizzazioni quando i leader sono riluttanti a cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro convinzioni, decisioni o azioni. Questa tendenza può avere molte conseguenze negative per le organizzazioni, tra cui un impatto negativo sulla motivazione e sul benessere dei dipendenti, una riduzione dell’apertura e della fiducia e una diminuzione complessiva della creatività, dell’innovazione e della produttività dei lavoratori. La FOFO può riverberarsi sulla salute mentale e sulla salute generale dell’individuo.

Perché preferiamo evitare?

L’evitamento è una modalità di comportamento che consiste nell’allontanarsi da situazioni che percepiamo come pericolose. Al cospetto di una minaccia, che sia reale o meno, il nostro cervello genera una risposta di allarme finalizzata a evitare il pericolo. L’evitamento, perciò, è funzionale alla sopravvivenza. Tuttavia, nel momento in cui riduce le nostre possibilità di azione o conduce a risultati negativi, non solo diventa disadattivo, ma diventa anche la reazione primaria a emozioni quali l’ansia o la paura, come nel caso della FOFO. Quando siamo allarmati dalla novità, tendiamo a tutelare la nostra condizione fino a chiuderci nei confronti di altre informazioni, al fine di non mettere a repentaglio la sicurezza attuale. Andare incontro alla verità, infatti, potrebbe corrispondere a uscire dai nostri schemi, mettere in discussione le nostre certezze e, di conseguenza, far fronte a un cambiamento.

Quali sono le cause della FOFO?

Sebbene molti professionisti abbiano proposto un’ampia varietà di cause, quelle principali relative alla FOFO sono complesse e possono derivare da più fonti:

  • Pregiudizi cognitivi. Una spiegazione della FOFO è rappresentata dai bias cognitivi, come i bias di conferma e i bias di auto-protezione. Il bias di conferma è la tendenza a cercare informazioni che confermino le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti, mentre il bias di auto-protezione è la tendenza a vedere le proprie azioni e decisioni in una luce più favorevole. Entrambi questi pregiudizi possono portare alla FOFO creando una mentalità che resiste alle informazioni nuove o contrastanti.
  • Fattori emotivi. Questi includono la paura delle critiche o dell’esposizione delle proprie carenze. I leader che temono di essere criticati o che sono preoccupati di mostrare qualche incertezza possono evitare di cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro convinzioni o decisioni.
  • Fattori sistemici e culturali. Infine, la FOFO può essere determinata anche da fattori sistemici e culturali all’interno delle organizzazioni. Ad esempio, le strutture gerarchiche che limitano il flusso di informazioni e scoraggiano le opinioni dissenzienti possono creare una cultura dell’evitamento. Allo stesso modo, la mancanza di trasparenza nei processi decisionali può portare a un ambiente in cui i leader si sentono meno responsabili delle loro azioni e meno motivati a cercare informazioni che potrebbero mettere in discussione le loro decisioni.

Cosa possono fare i leader per affrontare e superare la FOFO?

 Per superare la FOFO è importante adottare un approccio dinamico, aperto alla ricerca di informazioni e al processo decisionale. Ciò implica la proattività nel cercare informazioni che possano mettere in discussione le proprie convinzioni, decisioni o azioni ed essere aperti a considerare nuove idee e feedback.

La rivista statunitense Forbes ha stilato delle misure specifiche da adottare:

  • Impegnarsi nell’apprendimento e nello sviluppo continui. I leader devono cercare continuamente nuove conoscenze e approfondimenti per rimanere informati e aggiornati. Devono essere disposti a imparare dalle loro esperienze, dai loro errori e dagli altri.
  • Promuovere una cultura della ricerca e della trasparenza. I leader devono creare un ambiente in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel porre domande e sfidare le ipotesi. In questo modo si promuove una cultura della trasparenza, in cui le informazioni vengono condivise apertamente e tutte le prospettive vengono prese in considerazione.
  • Promuovere prospettive diverse e sfide costruttive. I leader devono incoraggiare la diversità di pensiero e cercare prospettive alternative per mettere in discussione il proprio pensiero. Questo aiuta i leader a prendere decisioni informate basate su una gamma più ampia di informazioni.
  • Abbracciare una mentalità di crescita. I leader devono avere una mentalità di crescita, riconoscendo che cercare e incorporare i feedback è essenziale per la crescita personale e professionale.
  • Seguendo questi passaggi, i leader possono migliorare il loro processo decisionale e creare un’organizzazione più informata, adattabile e resiliente.

La specifica funzione del lettino: quando e perché utilizzarlo nel setting psicoanalitico 

Il terapeuta è un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona.

 

 Lungi dal costituire un semplice elemento di arredo, il lettino si rivela un elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, perché in grado di favorire il raggiungimento di molti degli obiettivi preposti dalla terapia. Primo tra tutti quello della libera associazione (Freud, 1895) che permette l’attivarsi di contenuti dell’Es rimossi, scissi o scotomizzati, attraverso uno stato di attenzione fluttuante – fatto di simboli e memorie somatiche – che tanto ricorda quello della dimensione onirica. E dunque del sogno.

Le funzioni specifiche del lettino in psicoanalisi

Freud (1899) ha evidenziato in numerose occasioni l’effetto rivelatore del sogno, inteso come dimensione onirica in grado di creare un accesso nel contenuto inconscio individuale e di favorirne la graduale emersione. Ma dato che il sogno è raggiungibile attraverso l’esperienza del sonno notturno, si rende necessario riprodurre, all’interno del setting, condizioni in grado di agevolare l’instaurarsi di uno stato di rilassamento simile – per funzioni ed effetti – a quello del sonno stesso.

Il lettino riesce in questo compito per una serie di motivazioni:

  • Prima di ogni altra cosa esso consente di sdraiarsi, e dunque di assumere quella condizione orizzontale necessaria all’addormentamento (Bollas, 1989). Chiudere gli occhi cercando di estraniarsi dall’ambiente circostante rende più facile indagare il proprio mondo interiore in una modalità inconsapevole e tuttavia volontaria, in grado di favorire l’emergere di pulsioni arcaiche provenienti dall’Es. Al contrario, la posizione verticale favorisce il mantenimento di stati di vigilanza collegati all’investimento egoico e dunque al principio secondario, e non consente l’allentamento dei meccanismi difensivi coscienti;
  • La posizione orizzontale consente l’instaurarsi di una rilassatezza che coinvolge gli apparati muscolo scheletrici e le funzioni motorie, costruendo un micro ambiente protetto e protettivo, nel quale il paziente può trovare rifugio. Il terapeuta non si trova di fronte a lui: è seduto alle sue spalle, in una poltrona che gli consente un ascolto attento ma non invasivo, presente e tuttavia discreto, grazie al quale la partecipazione empatica può alternarsi a stati di ritiro consapevole;
  • Non sentire proiettato su di Sé lo sguardo del terapeuta può agevolare il ritiro dagli investimenti egoici, laddove un’eccessiva vicinanza oculare potrebbe evocare vissuti transferali di controllo e rigidità, di per sé amplificatori del mantenimento del processo secondario. “L’occhio dell’analista che guarda può ripetere un’intromissione traumatica nella mente, invadendo un segreto spazio di intimità (Nicolò, 2021, p. 129). L’occhio vigilante del terapeuta può essere identificato, in un transfert di resistenza, con la figura persecutoria di un genitore intrusivo che non consente spazio al sé, invalidando la funzione retrospettiva. Sono i figli di quelle famiglie psichicamente indifferenziate -e per questo preclusive della creazione di un Sé autonomo- in cui lo spazio vitale viene messo continuamente in discussione da un altro persecutore e ipercritico. Pazienti resi oggetto di invasioni psicosomatiche da parte di genitori incistanti, interiorizzati come oggetti sabotanti e persecutori, possono sentirsi giudicati e allo stesso modo perseguitati dall’elemento visivo. In questo caso l’occhio non osserva per vedere, ma soltanto per invalidare, annichilire, cancellare il Sé. Lo sguardo diviene così un elemento persecutore che delimita e mortifica il Sé, causando l’attivazione di massivi meccanismi di difesa;
  • Lo stesso terapeuta potrebbe infine sentirsi a disagio di fronte allo sguardo diretto e focalizzato del paziente, e dunque sperimentare controtransfert ostativi e confondenti alla collaborazione interpretativa (Bollas, 1989).

Lo spazio tra il lettino e la poltrona: luogo di contenimento-supportivo….

Senza la posizione orizzontale non sarebbe possibile regredire a quegli stati preverbali e presimbolici che consentono l’accesso all’inconscio non rimosso in cui tutto è sensoriale, pre logico e per questo minacciosamente incontenibile. Ed è qui che entra in gioco il ruolo supportivo dell’analista il quale, dalla sua poltrona alle spalle del lettino, ricorda al paziente che qualcuno lo sta accompagnando in questo incerto viaggio a ritroso nel Sé, finalizzato a significare eventi non dotati di significato, ad integrare sintomi disfunzionali, a sciogliere legami libidici patologici, a risolvere conflitti inconsci mai rielaborati. Il tutto in una finalità direzionante e mai direttiva.

Come una madre ambiente, che non guida il bambino con intento anticipante e narcisistico, ma attende che sia lui stesso a palesarle bisogni e necessità, egli lo rafforza in quel cammino necessario alla scoperta del Sé autentico, consentendogli al contempo ad aver fiducia nell’altro (Winnicott, 1965).

Nell’approccio psicoanalitico il terapeuta è una voce, un elemento sensoriale che sostiene senza toccare, che guida senza dirigere. È un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona, che ne costituisce una sottodimensione; quasi un “setting nel setting”, ad ulteriore protezione dei rispettivi spazi psichici e della neutralità dell’analista ( Freud, 1922).

Entrando ed uscendo da questo “bozzolo”, questo spazio fantasticato e tuttavia reale, il paziente comincia a familiarizzare con i confini del Sé, costruendoli laddove siano assenti o rafforzandone la struttura laddove, pur presenti, risultino eccessivamente fragili.

Egli è da solo, e tuttavia non lo è. La sua posizione orizzontale, in apparenza statica e immobile, disegna un vertiginoso viaggio interiore fatto di attese, conflitti, difese, associazioni che gli consentiranno di allontanarsi dal Sé solo allo scopo di farvi ritorno, rafforzato e arricchito dall’incontro con esperienze ri-significanti nella quale prende vita la capacità di stare da soli in presenza di un altro (Winnicott, 1958), intesa come la possibilità di mettersi in contatto con le parti più profonde del Sé senza temere di venirne fagocitati e distrutti.

Come una madre e un bambino che si trovano all’interno della stessa stanza e godono della reciproca presenza pur senza un contatto diretto, allo stesso modo tra il paziente e il terapeuta viene a crearsi un canale comunicativo silenzioso e tuttavia costante in cui entrambi sono consapevoli della presenza dell’altro, pur trovandosi in una solitudine che non è abbandonica né separativa, ma getta le basi di una stabile consapevolezza del Sé.

…e di poiesi trasformativa

Lo spazio consentito dalla presenza del lettino crea una specie di “zona franca” che unisce e divide i protagonisti del setting, garantendo il mantenimento dei rispettivi ruoli e consentendo al contempo la nascita di quella pulsione relazionale necessaria a ri-significare i contenuti asimbolici tratti dal serbatoio protomentale.

È proprio al fine al fine di non compromettere la solidità e l’autenticità della relazione terapeutica che nessuno dei due membri del setting potrà violare i confini di questo spazio, pur potendo attingere da esso l’intersoggettività “intuitiva”che caratterizza i primi rapporti diadici, e consente un adeguato sviluppo del Sé e una solida coesione dell’Io.

La sua presenza, neutrale e tuttavia partecipe alla relazione, contribuisce a delineare dei confini psichici laddove la regressione a vissuti arcaici potrebbe suscitare tentazioni fusionali in entrambi i membri del setting. Allo stesso modo esso contribuisce a bonificare stati transferali e controtransferali eventualmente sperimentati da paziente e terapeuta, rendendoli più accessibili e integrabili nel contenuto egoico.

Possiamo immaginarlo come una sorta di ventre psichico, un contenitore in grado di metabolizzare contenuti psichici selvaggi – i temibili elementi beta – riuscendo ad attivare una funzione trasformativa che evita lo straripamento pulsionale e favorisce il consolidarsi della funzione alfa. Ma anche come il luogo in cui prende vita quel terzo intrasoggettivo che Ogden (1997) definisce il risultato degli scambi di rêverie dell’analista e dell’analizzando, la cui compresenza, partecipe e collaborativa, dà luogo ad un pensiero fantasmatico che non appartiene né all’uno né all’altro in via esclusiva, perché nasce proprio dalla dualità continua e continuata della loro relazione. Del loro stare – consapevolmente e volontariamente- sul legame terapeutico, cercando di trarre dallo stesso motivazioni aumentative del Sé e del Sé con l’altro.

In quest’ottica, il processo analitico “implica la parziale consegna della propria individualità separata ad un terzo soggetto, che non è né l’analista né il paziente, bensì una terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica” (Ogden, 1997, p. 10). Nessuno dei due può considerare personali i contenuti dello terzo analitico soggettivo, perché si tratta di un’entità prettamente relazionale prodotta da una relazione. All’interno dello stesso l’evento diventa anzi relazione, soggettività, rapporto, riuscendo ad unire le personalità dei componenti del setting in una finalità reciprocante.

Quando NON è opportuno utilizzare il lettino

Si è detto dell’importanza del lettino in psicoanalisi, al fine di evocare nel paziente quegli stati arcaici che consentono una migliore e più autentica esplorazione del Sé, allentando i processo di difesa e le funzioni egoiche.

Ma non è sempre così.

Esistono alcuni pazienti nei quali la posizione orizzontale imposta dal lettino potrebbe comportare effetti addirittura opposti, provocando l’attivarsi di stati d’angoscia in grado di aggravare il vissuto difensivo e la chiusura relazionale.

 Il riferimento va a soggetti con alti livelli di paranoia o sospettosità, di diffidenza e ritiro relazionale, nei quali la necessità di delimitare il proprio spazio psichico rispetto a quello del terapeuta ricopre una funzione difensiva. Sdraiarsi li farebbe sentire terribilmente vulnerabili, così come non poter guardare negli occhi l’analista significherebbe perderlo di vista, e dunque trovarsi alla sua mercé. Questo potrebbe provocare un effetto contrastivo rispetto alla libera associazione perseguita, andando a rafforzare, anziché indebolire, l’utilizzo del processo secondario.

Al contrario, in pazienti con disturbi psicotici o con gravi vissuti abbandonici, lo sguardo potrebbe fungere da mezzo di contenimento, una sorta di holding materno che protegge dagli urti traumatici e tiene insieme i pezzi del Sé (Winnicott, 1965). Non essere guardati potrebbe destare in essi stati di angoscia, di lutto, di perdita irreparabile.

Lo sguardo contiene, abbraccia, tiene insieme in una fase della vita in cui l’approccio al Sé e alla realtà è meramente viscerale. Aggrappandosi allo sguardo il bambino percepisce un senso di contenimento e protezione. Si sente tenuto insieme contro pericolose angosce di frammentazione (Bick, 1967). Mentre guarda egli introietta l’oggetto buono che lo nutre e lo sostiene, mentre viene guardato sente di esistere con l’altro e per l’altro. Laddove uno sguardo assente servirebbe solo a rendere inconsistente la presenza della madre che abbraccia e nutre il Sé arcaico.

Esther Bick (1967) ha dimostrato il valore nutritivo dello sguardo nelle prime fasi della vita. Lo sguardo della madre, non meno del cibo, è in grado di fornire contenuti essenziali alla sopravvivenza fisica e psichica.

Ove sguarniti di questo supporto visivo i pazienti sperimenterebbero di nuovo quel senso di solitudine desertificante che hanno vissuto nell’infanzia, e che il setting riproporrebbe loro sottoforma di un vissuto transferale persecutorio. Al contrario, sostenuti da un contatto oculare empatico, essi riescono a maturare stati emotivi sintonizzanti e riflessivi, sapendo di essere tenuti insieme da un’enveloppe visiva – lo sguardo vis a vis col terapeuta – che, come l’abbraccio di una madre, li protegge. Li contiene. Non li fa sentire soli.

Dunque, lettino o non lettino?

Per rispondere a questa domanda è necessario affidarsi all’intuito relazionale dell’analista e alla sua capacità di comprendere le caratteristiche del setting specifico nel quale si trova ad operare. Dunque, prima di servirsi del lettino in psicoanalisi sarà sempre utile porre attenzione al tipo di disturbo che si sta trattando, e, nel rispetto della soggettività del paziente e dell’efficacia della terapia, valutare l’opportunità del suo utilizzo.

Si tratta di una conclusione ovvia. Fatte salve le singole metodologie e gli aspetti teorici, la psicoterapia è soprattutto una scienza vissuta sul campo, e per questo fondata sulle esigenze del paziente, il cui rispetto è a sua volta fondamentale per la costruzione di quell’alleanza necessaria al buon esito della terapia stessa.

Il rispetto dei canoni metodologici non può tradursi in un’applicazione standardizzata e inflessibile dei medesimi: è alla luce di ciò che il lettino, per quanto elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, non ne costituisce elemento imprescindibile.

Il suo impiego deve essere preventivamente reso oggetto di discussione tra paziente e analista il quale, di fronte ad un eventuale rifiuto, potrà eventualmente cercare di ottenere chiarimenti sulle motivazioni che lo hanno provocato. In seguito a ciò sarà possibile optare per un’introduzione successiva del lettino o, al contrario, escluderlo del tutto.

Eventualità che accade più spesso di quanto si possa credere. Al di là delle credenze collettive oggi si fa un uso molto meno frequente del lettino in psicoanalisi, gli analisti preferiscono instaurare con il paziente un rapporto più diretto e interfacciato, in grado di fornire importanti informazioni sulle sue competenze comunicative non verbali e sulla sua capacità di gestirle.

Neuropsicologia delle psicosi (2023) di Severin, Prior e Sartori – Recensione

Il libro “Neuropsicologia delle psicosi” è un vero e proprio manuale che guida alla conoscenza e alla comprensione dei modelli e degli interventi cognitivi nelle psicosi.

I disturbi psicotici

 Nella prima parte viene fornita una panoramica completa sulle caratteristiche diagnostiche e le manifestazioni cliniche dei disturbi psicotici, in particolare della schizofrenia. È un tassello fondamentale per la comprensione dei vari modelli ed interventi, in quanto il quadro psicotico è un quadro estremamente ampio e variegato: non esiste un solo sintomo patognomonico della schizofrenia. Anche l’esordio in età infantile/evolutiva è un aspetto molto delicato perché può essere preceduto da campanelli d’allarme non specifici e non sempre attribuibili al futuro disturbo psicotico. Quindi, la prima parte del manuale si focalizza proprio sulla prevalenza, sulla manifestazione, sulla teoria multifattoriale dell’eziologia, sui fattori di rischio e predisposizione.

Questa parte introduttiva è seguita da diversi capitoli dedicati alla spiegazione e all’analisi dei diversi modelli proposti. All’interno di questa presentazione vengono descritte le caratteristiche cognitive ed esecutive che si osservano nei pazienti psicotici, alcune dovute alla malattia, alcune che potrebbero predisporre o che sono presenti fin dall’esordio psicotico. Vengono descritte e affrontate le seguenti aree: funzioni esecutive, memoria, attenzione, capacità comunicative e linguaggio, percezione visuo-spaziale, quoziente intellettivo e funzioni motorie.

Successivamente viene introdotta la teoria della mente, capacità che permette di comprendere gli stati mentali altrui con una funzione adattiva e sociale. Vengono presentate numerose ricerche e dati che spaziano su diversi aspetti che caratterizzano sia la teoria della mente, sia la cognizione sociale. Le teorie proposte permettono di osservare le difficoltà presenti da punti di vista diversi: Firth riteneva che la ridotta capacità nella teoria della mente nei pazienti psicotici fosse attribuibile a un deficit di monitoraggio dei propri stati mentali e del proprio comportamento; mentre Hardy-Baylé ritiene che il deficit della teoria della mente nei pazienti schizofrenici sia correlato ai deficit esecutivi e di pianificazione.

Secondo Hardy-Baylé, l’assenza di una rappresentazione mentale dell’azione intenzionale andrebbe a compromettere anche la capacità del paziente di assegnare correttamente gli stati mentali altrui. I pazienti schizofrenici non riescono ad interpretare le credenze altrui come rappresentazioni soggettive della realtà, perché le confrontano con la propria rappresentazione caratterizzata da una difficoltà di distinzione tra soggettività ed oggettività. 

Anche se le interpretazioni possono essere diverse, gli studi con fMRI confermano un’alterazione nelle aree coinvolte nella teoria della mente. 

Psicosi, brain imaging e training cognitivo

Successivamente viene dedicato uno spazio al brain-imaging come strumento diagnostico e di supporto nella ricerca e nell’interpretazione delle diverse casistiche. Come detto inizialmente i disturbi psicotici hanno una manifestazione eterogenea e non sono caratterizzati da un solo sintomo patognomico che permette una diagnosi chiara fin dall’inizio; proprio per questo gli strumenti di imaging stanno sostenendo e consentendo un’analisi sempre più accurata. Nonostante le rappresentazioni si differenzino molto da caso a caso, sia per la quantità, sia per la gravità delle aree coinvolte, i processi tecnologici di neuroimaging permetteranno agli studiosi una comprensione migliore delle relazioni tra strutture e alterazioni, permettendo interventi sempre più precoci ed efficaci.

 Infine, si arriva al cuore del manuale: il training cognitivo. La necessità di promuovere interventi di training cognitivo (oltre alla terapia farmacologica e psicoterapica) nasce dalla consapevolezza della presenza di un deficit cognitivo nei pazienti psicotici e dal ruolo che esso svolge. Infatti, sembrerebbe che il deficit cognitivo, in questa tipologia di pazienti, possa costituire un fattore predittivo negativo dal punto di vista del funzionamento psicosociale e lavorativo. Gli interventi possono avere obiettivi diversi: possono essere finalizzati a migliorare e riacquisire una competenza cognitiva specifica, o possono puntare al potenziamento delle capacità e delle risorse a disposizione. Il capitolo descrive alcune tecniche di riferimento, il pensiero alla base e la struttura dell’intervento, al fine di perseguire l’obiettivo. Infine, viene introdotta la metacognizione, capacità di rendersi consapevoli delle proprie abilità cognitive, di pensiero e delle proprie competenze, e i relativi training metacognitivi. Quindi viene presentato il programma di training metacognitivo, intervento apposito per pazienti schizofrenici, finalizzato a renderli più consapevoli delle proprie difficoltà per promuovere un loro miglioramento “più autonomo”, limitando il mantenimento delle credenze patologiche. Il capitolo si dedica alla spiegazione di tutto il modello. 

Conclusioni

Per concludere, il libro è un vero e proprio manuale sulla neuropsicologia e la cognizione delle psicosi, estremamente dettagliato e ricco di riferimenti bibliografici, dati empirici e spunti di riflessione. Personalmente la ritengo una lettura e consultazione fondamentale per i professionisti che vogliono trattare e interfacciarsi con questa complessa psicopatologia.

Al giorno d’oggi le psicosi sono molto presenti sul panorama psicologico e psichiatrico, si osservano numerosi e frequenti esordi precoci in età adolescenziale e decorsi non sempre positivi: a maggior ragione la conoscenza e la formazione sul funzionamento cognitivo, neuropsicologico, sociale e sulle possibilità di trattamento permetterà, assieme alla ricerca, sia la possibilità di offrire un percorso realmente supportivo, sia una presa in carico più chiara e consapevole.

Il concetto di solitudine

La crescente consapevolezza che le relazioni sociali svolgono un ruolo fondamentale nel benessere psicologico ha portato i ricercatori della salute mentale ad approfondire il lavoro sulla solitudine e sul supporto sociale.

Introduzione

 La solitudine è un’esperienza umana universale, complessa e unica per ogni individuo, che può estendersi dalla separazione temporanea dai propri cari a uno stato più permanente di disconnessione associato a una malattia mentale o fisica.

Negli ultimi decenni, c’è stata una crescente quantità di ricerca empirica sulla solitudine che ha coinvolto una serie di definizioni. Molti ricercatori contemporanei riconoscono che la solitudine e l’isolamento sociale sono costrutti diversi. Tuttavia, questa distinzione teorica non sempre trova pieno riscontro nella ricerca empirica sulla solitudine, né tanto meno negli interventi per alleviarla.

La solitudine è un fattore di rischio per la morbilità e la mortalità negli esseri umani (Cacioppo & Patrick, 2008). Può essere transitoria – conseguenza di circostanze esterne come un lutto, un cambiamento di città o di cerchia sociale o dalla lontananza da amici, familiari o partner – oppure può essere un’esperienza cronica. Queste osservazioni hanno sollevato la questione se la solitudine debba essere caratterizzata come una patologia a sé stante e se mitigare la solitudine debba essere un obiettivo chiave per i clinici (Heinrich & Gullone, 2006). Risulta dunque fondamentale chiarire il concetto di solitudine a causa dei suoi effetti negativi sulla salute fisica e mentale.

La recente rassegna di Motta (2021) fornisce le definizioni di solitudine più condivise in letteratura.

Le definizioni di solitudine

Il primo tipo di definizione si basa sui bisogni sociali. I ricercatori sottolineano il ruolo delle influenze precoci nel generare e mantenere la solitudine (Weiss, 1973). La causa della solitudine, secondo questo approccio, è l’assenza di relazioni che permettono di soddisfare i bisogni sociali intrinseci di una persona. Questa prospettiva si ispira anche alla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969), che propone che legami precoci sicuri siano necessari per sviluppare la vicinanza nei legami sociali più avanti nella vita. Se si verificano disturbi precoci nei legami di attaccamento, ciò può portare a difficoltà nello sviluppo delle relazioni.

Il secondo tipo di definizione si basa sulla discrepanza cognitiva. Sebbene enfatizzi le conseguenze affettive della solitudine, questo tipo di definizione propone che i processi cognitivi ne siano la causa, definendola come lo stato di avversione sperimentato quando c’è una discrepanza tra le relazioni interpersonali che una persona vorrebbe avere e quelle che percepisce di avere (Peplau & Perlman, 1982). La prospettiva della discrepanza cognitiva si basa sulla teoria dell’attribuzione, suggerendo che il modo in cui le persone sole attribuiscono la causalità della loro condizione influenza il loro stato psicologico e la loro condizione.

Il terzo tipo di definizione deriva dall’approccio interazionista. Secondo questa visione, i tratti caratteriali (ad esempio, timidezza, introversione), interagiscono con fattori situazionali (ad esempio, ricoveri ospedalieri, trasferimenti o cambiamenti di vita) e culturali (ad esempio, le aspettative sui comportamenti nelle relazioni di coppia) per dare forma alle nostre relazioni sociali. Anche le aspettative sui ruoli che le persone dovrebbero svolgere hanno un’influenza (Heinrich & Gullone, 2006) sulla quantità e qualità delle relazioni sociali.

 Il quarto tipo di definizione presenta la solitudine come indicativa di deficit nelle relazioni sociali. Questa definizione si basa sul fatto che gli esseri umani sono esseri sociali con un bisogno essenziale di appartenenza. Quando questo bisogno non viene soddisfatto, emergono esperienze emotivamente dirompenti, come la solitudine. In questo caso, la solitudine è radicata in specifiche percezioni, valutazioni e risposte alla realtà interpersonale e si manifesta attraverso comportamenti, sentimenti e cognizioni strettamente correlati tra loro (Jones, 1982).

Anche il quinto tipo di definizione considera la solitudine come una conseguenza del bisogno umano universale di appartenenza e quindi la vede come una parte inevitabile dell’esistenza umana. In quanto tale, la solitudine può essere vissuta da tutti, indipendentemente dall’età, dal contesto economico, dallo stato sociale o di salute (Frie, 2012).

Conclusioni

Le definizioni di solitudine qui esposte possono sollevare alcune questioni. La prima riguarda il fatto che la solitudine è caratterizzata da comportamenti, emozioni e pensieri specifici. Questo concetto è sottolineato da una visione della soggettività che identifica l’esperienza soggettiva con queste manifestazioni. La seconda riguarda l’eccessiva attenzione alla natura degli esseri umani come esseri sociali. Trascurare uno studio approfondito dell’esperienza soggettiva della solitudine porta a interventi il cui unico obiettivo è aumentare le interazioni sociali. Tali interventi partono dal presupposto che la solitudine sia la stessa cosa dell’isolamento sociale. Ciò mina la distinzione ampiamente riconosciuta tra solitudine e isolamento sociale oggettivo (uno stato di assenza di contatti con altre persone). Cioè, anche quando la solitudine è caratterizzata da indici oggettivi e quantitativi delle relazioni sociali (come la frequenza dei contatti sociali o il numero di amici), è maggiormente influenzata dalle valutazioni soggettive di queste relazioni, come la soddisfazione per le relazioni o l’accettazione sociale percepita come risultato di tali relazioni (Motta, 2021).

Esplorare tali questioni ha implicazioni per le future ricerche sul concetto di solitudine. Ciò consentirebbe a sua volta di progettare nuovi trattamenti e interventi.

SAPAP3: un primo passo verso l’individuazione delle basi proteiche del Disturbo Ossessivo-Compulsivo 

Scoprire le cause neurobiologiche dei disturbi mentali rappresenta una delle sfide maggiormente complesse e stimolanti per i ricercatori del presente e del futuro. Nel caso del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) una delle spiegazioni più accreditate proviene al momento dagli studi di neuroimaging e fa riferimento alla presenza di alterazioni strutturali a carico del circuito corticostriatale (Calzà et al., 2019).

 

 A livello anatomico, il circuito corticostriatale comprende la corteccia orbitofrontale, la corteccia cingolata anteriore, i gangli della base e il talamo. Il suo funzionamento è fondamentale per il comportamento motorio e per la selezione delle strategie adattive. A livello funzionale, il circuito corticostriatale è implicato anche in una vasta gamma di processi cognitivi ed emotivi, tra cui: decision-making, comportamento orientato all’obiettivo, apprendimento basato sulla ricompensa, apprendimento procedurale e controllo dell’impulsività (Graybiel et al., 2000). Tuttavia, è possibile che la vulnerabilità psicologica presenti una radice ancor più profonda; vale a dire che essa sia rintracciabile già a partire da alcune proteine codificate dal nostro genoma.

Basi proteiche del DOC: SAPAP3

Esistono, dunque, delle basi proteiche del DOC?

Un articolo pubblicato su Nature da Soto e collaboratori (2023) ha provato a fornire una risposta a questa domanda. Il protide in questione è SAPAP3, ovvero una proteina citosolica codificata dal gene Dlgap3 ed espressa a livello striatale sia nei neuroni che negli astrociti, cioè delle cellule di supporto presenti nel nostro sistema nervoso centrale. L’evidenza che SAPAP3 fosse altamente implicata nell’eziopatogenesi del disturbo ossessivo compulsivo è stata il frutto di una serie di osservazioni.

Uno dei primi esperimenti in vivo condotti dai ricercatori consisteva nel somministrare SAPAP3 in maniera selettiva agli astrociti o ai neuroni presenti nello striato di topi knock-out per il gene che codificava per tale proteina (topi SAPAP3 KO, cioè animali nei quali era stato eliminato il gene Dlgap3 in modo tale da bloccare la sintesi di SAPAP3). Lo scopo era quello di verificare se l’espressione di SAPAP3 in uno dei due tipi di cellule attenuasse i comportamenti compulsivi emessi dagli animali sperimentali. Tra le compulsioni maggiormente osservate nei topi SAPAP3 KO –così come in altri modelli animali di DOC– vi è senz’altro la pulizia ripetitiva del proprio corpo (self-grooming), la quale, se reiterata, comporta delle lesioni cutanee a livello del muso dell’animale. I ricercatori hanno osservato che l’espressione di SAPAP3 sia negli astrociti che nei neuroni striatali produce una diminuzione dell’area delle lesioni facciali, del numero di lesioni, del numero di tentativi di self-groomig e del tempo totale che i topi trascorrevano a pulirsi.

Per quanto riguarda invece i comportamenti ansiosi e di evitamento, gli studiosi hanno considerato come unità di analisi la deambulazione degli animali nell’Elevated Plus Maze (EPM) test, ovvero un apparato sperimentale composto da due bracci aperti e da due bracci chiusi posizionati perpendicolarmente e separati da una piccola piattaforma centrale che consente all’animale di muoversi liberamente all’interno della struttura, e in campo aperto (open-field test), ovvero quando essi venivano posizionati in una struttura quadrata che non prevedeva particolari restrizioni. I ricercatori hanno notato come la distanza totale percorsa dai topi SAPAP3 KO e la loro velocità media di percorrenza in campo aperto venissero implementate in maniera similare dall’espressione di SAPAP3 sia negli astrociti che nei neuroni striatali. Al contrario, il tempo trascorso nei bracci aperti dell’Elevated Plus Maze test e al centro del campo aperto venivano incrementati solamente dall’espressione neuronale di SAPAP3, il che suggerisce la presenza di un effetto della sintesi di SAPAP3 sul comportamento ansioso limitatamente a quei casi in cui essa si verifichi a livello neuronale. Una volta ottenuti, questi risultati sono stati confrontati con gli effetti di una terapia di prima scelta per il trattamento del DOC, ovvero la somministrazione di fluoxetina. Nei topi SAPAP3 KO l’espressione di SAPAP3 negli astrociti striatali produceva effetti benefici simili a quelli della fluoxetina sul numero di tentativi di self-grooming e sul tempo totale che i topi trascorrevano a pulirsi.

ΔFosB e SAPAP3

 Con lo scopo di far luce sui legami tra i meccanismi molecolari e i comportamenti tipici del DOC, gli scienziati si sono poi concentrati sull’alterazione dell’attività cerebrale in vivo misurando negli animali sperimentali i livelli di ΔFosB, un biomarcatore dell’aumento dell’attività neuronale. I ricercatori hanno rilevato un aumento dei livelli di ΔFosB nei neuroni striatali dei topi SAPAP3 KO, il quale veniva però ripristinato dall’espressione di SAPAP3 sia a livello astrocitario che neuronale. D’altra parte, l’aumento dei livelli di ΔFosB nei neuroni appartenenti alla corteccia motoria e alla corteccia orbitofrontale laterale degli animali non veniva influenzato dall’espressione di SAPAP3 negli astrociti o nei neuroni striatali. Ciò indicava che gli effetti comportamentali sortiti dalla sintesi di SAPAP3 originavano specificamente dalle cellule dello striato.

Infine, è stata eseguita una proteomica striatale, ovvero un’identificazione sistematica delle proteine e la loro caratterizzazione, nei topi SAPAP3 KO in modo da verificare se i cambiamenti proteici osservati negli animali fossero correlati ad alterazioni dell’espressione genica nel tessuto post-mortem di individui con DOC o, più in generale, all’espressione genica astrocitaria e neuronale. Delle 66 proteine individuate, tutte erano espresse negli astrociti o nei neuroni. Inoltre, i geni che codificavano per 44 di esse risultavano up-regolati o down-regolati nel DOC umano. Molti di questi geni erano altamente espressi negli astrociti e nei neuroni in maniera differenziata tra i controlli sani e gli individui affetti da DOC.

Interessante è anche l’evidenza che gran parte dei geni associati all’emissione dei comportamenti ripetitivi tipici del DOC e della Sindrome e di Tourette venissero espressi negli astrociti o nei neuroni e che alcuni di essi figurassero tra gli interattori di SAPAP3 precedentemente individuati negli animali. Queste analisi condotte sull’essere umano supportano le scoperte fatte nei topi, secondo cui i cambiamenti molecolari associati al DOC influenzano la segnalazione sia negli astrociti, sia nei neuroni. Tuttavia, è necessario ricordare che nei topi l’espressione post-natale di Dlgap3 negli astrociti e nei neuroni è differente, il che apre le porte a future ricerche su come l’espressione di SAPAP3 possa essere correlata all’emergere del DOC durante lo sviluppo e l’adolescenza.

Guardando ai risultati ottenuti da Soto e colleghi (2023), l’ipotesi è che nell’eziopatogenesi dei disturbi mentali siano coinvolti non solo fattori ambientali, cognitivi e comportamentali, ma anche fattori genetici, o meglio, che esista una vera e propria base proteica della vulnerabilità psicologica.

The Whale: il trauma della perdita dell’Altro come condanna a vita – Recensione

Charlie (il protagonista di “The Whale”, il padre ed il “colpevole”) mangia per la moglie che dopo la separazione è diventata un’alcolista, mangia per la figlia che sente di aver perso, mangia per la perdita del compagno a causa e grazie al quale ha perso il nucleo centrale della sua vita: la famiglia che aveva costruito.

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

… la colpa è il fardello che il passato fa pesare sul futuro. È questo fardello che il perdono vorrebbe alleggerire, ma all’inizio questo fardello pesa: ed è il futuro che pesa… (Ricoeur, 2004).

 Un uomo, l’obesità, l’omosessualità e una storia che si dipana tra la fame d’amore sostituita dal cibo e la fragilità umana di fronte al vuoto: un abisso vorace che fagocita i protagonisti, che quasi senza voce per domandare ed orecchie che ascoltano non riescono a comunicare dell’Altro e con l’Altro.

Di questo film si è parlato molto: gli attori, la trama, le increspature della vita e l’urlo del regista che sembra parafrasare le parole di Lacan: “l’urlo è l’abisso in cui il silenzio precipita” (Lacan, 1965).

La scena che apre i rapporti tra i protagonisti è quella dell’incontro tra un padre e una figlia.

Gli occhi di questa figlia guardano il padre obeso, quell’uomo che a fatica si era lavato e sbarbato per l’incontro con il perturbante: lei.

“Freud con la parola tedesca unheimlich [perturbante] designa l’antitesi di heimlich [da Heim, casa}, heimirch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, e sembra plausibile dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare” (Jentsch, 1900).

Che un padre nell’attesa di una figlia sia divorato dall’incertezza e ne sia turbato, che una figlia vada all’incontro con il padre corazzata e pronta a difendersi mostra che, affinché questo incontro sia perturbante per entrambi, con probabilità si arriva a pensare che sia un avvenimento in cui non ci si “raccapezza”.

Entrambi non sanno raccapezzarsi e non sanno cosa dire. Il padre inizia con i suoi “mi dispiace”, che ricorrono più volte durante il film e che appaiono sinonimo di un uomo che ha detto troppi sì agli altri e grandi no a sé stesso, ed una figlia che lo guarda e chiede: “un giorno diventerò obesa come te?”. Ed è proprio in quel momento che il padre ri-trova la sua funzione paterna: nel rassicurare la ragazza dicendole che lui è stato sempre “grosso” e che lei è meravigliosa.

Charlie (il protagonista, il padre ed il “colpevole”) mangia per la moglie che dopo la separazione è diventata un’alcolista, mangia per la figlia che sente di aver perso, mangia per la perdita del compagno a causa e grazie al quale ha perso il nucleo centrale della sua vita: la famiglia che aveva costruito.

La figlia, Ellie, dopo poche parole ringrazia il padre per averla abbandonata ad 8 anni perché le ha insegnato una grande lezione: che le persone fanno “schifo” e l’ha preparata al futuro.

Il padre vende un po’ di sé stesso proponendo alla figlia di aiutarla nei temi e di pagarla, pagare la sua compagnia; questo sembra essere il patto, il compromesso, questa sembra essere l’eredità.

Il vero erede, però, è colui che ri-conquista ciò che è già suo.

Probabilmente l’eredità di Charlie è lasciare alla figlia la possibilità di ri-conquistarsi, smettendo di odiare gli Altri perché odia lui, e i soldi rappresentano una base sicura, l’unica base sicura che lui è riuscito a lasciarle insieme alla parole che ri-suonano più volte durante il film: “Tu, Ellie, sei meravigliosa ed intelligente”.

Alla fine del film, alla fine della vita di Charlie, la famiglia si ri-compone per qualche minuto e Charlie esclama “è la prima volta dopo anni che siamo stati di nuovo insieme..”;  una scena, quasi pirandelliana, inquadra la moglie che ascolta il suo sibilo, accoccolata tra le sue braccia.

In quel momento gli edemi, causati dall’obesità, il peso ponderale di Charlie, scompaiono, perché la scena che si pone e si impone è quella della tenerezza tra due persone, una tenerezza che sa guardare oltre.

La moglie chiude la scena parlandogli di Ospedale e lui sorride dicendo ancora “Mi dispiace”.

L’uomo non è soltanto la somma delle sue esperienze o relazioni che instaura, è ancor più la somma delle sue storie (Pittman, 1998), ed in questa storia i chilogrammi in più di Charlie, gli psicofarmaci e l’alcool della ex-moglie e la maschera di Ellie mostrano come la persona sia anche la sommatoria degli errori nella sua storia.

 In questo film la trama sembra soggetta a copione, mentre gli attori avrebbero avuto una possibilità di cambiare (Byng-Hall 1998): se Charlie, anziché chiedere alla figlia “chi mi vorrebbe nella sua vita?” alla fine della sua vita, lo avesse chiesto alla ragazza anni prima? Magari un dialogo si sarebbe aperto.. e se la ex moglie anziché anestetizzarsi avesse messo da parte sé stessa ed il rancore per il marito affinché la figlia riprendesse a comunicare con il famigliare? E se l’infermiera si fosse presa cura di Charlie affidandolo ai servizi?

In Charlie probabilmente la diagnosi sarebbe potuta giungere come una realtà dolorosa, ma conciliante, perché la malattia del singolo spiega le difficoltà del gruppo senza chiamare in causa quest’ultimo (Haley, 1963).

La storia, però, non si fa con i se e con i ma, ma con l’agito e questo film mostra duramente che il non agire è pur sempre una scelta.

I sintomi di questa storia appaiono sempre più come un segnale di disagio relazionale dell’intera famiglia, che sembra comunicare in questo modo l’esistenza di un conflitto tra continuità e cambiamento, tra legami di appartenenza e bisogni di individuazioni dei suoi singoli componenti. (Andolfi 2003)

Alla fine del film ciò che rimane impresso sono gli occhi di Charlie che si alza e cerca di andare verso la figlia, Ellie che lo cura leggendo un tema fatto da lei su “Moby Dick”, quella balena che ha accompagnato il padre durante i suoi vuoti, ed una luce che sembra fare un po’ di luce al buio di questa storia, svelando il ricordo della famiglia al mare, durante l’ultima vacanza insieme, i piedi di Charlie che si bagnano in quell’acqua che gli ricorda che è stato felice.

Gli occhi di Ellie che ascolta le parole del padre: “sei una meraviglia” si bagnano ed il film si chiude forse lasciandoci con la speranza che un giorno tutte le Ellie abbandonate da un genitore comprenderanno che “il padre non può essere pensato come ciò che riempie il vuoto centrale dell’Altro” (cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan, 2012, p. 199).

Componenti emotive, cognitive e comportamentali del black humor

Il black humor è un tipo di umorismo che tratta in maniera sfacciatamente divertente argomenti sinistri o infelici, tra cui la morte, la malattia, la deformità e la guerra (Mindess et al. 1985; Baldick 2001).

Che cos’è il black humor?

 Più semplicemente, si tratta di fornire una rappresentazione di situazioni tragiche, angoscianti o morbose in termini prettamente umoristici. Chiamato talvolta anche grottesco, morboso, forcaiolo o malato, il black humor viene utilizzato per esprimere l’assurdità, l’insensibilità, il paradosso e la crudeltà del mondo moderno. I personaggi o le situazioni oggetto di scherno vanno spesso ben oltre i limiti imposti della satira o dall’ironia, richiedendo così un maggiore sforzo cognitivo da parte dell’ascoltatore al fine di “cogliere” la battuta. Non è un caso che il black humor utilizzi frequentemente lemmi o strutture semantiche tipiche della tragedia, tant’è che talvolta esso viene equiparato alla farsa tragica (Lagasse et al. 2000). Malgrado la sua complessità, questa forma di umorismo viene percepita dagli individui non solo come morbosa, volgare, irriverente o contorta, ma anche, e soprattutto, come molto divertente e sagace (Maxwell, 2003).

Processamento dell’umorismo: componenti cognitive

Le indagini sui processi cognitivi coinvolti nella comprensione dell’umorismo si basano sul modello di risoluzione dell’incongruenza costruito da Jerry M. Suls (1972). Quest’ultimo postula che l’umorismo venga elaborato attraverso un meccanismo a due fasi:

  • la prima implica il richiamo alla memoria delle conoscenze di base necessarie per la comprensione del problema;
  • la seconda chiama in causa le capacità di problem-solving dell’individuo.

In altre parole, si tratta di comprendere prima l’enigma che si cela dietro la battuta per poi risolverlo subito dopo. Oltre al probem-solving, l’elaborazione dell’umorismo parrebbe dipendere anche da altre capacità cognitive, quali l’intelligenza e le abilità verbali (Shammi & Stuss 1999; Vrticka et al. 2013). A tal proposito, Feingold & Mazzella (1991) hanno messo in luce delle robuste relazioni tra misure verbali e ragionamento umoristico. Wierzbicki & Young (1978) hanno dimostrato che l’intelligenza verbale era positivamente correlata alla comprensione dell’umorismo. Greengross & Miller (2011) hanno sottolineato che le abilità umoristiche erano maggiormente associate all’intelligenza verbale, rispetto al ragionamento astratto.

Processamento dell’umorismo: componenti emotive

Nonostante la rilevanza dei processi cognitivi, l’elaborazione dell’umorismo coinvolge inoltre degli aspetti di natura emotiva. Difatti, possedere un’intelligenza elevata non influenza solo gli aspetti cognitivi dell’elaborazione dell’umorismo, ma anche le sue componenti affettive (Vrticka et al. 2013). Considerando, per esempio, il ruolo dell’umore nell’apprezzamento di battute sarcastiche, è stato osservato che un aumento dei sintomi depressivi si associava a un minor utilizzo dell’umorismo per affrontare eventi di vita stressanti (Deaner & McConatha, 1993). Neumann e colleghi (2001) hanno dimostrato che la risposta degli individui a questo genere di umorismo veniva influenzata principalmente dall’umore preesistente alla battuta, il quale aumentava l’intensità delle emozioni congruenti con esso e smorzava invece quelle incongruenti con lo stesso.

Secondo Ruch & Kohler (1998), i tratti dell’ilarità (cheerfulness), della serietà (seriousness) e del cattivo umore (bad mood) rappresenterebbero le basi temperamentali dell’umorismo. Individui con un alto livello di ilarità presentano infatti una bassa soglia per la risata, mentre coloro che riportano alti livelli di bad mood non sembrano essere in grado di cogliere battute di spirito e si mostrano tristi anche in situazioni che generalmente suscitano allegria.

Umorismo e Aggressività

Interessanti sono infine le evidenze disponibili in letteratura sul rapporto tra umorismo e aggressività. McCauley e colleghi (1983) hanno riscontrato una forte associazione tra queste due variabili in un gruppo di soggetti impegnati a giudicare una serie di vignette canzonatorie.

Prerost (1983) ha dimostrato che individui in uno stato d’animo aggressivo percepivano l’umorismo spinto come più divertente rispetto a partecipanti in uno stato d’animo non-aggressivo. Inoltre, elevati livelli di arousal nei soggetti aggressivi erano associati a un maggiore apprezzamento di questo genere di comicità.

 In un studio condotto da Herzog & Karafa (1998) è stata misurata la preferenza mostrata da un gruppo di studenti universitari per delle barzellette su temi di morte o di handicap (mero black humor) rispetto a delle barzellette nonsense, di satira sociale o filosofica; un umorismo che possibilmente, ma non necessariamente, toccava argomenti seri, ma non sinistri e tragici come accade invece con il black humor. Le analisi dei dati hanno mostrato che le prime battute venivano preferite meno rispetto alle seconde, ma che al contempo il senso dell’umorismo era positivamente associato con la preferenza per le prime. Mentre l’adeguatezza e la sorpresa risultavano positivamente associate alla preferenza, la crudeltà delle battute appariva negativamente correlata alla preferenza (Herzog & Karafa, 1998).

Chi comprende meglio il black humor?

Processi cognitivi, emotivi e aggressività in relazione al black humor sono state indagate in un unico studio pubblicato da Willinger e colleghi (2017) allo scopo di individuare dei gruppi di individui che differissero nelle capacità di elaborazione di questa forma specifica di umorismo. Il risultato più sorprendente ottenuto dai ricercatori è stato che i soggetti che mostravano valori elevati rispetto alla preferenza e alla comprensione del black humor presentassero anche valori elevati rispetto all’intelligenza e all’istruzione, mentre esibivano valori più bassi per quanto riguardava l’aggressività ed eventuali disturbi dell’umore. D’altra parte, coloro che ottenevano punteggi medi di intelligenza verbale e non verbale, elevati disturbi dell’umore e un’alta aggressività, riportavano valori più bassi circa la comprensione e la preferenza del black humor (Willinger et al., 2017). In altre parole, persone più intelligenti, meno aggressive e meno disturbate sul piano affettivo apprezzavano particolarmente il black humor, mentre individui meno istruiti, più aggressivi e dall’umore maggiormente instabile non lo gradivano affatto.

Al di là delle specificità inter-individuali, questi risultati supportano l’ipotesi che l’elaborazione dell’umorismo, in particolare del black humor, rappresenti un compito complesso che dipende da processi cognitivi ed emotivi decisamente eterogenei.

Esplorando le differenze tra timidezza e introversione

Timidezza e introversione sono comunemente sovrapposte e usate in modo intercambiabile nel linguaggio comune. Tuttavia, la timidezza è teoricamente ed empiricamente distinta dall’introversione.

Timidezza

 Il termine “timidezza” è stato utilizzato per riferirsi a un’ampia gamma di esperienze. La timidezza può essere definita come una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, in particolare quando si è di fronte a qualcosa di nuovo o quando si percepisce una valutazione sociale. Può manifestarsi in modi diversi, con comportamenti reticenti e diffidenti, e può essere correlata a diversi aspetti, tra cui la preoccupazione di valutazioni negative e dell’attenzione del pubblico, di situazioni formali e di violazione della privacy.

Le persone timide tipicamente sono indecise, insicure e impacciate, esitano ad agire a relazionarsi con gli altri.

La timidezza è concettualizzata come un tratto temperamentale, ovvero un aspetto innato che rimane stabile nel tempo. È un fenomeno di grande interesse nello studio del comportamento umano, poiché l’interazione e la connessione sociale sono fondamentali per gli esseri umani. Nonostante la timidezza sia una caratteristica presente in varia misura in tutti gli individui e che esiste da molto tempo, le ragioni che la sottendono sono ancora poco conosciute.

Gran parte della ricerca scientifica sulla timidezza si è focalizzata principalmente sui suoi aspetti negativi e sulle conseguenze che può avere. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, si è sviluppato un cambio di prospettiva che ha iniziato a considerare anche gli aspetti positivi e adattivi della timidezza. Nel tempo è avvenuta una vera e propria “de-patologizzazione” della timidezza. I ricercatori hanno iniziato a mettere in discussione l’idea di considerarla come una condizione patologica e ad evitare una medicalizzazione eccessiva, di quella che spesso è una normale variazione del modo di essere di una persona.

È anche vero che è stato osservato che le forme estreme di timidezza sono predittive del disturbo d’ansia sociale, dei disturbi internalizzanti (come depressione e altri disturbi d’ansia) e in generale difficoltà socio-emotive.

Tuttavia, sebbene alcuni individui timidi siano a rischio di sviluppare comportamenti disadattivi (per esempio riconducibili a sintomi internalizzanti), la timidezza non è sempre intrinsecamente problematica. La timidezza è un fenomeno onnipresente nell’esperienza umana, fino al 90% della popolazione la sperimenta in qualche momento della propria vita, invece una percentuale minore, pari a circa il 15% degli individui, è caratterizzata da timidezza temperamentale, che si presume abbia un esordio precoce e mostri stabilità nel tempo.

Ma le persone silenziose e riservate, si comportano in questo modo perché si sentono inibite e ansiose nelle situazioni sociali (quindi sono timide), oppure perché preferiscono stare da sole (quindi sono introverse)? E qual è la differenza?

Introversione

Nella società moderna, l’estroversione viene spesso lodata come un tratto di personalità desiderabile, associato a una vita sociale intensa e a un’energia contagiosa. Tuttavia, esiste un altro aspetto della personalità altrettanto prezioso e affascinante: l’introversione.

L’introversione è un tratto della personalità che si posiziona all’estremo opposto dell’estroversione nella dimensione introversione-estroversione, teorizzata nel modello della personalità a 5 fattori da McCrae e Costa (1987). Gli introversi sono caratterizzati da una predisposizione alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Preferiscono spesso trascorrere del tempo da soli, utilizzando quei momenti per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Gli introversi hanno spesso una vita interiore ricca e intensa. Sono riflessivi e trovano piacere nell’approfondire le loro conoscenze e intuizioni. La quiete li aiuta a concentrarsi su se stessi e ad esplorare le profondità della propria mente. Questa predisposizione alla riflessione e all’introspezione può condurre a una maggiore consapevolezza di sé, alla creatività e alla capacità di affrontare le sfide in modo ponderato.

L’introversione spesso è stata fraintesa come timidezza o mancanza di capacità sociali. Tuttavia, essere introversi non significa necessariamente essere timidi. Gli introversi possono eccellere nelle interazioni sociali quando si tratta di connessioni più profonde e significative. Preferiscono la qualità nelle relazioni alla quantità delle relazioni e possono offrire un ascolto attento e una presenza tranquilla, ciò crea un ambiente confortevole per l’altro.

La capacità di trascorrere del tempo da soli può consentire agli introversi di sviluppare una profonda comprensione di sé stessi, di coltivare le proprie passioni e di recuperare energie, cosa che spesso promuove le interazioni sociali. Inoltre, gli introversi sono spesso osservatori attenti, in grado di cogliere dettagli sfuggenti e di apprezzare la bellezza dei momenti tranquilli.

 È importante sottolineare che l’introversione non è un tratto esclusivo e che molti individui presentano caratteristiche sia introverse che estroverse. Non si tratta di un binario rigido, ma di un continuum in cui le persone possono trovarsi in posizioni diverse a seconda del contesto e delle circostanze. Comprendere e apprezzare il delicato equilibrio tra introversione ed estroversione può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità all’interno della società.

La cultura occidentale spesso enfatizza l’estroversione come l’ideale da raggiungere, promuovendo l’immagine dell’individuo socievole e carismatico come modello di successo. Tuttavia, altre culture valorizzano l’introversione come un tratto di saggezza e rispetto per sé stessi e gli altri. Ad esempio, in molte tradizioni orientali, l’introversione è considerata come una caratteristica preziosa per la meditazione.

La chiave per vivere appieno l’introversione è l’autenticità. Gli introversi possono migliorare il proprio benessere abbracciando la propria natura e ascoltando i propri bisogni, nonostante il modello di successo trasmesso dalla società (l’individuo estroverso). Ciò significa trovare modi personalizzati per bilanciare momenti di solitudine rigenerante con opportunità di connessione sociale significativa. Trovare un ambiente che favorisca l’espressione autentica della propria personalità può aiutare gli introversi a fiorire e a contribuire in modo unico alla società.

Differenze tra timidezza e introversione

L’introversione è diversa dalla timidezza dal punto di vista teorico ed empirico.

La timidezza è una predisposizione temperamentale, spesso associata a una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, specialmente quando si affronta qualcosa di nuovo o si percepisce una valutazione sociale. D’altra parte, l’introversione è un tratto di personalità caratterizzato da una preferenza alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Gli introversi non provano necessariamente ansia nelle interazioni sociali, ma preferiscono trascorrere del tempo da soli per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Le persone timide tendono a esitare nell’interagire con gli altri a causa dell’insicurezza e della preoccupazione riguardo le valutazioni negative e l’attenzione da parte dell’ambiente sociale. Gli introversi, d’altra parte, possono preferire poche relazioni sociali di qualità rispetto a numerose connessioni superficiali. Sono spesso in grado di offrire ascolto attento e una presenza tranquilla, creando un ambiente confortevole per gli altri.

La timidezza è principalmente correlata all’ansia sociale e ai pensieri negativi come la paura di essere giudicati, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete, la riservatezza e l’introspezione.

È importante notare che timidezza e introversione non sono mutuamente esclusive e possono coesistere in diverse misure nelle persone. Inoltre, non tutte le persone timide sono necessariamente introverse, e viceversa.

In conclusione, sebbene timidezza e introversione siano spesso intrecciate nel linguaggio comune, sono concettualmente ed empiricamente distinte. La timidezza è caratterizzata da una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, mentre l’introversione è una preferenza per la riservatezza e l’introspezione. La timidezza è una caratteristica del temperamento delle persone, e –se eccessiva– può predire un disturbo d’ansia in futuro, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete e la riflessione. Tuttavia, nessuna delle due caratteristiche è patologica di per sé.

Comprendere queste differenze può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità presenti nella società e ad apprezzarne le caratteristiche.

 

Self-discrepancy: di cosa si tratta e quali sono i fattori protettivi

L’individuo sperimenta self-discrepancy quando i concetti di sé reale, sé ideale e sé normativo non coincidono. Tale discrepanza può portare a sentimenti di depressione e ansia. L’attitudine alla resilienza e la capacità di regolare le proprie emozioni risultano fattori protettivi nel fronteggiare la discrepanza percepita.

Cos’è la self-discrepancy

 La discrepanza fra i diversi concetti di sé, o self-discrepancy, e il disagio psicologico che questo crea nell’individuo sono temi esplorati nel tempo da diversi autori (Freud, 1933/1964; James, 1890; Horney, 1950; Rogers, 1961). Tuttavia, solo Higgins (1987) fu in grado di proporre un modello sistematico che fosse capace di mettere in relazione specifici tipi di self-discrepancy con alcune tipiche conseguenze emotive.

Secondo la teoria della self-discrepancy di Higgins (1987), l’individuo possiede tre differenti concetti di sé:

  • Reale, che è definito dagli attributi che la persona crede di avere attualmente;
  • Ideale, che corrisponde all’insieme di caratteristiche che l’individuo idealmente vorrebbe avere, in base a speranze e desideri;
  • Normativo, che rappresenta gli attributi che l’individuo pensa che dovrebbe possedere, in base a doveri e responsabilità.

A completamento della concettualizzazione di Higgins (1987), Ogilvie (1987) propose l’aggiunta di un quarto concetto di sé, il Sé Indesiderato. Questo può essere definito come il peggiore dei sé possibili, come l’istanza che raccoglie in sé tutti gli attributi che la persona non vorrebbe avere. Poiché basato su eventi reali e vissuti, si tratta di un concetto cruciale nei processi di auto-valutazione e di benessere psicologico, a differenza del Sé Ideale, che si concettualizza più come un’idea solo immaginata di sé.

Ansia e depressione come risposte alla self-discrepancy

La teoria assume che, a seconda delle discrepanze fra i concetti di sé, possono emergere vulnerabilità a specifiche emozioni. In particolare:

  • La discrepanza fra il Sé Reale e il Sé Ideale causerebbe un generale sconforto, dunque tristezza, insoddisfazione e depressione;
  • La discrepanza tra il Sé Reale e il Sé normativo causerebbe uno stato di agitazione, dunque ansia, paura e nervosismo.

Di base, maggiore è lo scarto che l’individuo percepisce fra i concetti di sé e il numero di disallineamenti o mancate corrispondenze, maggiore sarà l’intensità del disagio psicologico che proverà.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di sondare l’evidenza scientifica delle relazioni suggerite da Higgins (1987) fra specifiche discrepanze del sé e specifiche emozioni, ma i risultati sono apparsi spesso contraddittori. Alcuni studi hanno confermato che soggetti con elevata depressione riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Ideale e soggetti con elevata ansia riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Normativo; una recente meta-analisi (Mason et al., 2019), invece, ha riscontrato che discrepanze relative sia al Sé Ideale sia al Sé Normativo possono far scaturire sia ansia sia depressione, senza che fra essi sussistano dei legami univoci come postulato da Higgins (1987). Secondo l’ipotesi di Ozgul (et al., 2003), dal momento che gli individui internalizzano norme, valori e regole culturali da cui discendono standard ideali e normativi differenti, per la ricerca potrebbe essere difficile tipizzare in senso categoriale e assoluto concetti di Sé Ideale e di Sé Normativo che siano uguali per tutti.

I fattori protettivi: abilità di regolazione emotiva e resilienza

Alla luce dei risultati contraddittori ottenuti, fu lo stesso Higgins (1999) a suggerire agli studiosi di focalizzarsi su una nuova domanda di ricerca: “quando c’è l’effetto?”, ossia “in quali condizioni specifiche discrepanze del sé portano a sviluppare specifiche conseguenze emotive, come predetto dalla teoria?”. Ciò spinse i ricercatori a sondare i possibili fattori in grado di moderare tale relazione. Lo studio di Gurcan-Yilirim e Gencoz (2020), partendo dal presupposto che, in presenza di self-discrepancy, alcune capacità psicologiche risultano dei fattori protettivi contro stati emotivi negativi, si è posto l’obiettivo di valutare la funzione protettiva dell’abilità di regolazione emotiva e di resilienza.

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva è il processo attraverso cui gli individui sentono, comprendono, gestiscono ed esprimono le loro emozioni. I suoi elementi distintivi sono la comprensione, la consapevolezza e l’accettazione delle emozioni, il controllare i comportamenti impulsivi, quando si sperimentano emozioni negative, e l’avere accesso a delle strategie che aiutino a modulare le risposte emotive.

 All’interno della cornice teorica di Higgins (1987), si presume che le persone che non riescono a raggiungere i loro standard ideali o normativi o a discostarsi dai loro standard indesiderati possono provare ansia e depressione. In questa direzione, la capacità di regolazione emotiva potrebbe proteggere gli individui da tali esiti emotivi negativi: in presenza di self-discrepancy, più un individuo agisce con consapevolezza e accettazione delle proprie emozioni, più riuscirà a regolare efficacemente quelle negative che conseguono la percezione dello scarto fra i differenti sé.

Resilienza

La resilienza è l’abilità di mantenere o riacquistare uno stato di benessere psicofisico nonostante le esperienze avverse vissute. Si tratta di un insieme di attributi personali che permettono all’individuo di crescere anche nel momento in cui si devono fronteggiare eventi di vita negativi: adattabilità, capacità di problem solving, fiducia in se stessi, senso di supporto sociale, tolleranza agli affetti negativi, capacità di definire chiari obiettivi, orientamento all’azione, attitudine ad accettare positivamente il cambiamento e ad avere un forte scopo nella vita.

È possibile ipotizzare che, in presenza di self-discrepancy, tali caratteristiche siano un fattore protettivo che non permette di sviluppare significativo disagio psicologico: di fatto, anche in presenza di emozioni negative, le persone resilienti potrebbero vedere lo stress come un’opportunità per crescere, abbandonandosi a sentimenti negativi per meno tempo.

Conclusioni

Alla luce di quanto considerato, sarebbe auspicabile che nei programmi di benessere psicologico gli interventi prendano in considerazione l’importanza che i diversi concetti di sé rivestono nella vita emotiva dell’individuo. Sarebbe opportuno sia comprendere gli obiettivi e gli standard che le persone hanno relativamente ai loro Sé Ideali, Normativi e Indesiderati, così da aiutarle a ridurre il disagio psicologico in presenza di self-discrepancy, sia concentrarsi sul miglioramento delle loro capacità di regolazione delle emozioni e della resilienza, in qualità di strategie di coping protettive.

Perdonare se stessi e gli altri (2023) di Guidalberto Bormolini e Roberta Milanese – Recensione

Il perdono, “un balsamo miracoloso” in grado di curare le ferite emotive. Questo il tema del testo “Perdonare se stessi e gli altri. Strategie per fare pace con il passato”, scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione di un noto monaco Guidalberto Bormolini ed una stimata psicoterapeuta, Roberta Milanese, entrambi autori di già numerose pubblicazioni.

Il perdono libera l’anima, rimuove la paura.
È per questo che il perdono è un’arma potente.

Cit. Nelson Mandela (p.5)

 Il perdono non è soltanto oggetto di interesse nell’ambito della religione, ma anche in quello di diversi altri settori, dalla psicologia alla spiritualità e alla medicina; negli ultimi trent’anni ne sono stati messi in luce i suoi effetti benefici a livello psicofisico. Un “balsamo miracoloso” per le ferite emotive, lo definiscono gli autori del testo, ma, seppur utile, estremamente difficile da concedere e concedersi.

Rabbia, risentimento, rancore sono tra le emozioni che abitano il cuore della persona ferita, emozioni che diventano tossiche più per chi le prova che per la persona a cui sono indirizzate, ossia l’offensore. Ma chi è in grado di ferirci di più?

Genitori, fratelli, figli, partner. Spesso infatti la ferita è molto più sensibile al tipo di legame affettivo che all’effettivo danno.

Ma, ancora, dolore, senso di colpa, rimorso, vergogna, paura di soffrire nuovamente, desiderio di vendetta, spesso attanagliano la persona ferita, ma come affermava Francis Bacon “un uomo che medita la vendetta mantiene fresche le sue ferite” (p.20).

Cosa rende difficile perdonare?

Gli autori offrono ampie riflessioni, tra queste il confondere il perdonare con il dimenticare, perdonare come “scusare”.

“Nel perdono non si scusa il torto, ma ci si libera di tutte le emozioni e i pensieri negativi legati al ricordo di ciò che si è vissuto” (p.41).

Tra le spiegazioni rientrano anche il bisogno di giustizia, spesso mascherato di desiderio di vendetta, la tendenza a giudicare, ritenere il perdono come atto di debolezza, temere che perdonare debba per forza corrispondere al riconciliarsi.

Nella seconda parte del testo viene approfondito invece, come tali ferite emotive, affinché possano guarire, necessitino di tempo e di cura da parte della persona.

 Il testo si focalizza anche sul lavoro in psicoterapia, offrendo utili spunti, tecniche per gli addetti ai lavori, funzionali all’accompagnamento nel difficile, ma non impossibile, viaggio del perdono. Tra queste la scrittura dei torti subiti, la “congiura del silenzio” come manovra terapeutica utile ad evitare il continuo socializzare del problema, l’“epistolario della rabbia e della vendetta”, utile strumento volto a far decantare emozioni tossiche che impedirebbero il perdono, ed altro ancora, esposto con chiarezza e precisione.

Infine, l’ultima parte apre le porte a riflessioni più profonde sul registro spirituale. Il significato e l’importanza del perdono all’interno della religione cristiana, la confessione come strumento potente di riconciliazione, il perdono concesso anche in ambito giuridico. Tutti gli ambiti dell’uomo sono intrisi di colpe, pene e perdono per tornare alla vita; ancora una volta si evidenzia come il perdono sia faticoso ma essenziale strumento di guarigione non tanto e non solo verso chi è rivolto, quanto per la stessa persona che lo concede.

Una lettura dal tema importante ma resa leggera, un pregio riconoscibile nello stile di entrambi gli autori del testo. Se il perdono è un prezioso dono, questo testo ne sa esaltare anche la bellezza e utilità.

L’accettazione del lutto

Approfondiamo di seguito il lutto e la sua elaborazione, soffermandoci sull’accettazione come fase finale e indicando infine gli orientamenti terapeutici di riferimento.

 Accettare una perdita significativa non è un processo semplice. Alla fine, però, si arriva a un punto in cui si può riconoscere che la perdita è avvenuta e ci si adatta al cambiamento. L’accettazione è considerata l’ultima fase della teoria del lutto ideata dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Tale teoria offre una visione del processo di elaborazione del lutto, la cui accettazione porta alla comprensione di una nuova realtà che può illuminare il cammino per uscire dal lutto.

Introduzione

L’incontro dell’uomo con la morte è uno degli argomenti su cui più si è scritto dall’inizio della stessa apparizione dell’uomo sulla terra. Numerosi sono i riferimenti bibliografici e filmici che ci accompagnano fin dall’infanzia; pensiamo, ad esempio, alla morte di Mufasa ne “Il Re Leone” o a quella della mamma di Bambi. Sono forse un mezzo fornitoci per normalizzare la morte e aiutarci a capire che è solo una parte della vita? Il nostro modo abituale di vivere e di pensare, tuttavia, ci spinge a negare la temporaneità dell’esistenza e ci permette di accorgerci della morte solo quando tocca altri a noi vicini. Il lutto è infatti riconosciuto come il più grande fattore di stress che affrontiamo come esseri umani (O’Connor, 2019).

L’elaborazione del lutto

Il processo di elaborazione del lutto può essere complesso e non è uguale per tutti. Alcune reazioni generali e universali alla perdita sono l’incredulità per la morte, la rabbia, il pianto, la negazione, il senso di colpa ecc. Il senso di vuoto e l’intensa nostalgia del defunto sono i sintomi principali di un lutto prolungato. Nell’edizione rivista della Classificazione Internazionale delle malattie (ICD-11), il lutto è descritto come un intenso dolore emotivo, difficoltà ad accettare la perdita e incapacità di sperimentare uno stato d’animo positivo. Queste reazioni sono associate a una compromissione funzionale e durano più di sei mesi dopo la perdita (Pop-Jordanova, 2021). Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) questa condizione viene definita “disturbo da lutto persistente e complicato” quando perdura per oltre 12 mesi.

Nel 1969 la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross, ha proposto una teoria secondo la quale il lutto avviene in cinque fasi: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione.

  • Negazione: nella prima fase del processo di elaborazione del lutto, la negazione ci aiuta a minimizzare il dolore schiacciante della perdita. Mentre elaboriamo la realtà della perdita, cerchiamo anche di sopravvivere al dolore emotivo.
  • Rabbia: la seconda fase del lutto è la rabbia. Stiamo cercando di adattarci a una nuova realtà e probabilmente stiamo vivendo un forte disagio emotivo. Le cose da elaborare sono talmente tante che la rabbia può sembrare uno sfogo emotivo.
  • Contrattazione: quando si affronta una perdita, non è insolito sentirsi così disperati da essere disposti a fare qualsiasi cosa per alleviare o minimizzare il dolore. In questa fase del lutto, si può cercare di contrattare per cambiare la situazione, accettando di fare qualcosa in cambio di un sollievo dal dolore provato.
  • Depressione: durante la nostra esperienza di elaborazione del lutto, arriva un momento in cui la nostra immaginazione si calma e iniziamo lentamente a guardare alla realtà della nostra situazione attuale. In questa fase del lutto, tendiamo a chiuderci in noi stessi man mano che la tristezza aumenta.
  • Accettazione: quando arriviamo a un punto di accettazione, non smettiamo di sentire il dolore della perdita, ma non stiamo più resistendo alla realtà della nostra situazione e non stiamo lottando per renderla diversa.

L’accettazione del lutto

“Accettare non significa essere felici della perdita. Piuttosto, in questa fase si accettano finalmente il dolore e la perdita subiti e si inizia a guardare avanti e a pianificare il futuro” (Stroebe et al., 2017).

 Questa fase consiste nell’accettare il fatto che esiste una nuova realtà che non può essere cambiata e nel capire come tale realtà avrà un impatto sulla propria vita, sulle proprie relazioni e sulla propria traiettoria. Accettare non significa scivolare di nuovo nella negazione, fingendo che la perdita non sia avvenuta. Piuttosto, accettare significa abbracciare il presente, comprendere la portata della perdita piuttosto che combatterla, accettare la responsabilità di se stessi e delle proprie azioni e iniziare il viaggio verso una nuova fase della vita con soddisfazione.

L’accettazione è un concetto essenziale in diversi orientamenti terapeutici, tra cui l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT). Nell’ACT, accettazione significa aprirsi e fare spazio a emozioni, sensazioni e sofferenze, abbandonando la lotta contro di esse. Questo non implica volerle o farsele piacere, ma semplicemente offrire loro una casa affinché l’impulso a evitarle non finisca per esercitare un controllo sul comportamento (Presti & Miselli, 2018). Nella DBT, accettazione significa comprendere che tutti noi stiamo facendo del nostro meglio. La pratica dell’accettazione convalida le proprie emozioni, i propri pensieri e le proprie azioni. Ciò può aiutare a cambiare la propria prospettiva su una situazione e, normalizzando esperienze come il lutto, si possono trovare meccanismi di coping per affrontare lo stress ed emozioni complesse (Theriault, 2012).

Conclusioni

Le emozioni provocate da una perdita significativa possono essere molto difficili e, in alcuni casi, possono creare l’illusione che la propria vita sia irrimediabilmente compromessa. Come non si può controllare la pioggia che ha rovinato un’uscita, il volo perso che è costato una fortuna o le conseguenze di una relazione sentimentale, non è possibile controllare la perdita di qualcuno o qualcosa. L’accettazione spesso non è una pratica facile da implementare. Tuttavia, crea la possibilità di acquisire fiducia per il futuro, e agganciarsi a questa scelta iniziale diventa fondamentale per plasmare la propria realtà e superare il dolore.

Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood – Report dall’evento di Milano

Report del Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood tenutosi a Milano l’11 e il 12 maggio.

 

 Tony Atwood, psicologo clinico britannico, che esercita a Brisbane (Australia) è considerato il più grande esperto mondiale di Sindrome di Asperger. La Sindrome di Asperger rientra, secondo la più recente classificazione diagnostica, all’interno dello spettro dell’autismo (DSM 5, 2013), che prevede tre livelli che aiutano a identificare la gravità dei sintomi nei domini della comunicazione e dei comportamenti/interessi ristretti o ripetitivi. Le persone con Asperger sono quasi sempre sovrapponibili per caratteristiche alle persone con autismo lieve (livello 1) proprio perché la condizione di neurodiversità che le caratterizza richiederebbe di per sé un supporto minimo per funzionare negli ambiti di vita. Spesso però la società, nel non fornire questo aiuto minimo nei vari contesti, si rende responsabile di impoverire le risorse personali e ostacolare un progetto di vita finalizzato alla piena autonomia. Il mondo del lavoro gioca in questo un ruolo decisivo e il Prof. Atwood dedica proprio l’intero convegno a questo tema.

Come è noto, la sfera lavorativa è molto importante per ogni individuo, sia per l’aspetto economico, che contribuisce all’indipendenza, sia perché partecipa alla costruzione identitaria. La dignità data dal lavoro è però tutt’oggi un diritto non garantito a tutte le persone, specialmente a quelle che divergono da quegli standard di produttività ritenuti fondamentali. Ma questa non è che una delle ragioni per cui le persone con autismo, seppur altamente qualificate, non solo ritardano l’ingresso nel mondo del lavoro ma faticano anche a mantenere un impiego nel lungo periodo. Le caratteristiche specifiche della maggior parte delle persone nello spettro dell’autismo le portano ad esempio ad avere difficoltà nella gestione dello stress oppure ad avere atteggiamenti con colleghi e capi considerati socialmente non adeguati (ad esempio correggere un errore del capo di fronte ai colleghi). Le difficoltà sociali e relazionali che ne derivano si sommano spesso a quelle riscontrate negli altri ambiti della loro vita, minando il senso del proprio valore personale e inducendo spesso veri e propri stati depressivi. Atwood, riferendosi alla realtà australiana e inglese, attribuisce grande responsabilità al contesto socioculturale ed economico nel determinare la possibilità che le persone hanno di esprimere il proprio potenziale e lo fa condividendo il racconto di esperienze che sono tipiche anche del contesto italiano, questo perché le caratteristiche riconducibili all’autismo, spesso hanno come risposta universale l’esclusione.

Ma quali sono nel dettaglio le caratteristiche tipiche dell’Autismo che possono avere un impatto negativo in ambito lavorativo?

Le persone con autismo sono caratterizzate da una spiccata sensibilità sensoriale e da una generale difficoltà nella comprensione dei comportamenti sociali che richiede la capacità di decifrare le espressioni facciali e comprendere le infinite sfumature delle norme sociali, che per le persone neurotipiche sono frutto di apprendimenti spesso inconsci. Le persone con autismo possono non sapere, finché non gli viene esplicitamente insegnato, che correggere gli errori è una buona cosa ma se chi sbaglia è il capo, potrebbe essere opportuno non farlo o farlo con alcuni accorgimenti.

L’ipersensibilità sensoriale può aumentare il carico di stress perché spesso gli ambienti di lavoro sono rumorosi, le luci possono essere molto forti o può essere richiesto il contatto con superfici che risultano particolarmente sgradevoli al tatto.

Secondo Atwood, parlare dunque di inserimento lavorativo per persone con autismo, non può limitarsi alle riflessioni riguardo la mansione lavorativa, ma deve riguardare tutta la complessità che ruota attorno all’avere e mantenere un lavoro, dal colloquio all’eventuale licenziamento o cambio di mansione o luogo di lavoro; sappiamo che per le persone con autismo gestire i cambiamenti può risultare complicato ed è per questo che devono essere adeguatamente accompagnati.

Lo psicologo australiano sottolinea inoltre come la condizione di neurodiversità non sia rara ma ormai ampiamente diffusa, ciò rende la questione non più solo di appannaggio degli addetti ai lavori o dei familiari, ma anche della società tutta, che ha convenienza nel riconoscere le potenzialità e le caratteristiche delle persone con autismo. Anche il comparto legislativo, in relazione alla situazione italiana, dovrà andare in questa direzione, con politiche in grado di garantire ai cittadini con autismo la possibilità di manifestare le proprie peculiarità all’interno dei contesti lavorativi.

Questo potrà avvenire solo se i neurotipici si sforzeranno di riscrivere in parte le norme sociali nella direzione di una maggior inclusione della neurodiversità e, a quel punto, un capo che si sentirà correggere da un dipendente con autismo, ne saprà apprezzare la trasparenza e la dedizione al risultato.

Verso una definizione di Mansplaining

Psicopatologia della consapevolezza (2023) di Fritz Perls – Recensione

“Psicopatologia della consapevolezza”, recentemente pubblicato anche in Italia dalla Casa Editrice Astrolabio nell’ottima traduzione di Piergiulio Poli e Silvia Pellegrini, è un libro che comprende uno scritto inedito di Fritz Perls e una serie di commenti di alcuni tra i principali esponenti della Gestalt contemporanea.

La Gestalt e il pensiero di Perls

L’incontro con il libro ha generato un’esperienza intensa, ricca di emozioni contrastanti. Ho trovato un Perls molto diverso da quello che traspare dai suoi ultimi scritti, qui incline a un atteggiamento che, con un’associazione che potrebbe fargli storcere il naso, somiglia alla rêverie o alla consapevolezza preconscia, con cenni di riconoscimento e affetto per i suoi contemporanei e persino per Freud, aperto a problematizzare questioni di carattere generale e teorico, non solo di carattere psicologico ma che spazia nei territori della filosofia e persino della metafisica.

Quella che invece ha trovato conferma è la sua capacità non comune di sollecitare, elicitare, indurre associazioni e intuizioni (o insight, per usare una terminologia cara ai gestaltisti) in chi legge, grazie a una scrittura evocativa e fortemente insatura, quello stile che fa dire spesso ai suoi detrattori che non è stato un pensatore analitico e capace di costruire sistemi teorici strutturati e solidi.

Il libro parte con l’enunciazione di alcuni rilievi critici della psicologia a lui contemporanea, alcuni dei quali già espressi altrove, come la critica all’associazionismo e al modello dell’arco riflesso come paradigma del comportamento, l’avvertenza già cara a Freud di non scambiare i ricordi con il passato reale, la critica al concetto di empatia, altri formulati in modo originale o più esplicito che altrove, ossia la critica all’ipotesi della “mente” come qualcosa di reale e la confusione tra autorealizzazione e realizzazione di Sé, dove il Sé è descritto come un “fenomeno narcisistico appartenente al contesto o all’immaginazione”.

Particolarmente pregnante è il fatto che, nella critica al concetto di Ego e di mente, che rende ragione del fatto che alcuni gestaltisti abbiano descritto la Terapia della Gestalt come un comportamentismo fenomenologico, Perls si spinge a definire la prima struttura dell’esperienza come l’incontro tra Io e Tu, con un riferimento chiaro a Buber e all’esistenzialismo.

Nel riferimento alla distinzione tra il passato e i ricordi, Perls con poche pennellate spazza via una delle più scorrette accuse che la vulgata psicologica gli ha fatto, ossia che nell’attenzione esagerata al presente si sia dimenticato il fatto che ogni uomo ha una storia, è inserito in un flusso di eventi che dà senso alla sua esistenza e non può pensare di vivere in un qui ed ora avulso dalla temporalità (accusa che fa sorridere, vista la profonda conoscenza di Heidegger che traspare nelle pagine di questo scritto):

Nella terapia la cosa importante non è il passato, ma ciò che del passato è ancora nel presente, ovvero le molte gestalten incomplete che il paziente porta ancora con sé.

Nel secondo capitolo ci parla di Friedlander, un filosofo tedesco molto importante per la sua formazione, che gli ha fornito, come lui stesso afferma, una sorta di orientamento nel mondo che Perls manterrà fino alla fine. I concetti fondamentali della filosofia di Friedlander sono la struttura polare dell’esperienza, che si declina in una serie di dimensioni caratterizzate dall’avere due poli estremi che, spesso, sono vissuti come rigide dicotomie, e il concetto di indifferenza creativa, la qualità che permette, appunto, di muoversi lungo le polarità superando gli irrigidimenti e i blocchi appresi dall’esperienza. Questo concetto non è del tutto nuovo, e in effetti Perls riconosce i punti di contatto della filosofia di Friedlander da un lato con i presocratici e dall’altro con diverse filosofie orientali.

In questo capitolo ho trovato molto interessante il modo in cui Perls recupera uno dei concetti fondamentali del pensiero di Freud, ossia la polarizzazione tra Eros e Thanatos, che declina in modo interessante pur rifiutando il costrutto di “Istinto di morte”.

L’argomento centrale del saggio, che dà il titolo all’opera, è un lungo capitolo sulla consapevolezza, che per l’ultimo Perls diventa l’aspetto più importante dell’esistenza e il nodo centrale del processo terapeutico, mettendo sullo sfondo le precedenti ipotesi e i modelli (anche molto minuziosi) sul ciclo del contatto e sulla struttura processuale del Sé:

Mi sono reso conto che il centro di ogni conoscenza è la consapevolezza e adesso lavoro in base all’equazione consapevolezza = qui e ora = realtà. La filosofia ontologica, su cui si basa l’esistenzialismo, è incompleta senza la cognizione che (anche se tutto è come è) la trasformazione dell’essere in esserci, in Dasein, può avvenire solo attraverso la consapevolezza dell’essere stesso. […] Con l’equazione su menzionata viene rimosso il primo ostacolo per una teoria universale valida: tale ostacolo è la finzione che noi abbiamo una mente.

Nella disamina approfondita del concetto di consapevolezza, un aspetto importante è che Perls riformula anche la teoria delle “resistenze”: se nella formulazione originaria della terapia della gestalt sono associate alle interruzioni del ciclo del contatto (in alcune rielaborazioni della teoria si arriva ad associare specifiche modalità di interruzione a specifiche fasi del ciclo), in quest’opera Perls le legge come manifestazioni della polarità negativa della consapevolezza, azioni deliberate per annullare almeno in parte un’esperienza di consapevolezza intensa quando l’individuo non ha sufficiente fiducia nell’autoregolazione organismica.

Parlando del fine della terapia, Perls mette in crisi un’altra immagine stereotipata creata per stigmatizzare il suo pensiero e la sua visione dell’uomo, ossia quella di un cultore dell’individualismo estremo ed egoistico:

La vera terapia non è solo l’adattamento alla società, ma l’integrazione dell’autorealizzazione e l’identificazione con i bisogni sani della società e con il cosmo.

Le critiche a Perls

Fin qui, il manoscritto di Perls. I commenti, quasi tutti provenienti da una specifica area culturale all’interno del movimento gestaltico, sono stati per lo più spiacevoli conferme dell’ennesimo tentativo di regolare i conti con un padre che si tenta di rimuovere e che non ha nessuna intenzione di facilitare questo compito.

Le critiche allo scritto, che sconfinano quasi sempre nelle critiche all’ultimo periodo della vita personale e professionale di Perls, non sono nuove nei contenuti, e non hanno a loro sostegno delle argomentazioni forti.

Una prima critica, di natura tautologica, è che l’ultimo Perls si distanzia da quello che ha dato il via alla prima formulazione della “Teoria della terapia della Gestalt” insieme a Paul Goodman e alla moglie Lore Posner, e siccome quello resta il punto più alto della formulazione teorica, allora quello che ha fatto dopo è poco interessante.

Una seconda, che trovo intellettualmente poco onesta, è insistere sul fatto che l’ultimo Perls avesse un approccio alla terapia e in generale all’umano di tipo pragmatico, ateorico. Partendo dal presupposto che, per mettere in evidenza l’assurdità della critica, basterebbe leggere anche solo questo saggio (e infatti alcuni commenti cercano in modo capzioso di convincere il lettore che gli aspetti teorici proposti siano comunque insufficienti), il limite della critica è che si confonde il rifiuto di un approccio teoretico alla psicoterapia (il rifiuto cioè di una teoria generale della realtà, di una metapsicologia, per usare un concetto psicoanalitico) con il rifiuto di avere dei presupposti teorici, che invece sono presenti e riconoscibili: l’esistenzialismo, la filosofia del come se di Vaihinger, il pensiero di Buber, la semantica generale di Korzibskj, oltre al già citato Friedlander, solo per citare i più rilevanti. Dire che per l’ultimo Perls la psicoterapia fosse il reparto operativo di una filosofia esistenziale non vuol dire sminuirne la portata teorica, ma piuttosto riconoscere che nel corso degli anni ha deciso di mettere sullo sfondo le questioni metapsicologiche e ha focalizzato la sua attenzione sulla consapevolezza, cosa che tra l’altro in quest’opera si coglie perfettamente.

Tra i commenti, i più rilevanti sono quello di Robert Resnick, che si differenzia dagli altri perché è il caldo e sentito racconto di un incontro e di un’amicizia, quella con Perls, appunto, senza nessun tentativo di fare un regolamento di conti postumo senza contraddittorio, come invece avviene altrove, e quello di Bernd Bocian, che ci racconta il forte legame di Perls con alcuni analisti a lui contemporanei, soprattutto Erich Fromm e Wilhelm Reich.

Spiace che Perls non abbia potuto portare avanti quest’opera, che nelle sue intenzioni era un primo capitolo di un progetto ambizioso, e spero che prima o poi venga colmata la lacuna che vede mancare un tentativo di dare una struttura organica o quantomeno epistemologicamente fondata, consapevoli della natura paradossale del compito, alla “Gestalt della consapevolezza” (Per citare J. M. Robine, curatore del libro).

La neuroplasticità: la capacità del nostro cervello di modificarsi

Il termine neuroplasticità, o plasticità cerebrale, indica la capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che da quello funzionale, sulla base dell’esperienza al fine di apprendere informazioni sull’ambiente, oppure per riparare o compensare danni cerebrali (Crespi & Cirillo, 2022).

 

 Si potrebbe quindi parlare di “mappe” soggette a modificazioni sulla base dell’esperienza esterna (segnali afferenti visivi, uditivi, somatosensoriali, ecc.) o di cambiamenti dell’ambiente interno (lesioni cerebrali, patologie focali e patologie diffuse).

La capacità neuroplastica del cervello permette al sistema nervoso di riorganizzare la sua struttura, le sue connessioni e il suo funzionamento. Come funziona questo processo? Una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni nel momento in cui sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come legge di Hebb, che può essere riassunta dall’espressione “what fires together, wires together” (Crespi & Cirillo, 2022): la trasmissione sinaptica tra neuroni è facilitata ogni volta che un circuito nervoso è frequentemente attivato e neuroni pre e post sinaptici sono attivati simultaneamente.

Neuroplasticità e apprendimento

In passato si riteneva che la plasticità fosse limitata a periodi specifici dello sviluppo e che oltre tali periodi le capacità acquisite non potessero più essere modificate. Effettivamente la plasticità cerebrale varia durante il corso della vita ed è massima in specifiche finestre temporali, note come periodi critici. In questi periodi è necessario che l’individuo venga esposto all’esperienza sensoriale per poter stabilire rappresentazioni corticali ottimali: infatti, dopo la chiusura di tali periodi critici, una serie di elementi funzionali e strutturali impedisce significativi cambiamenti plastici nel cervello. Il passaggio da uno stato plastico a uno più fisso è vantaggioso in quanto consente il consolidamento e il mantenimento di più complesse funzioni percettive, motorie e cognitive, ma, se l’esperienza sensoriale è anormale o assente, possono esserci significativi effetti negativi, come la mancata acquisizione di abilità sensoriali e cognitive (Cisneros-Franco et al., 2020).

La riduzione di questa flessibilità a livello cerebrale è dovuta al processo di apoptosi, cioè la morte cellulare programmata, nella quale le cellule che non sono rilevanti per una certa abilità cognitiva localizzata in una precisa area cerebrale vengono eliminate. Il momento in cui ciò avviene è determinato da un orologio biologico che stabilisce quando una certa area tende a maturare. Come detto sopra, l’assenza o la modificazione delle stimolazioni può causare la mancata acquisizione di una funzione.

Un esempio esplicativo di questo meccanismo è quello di Hubel e Wiesel (1977), che svolsero esperimenti su alcuni animali: hanno testato gli effetti della cucitura della palpebra di gatti e scimmie neonate e, quindi, la mancata esposizione della retina a stimolazioni esterne. Se ciò perdurava oltre il terzo mese (periodo critico), si verificava una cecità irreversibile dell’animale, con un deficit irreversibile della maturazione della corteccia occipitale; se invece le palpebre venivano scucite entro uno o due mesi, l’animale era in grado di acquisire le abilità visive.

Neuroplasticità in età adulta

Nonostante il cervello sia più plastico durante lo sviluppo, è stato dimostrato che anche la corteccia cerebrale dell’adulto ha una certa potenzialità di riorganizzazione plastica.

Negli esseri umani è possibile osservare come danni cerebrali causino la morte cellulare e la compromissione dei circuiti funzionali. Le aree che circondano il tessuto e che erano precedentemente connesse a quelle danneggiate, sono soggette a processi rigenerativi che possono portare a un certo grado di recupero funzionale. Si parla quindi di plasticità funzionale: i circuiti esistenti vengono riadattati in modo da compensare almeno in parte il deficit conseguente alla lesione. Si definisce invece plasticità neuroanatomica il processo per cui i neuroni sopravvissuti nell’area danneggiata tendono a creare nuove connessioni con il tessuto nervoso circostante.

 La plasticità può essere riscontrata anche negli individui adulti senza lesioni cerebrali, ad esempio nell’apprendimento di nuove abilità per effetto di esercizio ripetuto e continuato, che coinvolgono una parte specifica del corpo, determinando un ampliamento della rappresentazione di quel distretto corporeo nella corteccia somatosensoriale e motoria. Un esempio molto esplicativo di questo meccanismo è quello dello studio svolto da Woollett e Maguire (2011) sui tassisti londinesi: l’ippocampo posteriore, implicato nelle conoscenze visuo-spaziali deputate alla navigazione, è risultato di volume maggiore nei tassisti e l’ampiezza di tale struttura cerebrale è risultata crescere con l’aumento progressivo dell’esperienza come tassista.

Infine, con l’avanzare dell’età, il cervello subisce modificazioni in diverse aree cerebrali, con conseguente deterioramento delle corrispondenti funzioni cognitive. Per intervenire su questo processo possono essere praticati alcuni training specifici, che possono riguardare diverse funzioni. Essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora, è stato dato molto spazio ai training di memoria, che mirano ad aumentare la plasticità facendo utilizzare alla persona varie strategie (es. l’associazione, la categorizzazione, i metodi immaginativi ecc.) per migliorare i processi di codifica e recupero. Questi training si basano sull’assunto per cui la cognizione, così come il cervello, sono plastici anche in età avanzata seppure in maniera minore rispetto all’età infantile; il cervello anziano, infatti, tende a riorganizzarsi in modo da far fronte al deterioramento cerebrale dovuto all’avanzare dell’età (Camiscia, 2022).

Considerazioni conclusive

La neuroplasticità costituisce un interessante meccanismo del funzionamento cerebrale e una sua maggiore comprensione può contribuire ad accrescere le conoscenze sul sistema nervoso e sulle possibilità di intervento per potenziare abilità cognitive e somato-sensoriali o per compensare abilità deficitarie a seguito di danno o deterioramento.

Cos’è la self-disclosure del terapeuta

Oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia: il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni.

 

 La self-disclosure in psicoterapia è la rivelazione verbale intenzionale di ciò che il terapeuta sta pensando o sentendo nel presente o di ciò che egli ha personalmente vissuto nel passato (Knox e Hill, 2003). Anche se informazioni non verbali come il setting dello studio e l’atteggiamento comunicativo e corporeo del terapeuta sono parti di sé che vengono svelate, quando si parla di self-disclosure in psicoterapia si fa riferimento a due principali categorie:

  • Auto-rivelazioni immediate o in vivo, che rivelano qualcosa su come il terapeuta sta percependo il qui ed ora della situazione terapeutica (sentimenti o pensieri sul paziente o sulla relazione);
  • Auto-rivelazioni biografiche, che rivelano qualcosa sulla vita personale del terapeuta al di fuori della terapia (ricordi di infanzia, condizioni di salute, gusti, preferenze).

Il tema della self-disclosure del terapeuta è sempre stato controverso, specie in ambiente psicoanalitico: secondo Freud (1912), il terapeuta doveva essere uno “schermo opaco impenetrabile” capace di mantenere l’asimmetria epistemica tra sé e il paziente (Mitchell e Black, 1995). Le scuole psicodinamiche, invece, addolcirono questa posizione, ammettendo la soggettività e la storia personale del terapeuta come parte ineliminabile della terapia (Aron, 1996). Da sempre gli psicoterapeuti umanistico-rogersiani sostengono che la self-disclosure ha un grande potenziale terapeutico, garantendo un atteggiamento genuino e congruente da parte del professionista (Yalom, 2003). Anche nella terapia cognitivo-comportamentale le auto-rivelazioni del terapeuta sono preziose per facilitare interventi emotivamente intensi, come l’esposizione agli stimoli temuti (Goldfried, Burckell e Eubanks-Carter, 2003).

Fino a che punto spingersi? “Ci sono passato anche io, ma tanto tempo fa”

Studi empirici indicano che oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia (Henretty e Levitt, 2010). Il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni (Borys e Pope, 1989).

In effetti, alcune ricerche sostengono che le rivelazioni del terapeuta che indicano somiglianza con i pazienti, normalizzando le esperienze di questi ultimi e umanizzando il terapeuta, aumentano l’efficacia del trattamento (Audet, 2011). Addirittura, alcuni studi ritengono che i terapeuti che hanno sperimentato personalmente problemi psicologici sarebbero qualificati in modo preferenziale per aiutare pazienti con problemi simili e, in questo senso, sono invitati a condividere la loro storia personale a fine terapeutico. Zerubavel e Wright (2012) hanno esplorato questa idea nel contesto dell’etichetta di “guaritore ferito”: presupponendo che i guaritori feriti differiscono dai professionisti compromessi (in quanto i loro problemi attualmente non ne impediscono l’efficacia terapeutica), i primi dovrebbero prendere in considerazione la divulgazione della propria storia di salute mentale per ispirare la guarigione del paziente e incoraggiarlo a condividere il proprio materiale difficile.

 In effetti, la domanda su cui si concentra l’attuale attenzione clinica non è tanto categoriale, chiedendosi se i terapeuti dovrebbero rivelare i propri problemi psicologici o meno; essa è più dimensionale e si interroga su fino a che punto i terapeuti dovrebbero spingersi nell’auto-rivelazione. Considerando che la presenza della self-disclosure del terapeuta è generalmente preferita alla sua assenza, lo studio di McCormic, Pomerantz, Ro e Segrist (2019) ha provato che solo un livello moderato di self-disclosure tende a produrre valutazioni più favorevoli da parte dei pazienti; diversamente, nessuna auto-rivelazione o livelli estremi o lievi di condivisione di sé finiscono per stimolare percezioni imprevedibili, positive o meno, da parte dei pazienti (Gelso e Palma, 2011).

Nel tentativo di delineare i criteri elettivi attraverso cui i terapeuti possano condividere parti di sé in una misura adeguata e utile all’efficacia terapeutica, Moody e colleghi (2021) hanno ipotizzato che la variabile temporale possa essere un ottimo parametro per calibrare se e quanto condividersi con il paziente. Di fatto, solo i terapeuti che avevano utilizzato self-disclosure su eventi passati (e non attuali) della propria storia personale avevano ottenuto maggiore apprezzamento da parte dei pazienti. In questo senso, l’idea che il terapeuta si riveli affidandosi più ad espressioni come “anche io, molto tempo fa”, piuttosto che a frasi come “anche io, di recente”, potrebbe avere un impatto più positivo sul paziente.

Alcune raccomandazioni utili per i professionisti

Alla luce di quanto considerato, Hill e colleghi (2018) hanno proposto alcuni consigli pratici utili ai professionisti per calibrare le self-disclosure in terapia:

  • Essere cauti, ponderati e strategici nel loro utilizzo, avendo in mente l’obiettivo per cui le si utilizza;
  • Valutare come il paziente potrebbe rispondere e se è probabile che l’auto-rivelazione lo aiuti;
  • Assicurarsi che la relazione terapeutica sia forte prima dell’intervento;
  • Divulgare materiale personale in modo sintetico, con pochi dettagli e relativamente a temi risolti;
  • Rendere l’auto-rivelazione rilevante per il materiale del paziente, riportando l’attenzione su di lui una volta concluso l’intervento;
  • Osservare la reazione del paziente e valutare di conseguenza l’efficacia della self-disclosure.

Autoinganno: l’arte di raccontarsela

Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente.

 

La situazione a casa è talmente pesante che sono costretto a bere

Mi maltratta spesso, per il forte sentimento che prova per me…

Ero un grande talento, se avessi incontrato altri allenatori avrei sicuramente fatto carriera

Sono a dieta, però oggi è stata una brutta giornata quindi mi merito un dolcetto

 Quante volte capita di raccontarsela? Se ricordate “La volpe e l’uva” di Esopo vi è chiaro di cosa sto parlando. Nella famosa favola è un animale a raccontarsela, ma il messaggio era ovviamente diretto a tutti noi. Esopo era consapevole che gli esseri umani sono particolarmente abili ad auto-ingannarsi, raccontare a sé stessi versioni poco verosimili della realtà, se non talvolta palesemente false.

Ma a cosa serve raccontarsela? L’autore che si è occupato maggiormente di studiare il tema dell’autoinganno è lo psicologo evoluzionista Robert Trivers, il quale ha cercato di comprendere quale utilità possa avere tale capacità cognitiva per gli esseri umani. Secondo Trivers, le funzioni dell’autoinganno sono molteplici: il diniego dell’inganno stesso, impersonificare un personaggio pubblico che appaia altruista, produrre racconti interni non obiettivi del comportamento messo in atto e false narrazioni storiche che nascondano le vere intenzioni. L’autoinganno nega una parte di sé non facilmente accettabile, da celare agli altri ma in primis a sé stessi.

L’avvocato interiore

Per comprendere l’utilità dell’autoinganno dobbiamo prima considerare la funzione del pensiero cosciente. Secondo i più recenti studi delle scienze cognitive, la mente cosciente assomiglia a un osservatore a posteriori, un improvvisatore di senso, più che a un agente; ciò significa che molto spesso i nostri pensieri arrivano in un secondo momento a spiegare qualcosa che è già avvenuto, più che rappresentare il motore dell’azione.

La mente non fa altro che interpretare, giustificare, conferire senso al nostro comportamento, esattamente come fa per il comportamento altrui […]. Il compito della mente improvvisatrice è rendere pensieri e comportamenti il più coerenti possibili, rimanere nel “personaggio” meglio che riusciamo. Per far ciò, il nostro cervello, in ogni momento, non fa che sforzarsi di pensare e agire in maniera tale da allinearsi ai nostri pensieri e alle nostre azioni precedenti. (Chater, 2021).

Similmente, Barret (2017) spiega che le nostre emozioni sono il risultato di sensazioni derivanti dal sistema interocettivo –l’affect, a valenza positiva o negativa e ad arousal alto o basso– interpretate poi a livello conscio: secondo la metafora utilizzata dall’autrice, l’affect è seduto al posto di guida mentre la razionalità è un passeggero chiacchierone. Il pensiero razionale quindi conferisce un significato emotivo a quanto già accaduto nel nostro corpo.

La mente inconscia (qui il termine non ha a che fare con la psicoanalisi, ma con la gerarchia dei processi neurali) è in anticipo rispetto alla mente cosciente nella presa di decisioni, la coscienza arriva soltanto successivamente nel corso del processo. In qualche modo, è come se la mente cosciente fungesse da avvocato interiore, che può commentare, giustificare, razionalizzare o bandire dalla consapevolezza i nostri comportamenti, intenzioni e talvolta gli stessi pensieri. Una suggestiva metafora dello psicologo morale Jonathan Haidt (2013) ci aiuta a comprendere questo punto:

Il cervello è un’entità duale, rappresentabile come un elefante e il suo portatore. L’elefante è la parte istintiva, mentre il portatore quella razionale. […] Il portatore è bravo a trovare scuse/giustificazioni/razionalizzazioni per ciò che l’elefante ha già fatto o vuole fare. Non importa se queste motivazioni siano fondate o meno. Procrastiniamo e troviamo scuse tipo: “domani sarò più motivato”, “domani avrò più tempo”. Proviamo a difendere le nostre intuizioni morali sul piano razionale, per esempio tirando in causa presunti danni che in realtà non ci sono. Invece, semplicemente, le intuizioni morali precedono il ragionamento strategico.

Coerentemente con tale prospettiva, nell’autoinganno sono particolarmente coinvolti meccanismi di diniego, proiezione e dissonanza cognitiva. Tendiamo a cercare informazioni che ci diano ragione, evitando e negando quelle che potrebbero smentirci o sgualcire la nostra immagine; ad esempio, accogliamo e valorizziamo –e magari condividiamo sui social– gli articoli che sostengono le nostre stesse idee, trascurando quelli che ci danno torto (gli algoritmi dei motori di ricerca, purtroppo, ci danno una grande mano in questo). Lo stesso meccanismo viene messo in atto con i ricordi: le persone ricreano continuamente le proprie memorie sulla base dell’obiettivo del momento, il quale spesso è proprio mantenere un’immagine positiva di sé stesse. Diverse ricerche dimostrano che tendiamo a rievocare più facilmente i nostri comportamenti corretti rispetto a quelli scorretti, mostrando invece una tendenza opposta quando ricordiamo i comportamenti altrui (Trivers, 2013).

Inoltre, l’autoinganno subentra spesso quando ricostruiamo motivazioni e narrazioni per razionalizzare i nostri comportamenti scorretti e discutibili (Mercier e Sperber, 2011).

È inutile che perda tempo a fare la raccolta differenziata con tutte le industrie che continuano a inquinare.

Vohs e Schooler (2008) hanno effettivamente verificato sperimentalmente che, manipolando una variabile che consenta di ridurre la responsabilità personale, è più probabile che gli individui mettano in atto un comportamento immorale. Ed è proprio ciò che l’autoinganno ci consente di fare, quando attribuiamo il nostro comportamento a contingenze esterne per auto-assolverci. Per alleggerire il peso della responsabilità è necessario attribuire quest’ultima a qualcun altro: il diniego crea un buco nella realtà che ha bisogno di essere riempito. È come se esistesse un’equazione della responsabilità, tale che a una diminuzione di una parte corrisponde necessariamente un aumento da qualche altra (Trivers, 2013). Come a dire “se non voglio che dipenda da me, lo faccio dipendere da qualcun altro”. Proiezione.

È stata la sua gelosia a spingermi a tradirla!

Il diniego porta spesso ad altro diniego, poiché una volta negata la realtà non si torna indietro ammettendo di averla distorta. “Il diniego spinge a continuare a negare, e i costi potenziali aumentano a ogni giro” (Trivers, 2013).

Il meccanismo che genera maggior autoinganno è però l’evitamento della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957); quest’ultima consiste in un disagio causato da compresenti cognizioni o pensieri antitetici e per questo in contrasto tra loro. Un disagio che spesso viene gestito proprio attraverso l’autoinganno. Nel caso di cattive abitudini, ad esempio, è molto frequente osservare persone che risolvono in tal modo gli stati di dissonanza cognitiva, come “So che fumare uccide e fumo un pacchetto di sigarette al giorno”. Per uscire da un simile conflitto interno la persona può raccontarsi numerose autogiustificazioni: “Smetterò quando vivrò un periodo meno stressante”, “Fumare mi impedisce di ingrassare”, “Mi tocca fumare a causa del nervoso che mi fanno venire i colleghi”, “Di qualcosa si dovrà pur morire”, “Ci sono vizi peggiori” ecc…

Facciamo consapevolmente qualcosa di sbagliato e dobbiamo trovare una narrazione efficace che lo giustifichi, che allevi il conflitto interiore. Nuovamente, notiamo come la nostra mente assuma il ruolo di avvocato interiore che giustifica i nostri stessi pensieri e azioni, per evitare di farci sentire persone sbagliate o incoerenti.

Tanto più l’autoinganno procede –tramite diniego, proiezione e riduzione della dissonanza– tanto più le persone rischiano di allontanarsi. Trivers (2013) sostiene che “due persone possono partire da una posizione molto vicina riguardo a un certo argomento, ma via via che entrano in gioco forze contraddittorie di dissonanza cognitiva, e ne seguono autogiustificazioni, possono arrivare a due posizioni molto distanti. […]. Questo processo può essere una forza importante che spinge le coppie sposate verso il divorzio più che verso la riconciliazione”.

A volte l’autoinganno può anche assumere una funzione di placebo; recentemente mi è capitato di ascoltare il racconto di una persona che manipola intenzionalmente sull’orologio da polso i dati relativi alle sue ore di sonno, affinché queste risultino maggiori; una volta constatato che il dispositivo indica un buon numero di ore la persona si sente più riposata, pur riconoscendo che quel conteggio non è verosimile. Può sembrare assurdo, ma diversi studi ci raccontano che una pillola utilizzata come placebo può funzionare anche quando il paziente è al corrente dell’inganno (per esempio,  Kaptchuk et al., 2010).

Da questa prospettiva, le interpretazioni della realtà sembrano strumenti che l’individuo utilizza al bisogno per creare una narrazione che gli sia più funzionale possibile: giustificare i propri comportamenti e intenzioni, creare una realtà desiderata, avere una buona reputazione, sentirsi in un certo modo. La potenza delle narrazioni è davvero sorprendente!

Inganno me per ingannare te

 Von Hippel e Trivers (2011) hanno confrontato molti studi e teorie su bugiardi e liar scout, chiedendosi per quale ragione l’evoluzione avrebbe selezionato la particolare capacità di mentire a sé stessi. L’autoinganno si sarebbe evoluto negli esseri umani fondamentalmente per ingannare meglio gli altri: “Per imbrogliare gli altri, possiamo essere tentati di riorganizzare internamente le informazioni nei modi più improbabili, facendolo per lo più implicitamente […]. Nascondiamo la realtà alla nostra mente cosciente per celarla meglio agli spettatori esterni”. Una sorta di metodo Stanislavskij utilizzato nella vita reale. L’autoinganno ha qui la funzione di ricreare una fittizia realtà interiore, e convincersi di essa, per poi recitarla in maniera convincente. Mentire a sé stessi per poter mentire meglio agli altri; più mi convinco della mia bugia, più è probabile che il mio comportamento pubblico non la sveli.

“Non ho passato l’esame… in fondo è meglio così, avrò modo di studiare meglio”.

Autoingannarsi, prima di ingannare, favorirebbe un minor carico cognitivo e permetterebbe di essere maggiormente credibili. Infatti, la fatica del tenere in mente due rappresentazioni di realtà potrebbe farci scoprire tramite la produzione di indizi di menzogna: sbattere meno le palpebre, gesticolare di meno, fare pause più lunghe durante l’eloquio, tenere un tono di voce più alto e agire con maggior frequenza attività di spostamento (attività irrilevanti che si osservano spesso, anche in altri mammiferi, quando sono in atto due motivazioni opposte). Inoltre, al crescere del carico cognitivo, le persone tendono a lasciarsi sfuggire più spesso commenti e pregiudizi che altrimenti terrebbe per sé (Wegner, 2009). Dunque, il modo migliore per risultare credibili nell’inganno è ridurre il carico cognitivo, censurando la versione “vera” e convincendo prima sé stessi della versione distorta; mentire prima di tutto a sé stessi, convincendosi che la menzogna è la realtà, in modo da alleggerire i processi cognitivi e poter così comportarsi in modo più disinvolto. Il cervello può agire in modo più efficace quando è ignaro della contraddizione in atto (Trivers, 2013).

I costi dell’autoinganno

L’autoinganno è piuttosto diffuso nelle nostre vite e ha una funzione evoluzionistica; all’interno del gruppo, saper ingannare può risultare utile ad accaparrare risorse o a simulare uno status maggiore. Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente: “l’autoinganno sembra avere forti effetti immunitari, di solito in base alla regola che all’aumento dell’autoinganno corrisponde una diminuzione della forza immunitaria” (Trivers, 2013). Secondo Trivers c’è ancora un mondo da scoprire sulle correlazioni tra autoinganno e salute, ma i primi studi sembrano promettenti: a lungo andare l’autoinganno innesca meccanismi psicologici e fisiologici dannosi per chi lo ospita. Ad esempio, sappiamo che gli uomini che negano e nascondono la propria omosessualità manifestano un maggior numero di problemi immunitari (Cole et al., 1996). I benefici dello svelamento, invece, sono storicamente diffusi, basti pensare al ruolo “terapeutico” della confessione, comune nella maggior parte delle religioni sia in forma pubblica che privata (Trivers, 2013).

Da terapeuti, possiamo riscontrare un altro effetto dannoso dell’autoinganno prolungato: la resistenza al cambiamento. Se la persona continua a negare parti di realtà, o comunque racconta a sé stessa una realtà distorta, ecco che tale condizione può rappresentare un grosso ostacolo all’azione. L’autoinganno permette di mostrare una visione di sé diversa agli altri ma soprattutto a sé stessi; in qualche modo, consente di manipolare la realtà ma nel frattempo di mantenere lo status quo, poiché i cambiamenti desiderati avvengono soltanto nella mente. Le fantasie, le menzogne, le interpretazioni distorte possono essere sostitutive; in qualche modo possono bastare. E nel momento in cui i pensieri bastano, non si agisce, non si cambia. Tutto avviene puramente a livello mentale, come un racconto di cui si scrive a proprio piacimento la trama.

Mindfulness & Meditation Summit 2023

Il 20 e 21 ottobre, non perdere il Mindfulness & Meditation Summit, un evento formativo straordinario che cambierà il tuo modo di vivere e percepire il mondo che ti circonda.

La mindfulness, intesa come pratica di consapevolezza del momento presente, sta guadagnando sempre più riconoscimento come potente strumento per promuovere il benessere mentale, ridurre lo stress, sviluppare la resilienza emotiva ma anche di cambiamento e crescita personale. Questo Summit offre l’opportunità unica di immergersi nel mondo della mindfulness e scoprire il suo potere trasformativo.

Federmindfulness, organizzatrice dell’evento insieme al Provider ECM Sperling s.r.l., ha voluto riunire esperti internazionali, professionisti del settore mindfulness provenienti da tutto il mondo. Tra i relatori di spicco di questo evento, abbiamo il piacere di presentarti Daniel Siegel, uno dei principali esperti mondiali nel campo della neuroscienza e della mindfulness. Psichiatra, autore di bestseller e professore di psichiatria presso l’Università della California, Siegel è noto per il suo lavoro pionieristico nel campo della neurobiologia interpersonale e per aver integrato la scienza moderna con le pratiche di consapevolezza. In entrambe le giornate del Mindfulness & Meditation Summit, Siegel avrà dei momenti dedicati in cui condividerà la sua vasta esperienza e presenterà le sue ultime scoperte nel campo della neuroscienza e della mindfulness.

Attraverso le sue presentazioni coinvolgenti e le sessioni pratiche, Siegel ti guiderà nel comprendere come la mindfulness possa influenzare il cervello, la mente e le relazioni interpersonali. Avrai l’opportunità di imparare le pratiche di consapevolezza sviluppate da Siegel e scoprire come queste possano favorire il benessere emotivo, migliorare la comunicazione e promuovere relazioni più significative.

Oltre a Daniel Siegel, il Summit ospiterà molti altri relatori di talento, esperti e innovatori nel campo della mindfulness. Avrai l’opportunità di interagire con loro, porre domande e approfondire le tue conoscenze. Tra i relatori, potrai ascoltare nomi di spicco come Franco Fabbro, Caroline Welch, Geshe Tenzin Tempel, Silvia Bianchi, Michele Bovo, Loredana Buonaccorso, Alberto Chiesa, Franco Cucchio, Carlo Di Berardino, Roberto Gavin, Ambra Mara Giovannetti, Greta Gschwentner, Elena Luisetti, Nitamo Montecucco, Gioacchino Pagliaro, Francesca Sireci.

Questo evento è pensato per tutti, indipendentemente dal livello di esperienza nella pratica della mindfulness. Che tu sia un professionista sanitario, un professionista del benessere, ma anche un praticante mindfulness o un interessato all’argomento, il Mindfulness & Meditation Summit ti offrirà una ricca varietà di contenuti che soddisferanno le tue esigenze e ti aiuteranno a sviluppare le tue competenze.

Inoltre, siamo entusiasti di annunciare che il Congresso Mindfulness ha ottenuto il patrocinio di importanti istituzioni e organizzazioni tra le quali C.N.O.P., FNOMCeO, Fondazione Cariplo, Ass. Ita. Donne Medico, A.I.A.M.C., A.I.Te.R.P., A.I.C.P.R., F.I.A.M.O., S.I.O.M.I.. Questo sottolinea l’autorevolezza e l’importanza dell’evento nel panorama e nella comunità medico-scientifica e psicologica italiana.

Per maggiori informazioni sui relatori, inclusi Daniel Siegel, il programma dettagliato e le modalità di registrazione, ti invitiamo a visitare il sito ufficiale del Congresso Mindfulness a questo indirizzo.

Non perdere l’opportunità di partecipare a questo evento straordinario: iscriviti oggi stesso e inizia il tuo viaggio verso una maggiore conoscenza e consapevolezza!

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