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L’Effetto Mandela

L’Effetto Mandela si riferisce a un falso ricordo condiviso da molte persone riguardante la cultura popolare. È diventato un tema diffuso su Internet nell’ultimo decennio e ha spinto diversi ricercatori a studiare il fenomeno. Un recente articolo ha esplorato l’Effetto Mandela specifico per le icone visive, tentando di fornire chiarimenti sul perché si verifica.

Introduzione

 Il termine “Effetto Mandela” è stato coniato dalla ricercatrice Fiona Broome per descrivere il suo falso ricordo rispetto alla morte di Nelson Mandela che, insieme a molte altre persone, credeva fosse avvenuta in una prigione negli anni ’80 (mentre in realtà avvenne nel 2013). Da allora il termine si è diffuso per descrivere casi in cui molte persone condividono falsi ricordi altamente specifici, che implicano nomi, eventi o immagini. Oltre alla diffusa convinzione che Mandela sia morto molto prima di quanto sia effettivamente accaduto, ci sono molti altri esempi notevoli di questo fenomeno come, ad esempio, la convinzione che Topolino indossi le bretelle oppure la citazione della favola di Biancaneve che la maggior parte delle persone crede sia “Specchio, specchio delle mie brame”, ma che invece è “Specchio, servo delle mie brame”.

Nell’ultimo decennio, l’Effetto Mandela è diventato argomento di discussione su Internet grazie a specifiche icone della cultura popolare, dando vita a un termine specifico per le icone visive, ossia l’Effetto Mandela Visivo (VME).

In un recente articolo del 2022, i ricercatori Prasad e Bainbridge hanno esplorato questo fenomeno attraverso quattro esperimenti.

La ricerca tra risultati e possibili spiegazioni

Nel primo esperimento i ricercatori hanno selezionato 40 icone culturali e hanno creato due immagini alterate di ciascuna. Per esempio, hanno modificato l’omino del Monopoli originale aggiungendo un monocolo in un’immagine alterata e degli occhiali nell’altra. Hanno poi mostrato tutte e tre le immagini ai partecipanti alla ricerca, che hanno dovuto scegliere quella corretta. Gli intervistati hanno anche indicato il loro grado di familiarità con l’icona e il grado di sicurezza nell’effettuare la scelta. Di queste 40 icone culturali, cinque hanno superato i criteri per l’Effetto Mandela Visivo, ossia la maggioranza ha selezionato la stessa immagine errata e ha dichiarato un’elevata familiarità e sicurezza. Queste cinque icone culturali erano: C-3PO di Star Wars, il logo di Fruit of the Loom, Curious George, l’omino del Monopoli, Pikachu e il logo della Volkswagen.

Nel secondo esperimento, hanno verificato se l’Effetto Mandela Visivo fosse dovuto a problemi percettivi o attentivi, confrontando i movimenti oculari dei partecipanti mentre guardavano le cinque icone che avevano suscitato l’Effetto Mandela Visivo nel primo esperimento con quelli di cinque icone che gli intervistati precedenti avevano identificato correttamente. Dopo aver visto la versione corretta di ogni immagine, ai partecipanti è stato chiesto di scegliere quale delle due immagini fosse corretta. Per esempio, hanno visto l’omino del Monopoli senza monocolo e poi hanno dovuto scegliere tra quella con e quella senza monocolo. I ricercatori non hanno riscontrato differenze significative nei movimenti oculari tra le immagini corrette e quelle errate. In altre parole, l’Effetto Mandela Visivo non era dovuto a una mancanza di attenzione. Inoltre, l’ultima immagine che avevano visto era la versione canonica, quindi è improbabile che la confondessero con una versione non canonica che avevano visto altrove.

 Nel terzo esperimento, Prasad e Bainbridge hanno raccolto immagini da Internet per vedere quanto fossero comuni le versioni con Effetto Mandela di icone popolari e se questo potesse spiegare l’Effetto Mandela Visivo. Le versioni dell’Effetto Mandela si trovavano sul web, ma molte di queste erano canoniche e alcune immagini erano ritagliate, in modo da far mancare l’aspetto soggetto all’Effetto Mandela. Ad esempio, l’immagine canonica di C-3PO presenta una gamba destra inferiore argentata, ma la maggior parte delle immagini del robot mostrava solo la testa e il busto.

Effetto Mandela: la teoria dello schema come spiegazione

La spiegazione più comune dell’Effetto Mandela è la teoria dello schema, concernente le aspettative su come dovrebbero apparire le cose e che incorporiamo nei nostri ricordi. Per esempio, l’omino del Monopoli è la quintessenza del ricco signore anziano. Sapendo che queste persone spesso portavano un monocolo come segno della loro appartenenza all’alta società, incorporiamo il monocolo nella nostra memoria visiva dell’omino del Monopoly. Nel caso di C-3PO, la teoria degli schemi funziona perfettamente. Poiché le persone vedono raramente le sue gambe, in genere pensano che siano entrambe di colore oro, come il resto del corpo. Ma la teoria degli schemi fallisce in altri casi. Ad esempio, molti pensano che la coda di Pikachu abbia la punta nera, nonostante il fatto che venga quasi sempre mostrato con un’evidente coda gialla. In base alla teoria degli schemi si potrebbe sostenere che, poiché le orecchie di Pikachu hanno la punta nera, le persone potrebbero ricordare erroneamente che anche la coda ha la punta nera.

Recupero vs richiamo

In psicologia vi è la distinzione tra riconoscimento, che è una forma passiva di recupero della memoria, e richiamo, che è la sua controparte attiva. Nel loro quarto esperimento Prasad e Bainbridge hanno esaminato se l’effetto si verificasse anche nel richiamo. I partecipanti hanno prima visualizzato l’immagine canonica e poi è stato chiesto loro di disegnarla a memoria. Quasi la metà delle immagini disegnate dai partecipanti comprendeva elementi tipici dell’Effetto Mandela Visivo. Per esempio, molti hanno disegnato Pikachu con una punta nera sulla coda, anche se non c’era nell’immagine canonica che avevano appena visto.

Conclusioni

Lo studio non ha messo in luce una singola spiegazione per cui questo accade, ma ha eliminato alcune possibilità. Le differenze visive non sono evidenti tra le diverse versioni, quindi le persone non guardano le immagini in modo diverso. Di conseguenza, anche se le persone guardano la versione corretta di quella parte dell’immagine (ad esempio, la coda di Pikachu), commettono comunque questo errore. Ha anche escluso la teoria degli schemi come spiegazione universale, poiché le persone ricordano erroneamente che il logo di Fruit of the Loom ha una grande cornucopia dietro di sé, anche se le cornucopie non sono molto comuni nella vita quotidiana.

I ricercatori hanno concluso che deve esserci qualcosa di intrinseco a certe immagini che favorisce l’Effetto Mandela Visivo. Per sapere cosa sia esattamente, però, bisognerà attendere ulteriori ricerche.

Verso un’integrazione mente-corpo: i benefici dello sport sulla salute psicologica

L’esercizio fisico, inteso come attività strutturate, pianificate e ripetitive ha diversi effetti positivi, scopriamo quali.

Il rapporto mente-corpo e il modello biopsicosociale

 La frase “Mens sana in corpore sano” (Giovenale, Satire, X, 356) è entrata a far parte del linguaggio comune per indicare la necessità di occuparsi sia del benessere fisico che di quello mentale. In realtà quello che intendeva Giovenale è che l’uomo dovrebbe anelare a due beni soltanto: la sanità dell’anima e la salute del corpo, tralasciando ciò che per l’uomo è inutile o addirittura dannoso come la fama e la ricchezza. Quello che da subito salta all’attenzione del lettore è che mente e corpo possano evolversi soltanto congiuntamente ma che vengono comunque visti come due entità separate.

Il Dualismo è una corrente filosofica che vede una netta separazione tra aspetti fisici e mentali. Cartesio (1641), massimo esponente di questa corrente filosofica, ha fatto una distinzione tra “res extensa”, la materia la cui fenomenologia può essere spiegata attraverso le leggi della meccanica e “res cogitans”, la mente e il linguaggio che non possono trovare una spiegazione attraverso il dominio della meccanica (Cartesio, Opere filosofiche, a cura di Garin, 1986).

Ad oggi si predilige una visione in cui mente e corpo sono integrati tra di loro. Secondo il modello Biopsicosociale (Engel e Romano, 1977) c’è una continua interazione tra aspetti mentali e fisici che si influenzano reciprocamente determinano la nostra salute psicofisica.

Secondo questo modello le persone possono avere delle predisposizioni genetiche per una malattia, ma il fatto che un disturbo si scateni o meno dipende anche dall’influenza di fattori sociali e psicologici, i quali hanno un ruolo significativo nell’espressione fenotipica del genoma umano, che è la risultante di fattori epigenetici.

I benefici dello sport sulla salute psicologica

Il fatto che il cervello abbia un’influenza top-down su molti processi fisiologici ci permette di capire quanto gli interventi integrativi possano fornire importanti benefici, agendo su meccanismi bottom-up come le relazioni personali e lo stile di vita. Infatti grazie alla plasticità cerebrale, ossia la capacità del cervello di adattarsi a condizioni di continua evoluzione, la forza e la composizione delle connessioni sinaptiche possono essere modificate sia da stimoli interni che esterni.

Attraverso l’esercizio fisico possiamo favorire il nostro benessere psicofisico.

L’esercizio fisico, inteso come attività strutturate, pianificate e ripetitive, migliora la forma cardiorespiratoria e la salute cardiovascolare, può avere effetti antinfiammatori nelle malattie croniche e aumentare la risposta immunitaria dell’organismo. Inoltre, ha diversi effetti sul sistema nervoso: ha una funzione antidepressiva e ansiolitica, può migliorare l’umore, l’autostima e le capacità cognitive.

Lo sport può aiutare a ridurre l’ansia e lo stress dal momento che permette una distrazione dalle preoccupazioni e grazie al suo effetto ricreativo permette di scaricare le tensioni emotive.

Alcune sostanze, che vengono rilasciate dalla contrazione muscolare durante l’esercizio fisico, riescono ad attraversare la barriera ematoencefalica producendo effetti positivi sulle funzioni cerebrali. Attraverso il rilascio di miochine, come il BDNF per esempio, l’esercizio fisico può portare a modifiche dell’espressione genica e aumentare la neurogenesi nell’ippocampo portando ad un miglioramento di alcune funzioni cerebrali come memoria e attenzione. L’ippocampo, oltre ad essere coinvolto nella regolazione della memoria e dell’apprendimento, ha un ruolo importante nella gestione e nella comprensione delle emozioni.

 È stato dimostrato che l’attività fisica provoca una stimolazione generale a livello cerebrale; questo in alcuni casi potrebbe avere un effetto di prevenzione di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la malattia di Huntington e la sclerosi multipla (Zhao et al., 2014). Inoltre, sembrerebbe che la produzione di alcuni neurotrasmettitori ed endorfine (Goldfarb & Jamurtas, 1997) sia influenzata dall’attività fisica. L’influenza dello sport sulla produzione di dopamina, serotonina (Jonsdottir, 2000) e noradrenalina ha un impatto positivo sull’umore e un effetto antidepressivo (Taspinar et al., 2014). Una delle funzioni della dopamina è quella di regolare un’attività volontaria attraverso la stimolazione della motivazione intrinseca connessa al raggiungimento di obiettivi. L’esercizio fisico è un’attività volontaria e motivazionale, e dipende da vari neuromodulatori tra cui la dopamina. Si può ipotizzare una interazione positiva tra esercizio fisico e dopamina: più dopamina produce un singolo animale, più è incline a vivere attivamente e più dopamina sarà di conseguenza rilasciata.

L’aumento dei livelli di serotonina e noradrenalina come conseguenza di allenamenti di endurance sono collegati ad un tono dell’umore positivo ed a un senso di vitalità. Inoltre, l’attivazione del sistema oppioide (endorfine) e di quello endocannabinoide durante l’esercizio fisico sembrerebbe produrre una reazione analgesica ed essere responsabile di effetti benefici sul senso di vigore e benessere.

Lo sport presuppone la definizione di obiettivi da raggiungere e richiede il coordinamento con altri aspetti della nostra vita aumentando l’autostima e il senso di autoefficacia, nonché la fiducia in sé stessi. Prendersi cura del proprio corpo aumenta la percezione positiva che una persona ha di sé stessa.

Inoltre, è stato suggerito un possibile contributo della funzionalità del nervo vago sulla risposta allo stress (Thayer et al., 2012) e sulla regolazione delle emozioni (Urry et al., 2006) attraverso la sua connessione con il funzionamento della corteccia prefrontale e dell’amigdala. Sembrerebbe esserci una relazione bidirezionale tra regolazione delle emozioni e tono vagale che permette a queste due componenti di influenzarsi a vicenda (Thayer et al., 2012; Bonaz et al., 2018). Il nervo vago connette il cervello agli organi interni ed è responsabile dell’attività del sistema nervoso autonomo parasimpatico. Sembrerebbe che un buon funzionamento del nervo vago influenzi positivamente la nostra risposta a situazioni di stress permettendo quindi un migliore adattamento. È stato dimostrato che il tono vagale può essere misurato attraverso l’analisi della variabilità cardiaca (HRV). Maggiore variabilità cardiaca è associata a un migliore funzionamento del nervo vago relativa alla sua funzione inibitoria ed eccitatoria. Se il funzionamento del nervo vago influenza la frequenza cardiaca potremmo pensare ad un’azione indiretta sul nervo vago attraverso la stimolazione della frequenza cardiaca. L’esercizio fisico potrebbe rappresentare un ottimo alleato per promuovere una risposta più adattiva alle situazioni di stress e garantire un maggiore senso di benessere.

Un ulteriore aspetto positivo legato all’attività fisica riguarda il miglioramento delle nostre abilità sociali. L’esercizio fisico è un’ottima occasione per rapportarsi con altre persone e combattere così l’isolamento sociale. Subiamo ancora le conseguenze psicologiche negative lasciate dal lockdown, soprattutto tra gli adolescenti. Questo ha portato sempre più ad un utilizzo massiccio dei mezzi tecnologici a disposizione, portando ad un’immersione in una realtà virtuale che talvolta ha rischiato di prendere il posto di quella reale, conducendo le persone ad isolarsi e ad avere sempre più difficoltà ad interagire nel mondo reale.

Ovviamente è importante nello sport essere seguiti da personale qualificato, in maniera tale da avere un programma personalizzato e adattato ad ogni singolo individuo. Inoltre, dobbiamo tenere bene in mente che non bisogna esagerare, altrimenti gli effetti potrebbero essere deleteri per il nostro organismo; il nostro corpo ha dei limiti ed è importante imparare a rispettarli.

Conclusioni

Poiché l’attività fisica potrebbe realmente contribuire al miglioramento dello stato di salute globale degli individui, dovrebbe essere un compito sociale e politico quello di promuovere lo svolgimento di programmi di esercizio fisico rivolti alla popolazione.

Come dimostrato, lo sport favorisce il benessere fisico e psichico delle persone e potrebbe essere considerato a tutti gli effetti un intervento efficace da affiancare ai trattamenti farmacologici, psicologici o psicoterapeutici.

 

Christopher Fairburn: il fondatore della CBT-E per i disturbi alimentari

Fairburn (1950) è psichiatra, ricercatore e professore emerito di psichiatria all’Università di Oxford. È noto per il suo contributo sullo sviluppo, sulla valutazione e sul trattamento dei disturbi alimentari. Con la CBT-E fonda un protocollo cognitivo-comportamentale efficace per i disturbi alimentari.

Christopher Fairburn

 Christopher Fairburn nasce il 20 settembre 1950 in Gran Bretagna. Si laurea in medicina all’Università di Oxford e poi in psichiatria all’Università di Edimburgo, iniziando la carriera da ricercatore clinico nel primo ateneo. Nel 1981 fonda il CREDO, il Centro per la Ricerca sui Disturbi Alimentari e, fino agli anni 2000, lavora con i suoi collaboratori per sviluppare una terapia cognitivo-comportamentale efficace nel trattamento dei disturbi alimentari. Attualmente è professore emerito di psichiatria all’Università di Oxford e, negli anni, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: un OBE (Ordine dell’Impero Britannico) nel 2021 e il Distinguished Scientific Award dall’APA nel 2022, qualificandosi come terzo psichiatra al mondo a ricevere tale riconoscimento.

CBT-NB: primo protocollo CBT per la bulimia

All’inizio degli anni Ottanta, Fairburn pubblica “A Cognitive Behavioural Approach to the Treatment of Bulimia” (1981), distanziandosi dalla recente descrizione di Russel (1979) che definì la bulimia come “una variante infausta dell’anoressia nervosa”, priva di qualsiasi specificità. Con la nuova concettualizzazione, Fairburn per la prima volta identificò la psicopatologia specifica e centrale della bulimia (cioè l’eccessiva valutazione della forma del corpo, del peso e del loro controllo) e i meccanismi di mantenimento da essa derivati (cioè la restrizione dietetica cognitiva, gli episodi bulimici e i comportamenti di compenso). Così facendo, si allontanò da una visione della bulimia come patologia intrattabile e iniziò a pensare che non bastasse più normalizzare alcuni aspetti del disturbo, come il peso o l’eliminazione degli episodi di abbuffata, per intervenire efficacemente; occorreva invece lavorare sul nucleo psicopatologico centrale del disturbo.

Di lì a poco questa teoria si tramutò in pratica: la Terapia Cognitivo Comportamentale per la Bulimia Nervosa (CBT-NB, 1981) è una terapia che aveva proprio lo scopo di intervenire sui processi disfunzionali di mantenimento del disturbo. Le evidenze a supporto di tale terapia derivarono da più di 20 studi controllati e randomizzati, i quali conclusero che i predittori di risposta al trattamento sono la frequenza degli episodi bulimici e dei comportamenti di compenso eliminativi e che i miglioramenti sintomatologici sono mantenibili nel lungo termine (Carrozza e Dalle Grave, 2018). Questi lavori fecero del dettagliato protocollo di cura di Fairburn un approccio sempre più diffuso nei contesti pubblici e privati dei paesi occidentali, fino a essere indicato dalle linee guida NICE (2004) come il trattamento di prima scelta per gli adulti affetti da Bulimia Nervosa.

Nonostante la CBT-NB avesse goduto di riconoscimento, negli anni rivelò due criticità principali: solo il 40-50% delle pazienti trattate raggiungeva una piena e duratura remissione e, essendo stata ideata solo per le pazienti adulte affette da Bulimia Nervosa, i suoi benefici potevano essere goduti da meno del 30% della popolazione affetta da Disturbi dell’Alimentazione (Carrozza e Dalle Grave, 2018).

CBT-E: una terapia d’elezione per tutti i disturbi alimentari

Per ovviare ai problemi della CBT-NB, nei primi anni 2000 nasce la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E, 2008), ossia una terapia progettata per essere più efficace rispetto alla precedente e più flessibile nel trattare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, piuttosto che le singole categorie diagnostiche (Di Pauli, 2019). In questa cornice transdiagnostica, la CBT-E ad oggi è l’unico trattamento raccomandato dalle linee guida NICE per il trattamento di tutti i disturbi dell’alimentazione (National Guideline Alliance, 2017).

 Dal punto di vista teorico (Fairburn et al., 2003), come postulato originariamente per la Bulimia Nervosa, la teoria assume che l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del controllo dell’alimentazione sia il nucleo psicopatologico centrale dei disturbi alimentari: mentre le persone si valutano rispetto alle loro prestazioni in un ampia gamma di ambiti di vita, quelle affette da disturbi alimentari centralizzano la valutazione di sé su quanto riescono o meno a controllare il peso, il corpo e l’alimentazione. Dall’eccessiva valutazione di questi aspetti deriverebbero i meccanismi di mantenimento del disturbo alimentare, come i comportamenti di controllo del peso estremi (come dieta ferrea, esercizio fisico compulsivo, vomito autoindotto, uso improprio di lassativi o diuretici), il raggiungimento/mantenimento del sottopeso e la sindrome da malnutrizione. L’eventuale presenza di episodi bulimici può essere la conseguenza del restringere in modo ferreo l’alimentazione o del modulare eventi o emozioni. A livello fenomenico, le manifestazioni cliniche dei disturbi dell’alimentazione sono, a loro volta, fattori di mantenimento specifici dello schema disfunzionale di sé e del disturbo. In un sottogruppo di pazienti possono essere riscontrati anche dei fattori di mantenimento aggiuntivi che, interagendo con quelli specifici, ostacolano il cambiamento:

  • Perfezionismo clinico;
  • Bassa autostima;
  • Difficoltà interpersonali;
  • Intolleranza alle emozioni.

A livello pratico, il protocollo si pone l’obiettivo di offrire un trattamento individualizzato dove il paziente è partecipante attivo del suo percorso di cura. La strategia principale è la definizione personalizzata dei meccanismi di mantenimento del disturbo che, in modo strategico, vengono affrontati con tecniche cognitive e comportamentali volte ad ottenere un cambiamento nei termini di un rapporto più sereno e libero con il cibo e la propria immagine corporea.

Dal punto di vista procedurale, dopo una prima visita di valutazione psicodiagnostica, il protocollo, a seconda della gravità del disturbo, prevede un percorso di 20/40 sedute da 50 minuti da svolgersi in 20/40 settimane. Nella prima fase si raggiunge una comprensione condivisa del disturbo e si aiuta il paziente a regolarizzare le sue abitudini alimentari; nella seconda fase si monitorano i progressi raggiunti nelle settimane precedenti; nella terza fase si affrontano le preoccupazioni centrali legate al cibo, al peso e al corpo, la restrizione dietetica cognitiva e calorica e gli eventi e le emozioni che influenzano l’alimentazione; nella quarta ed ultima fase si implementano procedure volte a minimizzare il rischio di ricadute.

Inizialmente, la CBT-E è stata sviluppata come trattamento ambulatoriale per i pazienti adulti affetti da disturbi dell’alimentazione ma poi, con il contributo del dr. Riccardo Dalle Grave, in Italia e all’estero sono state sviluppate delle versioni  per la terapia ambulatoriale intensiva, per il ricovero e per gli adolescenti.

Bambini dimenticati in auto: la forgotten baby syndrome

In merito alla “Forgotten baby syndrome”, o “Sindrome del bambino dimenticato”, la letteratura è ancora scarsa e lacunosa, ma, per quanto la ricerca non si sia occupata in modo sistematico di questo problema, esso rappresenta un tema di grande impatto.

 

 Tragica fatalità, il 7 giugno una bambina è stata dimenticata dal suo papà sul seggiolino dell’auto parcheggiata davanti all’asilo. È l’undicesimo caso in Italia dal 1998, mentre negli USA, solo nel 2019, sono stati 52 i casi di bambini morti per colpo di calore in auto. Ma perché accade? Non è ancora chiaro il motivo per cui si inneschi un “vuoto di memoria” che spinge molti genitori a considerare compiute azioni che, invece, non sono mai avvenute.

È un fatto di cronaca che si ripete più o meno con la solita sequenza: nel corso di uno spostamento in auto, il genitore si dimentica della presenza del proprio figlio sul sedile posteriore, arriva a destinazione, esce dal veicolo e lascia inconsapevolmente il bambino in macchina.

Ma come possono genitori amorevoli e attenti, senza prove di abuso di sostanze o disturbi psichici, avere un così catastrofico vuoto di memoria che mette a repentaglio la vita del bambino?

La forgotten baby syndrome

In merito alla “Forgotten baby syndrome”, o “Sindrome del bambino dimenticato”, la letteratura è ancora scarsa e lacunosa; anche l’espressione non è condivisa in ambito scientifico e non possiede una precisa definizione nosografica. Ma, per quanto la ricerca non si sia occupata in modo sistematico di questo problema, esso rappresenta un tema di grande impatto sia per l’opinione pubblica sia per le agenzie che si occupano di sicurezza stradale e di tutela dell’infanzia. Con questa sindrome ci si riferisce a quanto accade quando i genitori lasciano accidentalmente un bambino in auto, con dei risultati spesso tragici e importanti ripercussioni sulla famiglia. Le ricerche scientifiche sono molto limitate e, generalmente, trattano le condizioni cliniche che costituiscono la causa di morte dei bambini coinvolti, e solo raramente vengono analizzate le circostanze in cui tali decessi si sono verificati.

Genitori amorevoli

È importante sottolineare come non esista un profilo “tipico” del genitore che dimentica il figlio in auto: la sindrome colpisce chiunque, indipendentemente da sesso, età, reddito, livello di istruzione, temperamento e personalità. Infatti, se si analizzano le caratteristiche dei singoli episodi ci si trova, nella quasi totalità dei casi, di fronte a genitori amorevoli e accudenti, che non hanno mai presentato segni di instabilità o di negligenza nei confronti del loro bimbo. In questi drammatici episodi sono coinvolti genitori che hanno funzionalità psichiche, cognitive ed emotive perfettamente integre e che non farebbero mai del male ai loro figli: ed è proprio per questo che le dinamiche sottese al verificarsi di queste tragedie appaiono incomprensibili. Ciò evidenzia come non si tratti di genitori snaturati, ma di adulti in cui la memoria è temporaneamente compromessa.

L’amnesia dissociativa

Una prima spiegazione riguarda la dissociazione. I disturbi dissociativi sono caratterizzati dalla sconnessione di coscienza, memoria, identità, emotività, percezione, rappresentazione corporea, controllo motorio e comportamento.

Il DSM-5 prevede tre disturbi dissociativi principali: il disturbo di derealizzazione/depersonalizzazione, l’amnesia dissociativa e il disturbo dissociativo di identità (precedentemente conosciuto come disturbo di personalità multipla).

Tutti questi disturbi hanno un’origine causale comune, la dissociazione, la quale si manifesta nel fatto che alcuni aspetti dell’emozione, della memoria e dell’esperienza siano inaccessibili alla coscienza. La dissociazione è un costrutto complesso che coinvolge due diversi tipi di fenomeni: la compartimentazione dei processi psicologici che normalmente dovrebbero essere integrati, come la memoria e l’identità; l’alterazione della coscienza, caratterizzata dal distacco esperienziale dal sé e dall’ambiente.

L’amnesia dissociativa è una forma di dissociazione drammatica, in cui la persona non ha più accesso ad aspetti importanti della sua memoria e al ricordo dell’esperienza, ossia l’incapacità di ricordare informazioni autobiografiche in modo circoscritto o generalizzato. In genere questo tipo di amnesia (che lascia intatta la memoria procedurale) scompare improvvisamente, così come è insorta, con il completo recupero e scarse probabilità di recidiva, ma lasciando l’amnesia dell’amnesia. Si verifica generalmente in seguito ad un periodo di forte stress, manifestandosi con difficoltà di concentrazione, sonno difficoltoso e disturbato, irritabilità, ma soprattutto automatismo, ossia il compiere azioni senza la piena consapevolezza di cosa si stia di fatto facendo. Un po’ come se si fosse inserito il “pilota automatico”.

Le amnesie possono verificarsi anche come conseguenza del trauma: in effetti, i disturbi dissociativi sono trattati, nel DSM-5, subito dopo i disturbi correlati a traumi e eventi stressanti, benché non siano inclusi in essi: questo a sottolineare come tra queste due classi esista un stretta correlazione sintomatica, tra cui amnesia, flashback, ottundimento e depersonalizzazione/derealizzazione.

Un deficit della memoria di lavoro

Tra le ipotesi più accreditate troviamo quella del malfunzionamento della memoria di lavoro o working memory. Questo magazzino di memoria è il responsabile della capacità di gestire e manipolare temporaneamente le informazioni provenienti dall’ambiente e recuperarle dalla memoria a lungo termine; è una sorta di interfaccia tra percezione, memoria a lungo termine e azione, che sottende i processi di pensiero. La sua efficienza dipende quindi dall’interazione tra le informazioni provenienti dall’ambiente e dalle nostre memorie pregresse per effettuare operazioni mentali per il passaggio dalla percezione all’azione volontaria in compiti adattivi (decision making).

 Le informazioni elaborate dalla working memory corrispondono a ciò a cui si sta prestando attenzione in un dato momento: nel caso dei decessi di minori dimenticati all’interno dei veicoli, spesso la presenza del bambino non si associa nell’arco del tragitto a segnali sensoriali utili a richiamare l’attenzione, dato che i bambini in auto tendono a dormire. In questo senso, mancano tutta quella serie di segnali di presenza del bambino: l’assenza di questi dati non ne consente la registrazione e l’integrazione nel processo di presa di decisione. Gli schemi sul programma d’azione routinario (quindi il “pilota automatico”) prenderanno il sopravvento e avranno la priorità.

Molti di questi incidenti sono accomunati dalla dinamica: i genitori sono usciti di casa con l’interazione di accompagnare il bambino all’asilo ma, dimenticandosene a causa dell’assenza di segnali, hanno proseguito il tragitto verso il posto di lavoro, lasciando l’auto ed il bambino nel parcheggio.

Un deficit della memoria prospettica

La perdita di consapevolezza del figlio nell’auto potrebbe essere dovuto a un fallimento della memoria prospettica, cioè la mancanza di ricordarsi di fare qualcosa nel futuro. Secondo David Diamond, l’oblio che in questi drammatici eventi avvolge gli adulti sarebbe collegato al circuito che regola le nostre abitudini cerebrali, una sorta di “pilota automatico” con il quale compiamo determinate azioni routinarie e abitudinarie, senza pensarci. La routine infatti conduce inevitabilmente alla dimenticanza: la quotidianità che si ripete sempre uguale porta a vivere la realtà in modo uniforme, coinvolgendo in pochissima parte il pensiero cosciente. Alla fine, spinti dal controllo motorio e non cosciente, non pensiamo alle azioni di routine, proprio perché l’abitudine è collaudata e non necessita di ragionamento. In realtà tutti noi nella nostra quotidianità ci ritroviamo in questa situazione, dato che è una funzione normale del nostro cervello.

Il problema insorge nel momento in cui il sistema di memoria abitudinaria entra in conflitto con il sistema di memoria prospettica: il genitore sale in auto con il bambino ma inserisce il “pilota automatico” per andare al lavoro, proprio perché questo fa parte della sua routine giornaliera. Durante il tragitto infatti dimentica di lasciare il bambino all’asilo, perché questa azione non rientra nello schema della routine. La memoria prospettica è fortemente influenzata anche dallo stile di vita: riuscire a ricordarsi di fare qualcosa nel futuro è inficiato dalla mancanza di sonno e dallo stress.

Seggiolini anti-abbandono obbligatori

Nel 2019 il Parlamento italiano ha approvato il decreto sull’obbligo dei seggiolini anti-abbandono in auto. Questi seggiolini sono dotati di allarme acustico e visivo per ricordarsi della presenza del bambino in auto, e sono obbligatori al di sotto dei quattro anni. Alcuni dispositivi sono in grado di inviare notifiche sullo smartphone di tutti i contatti di emergenza precedentemente inseriti nella memoria.

Stop agli attacchi di panico (2022) di Federico Betti e Gabriele Melli – Recensione

Questo libro si rivolge principalmente a tutte le persone che soffrono o hanno sofferto di attacchi di panico e si sentono scoraggiati dagli scarsi risultati raggiunti, fornendo così una nuova motivazione a porre rimedio alla propria condizione, guidando il lettore, passo dopo passo, nella risoluzione delle problematiche emerse, alternando tra momenti teorici e pratici.

 

 Gli autori di questo libro, Federico Betti (Psicologo, psicoterapeuta del Centro di Eccellenza per i Disturbi di Panico, CEDIP) e Gabriele Melli (Psicologo, psicoterapeuta, direttore del Centro di Eccellenza per i Disturbi di Panico, CEDIP, segretario nazionale di CBT-Italia, direttore del corso quadriennale di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale riconosciuto dal MIUR di IPSICO) sono ormai noti al panorama italiano ed internazionale per i loro impegni e contributi scientifici in ambito della terapia cognitivo-comportamentale.

Questo libro è stato scritto rivolgendosi a tutte quelle persone che soffrono o hanno sofferto di attacchi di panico, e si sentono scoraggiati dagli scarsi risultati raggiunti, tentando di infondere una rinnovata fiducia che sia di aiuto nella risoluzione della condizione. Vengono sottolineati gli innumerevoli risultati ottenuti dalla terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi anni di ricerca, fino ad affermarsi come il trattamento di eccellenza per questo tipo di sintomatologia.

 Il libro è strutturato in tre parti: la prima propone le conoscenze scientifiche più recenti sul Disturbo di Panico e spiega le basi teoriche su cui si fondano i moderni protocolli di trattamento; la seconda conduce il lettore attraverso un accurato percorso di autovalutazione dei propri sintomi, per costruire un profilo del disturbo sul quale poi si impernia il successivo programma di intervento; la terza è un vero e proprio manuale di auto-aiuto, basato sui principi della terapia cognitivo comportamentale, che illustra come affrontare il problema, step by step, coinvolgendo anche eventuali familiari o altre persone significative (Betti & Melli, 2022).

Il programma illustrato, può essere seguito sia in autonomia, sia con l’aiuto di un terapeuta esperto, come strumento terapeutico di cambiamento.

In conclusione, questa opera, seppur utilizzi un taglio pratico, non tarda ad evidenziare e approfondire con cura e dettaglio ogni passaggio, fornendo un programma evidence-based, completo ed esaustivo, per la risoluzione del problema. Si alternano momenti teorici a momenti pratici, con lo svolgimento di alcuni esercizi (diari di automonitoraggio, ristrutturazione cognitiva, esposizione alle sensazioni fisiche temute, rilassamento muscolare progressivo, grounding, etc.) che aiutino ad apprendere e a consolidare i progressi ottenuti. Perciò, occorre prendersi tutto il tempo necessario per completare gli esercizi proposti, per ripeterli più e più volte, usando il testo come guida di riferimento, da riprendere in mano ogni qual volta sia necessario, costruendo così il proprio processo di cambiamento, abbandonando le limitazioni e riconquistando la propria vita e la propria libertà.

Sognare compulsivamente ad occhi aperti: il maladaptive daydreaming, un disturbo poco conosciuto – PARTECIPA ALLA RICERCA

Gli individui che sperimentano episodi di maladaptive daydreaming possono passare anche più della metà delle ore di veglia immersi in dimensioni parallele difficili da controllare.

Il mind wandering

 L’abilità di distaccarsi dal qui ed ora grazie all’immaginazione è una capacità propriamente umana. Questa capacità è necessaria per pianificare il nostro futuro o re-immergersi nei propri ricordi e in tal senso sembra funzionale per adattarsi e rispondere efficacemente a molte esigenze della nostra vita. Al contrario, non essere concentrato sul qui ed ora, un fenomeno denominato nella letteratura scientifica mind wandering (vagabondaggio della mente), può avere delle conseguenze negative in altre situazioni che domandano di essere in presa diretta con quello che accade. Pensiamo solo a come la prenderebbe un nostro amico/a se mentre ci fa una confidenza scoprisse che in realtà invece di ascoltarlo/a stessimo pensando a tutt’altro.

Mentre il mind wandering è descritto come una forma di pensiero spontaneo transitorio, i sogni ad occhi aperti sono delle fantasie più complesse che possono avere degli scenari estremamente articolati. La tendenza a lasciarsi andare a queste fantasie diurne (daydreaming) è molto variabile, con una piccola percentuale di persone che può passare circa il 50% della propria giornata immerso in queste fantasie (Schupak & Rosenthal, 2009).

Il maladaptive daydreaming

Recentemente è stata descritta una condizione, il maladaptive daydreaming, anche noto come disturbo da fantasia compulsiva, che porta gli individui a creare fantasie dettagliate e complesse che arrivano in certi casi a sostituire o interferire con tutti i lati della vita delle persone, dalla sfera privata a quella interpersonale, sociale o lavorativa/scolastica. Si tratta di una volontaria immersione in storie o scenari paralleli a cui le persone accedono volontariamente e costruendo dettagliatamente episodi di vario genere, associati a reazioni emotive intense e da cui scaturiscono sensazioni di intenso piacere e comfort. Gli individui che sperimentano episodi di maladaptive daydreaming possono passare anche più della metà delle ore di veglia immersi in dimensioni parallele difficili da controllare. Il fenomeno avrebbe una prevalenza del 2,5% nella popolazione generale, accentuata nei giovani (Bigelsen et al., 2016).

Questa condizione è ancora poco studiata e non è per il momento riconosciuta come un vero e proprio disturbo nei manuali diagnostici e viene quindi spesso erroneamente confusa con altre patologie. Questa situazione ha quindi anche un impatto negativo sugli interventi psicoterapeutici che possono risultare inadeguati. Negli ultimi anni però l’interesse verso questo fenomeno è crescente da un punto di vista non solo scientifico, ma anche sociale. Infatti, diverse comunità online si sono costituite spontaneamente a livello internazionale e nazionale per permettere un confronto tra chi ne soffre. In Italia, nel 2020, si è costituita la prima vera associazione, Maladaptive Daydreaming Italia, al fine di supportare chi si riconosce nel maladaptive daydreaming e fornire informazioni corrette sull’argomento.

Ad oggi, però, non se ne conoscono ancora le cause, i meccanismi regolatori, le sue possibili modulazioni. In modo interessante, la musica fa parte degli stimoli solitamente descritti come in grado di innescare episodi di maladaptive daydreaming. Ciononostante, le ragioni per cui la musica sia un potente stimolo per i sogni ad occhi aperti, non è ancora chiaro.

Maladaptive daydreaming e musica

Presente da sempre nella storia dell’essere umano, la musica è uno stimolo emotivo con un forte potere evocativo in grado di modificare facilmente gli stati mentali e indurre fenomeni di assorbimento o trascendenza. Nella vita quotidiana, ascoltiamo di solito la musica come mezzo efficace per modulare le emozioni e gli stati mentali: rilassarsi, attivarsi, estraniarsi, ricordare.

 Oggi, una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Pavia, l’Università Paris Cité e l’Università La Sapienza di Roma, con il supporto dell’associazione Maladaptive Daydreaming Italia, sta cercando di fare luce sulla capacità della musica di modulare gli stati mentali e di assorbimento. L’obiettivo dello studio è capire se e come la musica possa favorire degli episodi di daydreaming (o sognare ad occhi aperti), anche nella loro forma patologica, come accade nel maladaptive daydreaming.

Lo studio ha quindi come obiettivo quello di approfondire le conoscenze sul ruolo della musica come possibile trigger dei sogni ad occhi aperti. Per farlo, ai volontari verrà richiesto di compilare un questionario online per una durata di circa 40 minuti. Le domande investigheranno non solo le esperienze di daydreaming, ma anche il rapporto degli individui con la musica e con il proprio corpo.

I risultati di questo progetto interuniversitario coordinato da Laura Ferreri (Università di Pavia) e Marco Sperduti (Université de Paris Cité) saranno fondamentali per comprendere il fenomeno del maladaptive daydreaming. Tali risultati porranno le basi per lo studio, attraverso i metodi delle neuroscienze cognitive, delle cause del maladaptive daydreaming e, in prospettiva, per interventi mirati a ridurne l’impatto sul benessere psicologico. Gli obiettivi dello studio e i suoi risultati principali saranno discussi attraverso incontri con i ricercatori organizzati dall’associazione Maladaptive Daydreaming Italia.

Vuoi aiutare nella ricerca?

Che tu soffra o no di maladaptive daydreaming, aiutaci a diffondere il questionario e partecipa alla ricerca:

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 Articolo a cura di: Laura Ferreri, Marco Sperduti, Ilaria Bufalari, Maria Barone.

La cooperazione con gli insegnanti come mediatore della relazione tra conflittualità familiare e difficoltà psicologiche dei bambini

Lo studio cross-sezionale di Caputi et al. (2022) si è posto l’obiettivo di ricerca di approfondire e analizzare se comportamenti cooperativi con gli insegnanti fossero in grado di mediare l’associazione tra la conflittualità tra genitori-figli e i sintomi psicopatologici dei preadolescenti.

La conflittualità nella relazione genitori-figli

 La relazione tra i genitori e i figli è un aspetto fondamentale che impatta sullo sviluppo psico-socio-emotivo del bambino e dell’adolescente. Alcuni studi documentano la correlazione tra la qualità della relazione genitore-figlio e la presenza di problemi internalizzati-esternalizzati. Se un legame emotivamente caldo e supportivo favorisce un sano sviluppo psico-socio-emotivo, un rapporto conflittuale può essere un fattore di rischio per ulteriore disfunzionalità in altre relazioni. Parimenti altri studi confermano che, in presenza di ripetuti conflitti in famiglia, i bambini e gli adolescenti avrebbero maggiori rischi di sviluppare difficoltà in ambito di salute mentale sia nel breve termine che a lungo termine (Burt et al., 2005).

Mentre la maggior parte degli studi si è focalizzata sui problemi esternalizzanti, ancora poche ricerche hanno analizzato l’associazione tra la conflittualità tra genitori e figli e la presenza di difficoltà internalizzati. Ad esempio, in uno studio di Branje e colleghi (2010) è stata riscontrata un’elevata correlazione positiva tra sintomi depressivi negli adolescenti e una scarsa qualità della relazione tra madre e figlio, mentre secondo lo studio una relazione di scarsa qualità con il padre predice i sintomi depressivi solo negli adolescenti maschi.

Altri studi hanno identificato una correlazione tra la conflittualità nella relazione genitori-figli e sintomi depressivi e antisociali nei figli un anno dopo (Sentse and Laird, 2010).

Inoltre, il contributo di alcuni ricercatori (Trentacosta et al., 2011) ha dimostrato che livelli cronicamente elevati di conflitto si correlavano a maggiori tassi di comportamento antisociale all’età di 15 anni, evidenziando nuovamente che elevati livelli di conflittualità nella relazione genitori -figli in età scolare e in adolescenza sono associati a successivi problemi comportamentali.

All’interno del contesto scolastico, bambini e adolescenti hanno l’opportunità di creare e costruire relazioni significative e cooperative con i pari e con le figure educative che possono contribuire al loro sviluppo personale. Tali relazioni, se a carattere cooperativo, si configurano pertanto come fattori protettivi per la salute mentale e lo sviluppo psico-socio-emotivo di bambini e adolescenti.

Gli insegnanti e le figure educative, ad esempio, possono fungere da modello e educare gli studenti a modalità costruttive di gestione del conflitto; altresì possono contribuire a sviluppare competenze sociali quali la cooperazione tra pari e nella relazione studente-insegnante. In uno studio di Acar e colleghi (2018) è stato evidenziato che i bambini avevano minori abilità di regolazione comportamentale quando esperivano la combinazione di due condizioni: una scarsa vicinanza nella relazione con i genitori e elevati livelli di conflittualità nel rapporto con gli insegnanti. Un altro studio ha dimostrato che il supporto dell’insegnante si configurava come fattore protettivo in adolescenti femmine che avevano tendenze aggressive e una relazione conflittuale con i genitori (Cotter, 2016).

I comportamenti cooperativi con gli insegnanti

Lo studio cross-sezionale di Caputi et al. (2022) si è posto l’obiettivo di ricerca di approfondire e analizzare se comportamenti cooperativi con gli insegnanti fossero in grado di mediare l’associazione tra la conflittualità tra genitori-figli e i sintomi psicopatologici dei preadolescenti. Per la realizzazione della ricerca sono stati reclutati 319 ragazzi e ragazze (di cui 150 maschi) di età media di 11 anni, e i loro insegnanti e genitori.

 I ragazzi hanno completato un questionario self-report sui sintomi depressivi “Children’s Depression Inventory (CDI)”, due insegnanti hanno compilato questionari sulle abilità sociali e sul comportamento degli alunni (Social Skills Rating System-SSRS – e Strengths and Difficulties Questionnaire – SDQ). I genitori hanno compilato un questionario sulla relazione con il figlio (Child–Parent Relationship Scale-Short Form-CPRS-SF).

Le analisi statistiche hanno dimostrato che vi è una correlazione positiva statisticamente significativa tra la conflittualità nella relazione genitori-figlio e la presenza di sintomi depressivi nel ragazzo. Tuttavia, la cooperazione tra ragazzo e insegnante media parzialmente la correlazione tra la conflittualità genitore-figlio e i sintomi depressivi autoriferiti dal ragazzo. Va inoltre sottolineato che il comportamento cooperativo tra insegnante e ragazzo media significativamente la correlazione tra conflittualità genitore-figlio e i sintomi esternalizzati e internalizzati per come sono stati riportati dagli insegnanti.

I risultati dello studio confermano l’importanza della qualità delle relazioni tra bambini/ragazzi e adulti significativi, siano essi genitori o insegnanti, per promuovere lo sviluppo di abilità sociali, tra cui la cooperazione, l’assertività e l’autoregolazione. Pertanto, le relazioni supportive e cooperative tra insegnante e allievi si configurano come uno strumento importante per andare ad agire come fattori protettivi rispetto alle difficoltà e problemi internalizzati e esternalizzati di bambini e ragazzi. È evidente il ruolo chiave della scuola nel promuovere benessere mentale e resilienza nell’infanzia, pre-adolescenza e adolescenza, soprattutto nei casi di ambienti familiari scarsamente supportivi.

Combattenti stranieri: la spinta motivazionale

Ndr: il presente contributo è il primo di una serie di quattro articoli sull’argomento che verranno pubblicati nei prossimi giorni su State of Mind.

L’articolo, anche alla luce degli scenari di guerra, mai del tutto sopiti, tratta specificatamente del fenomeno dei combattenti stranieri e di come questo si sia caratterizzato all’interno del terrorismo islamico.

Combattenti stranieri

 I foreign fighters popolano gli scenari bellici mondiali da oltre un secolo. Si calcola che, dal 1815, abbiano partecipato ad almeno 69 delle 313 guerre civili (Borum & Fein, 2016): rappresentano, pertanto, un fenomeno non nuovo né esclusivo dell’islamismo radicale.

Tra il 1980 e il 1992, negli anni dell’occupazione sovietica, arrivarono in Afghanistan circa 20 mila combattenti (Neumann, 2015). Il numero di combattenti che ha raggiunto il Siraq tra i 2011 e il 2015 è compreso tra 27 e 31mila (Barlett, 2014). Il tema dei foreign fighters resta al centro delle agende politiche internazionali perché lo Stato islamico mantiene una grande capacità attrattiva nell’immaginario di chi sogna un riscatto attraverso l’islamismo radicale. Molti studi hanno analizzato i processi di reclutamento, ma non è chiaro se questi siano diversi a seconda dei conflitti oppure se il meccanismo sia sempre lo stesso (Kreuger, 2007).

Il profilo dei combattenti stranieri

Il profilo tipico dei foreign fighters è quello di giovani musulmani di seconda generazione o convertiti, coinvolti in atti di criminalità comune, privi di educazione religiosa ma con un rapido e recente percorso di conversione/riconversione che li fa “rinascere”, born again, come credenti e zelanti osservatori della fede. La fede è utilizzata dai reclutatori perché è in grado di appagare desideri profondi: ricerca d’identità e appartenenza (Chassmann, 2016). Nel caso dell’ISIS, la religione rappresenta una scusa più che una motivazione di base per chi decide di affiliarsi (Mattew & Francis, 2015). I foreign fighters, infatti (Roy, 2010, 2016, 2017): 1) spesso conoscono superficialmente il Corano pur considerandosi ferventi musulmani; 2) non mettono “il corretto modo di agire” religioso al centro delle loro preoccupazioni; 3) articolano la scelta intorno a un immaginario incentrato su eroismo e violenza; 4) non sentono la causa antisciita come chi vive nelle terre del Siraq; 5) accettano con difficoltà la disciplina della fede e non si integrano con le popolazioni locali.

 Nonostante le ricerche disponibili, non è possibile definire un percorso di reclutamento universalmente valido. Le ragioni sono personali, socio-culturali, economiche o politiche, ma non esistono motivazioni singole che spingono a partire per il Medio Oriente perché la decisione è l’esito di un percorso che inizia nella dimensione cognitiva ed emotiva di ciascuno, spesso caratterizzato da una difficoltà nel costruire la propria identità segnata in parte dall’esclusione sociale. I reclutatori propongono un mondo segnato da una mancanza di ambiguità e nel quale le prescrizioni rigide che risentono di una visione del mondo manichea riducono le incertezze. In altre parole si propone come organizzatore di pensiero che dà senso all’esistenza e prevede il jihad come unica ragione di vita. Anche per questo, la radicalizzazione dei giovani musulmani occidentali ha più a che fare con la dimensione soggettiva, ideologica e psicologica che con le credenze religiose (Guolo, 2015). I dati di letteratura confermano la giovane età dei foreign fighters e il fatto che, rispetto al conflitto in Afghanistan degli anni Ottanta, l’età media si è abbassata (Briggs & Silverman, 2014; Boutin et al., 2016). L’offerta radicale approfitta dei passi falsi della transizione giovanile, soprattutto quando il passaggio si accompagna a mancanze personali o a debolezze familiari. La prima giovinezza e l’adolescenza sono delle fasi della vita in cui s’infrangono gli ideali. Anche alcune caratteristiche di personalità che possono incidere sulla radicalizzazione sono ad esempio la sensation-seeking (Bartlett, 2010), la paranoia come meccanismo di difesa (il jihadista odia l’Occidente perché è il mondo da cui si sente escluso) e il narcisismo (Silke, 2008).

 

Leggi tutti gli altri articoli della serie:

Criminologia vs Psicologia forense: due ambiti a confronto

Nel presente articolo analizziamo la criminologia e la psicologia forense, fornendo un quadro rispetto alle definizioni e alle differenze di ruolo che ricopre lo specifico professionista nei due settori.

Introduzione

 Quando la maggior parte delle persone pensa alla criminologia o alla psicologia forense, collega questi termini ai programmi televisivi come “Criminal Minds” o “CSI”, nei quali troviamo figure che collaborano con le forze dell’ordine per risolvere crimini terrificanti. Sebbene i criminologi e gli psicologi forensi possano operare in tale ambito, il lavoro quotidiano dei professionisti che ricoprono questi ruoli è spesso diverso da quello che si può vedere in televisione. Questi campi comportano ricerche approfondite, colloqui individuali e raccolta di dati e, per quanto queste due aree della psicologia abbiano una certa sovrapposizione, esistono differenze nette tra la criminologia e la psicologia forense.

Cos’è la criminologia?

La criminologia studia i processi di pensiero di chi commette reati, andando a comprendere il perché delle condotte criminogene. I criminologi spesso collaborano con le forze dell’ordine per aiutare a tracciare il profilo di chi commette reati. Ciò può comportare la revisione dei fascicoli e la ricerca di altre informazioni rilevanti per un caso. Inoltre, possono assistere le forze dell’ordine nel processo di interrogatorio dei sospettati ed essere chiamati a testimoniare in tribunale come esperti, poiché hanno acquisito una conoscenza profonda della mente criminale. I criminologi, inoltre possono fornire terapia a persone che hanno attuato un crimine.

Cos’è la psicologia forense?

La psicologia forense applica le competenze psicologiche alle situazioni legali. In pratica, i professionisti di questo settore valutano da un punto di vista psicologico gli individui coinvolti nel sistema legale. Gli psicologi forensi aiutano nelle indagini, conducono ricerche psicologiche e creano programmi di intervento. Possono anche specializzarsi in aree come il lavoro civile, penale o familiare. Gli psicologi forensi possono anche essere chiamati a testimoniare come esperti in tribunale.

Criminologia vs. Psicologia forense

I criminologi e gli psicologi forensi lavorano con le forze dell’ordine per aiutare a risolvere i crimini. Entrambe le aree della psicologia cercano di comprendere i comportamenti criminali e i relativi processi di pensiero. Tuttavia, i campi variano per quanto riguarda le aree di interesse, le responsabilità e l’ambiente di lavoro.

I criminologi si concentrano maggiormente sul comportamento criminale; il loro lavoro può comprendere la conduzione di ricerche, la valutazione del comportamento e la stesura di relazioni.

 Analizzano gli elementi dell’ambiente di una persona, compresa l’educazione e l’influenza familiare, che possono aumentare la probabilità di future attività illegali. Il loro lavoro cerca di scoprire le intenzioni di chi commette reati e di identificare i modelli di comportamento criminale, aiutando le forze dell’ordine a catturare i sospettati e ad anticipare i crimini prima che si verifichino. Prima che le forze dell’ordine mettano in custodia un sospettato, i criminologi creano un profilo che prevede informazioni demografiche sulla persona di interesse.

Il lavoro degli psicologi forensi, invece, riguarda spesso il diritto civile e penale. Dopo che un sospettato ha commesso un reato, gli psicologi forensi possono intervistarlo per determinare se è in grado di sostenere un processo e quali servizi di riabilitazione offrire. Gli psicologi forensi compaiono anche in tribunale, dove forniscono testimonianze di esperti sullo stato mentale di un imputato e valutano la validità delle testimonianze. Uno degli scopi della psicologia forense è quello di migliorare il sistema di giustizia penale. Gli psicologi forensi eseguono test psicologici sui sospettati già in custodia, forniscono servizi alle vittime di reati e alle loro famiglie e aiutano le forze dell’ordine a sviluppare programmi di prevenzione della criminalità per proteggere i cittadini. In ambito civile, gli psicologi forensi applicano, ad esempio, la loro esperienza per creare accordi di custodia di minori.

Per quanto concerne l’ambiente lavorativo, i criminologi possono operare nei tribunali, nelle agenzie di assistenza sociale, nelle strutture dedicate alla salute mentale e nelle agenzie governative. Gli psicologi forensi possono lavorare in carcere, in centri di ricerca, negli ospedali, in sedi di medicina legale, in laboratori forensi, nelle università e nelle stazioni di polizia. Entrambi i tipi di psicologi possono lavorare come liberi professionisti.

 

Come nasce il concetto di ferita morale

Con “moral injury” (ferita morale) si intende il perpetrare, il non prevenire, il testimoniare o l’apprendere atti che trasgrediscono le credenze morali personali, e la sofferenza legata alla violazione delle norme morali. I suoi effetti duraturi possono compromettere la qualità di vita delle persone.

 

 Fare un incidente d’auto perché si stava inviando un messaggio, lavorare in un’organizzazione corrotta, tradire il proprio partner e offendere qualcuno per essere accettati dal proprio gruppo di amici. Cos’hanno in comune tutte queste situazioni? Chi commette queste azioni può incorrere in una ferita morale, ossia di un fenomeno che riconosce i fondamenti etici come essenziali per la definizione di sé, per gli altri e per la società e che, dunque, è strettamente legato al modo in cui gli esseri umani danno significato alla violenza che hanno subito o inflitto.

Inizialmente, il termine fu introdotto dallo psichiatra Shay (1999) per descrivere lo sgomento riscontrato nei veterani della guerra del Vietnam, che riportavano di aver ricevuto dai superiori l’ordine di agire secondo modi contrari al loro codice morale e di aver sofferto per questo. Dai loro resoconti, lo psichiatra capì che la condizione di ferita morale poteva essere definita come “un senso di tradimento di ciò che è giusto da parte di qualcuno che detiene l’autorità legittima in una situazione ad alto rischio”.

Sebbene la ricerca sulla ferita morale sia partita con le esperienze sui veterani o sui militari in servizio, negli anni alcuni studiosi hanno iniziato a trovare la definizione di Shay troppo riduttiva. Litz nel 2009 ha proposto una definizione più trasversale del fenomeno, descrivendolo come la condizione di sofferenza psichica legata al “non prevenire, il perpetrare, il testimoniare o l’apprendere atti che trasgrediscono norme morali personali profondamente radicate”.

Come si presenta la ferita morale: il confine sottile con il PTSD

Ma, di fatto, di cosa si tratta? La ferita morale comprende una costellazione di segni e sintomi che vanno oltre il senso di colpa e di vergogna e che possono essere così gravi da far smarrire alle persone il proprio senso di bontà, affidabilità e valore personale, compromettendone il funzionamento e la qualità di vita.

Nonostante la sua diffusione, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) non ne fa una diagnosi ufficiale: tutt’oggi ricercatori e medici non hanno chiari i criteri per determinare se qualcuno presenta o meno sintomi da moral injury.

Nel tentativo di convergere verso una definizione univoca del fenomeno, uno studio del 2019 ha scoperto che, di fronte a un elenco di potenziali esperienze moralmente dannose per la popolazione (come gli esempi riportati all’inizio), non tutti reagiscono allo stesso modo. In altre parole, non tutti coloro che sperimentano un particolare evento stressante subiscono una ferita morale: ciò che fa la differenza è la struttura morale delle persone e la valutazione che esse fanno delle loro azioni o inazioni.

Per distinguere lo stress morale normale dal patologico, Litz e Kerig hanno avanzato l’idea di un continuum morale in cui:

  • Un estremo si identifica con la frustrazione morale che si potrebbe provare in risposta a eventi non immediatamente personali (ad esempio, un’elezione locale o nazionale);
  • Nel mezzo si collocano le trasgressioni morali personali in risposta a eventi più angoscianti (come offendere o tradire qualcuno che amiamo), anche se le conseguenze per la persona non sono debilitanti e l’individuo non si riconosce nel danno;
  • Un estremo in cui si classifica una ferita morale debilitante che consuma la persona attraverso intensi sensi di colpa e di vergogna (con frasi del tipo “Sono disgustato da quello che è successo” o “Ho perso la stima di me stesso”).

Gli individui dell’ultimo estremo sono quelli che, trovando molto stressante una condizione immorale, possono vivere il tutto in modo traumatico. A questo proposito, i clinici si sono chiesti quali gradi di sovrapposizione sintomatologica e diagnostica possano esserci fra soggetti che manifestano ferita morale e soggetti con disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Anche se alcuni sintomi ed eventi scatenanti sono comuni, molti esperti li considerano due condizioni distinte:

  • Il PTSD è caratterizzato da intense reazioni che si sviluppano in seguito a eventi traumatici, che però non necessariamente sono moralmente dannose (ad esempio, un disastro naturale);
  • Il danno morale è scatenato sempre da un evento moralmente pregiudizievole.

Entrambe le condizioni possono comportare ricordi intrusivi dell’evento trigger, l’evitamento o mancanza di interesse per attività piacevoli, ma è più probabile che la ferita morale porti più ad altri sintomi, come alterazioni nella percezione di sé e svalutazioni di sé.

Una nuova sfida terapeutica

 Visto che la diagnosi di PTSD non rappresenta al meglio la condizione di ferita morale, anche dal punto di vista trattamentale è necessaria una riflessione: Litz e colleghi (2009) hanno avanzato la proposta di una “divulgazione adattiva”, ossia di una forma di terapia che aiuti il paziente a venire a patti con la sua ferita morale cambiando la sua prospettiva su quanto vissuto. Egli, in particolare, verrebbe incoraggiato a:

  • assumersi la responsabilità dell’atto, e non la colpa;
  • considerare la possibilità di perdonarsi;
  • impegnarsi in azioni che hanno un valore riparativo reale o simbolico;
  • riconoscere che condannarsi non può cancellare quanto successo, bensì può impedire loro di fare del bene nel mondo nel futuro.

Dopotutto, si tratta di aiutare il paziente a riflettere su ciò che è accaduto da una prospettiva più ampia che colloca l’evento nel contesto dell’intera vita della persona.

Terapia esperienziale profonda (2023) di Esteban Laso e Alfredo Canevaro – Recensione

Il libro “Terapia esperienziale profonda”, con ampia valenza didattica, è strutturato in tre capitoli principali: il primo concerne la teoria, nel secondo è descritto il loro modello clinico, basato su quattro principi cardine, mentre il terzo è dedicato alle esemplificazioni cliniche.

 

 Tra i tanti meriti di Alfredo Canevaro uno dei non minori è quello di dare fiducia ai colleghi più giovani, promuovendo in modo disinteressato e appassionato terapeuti meno affermati. Posso dirlo con cognizione di causa, perché debbo a lui la possibilità di essere divenuto supervisore, ormai oltre vent’anni fa, di un’équipe interaziendale di terapia familiare ad Ancona. Esperienza che poi si è protratta per diversi anni e che ricordo tra le più piacevoli e proficue tra quelle a cui ho partecipato.

Non ho informazioni dirette, ma immagino che sia successo qualcosa di analogo con Esteban Laso, collega più giovane con cui firma questa nuova opera, pubblicata in Spagna nel 2022 da Ediciones Morata, un editore indipendente con circa 90 anni di attività soprattutto nell’ambito delle scienze sociali, ed ora stampata in Italia da Luigi Guerriero. Laso si è formato a Barcellona e vanta un’intensa attività didattica universitaria in Sudamerica.

Non conosco come concretamente si sia realizzata questa collaborazione a distanza, ma il risultato appare molto proficuo e l’apporto di Laso si rivela sostanziale nel fornire una sistematizzazione al pensiero di Alfredo Canevaro, connettendo il suo stile terapeutico molto personale ad un più ampio quadro di riferimento teorico.

Il punto di contatto tra i due autori è l’enfatizzazione dell’importanza della dimensione emozionale in terapia. Io, personalmente, oltre ai due aggettivi “esperienziale” e “profonda”, che compaiono anche nel titolo del libro, aggiungerei una terza caratteristica: “esistenziale”. Nel senso che la visione su cui poggia questo tipo di psicoterapia (anzi la filosofia terapeutica, come essi stessi la definiscono) è che essa non è si rivolge solo a coloro che soffrono di una qualche forma di patologia psichica, ma è orientata a tutti noi che, nel difficile processo di maturazione personale, possiamo beneficiare di “esperienze” di grande aiuto per superare blocchi emotivi e riconoscere i nostri bisogni profondi.

Il libro, con ampia valenza didattica, è strutturato in tre capitoli principali: il primo concerne la teoria, nel secondo è descritto il loro modello clinico, basato su quattro principi cardine, mentre il terzo è dedicato alle esemplificazioni cliniche.

Il punto di partenza è una critica alle psicoterapie “razionaliste” che mettono in secondo piano la dimensione emotiva dell’esperienza terapeutica, come se ci fosse il primato della “ragione” sugli “affetti”. Secondo Canevaro e Laso, un cambiamento profondo non può avvenire mediante una nuova comprensione o una ristrutturazione cognitiva, ma serve un’esperienza emotiva forte, meglio in presenza dei familiari significativi, che aiuti a modificare il modo in cui l’individuo percepisce se stesso. La psicoterapia non può né deve cambiare l’emozione, non è l’emozione in sé ad essere trasformativa, ma essa, attivata mediante esercizi che costituiscono veri rituali, può aiutare le persone a riconoscere le necessità di base sottostanti, che descriverò in seguito. Il cambiamento non avviene in modo del tutto intenzionale, è graduale e scaturisce dagli interventi terapeutici che permettono di collegare in modo nuovo gli eventi di vita significativi, facendo breccia nelle strategie difensive patogene. C’è una visione ottimistica dell’uomo secondo cui, rimuovendo gli ostacoli che impediscono alla relazioni di seguire il loro corso naturale, tutti saremmo in grado di amare e rispettare. Lo sviluppo normale è sano e la patologia è il prodotto di atti di violenza o abbandono. I sintomi e i comportamenti problematici sono strategie involontarie e inconsce per reagire a tali atti, incapsulando le ferite subite, anestetizzando il disagio o anticipando nuovi atti di prepotenza. Tali strategie costringono la persona in circoli viziosi ripetitivi intra e interpersonali che, in ultima analisi, rafforzano la sofferenza.

 Il loro modello di lavoro clinico si basa su quella che definiscono un’ecologia delle emozioni legata alle necessità di base. In sintesi, essi reputano che tutti gli individui hanno due necessità relazionali fondamentali, sinergiche, che nelle situazioni di normalità procedono insieme: sentirsi amati (voluti, protetti, accettati) e sentirsi rispettati (riconosciuti, apprezzati). Se ci sentiamo amati e rispettati, saremo poi in grado di amare e rispettare gli altri, mentre è in conseguenza di esperienza traumatiche che emergono difficoltà relazionali. Alle due necessità di base si connettono le emozioni: le primarie di gioia e tristezza e quelle miste di collera-repulsione e sorpresa-paura. Nelle situazioni problematiche, l’individuo pregiudica la capacità di amare o di rispettare nel tentativo illusorio di salvare delle briciole dell’altra capacità.

Nella terza parte del volume, dedicata alla pratica terapeutica, ampio spazio è rivolto alla terapia di coppia. Essi fanno notare, in via preliminare, che con questo termine si fa riferimento a un “pot-pourri di tecniche diverse usate in modo non sistematico” e che la maggioranza dei modelli attuali non si basano su nessuna “teoria dell’amore” sottostante. Vi è una critica dura ai modelli del contestualismo cognitivo, ma anche alle terapie narrative e a quelle sistemiche, quando riducono al potere la dinamica centrale delle relazioni coniugali. Per Canevaro e Laso, l’amore di coppia è il contesto preferenziale di maturazione emotiva dell’adulto (una co-evoluzione) e ciò avviene per l’attivazione di tre aree: quella erotica o passionale, quella dell’intimità e quella dell’impegno, che comporta anche il mantenimento nel tempo della buona fede verso l’altro. Riguardo al modello clinico, grande rilievo viene dato agli interventi terapeutici esperienziali, definiti “atti di trasformazione o di radicamento delle emozioni mediante simbolismo”. Per inciso, vi è anche una critica a ciò che spesso in terapia è considerato un rituale”, a loro avviso erroneamente, perché si tratterebbe solo di prescrizioni, anche precise e puntuali, ma a cui manca l’elemento fondamentale, ovvero la connessione con la magia del simbolo. Gli esercizi esperienziali più importanti da loro proposti sono: la tecnica dello zaino, la tecnica delle identificazioni proiettive, la tecnica del ringraziamento reciproco. Essi possono essere presentati secondo un ordine prestabilito, ma possono essere anche utilizzati in modo discrezionale, valutando il singolo caso. Inoltre, Canevaro ha introdotto in modo sistematico l’allargamento ad incontri separati di ciascun partner con la propria famiglia d’origine come momento integrante del suo modello di lavoro con le coppie.

In conclusione, un libro davvero riuscito, che sarà letto in vari paesi e che, oltre a presentare una filosofia della psicoterapia orientata al primato delle emozioni, fornisce in modo chiaro alcune tecniche per la ristrutturazione dei vissuti emozionali.

Irvin D. Yalom, tra esistenzialismo e relazione terapeutica

Psichiatra, psicoterapeuta e scrittore, Irvin D. Yalom è noto per aver sviluppato un modello di psicoterapia a orientamento esistenzialista, nonché una specifica visione della relazione psicoterapeutica.

La storia

Irvin Yalom ha approfondito diversi temi nel corso della sua professione, si è concentrato inizialmente sulla terapia di gruppo per poi passare ad occuparsi di tematiche da lui definite esistenziali come la morte, il senso della vita, l’isolamento e la libertà (Manfredi, 2016).

In tempi recenti, Irvin Yalom è divenuto noto al pubblico anche per una serie di romanzi, i cui titoli sono marcati da nomi di filosofi: “Il problema Spinoza”, “Le lacrime di Nietzsche”, “La cura Schopenhauer”, “Sul lettino di Freud”. Successivamente sono apparsi in italiano altri due libri di Yalom: “Guarire d’amore” e “Creature di un giorno”, che raccontano invece storie autentiche di psicoterapia (Innamorati, 2015).

La psicoterapia nel qui ed ora

Yalom fa spesso riferimento ai limiti di un approccio centrato sulla diagnosi, che rischia di annullare e di far perdere di vista l’unicità di ciascun paziente. Inoltre, ritiene che una delle fonti di materiale più rilevanti per la psicoterapia sia ciò che accade in seduta. Irvin Yalom definisce il suo modello terapeutico ‘esistenziale’ e ritiene fondamentale incoraggiare i pazienti a individuare il ruolo che possono avere nel mantenere la situazione di disagio che vivono. Riconoscere questa dinamica è importante al fine di far comprendere alla persona che, per apportare dei cambiamenti nella propria vita, occorre spostare l’attenzione da ciò che accade nel contesto esterno a se stessi.

 A questo proposito nel libro “Il dono della terapia”, Irvin Yalom dedica ampio spazio a come lavorare nel qui ed ora. In particolare, fa riferimento all’utilità di cercare, all’interno della relazione terapeutica, un equivalente del problema presentato dal paziente; questo sia perché spesso i pazienti si avvicinano alla psicoterapia proprio a causa delle difficoltà a formare e mantenere relazioni durevoli e gratificanti, sia perché presumibilmente le modalità relazionali tipiche del paziente si manifesteranno anche nella relazione terapeutica. Individuando un equivalente della dinamica disfunzionale nell’ambito della terapia il lavoro diventa più immediato e accurato (Valentino, 2018).

La relazione terapeutica

Nel modello applicato da Yalom la cosa più importante che possa fare un terapeuta è offrire al paziente una relazione che risulti autentica e risanatrice. Egli identifica infatti come centrale nel percorso di psicoterapia la relazione terapeutica, che considera l’arma più potente. Il terapeuta può ben conoscere le tecniche e come applicarle, ma queste sarebbero inutilizzabili senza fare riferimento, continuamente, alla relazione terapeutica (Mannino, 2016).

Paziente e terapeuta non sono considerati due entità divise e separate, ma creano una squadra di lavoro, in grado di funzionare nel momento in cui si crea un clima di fiducia e di comprensione nella relazione. Irvin Yalom invita quindi ad essere terapeuti aperti e sinceri e, per farlo, ad essere coraggiosi, a lavorare su se stessi, a conoscersi a fondo, per poter essere consapevoli di quello che si muove dentro di noi nel tempo condiviso con il paziente e per essere più pronti a fornire al paziente l’aiuto necessario (Mannino, 2018; Valentino, 2018).

Il senso di colpa: quando diventa patologico e come prendersene cura

La colpa è un’emozione morale. Se sostenuta nel tempo dalla ruminazione, può diventare patologica. Accettarla e perdonarsi per quanto commesso od omesso favorisce il benessere psicologico.

L’emozione della colpa

 La colpa è un’emozione che ognuno di noi sperimenta almeno una volta nella vita: quando infrangiamo una regola, quando non adempiamo ai nostri doveri, quando danneggiamo qualcosa o quando facciamo stare male qualcuno. Si tratta di un’emozione secondaria (Izard, 1979) che, a livello evolutivo, si sviluppa successivamente alle emozioni primarie di gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disprezzo e disgusto. Come la vergogna e l’orgoglio, si manifesta a partire dai 2 anni, quando il bambino, costruitosi un primo senso di sé, può pensare alla propria persona nel contesto sociale e avvertire su di sé il giudizio degli altri.

Di fatto, la colpa si genera anche dal nostro rapporto con la società e dall’educazione che ne deriva: interiorizzare le norme morali ed etiche del contesto di appartenenza significa assumersi la responsabilità di trasgredirle e, così, provare senso di colpa per aver commesso od omesso qualcosa. In questa direzione, la colpa avrebbe una funzione positiva e riparatrice: facendoci provare rimorso o rimpianto dopo aver compreso il danno di un atto o di un atto mancato, essa ci indurrebbe ad assumerci le nostre responsabilità e a muovere all’azione, piuttosto che a lasciare le cose insolute (Tangney et al. 2007).

Quali tipi di senso di colpa

Quando ci accorgiamo che le cose potrebbero non andare come vorremmo, nasce il senso di colpa. Si parla di senso di colpa quando si guarda allo stato anticipatorio della colpa, che ci preannuncia che qualcosa potrebbe essere trasgredito in senso commissivo od omissivo. Solo quando lo stato delle cose è già concluso e il danno è già stato fatto il senso di colpa si trasforma in colpa, pervadendoci di uno stato d’animo negativo. Anche se ognuno di noi ha una maggiore o minore propensione alla colpa, abbiamo la possibilità di esperire due principali tipologie (Mancini, 2008):

  • Deontologica, quando è indotta dalla violazione di una norma etica. Questo tipo di colpa si avverte quando l’individuo crede di aver violato qualche regola sociale o imperativo morale. Può provare tale emozione negativa per aver commesso delle azioni condannate moralmente, per comportamenti che non provocano danno materiale alla vittima ma la offendono o anche per disposizioni all’azione (ad esempio, avere un impulso aggressivo verso un’altra persona, anche se non lo si agisce).
  • Altruistica, quando è indotta dalla violazione di un principio altruistico. Questo tipo di colpa è interpersonale perché legato alla tendenza dell’individuo a provare empatia verso la sofferenza degli altri. Può essere definito come un senso di pena che si genera dalla credenza di aver danneggiato l’altro o di non averlo aiutato come avremmo dovuto. È il senso di colpa che, ad esempio, viene esperito dai sopravvissuti, che articolano un dialogo interno del tipo “Come ho potuto lasciarla da sola?” o “Non ho potuto fare niente per lui”.

Quando il senso di colpa diventa patologico

Anche se il senso di colpa è un’emozione universale, può diventare patologico quando assume i connotati di un’emozione negativa costante e sproporzionata rispetto ai gesti commessi od omessi, compromettendo la qualità di vita.

 Si manifesta quando l’individuo, nelle sue preoccupazioni, tende ad assumersi la responsabilità degli eventi su cui non ha potuto avere il controllo, continuando a guardarsi indietro e ad addolorarsi nel tentativo di capire cosa avrebbe potuto fare. La colpa viene così mantenuta attiva dalla ruminazione, ossia da un pensiero negativo e ripetitivo che si interroga su vicissitudini passate in modo circolare, senza trovare risposte utili nel presente.

Gli individui che sono assorbiti in maniera patologica da questa emozione finiscono per centralizzare la loro vita su di essa.  Questo tipo di funzionamento è spesso riscontrabile in alcuni disturbi psichici come:

  • depressione (l’individuo si auto-colpevolizza continuamente, in alcuni casi fino al delirio);
  • disturbi ossessivo-compulsivi (ad esempio, l’individuo si punisce deontologicamente per aver solo pensato a qualcosa di riprovevole);
  • disturbi d’ansia (ad esempio, l’individuo sente una discrepanza fra il Sé Reale e il Sé Ideale);
  • disturbo da stress post-traumatico (ad esempio, l’individuo si attribuisce la responsabilità dell’evento traumatico, anche quando effettivamente non ne ha);

Accettare l’emozione per perdonarsi

La natura complessa della colpa fa di essa un’emozione difficile da gestire, così intrinsecamente legata alla sfera della moralità. Prendere coscienza del fatto che ciò che si è commesso od omesso non può essere rimediato significa entrare in contatto con la parte di sé più umana, fallibile e limitata. Prendere atto delle proprie debolezze e mettere in discussione in questo modo il proprio senso di autoefficacia non è facile, soprattutto per quegli individui in cui la colpa può celare un senso di onnipotenza o perfezione (“E’ tutta colpa mia!” sta per “Tutto dipende da me, ho l’assoluto controllo sulla realtà: se mi sfugge qualcosa, sono un fallito”).

Il primo passo da fare è imparare a conoscere questa emozione negativa nei suoi correlati fisiologici, cognitivi e comportamentali: capire come agisce su di noi e a partire da quali situazioni, è di fondamentale importanza per familiarizzare con essa e poterla regolare.

Successivamente, sarebbe ottimale accettare quanto accaduto o non accaduto: visto che è la continua ruminazione al passato a mantenere attivo il senso di colpa, combattere contro di esso non fa altro che acuirlo. Accettare la realtà per quella che è stata e imparare a tollerare quest’emozione negativa come tale, e non come qualcosa di definente il valore personale, apre la strada alla possibilità di perdonarsi. La capacità di perdonare se stessi per i torti commessi appare correlata a una condizione di maggior benessere psicofisico, nella quale godere di maggiore capacità di empatia e minor rischio di depressione (Ross et al., 2007).

La psicoeducazione sul nervo vago come parte essenziale dell’intervento terapeutico

Con le parole di un più recente studio, il nervo vago funge da relè critico tra i visceri addominali e il cervello per trasmettere i segnali metabolici (Décarie-Spain et al. 2023).

Neuroscienze e stress

 L’evoluzione delle neuroscienze negli ultimi vent’anni hanno reso ormai opinione largamente diffusa fra gli operatori della salute, in primis psicologi e medici, la necessità di un approccio olistico al paziente, ossia, non soltanto una visione che superi l’obsoleta e anacronistica suddivisione cartesiana mente-corpo, ma l’esigenza di effettuare una diagnosi e un intervento che consideri la persona nella sua globalità e tenga conto delle molteplici interazioni tra fattori biologici, psichici, epigenetici, l’ambiente, la storia individuale e generazionale del paziente.

La psiconeuroendocrinoimmunologia (abbreviata in PNEI), disciplina che studia appunto le interazioni tra i sistemi nervoso centrale, endocrino e immunitario, nonché il loro effetto sul comportamento umano e animale, è un esempio che va in questa direzione, così come numerose ricerche scientifiche, quali quelle che studiano le reciproche interazioni fra microbiota intestinale e sistema nervoso centrale (con inevitabili riverberi anche sugli aspetti psichici e comportamentali del singolo).

In un certo senso “apripista” di tali indagini furono gli studi sullo stress che misero in luce il cosiddetto asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) già negli ultimi decenni del secolo scorso. Una connessione, questa dell’asse HPA, “organica” che riveste un ruolo fondamentale nella risposta a stimoli esterni e interni, inclusi in particolar modo gli stress psicologici (Pariante & Mondelli, 2006) e (Walker & Diforio, 1997).

In estrema sintesi, possiamo ricordare che in situazioni stressanti i centri corticali e sottocorticali modulano l’attivazione del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, il quale stimola una serie di reazioni neuroendocrine a catena, vitali per il mantenimento dell’omeostasi, e che provoca un aumento di glicemia e grassi nel sangue permettendo all’organismo di avere a disposizione l’energia di cui il corpo ha bisogno per fronteggiare particolari situazioni (Sheng, et al.2020).

É quindi un processo chimico-fisico, perfettamente “normale”, che ha una funzione adattativa agli stimoli ambientali. Comprendere, da parte del cliente/paziente, la “filosofia” e la funzione di tali reazioni del nostro organismo, è già una cospicua parte di intervento.

Il nervo vago

Nell’ottica di questa visione olistica e integrata può essere utile ed efficace, in sede clinica, andare a intervenire con la psicoeducazione anche su un’altra componente del nostro organismo: il nervo vago o, più esattamente, il decimo nervo cranico.

Tentiamo di fare chiarezza su questa struttura. Il termine “nervo vago” è in realtà una enorme semplificazione dal punto di vista anatomico, innanzitutto perché esso, come tutti i 12 i nervi cranici, è una coppia, uno per emi-lato del corpo, poi perché ciascun nervo vago è costituito da migliaia di fibre, è un nervo misto, con il 20% di fibre efferenti, coinvolte nel controllo della motilità e della secrezione del tratto gastrointestinale, nonché del tono parasimpatico cardiaco (Crick et al. 1994) e del CAP, Cholinergic Anti-Inflammatory Pathway (via antinfiammatoria colinergica) (Pavlov et al. 2003), e l’80% di fibre afferenti, che cioè trasmettono informazioni gustative, viscerali e somatiche (Prechtl & Powley 1990).

Come si renderà evidente più avanti, nella descrizione anatomica, il nervo vago rappresenta un componente fondamentale del sistema nervoso parasimpatico, che sovrintende a una vasta gamma di funzioni corporee cruciali, tra cui il controllo dell’umore, la risposta immunitaria, la digestione e la frequenza cardiaca. Stabilisce una delle connessioni principali tra il cervello e il tratto gastrointestinale e invia informazioni sullo stato degli organi interni al cervello tramite fibre afferenti (Breit et al.  2018).

Questo nervo, inoltre, stimolando l’attività parasimpatica in tutto il corpo, determina il rilascio di ormoni che consentono all’organismo di svolgere funzioni di sopravvivenza.

Cenni anatomici sul nervo vago

Il nervo vago esce dal tronco encefalico in corrispondenza del midollo allungato nel solco tra l’oliva e il peduncolo cerebellare inferiore, lasciando il cranio attraverso il compartimento medio del forame giugulare.

Nel collo, questo nervo fornisce l’innervazione necessaria alla maggior parte dei muscoli della faringe e della laringe, che sono responsabili della deglutizione e della vocalizzazione (Castoro et al. 2011). Nel torace procura il principale apporto parasimpatico al cuore e stimola una riduzione della frequenza cardiaca. Nell’intestino, il nervo vago regola la contrazione della muscolatura liscia e la secrezione ghiandolare. Inoltre, i neuroni pregangliari delle fibre efferenti vagali emergono dal nucleo motorio dorsale del nervo vago localizzato nel midollo (Ter et al. 1991), e innervano gli strati muscolari e mucosi dell’intestino sia nella lamina propria che nella muscolare esterna (Berthoud et al. 2000). Il ramo celiaco fornisce l’intestino dal duodeno prossimale alla parte distale del colon discendente (Mukudai et al.2007).

Altra importante connessione del nervo vagale è con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), poiché lo stimola attraverso le sue fibre afferenti a rilasciare glucocorticoidi dalle ghiandole surrenali, già individuata alla metà del secolo scorso (Harris 1950). Asse fondamentalmente implicato, tra l’altro, nella gestione dello stress (tra i molti: Stephens et al. 2012).

In sintesi, il complesso vagale dorsale del tronco encefalico rappresenta un importante centro riflesso del sistema nervoso autonomo. Infatti, l’attivazione delle afferenze vagali genera diverse risposte coordinate (autonomiche, endocrine e comportamentali) attraverso vie centrali che coinvolgono il complesso vagale dorsale (Bonaz et al. 2017).

Ma il nervo vago, come vedremo, ha anche interazioni con le strutture superiori del cervello. Infatti, il cervello riceve informazioni dalle proiezioni afferenti del vago (Liu, et al. 2020). Le fibre afferenti proiettano al nucleo tractus solitarius (NTS) e al locus coeruleus (LC) nel tronco encefalico (Nomura & 1984) e poi formano proiezioni ascendenti dirette e indirette dal nucleo tractus solitarius a molte aree del cervello (per es. mesencefalo, ipotalamo, amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale ventromediale) (Carreno & Frazer 2016), si veda anche Bonaz et al. 2017.

Quindi, per sintetizzare con le parole di un più recente studio, il nervo vago funge da relè critico tra i visceri addominali e il cervello per trasmettere i segnali metabolici (Décarie-Spain et al. 2023).

Ma non solo, recenti scoperte su modelli murini e umani rivelano l’impatto della segnalazione del nervo vago dall’intestino sul controllo dei domini neurocognitivi di ordine superiore, tra cui ansia, depressione, motivazione della ricompensa, apprendimento e memoria (ibidem).

Ad esempio, il consumo di pasti coinvolge la segnalazione afferente vagale originata dal tratto gastrointestinale che può contribuire ad alleviare l’ansia e gli stati depressivi, promuovendo anche funzioni motivazionali e di memoria.

Oltre ad essere fondamentale nel determinare i comportamenti regolatori dell’assunzione di cibo, i risultati emergenti dalla letteratura scientifica rivelano che l’asse intestino-vago-cervello modula vari processi cognitivi e comportamentali complessi. Infatti, le funzioni intestinali sono state intrinsecamente collegate a stati affettivi come ansia e depressione (Childs et al. 2019), (Bret-Dibat et al. 1995; De Witte et al. 1986), nonché a processi neurali che regolano l’apprendimento e la memoria (Ángyán 1981), (Ángyán 1975) e la motivazione (Sellaro et al. 2018).

Le connessioni tra l’intestino e i processi cognitivi sono state evidenziate nella comunità medica dai medici britannici del XIX secolo, che comunemente si riferivano allo stomaco come “il grande cervello addominale” e un forte regolatore del benessere emotivo.

Da questa breve e sommaria descrizione emerge l’importanza e le implicazioni che il nervo vago riveste in numerose manifestazioni psichiche, somatiche e comportamentali.

Nervo vago e Teoria Polivagale

È evidente quindi che la conoscenza e la consapevolezza della funzione di tale terminazione nervosa da parte dei nostri clienti/pazienti possa rappresentare un fondamentale punto di partenza per comprendere e gestire alcuni comportamenti considerati disfunzionali.

Tale psicoeducazione può/deve essere declinata secondo l’ipotesi teorica di colui che da oltre quarant’anni studia il nervo vagale, lo psichiatra e psicologo statunitense Stephen Porges, il quale, con la sua Teoria Polivagale (Porges 2007), ha rivoluzionato il nostro criterio di osservazione delle reazioni fisiologiche di sopravvivenza a fronte di situazioni percepite come pericolose.

In ambito applicativo questa teoria ha fornito, a chi lavora nel campo del coaching, counseling e della psicotraumatolgia un fondamentale modello di comprensione su ciò che accade, dal punto di vista neuro-autonomico, quando un individuo sperimenta un trauma persistente all’interno delle proprie relazioni di attaccamento.

Negli anni recenti, la Teoria Polivagale ha contribuito a costruire un solido ponte tra la ricerca e la clinica, rendendoci più consapevoli nel setting della relazione mente-corpo, valorizzando ancora di più le scoperte nell’ambito delle neuroscienze dello sviluppo emotivo, della psicobiologia dell’attaccamento sicuro/insicuro e dei correlati biologici del trauma complesso, dando nuova enfasi alle prospettive di intervento nella salute mentale (Kazanxhi 2022).

 Questa prospettiva terapeutica permette di intervenire non solo sulle memorie traumatiche del paziente e sui conflitti che ne sono derivati e che vengono riattualizzati anche nella relazione terapeutica, ma, fondamentalmente, ha lo scopo di rendere consapevole il paziente di come gli stati di tensione o di freezing (le difese di mobilizzazione e di immobilizzazione) derivanti dall’attivazione di memorie traumatiche non mentalizzate e dalla disregolazione autonomica dell’arousal fisiologico, abbiano effetti di profonda insicurezza nelle rappresentazioni di sé e degli altri e intervengano nel corpo.

Inoltre, le emozioni negative che non hanno avuto la possibilità di poter essere contenute, elaborate e trasformate nel sistema di attaccamento primario e neppure nell’ambito delle relazioni interpersonali successive, e che pertanto sono divenute croniche e persistenti, ovvero disregolate, mantengono il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) in uno stato di attivazione/difesa cronico (iper/ipoarousal) con la conseguenza di danni psicobiologici a sfavore degli organi più vulnerabili e dello stato mentale della persona.

Essenzialmente la Teoria Polivagale enfatizza il ruolo del nostro sistema nervoso autonomo nel segnalare la presenza o l’assenza di una minaccia attraverso l’attivazione di tre stati autonomici.

  • La stato ventro-vagale, che ci permette di calmarci quando ci troviamo in un contesto sicuro. Il battito del cuore diminuisce per permetterci di godere del nostro stato di sicurezza, circondati da coloro che ci amano e ci proteggono.
  • Lo stato simpatico, il quale al primo segnale di pericolo mette in moto la reazione di attacco o fuga. Questo ci permette di agire: fronteggiare la minaccia, se è concesso farle fronte, o fuggire, qualora affrontarla non fosse possibile.
  • Lo stato Dorso Vagale, che si attiva quando non siamo in grado né di lottare né di fuggire e allora ci immobilizziamo (il freezing), gli animali si fingono morti per sfuggire all’aggressione (Kazanxhi 2022).

I tre stati si attivano in base alle condizioni dell’ambiente circostante, in modo gerarchico e prevedibile; ossia, in base al proprio funzionamento autonomico è possibile prevedere quali eventi possano innescare reazioni simpatiche, o quali segnali abbiano il potenziale di riportarci alla regolazione ventro-vagale che ci permette di “sentirci al sicuro”.

La psicoeducazione sul nervo vago

Parte fondamentale dell’approccio polivagale alla terapia riguarda la capacità del paziente di valorizzare in termini cognitivi ciò che il proprio corpo gli comunica: ogni variazione, ogni spostamento di stato autonomico, ogni reazione corporea apparentemente avversa o “disturbante” viene attivata esclusivamente in risposta, funzionale secondo gli schemi corporei ereditati dai nostri avi, alla situazione ambientale e, in ultima analisi, in funzione della nostra sopravvivenza. Non esiste una risposta cattiva o sbagliata, ci sono solo risposte adattive. Il punto fondamentale è che il nostro sistema nervoso sta cercando di fare la cosa giusta e noi abbiamo il compito di comprendere, accettare e semmai modificare il senso di questo comportamento al fine di “normalizzarlo” e riportarci, ove necessario, al “posto sicuro”.

Ecco, dunque, la possibilità/necessità di attuare una psicoeducazione con il cliente/paziente.

L’essere umano, come tutti gli esseri viventi, è “programmato” per sopravvivere. La “sopravvivenza del più adatto” è guidata dal costante adattamento di una specie a un ambiente in evoluzione e richiede l’integrazione di informazioni esterne e segnali enterocettivi per orientare verso comportamenti vantaggiosi, in particolare verso l’alimentazione e altri comportamenti che promuovono l’acquisizione e il consumo di energia.

Ad esempio, le fluttuazioni degli ormoni metabolici possono orientare verso, o lontano, da determinati alimenti e da comportamenti ingestivi (Min et al. 2011a) e le interazioni sociali possono essere fortemente guidate dallo stato riproduttivo (Min et al. 2011b). Così la paura, l’immobilizzazione, la sudorazione, etc.

Attraverso un processo finalizzato ad aumentare l’insight dello scenario mente-corpo-relazione, il cliente/paziente impara non soltanto a comprendere le motivazioni delle proprie reazioni fisiologiche, ma a sostenere gli sforzi che il proprio sistema mette costantemente in atto allo scopo di proteggerlo da ciò che ritiene essere fonte di minaccia e di pericolo.

Ecco che allora le reazioni autonomiche potranno essere quindi mentalizzate e risimbolizzate sotto una nuova luce: il corpo, la consapevolezza degli stati corporei disregolati, le reazioni funzionali, diventano un campo di maturazione personale e interpersonale.

Naturalmente, come più volte ripetuto, la psicoeducazione è soltanto una prima possibile parte dell’intervento, alla quale potranno succedersi educazione/intervento sulla respirazione, sulla neurocezione personale, mindfulness e così via, tutte attività/esercizi che ineriscono e stimolano anche il nervo vago.

La stimolazione diretta del nervo vago con l’ausilio di strumentazione ad hoc, invece, sarà oggetto di un prossimo articolo.

Le rappresentazioni mentali 

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno.

 

Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole. 

Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’Abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere  l’Edificio.

La lettura di questo brano ci evoca immediatamente una visione, una rappresentazione cioè di quella che dovrebbe essere la realtà; attenzione però, non di quella che è realmente in senso oggettivo, né tantomeno di quella che vuole comunicarci l’autore, ma dell’immagine rappresentativa che ognuno di noi riesce a costruire mediante le proprie sottorappresentazioni su cosa sia una bella mattina di fine novembre o su come sia un terreno scosceso che si snoda intorno al monte.

Il concetto proposto è che noi non abbiamo un accesso diretto alla realtà, agli eventi del mondo esterno, ma il nostro è un approccio mediato dalla necessità di rappresentare tutti i dati sensoriali in una configurazione che è determinata  indissolubilmente dalle nostre conoscenze, aspettative, convinzioni e desideri.

Proviamo con un altro brano:

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un  promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’ Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e nuovi seni.

Molto probabilmente la maggior parte di noi avrà avvertito una maggiore fatica a rappresentare quanto letto e la rappresentazione stessa ci è apparsa un poco più sfocata rispetto alla precedente; questo perché la capacità rappresentazionale è stata resa difficoltosa dalla decodifica e dal recupero delle sotto rappresentazioni necessarie in ragione di un linguaggio desueto che non ha evocato immediatamente l’associazione simbolica, la quale invece è dovuta essere prima interpretata e quindi associata ad una immagine o un significato a noi conosciuti.

La teoria rappresentazionale della mente postula l’esistenza delle rappresentazioni mentali che agiscono da costruzioni intermedie tra il soggetto che osserva e gli oggetti ed i processi osservati o esperiti nel mondo esterno. Sono questi costruzioni intermedie che rappresentano alla mente gli oggetti reali. Ne consegue che il nostro approccio alla realtà è un approccio necessariamente mediato, condizionato dalle nostre predisposizioni biologiche, fisiologiche e psicologiche che definiscono e  selezionano gli stimoli da elaborare.

Come avviene la percezione dei dati sensoriali

Il cervello, attraverso i canali sensoriali acquisisce le informazioni dall’ambiente che tende poi a raggruppare in unità correlate che generano le immagini che sono successivamente richiamate in qualunque momento per orientare il comportamento e le decisioni.

Si comprende come la rappresentazione non risulti essere una riproduzione fotografica della realtà, ma è piuttosto il risultato ottenuto dalla elaborazione che i dati percettivi subiscono in ragione della personale storia dell’individuo e del soggettivo schema cognitivo utilizzato, divenendo un inevitabile interfaccia al quale la persona deve ricorrere per accedere alla realtà che rimane inaccessibile alla analisi diretta.

La rappresentazione quindi si interpone come metafora della realtà delimitando uno schema, una struttura, che ha alcune caratteristiche derivate dai dati sensoriali ed altre determinate dal processo di elaborazione attuato che ne definisce i significati  presentandosi “come se” fosse la realtà.

L’insieme dei modelli mentali che l’individuo utilizzerà per relazionarsi con l’ambiente, saranno quindi il prodotto della definizione delle rappresentazioni utilizzate e degli schemi di significato ad esse attribuiti, che a loro volta concorreranno a selezionare i dati sensoriali utilizzati per aggiornare le rappresentazioni, in uno schema circolare ricorrente.

Per assecondare il necessario principio di coerenza interna avviene quindi che le informazioni ritenute più significative vengano estrapolate dal contesto ed integrate con quelle preesistenti operando di fatto una manipolazione più o meno significativa delle informazioni stesse che non vengono mantenute nella loro forma integrale, ma in una loro versione “interpretata”, integrabile con i dati già presenti nel sistema elaborativo; un processo di assimilazione, descritto egregiamente da Piaget, che però non viene affatto abbandonato nei successivi stadi dello sviluppo cognitivo, ma al contrario rafforza nel tempo la propria autoreferenzialità.

L’esperienza del mondo esterno è dunque ineluttabilmente mediata dallo specifico funzionamento dei nostri organi di senso, dai canali neurali utilizzati dal nostro sistema nervoso e dall’insieme degli schemi conoscitivi e valoriali utilizzati dal singolo individuo. In questa misura, gli oggetti stressi sono creazioni soggettive e la percezione che abbiamo di essi è permeata dalle nostre personali convinzioni e credenze.

La rappresentazione mentale è dunque una immagine, una icona, un disegno, una rete di relazioni, che sta al posto dell’oggetto reale o dell’evento accaduto; il punto significativo è proprio questo, al posto di, ma non è l’oggetto o l’evento.

Prendiamo ad esempio la città nella quale viviamo e domandiamoci se l’abbiamo mai vista, la risposta immediata sarà: certamente! Ma se riflettiamo più attentamente ci renderemo conto che realisticamente non è vero e che di fatto è impossibile per ognuno di noi “vedere” nella sua interezza la città nella quale viviamo magari da decine di anni; infatti quello che noi abbiamo potuto percepire sono solo alcuni tratti, alcuni luoghi, limitati e circoscritti la cui dimensione dipende dalle nostre capacità percettive; abbiamo quindi assemblato questi specifici luoghi in una mappa mentale che rappresenta concettualmente la nostra città ma non la riproduce fedelmente. La nostra riproduzione non sarebbe fedele neanche se sorvolassimo la città vedendola dall’alto perché l’immagine risultante sarebbe bidimensionale e quindi di nuovo non rispondente alla realtà che è tridimensionale.

Dobbiamo al filosofo Alfred Korzybski la formulazione della distinzione intercorrente tra la realtà oggettiva esterna a noi e i modelli che costruiamo per rappresentarcela ed egli ha individuato nel linguaggio la forma strutturale di “mappa” o, per dirla meglio, di rappresentazione simbolica, che ci ha consentito di utilizzare modelli sempre più definiti per raffigurarci la nostra idea del mondo.

Rappresentazioni e realtà

Ma perché risulta di fatto impossibile creare una rappresentazione che sia uguale alla realtà?

Abbiamo già indicato i limiti biologici imposti alla nostra specie; i nostri organi di senso non sono in grado di percepire tutti i dati presenti in natura, molte cose non le vediamo, come i raggi ultravioletti o i microbi, altri ancora non li sentiamo, come gli ultrasuoni e tanti altri, non sono rilevabili dalla nostra attenzione perché avvengono troppo velocemente e sfuggono ai nostri occhi. Esistono poi limiti più significativi che sono quelli psicologici che dipendono dalla specifica configurazione del nostro cervello.

La mente ha la necessità di configurare dei modelli con cui ordinare e comprendere i fenomeni che avvengono nella complessità della vita e per farlo si avvale degli strumenti a sua disposizione. Il primo repertorio disponibile di un individuo è quello motorio e quindi il primo modello con cui le persone si rappresentano il mondo è quello derivante dalle sensazioni motorie; questo elementare ABC di azioni e sensazioni diventa il modo prototipico con cui gli esseri umani iniziano a configurare la loro relazione con il mondo.

Come asserisce Lakoff: “le metafore concettuali fanno parte di un insieme di meccanismi che, partendo da concetti con un diretto fondamento corporeo, si protendono verso concetti più astratti” (Lakoff 1998).

Quindi le nostre sensazioni fisiche diventano parte ineludibile del processo interpretazionale divenendo i pilastri sui quali successivamente andremo a costruire gli schemi più complessi, facendoci abbandonare definitivamente l’aspirazione di diventare esseri completamente razionali, dato che il processo interpretativo non può essere scisso da quello senso-corporeo.

Le immagini mentali nascono per influenzare il comportamento, prevedere il futuro e scegliere le azioni più utili alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere; ma il pensiero consapevole è un prodotto recente della nostra evoluzione e ancora oggi la maggior parte del lavoro mentale è basato più sul pensiero analogico che su quello analitico. La modalità di interpretare le nuove esperienze sulla base della loro analogia con quelle passate non può essere completamente sovvertita perché si basa su un processo di associazione iconica che è automatizzato nel nostro cervello arcaico e che non necessita dell’intervento cosciente.

Quindi, se ognuno di noi crea una serie di rappresentazioni del mondo in cui vive ed utilizza necessariamente questi modelli per orientare il proprio comportamento, le rappresentazioni adottate saranno sempre più automatizzate, determinando l’esperienza che avremo del mondo stesso e la variabilità delle scelte ritenute disponibili, senza esserne necessariamente consapevoli.

Ne consegue che ogni rappresentazione risulterà essere influenzata dal modo in cui pensiamo e percepiamo l’ambiente e che questo modello condizionerà la nostra capacità di analisi rilevando i dati congruenti al sistema ed escludendo quelli discordanti; di conseguenza la realtà di ognuno di noi sarà il prodotto di una “costruzione” profondamente soggettiva. Estremizzando leggermente il principio possiamo asserire che esistono tante realtà, tanti modi di vedere il mondo, tanti quanti sono le persone stesse.

Prendiamo ad esempio un gruppo di quattro amici che si reca al cinema, indubbiamente riteniamo che vedranno la stessa sequenza di fotogrammi, sebbene anche questa considerazione sarebbe opinabile, ma accettiamo pure l’ipotesi data, allora perché a qualcuno il film sarà piaciuto moltissimo, a qualcun altro un po’ di  meno ed altri lo potrebbero considerare al contrario un brutto film?

Perché la percezione del film sarà inevitabilmente guidata dalle personali preferenze ed orientamenti dei singoli individui che “vedranno” il film secondo le loro soggettive aspettative: chi apprezzerà la fotografia, chi la sceneggiatura, chi dissentirà dalla  ricostruzione storica o sociale, chi condividerà o meno i messaggi culturali veicolati dalla storia; in sintesi ognuno costruirà una rappresentazione mentale del film utilizzando il proprio personale bagaglio di esperienze, conoscenze e convinzioni, che risulteranno fondamentali nella realizzazione della mappa mentale, che non sarà  quindi corrispondente alla realtà, che come vediamo è letteralmente non percepibile in termini oggettivi, ma piuttosto il risultato di una personalissima elaborazione.

Ovviamente, questo non implica che la realtà percepita da più persone sia sempre e comunque sostanzialmente diversa, esistono situazioni od esperienze che possono essere parzialmente condivise, ma il punto nodale è che non c’è e non potrà mai esserci una realtà perfettamente uguale tra due diversi esseri umani in quanto, essendo distinti organismi biologici, con diversi sistemi nervosi, differenti storie di vita, esperienze, capacità cognitive, desideri, speranze, conoscenze, preferenze ecc. la loro elaborazione rappresentazionale non potrà risultare identica.

Tale principio è stato espresso chiaramente da Korzybsky quando nella legge dell’individualità afferma “che non ci sono due persone, o situazioni o fasi o processi che siano identiche in ogni dettaglio“ (Korzybsky, 1933).

La concezione proposta risulta antitetica a quanto ritenuto vero dalla maggior parte delle persone e si scontra con la tendenza umana a credere che vediamo il mondo intorno a noi in modo oggettivo e condiviso, che esista la realtà, intesa come unica e tangibile.

Realismo ingenuo

Questa corrente di pensiero definita con il nome di realismo ingenuo, riprende quello che in filosofia viene definito realismo del senso comune e si basa su tre principi: che il mondo sia percepibile in modo obiettivo e senza pregiudizi; che quindi tutte le altre persone “vedano” le cose esattamente come le vediamo noi; che qualora questo non accada è perché gli altri sono ignoranti, irrazionali o animati da pregiudizi.

Tali principi sono radicati in molti di noi perché rappresentano il combinato procedurale di due tra le più importanti distorsioni cognitive che influenzano il nostro pensiero, l’effetto del falso consenso che rappresenta la tendenza a proiettare sugli altri il proprio modo di pensare, presupponendo che tutti la pensino come noi, e quello che io definisco il bias dell’egocentrismo cognitivo, che presuppone che quello che penso sia vero per il solo fatto di pensarlo. Tale concezione si basa sull’assunto che io sono quello che penso ritenendo i pensieri non una astratta forma di ipotesi ma come elementi identificativi del mio essere.

Il problema di fondo è che il ragionamento umano si basa sull’impiego automatico di una vasta gamma di modalità elaborative, rapide ed intuitive, definite euristiche, che permettono di costruirci un’idea generica su un argomento o una situazione senza un eccessivo sforzo cognitivo. Le euristiche (dal greco heuriskein: trovare, scoprire) sono strategie veloci, semplici, che hanno il pregio di fornire rapidamente valutazioni e interpretazioni che ci consentono di agire spesso efficacemente.

Ma la loro rapidità ed il loro automatismo esulano necessariamente dall’uso del ragionamento analitico; dovendo soddisfare prioritariamente il criterio della velocità non possono indulgere in analisi troppo sofisticate e si fondano spesso su percezioni o errate o deformate, che rendono questi stili di pensiero rigidi e incapaci di adattarsi al mutare delle circostanze.

Abbiamo già visto come nella definizione delle rappresentazioni mentali concorrano tutte le funzioni mentali superiori, dalla percezione alla scala valoriale, e l’attività svolta dal cervello non si riduce ad una passiva registrazione che riproduce fedelmente un oggetto, un’immagine o un’idea, ma come un processo dinamico legato alle modalità elaborative del singolo soggetto che intervengono attivamente con le loro caratteristiche alla interpretazione ed alla trasformazione delle informazioni che poi concorrono alla costruzione della singola rappresentazione.

Per questo l’espressione “la mappa non è il territorio” che si deve ad Alfred Korzybski si è rilevata cosi potentemente anticipatrice, perché definiva in modo semplice ed efficace la netta distinzione che intercorre tra la realtà e la sua rappresentazione psicologica.

Inoltre l’accettazione della teoria rappresentazionale, oltre a restituirci una corretta interpretazione delle nostre capacità computazionali, ci permette di modificare il nostro approccio alla realtà introducendo un elemento proattivo; se infatti non siamo  dei semplici registratori di dati oggettivi il nostro ruolo si definisce in modo più efficace in quanto possiamo fattivamente operare per migliorare le nostre rappresentazioni implementando le conoscenze, migliorando le definizioni. Questo ci permette di adattarci meglio al continuo mutamento del nostro ambiente.

Diversamente da quanto proposto da Gregory Bateson, che sosteneva come migliorare troppo le rappresentazioni potesse comportare un danno piuttosto che un vantaggio, ritengo, al contrario, che mappe troppo grossolane e indefinite diventino inutili e spesso dannose, perché inadeguate a rappresentare efficacemente la complessità del mondo e quindi inadatte ad orientarci efficacemente in esso. Le nostre rappresentazioni devono necessariamente tenere il passo con la crescente complessità del mondo moderno; la massa di informazioni che siamo chiamati a computare giornalmente è enorme, specialmente se paragonata a quanto era necessario fare solo pochi decenni fa, e risulta in costante crescita esponenziale.

Basti pensare che nel 2010 le informazioni disponibili sul web sono state stimate in 1 Zettabytes (un miliardo di terabyte) una cifra praticamente immensa, ma che oggi a soli 13 anni di distanza la misura di tutti i contenuti digitali del mondo è vicina ai 79  Zb e si prevede che supererà il tetto dei 180 Zb nel 2025.

Risulta intuibile che opporre a questa sconfinata massa di informazioni strumenti che l’evoluzione ci ha fornito per fronteggiare computazioni infinitamente più semplici ci condanna all’impoverimento cognitivo; da qui la necessità di far evolvere le nostre regole elaborative implementando l’utilizzo del pensiero consapevole e finalizzato, sforzandoci di abbandonare il più possibile i meccanismi automatici, in modo tale da poter sviluppare rappresentazioni mentali più articolate e complesse e quindi  maggiormente rispondenti alla necessità di muoversi in un contesto di conoscenza così vasto ed eterogeneo.

Oltre il QI: la complessità dell’intelligenza umana

E se scoprissimo che Einstein e Hawking non hanno mai eseguito una valutazione della loro intelligenza e che i dati sul loro QI in realtà non esistono?

Che cos’è il QI?

 Il termine Quoziente Intellettivo (QI) è un termine familiare, usato per valutare le capacità cognitive di una persona. Ma quanto è affidabile come strumento per prevedere il successo o valutare la genialità delle persone? Secondo alcuni, il QI potrebbe non essere così valido come pensiamo.

Il QI è una misura numerica che viene utilizzata per valutare l’intelligenza di una persona. È ottenuto attraverso un test specifico che valuta le abilità cognitive di un individuo, come il ragionamento logico, la comprensione verbale, la memoria, la velocità di elaborazione e le abilità visuo-spaziali. Uno dei test più famosi e utilizzati oggi dagli psicologi sono le scale Wechsler, ne esistono specifiche per bambini e adulti.

Il punteggio di QI è calcolato confrontando le prestazioni individuali con quelle di una popolazione di riferimento. La media della popolazione è assegnata a un punteggio di QI di 100 e il punteggio di un individuo viene quindi confrontato con questo valore di riferimento. Un punteggio superiore a 100 indica un’intelligenza superiore alla media, mentre un punteggio inferiore indica un’intelligenza al di sotto della media.

Oggi l’affidabilità e l’interpretazione dei punteggi di QI sono oggetto di dibattito. Alcuni studiosi sostengono che il QI può essere influenzato da fattori culturali, socio-economici e di esperienza personale, e che non rappresenti in modo esaustivo la vasta gamma di abilità appartenenti agli esseri umani. Il QI è una misura specifica di alcune abilità cognitive e non rappresenta una valutazione completa dell’intelligenza complessiva di una persona. Esistono molteplici forme di intelligenza che non possono essere completamente valutate da un singolo test, come l’intelligenza emotiva e sociale, e altre capacità che possono contribuire al successo e al benessere di un individuo.

Pertanto, mentre il QI può fornire un’indicazione approssimativa delle abilità cognitive di una persona, se vogliamo avere una visione completa delle capacità di un individuo è importante considerare anche altri aspetti che riguardano l’intelligenza.

Ma che cos’è l’intelligenza?

Da tempo gli studiosi cercano di rispondere a questa domanda. In linea generale l’intelligenza è intesa come la capacità di adattarsi, comprendere, apprendere e risolvere problemi in modo efficace. Essa rappresenta la capacità di utilizzare le risorse cognitive per affrontare sfide, ragionare in modo logico, prendere decisioni informate e apprendere dalle esperienze. Gli studiosi nel tempo hanno cercato di definirla attraverso misurazioni come il QI. Tuttavia, secondo alcuni esperti c’è molto di più da considerare quando si tratta della nostra abilità di pensare e comprendere il mondo che ci circonda.

Ciò che rende interessante il dibattito sull’intelligenza è la scoperta che molti dei punteggi di QI attribuiti a famosi geni della storia, come Einstein e Hawking, sono in realtà frutto di invenzione, senza alcun supporto di evidenze concrete, poiché non esistono dati ufficiali che confermino i loro punteggi di QI eccezionalmente elevati.

Albert Einstein, famoso per la sua teoria della relatività, è spesso associato a un QI di 160 o addirittura superiore. In realtà, Einstein non ha mai fatto un test di QI e non esistono registrazioni ufficiali dei suoi risultati.

Un altro esempio è Stephen Hawking, il celebre astrofisico noto per i suoi contributi alla cosmologia e alla fisica teorica, anche lui spesso citato per avere un QI molto alto, con punteggi che vanno da 160 a 180. Tuttavia, non ci sono prove concrete che confermino tali punteggi. Hawking stesso ha sottolineato che il QI non era un fattore determinante nel suo lavoro e di non aver mai fatto un test ufficiale.

Questi esempi mettono in discussione l’idea diffusa che il successo o la genialità di individui straordinari possano essere semplicemente misurati attraverso un punteggio di QI.

I limiti del QI come misura dell’intelligenza

Il concetto del QI è stato oggetto di critiche per la sua natura limitata per vari motivi. Innanzitutto, tende a ridurre l’intelligenza a un singolo numero, ignorando la complessità e la diversità delle abilità cognitive. L’intelligenza comprende una vasta gamma di capacità, come la creatività, la risoluzione di problemi complessi, l’empatia e la capacità di adattarsi ai cambiamenti, che non possono essere adeguatamente valutate attraverso un unico test.

Inoltre, il QI è influenzato dal contesto sociale, culturale ed educativo in cui una persona vive. I test di intelligenza, spesso basati su aspetti specifici delle culture occidentali, possono essere inadeguati per valutare l’intelligenza di individui provenienti da contesti culturali diversi e ciò può portare a un’interpretazione errata delle loro capacità cognitive. Oltre al fatto che questi test sono soggetti a variabilità e possono fornire risultati diversi in base a fattori come lo stato emotivo, l’affaticamento o l’ansia della persona durante il test. Inoltre, il QI di una persona può fluttuare nel corso del tempo, poiché l’intelligenza può essere influenzata da fattori come l’apprendimento e lo sviluppo personale.

I test che stabiliscono il QI, essendo strutturati in modo da valutare principalmente abilità come il ragionamento logico, il linguaggio e le capacità matematiche, possono non cogliere appieno l’ampiezza delle abilità di un individuo e dare un’immagine distorta della sua intelligenza complessiva, trascurando aspetti come la creatività, l’intelligenza sociale o emotiva. Per esempio, l’intelligenza emotiva, che riguarda la capacità di comprendere ed esprimere le emozioni, gestire lo stress e stabilire relazioni interpersonali significative, può influenzare profondamente il benessere e il successo di un individuo, eppure non è valutata dai test di intelligenza.

Nonostante il QI sia spesso associato al successo accademico o professionale, essa non è una misura completa delle capacità di una persona. Altre qualità come la motivazione, l’etica del lavoro, le competenze sociali e l’adattabilità possono giocare un ruolo altrettanto importante nel determinare il successo di un individuo. Il QI, quindi, non può predire in modo accurato il successo o la genialità di una persona. Molti individui di successo e brillanti nel loro campo, come artisti, inventori o leader, possono non avere punteggi di QI eccezionalmente elevati. Allo stesso modo, persone con un alto QI non sono necessariamente garantite di avere successo nella vita o di essere considerate geni.

La teoria delle Intelligenze Multiple di Howard Gardner

Secondo Gardner, l’intelligenza umana è composta da diverse forme di abilità indipendenti e non può essere rappresentata da un singolo fattore generale, come il QI. Infatti, mentre il QI si concentra principalmente su aspetti logico-matematici e linguistici, Gardner ha identificato diverse forme di intelligenza che si manifestano in modi distinti nelle persone, ognuna delle quali rappresenta abilità cognitive specifiche. La teoria delle Intelligenze Multiple ci invita a considerare l’intelligenza come un insieme di diverse capacità anziché una singola misura.

  • Intelligenza linguistica: capacità di utilizzare e comprendere il linguaggio scritto e parlato in modo efficace, comprendere la sintassi e il significato delle parole.
  • Intelligenza logico-matematica: capacità di ragionare in modo logico, affrontare problemi matematici e scientifici, riconoscere schemi e relazioni.
  • Intelligenza spaziale: capacità di percepire e manipolare forme e spazi mentali, comprendere le relazioni spaziali, creare immagini mentali e navigare nello spazio.
  • Intelligenza musicale: capacità di apprezzare, eseguire e comprendere la musica, riconoscere melodie, ritmi e tonalità.
  • Intelligenza corporea-cinestetica: capacità di utilizzare il proprio corpo in modo coordinato e abile, comprendere i movimenti fisici, acquisire abilità motorie e coordinare i sensi con l’azione fisica.
  • Intelligenza interpersonale: capacità di comprendere e interagire efficacemente con gli altri, riconoscere le emozioni e le intenzioni degli altri, lavorare bene in gruppo e sviluppare relazioni interpersonali positive.
  • Intelligenza intrapersonale: capacità di comprendere se stessi, le proprie emozioni, i propri desideri e le proprie motivazioni. Include la capacità di riflettere, autovalutarsi e sviluppare una buona autostima.
  • Intelligenza naturalistica: capacità di riconoscere e classificare le caratteristiche del mondo naturale, comprendere le relazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente circostante.

Secondo Gardner, queste diverse forme di intelligenza possono interagire e integrarsi in modi unici in ciascun individuo, contribuendo alla sua specifica combinazione di abilità cognitive. Questa prospettiva delle Intelligenze Multiple suggerisce che l’intelligenza sia multidimensionale e che ogni persona possa eccellere in diversi ambiti, non solo in quello misurato dal QI tradizionale.

Implicazioni educative

L’approccio educativo tradizionale ha spesso privilegiato alcune forme di intelligenza a discapito delle altre. Una prospettiva basata sulle Intelligenze Multiple, invece, suggerisce l’importanza di sviluppare tutte le diverse abilità intellettive. Ciò implica un’educazione che incoraggi la creatività, la collaborazione e la plasticità cerebrale, attraverso approcci che si adattino alle diverse forme di intelligenza presenti negli individui. Perciò è importante riconoscere che ogni individuo ha abilità e stili di apprendimento diversi.

 Un focus esclusivo sul QI potrebbe portare a una valutazione inadeguata delle capacità degli studenti. Gli insegnanti dovrebbero adottare approcci differenziati, tenendo conto delle varie forme di intelligenza, promuovendo l’apprendimento individualizzato e offrendo opportunità di apprendimento diversificate. Per esempio, riconoscere che la creatività è un aspetto importante dell’intelligenza e incoraggiare gli studenti a sviluppare il loro potenziale creativo attraverso attività artistiche e stimolando la fantasia. In generale, fornire un ambiente di apprendimento stimolante, ricco di sfide e opportunità, stimola la curiosità degli studenti, promuove l’esplorazione e l’apprendimento attivo. Questo può aiutare a sviluppare diverse abilità cognitive e ad affrontare le sfide che vanno oltre il punteggio del QI.

Inoltre, riconoscere l’importanza delle competenze sociali ed emotive nel successo individuale e nella vita in generale, significherebbe includere nei progetti formativi lo sviluppo di abilità di comunicazione, collaborazione, gestione delle emozioni e consapevolezza di sé. Queste competenze sono essenziali per le relazioni interpersonali, il benessere emotivo e il successo nella società.

Ampliando la nostra concezione di intelligenza

Andare oltre il QI significa ampliare la nostra comprensione dell’intelligenza umana, riconoscere che l’intelligenza è un concetto composto da molteplici sfaccettature. Alcune forme di intelligenza potrebbero essere più evidenti in determinate persone, ma ogni individuo può avere una combinazione unica di abilità intellettive.

Ampliare la nostra concezione di intelligenza significa superare la visione tradizionale che identifica l’intelligenza come entità misurabile attraverso il QI. Significa riconoscere che l’intelligenza umana è composta da diverse abilità cognitive, capacità e talenti che vanno oltre il dominio delle abilità linguistiche e logico-matematiche. Implica accettare e valorizzare le diverse forme di intelligenza presenti in ogni individuo. Questo può includere l’intelligenza musicale, corporea-cinestetica, interpersonale e naturalistica. Ognuna di queste forme di intelligenza rappresenta un modo unico in cui una persona può eccellere e contribuire alla società.

Ampliare la nostra concezione di intelligenza richiede anche un cambiamento nell’approccio educativo. Significa adottare un’educazione olistica, che tenga conto delle diverse intelligenze e offra opportunità di apprendimento personalizzate. Gli insegnanti dovrebbero essere in grado di identificare e valorizzare le diverse abilità degli studenti, consentendo loro di sviluppare il proprio potenziale in modi diversi.

Infine, andare oltre il QI significa anche riconoscere che l’intelligenza non è l’unico indicatore di successo nella vita. L’intelligenza emotiva, ad esempio, che riguarda la capacità di comprendere e gestire le emozioni, può essere altrettanto importante per il benessere e la felicità. Le diverse intelligenze si influenzano reciprocamente e interagiscono per determinare il nostro modo di affrontare le sfide e di raggiungere i nostri obiettivi.

Conclusione

Misurare l’intelligenza umana è un’impresa complessa. Sebbene il QI abbia fornito un punto di partenza, la teoria delle Intelligenze Multiple di Gardner ci invita a esplorare altre e diverse forme di intelligenza e a valorizzarle. Questo approccio ci permette di apprezzare le differenze individuali e di riconoscere il potenziale di ogni individuo in modo più ampio e completo. Se andiamo oltre il QI, possiamo abbracciare una visione più comprensiva e rispettosa verso la complessità dell’intelligenza umana.

In un mondo sempre più complicato e interconnesso, avere una varietà di intelligenze può essere un vantaggio. Ad esempio, l’intelligenza sociale ci consente di comprendere gli altri e di stabilire relazioni significative, mentre l’intelligenza spaziale ci aiuta a visualizzare e manipolare oggetti nello spazio. Queste diverse abilità si combinano per creare un quadro più completo delle nostre capacità cognitive.

In conclusione, è importante notare che le intelligenze non sono fisse o immutabili. Possiamo sviluppare e migliorare le nostre abilità intellettive attraverso l’apprendimento, l’esperienza e la pratica. Questo sottolinea l’importanza di un’educazione che incoraggi la diversità e favorisca lo sviluppo di tutte le intelligenze.

L’impatto del trauma nei primi tre anni di vita a livello neuronale e metacognitivo

L’impatto del trauma psicologico nei primi tre anni di vita sulle strutture neuronali e sullo sviluppo delle funzioni metacognitive: una panoramica delle ultime ricerche condotte con l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale.

Introduzione

 I traumi psicologici in età precoce possono avere effetti duraturi sul benessere psicologico e fisico dei bambini e dei giovani adulti. La ricerca scientifica ha dimostrato che tali traumi possono causare danni neuronali e alterazioni nel funzionamento del cervello, che possono influenzare il comportamento, le emozioni, la cognizione e la salute fisica futura dei soggetti coinvolti.

In questo articolo esploreremo le scoperte più recenti riguardo all’impatto del trauma sui processi metacognitivi e sulla regolazione emotiva, basate su studi che utilizzano la risonanza magnetica funzionale (fMRI). In particolare verranno esaminati gli studi presenti in letteratura che indagano i danni neuronali conseguenti ad un trauma psicologico in età precoce.

Il trauma e le strutture neuronali

Effetti del trauma sullo sviluppo neuronale

Il trauma nei primi anni di vita può causare alterazioni nelle strutture neuronali, in particolare nelle aree del cervello responsabili della regolazione emotiva e delle funzioni cognitive superiori. Ad esempio, uno studio di Teicher et al. (2016) ha dimostrato che i bambini esposti a traumi avevano una riduzione del volume dell’ippocampo, una struttura cerebrale cruciale per la memoria e l’apprendimento.

Impatto sulla corteccia prefrontale e sull’amigdala

La corteccia prefrontale e l’amigdala sono due importanti strutture cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.

La corteccia prefrontale è coinvolta nella pianificazione, nella presa di decisioni, nella regolazione dell’attenzione, del controllo cognitivo e nella modulazione delle emozioni. In particolare, la corteccia prefrontale dorsolaterale è coinvolta nella regolazione dell’attenzione e del controllo cognitivo, mentre la corteccia prefrontale ventromediale è coinvolta nella regolazione delle emozioni negative.

L’amigdala, d’altra parte, è coinvolta nell’elaborazione e nell’integrazione delle informazioni emotive, nella valutazione del pericolo, nella risposta all’ansia e nella regolazione delle emozioni attraverso il feedback alla corteccia prefrontale. In particolare, l’amigdala laterale è coinvolta nella valutazione del pericolo e nella risposta all’ansia, mentre l’amigdala basolaterale è coinvolta nell’elaborazione e nell’integrazione delle informazioni emotive.

Entrambe queste strutture cerebrali sono importanti per la regolazione delle emozioni e del comportamento, e le loro disfunzioni possono contribuire allo sviluppo di disturbi emotivi e comportamentali.

Il trauma psicologico in età precoce può avere un impatto significativo sull’amigdala, una struttura cerebrale coinvolta nella regolazione delle emozioni. Gli studi presenti in letteratura hanno dimostrato che i bambini che hanno subito traumi psicologici in età precoce possono avere un’amigdala iperattiva, che può influire sulla loro capacità di gestire le emozioni e di adattarsi alle situazioni stressanti.

Uno studio condotto da De Bellis et al. (2002) ha utilizzato la tomografia ad emissione di positroni (PET) per esaminare l’attività dell’amigdala in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato un’amigdala iperattiva nei bambini che avevano subito abusi, che si correlava con l’esperienza di stress e la presenza di sintomi di ansia e depressione.

Uno studio condotto da Tottenham et al. (2010) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività dell’amigdala tra bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato un’amigdala iperattiva nei bambini che avevano subito abusi, che potrebbe spiegare le difficoltà nell’elaborazione delle emozioni e nell’adattamento alle situazioni stressanti. Inoltre, gli autori hanno osservato che i bambini che avevano subito abusi presentavano una ridotta attivazione della corteccia prefrontale ventromediale, una struttura cerebrale coinvolta nella regolazione delle emozioni negative. Similmente, uno studio di Malter Cohen et al. (2013) ha scoperto che i bambini con traumi precoci presentano una maggiore attivazione dell’amigdala in risposta a stimoli emotivi rispetto ai controlli. Inoltre, questi bambini mostrano una ridotta connettività tra l’amigdala e la corteccia prefrontale, suggerendo un’alterata regolazione emotiva.

Uno studio condotto da McCrory et al. (2011) ha utilizzato la risonanza magnetica (MRI) per esaminare le differenze nella struttura cerebrale tra adolescenti che avevano subito abusi fisici in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno rivelato che gli adolescenti che avevano subito abusi presentavano una riduzione del volume di alcune regioni della corteccia prefrontale, che sono coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.  Anche uno studio condotto da McLaughlin et al. (2014) ha utilizzato la risonanza magnetica per esaminare le differenze nella struttura cerebrale tra adolescenti che avevano subito un trauma psicologico in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una riduzione del volume di alcune regioni della corteccia prefrontale dorsolaterale, che sono coinvolte nella regolazione dell’attenzione, della pianificazione e del controllo cognitivo.

Un altro studio condotto da Tottenham et al. (2010) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività cerebrale tra bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una riduzione dell’attività nella corteccia prefrontale ventromediale, che è coinvolta nella regolazione delle emozioni, dell’empatia e del comportamento sociale.

Queste alterazioni strutturali potrebbero spiegare i problemi cognitivi e comportamentali che spesso si riscontrano nei soggetti che hanno subito un trauma psicologico in età precoce.

Effetti del trauma sulle funzioni metacognitive

Le funzioni metacognitive si riferiscono alla capacità di monitorare, valutare e controllare i propri processi cognitivi e affettivi. Queste abilità sono cruciali per il successo nella vita quotidiana e sono state associate a una serie di risultati positivi, tra cui una migliore regolazione delle emozioni, una maggiore resilienza e una migliore adattabilità sociale (Flavell, 1979).

Ridotta autoregolazione in bambini traumatizzati

La capacità di autoregolazione è un aspetto chiave dello sviluppo cognitivo e comportamentale dei bambini. Tuttavia, i bambini che subiscono traumi psicologici in età precoce possono avere difficoltà nell’autoregolazione, che può influire sulla loro capacità di gestire le emozioni, di adattarsi ai cambiamenti e di interagire con gli altri.

Uno studio di Kim et al. (2017) ha utilizzato la fMRI per esaminare le differenze nella connettività funzionale tra bambini con esperienze precoci avverse e controlli sani. I risultati hanno mostrato che i bambini con traumi avevano una ridotta connettività tra le aree prefrontali e le regioni limbiche, suggerendo un’alterata capacità di autoregolazione delle emozioni.

Uno studio condotto da Pollak et al. (2010) ha valutato la capacità di autoregolazione in bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce, utilizzando una serie di test comportamentali. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi presentavano difficoltà nell’autoregolazione, che si manifestavano in comportamenti impulsivi, difficoltà nell’adattamento alle situazioni nuove e difficoltà nell’interazione sociale.

Un altro studio condotto da Pechtel et al. (2013) ha utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare le differenze nell’attività cerebrale tra bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, che è coinvolta nella regolazione dell’attenzione, della pianificazione e del controllo cognitivo.

Infine, uno studio condotto da Cicchetti e Rogosch (2012) ha esaminato la capacità di autoregolazione in bambini che avevano subito abusi fisici e/o sessuali in età precoce, utilizzando una serie di test comportamentali e valutazioni psicologiche. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi presentavano una ridotta capacità di autoregolazione, che si manifestava in comportamenti impulsivi, difficoltà nell’adattamento alle situazioni nuove e difficoltà nell’interazione sociale.

Queste difficoltà nell’autoregolazione potrebbero essere legate alla maggiore esposizione al rischio di sviluppare disturbi psicologici come la depressione e l’ansia e sottolineano l’importanza di fornire un supporto adeguato ai bambini che hanno subito abusi in età precoce, al fine di aiutare a sviluppare la capacità di autoregolazione e di prevenire i rischi di problemi emotivi e comportamentali futuri.

Impatto sulla teoria della mente e sulle abilità sociali

La teoria della mente si riferisce alla capacità di comprendere e attribuire stati mentali ad altre persone, come credenze, desideri, intenzioni, emozioni e pensieri. In altre parole, si tratta della capacità di comprendere che le altre persone hanno un mondo mentale proprio, che può essere diverso dal nostro, e di utilizzare queste informazioni per comprendere e prevedere il loro comportamento.

La teoria della mente è una capacità fondamentale per la comunicazione, la comprensione sociale, l’empatia e la cooperazione. Gli individui che hanno difficoltà nella teoria della mente, ad esempio, possono avere difficoltà a comprendere le emozioni degli altri, a prevedere il loro comportamento o a seguire le regole sociali.

La teoria della mente si sviluppa durante l’infanzia, attraverso l’esperienza sociale e l’interazione con gli altri. Gli studi hanno dimostrato che il cervello umano ha una rete di regioni cerebrali specializzate nella teoria della mente, che sono coinvolte nell’elaborazione e nell’interpretazione degli stati mentali degli altri.

Uno studio di Puetz et al. (2014) ha esaminato le differenze nella teoria della mente tra bambini con traumi precoci e controlli sani, utilizzando la fMRI. I risultati hanno rivelato che i bambini traumatizzati mostravano un’attivazione ridotta nelle aree cerebrali associate alla teoria della mente, come il polo temporale e la corteccia prefrontale mediale, suggerendo un possibile impatto del trauma sullo sviluppo delle abilità sociali.

Uno studio condotto da Pollak et al. (2000) ha esaminato la capacità di comprendere le emozioni degli altri in bambini che avevano subito maltrattamenti in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato che i bambini che avevano subito maltrattamenti avevano una ridotta capacità di comprendere le emozioni degli altri, in particolare le emozioni negative, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Bos et al. (2011) ha esaminato la capacità di prevedere il comportamento degli altri in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato che i bambini che avevano subito abusi avevano una ridotta capacità di prevedere il comportamento degli altri, in particolare in situazioni sociali ambigue.

In sintesi, gli studi presenti in letteratura indicano che il trauma psicologico in età precoce può influire sulla capacità di sviluppare la teoria della mente, con una ridotta capacità di comprendere le emozioni degli altri, di prevedere il loro comportamento e di interpretare il significato delle espressioni facciali.

Regolazione emotiva e strutture corticali e subcorticali

Le strutture corticali e subcorticali svolgono un ruolo importante nella regolazione emotiva. Il trauma può influenzare lo sviluppo e il funzionamento di queste strutture, con conseguenze durature sulla capacità di un individuo di gestire le emozioni.

Corteccia cingolata anteriore e regolazione emotiva

La corteccia cingolata anteriore (CCA) è una regione cerebrale situata nella parte anteriore del giro del cingolo. È coinvolta nella regolazione emotiva e nella risposta al dolore fisico e psicologico.

 La corteccia cingolata anteriore è divisa in due parti, la corteccia cingolata ventromediale (CCVm) e la corteccia cingolata dorsolaterale (CCDl). La corteccia cingolata ventromediale è coinvolta nella regolazione delle emozioni e nella valutazione dell’importanza emotiva degli stimoli, mentre la corteccia cingolata dorsolaterale è coinvolta nella regolazione del controllo cognitivo e nel monitoraggio degli errori.

La corteccia cingolata anteriore è in grado di integrare informazioni sensoriali ed emotive provenienti da diverse regioni cerebrali, come l’amigdala, il talamo, la corteccia prefrontale e il sistema limbico. Inoltre, la corteccia cingolata anteriore è in grado di modulare l’attività di queste regioni cerebrali attraverso la sua connessione con il sistema neuroendocrino e il sistema nervoso autonomo.

La disfunzione della corteccia cingolata anteriore è stata associata a diversi disturbi emotivi, come la depressione, l’ansia e il disturbo da stress post-traumatico.

Gli studi presenti in letteratura hanno dimostrato che i bambini che hanno subito traumi psicologici in età precoce possono avere una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore, con conseguente difficoltà nella regolazione emotiva e nel controllo dell’impulso.

Uno studio di Marusak et al. (2015) ha esaminato l’attivazione della corteccia cingolata anteriore in risposta a stimoli emotivi in ​​bambini con traumi precoci. I risultati hanno mostrato che i bambini traumatizzati avevano un’attivazione ridotta della corteccia cingolata anteriore, suggerendo una compromissione nella regolazione emotiva.

Uno studio condotto da Carrion et al. (2010) ha esaminato l’attività della corteccia cingolata anteriore in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore nei bambini che avevano subito abusi, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Hanson et al. (2010) ha esaminato l’attività della corteccia cingolata anteriore in adolescenti che avevano subito abusi in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività della corteccia cingolata anteriore negli adolescenti che avevano subito abusi, rispetto agli adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Infine, uno studio condotto da Kim et al. (2013) ha esaminato la connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore in bambini che avevano subito abusi in età precoce e bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato una ridotta connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore con altre regioni cerebrali coinvolte nella regolazione emotiva nei bambini che avevano subito abusi, rispetto ai bambini che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Gli studi indicano che il trauma psicologico in età precoce può influire sull’attività e sulla connettività funzionale della corteccia cingolata anteriore, con conseguente ridotta capacità di regolazione emotiva e di controllo dell’impulso.

Striato ventrale e ricompensa

Lo striato ventrale è una regione del cervello che fa parte del sistema dopaminergico di ricompensa. È coinvolto nella motivazione, nella valutazione delle ricompense e dei piaceri, e nella regolazione del comportamento motivato dalla ricerca di ricompense.

La funzione principale dello striato ventrale è quella di ricevere informazioni sulle ricompense e sulla motivazione provenienti dal sistema limbico e dal sistema dopaminergico, e di integrarle con informazioni sensoriali e cognitive provenienti da altre regioni cerebrali. In questo modo, lo striato ventrale è in grado di valutare l’importanza e il valore delle ricompense e di regolare il comportamento motivato dalla ricerca di ricompense.

Le ricompense sono eventi o stimoli che promuovono il comportamento motivato dalla loro ricerca. Il sistema dopaminergico di ricompensa è coinvolto nella regolazione della risposta alle ricompense, e lo striato ventrale è una delle principali regioni cerebrali coinvolte in questo processo. La stimolazione dello striato ventrale da parte di ricompense può indurre la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore associato alla sensazione di piacere e benessere.

Uno studio condotto da Mehta et al. (2010) ha esaminato l’attività dello striato ventrale in adolescenti che avevano subito abusi in età precoce e adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività dello striato ventrale negli adolescenti che avevano subito abusi, rispetto agli adolescenti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Un altro studio condotto da Pechtel et al. (2013) ha esaminato l’attività dello striato ventrale in adulti che avevano subito abusi in età precoce e adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno evidenziato una ridotta attività dello striato ventrale negli adulti che avevano subito abusi, rispetto agli adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Uno studio condotto da Dannlowski et al. (2012) ha esaminato la struttura dello striato ventrale in adulti che avevano subito abusi in età precoce e adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico. I risultati hanno mostrato una ridotta densità di materia grigia nello striato ventrale negli adulti che avevano subito abusi, rispetto agli adulti che non avevano subito alcun tipo di trauma psicologico.

Uno studio di Dillon et al. (2009) ha utilizzato la fMRI per esaminare l’attivazione dello striato ventrale in risposta a stimoli di ricompensa in adulti con storia di traumi infantili. I risultati hanno mostrato che i soggetti con traumi avevano una minore attivazione dello striato ventrale rispetto ai controlli, suggerendo una ridotta sensibilità alla ricompensa e potenzialmente una compromissione nella regolazione delle emozioni positive.

In conclusione la disfunzione dello striato ventrale e del sistema dopaminergico di ricompensa può contribuire allo sviluppo di disturbi emotivi e comportamentali, come la dipendenza da sostanze, la depressione e il disturbo da gioco d’azzardo.

Conclusioni

Immaginate di essere testimoni di uno straordinario viaggio alla scoperta del cervello umano, in particolare di come i traumi psicologici nei primi tre anni di vita plasmano il nostro sviluppo neuronale e cognitivo. Questo è ciò che le recenti ricerche hanno compiuto, rivelando sorprendenti connessioni tra trauma, funzioni metacognitive e regolazione emotiva, offrendo così nuove prospettive per la psicoterapia.

Grazie all’affascinante tecnologia della risonanza magnetica funzionale, gli scienziati sono riusciti a svelare i segreti nascosti dietro l’influenza del trauma sullo sviluppo cerebrale. Queste scoperte rivoluzionarie sono fondamentali per i professionisti della salute mentale e della psicoterapia, poiché aprono le porte a nuove e più efficaci strategie di trattamento.

I terapeuti possono attingere a questa conoscenza per aiutare i pazienti a gestire meglio le emozioni negative, grazie alla comprensione delle strutture cerebrali che regolano le emozioni. Un mondo in cui la consapevolezza di sé e la comprensione delle proprie reazioni emotive diventano strumenti preziosi per superare i traumi.

Ecco cosa queste scoperte significano per il futuro della psicoterapia: un approccio più mirato e personalizzato al trattamento, che può far emergere la guarigione e la resilienza in coloro che hanno vissuto traumi precoci. La conoscenza è potere, e in questo caso, la potenza di trasformare vite.

In conclusione, le ricerche sull’impatto del trauma psicologico ci hanno offerto nuove strade per affrontare le sfide della salute mentale. Con una migliore comprensione delle dinamiche cerebrali, i professionisti possono ora lavorare a strategie terapeutiche più efficaci, regalando una luce di speranza a chi ne ha bisogno.

La comprensione di come il trauma influenzi lo sviluppo delle funzioni metacognitive può aiutare i terapeuti a sviluppare strategie per aiutare i pazienti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie reazioni emotive.

Il concetto di arousal: un inquadramento teorico e le variabili socio-demografiche associate

L’arousal è definibile come il grado di eccitazione o di attivazione fisiologica e motivazionale che una persona sperimenta in risposta all’esposizione a uno stimolo, sia esso interno (e.g., pensiero) o esterno (e.g., ragno sul muro), che dà origine a una reazione caratterizzata da una serie di cambiamenti fisiologici

Una definizione di arousal

 È possibile considerare le risposte emotive emesse dagli esseri umani come delle reazioni complesse che si verificano in seguito all’esposizione a uno stimolo evocativo, es. un immagine, un suono o un odore. Queste ultime comprendono l’identificazione del significato dello stimolo, la produzione di uno stato affettivo e la regolazione di quest’ultimo (Phillips et al., 2003). Le risposte emotive coinvolgono molteplici aspetti, tra cui l’arousal. Nell’esperienza e nell’espressione emotiva, l’arousal gioca un ruolo fondamentale, poiché, assieme alla valenza (la proprietà di un affetto che specifica l’attrazione o l’avversione verso un oggetto, un evento o una situazione) viene considerata come una dimensione emotiva trasversale alle culture (Russell, 1994). Tuttavia, se la valenza emotiva riflette la misura in cui un’emozione è positiva o negativa, l’arousal si riferisce invece alla sua intensità, cioè alla forza dello stato emotivo associato (Citron et al., 2014). Nel dettaglio, l’arousal è definibile come il grado di eccitazione o di attivazione fisiologica e motivazionale che una persona sperimenta in risposta all’esposizione a un antecedente emotigeno, es. uno stimolo interno (e.g., pensiero) o esterno (e.g., ragno sul muro) che dà origine a una reazione caratterizzata da una serie di cambiamenti fisiologici, es. l’accelerazione del battito cardiaco, il cambiamento del ritmo respiratorio, il rossore in viso e così via (Bradley et al., 2001). Valstar (2015) definisce l’arousal come una sensazione globale di dinamismo o di letargia che coinvolge l’attività cerebrale e la preparazione fisica all’azione.

Arousal ed età

Per quanto riguarda l’andamento dei livelli di arousal nell’arco di vita, è possibile notare delle differenze significative legate all’età che influenzano il processamento delle emozioni di cui facciamo esperienza nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, è stato dimostrato che, rispetto ai giovani adulti, gli individui anziani mostrano generalmente una diminuzione dell’arousal dovuta all’esposizione a stimoli negativi e un aumento dell’arousal conseguente all’esposizione a stimoli positivi (Kessler & Staudinger, 2009). Questo risultato potrebbe allacciarsi al dato che, a differenza dei più giovani, i soggetti anziani prestino solitamente maggior attenzione agli stimoli positivi che ricordano peraltro più facilmente rispetto a quelli negativi (Isaacowitz et al., 2006).

Tuttavia, nel qui ed ora, ossia quando i soggetti vengono esposti a stimoli fortemente evocativi registrando i loro livelli di arousal per un lasso di tempo molto ristretto, le tendenze si invertono: gli individui più anziani valutano le immagini negative come più attivanti rispetto ai più giovani e le immagini positive come meno attivanti rispetto a quest’ultimi (Grühn & Scheibe, 2008). Queste differenze nell’arousal emotivo fanno pensare alla presenza di traiettorie dissimili di sviluppo nelle componenti di tratto (stabili), e di stato (temporanee), della regolazione emotiva (Dolcos et al., 2014), es. capacità di un individuo di modulare l’entità o la durata delle proprie risposte emotive (Gross et al., 2011). A tal proposito, soggetti anziani mostrano una maggiore capacità di regolazione delle emozioni rispetto ai giovani adulti (Urry & Gross, 2010). I primi possono persino essere apostrofati come regolatori cronici delle emozioni, in quanto le loro reti neuronali di regolazione delle emozioni risultano cronicamente attivate (Dolcos et al., 2014). In aggiunta, la letteratura scientifica comprende delle evidenze in merito a differenze di età nella percezione degli stimoli emotivi nella vita quotidiana.

In merito alla percezione delle espressioni facciali, per esempio, Svärd et al. (2014) hanno dimostrato che adulti più anziani sperimentano un minor livello di arousal in seguito alla visione di volti maschili arrabbiati rispetto a individui più giovani. Per quanto riguarda invece l’impiego di parole evocative, alcuni studi indicano una relazione tra l’età, l’arousal e la valenza. Ad esempio, è stato dimostrato che individui più anziani si sentano più felici quando vengono presentate loro parole che innescano un basso stato di arousal, mentre essi si sentono meno felici quando vengono presentate loro parole che producono elevati livelli di attivazione dell’organismo; questa relazione non è stata osservata nei partecipanti più giovani (Bjalkebring et al, 2015).

Arousal e genere

Oltre all’età, una seconda variabile associata ai livelli di arosual è il genere. Studi scientifici hanno dimostrato che le femmine sono maggiormente responsive agli eventi spiacevoli rispetto ai maschi e che mostrano al contempo un aumentato livello di arosual rispetto a quest’ultimi in seguito all’esposizione a stimoli emotigeni, soprattutto se questi sono negativi (Bradley et al., 2001). Tra gli studi che indagano le differenze di genere nell’arosual impiegando immagini di volti evocativi, Thayer e Johnsen (2000) ipotizzano che le femmine esibiscono una maggior attivazione fisiologica rispetto ai maschi e che si basino persino su quest’ultima durante il processamento delle espressioni facciali che stanno osservando.

 Passando alle parole evocative, Soares et al. (2012) hanno evidenziato delle differenze di genere nell’arousal di un campione di studenti ai quali erano state presentate una serie di parole in lingua portoghese classificate in negative, neutre e positive: le femmine mostravano dei punteggi di arousal più elevati rispetto ai maschi. Infine, sono state osservate delle differenze di genere nella regolazione di emozioni evocate da stimoli emotogeni particolarmente attivanti. In particolare, sono state rilevate differenze fisiologiche e neuronali tra maschi e femmine. Per esempio, McRae et al. (2008) hanno dimostrato che al diminuire dell’esperienza emotiva soggettiva, le femmine esibivano una maggior attivazione delle regioni cerebrali associate alla ri-valutazione cognitiva dello stimolo (re-appraisal), alla risposta emotiva e al processamento della ricompensa rispetto ai maschi. Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni e l’arousal sperimentato dai soggetti non sono state riscontrate differenze di genere a livello comportamentale (McRae et al., 2008).

Conclusioni

Riassumendo, l’arousal è un aspetto fondamentale dell’esperienza, dell’espressione e della regolazione delle emozioni e, proprio per questa ragione, esso costituisce un oggetto di studio degno di approfondimento. A questo scopo, volti e parole evocative possono rivelarsi degli ottimi antecedenti emotigeni e dunque fungere da strumenti eccellenti per l’indagine dell’arousal nell’essere umano. Studi futuri possono far luce sulla relazione tra attivazione emotiva e variabili diverse dal genere e l’età, come ad esempio il grado di difficoltà nella regolazione delle emozioni o la gravità di sintomi depressivi e ansiosi (Deckert et al., 2020).

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