expand_lessAPRI WIDGET

Emergenza alluvione e supporto psicologico: tutti i numeri utili – Comunicato Stampa

In questi giorni di emergenza, sono stati attivati diversi numeri telefonici e mail a cui i cittadini possono rivolgersi per un supporto psicologico.

– Comunicato stampa –

Bologna, 23 maggio – In questi giorni di emergenza, grazie anche all’attivazione del tavolo regionale sull’emergenza psicologica di cui fa parte l’Ordine degli Psicologi regionale e il Gruppo di Lavoro OPER di “Psicologia dell’Emergenza”, sono stati attivati diversi numeri telefonici e mail a cui i cittadini possono rivolgersi per un supporto psicologico. Persone che vivono nei luoghi colpiti dal maltempo, ma anche soccorritori, forze dell’ordine e tutti coloro che stanno collaborando per mitigare i danni dell’alluvione.

Questi i contatti:

  • Numero verde 800024662 attivato dalla Regione e coordinato dall’assessorato regionale alle Politiche per la salute, attivo 7 giorni su 7 dalle ore 8 alle 20, per quesiti e bisogni legati all’emergenza. Saranno gli operatori, opportunamente formati per indirizzare tutte le richieste, a mettere in contatto i cittadini con gli psicologi.
  • Azienda Usl della Romagna. È disponibile una linea dedicata al supporto psicologico attiva 7 giorni su 7 dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 18 alle 20. Per Ravenna si potrà contattare il numero 3381055333, per Forlì-Cesena il numero 3317487610 e per Rimini il numero 3314032046.
  • Croce Rossa dell’Emilia-Romagna. Per informazioni e richieste si può scrivere via email all’indirizzo [email protected] o chiamando il numero 051305445;
  • Psicologi per i Popoli OdV ha attivato una linea dedicata al supporto psicologico (telefono e whatsapp) al numero 3517837136 (contattabile al lunedì dalle 20 alle 22, il venerdì e il sabato dalle 13 alle 14 e domenica dalle 20 alle 22) e un indirizzo mail [email protected];
  • Sipem SoS ER ha attivato uno sportello per il supporto psicologico gratuito accessibile inviando una email a [email protected] indicando la motivazione della richiesta e il numero di telefono a cui farsi contattare.
  • Ass.ne EMDR Italia contattabile al numero 3383470210 o all’indirizzo [email protected]

Ricordiamo che SOLO queste associazioni e le Aziende Usl sono autorizzate dalla Protezione Civile ad interventi sul campo per offrire supporto psicologico professionale, continuativo e di prossimità. Tutti gli aggiornamenti sui servizi attivati saranno pubblicati sulla pagina https://www.ordinepsicologier.it/it/emergenza-alluvione

Nei giorni scorsi, l’Ordine degli Psicologi ER ha inviato una lettera a tutti i sindaci dei territori colpiti dall’alluvione e al CSV-Centro Servizi per il Volontariato condividendo informazioni utili ed è in contatto costante con le associazioni di psicologia dell’emergenza per la predisposizione di materiali condivisi.

Terapia a Seduta Singola (TSS) e Psicoanalisi: una convergenza parziale tra opposti? 

La Terapia a Seduta Singola (TSS) si discosta enormemente dal contesto psicoanalitico puro. Ma allora, dove sta l’ipotetica convergenza parziale tra questi due “mondi” apparentemente così opposti?

Riassunto

Da anni mi occupo della prima visita psichiatrica, da me sempre più considerata come un tentativo di terapia a seduta singola (TSS), indipendentemente dall’orientamento teorico dell’operatore. Nel corso della mia attività come psichiatra e psicoterapeuta, prima pubblico e poi privato, ho dovuto constatare che, in realtà, noi vediamo spesso i pazienti una o due volte in tutto, dal 30 al 50% circa dei casi. Tutti gli operatori dovrebbero pertanto avere una formazione specifica sulla terapia a seduta singola, data la sua efficienza, efficacia e prevalenza. Già in passato ho vagliato la prima visita attraverso la lente del modello manageriale della “Qualità Totale”, che ti insegna a far bene le cose subito, la prima volta, riducendo o eliminando così tutti gli sprechi identificati dalla “Lean Health”. In tal modo, si liberano risorse che possono essere impiegate per fare altro, innovare, ecc.

La terapia a seduta singola si discosta molto da quanto avviene nel contesto psicoanalitico classico. Ma allora, dove sta l’ipotetica convergenza parziale tra questi due “mondi” apparentemente così opposti? A mio parere, ciò risiede nell’utilizzo dello strumento intuitivo in entrambi i contesti terapeutici. L’intuizione è un mezzo di conoscenza dell’altro e di se stessi, veloce, preciso, profondo, affidabile e senza il quale, a volte, non riesci a comprendere il caso. Le ipotesi intuitive vanno ovviamente sempre verificate, ma si adattano perfettamente ai tempi molto ristretti ed ai metodi della terapia a seduta singola. Dal 2018 al 2022 ho verificato, con un metodo auto-valutativo di tipo meta-cognitivo, che sono ricorso all’intuizione in circa il 30% delle terapia a seduta singola da me effettuate, con una costanza sorprendente. Vari psicoanalisti come Reik, Berne, Bion, ecc. hanno sottolineato l’importanza dell’uso dell’intuizione per cogliere la verità del paziente, ponendo tale mezzo al centro del trattamento psicoanalitico. Questa dote del terapeuta presenta ovviamente caratteristiche sia innate che acquisite e non ha un “colore politico” (ad esempio, anche i cognitivisti si occupano da molto tempo ed in modo massiccio dei processi cognitivi duali, intuitivi e logico-analitici). Pertanto, uno stimolo ad averne coscienza e fiducia, accompagnato da una formazione alla sua conoscenza ed al suo utilizzo è possibile ed auspicabile, sia per chi si occupa di terapia a seduta singola che di psichiatria, psicoterapia e psicoanalisi.

Introduzione

Paragonare la terapia a seduta singola al trattamento psicoanalitico, così apparentemente opposti (anche semplicemente per motivi temporali), è una specie di azzardo intellettuale e scientifico. Tanti anni fa un Professore Universitario di Psicoterapia definì questo mio tentativo come un qualcosa di “inusitato”. Ma, a mio parere, non lo era allora e non lo è tuttora. È vero che nella terapia a seduta singola gli operatori vedono spesso il paziente 1 o 2 volte, mentre nella psicoanalisi avviene esattamente il contrario. Riporto apposta all’inizio del presente lavoro i risultati di ricerche a cui ho collaborato, o condotto in prima persona, dove tale dato è evidente. Ma ho anche riscontrato, nel corso di anni di terapia a seduta singola da me praticata in libera professione, un mio uso frequente (circa il 30%) dell’intuizione per la comprensione e la cura dei casi. L’intuizione è il “ponte” che collega, almeno parzialmente, la terapia a seduta singola al trattamento psicoanalitico. Come vedremo, alcuni pensieri di alcuni psicoanalisti sul loro metodo di lavoro, riecheggiano alcuni aspetti intrinseci della terapia a seduta singola. Infine, dedicherò un cenno all’importanza di una formazione specifica degli operatori alla terapia a seduta singola e all’utilizzo della loro facoltà intuitiva innata e acquisita per la comprensione e la cura dei casi.

Dati del contesto psichiatrico pubblico

Nel 1988 pubblicammo uno studio (Gallo et al., 1988) fatto per valutare l’entità e le motivazioni dell’auto-dimissione da parte degli utenti del Centro di Salute Mentale dell’Unità Sanitaria Locale di Imola nel 1985. Gli auto-dimessi furono l’8.6% dell’utenza complessiva di quell’anno. Il 26.1% delle prime visite si auto-dimisero. Il 47.7 % di tutti gli auto-dimessi ebbe solo 1-3 consultazioni. Il motivo principale di tale comportamento risultò l’essersi “sentiti migliorati” (52.8 %). I nostri dati risultarono quasi completamente in linea con quelli riscontrati precedentemente da altri Autori reperiti in letteratura.

Dopo molti anni, ebbi l’idea di applicare i principi del modello industriale della “Qualità Totale” al Dipartimento di Salute Mentale (DSM) e da allora cominciai a comprendere sempre più l’importanza di un radicale mutamento della prima visita psichiatrica secondo i principi di tale modello, per poter tendere ad un DSM di eccellenza (Gherardi, 2007). Ma il punto di svolta avvenne l’anno successivo, quando compresi l’importanza della terapia a seduta singola e dell’uso dell’intuizione al suo interno (Gherardi, 2008). Durante gli anni successivi ho approfondito sia la terapia a seduta singola che l’uso dello strumento intuitivo e dal 2008 sono diventato uno psichiatra e psicoterapeuta libero professionista.

Dati del contesto psichiatrico privato

Ho sviscerato sempre di più l’utilizzo dell’intuizione nella terapia a seduta singola, soprattutto  in campo psicoanalitico (vedi i miei articoli sulla Rivista online “State of Mind”, 2019, 2020, 2022), e dal 2018 ho anche usato un metodo meta-cognitivo auto-valutativo, per comprendere se uso o meno l’intuizione durante la TSS. Riporto qui i dati del quinquennio 2018-2022. Faccio però prima un passo indietro. Nel 2011, il 39.9% dei pazienti venne da me 1-2 volte, nel 2012 il 34.4% (Gherardi, 2014). Ripetendo tale analisi nel 2018 e nel 2022 i risultati sono stati ancora più sorprendenti. Nel 2018 ho visto 1-2 volte il 51.2 % delle TSS e ho utilizzato l’intuizione in circa la metà di tali casi, come anche in circa la metà non l’ho usata. Da ciò si deduce che l’uso o meno dell’intuizione non influenza il numero delle sedute successive.  I dati del 2022 lo confermano. Anche in questo caso, il 50.6% delle TSS sono state di 1-2 incontri. Infine, un altro dato ancor più interessante. Dal 2018 al 2022 ho usato stabilmente l’intuizione durante le TSS in circa il 30% dei casi (dal 29.8% al 34.7%). Questi risultati comportano, a mio parere, due necessità:

  1. Molto spesso il terapeuta vede il paziente 1-2 volte, per cui la conoscenza, la formazione e la pratica competente della TSS diventano fondamentali.
  2. Il terapeuta utilizza spesso l’intuizione per capire e curare il paziente, per cui ne deve essere cosciente, averne fiducia, esserne consapevole, fare una formazione specifica ed un addestramento costante all’esercizio di tale abilità innata e acquisita.

TSS, intuizione e psicoanalisi

Di psicoanalisti che mettono l’intuizione al centro del metodo psicoanalitico (Reik, Berne, ecc.) me ne sono precedentemente occupato in altri articoli (2019, 2020) e poi, in modo particolare, nel mio ultimo lavoro intitolato “I luminari della prima impressione” (2022) a cui rimando il lettore. In questa sede vorrei riprendere brevemente il pensiero di Reik secondo quello di Safran (2011). Per tale Autore, Reik ha anticipato le maggiori tendenze del pensiero psicoanalitico contemporaneo (il bisogno di una costante auto-riflessione sulle proprie associazioni inconsce mentre si lavora col paziente per comprenderlo e curarlo, orientando quindi la propria attenzione anche verso il proprio interno; l’importanza di una costante auto-analisi; l’inevitabilità della partecipazione dell’analista agli “enactment” coi pazienti; la natura intersoggettiva della relazione analitica e l’irriducibile soggettività dell’analista. A tale riguardo, Ogden (che riprenderemo in seguito) ha usato il termine “reverie” di Bion per riferirsi alle associazioni interne dell’analista usate per decodificare l’inconscio del paziente e ha introdotto, a tal fine, il concetto di “terzo analitico”. Infine, Ogden, come altri analisti influenzati dal pensiero di Bion, ha concettualizzato l’identificazione proiettiva come una forma di comunicazione inconscia. Purtroppo, nonostante queste fondamentali anticipazioni concettuali di Reik, molti fattori hanno contribuito ad una sua marginalizzazione da parte dei pensatori psicoanalitici contemporanei (Safran, 2011).

Bion

Un altro psicoanalista che ha sancito la centralità dell’intuizione in psicoanalisi è stato Bion, specialmente in un suo breve contributo del 1967, che qui cercherò di sintetizzare. “L’osservazione” psicoanalitica ha a che fare non con quello che è successo (memoria), né con quello che succederà (futuro, desiderio), ma con quanto sta succedendo (presente). Inoltre, tale “osservazione” non si occupa di impressioni sensoriali o di oggetti sensibili. E’ questo il mondo reale dello psicoanalista. La consapevolezza dell’accompagnamento sensoriale delle esperienze emotive è un ostacolo all’intuito dello psicoanalista nei confronti della realtà con la quale egli deve essere unito. Ogni seduta psicoanalitica non deve avere nessuna storia e nessun futuro. L’unica cosa importante in qualsiasi seduta è quella che è ancora sconosciuta e quindi non si deve permettere a nulla di distrarre l’attenzione dall’intuirla.

In qualsiasi seduta, ha luogo un’evoluzione. Questa evoluzione è la cosa che lo psicoanalista deve essere pronto ad interpretare. Altrimenti non si potrà osservare tale evoluzione della seduta nell’unica occasione in cui la si può osservare, cioè mentre essa avviene. Cambierà così in futuro la configurazione della psicoanalisi. Grosso modo, sembrerà che il paziente non si svilupperà lungo un lasso di tempo, ma ogni seduta sarà completa in sé. Si potrà misurare il “progresso” dal maggior numero e dalle maggiori varietà di stati d’animo, di idee e di atteggiamenti visibili in una data seduta qualsiasi. Le sedute saranno meno ingombrate dalla ripetizione di materiale che avrebbe dovuto sparire e, di conseguenza, si avrà un “tempo” più veloce all’interno di ogni seduta. Lo psicoanalista dovrebbe mirare a raggiungere uno stato mentale tale da sentire che ad ogni seduta  non avesse mai visto il paziente prima. Questa procedura è estremamente penetrante e bisogna costruire la propria tecnica psicoanalitica su una base ferma dell’intuizione di questa evoluzione. La seduta in evoluzione è inconfondibile e l’intuirla non la deteriora. Se gli si dà la possibilità, comincia presto e decade tardi e le interpretazioni derivano dall’esperienza con un individuo unico. Come si può intravedere, molti dei concetti espressi da Bion evocano più o meno chiaramente  i capisaldi del modello manageriale della “Qualità Totale”, della “Lean Health” (riduzione o eliminazione degli sprechi) (Toussaint & Gerard, 2010) ed alcuni principi della TSS.

Ogden

Thomas H. Ogden compie un’analisi del succitato lavoro di Bion, affermando che tale Autore propone una nuova metodologia che soppianta la “consapevolezza” dal suo ruolo centrale nel processo analitico e, al suo posto, instaura l’intuire (largamente inconscio) dell’analista della realtà psichica inconscia del paziente (la verità, la realtà) del momento presente, diventando un tutt’uno con ciò e a prescindere dalle percezioni sensoriali.

Per Ogden, la “reverie”, il sognare ad occhi aperti, è paradigmatico dell’esperienza clinica dell’intuire la realtà psichica in un determinato momento analitico. Per entrare in uno stato di “reverie” (che è sempre in parte un fenomeno intersoggettivo), l’analista deve affrontare un atto di auto-rinuncia, che gli permette di entrare insieme al paziente in uno stato condiviso intuitivo ed essere un tutt’uno con una realtà psichica disturbante che il paziente, da solo, non è in grado di sopportare.

Il vero punto importante di ogni seduta è ciò che è ancora sconosciuto e a niente va permesso di distrarci dall’intuire ciò. Ogden va anche oltre il pensiero di Bion, affermando che tale processo esperienziale condiviso di intuizione di tale realtà psichica perturbante, vissuta da entrambi gli Attori come un divenire un tutt’uno con essa, rappresenta per entrambi un processo di cambiamento. Tale evoluzione è ciò che lo psicoanalista deve essere pronto ad interpretare e questo processo di continuo cambiamento è il vero soggetto della psicoanalisi.

Formazione alla TSS e all’intuizione

Una formazione ed un’implementazione specifica, indipendentemente dagli orientamenti teorici delle Scuole di Specializzazione di Psichiatria o di Psicoterapia, è necessaria già da molto tempo e per vari motivi, tra cui spicca il dato di realtà inconfutabile (ed evidenziato ormai da decenni di ricerca) che una larga percentuale di pazienti viene da noi 1 o 2 volte. Basta questo per capire che dobbiamo essere diagnostici e terapeutici già al primo (e forse anche ultimo) incontro, stimolando quindi fin da subito le risorse interne ed esterne auto-terapeutiche di tali persone.

Se dirigessi oggi un DSM, renderei obbligatoria la formazione in TSS per tutte le figure professionali che compongono il gruppo di lavoro e proporrei a tutte le Scuole di Specializzazione di Psichiatria e di Psicoterapia tale tipo di formazione specifica. A tal fine, abbiamo la fortuna di avere già in Italia un’opportunità formativa specializzata rappresentata dalla Scuola Psicologica Romana di TSS (Cannistrà & Piccirilli, 2018).

Per quanto riguarda invece la formazione all’intuizione e all’empatia, vorrei richiamare brevemente le considerazioni dello psicoanalista Greenson, da me riportate nel mio ultimo lavoro (2022). L’empatia e l’intuizione sono correlate. Entrambe sono metodi speciali per una rapida e profonda comprensione del paziente. L’empatia conduce spesso all’intuizione. Arrivi ai sentimenti e alle immagini attraverso l’empatia, ma è l’intuizione che dà il segnale all’Io analitico che tu hai veramente compreso il paziente. L’intuizione coglie gli indizi che l’empatia raccoglie. L’empatia è essenzialmente una funzione dell’Io esperienziale, mentre l’intuizione deriva dall’Io analizzante. Ci possono però anche essere antitesi tra le due. Gli empatici non sono sempre degli intuitivi e gli intuitivi sono spesso degli empatici inaffidabili. Sia l’intuizione che l’empatia danno a una persona un talento per la psicoterapia e i terapisti migliori sembrano possederle entrambe. L’empatia è un requisito di base; l’intuizione è un “extra bonus”. Infine, da quanto mi risulta, tra gli psicoanalisti solo Waelder, in un suo articolo del 1962, si è spinto ancora più avanti fino a sottolineare il ruolo fondamentale dell’intuizione nell’addestramento dei futuri terapeuti di psicoterapia breve, per la sua rapidità, profondità e precisione, adatta ai tempi limitati disponibili. Mi sembra che, come in Bion, anche nel pensiero di Greenson e di Waelder si possano rintracciare alcune convergenze tra psicoanalisi e TSS.

Conclusioni

La risposta alla domanda “provocatoria” contenuta nel titolo del mio presente articolo è affermativa. Nel corso della mia attività professionale ho dovuto prendere atto, ma in modo sempre più pro-attivo, che, in realtà, noi vediamo spesso i “nostri” pazienti una o due volte. I pazienti infatti non ci appartengono, sono “di se stessi” e si rapportano con noi più o meno liberamente, in base alle loro dinamiche interne ed interpersonali. Anche noi operatori abbiamo le nostre libertà come, ad esempio, una certa possibilità di selezionarli, ecc.. Quindi, il gioco è reciproco. Ma le resistenze psichiche dell’operatore a tale dato di fatto sono massicce e perduranti: facciamo tanta fatica a prendere veramente consapevolezza di tale realtà. Personalmente, dopo decenni di lavoro, stento ancora a “crederci”. 1 paziente su 2 che vedo per la prima volta, lo vedrò 1 o 2 volte e poi mai più. Volenti o nolenti, tutti gli operatori dovrebbero avere pertanto una formazione specifica sulla TSS, data la sua efficienza, efficacia e prevalenza. Già in passato ho vagliato la prima visita/TSS attraverso la lente del modello manageriale della “Qualità Totale”, che ti insegna a far bene le cose subito, la prima volta, riducendo o eliminando così tutti gli sprechi (8 sono gli sprechi identificati secondo il modello della “Lean Health”). La TSS si discosta enormemente dal contesto psicoanalitico puro, dove i candidati e i terapeuti hanno aspettative di trattamento diverse, i pazienti sono selezionati fin dall’inizio, le sedute sono frequenti, regolari e prolungate nel tempo. Ma allora, dove sta l’ipotetica convergenza parziale tra questi due “mondi” apparentemente così opposti? A mio parere, tale punto in comune risiede nell’importanza e nella frequenza con cui si utilizza lo strumento intuitivo in entrambi i contesti. L’intuizione è un mezzo di conoscenza dell’altro e di se stessi, veloce, preciso, profondo, affidabile e senza il quale, a volte, non riesci a giungere ad una comprensione del caso. Le ipotesi intuitive vanno ovviamente sempre verificate, ma si adattano perfettamente ai tempi molto ristretti ed ai metodi della TSS.  Vari psicoanalisti come Reik, Berne, Bion, ecc. hanno sottolineato l’importanza dell’uso dell’intuizione per cogliere la realtà, la verità del paziente, ponendo lo strumento intuitivo al centro del trattamento psicoanalitico. Tale dote intuitiva del terapeuta presenta ovviamente caratteristiche sia innate che acquisite, non ha un’ideologia unica (ad esempio, anche i cognitivisti si occupano da molto tempo ed in modo massiccio dei processi cognitivi duali, intuitivi e logico-analitici). Pertanto, uno stimolo ad averne coscienza e fiducia, accompagnato da una formazione alla sua conoscenza ed al suo utilizzo è possibile ed auspicabile, sia per chi si occupa di TSS che di psichiatria, psicoterapia e/o di psicoanalisi. Come sappiamo, l’intuizione è una facoltà mentale innata, ma anche acquisita. Ovviamente, ci sono persone che nascono con una maggiore predisposizione biologica, psicologica interna ed intersoggettiva a tale capacità, come si sa che varie condizioni psicopatologiche possono farla variare qualitativamente e quantitativamente. Ma, in tutti i casi, se noi “crediamo” al nostro inconscio ed a quello degli altri, ad una loro intercomunicazione diretta, ebbene, abbiamo la capacità di potenziare e di utilizzare sempre più questo utilissimo strumento intersoggettivo, per la comprensione e la cura dell’altro ed, in fondo, anche di noi stessi.

 

La balbuzie: un complesso disordine neurologico e psicologico

La balbuzie si riconosce in base a degli indici neurologici primari e a degli indici psicologici secondari che, insieme, indicano la necessità di una presa in carico multidisciplinare che unisca logopedia e psicoterapia.

La balbuzie: alcuni dati introduttivi

 Secondo i dati attuali, la balbuzie è una condizione che colpisce circa l’1.5% della popolazione mondiale e quasi un milione di italiani. Il genere maschile viene maggiormente colpito (rapporto 4:1), mentre nella minoranza femminile si riscontra un più frequente recupero spontaneo. Tende ad esordire in infanzia, mediamente fra i 3 e i 7 anni, con un andamento graduale e insidioso che, nell’80% dei casi, finisce per risolversi spontaneamente (Yari e Ambrose, 1999). Anche se la predisposizione genetica alla balbuzie è ormai comprovata a livello scientifico, avere un familiare con questo disturbo non porta a manifestare deterministicamente la stessa condizione: la manifestazione della balbuzie, infatti, è il risultato di un complesso intreccio tra variabili individuali di tipo cognitivo, linguistico, affettivo e neurofisiologico e variabili ambientali di tipo socio-culturale, familiare, scolastico e terapeutico.

Una panoramica neurologica del disturbo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1977) definisce la balbuzie come un disturbo del linguaggio consistente in un “disordine nel ritmo della parola, per il quale il paziente sa con precisione cosa vorrebbe dire ma, nello stesso tempo, non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni o prolungamenti di un suono”.

Dal punto di vista neurologico, questa definizione considera la balbuzie come un problema di fluenza verbale basato sulla mancanza di coordinazione tra i centri motori deputati all’articolazione del linguaggio e i centri cognitivi responsabili della produzione linguistica: visto che i primi non seguono di necessità la formulazione del linguaggio, accade che il balbuziente abbia ben in mente cosa dire senza disporre in quel momento degli strumenti motori atti a poterlo esprimere. Da una prospettiva eziologica, si ipotizza che le alterazioni presenti a livello genetico determinino una serie di alterazioni strutturali e funzionali a livello del sistema nervoso centrale, che sono in grado di modificare la capacità di elaborare correttamente i piani linguistici e quelli motori complessi, come quelli necessari per la corretta formulazione del linguaggio (Etchell et al., 2018).

In linea con tale profilo neurologico, Buchel e Sommer (2004) hanno individuato una particolare classe di indici in grado di descrivere la balbuzie dal punto di vista funzionale: gli “indici primari”. Questi consistono in tutte le alterazioni della fluenza verbale che includono le ripetizioni di suoni, sillabe, parole o frasi, i blocchi silenziosi o il prolungamento dei suoni.

Dal punto di vista terapeutico, tali indici non sono altro che i target principali del trattamento neurostimolativo per la balbuzie, che andrà ad intervenire sulle aree deficitarie del linguaggio mediante la logopedia.

La dimensione psicologica della balbuzie

Nel delineare i marker essenziali al riconoscimento della balbuzie, Buchel e Sommer (2004) hanno proposto una seconda categoria di indici utile a una concettualizzazione completa del disordine: gli “indici secondari”. Essi sono i meccanismi di evitamento su base psicologica che emergono dopo l’insorgenza dei sintomi della balbuzie allo scopo di creare un linguaggio protettivo: la sostituzione della parola su cui si sta per balbettare, il cambiamento della struttura della frase, l’incapacità di mantenere contatto oculare o l’evitamento delle situazioni e delle persone che causano ansia da prestazione (questo perché la balbuzie tende ad aumentare nelle situazioni comunicative a elevato impatto emotivo nel soggetto). Il problema di questi comportamenti compensativi, tuttavia, è quello di portare il soggetto a parlare il meno possibile, con ricadute soprattutto dal punto di vista psicologico. Anche se la definizione dell’OMS (1977) riporta una descrizione prettamente neurofisiologica del disturbo, la balbuzie è un disordine del linguaggio che investe significativamente la dimensione psicologica, sotto due punti di vista:

  • È possibile la condizione in cui il soggetto balbuziente abbia preesistenti disturbi psichiatrici che, in compresenza, si associano ai sintomi della balbuzie che tendono più o meno a stabilizzarsi (è il caso, ad esempio, di un adolescente con disturbo d’ansia sociale che, temendo il giudizio degli altri nelle situazioni sociali, finisce per balbettare regolarmente nel tentativo di controllare l’ansia);
  • È anche possibile la condizione in cui il soggetto balbuziente sviluppa un disturbo emotivo (d’ansia o depressivo) come conseguenza dei sintomi della balbuzie. Secondo diverse ricerche, i bambini e gli adolescenti che balbettano riportano esperienze di vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale che sono in grado di provocare sentimenti di vergogna, imbarazzo e scarsa autostima.

Nel caso in cui questi aspetti fossero presenti, la logopedia non può essere sufficiente per il trattamento. In questa direzione, la psicoterapia cognitivo-comportamentale risulta il trattamento d’elezione per affrontare il vissuto emotivo delle persone che balbettano e per estinguere i comportamenti secondari di evitamento.

 Nel primo caso, essa proverebbe a far accettare al soggetto la possibilità di ridurre (ma non sconfiggere) la balbuzie in modo che il giudizio degli altri non lo definisca come persona. I metodi più indicati in questo senso sono la ristrutturazione cognitiva, atta a riconoscere i pensieri irrazionali legati all’ansia e a sostituirli con convinzioni più funzionali, e la mindfulness, utile a fornire una dimensione in cui lasciar andare i pensieri e accettare la propria condizione senza giudicarla.

Nel secondo caso, gli interventi più efficaci a eliminare i comportamenti di sicurezza nei balbuzienti sono l’esposizione e gli esperimenti comportamentali. La prima inviterebbe il soggetto a praticare la costruzione della fluenza in situazioni sempre più temute fino a che, in assenza di strategie di fuga, la persona capisca che è stata in grado di affrontare la circostanza perché essa è effettivamente meno pericolosa del previsto (e che dunque i comportamenti di evitamento sono inutili). I secondi, invitando il soggetto a balbettare volontariamente nei contesti sociali, sono finalizzati a ridurre le stime di probabilità associate alla paura che la persona sarà valutata negativamente a causa della sua balbuzie.

Conclusioni

Visto che un trattamento che tenga conto solo della balbuzie in quanto tale, senza considerare la sfera psicologica, potrebbe determinare un peggioramento della sintomatologia con effetti collaterali, è bene che l’approccio terapeutico sia di tipo multidisciplinare. Quest’ultimo non dovrebbe porsi come obiettivo il mero raggiungimento della fluenza, bensì stimolare nel balbuziente la presa di coscienza del fatto che la balbuzie non è un fallimento, ma una condizione da poter migliorare con accettazione e assenza di giudizio verso se stessi.

 

Aspettative genitoriali: il caso Franco Percoco – Recensione del film

A partire da Lunedì 17 Aprile 2023 è stato proiettato il film “Percoco – Il primo mostro d’Italia”, un crime psicologico italiano, distribuito da Altre Storie e diretto da Pierluigi Ferrandini. Il film si basa sulla vera storia di Franco Percoco, interpretato da Gianluca Vicari.

 

 Conosciuto come “Il mostro di Bari” o “la Belva di via Celentano”, Franco Percoco è considerato il primo stragista familiare. Il film, con un evidente intento introspettivo, supera l’evento focale della vicenda per svelare l’identità di un uomo come tanti. Un assassino non stereotipizzato all’interno della pellicola, in netto contrasto con il titolo.

Sebbene il tema principale sia quello di mostrare l’umanità di un killer, l’attenzione posta sulla cornice è capace di parlare direttamente alla pancia dello spettatore. In una narrazione coinvolgente e sensoriale, ciò che viene fortemente messo in discussione è l’intero sistema familiare. Non si tratta, quindi, della rappresentazione di vittima e carnefice, ma di una profonda riflessione sulla costruzione dell’equilibrio familiare, basato sulla continua brama di un perfezionismo disfunzionale.

All’interno della trama, infatti, attraverso la storia del personaggio, dal momento della strage in poi, si gettano velati indizi sul contesto di una famiglia anni Cinquanta. In contrapposizione alla lucida freddezza del protagonista, emergono momenti di autorivelazione, nei quali si percepisce la difficoltà di Franco nel vestire le aspettative della famiglia. Dalla scelta del percorso universitario allo stile di vita condotto, la famiglia diventa un ostacolo all’autorealizzazione. Invero, l’omicidio dei genitori e del fratello più piccolo viene quasi vissuto come una liberazione dalla necessità di aderire alle aspettative di perfezione.

 In altre parole, portando lo spettatore in medias res, a primo impatto, si ha l’impressione che il pluriomicidio familiare non abbia, almeno apparentemente, una causa scatenante. Piano piano, invece, questa consapevolezza nello spettatore cambia e si acquisiscono informazioni sulla relazione dell’uomo con il suo contesto familiare. Ed è proprio questa interazione che aiuta a comprendere il peso delle aspettative genitoriali sulla costruzione dell’identità.

A questo proposito, alcuni autori hanno considerato l’ambiente familiare e le esperienze genitoriali come fattori particolarmente incidenti sul processo di formazione del perfezionismo disadattivo (Enns et al., 2002). In tal senso, secondo Missildine (1963), i figli esposti ad uno stile genitoriale più critico e ad aspettative più elevate, sviluppano maggiori livelli di perfezionismo, ansia, preoccupazione per le proprie prestazioni e paura di non essere accettati (Alecci, 2020).

Molto importante risulta il modello delle aspettative sociali (Flett et al., 2002), secondo cui i figli si reputano meritevoli d’amore solo se aderiscono alle aspettative genitoriali.

Questa apertura teorica sulle aspettative spinge a riflettere, in senso più ampio, sulla dinamica della co-percezione (Capra, 1972; Arciero et al., 2003) nella costruzione della relazione genitori-figli. Le aspettative genitoriali, infatti, diventano un modo attraverso cui il figlio si dà il senso di essere “bravo”, all’“altezza”, uno “studente modello”. Questa co-percezione, però, non tiene conto dell’unicità del Sé, costringendo il figlio a vivere la vita che il genitore ha immaginato per lui. È proprio questo che, in sottofondo, “Percoco – Il primo mostro d’Italia” vuole mettere delicatamente in crisi, fornendo un nuovo accesso e significato all’essere “mostro” o “belva”.

La glicina come regolatore del recettore GPR158 responsabile della depressione maggiore

Introduzione

La glicina è un amminoacido non essenziale che molti esseri viventi, tra cui l’uomo, utilizzano per la sintesi delle proteine. Amminoacido non essenziale significa che il nostro organismo è in grado di sintetizzarlo nel fegato e nei reni a partire dall’amminoacido serina; al contrario gli amminoacidi essenziali devono obbligatoriamente essere introdotti con l’alimentazione.

La glicina è composta da un gruppo amminico ed uno carbossilico. La catena è costituita da un singolo atomo di idrogeno, caratteristica, questa, che la rende l’amminoacido più semplice e più piccolo.

La glicina è utilizzata in diverse funzioni fisiologiche tra cui: sintesi dell’emoglobina, proteine, peptidi e purine, purina e glutatione, oltre alla sintesi proteica.

L’intervento della glicina nella sintesi del glutatione è alla base del razionale nell’utilizzare tale amminoacido come integratore, nella speranza di ottenere un effetto anti-età.

La glicina come neurotrasmettitore

Gli amminoacidi sono i neurotrasmettitori presenti in maggior numero e sono utilizzati in maniera prevalente nei circuiti neuronali rapidi. Tra i neurotrasmettitori più importanti abbiamo quelli con funzione eccitatoria (aspartato e glutammato) e quelli con funzione inibitoria (glicina, taurina, acido gamma aminobutirrico). Tra questi, l’acido aminobutirrico (GABA) è l’amminoacido con funzione inibitoria più diffuso nei mammiferi, per cui si pensa che questo amminoacido sia coinvolto in maniera diretta o indiretta in numerose patologie quali: epilessia, schizofrenia, malattie neurodegenerative.

In comune con il GABA, la glicina, ha azione modulante degli ioni cloro intracellulari. Il recettore della glicina (GlyR o GLR, glycine receptor), quando si lega a questa, consente il passaggio, attraverso il poro cellulare, degli anioni cloruro. La corrente elettrica che si crea causa un potenziale post sinaptico inibitorio.

La glicina ha un ruolo fondamentale per la regolazione dei motoneuroni in quanto è un neurotrasmettitore inibitorio presente nel tronco encefalico e nel midollo spinale. A supporto di queste evidenze, sono ad oggi noti alcuni quadri patologici nell’uomo dovuti a mutazioni nei geni che regolano il complesso metabolismo della glicina, ad esempio il suo trasporto nel sangue (Kurolap et al., 2016) e la normale formazione dei recettori (Gupta et al., 2020). Questi ultimi sono infatti formati da diverse subunità, ognuna di esse codificata da un gene diverso; se questi geni sono mutati, il recettore è alterato e non è in grado di trasmettere correttamente l’impulso inibitorio.

La glicina e la depressione

Relativamente recente è la scoperta del recettore orfano GPR158 come un nuovo regolatore che opera nella corteccia prefrontale (PFC) che collega lo stress cronico alla depressione (Sutton et al., 2018).

GPR158 è altamente sovraregolato nei soggetti umani con disturbo depressivo maggiore. L’esposizione dei topi allo stress cronico ha anche aumentato i livelli di proteina GPR158 in modo glucocorticoide-dipendente. GPR158 esercita i suoi effetti modulando la forza sinaptica alterando l’attività del recettore AMPA.

GPR158 è altamente espresso nel sistema nervoso ed è implicato nei processi dalla cognizione alla memoria e all’umore (Patile et al., 2015).

Ancora più recente è l’identificazione del GPR158 come recettore metabotropico della glicina (Thibaut 2023). Nello specifico è un recettore transmembrana citoplasmatica che necessita di uno specifico legame con un neurotrasmettitore e di un secondo messaggero per dar vita ad una serie di reazioni a cascata intracellulari e alla trasduzione del segnale.

La glicina, quindi sembra essere implicata nella regolazione dell’attività dei neuroni corticali.

Conclusioni

L’osservazione che i topi da laboratorio a cui veniva somministrata la glicina erano meno sensibili all’induzione del “rallentamento” da parte del recettore GPR158 (Thibaut Laboute, 2023) induce a sperare che l’utilizzo della glicina possa essere utile nel contrastare la depressione. Attualmente sono stati compiuti studi solo su topi e non su esseri umani.

Highly Processed Food Withdrawal Scale: misurare la sindrome da astinenza da cibi altamente processati

Coloro che riducono drasticamente il consumo di cibi altamente processati, altrimenti noti come cibo spazzatura o junk food, dopo un periodo prolungato di assunzione lamentano una vasta gamma di sintomi fisici e psicologici assimilabile a una mera crisi di astinenza.

Abstract

 Evidenze scientifiche dimostrano che gli alimenti altamente processati (noti come cibo spazzatura o junk food in inglese) sono estremamente efficaci nell’attivare i nostri sistemi di ricompensa e che possono persino essere in grado di innescare processi psicopatologici di dipendenza. Ne è la prova il fatto che coloro i quali riducono drasticamente il consumo di junk food dopo un periodo prolungato di assunzione degli stessi lamentano una serie di sintomi fisici e psicologici comparabili a una mera sindrome da astinenza. Schulte et al. (2018) sostengono che quando un individuo interrompe il consumo di cibi altamente processati faccia esperienza dei sintomi tipici di una crisi di astinenza da nicotina o da marijuana. Questi sintomi possono essere misurati in maniera puntuale attraverso il Highly Processed Food Withdrawal Scale (ProWS), un nuovo strumento potenzialmente impiegabile sia in ambito clinico che di ricerca.

Il fenomeno della junk food addiction

I cibi altamente processati, a cui ci si riferisce comunemente parlando di “cibo spazzatura” (junk food in inglese), contengono per definizione alti livelli di grassi, di sale e di carboidrati raffinati, ovvero farina bianca e zucchero. Nonostante si tratti di vivande che possono produrre conseguenze fortemente negative sulla salute dell’individuo, soprattutto se assunte in maniera smodata e continuativa, esse costituiscono un prodotto che domina il mercato alimentare grazie all’elevata accessibilità, sia in termini economici che logistici, e alla notevole pubblicizzazione che le caratterizza. Ricerche scientifiche dimostrano che il junk food sia molto efficace nell’attivare i nostri sistemi di ricompensa e che possa persino innescare processi di dipendenza caratterizzati dall’assunzione compulsiva di questi alimenti (Ahmed et al., 2013; Davis, 2013; Small & DiFeliceantonio, 2019): una sorta di junk food addiction.

La sindrome da astinenza da junk food

Ciò che sorprende maggiormente è l’evidenza che coloro i quali riducono drasticamente il consumo di cibi altamente processati dopo un periodo prolungato di assunzione lamentano una vasta gamma di sintomi fisici e psicologici assimilabile a una mera crisi di astinenza. Per esempio, rimuovendo il saccarosio dalla dieta di ratti che erano soliti cibarsene in maniera incontrollata, si osserva una diminuzione della temperatura corporea e un aumento del battito dei denti, dell’ansia, e dell’irritabilità/aggressività (Galic et al., 2002; Avena et al., 2008). È stato suggerito che questa sindrome da astinenza potesse derivare da modificazioni a carico del sistema degli oppioidi endogeni (Avena et al., 2008), ovvero un insieme di proteine sintetizzate nel cervello e implicate nella regolazione del dolore, dello stress e dei ritmi sonno-veglia, nonché nella dipendenza da sostanze come alcool, nicotina, oppiacei e cannabinoidi.

Risultati analoghi sono stati ottenuti anche negli esseri umani. Schulte e colleghi (2018) sostengono che quando un individuo interrompe il consumo di junk food faccia esperienza di sintomi tipici di una crisi di astinenza da nicotina o da marijuana, quali nausea, mal di testa, ansia, irritabilità, deflessione dell’umore, faticabilità e craving, ovvero un’esperienza soggettiva di intenso desiderio nei confronti di un oggetto o di un’attività al fine di ottenerne gli effetti desiderati. Sintomi la cui intensità raggiunge un picco tra i due e i cinque giorni successivi alla riorganizzazione del regime alimentare.

La Highly Processed Food Withdrawal Scale

Questi risultati sono stati ottenuti grazie all’impiego di un nuovo strumento di misura sviluppato dai medesimi ricercatori a partire da due questionari comunemente utilizzati nella valutazione della gravità dei sintomi che si manifestano in seguito all’interruzione del consumo di nicotina e di marijuana, ossia la Wisconsin Smoking Withdrawal Scale e la Cannabis Withdrawal Scale. Al nuovo questionario è stato assegnato il nome di Highly Processed Food Withdrawal Scale (ProWS) ed è stato poi somministrato a 231 adulti che riportavano di essersi imposti di cessare il consumo di “cibo spazzatura” entro i dodici mesi precedenti l’indagine.

La versione definitiva della Highly Processed Food Withdrawal Scale comprende 29 item, sotto forma di affermazioni, che vengono valutati su una scala Likert a cinque punti che spazia da 0 (fortemente in disaccordo) a 4 (fortemente d’accordo). Le affermazioni riportate nel questionario indagano una serie di sintomi che riguardando, per esempio, il desiderio di cibo, la qualità del sonno, il tono dell’umore e le capacità cognitive dell’individuo. Durante la compilazione del questionario, viene chiesto al soggetto di riportare la propria esperienza sintomatica facendo riferimento alle ultime ventiquattro ore. I punteggi dei singoli item vengono poi sommati per ottenere un unico punteggio totale che riflette in maniera comprensiva la gravità dei sintomi correlati all’astinenza da junk food.

 La scoperta di Schulte e colleghi (2018) costituisce una prova preliminare circa la plausibilità di una sindrome da astinenza dovuta al taglio del consumo di junk food. Quest’ultima presenterebbe peraltro delle caratteristiche comuni a quella prodotta dalla riduzione dell’assunzione di sostanze d’abuso (come alcol, nicotina e oppiacei). Essendo la presenza di sintomi di astinenza un criterio centrale nella diagnosi delle dipendenze da sostanze, questi esiti avvalorano l’ipotesi che il consumo disergolato e prolungato di “cibo spazzatura” possa tramutarsi in una vera e propria dipendenza patologica.

Implicazioni per la clinica e la ricerca

Sul piano clinico, superare la crisi d’astinenza potrebbe rappresentare una sfida nelle prime settimane di trattamento, nonché contribuire ai tassi di abbandono che si registrano durante questo lasso di tempo. Uno spunto per la ricerca futura può essere invece quello di studiare se la presenza di sintomi di astinenza, valutati tramite la Highly Processed Food Withdrawal Scale, possa associarsi ai tassi di aderenza al trattamento, in particolare nei primi cinque giorni dall’interruzione del consumo, ossia quando l’astinenza è più intensa. In tal caso, l’aderenza al trattamento potrebbe essere migliorata fornendo al paziente una psicoeducazione che definisca le sue aspettative in merito ai possibili sintomi di astinenza accostata all’apprendimento di una gamma di strategie comportamentali che gli consentano di gestire in maniera adattiva questa esperienza.

Ecologia della mente e sviluppo psichico. La forma aperta – Intervista agli autori del libro

Giovanni Madonna e Michela Piccolo ci raccontano il loro nuovo testo “Ecologia della mente e sviluppo psichico. La forma aperta”, un’importante novità in ambito teorico sistemico relazionale.

 

 Il nuovo libro di Giovanni Madonna (psicologo, psicoterapeuta, didatta, direttore del centro “Agorà per la Psicologia e la Psicoterapia Ecologica”) e Michela Piccolo (psicologa, psicoterapeuta, lavora presso il Dipartimento Materno Infantile e i Nuclei di Neuropsichiatria Infantile dell’Asl di Caserta) elabora i fondamenti di una psicologia dello sviluppo ispirata alla matrice epistemologica batesoniana e nell’intervista ci illustrano il core di questo interessante lavoro.

Gli autori presentano in un’intervista una teoria che si propone come un ponte necessario tra “l’ecologia della mente” e le pratiche professionali (psicologica, pedagogica, psicoterapeutica riabilitativa, medica).

Intervistatrice (I.): Come è nata l’idea di scrivere questo testo?

Dott. Giovanni Madonna (G.M.): Si tratta di un’idea dalle radici antiche, radici che risalgono nel tempo a circa venticinque anni fa. Avvertivo un dolore, relativo al non vedere ancora la possibilità di far arrivare dentro la stanza di psicoterapia tutte le implicazioni dell’Ecologia della mente, la meravigliosa matrice epistemologica dell’approccio sistemico relazionale. Mancavano le teorie intermedie, i ‘ponti’ necessari per potere efficacemente collegare l’epistemologia alla clinica. E allora mi misi al lavoro. Il primo ponte fu gettato col primo libro “La psicoterapia attraverso Bateson” pubblicato esattamente vent’anni fa. La proposta forse più importante veicolata da quel testo fu quella di una teoria dell’azione in psicoterapia, quella a cui più comunemente si fa riferimento in termini di ‘teoria dell’intervento’. Negli anni successivi continuai a lavorare, dapprima ancora in solitario, poi felicemente accompagnato dalle colleghe e dai colleghi di Agorà, la nostra comunità di studio e di attività professionale. Nei vent’anni che sono seguiti alla pubblicazione del primo libro altri ‘ponti’ sono stati gettati e il libro di cui mi chiede, “Ecologia della mente e sviluppo psichico”, rappresenta l’ultimo ponte che ho avvertito la necessità di gettare per collegare l’epistemologia alla clinica: l’idea di scriverlo è nata dalla mancanza, che negli ultimi anni ho avvertito sempre più forte, di una teoria dello sviluppo epistemologicamente coerente. Michela e io abbiamo cercato di colmare anche questa lacuna.

I.:  Ci può illustrare l’architettura del libro e il percorso che propone?

Dott.ssa Michela Piccolo (M.P.): La parola ‘percorso’ mi piace proprio! Potrei dire che il testo propone, in maniera quasi ostensiva, il possibile processo di ‘sviluppo’ di un pensiero, più in particolare, della teoria dello sviluppo psichico in chiave di Ecologia della mente. Si parte da un primo capitolo introduttivo in cui Giovanni Madonna illustra brevemente le origini e l’evoluzione dell’approccio sistemico-relazionale e del successivo processo di recupero della complessità e della coerenza epistemologica dell’approccio stesso. Tale processo è ancora in corso e genera le necessarie teorie intermedie capaci di collegare la matrice epistemologica alla pratica clinica. Questo testo rappresenta un altro ponte: una teoria dello sviluppo epistemologicamente coerente. Si passa poi, attraverso il secondo e il terzo capitolo, al racconto di due storie, che possiamo considerare premesse per lo sviluppo della teoria. La prima narra di un viaggio metaforico tra i principali ‘territori di sviluppo’: si tratta di una rassegna teorica delle principali teorie dello sviluppo psichico. La seconda invece, più recente e intima, narra degli sforzi già profusi e dei testi già realizzati da un piccolo gruppo di professionisti e studiosi che tendono, ormai da tempo, a ispirare vita e pratiche professionali all’ecologia della mente. Due storie in cui ci piace collocare il nostro testo, due storie che da un lato forniscono una cornice di senso entro la quale collocare i capitoli successivi e dall’altro illustrano i percorsi già compiuti che hanno reso possibile proporre ora la teoria. Segue poi il quarto capitolo in cui sono presentate tutte le idee necessarie per pensare allo sviluppo con l’approccio connettivo implicato dal fare riferimento alla matrice epistemologica batesoniana, “idee di base” per poter affrontare il lavoro di costruzione della teoria dello sviluppo psichico presente nel capitolo successivo. Da queste premesse e idee, prese singolarmente e accostate fra di loro “prendono forma” le nove tesi in cui si articola la teoria, di cui non vi dirò nulla per non ‘spoilerare’ il cuore del testo. Successivamente, le tesi vengono incarnate nella pratica clinica, sono così descritte, nell’ultimo capitolo le implicazioni cliniche che emergono dalla teoria, illustrate anche attraverso il caso di Francesca, dove la teoria dello sviluppo psichico in chiave di Ecologia della mente abita le ‘stanze’ e la ‘mente’ di un sistema psicoterapeutico.

(I.): che si intende per Ecologia della Mente?

(G.M.): L’ecologia della mente è una scienza connettiva, una proposta epistemologica che Gregory Bateson avanzò come correttivo rispetto all’epistemologia dominante, -quella che tende a separare, a dicotomizzare, a partire dalla madre di tutte le separazioni, che è quella fra la mente e il corpo, da cui discendono tutte le altre separazioni: fra l’uomo e la natura, fra la natura e la cultura, fra la ragione e il sentimento, fra gli uomini e le donne, fra i governati e i governanti e così via. Grazie alla sua proposta epistemologica, Bateson ci ha dato la possibilità di pensare insieme fenomeni apparentemente assai diversi gli uni dagli altri, ma in realtà assai simili nell’organizzazione e nel funzionamento, tutti fenomeni che, in senso lato, rientrano nel processo mentale, cioè nel vivente. Si tratta di un lascito intellettuale di straordinaria importanza. Se, infatti, siamo già abbastanza pronti a considerare in termini di ecologia quello che succede fuori di noi, per esempio nell’interazione fra specie animali e vegetali in un lago, in un bosco, in una barriera corallina, non siamo tuttavia ancora abbastanza pronti a considerare in termini ecologici quello che accade dentro di noi e quello che accade sull’interfaccia fra il dentro di noi e il fuori di noi. Eppure il funzionamento del dentro e del fuori è governato dalle medesime leggi. Come, fuori di noi, le specie animali e vegetali si sostengono o si combattono l’una con l’altra, e nascono e muoiono… allo stesso modo, dentro di noi, le idee si sostengono o si combattono l’una con l’altra, e nascono e muoiono… Quando le idee nascono, nascono per via abduttiva; nascono dall’interazione fra altre idee, che sono fra loro abbastanza somiglianti e abbastanza differenti. Quando le idee muoiono, muoiono perché non si armonizzano, o non si armonizzano più, con il resto dell’ecologia.

(I.): a cosa fa riferimento quel “la forma aperta” contenuto nel titolo?

(M.P.): Quello di ‘forma aperta’ è un concetto molto complesso e allo stesso tempo anche quello più innovativo e speranzoso del testo. Come direbbe Giovanni, è questa una delle espressioni più vantaggiose per descrivere nella sua complessità lo sviluppo psichico in chiave di Ecologia della mente, forse quell’espressione capace di riassumere in sé il carattere tautologico ed ecologico dei fenomeni creaturali, riducendo al minimo il rischio di pensare ai fenomeni creaturali come discontinui. Proviamo ad immaginare lo sviluppo psichico come simile ad un processo epigenetico, e dunque in quanto tale, un atto di divenire costruito sopra uno stato immediatamente precedente. Nel caso dello sviluppo psichico “lo stato immediatamente precedente” è quello del sistema dei potenziali non impegnati di cambiamento in un certo momento; “l’atto di divenire” è il processo di formazione di un nuovo potenziale non impegnato di cambiamento deuteroappreso, che si genera sull’interfaccia fra lo stato immediatamente precedente e il contesto esterno, istante per istante nel presente. L’interfaccia con lo stato immediatamente precedente caratterizza il processo di sviluppo in senso conservativo, gli dà coerenza con ciò che viene prima, potremmo dire: produce una “forma” riconoscibile. L’interfaccia col contesto esterno, invece, caratterizza lo stesso processo in senso innovativo, aggiunge ‘differenza’, gli impone “apertura” rispetto a quel che viene dopo, esponendolo alla relazione con l’imprevedibilità del casuale. Con la generazione di un nuovo potenziale non impegnato di cambiamento deuteroappreso, un processo, dunque, si compie, ma non si chiude. La forma che precede, sulla quale il potenziale non impegnato di cambiamento si sviluppa, è aperta e, quando il processo si compie, la forma si chiude a monte e rimane aperta a valle, ovvero sull’interfaccia con il contesto esterno. Si passa così da forma aperta a forma aperta, una forma dinamica che passa da apertura ad apertura senza mai diventare statica e chiusa: una forma che muovendosi resta sé stessa, riconoscibile e, tuttavia, nello stesso tempo cambia, si de-forma, accoglie il nuovo in un equilibrio costante tra coerenza e apertura, equilibrio che caratterizza tutto ciò che è processo mentale, processo vitale, processo di sviluppo.

(I.): Dottore Madonna sono anni che si dedica alla divulgazione e allo sviluppo del pensiero batesoniano in ambito psicologico. Come mai tale epistemologia ha attirato tanto il suo interesse?

 (G.M.): L’Ecologia della mente ha attirato il mio interesse per il suo carattere connettivo, perché consente di mettere insieme idee e fenomeni e di unire campi disciplinari e di studio; da un lato lo consente e dall’altro lo impone! Ha attirato il mio interesse, inoltre, sul piano professionale, perché mi ha consentito di rendere disponibili idee complesse, eleganti e utilissime, per le pratiche professionali degli psicologi e degli psicoterapeuti, ma anche – soprattutto con “Ecologia della mente e sviluppo psichico” – per le pratiche professionali di pedagogisti, riabilitatori, medici e di tutti gli altri professionisti della cura e della formazione. Ha attirato il mio interesse, infine, perché l’ho valutata preziosa al fine, ampio e generale, di contribuire all’affermazione di un’epistemologia connettiva.

(I.): perché un lettore dovrebbe scegliere questo testo?

(M.P.): Consiglierei la lettura di questo testo a chi ha voglia di ‘coltivare un’idea connettiva dello sviluppo’, dove lo sviluppo psichico è considerato parte integrante e non separabile di più ampi processi di sviluppo. Come dice Laura Formenti nella prefazione, proporrei il testo a tutti quelli che, psicologi, psicoterapeuti, educatori, pedagogisti, filosofi, insegnanti, si chiedono, in modo coraggioso, come accompagnare trasformazioni ecologiche quando anch’essi sono parte di quel sistema nel quale l’aspettativa è che qualcuno o qualcosa cambi. Ecco, il testo offre una teoria per pensare allo sviluppo, all’apprendimento e alla cura come parti non separabili di un unico processo, fornisce idee e concetti per non privilegiare un aspetto dello sviluppo rispetto a un altro, per non frammentarlo in aspetti cognitivi, percettivi, mnemonici o emotivi. Permette di non orientare il lettore verso una definizione degli stadi dello sviluppo, una classificazione, né verso una previsione di problemi o patologie; permette di orientarlo all’osservazione molteplice e rispettosa delle singolarità, alla capacità e all’importanza della narrazione, delle storie. È forse con la ri-narrazione di storie che riacquistano senso le possibilità perdute e le contingenze attuali si trasformano in “necessità irreversibile”, generano “nuove forme” per dirlo con parole più vicine al nostro testo, nuove forme che a loro volta si aprono nuovamente ad accogliere altre contingenze, e così il processo di sviluppo si muove fra risultati di storie, e premesse di storie future. Auguro una buona lettura a tutti coloro che desiderano indossare altre lenti per pensare allo sviluppo e avere idee per riflettere su come ogni incontro, conversazione, interazione e narrazione con l’altro possa diventare “forma aperta”, in un sistema circolare dove ogni soggetto che genera il mondo ne è a sua volta generato.

 

La psicologia ai tempi dell’Intelligenza Artificiale

Le applicazioni di intelligenza artificiale incorporate nell’assistenza sanitaria mentale possono portare significative speranze di migliorare la qualità dell’assistenza.

Gli inizi dell’Intelligenza Artificiale

 L’intuizione dell’intelligenza artificiale (IA) nacque già alla fine degli anni ‘30, quando il pioniere del computer Alan Turing ideò una macchina capace, in linea teorica, di manipolare enormi moli di dati memorizzati su un nastro di lunghezza potenzialmente infinita. Tale macchina chiamata successivamente “Macchina di Turing”, attraverso determinati algoritmi sarebbe stata in grado di estrarre dei simboli dalla memoria e di scriverne altrettanti, oltre che di migliorare e correggere automaticamente il proprio funzionamento. Questa scoperta è stata così grandiosa che attualmente tutti i computer in commercio sono basati sull’architettura della Macchina di Turing.

Turing, matematico britannico, sempre con la certezza che in un prossimo futuro si sarebbero potute sviluppare macchine intelligenti, introdusse anche il famosissimo “Test di Turing”. Il test prevede un calcolatore, una persona e solitamente più di un interrogatore. Quest’ultimo, attraverso una tastiera e uno schermo, ha il compito di sottoporre agli altri due componenti previsti, alcuni quesiti di qualsiasi forma e complessità per determinare quale sia l’umano e quale la macchina. Se un numero sufficiente di interrogatori non riesce a distinguere il computer dall’umano la macchina ha superato il test. Ad oggi nessun computer o algoritmo ha superato interamente il test.

Tuttavia, il lavoro di Alan Turing non finisce qui, infatti, negli anni ‘50, il matematico aveva predetto che un calcolatore, un giorno, avrebbe potuto giocare e potenzialmente vincere una partita a scacchi ed effettivamente questo si verificò, seppur molti anni dopo. Nel 1997, il computer Deep Blue, sviluppato da IBM (“International Business Machines”), vinse contro il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov.

Sebbene l’esperimento fosse stato molto affascinante, gli esperti del settore commentarono che l’algoritmo alla base di Deep Blue fosse ancora molto lontano dall’essere definito “intelligenza artificiale”: infatti, il suo funzionamento si limitava ad un calcolo delle probabilità, prevedendo ogni possibile mossa dell’avversario (fino a 14 turni nel futuro) ma senza traccia di apprendimento, miglioramento o correzione (Russel et al., 1995).

Definizione dell’IA ed applicazioni pratiche odierne

Oggi esistono diverse definizioni di intelligenza artificiale, ma tutte si rifanno principalmente ai concetti di ragionamento e comportamento. Una macchina, per essere definita “intelligente”, deve essere capace di pensare, prendere decisioni e risolvere problemi come farebbe la mente umana, oltre che di apprendere e migliorare autonomamente azioni che richiederebbero livelli elevati dell’intelligenza caratterizzante l’uomo.

Negli ultimi anni le architetture più efficaci per sviluppare algoritmi di intelligenza artificiale sono le “reti neurali”, ovvero delle reti virtuali ispirate al funzionamento delle reti neurali umane (composte da neuroni e sinapsi).

Tali architetture hanno permesso enormi passi avanti in molti campi, ad esempio nella guida autonoma, che richiede il riconoscimento di oggetti (persone, auto, cartelli, corsie) per facilitare o evitare compiti complessi e pericolosi all’uomo. Le reti neurali hanno anche lo scopo di migliorare la qualità delle fotocamere degli smartphone, che richiedono un’analisi automatica (luci, volti, colori) ma specifica per ogni immagine che si scatta. Inoltre, troviamo reti neurali anche nel riconoscimento del linguaggio e del contesto per sviluppare assistenti vocali in qualsiasi situazione (Russel et al., 1995).

Psicologia ed Intelligenza Artificiale Incorporata: quando i due mondi si intersecano

La ricerca sull’intelligenza artificiale incorporata ha una rilevanza clinica crescente per le applicazioni terapeutiche nei servizi di salute mentale: psichiatria, psicologia e psicoterapia. Le innovazioni spaziano dagli “psicoterapeuti virtuali” (Martinez & Kreitmair, 2018, 32) ai robot sociali negli interventi a supporto della demenza e del disturbo autistico (Gòngora et al., 2018, 27) e robot per disturbi sessuali (Torjesen, 2017, 56-59). Sempre più spesso agenti virtuali e robotici artificialmente intelligenti, non sono solo disponibili per elementi di supporto della salute mentale di livello relativamente basso, come il comfort o l’interazione sociale, ma eseguono anche interventi terapeutici di alto livello precedentemente offerti esclusivamente da personale sanitario altamente qualificato e/o professionisti come gli psicoterapeuti (Inkster et al., 2018, 44). È importante sottolineare che tali “terapeuti virtuali” o “robotici” includono un algoritmo artificialmente intelligente che risponde al paziente, indipendentemente da qualsiasi guida umana esperta, attraverso una presenza virtualmente incarnata come l’icona di un viso.

In quanto tali, queste applicazioni emergenti sono distinte dalle molte varietà di terapia basata sul Web che di solito coinvolgono un terapeuta umano, anche se a distanza (telemedicina), o lo stesso paziente che lavora indipendentemente con questionari o altri materiali di auto-aiuto (Mehrotra et al., 2017, 707-711).

Le applicazioni di intelligenza artificiale incorporate nell’assistenza sanitaria mentale portano significative speranze di migliorare la qualità dell’assistenza (Cresswell et al., 2018, 8-11). Inoltre, consentono di raggiungere popolazioni svantaggiate che necessitano di servizi di salute mentale per migliorare le opportunità di vita nei gruppi vulnerabili. Tuttavia, esiste un divario persistente tra gli attuali e rapidi sviluppi della salute mentale dell’intelligenza artificiale e l’adozione di questi strumenti negli ambienti clinici da parte di operatori sanitari e pazienti, in quanto le loro implicazioni sociali ed etiche richiedono ulteriori indagini per identificare le preoccupazioni pertinenti relative alla fiducia, alla privacy e all’autonomia, nonché per anticipare le preoccupazioni che potrebbero sorgere in futuro (Ienca et al., 2018, 1035-1055). Identificare le più ampie implicazioni etiche e sociali dell’intelligenza artificiale incorporata è fondamentale per negoziare le migliori pratiche di ricerca e medicina nell’assistenza sanitaria mentale innovativa.

I dispositivi psicoterapeutici virtualmente incorporati supportati dall’intelligenza artificiale si stanno attualmente sviluppando a una velocità elevata. Ad esempio, vengono esplorate applicazioni terapeutiche come “Tess” e altre chatbot come “Sara”, “Wysa” e “Wobot”, che funzionano su servizi di messaggistica breve, mentre si consigliano WhatsApp o piattaforme Internet per affrontare la depressione e l’ansia, dotate di presenze schermo-interattive. Woebot ed altri programmi interagiscono con il paziente come uno psicoterapeuta virtuale, con l’obiettivo di aiutarlo a riconoscere le proprie emozioni, schemi di pensiero e sviluppare abilità come la resilienza o tecniche per ridurre l’ansia. Utilizzando l’elaborazione del linguaggio naturale, il programma Tess è capace di riconoscere le espressioni che indicano un disagio emotivo (Sachan, 2018, 322-326).

Gli studi iniziali hanno scoperto che i sintomi della depressione diminuiscono con l’uso di Woebot (Fitzpatrick et al., 2017, 19-23 ) e un altro studio evidenzia che Tess ha contribuito a ridurre la depressione e l’ansia tra gli utenti (Sachan, 2018, 221-224).

Un approccio simile prevede l’uso di avatar, come il “Progetto Avatar”, per affrontare le allucinazioni uditive persistenti nei pazienti con psicosi (Craig et al., 2018, 31-40). Questi avatar sono rappresentati da immagini generate al computer di volti su schermo (di computer o tablet) che interagiscono con il paziente tramite algoritmi intelligenti. L’uso degli avatar viene anche esplorato nel trattamento della schizofrenia, ad esempio, per migliorare l’aderenza ai farmaci (Bain et al., 2017, 18).

Simile a questo progetto, la terapia assistita dalla realtà virtuale per la schizofrenia spesso incoraggia i pazienti a interagire con le voci che sentono attraverso l’uso di un avatar di intelligenza artificiale. Dai primi studi è emerso che la terapia potrebbe aiutare a identificare bersagli terapeutici in casi particolarmente difficili di schizofrenia (Dellazizzo et al., 2018, 878-885) .

Un altro studio ha riscontrato miglioramenti nelle allucinazioni visive-uditive nei sintomi della depressione e nella qualità generale della vita dopo le sessioni di terapia per pazienti affetti da schizofrenia ma resistenti al trattamento farmacologico (Du Sert et al., 2018, 176-181).

Gli “Avatar coach” sono stati impiegati con duplice funzione: da un lato quella di terapeuti, permettendo di trovarsi in una situazione di realtà virtuale immersiva per trattare l’acrofobia (paura dell’altezza), dall’altro come “pazienti virtuali” per fornire agli studenti di medicina pratiche di colloquio particolarmente realistiche (Ohio State University, 2015, 3-5). Infine, gli avatar vengono implementati anche nell’educazione alla prevenzione dei rischi, come il programma Kognito, che utilizza un avatar per aiutare gli studenti universitari e i docenti a identificare il rischio di suicidio nelle persone (Rein et al., 2018, 401-411).

Intelligenza Artificiale nell’area infantile e nella sessualità adulta

Oltre alle precedenti applicazioni terapeutiche virtualmente incarnate, medici e scienziati stanno esplorando innovazioni nell’area dell’intelligenza e robotica nella clinica. Ad esempio, robot intelligenti simili ad animali come Paro (una foca pelosa), vengono sempre più utilizzati per aiutare i pazienti con demenza. Paro, insieme a eBear, fa parte di una classe di “bot compagni”, che interagiscono come assistenti sanitari a domicilio: rispondono a parole e movimenti con un “dialogo” dinamico e cercano di aiutare anziani isolati o pazienti depressi attraverso la compagnia e l’interazione. Diversi studi hanno esaminato il ruolo di tali robot nel ridurre lo stress, la solitudine, l’agitazione e nel migliorare l’umore e le connessioni sociali (Wada & Shibata, 2007, 972-990). Finora, i risultati sono promettenti (Bemelmans et al., 2012, 114-120).

I robot di intelligenza artificiale offrono anche interessanti opportunità in quanto offrono diverse forme di coinvolgimento a bambini che soffrono di disturbi dello spettro autistico (ASD). È stato riscontrato che i bambini con autismo reagiscono positivamente ai robot anche nei casi in cui hanno elevati livelli di difficoltà a interagire con gli altri (Scassellati et al., 2012, 275-294). Il robot Kaspar ha dimostrato un elevato potenziale per l’integrazione negli attuali interventi educativi e terapeutici ed è attualmente allo studio il potenziale per migliorare le abilità sociali tra i bambini. Allo stesso modo, la RoboTherapy è un esempio di robotica socialmente assistita progettata per aiutare i bambini con disturbi dello spettro autistico a sviluppare abilità sociali: il robot Nao è stato progettato per migliorare il riconoscimento facciale ed un’appropriata risposta allo sguardo (Mengoni et al., 2017).

 Lo scopo di tale interazione robotica è quello di apprendere abilità sociali appropriate (ad es. imitarsi, alternarsi, rimanere coinvolti ed empatia), con la speranza che i bambini possano quindi applicare le abilità apprese con il robot alle loro relazioni con i coetanei. Da queste ricerche si sono ottenuti risultati positivi: gli individui con disturbi dello spettro autistico si sono comportati meglio con i loro partner robot rispetto che con i terapeuti umani, hanno risposto con comportamenti sociali nei confronti dei robot e hanno migliorato il linguaggio spontaneo durante le sessioni di terapia. Tuttavia, i dispositivi sono ancora in fase di sviluppo sperimentale e non presentano ancora un uso terapeutico più ampio.

I robot abilitati all’intelligenza artificiale vengono anche esplorati in una varietà di altre aree di salute mentale, inclusi pazienti con disturbi dell’umore e d’ansia, bambini con comportamenti aggressivi e persone che potrebbero non avere una diagnosi specifica ma che trarrebbero comunque beneficio da questo tipo di assistenza (Rabbitt et al., 2015, 35-46).

I robot artificialmente intelligenti sono entrati anche nel campo della sessualità umana. Le aziende ora offrono robot sessuali per adulti come “Roxxxy”, che possono parlare, apprendere le preferenze dei loro partner umani, registrare il tocco e fornire una forma di compagnia intima. Sebbene la gamma di applicazioni mediche che i robot sessuali possono affrontare rimanga dibattuta, queste includono la soddisfazione dei bisogni sessuali di persone disabili e anziane o fanno parte della terapia per problemi come la disfunzione erettile, l’eiaculazione precoce e l’ansia (Sharkey et al., 2017). Inoltre, alcuni ricercatori si sono chiesti se i robot sessuali potrebbero aiutare a ridurre i crimini sessuali come stupri e aggressioni o se potrebbero essere utilizzati per il trattamento delle parafilie, come la pedofilia. Attualmente non si ha ancora risposta a questo importante interrogativo (Torjesen, 2017).

Etica, algoritmi ed effetti a lungo termine

È necessario notare che gli interventi sulla salute mentale dell’intelligenza artificiale funzionano con algoritmi e questi ultimi presentano problemi etici. È stato stabilito che i pregiudizi umani possono essere incorporati negli algoritmi, rafforzando le forme esistenti di disuguaglianza sociale (Tett, 2018, 3-4). Ciò solleva la preoccupazione che i dispositivi per la salute mentale abilitati all’intelligenza artificiale possano anche contenere pregiudizi che hanno il potenziale di escludere o danneggiare in modi non intenzionali, come pregiudizi sessisti o razzisti basati sui dati o pregiudizi prodotti da obiettivi o endpoint concorrenti dei dispositivi (Corea, 2019, 33-41). A seguito di altri appelli alla trasparenza (Powles, 2017), gli algoritmi utilizzati in applicazioni artificialmente intelligenti per scopi di salute mentale potrebbero essere allo stesso modo oggetto di esame. Ciò potrebbe richiedere l’investimento di tempo aggiuntivo per spiegare ai pazienti (e alle loro famiglie) cos’è un algoritmo e come funziona in relazione alla terapia fornita (Fiske & Prainsack, 2019, 37-41). Tuttavia il modo migliore per farlo, in particolare con pazienti con capacità mentali compromesse, richiede ulteriori considerazioni.

Oltre a queste preoccupazioni più immediate, l’implementazione dell’intelligenza artificiale incorporata nei servizi di salute mentale solleva anche una serie di questioni più ampie riguardanti gli impatti a lungo termine sui pazienti, sulla comunità della salute mentale e sulla società in generale. Ad esempio, è stato notato che l’uso a lungo termine degli interventi di intelligenza artificiale potrebbe portare alcuni pazienti o gruppi di pazienti a dipendere eccessivamente da queste applicazioni. Uno studio di Cresswell ha osservato che i robot che mirano ad alleviare la solitudine o a fornire conforto emotivo comportano il rischio che i pazienti con cui lavorano possano diventare dipendenti da loro (Cresswell et al., 2018, 67). Più in generale, altri hanno sollevato domande sui modi in cui i robot potrebbero contribuire a cambiare i valori sociali che circondano l’assistenza o sulle situazioni in cui il caregiving è sempre più “esternalizzato” agli ausilii robotici. L’impatto dei robot intelligenti sulle relazioni, sia uomo-robot che uomo-uomo, è un’area che richiede ulteriori approfondimenti, così come l’influenza circa i potenziali effetti sull’identità, l’agire e l’autocoscienza nei singoli pazienti. In particolare, ad esempio la ricerca sull’efficacia di queste applicazioni deve riguardare non solo la valutazione del miglioramento delle abilità sociali dei bambini con disturbi dello spettro autistico, ma anche la loro capacità di applicare queste abilità alle relazioni con altri esseri umani. Allo stesso modo, se un robot sessuale viene fornito terapeuticamente a un individuo con parafilia, anche gli effetti di ciò sui comportamenti mirati rispetto agli esseri umani devono essere valutati. Esiste il rischio che se gli interventi robotici non sono traducibili in un miglioramento dell’interazione umana, rimangano semplicemente un modo per migliorare le relazioni umane con le macchine, o peggio, uno sbocco che limita ulteriormente le relazioni uomo-uomo. Allo stesso modo, il coinvolgimento con i dispositivi intelligenti incorporati potrebbe anche avere effetti importanti sull’individuo, ad esempio sul senso personale di identità o sull’agire (Bain et al., 2017, 13-17).

L’integrazione dei dispositivi di intelligenza artificiale nella nostra vita quotidiana e nell’assistenza medica sta indubbiamente cambiando le aspettative sociali e le pratiche di comunicazione. Esistono differenze essenziali tra la comunicazione con un dispositivo di intelligenza artificiale e la comunicazione con un altro essere umano. I risultati aneddotici suggeriscono che alcuni utenti parlano spesso con dispositivi di assistenza come Siri o Alexa in un modo più brusco o più rude di quanto non farebbero con un essere umano (Calfee, 2017, 22-25). È importante sottolineare che la percezione dei dispositivi può variare a seconda degli utenti: i bambini spesso comprendono questi dispositivi in ​​modo diverso rispetto agli adulti, a volte attribuendo al dispositivo caratteristiche umane o credendo che il dispositivo contenga un vero individuo al suo interno (Doucleff & Aubrey, 2017, 2-3). Partendo da questo esempio, è chiaro che i modi in cui gli individui interagiscono con le applicazioni di intelligenza artificiale nelle loro vite possono avere implicazioni per la comunicazione e l’interazione sociale. Il modo in cui questo si evolverà man mano che più pazienti avranno l’opportunità di interagire con queste applicazioni come parte della loro assistenza sanitaria/mentale richiede ulteriori indagini empiriche per cogliere tempestivamente le tendenze problematiche e correggerle per lo sviluppo futuro.

Esiste una preoccupazione correlata di oggettivazione per alcune aree delle applicazioni di intelligenza artificiale, come i robot sessuali. L’uso dei “sexbot” è già stato particolarmente controverso: gli studiosi obiettano che la disfunzione sessuale dipende da una serie di fattori fisici, psicologici e socioculturali che sono profondamente relazionali e reciproci. Piuttosto che affrontare i problemi di isolamento associati alla disfunzione sessuale, i robot potrebbero eventualmente aggravarla o contribuire a concezioni riduzionistiche della violenza sessuale (Facchin et al., 2017, 265-268). È stato ipotizzato anche che l’uso di robot sessuali – disponibili anche in modelli infantili o programmati con personalità come “Frigid Farrah” per resistere alle avances sessuali potrebbe invece aumentare il verificarsi di crimini sessuali, normalizzare la produzione di disuguaglianze sociali che circondano lo sguardo maschile (Scheutz & Arnold, 2016, 351-358) e contribuire a incontri sessuali indesiderati. Inoltre, la creazione di robot umanoidi da utilizzare nelle disfunzioni sessuali solleva preoccupazioni sul fatto che potrebbe rafforzare o addirittura legittimare l’oggettivazione degli esseri umani, in particolare i più fragili come donne e bambini.

Quindi l’efficacia dell’uso dell’intelligenza artificiale in molte applicazioni terapeutiche deve ancora essere dimostrato da studi randomizzati e controllati (RCT). Più in generale, le applicazioni dell’intelligenza artificiale incorporata corrono il rischio di implicare una comprensione relativamente ristretta della malattia. Ad esempio, i robot sessuali possono aiutare con alcuni problemi medici ma non affrontano altri determinanti della malattia che dovrebbero essere presi in considerazione da una comprensione bio-psico-sociale della malattia mentale. L’uso diffuso dell’intelligenza artificiale potrebbe quindi esacerbare le tendenze del riduzionismo nella salute mentale (Torjesen, 2017, 139-142).

Conclusioni

In conclusione, le iniziative che integrano l’intelligenza artificiale incorporata nelle pratiche sanitarie devono essere debitamente in sintonia con le esistenti comprensioni culturali del ruolo della tecnologia nelle vite sociali e lavorare per garantire che la fiducia tra paziente e fornitore o tra paziente e sistema sanitario, non venga erosa. Gli agenti di intelligenza artificiale per la salute mentale sollevano domande fondamentali su cosa significhi essere “umani”. Uno dei principali contributi degli studi scientifici e tecnologici è stato quello di mostrare come gli esseri umani non agiscono semplicemente sugli oggetti, ma piuttosto sulle relazioni con gli oggetti che cambiano e trasformano l’attività umana (Latour & Wolgaar, 1986). L’interazione con agenti di intelligenza artificiale incorporati, proprio come l’interazione con altri individui o un terapeuta, può cambiare i comportamenti e la comprensione del mondo. Sebbene le relazioni sociali siano caratterizzate dalla reciprocità, le relazioni con i dispositivi intelligenti non sono né reciproche né simmetriche. In particolare, alcuni hanno sollevato la preoccupazione che interagire maggiormente con agenti artificiali possa portare alcuni individui a impegnarsi meno con le altre persone che li circondano o a sviluppare forme di intimità con robot intelligenti (Melson et al., 2005, 1649-1652), sollevando preoccupazioni specifiche circa l’uso di robot nei bambini o in persone con disabilità intellettiva. Come accennato, le persone sviluppano attaccamenti agli oggetti ed è stato dimostrato che sviluppano anche attaccamenti a sistemi robotici più semplici. Pertanto è probabile che man mano che vengono sviluppati dispositivi più intelligenti e autonomi, le relazioni umane con essi diventino sempre più complesse (Dodig Crnkovic & Çürüklü, 2011).

 

L’emozione di sorpresa

Quando viene rilevato un input diverso da quello previsto dal cervello, viene sperimentata l’emozione di sorpresa, momento seguito dall’analisi dell’evento e, in base al risultato, dall’emergere di un’altra emozione.

 

Le emozioni

 Le emozioni indicano un insieme di reazioni fisiologiche, risposte comportamentali, sensazioni soggettive ed espressioni facciali, sono evocate da pensieri che si verificano in specifiche situazioni, sono di durata relativamente breve e influenzano le azioni successive (Carlson et al., 2008).

Lo studio delle emozioni è ricollegabile alla figura di Paul Ekman, che riscontrò come le emozioni fossero uguali in popoli diversi: egli poté notare come le emozioni di base fossero universali perché riscontrabili in popolazioni diverse, anche isolate dal resto del mondo, in grado di riconoscere le espressioni facciali ed associarle all’emozione corrispondente.

Distinse le emozioni in primarie, cioè innate, riscontrabili in qualunque popolazione e, quindi, universali, e secondarie, cioè originate dalla combinazione delle emozioni primarie e che si sviluppano durante la crescita della persona (Fiore, 2015).

Le emozioni primarie, o di base, sono:

  • rabbia: generata dalla frustrazione di un bisogno, si può manifestare attraverso l’aggressività;
  • paura: dominata dall’istinto, ha come obiettivo la sopravvivenza in una situazione percepita come pericolosa;
  • tristezza: si origina a seguito di una perdita o di uno scopo non raggiunto;
  • gioia: stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatto un proprio desiderio o bisogno;
  • sorpresa: si origina da un evento inaspettato, spesso è seguita da un’altra emozione;
  • disgusto: risposta repulsiva verso persone o cose.

La sorpresa

In ottica evoluzionistica, la sorpresa è un’emozione associata alla sopravvivenza: per l’uomo primitivo ogni stimolo inatteso poteva rivelarsi una minaccia e, infatti, l’espressione facciale della sorpresa comprende lo spalancarsi degli occhi per allargare il campo visivo e l’apertura della bocca per garantire una respirazione profonda e facilitare lo sforzo muscolare in caso di fuga (Zannoni, 2015).

Le informazioni e le situazioni con cui entriamo in contatto vengono utilizzate dal cervello per formare delle conoscenze sul mondo e la ricezione di nuovi input porta all’aggiornamento di tali conoscenze. Quando viene rilevato un input diverso da quello previsto dal cervello, viene sperimentata l’emozione di sorpresa (Mousavi et al., 2022). Subito dopo nel cervello ha inizio l’analisi dell’evento e, in base al risultato, emerge un’altra emozione, coma paura, rabbia, tristezza, gioia (Zannoni, 2015).

Abolire la sorpresa e il rilevamento degli errori, come potrebbe accadere per generalizzazione o assuefazione, sarebbe disadattivo, in quanto potrebbe minare il meccanismo di predittività, fondamentale per un buon adattamento e per la sopravvivenza dell’organismo; il funzionamento cerebrale del nostro organismo si baserebbe quindi su un equilibrio continuo tra previsione e sorpresa. La sorpresa è un modo per informarci che si è verificato un evento saliente non corrispondente alle nostre previsioni e che le circostanze che hanno portato a ciò dovrebbero essere modificate e/o memorizzate (Van De Poll & van Swinderen, 2021).

 Numerosi studi hanno mostrato una relazione tra la forza delle risposte emotive e il grado di sorpresa degli eventi: le emozioni sembrano essere influenzate più dalla deviazione di un evento dalle aspettative che dalla grandezza dell’evento stesso (Van De Poll & van Swinderen, 2021). Per esempio, lo studio di Villano et al. (2020) ha dimostrato che per gli studenti universitari che ricevono i voti di fine semestre, l’intensità dell’emozione è proporzionale alla deviazione dalle loro aspettative piuttosto che al voto stesso, confermando come sia la disconferma di una previsione a suscitare la sorpresa e la successiva emozione, a valenza positiva o negativa.

La teoria della codifica predittiva

La teoria della codifica predittiva (Rao e Ballard, 1999) fornisce un quadro per meglio comprendere il funzionamento cerebrale: si tratta di un sistema in cui le informazioni sensoriali sul mondo vengono utilizzate per generare un modello interno che informa l’organismo sulle probabili cause degli stimoli sensoriali e sulle possibili conseguenze. Ciò che non corrisponde al modello rappresenta un errore di previsione e il sistema può reagire ad esso aggiornando il suo modello per adattarlo meglio alle prove o attuando cambiamenti per allineare il mondo al modello.

Negli esseri umani, l’elaborazione predittiva è comunemente studiata attraverso l’utilizzo di una sequenza di stimoli “standard” che viene interrotta da uno stimolo inatteso. L’utilità dei paradigmi di questo tipo risiede nella loro versatilità, poiché può essere utilizzata qualsiasi modalità sensoriale per fornire stimoli e l’alternanza tra stimoli standard e inattesi può essere complessa, come un volto umano ripetuto vs un nuovo volto umano oppure semplice, come quadrato vs cerchio.

Lo stimolo inatteso che devia dalle aspettative suscita un segnale di errore di previsione nell’EEG, identificabile negli esseri umani come Mismatch Negativity (MMN), che costituisce uno specifico correlato elettrofisiologico della sorpresa (Van De Poll & van Swinderen, 2021).

The whale, la balena (2022) – Recensione del film

ATTENZIONE – L’articolo può contenere spoiler!

‘’The Whale’’, la balena, è un film del 2022 diretto da Darren Aronofsky.

 

Il cinema è un buio di persone. Mannarino, La Maddalena.

 La pellicola rappresenta l’adattamento cinematografico dell’omonima opera teatrale del 2012 scritta da Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura del film. Presentato alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 4 settembre 2022 ed al Toronto International Film Festival l’11 settembre dello stesso anno, il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a partire dal 9 dicembre 2022, mentre nelle sale italiane dal 23 febbraio 2023. Il film ha inoltre valso il Premio Oscar come Miglior attore protagonista a Brendan Fraser (The Variety, 2021).

Il titolo The Whale”, la cui traduzione è “la balena”, fa riferimento in modo figurato alla mole del protagonista, ma anche al romanzo “Moby Dick” di Herman Melville (“Moby Dick” o “The Whale”), più volte citato in modo diretto ed indiretto nella pellicola (Melville, 2012).

Centrale nel film sono il personaggio e la storia di Charlie, professore d’inglese che soffre di grave obesità. L’uomo vive solo, recluso nella propria casa e schiacciato dal peso eccessivo che non gli permette di muoversi in autonomia; tiene corsi universitari di scrittura online, nascondendo la sua figura attraverso la webcam spenta.

Charlie vive una situazione di completo ritiro sociale. Ha perso ogni rapporto con il mondo esterno, compreso il legame con la figlia adolescente, Ellie, e con la ex-moglie, Mary. L’unica persona che frequenta è Liz, infermiera che lo aiuta con le medicazioni e le cure, nonché sorella dell’uomo che ha amato, morto alcuni anni prima degli eventi narrati.

Nel momento in cui realizza la triste verità che gli resterà poco tempo da vivere, Charlie decide di riallacciare i rapporti con la figlia, per cercare un’ultima possibilità di riscatto.

“The Whale” è un film di finzione, eppure l’elemento biografico è nettamente presente. L’autore del dramma teatrale Samuel D. Hunter, infatti, ha molti punti in comune con il protagonista: ha vissuto a Moscow in Idaho, ha insegnato saggistica alla Rutgers University, è dichiaratamente omosessuale ed in passato ha sofferto di gravi disturbi alimentari. Questo fa di “The Whale” un film solo parzialmente autobiografico (The Variety, 2021).

Temi principali della pellicola sono il trauma e la incomunicabilità tra i vari personaggi: ognuno fornisce una lettura differente ad eventi comuni, ed appare influenzato dai personali temi di vulnerabilità.

Intrappolati nelle loro bolle di realtà, vivono “l’altro” come proiezione di paure ed aspettative, ed il “Sé” come fantasma di traumi e di delusioni.

Non aperti ad un confronto e scotomizzando le ferite di fondo mai sanate, i personaggi giungono all’autodistruzione. Un dramma psicologico, un’autentica tragedia umana che invita all’autenticità e rappresenta un esercizio di empatia estremamente impegnativo.

“The Whale” rappresenta i drammi e traumi individuali di ogni singolo personaggio.

Charlie, Ellie e Mary, sono tra loro legati profondamente, sia umanamente che psicologicamente; infatti attuano tutti e tre comportamenti cristallizzati in strategie di immunizzazione al fine di silenziare vissuti e temi dolorosi.

Charlie, ed il disturbo da binge-eating (BED)

A volte il nostro corpo non ha la forza di vivere
Ciò che l’anima vorrebbe. 

Susanna Tamaro.

Il film è totalmente incentrato sulla persona di Charlie, la cui vita è stata segnata dalla perdita del compagno, l’uomo per cui decise di allontanarsi dalla ex-moglie e dalla figlia; Mary non permetterà da quel momento che il padre e la bambina si incontrino mai, contribuendo ulteriormente alla sua sofferenza e al suo isolamento.

Il corpo diventa la sua trappola, simbolo di un soma ferito nel profondo. Privato delle gioie della propria vita, sceglie di rendere l’unico e ultimo piacere su cui ha il controllo, il cibo, auto-distruttivo.

L’esperienza di Charlie è in linea con quanto teorizzato da Cooper, Wells e Todd (2008), i quali identificano tre tipi principali di convinzioni metacognitive che agiscono insieme per mantenere il binge-eating: credenze positive, negative e permissive.

Secondo questo modello, un episodio di alimentazione incontrollata è scatenato da un evento angosciante che attiva una convinzione negativa sul sé come persona, come ad esempio: “non sono amabile” o “sono un fallimento”.

Spesso Charlie ripete nel film: “Who would want me in their life”.

L’attivazione di queste credenze negative su di sé è accompagnata da sentimenti di ansia, depressione o senso di colpa. Ricorre spesso nel film la frase: “I know I have made a lot of mistakes”.

Il modello propone che gli individui affetti da Binge Eating Disorder comincino ad abbuffarsi come mezzo per far fronte a queste spiacevoli emozioni e che l’abbuffata riduca l’intensità degli stati emotivi a breve termine.

Le convinzioni positive riguardano i benefici percepiti del binge-eating, in particolare nel ridurre il disagio emotivo (ad esempio: “mangiare mi aiuta a far fronte ai sentimenti negativi”).

Le convinzioni permissive sono quelle che permettono all’individuo di iniziare o continuare un episodio di abbuffate, ma non affrontano le convinzioni sulla propria capacità di controllare le pulsioni di abbuffarsi (per esempio: “mi merito di avere un momento di piacere come un’abbuffata”).

Il ciclo viene ulteriormente rafforzato quando i comportamenti di abbuffata riattivano e/o rinforzano ulteriormente le convinzioni positive e permissive, e le convinzioni negative sul non controllo dell’atto di mangiare abbuffandosi.

Charlie sembra giungere a un momento di critica e piena consapevolezza solo quando realizza di essere giunto a un punto di non ritorno; in una delle scene finali del film arriverà a esortare i suoi studenti a prendere contatto con i temi a loro più cari e dolorosi per poterli affrontare e a muoversi nel mondo con un atteggiamento autentico e non superficiale.

Lui stesso cerca una sorta di redenzione alla fine del film, provando a riallacciare il rapporto con la figlia, venendo in contatto con i propri temi di vulnerabilità: “I need to know that I have done one thing right with my life”.

Ellie, ed aspetti disfunzionali della personalità adolescenziale

Una malinconia terribile aveva invaso tutto il mio essere;
tutto destava in me sorpresa e mi rendeva inquieto. 

Fëdor Dostoevskij.

Ellie, è una sorta di figlia oscura, che si è rifugiata in questo aspetto della sua personalità nel corso del tempo, a causa del grande dolore e della rabbia che prova.

Introversa, appare chiusa rispetto le interazioni sociali e tendenzialmente caratterizzata dalla messa in atto di comportamenti simil antisociali, esiti di una rabbia mai esplorata.

Invitata dal padre a esercitarsi nella scrittura, riporterà uno stridente: “odio tutti”.

Il trauma vissuto da Ellie nel corso della sua infanzia, legato a un background familiare disfunzionale ed invalidante caratterizzato da un padre abbandonico e una madre alcolista, crea un disagio nell’armonico sviluppo della personalità della adolescente, che si manifesta con tratti di natura esternalizzanti.

Ellie manifesta apertamente il suo malessere, esibendo un atteggiamento manipolatorio, crudele ed apparentemente privo di alcun rimorso, come si evince da numerose scene del film.

Sia i disturbi esternalizzanti dell’infanzia e della adolescenza, che i disturbi di personalità, hanno dimostrato una eziopatogenesi di natura ‘’bio-psico-sociale’’.

Tra i fattori psicologici, alcuni teorici psicodinamici hanno originariamente attribuito grande importanza, per lo sviluppo dei disturbi della personalità, al fatto che l’individuo avesse ricevuto eccessiva o insufficiente gratificazione rispetto ai propri bisogni pulsionali (Fonagy et al., 2012).

Ellie dimostra di aver avuto un background familiare fertile per lo sviluppo di vulnerabilità in epoca infantile e adolescenziale; la combinazione di esperienze ambientali minacciose o confuse possono contribuire ad un’elaborazione imprecisa delle informazioni, ed all’attivazione estrema o alla frustrazione dei sistemi motivazionali, portando allo sviluppo di disturbi emotivi e/o comportamentali (Derryberry et al., 1997).

La psicopatologia dei genitori, e le pratiche di parenting non efficaci, sono altresì implicate nello sviluppo di simili disturbi. (Farrington et al., 2006; Paris et al., 2007; Butcher et al., 2018).

Il tratto esternalizzante del personaggio di Ellie è molto autentico in relazione alla sofferenza esperita, ed antitetico alla figura del romanzo di “Moby Dick”, da lei stessa commentato in un suo vecchio scritto: “And I felt saddest of all when I read the boring chapters that were only descriptions of whales, because I knew that the author was just trying to save us from his own sad story, just for a little while”.

Mary, e il disturbo da abuso d’alcol

Avevo l’odore misto di alcool e tanto amore andato a male.

Charles Bukowski

Mary, ex-moglie di Charlie, annega la sofferenza nell’alcol.

La donna ha sofferto di alcolismo, definito nel DSM-5 come “uso problematico di alcol”, malattia cronica, recidivante e potenzialmente mortale. È un disturbo caratterizzato dall’incapacità, da parte del bevitore, di astenersi dal consumare alcolici. Chi soffre di tale malattia, ha perso il controllo sulla sua abitudine al bere, sviluppando tolleranza. astinenza e dipendenza, e può andare incontro a problematiche di natura fisica, psicologica e sociale di grande rilievo.

Le principali cause dell’alcolismo, sono legate a fattori genetici, ambientali e psicologici.

L’alcol infatti, per le sue proprietà rilassanti, spesso viene utilizzato come “terapia impropria” da coloro che soffrono di forte stress, disturbi d’ansia, depressione o anche patologie psichiatriche più gravi come il disturbo ossessivo-compulsivo, la schizofrenia e il disturbo bipolare.

 Vivere all’interno di famiglie problematiche, situazioni sociali sfavorevoli, specie in concomitanza a traumi di vita acuti o cambiamenti esperiti come stressanti, può facilitare l’insorgenza del problema in persone predisposte dal punto di vista genetico e/o temperamentale (The American Psychiatric Association, 2014).

In questi casi, l’alcol può essere ricercato come terapia impropria per ridurre sintomi psicologici negativi, proprio come avviene per il personaggio di Mary.

Particolarmente sensibile è la scena del film in cui la donna si reca a casa di Charlie a seguito di esser venuta a conoscenza che la figlia era più volte stata da lui e, ormai distanti da anni, si confrontano circa le rispettive verità sofferte, perdendosi poi in un tenero abbraccio supportivo, liberatorio e carico di affetto.

Considerazioni conclusive

Il trauma può essere l’inferno sulla Terra, ma il trauma risolto è un viaggio eroico che appartiene a ognuno di noi.

Peter A. Levine.

“The Whale” rappresenta il soma ferito, “intossicato” dalla distorta conoscenza del reale, che ognuno vive e interpreta in base alla sua mente, i propri bisogni e risorse.

Film carico di spunti riflessivi, può essere percepito come un invito a prendere coscienza dei temi dolorosi personali, non soffocandoli, bensì affrontandoli.

Secondo Sassaroli, Caselli e Ruggiero (2016), la sofferenza psichica è strettamente legata a personali “Life Themes” (Temi di vita), stati mentali negativi vulnerabili organizzati in convinzioni automatiche di sé ed influenzati da esperienze percepite come intollerabilmente dolorose durante lo sviluppo personale; una gestione rigida dei “Life Themes”, attuata con comportamenti cristallizzati in strategie di evitamento, controllo e immunizzazione, come avviene per i personaggi di Charlie, Ellie e Mary, comporta inevitabilmente la rinuncia di significative aree di sviluppo personale e lo sviluppo di sofferenza psichica.

Come Charlie insegna ai suoi alunni, leggendo i loro scritti più personali, o quasi confessioni liberatorie, “sono queste le cose che contano”.

Affrontare i “Life Themes” attraverso un processo delicato, e molto spesso guidato, è una delle vie regie per potersi liberare dal peso di una sofferenza e ferita personale, al fine di riappropriarsi di una vita degna di essere vissuta in ogni sua sfumatura.

 

Ghosting e app di dating  

Nel corso degli ultimi anni il ghosting è diventato un fenomeno molto dibattuto anche da parte dei ricercatori e si riferisce alla decisione unilaterale di interrompere un contatto con un altro individuo, attraverso l’utilizzo di un mezzo tecnologico (Freedman et al., 2019)

Cos’è il ghosting?

 Nonostante venga descritta come una “nuova” modalità di rottura delle relazioni, potrebbe rientrare nelle strategie già esposte ampiamente in letteratura, definite di evitamento e di ritiro (Baxter, 1982).

Nella società contemporanea, a differenza delle strategie degli anni passati, il ghosting ha una maggior probabilità di verificarsi per via della comunicazione mediata attraverso l’utilizzo di social media o altre piattaforme, che permette di respingere molto più facilmente gli individui con cui si ritiene di non voler continuare ad avere una relazione. Un mezzo tecnologico particolarmente importante in questo contesto è rappresentato dalle mobile dating apps (MDAs), ovvero le app di incontri online; attraverso queste app è possibile connettersi e chattare con più persone, spesso sconosciute e non appartenenti alla rete sociale dell’individuo.

Le app di incontri online

La selezione degli individui sulle app di incontri si basa prevalentemente sulle foto postate dall’altro/a sul profilo. Questo, secondo alcuni ricercatori (Carpenter & McEwan, 2016; Timmermans & De Caluwé, 2017), potrebbe portare gli individui a vedere un incontro come un gioco o come una forma di divertimento, con conseguenze come una maggior distanza emotiva ed una minor volontà di investire nelle relazioni nate da incontri online.

Determinate ricerche (Fitzpatrick & Birnholtz, 2018) hanno rivelato che gli iscritti provano sentimenti contrastanti (di amore e odio) nei confronti delle app, che li portano ad eliminare spesso gli account; cancellandosi, gli utenti solitamente si discostano dalle conversazioni. Inoltre, Tinder, per esempio, permette di eliminare il match, che conseguentemente porta alla cancellazione dell’intera chat (Tinder, 2019).

Cosa provano gli individui che subiscono il ghosting?

Uno studio (Timmermans et al., 2021), esaminando le conseguenze che potrebbero derivare dal ghosting, ha riportato effetti sull’autostima e sulla fiducia negli altri. Infatti, sebbene il ghosting possa essere considerato appropriato in determinate situazioni, rimane una strategia di rottura delle relazioni e, essendo una forma di rifiuto, ha come conseguenza reazioni emotive e fisiche negative (Morris & Reiber, 2011).

Ciò che si è mostrato essere correlato ad un maggior malessere riguarda invece il numero di ghosting subiti, l’aver avuto un contatto diretto con l’individuo, la durata della frequentazione e l’avvenimento inatteso della rottura.

Sorprendentemente, l’aver avuto un rapporto sessuale con l’altro non è risultato essere correlato ad un maggior malessere; questo aspetto potrebbe essere dovuto alla “normalizzazione” dei rapporti sessuali occasionali ed alla conseguente riduzione delle aspettative di contatto successive ad un rapporto intimo (Wade, 2017).

 Nonostante ciò, lo studio ha anche riportato la messa in atto di strategie per fronteggiare al meglio il ghosting quali: la razionalizzazione dell’evento (vedendolo solo come una conseguenza dell’utilizzo delle app di dating), la modificazione delle aspettative nei confronti altrui e dell’investimento in termini di emozioni e di tempo in futuro, il cercare conforto condividendo l’esperienza di ghosting, cancellare l’app e astenersi da incontri online per un periodo di tempo.

Cosa porta gli individui a fare ghosting?

Lo studio condotto nel 2021 da Timmermans et al. ha descritto alcune motivazioni principali per cui gli individui ricorrerebbero al ghosting per interrompere una relazione. La prima si riferisce a cause riguardanti l’altro, quali caratteristiche personologiche o commenti sgraditi (razzisti, insistenti, irrispettosi). Tra questi rientrano anche motivazioni di auto-protezione rispetto ad atteggiamenti aggressivi, conseguenti ad una mancata accettazione della decisione da parte dell’altro di interrompere la relazione; infatti, le persone sensibili al rifiuto sembrerebbero reagire in maniera ostile ed aggressiva. Conseguentemente questi individui potrebbero essere più propensi allo sperimentare il ghosting rispetto ad altri.

Le altre motivazioni si sono viste essere riguardanti sé stessi; queste ultime includono paura di ricevere un rifiuto, mancanza di volontà di impegnarsi emotivamente in una relazione o paura che l’altro individuo volesse manipolarsi o cambiarli.

Si sono riscontrate anche motivazioni riguardanti la scelta del fare ghosting per motivi di facilità, per via del fatto di non sentirsi in dovere di dare spiegazioni all’altra persona o per evitare di ferire l’altro rifiutandolo in modo esplicito verbalmente.

Conclusione

In conclusione, il ghosting sembrerebbe essere una strategia ampiamente utilizzata, soprattutto sulle app di dating che, sebbene da un lato faciliterebbero il contatto di nuovi potenziali compagni, dall’altro ne permetterebbero anche l’allontanamento attraverso il ghosting, che si è visto essere la strategia di rifiuto più “semplice” per molteplici motivi.

 

Vissuti emotivi e fatiche del caregiver: il fenomeno del burden

Con caregiver s’intende colui che fornisce cure a un familiare bisognoso di assistenza. Che si rivolga ad anziani o a disabili, il caregiver riveste un ruolo carico di responsabilità e vissuti emotivi che, se trascurati, possono portare al burden, ossia a un vero e proprio disagio psicofisico.

Chi è il caregiver

 Il caregiver è letteralmente colui che “si prende cura” delle persone che, avendo subito una diminuzione o una perdita di autonomia in seguito a una malattia, necessitano di assistenza.

Ad oggi vengono ufficialmente riconosciute due figure di caregiver:

  • Caregiver formale, che è una figura professionale specializzata nella cura del malato e che si occupa di assistenza domiciliare privata sotto compenso della famiglia (come gli operatori socio-sanitari o le badanti);
  • Caregiver informale, che può essere un qualsiasi parente del malato (nella maggior parte dei casi, i figli) che si assume la responsabilità di prendersi cura del familiare bisognoso di assistenza.

Solo nel 2017 la Legge Finanziaria ha inserito nell’Ordinamento Italiano la figura del caregiver familiare, qualificandola per la prima volta dal punto di vista giuridico e, così, riconoscendo l’attività di cura non professionale nel suo enorme valore morale, sociale ed economico. Farne una statuizione giuridica, tuttavia, non basta a garantire la salute degli stessi caregiver che, caricati di ruoli e responsabilità assistenziali, in molti casi sentono significativamente compromessa la loro qualità di vita.

I vissuti emotivi dei caregiver

Nel tentativo di approfondire i complessi vissuti emotivi dei caregiver, sarà opportuno fare riferimento alle due più diffuse forme di assistenza familiare al malato, di seguito approfondite.

Genitore anziano affetto da demenza senile

Secondo gli studi, circa l’80% delle persone affette da demenza senile in Italia è attualmente assistita a domicilio dai familiari. La cura a casa, tuttavia, non è semplice, perché si instaura su dinamiche complesse legate a comunicazioni consce e inconsce che strutturano l’identità familiare. Tale situazione può rivelarsi gravosa per i familiari che se ne assumono il carico, soprattutto per i soggetti particolarmente ansiosi che tendono ad attribuirsi interamente la responsabilità dell’assistenza. In alcuni casi, l’eccessiva dedizione alla cura finirebbe per essere controproducente, relegando il proprio caro a una condizione regressiva e infantilizzante dove è privato delle sue autonomie residue.

Quando si arriva al punto in cui la sofferenza dell’ambiente domestico è tale da non poter più trarre beneficio da un intervento auto-gestito, si attivano delle forze repulsive che fanno del ricovero l’unica soluzione possibile.

Figlio con disabilità

Essere caregiver di un figlio disabile comporta innegabilmente più oneri, perché i genitori si trovano a dover fornire un’assistenza quotidiana e continuativa e a fare i conti con il dolore di vedere il proprio figlio in difficoltà. Gli stati d’animo che spesso riportano sono rabbia, senso di colpa, tristezza, vergogna e invidia.

Spesso la rabbia è motivata dall’impotenza e dalla non accettazione della disabilità, al punto che alcuni genitori riferiscono di temere di perdere il controllo con agiti aggressivi nei confronti del figlio. Il senso di colpa è spesso legato alla sensazione di inefficacia e alla remota credenza di aver provocato un danno al figlio. La tristezza viene esperita in una dimensione luttuosa dove il genitore ammette a se stesso il dispiacere di non poter vivere la genitorialità ideale che si era immaginato. La vergogna si giustifica in relazione alle situazioni in cui la disabilità del figlio si palesa agli occhi degli altri, di cui si temono i pregiudizi. Infine, l’invidia deriva dal confronto con le altre famiglie, delle quali si tendono ad esaltare le risorse e le “normalità”.

Quando il carico diventa eccessivo: il burden

Con “burden” si fa riferimento all’insieme delle conseguenze oggettive e soggettive, fisiche e psicologiche, correlate alla presenza e cura di un familiare affetto da una malattia grave o cronica. Si tratta della risposta di stress del caregiver e della famiglia in seguito alla sofferenza psicofisica di un suo membro. Il carico percepito dal caregiver si esprime su vari fronti:

  • Carico oggettivo, che riguarda il tempo che il caregiver dedica all’attività assistenziale;
  • Carico evolutivo, che riguarda il sentirsi escluso rispetto alle aspettative e alle opportunità di vita dei propri coetanei a causa degli oneri assistenziali;
  • Carico fisico, associato alle ripercussioni fisiche date dall’assistenza (fatica, insonnia, stanchezza);
  • Carico sociale, che considera la percezione interna di un conflitto di ruolo in ambito familiare o lavorativo ed eventuali conflitti emersi col resto della famiglia;
  • Carico emotivo, associato agli stati d’animo sopra raccontati.

Secondo la letteratura, non tutti i caregiver avrebbero lo stesso rischio di sviluppare i sintomi del burden. Alcune differenze individuali influenzerebbero la capacità di tollerare la pesantezza del carico assistenziale:

  • Il nevroticismo sarebbe correlato a minore flessibilità al cambiamento, e dunque a maggior rischio burden;
  • L’estroversione porterebbe a maggior benessere generale, minori sintomi fisici e maggiore ricerca di sostegno sociale;
  • La percezione di autoefficacia incrementerebbe la sensazione di utilità personale;
  • La resilienza sarebbe legata a una maggiore capacità di accettazione della malattia e a una maggiore fiducia in se stessi e nelle proprie competenze a fornire assistenza;
  • La capacità di esprimere i propri vissuti emotivi ad altri significativi diminuisce il rischio depressivo;
  • L’utilizzo di strategie di coping efficaci, come il problem solving, l’accettazione e il coping religioso, aiuterebbe a fronteggiare più serenamente i compiti assistenziali.

L’importanza del supporto psicologico e sociale

Spesso i caregiver sono stati definiti le seconde vittime nascoste della malattia, dato che finiscono per sperimentare esaurimento vitale senza essere sufficientemente visti, riconosciuti e aiutati. La possibilità di fornire supporto psicologico e sociale a queste persone diviene allora una questione urgente. Alcuni interventi preventivi possono aiutare a monitorare le loro condizioni psicofisiche, offrendo supporti adeguati a ridurre il carico soggettivamente percepito; parallelamente, gruppi di mutuo-aiuto coordinati da uno psicologo potrebbero essere utili ai caregiver per sentirsi accolti, contenuti e accompagnati nell’elaborazione del ruolo di cura. Del resto, la presenza di sostegno sociale costituisce un fattore protettivo capace di contrastare l’isolamento e migliorare l’umore del caregiver, favorendo la cosiddetta crescita post-traumatica: i caregiver che riconoscono il proprio valore in quanto tali, percependosi utili e necessari, sono in grado di dare un senso alla vita che stanno conducendo e tollerare meglio le frustrazioni riconducibili al malato.

Lo psicologo in Unità Spinale

L’Unità Spinale è una struttura specializzata nella riabilitazione di pazienti con lesioni al midollo spinale. Il ruolo dello psicologo in queste unità è fondamentale per la riabilitazione e il supporto psicologico dei pazienti, favorendo il recupero funzionale, la gestione emotiva e l’autonomia. Inoltre, offre supporto psicologico anche ai familiari e al personale sanitario.

 

 In Italia sono circa 85 mila le persone con lesione al midollo spinale, con un’incidenza di circa 2.500 nuovi casi all’anno, di questi i due terzi hanno un’età inferiore ai 60 anni. Ma a fronte di una domanda di ricoveri che si aggira intorno ai 2.500, sia in fase acuta che in fase di secondo ricovero, l’offerta sanitaria rimane scarsa, con circa 400-500 posti letto qualificati sull’intero territorio nazionale (INAIL, 2011; Quotidiano Sanità, 2016).

Data la specificità e complessità della gestione di pazienti con questo tipo di patologia, la Società di Psicologia della Lesione Spinale, con la collaborazione di alcuni Ordini Regionali e il confronto di esperti nazionali e internazionali, come il Dottor Paul Kennedy, presidente della European Spinal Psychologists Association, ha stabilito le Linee Guida per l’intervento psicologico nell’Unità Spinale. Tali Linee Guida sono esito dell’esperienza professionale di psicologi impegnati nella riabilitazione di pazienti con lesione midollare in fase acuta, ovvero la fase immediatamente successiva all’evento lesivo (per esempio, incidente stradale o sul lavoro). È proprio in questa fase che è di fondamentale importanza riconoscere e affrontare tempestivamente le sfide psicologiche emergenti e attivare strategie di adattamento.

Implicazioni della lesione spinale

Una lesione spinale si verifica quando c’è un danno al midollo spinale, che consiste in un’interruzione del passaggio delle informazioni lungo le vie nervose che vanno dal centro alla periferia e viceversa; questo genera la perdita di funzioni al di sotto del punto in cui è presente la lesione.

A seconda della gravità e della posizione della lesione, possono verificarsi diverse condizioni.

  • La tetraplegia si verifica quando il movimento di tutti e quattro gli arti è compromesso a causa della lesione spinale. Questo può comportare la perdita delle funzioni motorie e sensoriali degli arti superiori e inferiori. Nel caso di tetraplegia grave, la respirazione autonoma può essere completamente compromessa e la sopravvivenza dipenderà dall’uso di un respiratore artificiale.
  • La paraplegia si verifica quando il movimento degli arti inferiori è compromesso a causa della lesione spinale. In questo caso, la persona avrà difficoltà o impossibilità di muovere le gambe.

La gravità, l’estensione e il tipo di lesione (completa o incompleta), insieme alle caratteristiche individuali, influenzano le conseguenze specifiche della lesione spinale. Ogni persona affetta da lesione spinale può presentare una combinazione unica di sintomi e disabilità.

In alcuni casi, la lesione spinale può anche compromettere le funzioni viscerali e il controllo degli sfinteri, portando a problemi di incontinenza e richiedendo l’utilizzo di manovre speciali per l’evacuazione della vescica e dell’intestino. Questo può causare una grande sofferenza e richiede adattamenti e riabilitazione che coinvolgono non solo la persona stessa, ma anche le sue relazioni familiari, poiché spesso è un familiare a svolgere il ruolo di caregiver.

Anche la sessualità può essere compromessa, creando implicazioni emotive e relazionali significative nella vita delle persone colpite.

Inoltre, il dolore è spesso presente e il dolore neuropatico, una forma di dolore cronico correlato alla lesione spinale, può seriamente compromettere la qualità della vita delle persone interessate.

Il danno al midollo spinale porta a cambiamenti biologici, psicologici e sociali sconvolgenti e drammatici. Le persone affette da questa condizione vivono una frattura a livello anatomico, psicologico e temporale, con una percezione alterata di sé stessi.

È importante sottolineare che ogni lesione spinale è unica e, insieme alle caratteristiche individuali, può comportare una vasta gamma di conseguenze fisiche, emotive e sociali che variano appunto da persona a persona.

Cos’è l’Unità Spinale

L’Unità Spinale è un tipo di struttura, presente in alcuni ospedali, altamente specializzata nella riabilitazione, che accoglie persone che hanno subito una lesione spinale. Questa struttura è composta da un team di professionisti provenienti da diverse discipline, come medici, infermieri, fisioterapisti, terapisti occupazionali, educatori, assistenti sociali e psicologi. Nonostante le evidenze scientifiche che dimostrano l’importanza dei fattori sociali nella riabilitazione di queste persone, le Unità Spinali si concentrano molto sul modello medico, focalizzato sugli aspetti biologici e fisici delle malattie. In questa prospettiva, l’idea di base è che le malattie siano principalmente causate da fattori biologici e che la guarigione avvenga attraverso l’intervento diretto sul corpo (con farmaci o interventi chirurgici). Questo approccio potrebbe non considerare in modo approfondito gli aspetti psicologici, sociali o ambientali che possono influenzare la salute di una persona. Ecco perché le conoscenze e l’intervento dello psicologo sono importanti nell’équipe multidisciplinare coinvolta nella gestione di questo tipo di pazienti, date le implicazioni complesse descritte precedentemente.

Le Unità Spinali sono state istituite in Italia con un decreto ministeriale nel 1988, ma attualmente sono presenti in modo limitato nel territorio nazionale, soprattutto nelle regioni del Centro e del Nord. Questo significa che molti pazienti devono spostarsi in altre località per ricevere cure e riabilitazione.

A causa della limitata presenza di queste strutture, non esistono dati epidemiologici nazionali aggiornati sulla lesione spinale.

Il ruolo dello psicologo in Unità Spinale

Innanzitutto, la formazione professionale dello psicologo è essenziale per lavorare in Unità Spinale, poiché richiede competenze specifiche, come le conseguenze neurobiologiche della lesione (per esempio, il dolore e le possibili compromissioni), nell’incontro con persone sofferenti e spesso spaventate da questa diagnosi.

Il ruolo dello psicologo è parte integrante del lavoro cooperativo di un team di professionisti che ha l’obiettivo di sviluppare un progetto terapeutico personalizzato che tenga conto delle condizioni fisiche, psicologiche e socio-familiari del paziente con lesione midollare. Questo progetto mira a promuovere l’autonomia del paziente e il recupero delle sue abilità nella vita di tutti i giorni –laddove possibile–, nonché la ricostruzione di una nuova identità personale.

Lo psicologo ha autonomia professionale all’interno del sistema sanitario nazionale e si assume la responsabilità del progetto terapeutico. Ha la libertà di scegliere i metodi, le tecniche e gli strumenti psicologici da utilizzare, e si occupa dell’uso, delle valutazioni e delle interpretazioni degli strumenti utilizzati. L’autonomia professionale viene esercitata in collaborazione con gli altri professionisti dell’équipe.

Lo psicologo prende in carico tutti i pazienti con lesione midollare, contribuendo con le sue osservazioni e analisi al progetto di riabilitazione individuale. Questo coinvolgimento è cruciale data la delicatezza e la complessità della situazione. Lo psicologo si mette in contatto con i Servizi di Psicologia del Territorio per condividere il progetto terapeutico con il paziente e, se presenti, i familiari, tenendo conto dei rischi clinici.

Una raccomandazione importante è che lo psicologo si occupi di prendere in carico tutti i pazienti. Inoltre, si suggerisce che lo psicologo faccia parte degli Organi Collegiali ed Istituzionali, mettendo a disposizione le proprie competenze per valutare il servizio offerto e contribuire al miglioramento dell’assistenza.

Il compito dello psicologo in Unità Spinale

Il compito dello psicologo nell’Unità Spinale è di contribuire al processo di riabilitazione e sostegno psicologico dei pazienti con lesione midollare, favorendo il recupero funzionale, la gestione emotiva e la promozione dell’autonomia. Per assolvere questo compito lo psicologo si occupa di molti aspetti, quelli essenziali sono descritti di seguito.

  • Diagnosi psicologica. Lo psicologo osserva e valuta il paziente per comprendere i meccanismi che influenzano il suo benessere e scegliere il trattamento più adatto. Utilizza strumenti come osservazione clinica, colloqui e test psicodiagnostici.
  • Comprensione dei bisogni del paziente. Lo psicologo aiuta a comprendere i bisogni individuali del paziente e dei suoi familiari, contribuendo alla definizione di obiettivi a breve, medio e lungo termine per il recupero e la partecipazione attiva alla vita quotidiana.
  • Valutazione e monitoraggio dei meccanismi di difesa. Lo psicologo valuta come il paziente affronta lo stress e identifica le strategie di coping disadattive che possono emergere, aiutando a individuare e sviluppare strategie adattive.
  • Sostegno nell’elaborazione del cambiamento. Lo psicologo supporta il paziente nel processo di adattamento alla nuova situazione, prevenendo o contenendo la comparsa di risposte patologiche, come sintomi depressivi o ansiosi.
  • Valutazione della necessità di consulenza psichiatrica e neuropsicologica. In collaborazione con il medico, lo psicologo valuta se è necessaria una consulenza da parte di uno psichiatra o di un neuropsicologo, specialmente in casi di situazioni complesse (per esempio, compromissione dell’esame di realtà o sintomi dissociativi) o di disturbi mentali precedenti (come dipendenza da sostanze).
  • Comprensione e gestione del dolore. Lo psicologo analizza l’esperienza del dolore e valuta i possibili fattori coinvolti. Contribuisce a individuare strategie di gestione del dolore, a mitigare gli effetti negativi sul benessere psicologico e le relazioni interpersonali del paziente.
  • Lavoro sulle parti sane e adattamento. Lo psicologo sostiene le parti sane del paziente, promuovendo la resilienza e l’adattamento. Aiuta a mantenere un buon funzionamento psicologico e sociale nonostante la lesione.
  • Promozione dell’autonomia. Lo psicologo individua e promuove attività e strategie per favorire l’autonomia del paziente, contribuendo al suo processo di recupero e integrazione nel quotidiano.

In aggiunta, lo psicologo deve occuparsi della documentazione clinica che gli compete, ovvero aggiornare la cartella clinica e il protocollo di colloqui/interventi. Questo è importante poiché facilita lo scambio di informazioni cliniche con gli altri professionisti. La cartella clinica è uno strumento di lavoro e documentazione a cui tutti gli operatori sanitari hanno accesso. Contiene informazioni importanti sull’intervento e note utili per l’assistenza. Il protocollo di colloqui/interventi è gestito dal professionista e vincolato al segreto professionale; infatti, le modalità di condivisione e conservazione delle informazioni seguono comunque le norme del codice deontologico dello psicologo.

Nella professione dello psicologo è inclusa anche la ricerca clinica. Lo psicologo promuove e partecipa a specifiche attività di ricerca per approfondire la comprensione dell’impatto degli eventi, dei processi di adattamento e dei percorsi riabilitativi.

L’intervento dello psicologo in Unità Spinale

Nell’ambito dell’Unità Spinale, lo psicologo svolge diversi interventi per aiutare i pazienti, i loro familiari e gli operatori ad affrontare la situazione. Si opera nella direzione di individuare e sostenere le parti sane, identificando le risorse e le capacità resilienti del paziente e della sua famiglia. Lo psicologo contribuisce anche all’organizzazione dell’Unità Spinale, considerando l’evoluzione delle pratiche di cura e l’acquisizione di nuove tecnologie.

 Nell’intervento con il paziente, il primo passo è raccogliere informazioni attraverso colloqui esplorativi con lui e, se necessario, con i familiari. Successivamente, attraverso il lavoro clinico, lo psicologo analizza le caratteristiche personologiche del paziente e cerca di capire come si sta adattando alla lesione midollare. L’obiettivo principale è aiutare il paziente ad adattarsi al cambiamento nella sua vita e a gestire eventuali problemi emotivi o psicologici che potrebbero sorgere a causa della lesione spinale. Lo psicologo tiene conto di diverse variabili, come l’età del paziente, la gravità della lesione, la situazione psicologica precedente, l’ambiente sociale e familiare, le influenze culturali e religiose. L’approccio e l’intervento psicologico possono variare da paziente a paziente, in base alle sue reazioni e capacità di adattamento, e devono considerare anche la resistenza al cambiamento e le strategie di coping disfunzionali che il paziente potrebbe mettere in atto dopo il trauma o dopo la comunicazione della diagnosi e prognosi.

Lo scopo finale dell’intervento psicologico è aiutare il paziente a ottenere il miglior adattamento possibile alla sua nuova realtà, compreso il periodo di degenza ospedaliera.

Nelle lesioni midollari, il tema della sessualità e della funzione sessuale richiede particolare attenzione, poiché possono verificarsi cambiamenti significativi nella sensibilità e nella funzionalità sessuale. In questi casi, lo psicologo può collaborare con specialisti come l’andrologo, il ginecologo o il sessuologo per fornire un supporto adeguato.

Lo psicologo si occupa anche dei familiari e dei caregiver del paziente, che giocano un ruolo importante nel processo di recupero, poiché anche loro possono essere emotivamente colpiti dall’evento traumatico e devono affrontare i cambiamenti che la lesione spinale comporta nella vita del loro caro. Perciò, lo psicologo offre sostegno ai familiari attraverso colloqui, aiutandoli a elaborare le proprie emozioni e ad affrontare le sfide che la lesione spinale comporta. L’obiettivo è quello di creare un ambiente familiare accogliente, facilitante e positivo per il paziente durante il percorso riabilitativo. Può organizzare incontri di gruppo per i familiari, dove possono condividere le proprie esperienze, ricevere supporto reciproco e ottenere informazioni specifiche sulla lesione midollare.

Di solito, vi è una buona accoglienza al colloquio con lo psicologo da parte del paziente e dei familiari, diventando un punto di riferimento importante nella routine dell’Unità Spinale.

Riguardo l’intervento con gli operatori sanitari, lo psicologo contribuisce alla crescita di un atteggiamento psicologico adeguato dell’équipe multidisciplinare, aiutandoli a comprendere e affrontare i problemi di vita quotidiana dei pazienti e dei loro familiari, prevenendo complicanze e facilitando l’adattamento alla nuova realtà. Si presta attenzione alle risposte emotive degli operatori per evitare conflitti nell’ambiente di lavoro. Lo psicologo fornisce momenti di ascolto, analisi ed elaborazione delle esperienze degli operatori per mantenere un ambiente di lavoro funzionale e promuove anche momenti di formazione.

Si raccomanda sempre di includere l’intervento psicologico fin dalla fase acuta della lesione midollare, considerando diverse variabili e fornendo sostegno non solo ai pazienti e ai familiari, ma anche agli operatori sanitari, per favorire un lavoro efficace in equipe.

In conclusione, la presenza di queste Linee Guida sottolinea la necessità dell’adozione di una prospettiva biopsicosociale di cura e, per questo, l’importanza cruciale degli psicologi nelle Unità Spinale per la cura delle persone che hanno subito danni al midollo spinale. Questi professionisti offrono sostegno emotivo e aiutano i pazienti e le loro famiglie a gestire le sfide legate alla loro condizione complessa e delicata, promuovendo la loro autonomia e il loro adattamento al cambiamento.

Neuropsicologia delle psicosi (2023) di Severin, Prior e Sartori – Recensione

Il volume “Neuropsicologia delle psicosi. Modelli e interventi cognitivi” è suddiviso in due parti: come recita il sottotitolo, la prima è dedicata ai modelli teorici e la seconda agli interventi specifici nel complesso ambito dei disturbi cognitivi nel paziente psicotico.

 

 Si inizia con un breve capitolo introduttivo dove sono riportati gli essenziali cenni storici sugli studi relativi alla schizofrenia, a partire da Kraepelin nell’Ottocento, per giungere a presentare i sintomi e i criteri diagnostici attuali per la schizofrenia, secondo il DSM-5.

Nel capitolo successivo viene descritto il modello neuropsicologico, dando spazio all’analisi dei disturbi cognitivi nel paziente schizofrenico, nella consapevolezza che l’alterazione cognitiva presente in tale patologia è molto più invalidante dei sintomi positivi.

Dal terzo capitolo si entra nel vivo dell’analisi dei disturbi cognitivi maggiori, suddivisi in: memoria, attenzione, linguaggio e aspetti comunicativi, percezione visuo-spaziale, intelligenza, con il confronto tra gravità clinica e quoziente intellettivo, e funzioni motorie, ove possono comparire un’eterogeneità di deficit. In queste pagine sono anche presentati i principali modelli, sia neuro-anatomici che cognitivi, che hanno provato a dare una spiegazione scientifica dei sintomi presenti nella schizofrenia. Dal punto di vista neuro-anatomico la schizofrenia è stata studiata sia come alterazione del sistema fronto-striato talamico che come alterazione del sistema fronto-temporale, mentre tra i modelli cognitivi sono citati quelli di Cohen e soprattutto quello di Frith, a cui è dedicato un paragrafo.

Si passa poi alla descrizione dei modelli che prendono in esame la teoria della mente applicata al disturbo psicotico. Con questa espressione si fa riferimento alla capacità cognitiva di rappresentare gli stati mentali propri e altrui, oltre che la capacità di attribuire pensieri, emozioni, intenzioni e credenze agli altri, andando oltre le spiegazioni personali. Come è noto, anche la comprensione delle metafore e dell’ironia possono risultare spesso compromesse in tali pazienti, ma pare che non vi sia correlazione neuro-cognitiva accertata tra queste due diverse competenze.

Infine, un capitolo è dedicato all’utilizzo delle moderne tecniche di brain imaging che consentono, in questa e in altre situazioni cliniche, non solo di approfondire le basi neuronali della malattia, ma anche di comprendere molto meglio quali aree cerebrali siano danneggiate. Comunque, nonostante i promettenti risultati già ottenuti, siamo tuttora lontani da una piena comprensione dei fattori neuro-anatomici della malattia, anche se è lecito attendersi dai progressi nell’ambito del neuroimaging, contributi significativi per una migliore comprensione della patologia, anche per proporre più adeguate strategie di trattamento.

 La seconda parte del volume è invece dedicata alla descrizione dei training specifici per i pazienti affetti da tale patologia psichica, suddivisi in training cognitivi e meta-cognitivi. Gli autori del testo concordano con un orientamento, ormai largamente condiviso, secondo cui è indispensabile affiancare alle terapia farmacologiche, solo parzialmente efficaci, programmi riabilitativi volti a migliorare non solo le performance cognitive ma anche la qualità globale della vita quotidiana dei pazienti.

Gli interventi cognitivi sono divisi in due tipologie principali: compensatori, focalizzati sul mettere in risalto le abilità residue, e riparativi o ristorativi, che mirano alla correzione delle disfunzioni cognitive, mediante esercizi che poggiano anche sul concetto più recente di “plasticità neurale”. Particolare e esteso spazio viene dato alla descrizione del Training Metacognitivo elaborato da Morit e Wooward nel 2007 e appositamente disegnato per i pazienti schizofrenici. Esso si attua mediante sessioni di gruppo in quanto il confronto, sia con i pari che con gli operatori, si rivela un fattore essenziale in tale procedura. La metodologia è costruita in 8 moduli che affrontano le principali distorsioni cognitive che si riscontrano in tale quadro clinico.

In sintesi, il volume è scritto in modo estremamente chiaro e comprensibile, fornendo un’agile panoramica d’insieme sullo stato dell’arte nell’ambito neuropsicologico dello studio delle psicosi. Estesa la bibliografia, sebbene siano davvero pochissimi i riferimenti ad autori italiani. Ovviamente, chi volesse approfondire questo specifico settore di studio, dovrà ampliare le proprie letture, anche a partire dai riferimenti teorici presenti nel testo.

 

Effetto Spotlight: il bias egocentrico

L’Effetto Spotlight può farci riflettere su come noi esseri umani siamo tutt’altro che lineari e razionalmente impeccabili nelle nostre valutazioni della realtà, la percezione che abbiamo di noi stessi può essere notevolmente dissimile rispetto a quella che gli altri hanno di noi.

L’Effetto Spotlight

 È oramai risaputo che noi esseri umani siamo piuttosto ambigui e contraddittori, protagonisti di fenomeni e situazioni costellate dalle più curiose opposizioni e paradossi. A tal proposito, negli ultimi anni è stato identificato un fenomeno al quale gran parte delle persone sono soggette e che presuppone la compresenza di due aspetti apparentemente contrastanti: una scarsa autostima e il sentirsi al centro dell’universo. Si tratta del cosiddetto Effetto Spotlight, un meccanismo per cui inconsciamente e in maniera del tutto innata siamo portati a sopravvalutare il grado di attenzione e di giudizio che le altre persone rivolgono al nostro aspetto fisico e al nostro comportamento (Gilovich, Medvec e Stavistky, 2000). Il nome dell’effetto, letteralmente tradotto con “effetto riflettore”, è in grado di rendere al meglio la soggettiva sensazione di sentirsi “socialmente” esposti e vulnerabili che lo contraddistingue.

È capitato a tutti di entrare in una stanza con altre persone e iniziare a pensare di avere tutti gli occhi puntati addosso o di credere che queste stessero parlando o ridendo proprio di noi, no? Ecco, è proprio questo l’Effetto Spotlight, e ci inganna tutti quanti. In realtà infatti – spoiler – siamo noi per primi a focalizzarci sui nostri difetti, insicurezze e difficoltà, e così ci convinciamo che anche gli altri vedano solo quelle quando in realtà anche loro stanno in primis prestando attenzione a sé stessi piuttosto che a noi. Ci sentiamo quindi osservati, sotto i riflettori e di conseguenza giudicati anche quando questo in realtà non accade e il riflettore ci illumina molto meno di quanto pensiamo.

Sull’Effetto Spotlight venne condotto un interessante esperimento presso la Cornell University negli Stati Uniti che consisteva nel chiedere ad un gruppo di partecipanti di indossare per un giorno una maglietta ritenuta da loro imbarazzante e calcolare il numero di persone che, a loro avviso, avevano notato quell’indumento ridicolo. Sarebbe poi stato fatto un sondaggio anche tra gli osservatori in modo da verificare l’effettivo livello di accuratezza delle risposte dei partecipanti.

I risultati furono sorprendenti e testimoniarono l’esistenza dell’effetto riflettore: la percezione che abbiamo di noi stessi può essere notevolmente dissimile rispetto a quella che gli altri hanno realmente di noi. Molti partecipanti, infatti, si sbagliarono significativamente e sovrastimarono abbondantemente il numero di persone che, secondo loro, li aveva notati con indosso la maglietta bizzarra.

Secondo gli esperti l’Effetto Spotlight deriva da un meccanismo di ancoraggio-e-aggiustamento e si origina per via di un “bias egocentrico” che ci porta ad attribuire un’eccessiva importanza alle nostre azioni poiché, siccome l’essere umano è essenzialmente al centro del proprio mondo, tende a sentirsi anche al centro dei mondi altrui.

Realismo ingenuo e Illusione della trasparenza

Inevitabilmente correlati e complementari a questo effetto vi sono altri due interessanti fenomeni. Il primo è il “Realismo ingenuo”, il quale consiste nel credere che vi sia una completa coincidenza tra il mondo così com’è e il mondo come noi lo percepiamo (realtà percettiva), con conseguente tendenza a credere che chi non ha la nostra stessa percezione sia irrazionale, disinformato o animato da pregiudizi. In riferimento all’Effetto Spotlight questo si potrebbe tradurre nel non contemplare la potenziale eventualità per cui le persone potrebbero non essere così focalizzate su di noi tanto quanto pensiamo.

Il secondo fenomeno, invece, è la cosiddetta “Illusione della trasparenza”, con la quale sopravvalutiamo la capacità delle persone di riconoscere con facilità i pensieri e le emozioni che proviamo, convinti che siano più visibili e per l’appunto trasparenti di quanto siano in realtà. In relazione all’effetto riflettore, quindi, ci convinciamo che le persone notino il nostro disagio quando mostriamo un nostro difetto o un elemento che ci crea imbarazzo e insicurezza.

Insomma, noi esseri umani siamo tutt’altro che lineari e razionalmente impeccabili nelle nostre percezioni e nelle valutazioni della realtà e delle situazioni che viviamo.

 Prendere consapevolezza dell’esistenza di questo fenomeno è molto importante poiché, a livello individuale, esso ha rilevanti implicazioni per la salute mentale. Chi è soggetto a questo bias in maniera particolarmente accentuata, infatti, può sviluppare pensieri molto rigidi sulla sua persona, con conseguenti aspettative e standard eccessivamente elevati sulle proprie performance uniti a una grande paura di fallire e di non riuscire a colpire positivamente le altre persone. Sforzarsi di proiettare sempre la migliore immagine di sé stessi, se da un lato è un ottimo stimolo a impegnarsi e a dare sempre il massimo, dall’altro purtroppo rende il soggetto in questione estremamente dipendente dall’opinione e dal giudizio altrui.

Effetto spotlight e ansia sociale

Coloro che soffrono di fobia sociale, poi, tendono con ulteriore facilità a sentirsi “sotto i riflettori” e a sviluppare credenze molto negative su sé stessi, costruendo standard di performance così elevati da essere praticamente irraggiungibili, e arrivando a dubitare delle proprie capacità di comunicare agli altri un’impressione positiva di sé stessi.

Le credenze disfunzionali possono quindi giocare un ruolo cruciale per la nostra salute psichica, ed è per questo che diverse strategie di de-biasing sono oramai parte integrante di molte terapie come ad esempio la terapia cognitivo-comportamentale, la quale si pone come primario obiettivo quello di identificare e correggere le concettualizzazioni distorte e di monitorare i pensieri negativi ricorrenti per sostituirli con interpretazioni cognitive maggiormente orientate alla realtà della situazione.

Dunque, dal momento che ognuno di noi fa dei propri pensieri, delle proprie sensazioni e della propria mente la principale misura di riferimento delle proprie esperienze, è facile rischiare erroneamente di dare per scontato che ciò che è saliente e importante per noi lo sia automaticamente anche per gli altri.

Prendere consapevolezza dell’esistenza dell’effetto Spotlight e delle insidie che esso può generare quando prende eccessivamente il sopravvento nella nostra vita può essere un primo grande passo per rafforzarci e invitarci a preoccuparci un po’ meno dei nostri difetti e delle nostre insicurezze imparando gradualmente ad affrontarli e ad accettarli, con un conseguente miglioramento della nostra autostima, della nostra salute mentale e della nostra quotidianità, a partire dalle più piccole azioni e abitudini.

Gamification: applicazione e implicazioni cliniche 

Con il termine gamification si intende l’applicazione di elementi tipici del gioco in ambiti non ludici. La gamification è diventata uno strumento nell’ambito di ricerca sulla salute per la sua potenziale capacità di motivazione al cambiamento. Infatti, il gioco per definizione è caratterizzato da un obiettivo da raggiungere seguendo determinate regole, tramite la partecipazione attiva del giocatore. La letteratura ha evidenziato come, nell’ambito sanitario digitale (e-Health), la gamification venga impiegata soprattutto per la riabilitazione di patologie croniche, e più in generale per l’incremento dell’attività fisica e della salute mentale.

Introduzione al concetto di gamification

 I giochi hanno la capacità di coinvolgere e motivare le persone che ne fa fanno uso e, proprio per questo, negli ultimi anni si è diffuso un nuovo ambito di applicazione, non più puramente ludico e di intrattenimento. Con il termine gamification si intende l’applicazione di elementi tipici del gioco in ambiti non ludici (Cheng et al., 2019). Questo concetto è tendenzialmente legato all’ambito dei serious games, ovvero i videogiochi sviluppati per uno scopo che non implichi soltanto il divertimento dei giocatori (Micheal & Cheng, 2005). Negli ultimi anni, il fenomeno ha attirato l’attenzione della comunità di ricerca sulla salute, per la sua potenziale applicazione in quest’ambito, grazie alla sua capacità di motivazione al cambiamento (Cugelman, 2013). Infatti, la caratteristica fondamentale dei serious game è proprio la capacità di coinvolgere e motivare in attività che non siano di puro intrattenimento (Ricciardi & Paolis, 2014).

La componente ludica è comunque sempre presente e funge da spinta motivazionale. Essa può essere applicata a svariati contesti di riferimento come, per esempio, la guida sicura, le fobie, la sensibilizzazione all’ecologia, l’incitamento a uno stile di vita meno sedentario. Ad oggi, lo studio dei meccanismi alla base della gamification è ancora in via di sviluppo ma in letteratura è stato evidenziato come il meccanismo cardine sia proprio la motivazione: sfide da superare, regole da seguire, progressi da monitorare, feedback basati sui punteggi e classifiche (Cugelman, 2013) sono tutti elementi che motivano l’utente a continuare il gioco tramite partecipazione attiva (Dominguez et al., 2013), fino al raggiungimento dell’obiettivo, che implicherà un rinforzo positivo (Schunk et al., 2010).

Applicazione in ambito clinico

In ambito clinico, la gamification è una tecnica utilizzabile nei training cognitivi e costituisce un’alternativa alla riabilitazione tradizionale, poiché implica un maggior coinvolgimento e una maggior spinta motivazionale. In ambito riabilitativo, il training cognitivo è un programma basato su esercizi mentali, che mirano a sviluppare diverse facoltà cognitive, come la memoria, e possono essere individuali o di gruppo (Clare & Woods, 2004). Un ambito di applicazione risulta essere quello dei disturbi neurocognitivi. Infatti, la letteratura ha evidenziato numerosi benefici dovuti all’applicazione di queste strategie di training: aumento della capacità e delle prestazioni a carico della memoria lavoro, sviluppo di nuove strategie mnemoniche, miglioramento della velocità di elaborazione delle informazioni e delle funzioni esecutive.

Inoltre, la letteratura mostra come, nell’ambito sanitario digitale (e-Health), la gamification venga impiegata soprattutto per la riabilitazione di patologie croniche, e più in generale per l’incremento dell’attività fisica e della salute mentale, come accennato in precedenza (Sardi et al., 2017).

Evidenze di efficacia

 Il meccanismo del videogioco, infatti, stimolerebbe il mantenimento della concentrazione e delle capacità di problem solving, portando le persone a trovare soluzioni nuove e innovative, in aggiunta ad un aumentato senso di motivazione verso lo scopo finale (Lumsden et al., 2016). Nello specifico, diversi studi hanno provato l’efficacia del training cognitivo tramite serious game, sia per quanto riguarda la memoria visuospaziale, sia per quanto riguarda il deterioramento cognitivo, tipico, per esempio, dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer (Cavallo et al, 2016; Boccia et al., 2016).

Limitazioni

Anche se la gamification viene solitamente associata ad alto coinvolgimento e divertimento, questo non significa necessariamente una maggior motivazione d’impegno (Rigby, 2014).

In ambito scientifico, la critica che viene mossa più frequentemente a questo nuovo ambito di ricerca è che la gamification utilizza un approccio prettamente comportamentale basato sul rinforzo positivo e fattori motivazionali esterni (Cheng et al., 2019).

Malgrado questo, i promotori della gamification insistono nel sottolinearne i vantaggi: economicità, accessibilità e flessibilità.

 

Terapia dei sistemi familiari interni (2023) di Richard C. Schwartz e Martha Sweezy – Recensione

La traduzione del libro “Terapia dei sistemi familiari interni” per Raffaello Cortina è stata curata da Matteo Selvini, uno degli esponenti di punta della terapia familiare.

 

 La terapia dei sistemi familiari interni (IFS) considera la psiche come un ambiente relazionale popolato da parti e guida a ricercare le interazioni di questa popolazione interna. Ogni parte ha una storia e recita un ruolo, interagisce con le altre parti nel sistema interno. La parte vulnerabile, la parte critica, la parte protettrice si alternano e vivono le relazioni in funzione di criticità da affrontare, a volte in modo estremo e distruttivo.

Il percorso è un’esplorazione del mondo interno fatto di protettori, pompieri, manager con i loro fardelli che si trascinano nel tempo a causa di traumi, abusi, maltrattamenti, disinteresse e si trasferiscono di generazione in generazione.

“Nei venti capitoli del libro gli autori, mostrano e spiegano le sfumature e le implicazioni dell’affiancare la consapevolezza del Sé – la nostra saggia sede della coscienza e origine della conduzione interna – a una consapevolezza della nostra molteplicità psichica. I capitoli illustrano le tecniche tramite dialoghi esplicativi commentati, con numerosi box riassuntivi riportanti gli elementi chiave”.

La prima parte del libro ripercorre lo sviluppo della terapia sistemica e familiare, fino alla scoperta della mente relazionale costituita di parti e voci che si confrontano e scontrano. L’obiettivo è sviluppare nei sistemi umani quattro principi: equilibrio, armonia, conduzione e sviluppo.

Il lavoro terapeutico, illustrato nel volume attraverso casi clinici, consiste nel far sì che le parti – svolgano un ruolo protettivo attivo (manager) o reattivo, siano parti sensibili (esiliati), o parti che lottano contro le parti esiliate (pompieri) – lascino lo spazio alla conduzione del sé per arrivare a una maggiore continuità e integrazione. Le parti non scompaiono, sono i ruoli estremi che cessano di avere una forte presenza. I ruoli estremi sono legati allo sviluppo personale degli individui, alle interazioni familiari, ai traumi che congelano alcune parti condizionando l’armonia e l’equilibrio del sistema interno di una persona. Quando le parti si congelano nel passato, si caricano di fardelli e assumono la conduzione, le loro relazioni interne passano dall’armonia al conflitto.

 Per Schwartz e Sweezy i sistemi interni possono curarsi da sé, se il terapeuta è in grado di creare un ambiente sicuro e affettuoso, indirizzando la persona in determinate direzioni. La relazione tra il Sé del paziente e le parti del paziente è l’elemento primario di guarigione, quindi il terapeuta ha il compito di favorire l’accesso del paziente al proprio sé.

La seconda parte del volume suggerisce le tecniche da utilizzare nella terapia individuale per identificare le parti e le loro funzioni e per consentire un dialogo che riconosce ad ognuna un ruolo armonico ed equilibrato.

Nella terza parte si illustra la terapia dei sistemi familiari interni con le famiglie, le coppie e i sistemi più ampi, mentre nell’ultima sono riportati i risultati di alcune ricerche sull’efficacia della terapia dei sistemi familiari interni.

Una lettura interessante quella di “Terapia dei sistemi familiari interni” che ci introduce in quel mondo interiore fatto di parti che spesso non riescono a convivere senza conflitti e che possono essere contenute se il Sé con le sue caratteristiche (curiosità, calma, chiarezza, connessione, fiducia, coraggio, creatività e compassione) riesce a metterle in relazione in modi che consentano loro di sentirsi viste, abbracciate, nutrite, protette e, quando necessario, messe alla prova o limitate amorevolmente.

Il lavoro di Schwartz e Sweezy ha molte similitudini con altri approcci che si occupano di trauma e disturbi dissociativi. Anche la Mosquera (2022), ad esempio, illustra procedure e tecniche su come aiutare il paziente a sviluppare il proprio Sé adulto, esplorare il sistema interno e comprenderne il conflitto interiore, come lavorare con le parti e le voci problematiche. Alcune questioni che affronta sono analoghe a quelle contenute nel volume di Schwartz e Sweezy: differenziazione tra realtà esterna e interna, co-coscienza per integrare le parti e le voci e integrazione delle stesse. La principale differenza che ci sembra vada sottolineata riguarda lo status delle parti. In “Terapia dei sistemi familiari” sono innate e rappresentano vere e proprie personalità che si caricano di fardelli, mentre in “Voci e parti dissociative” il mondo interno del paziente popolato di voci e parti è generato dal trauma sia esso con la T maiuscola o la t minuscola.

Vulvodinia: caratteristiche psicologiche e risvolti negativi di una neuropatia fortemente diffusa

La vulvodinia, conosciuta anche come vestibulodinia o vestibulite vulvare, è un disturbo neuropatico (ossia un disturbo dovuto ad una lesione o a un malfunzionamento dei nervi del sistema nervoso periferico o centrale), che colpisce circa il 10-15% delle donne in età fertile o in post menopausa (Stockdale & Lawson, 2014), in rapporto di 1 donna su 7.

Cos’è la vulvodinia?

 La vulvodinia è definita dall’International Society for the Study of Vulvovaginal Disease (ISSVD, 2003) come disagio vulvare, con assenza di segni evidenti o di un disturbo neurologico (Bonstein et al., 2015). La donna di solito lamenta bruciore e/o dolore persistente, fastidio intenso e irritazione, che si verificano all’ingresso della vagina e nella zona circostante, ossia la vulva, la parte esterna dei genitali femminili. Inoltre, vengono descritte sensazione come di spilli, ferite o lacerazioni. Di solito, il dolore può presentarsi anche con fitte o scosse, fino ad estendersi a glutei, ano e interno cosce. Può avere origine spontanea o provocata, data perciò da sfregamento o contatto, come avviene durante un rapporto sessuale con penetrazione, quando si praticano sport come ciclismo, equitazione, spinning, oppure con l’inserimento di tamponi o di ovuli vaginali. Spesso anche stare seduti, incrociare le gambe o indossare indumenti troppo stretti può innescare o peggiorare il dolore.

Tale patologia è spesso associata anche al vaginismo, ossia dolore e difficoltà alla penetrazione della vagina, causati dall’involontaria contrazione muscolare. Esistono altre condizioni ad essa associabili, come la cistite interstiziale, i dolori mestruali o la sindrome del colon irritabile.

Una patologia ad oggi sempre più riconosciuta

La vulvodinia è stata fino a non molto tempo fa una patologia invisibile, quasi sconosciuta, e quindi complessa da diagnosticare. Da una ricerca condotta nel 2020 dall’Associazione Italiana Vulvodinia su alcune donne italiane, è stato constatato come l’impatto della vulvodinia sulla vita di chi ne soffre sia molto forte. Molte donne ricevono la diagnosi con anni di ritardo rispetto ai sintomi, e solo dopo aver consultato almeno tre specialisti. Le problematiche per la risoluzione di tale condizione sono diverse; infatti, molte donne sono costrette a spostarsi e a viaggiare per curarsi da un esperto specializzato e qualificato e, inoltre, i costi delle cure sono elevati e non tutte possono sostenerli. Tuttavia, il fattore sicuramente più invalidante e forte, che costringe spesso a rinunce nella vita quotidiana, è il dolore.

Oggi la vulvodinia è una patologia che sta avendo anche in Italia l’attenzione meritata, grazie anche ad alcune attiviste, come Giorgia Soleri, che vivono spesso in prima persona la patologia, o a programmi come Le Iene, che hanno rotto il silenzio su questa condizione.

Affinché patologie come la vulvodinia vengano riconosciute come vere e proprie patologie, il 3 maggio 2022 è stata avanzata una proposta di legge alla Camera dei Deputati per il riconoscimento di tale patologia tra i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) del Servizio Sanitario Nazionale. Viene richiesto quindi il riconoscimento di tali patologie tra le malattie croniche e invalidanti e, inoltre, è stata proposta la creazione di centri specializzati in ogni regione d’Italia e l’istituzione di una Commissione Nazionale che stili delle linee guida di diagnosi e cura.

Le difficoltà del convivere con una patologia così invalidante e dolorosa

Imparare a vivere con un dolore cronico come quello che caratterizza tale disturbo è molto complesso. Nello specifico, i sintomi della vulvodinia la rendono una malattia invalidante, che riduce la qualità della vita della donna che ne soffre.

I fattori psicologici sono correlati alla vulvodinia in maniera bidirezionale e possono quindi essere causa come anche conseguenza.

Tra i fattori di natura psicologica che possono predisporre alla vulvodinia vi sono i traumi sessuali e/o la familiarità per disturbi psicologici e della sfera sessuale (Puliatti et al., 2010). Altro fattore che ha un forte ruolo nel mantenimento del dolore cronico vulvare è la ruminazione mentale a seguito di un evento traumatico, come un abuso sessuale (Khandker et al., 2019).

D’altro canto, la vulvodinia comporta anche conseguenze a livello psicologico, perché compromette il benessere di chi ne soffre e ne influenza la qualità e lo stato di vita. Nonostante ciò, solamente pochi studi negli anni hanno evidenziato quali siano gli effetti psicologici che questa malattia ha sulla salute psicofisica delle donne che ne soffrono. Infatti, la sofferenza psichica provata porta a diverse ripercussioni negative a livello emotivo ma anche sul benessere soggettivo (Arnold et al., 2006). Si possono verificare livelli significativi di distress psicologico in domini come quelli di somatizzazione, ansia, stress, sintomi fobici, paranoia e, inoltre, difficoltà relazionali e sessuali, con peggioramento generale della qualità della vita di chi ne soffre. Inoltre, nei casi più complessi e gravi si può innescare una depressione reattiva, una forma di depressione che può comparire in risposta ad un evento stressante specifico (Wylie et al., 2004).

Secondo la letteratura (Plante & Kamm, 2008) le donne che soffrono di una patologia dolorosa e complicata come la vulvodinia hanno maggiori difficoltà a livello emotivo ed affettivo, ma anche per quanto riguarda la messa in atto di strategie per fronteggiare i problemi, rispetto alle donne che non hanno avuto tale diagnosi. Queste donne si sentono troppo spesso incomprese e giudicate come esagerate o mitomani, questo perché si tende a minimizzare i loro sintomi, oppure perché vengono ricondotti a una sindrome psicosomatica. È stato evidenziato che la difficoltà che queste donne hanno nel rapporto con loro stesse e con il loro corpo è traumatico; infatti, spesso le donne che soffrono di un tale disturbo si riferiscono come “rotte”, dicono di sentirsi “difettose”, e ovviamente tutto ciò ha importanti ripercussioni sull’immagine di sé stesse e sull’autostima (Kaler, 2006). La patologia ha dei risvolti negativi anche a livello relazionale e questo può comportare l’evitamento di alcune situazioni sociali, il sentirsi incomprese, la chiusura in sé, fino al disagio e al senso di colpa verso il partner. Le donne che soffrono di vulvodinia, ma anche di patologie ad essa correlate, raccontano che spesso il dolore mina la loro sicurezza nella messa in atto di alcuni ruoli sociali, come quello di amante o madre, ma anche genericamente di donna.

La vulvodinia si configura come un ostacolo alla realizzazione del ruolo sessuale di partner, infatti, il piacere e il desiderio sessuale sono inibiti dai forti dolori provati durante i rapporti (dispaurenia), che inficiano la serenità a livello intimo. Tutto ciò viene ancor di più complicato dal crearsi di una specie di circolo vizioso che parte dalla paura del dolore, che a sua volta porta all’irrigidimento dei muscoli vaginali e tutto questo rende la penetrazione ancora più dolorosa. Quindi, la donna, a causa dei dolori intollerabili, può voler completamente evitare di avere rapporti sessuali e ciò ha ripercussioni nella relazione con il partner e può minare l’autostima anche nella relazione. Reed e colleghi (2000) hanno affermato che alcune donne si vedono in modo più negativo come partner sessuali e meno desiderabili, definendosi persino come “sessualmente incompetenti”. Altre donne si sentono maggiormente limitate anche nell’adempiere a un altro compito unicamente femminile, ossia la maternità. È stato infatti sottolineato come queste donne abbiano maggior paura del parto a causa del dolore (Katz, 1995; Kaler, 2006), ma anche nell’affrontare la gravidanza stessa.

La gestione della vulvodinia su più fronti e il supporto psicologico

Nonostante tutto ciò, bisogna ricordare che la vulvodinia si può gestire, sia a livello fisico che psicologico. Innanzitutto, una diagnosi precoce è essenziale ed è ciò a cui in primis si deve puntare per dare un nome e riconoscere l’esistenza di un quadro sintomatologico di cui si soffre, per uscire dallo stato di incomprensione e iniziare il trattamento specifico della malattia, così da limitarne le conseguenze. In tutto ciò, la psicologia può essere un valido aiuto per le donne a cui viene diagnosticata questa neuropatia.

 Lavorare sulla vulvodinia vuol dire lavorare a più livelli: farmacologico, fisioterapico, alimentare ma anche psicologico (Corsini-Munt et al., 2017). Infatti, lavorare sull’aspetto psicologico del disturbo è molto importante per trovare risposte e soluzioni a domande che non possono essere trattate con l’uso di farmaci. Sembra essere efficace iniziare un percorso di psicoterapia, così le pazienti potranno far fronte alle problematiche psicologiche correlate alla patologia (ansia, emozioni negative, senso di inferiorità e inadeguatezza, etc.), imparare a gestire e alleviare il dolore attraverso tecniche di rilassamento come training autogeno e, inoltre, si potranno aiutare sia la donna che l’eventuale coppia ad elaborare possibili difficoltà di tipo sessuale. Quindi, è importante che la donna che soffre di una patologia così intensa trovi uno spazio definito e specifico in cui sentirsi ascoltata e sostenuta. Infatti, attraverso il dialogo e con il supporto dello psicoterapeuta ogni donna può esprimere liberamente come si sente, quali sono le difficoltà che incontra quotidianamente e cosa pensa della sua condizione, oltre che spiegare come lei stessa la vive e come crede che la vivano le persone che la circondano.

I trattamenti psicologici a cui le pazienti con vulvodinia possono sottoporsi sono individuali, ma anche di gruppo. Per quanto riguarda la terapia psicologica di tipo individuale, essa vede una prima fase di valutazione a livello globale della donna e una seconda fase di intervento vero e proprio. Invece, il percorso psicologico di gruppo avviene con un numero di soggetti tra gli 8-10 massimo, con la condivisione da parte delle donne della problematica. Il potere terapeutico del gruppo sta proprio nella condivisione delle esperienze della malattia.

Da tempo sembra che la psicoterapia funzionale stia ottenendo risultati incoraggianti nei casi di dolore cronico, come quello della vulvodinia, proprio per il suo intervento integrato e globale che coinvolge i vissuti, le emozioni ma anche ciò che riguarda il funzionamento fisiologico e posturale-muscolare. Perciò, con questo tipo di psicoterapia, la donna viene trattata e compresa nella sua globalità: mente e corpo. Alcuni studi (Turk e Meichenbaum, 1989) affermano che la psicoterapia cognitivo-comportamentale può aiutare le persone ad affrontare l’impatto che la vulvodinia, o altre condizioni di dolore cronico, ha sulle loro vite. Questa terapia mira ad aiutare le persone a gestire il dolore e i problemi personali, cercando di intervenire sul modo in cui pensano e agiscono.

Il panorama cognitivo-comportamentale è stato di recente ampliato grazie a due nuove modalità di trattamento: la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990) e l’Acceptance and Committment Therapy (ACT, Hayes et al., 1999). Questi due modelli, a differenza della psicoterapia cognitivo-comportamentale classica, si basano sulla promozione dell’accettazione del dolore cronico.

In particolare, il National Institute for Clinical Excellence (NICE) afferma che il modello psicoterapico più efficace per la gestione del dolore cronico, come per la vulvodinia, è l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy). Sembra che tale modello aiuti il paziente a una maggior adesione terapeutica e aumenti l’efficacia del farmaco utilizzato, agendo sul dolore e sulla sua percezione e aumentando la consapevolezza sulla necessità di aderire correttamente alla terapia (Deledda, 2022).

Inoltre, la consulenza psicosessuale è utile quando il dolore condiziona l’intimità nella relazione, perché aiuta ad affrontare problemi come paura e ansia durante il sesso e a ristabilire una relazione fisica con il partner.

Le sensazioni che affliggono le donne con questo tipo di patologia sono molte con cui fare i conti ogni giorno ed è questo il motivo per cui, dopo essersi rivolte ad un ginecologo, è importante trovare il coraggio di intraprendere un percorso psicologico per capire insieme ad uno specialista come affrontare il problema.

 

cancel