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Le conseguenze dei disturbi sonno in età evolutiva

Diversi studi si sono occupati di sondare l’esistenza di una relazione tra disturbi del sonno in età infantile e successivo sviluppo di psicopatologia in adolescenza.

 

Un recente studio condotto dall’Università di Melbourne ha evidenziato il legame tra la qualità del sonno durante l’infanzia e lo sviluppo di disturbi psichiatrici nella prima adolescenza (Cooper et al., 2023).

I disturbi del sonno in età evolutiva

 Il sonno è fondamentale per la salute mentale, soprattutto nei primi anni di vita, nei quali i pattern si stabilizzano sia per maturazione fisiologica cerebrale che per l’interazione del bambino con le figure di riferimento; la base eziopatogenetica dei disturbi del sonno è infatti rappresentata da interazioni di variabili fisiologiche, genetiche e comportamentali (Perego, 2022).

I disturbi del sonno durante l’infanzia possono essere predittivi di problematiche emotive e comportamentali durante lo sviluppo e aumentare il rischio di sviluppare disturbi psichiatrici in età adolescenziale e adulta. L’individuazione e il trattamento dei disturbi del sonno in giovane età rappresentano quindi un obiettivo importante per la salute mentale in termini di prevenzione. La prevalenza di alcuni disturbi del sonno cambia significativamente tra l’infanzia e l’adolescenza, diminuendo o aumentando all’inizio della pubertà: il passaggio all’adolescenza è un momento cruciale, in cui i programmi di intervento potrebbero risultare più efficaci (Cooper et al., 2023). Proprio per questo, una caratterizzazione più approfondita dei disturbi del sonno durante l’infanzia può rivelarsi particolarmente utile. Già secondo studi svolti in precedenza, come lo studio longitudinale condotto da Lereya et al. (2017), specifici disturbi del sonno in neonati e bambini molto piccoli possono essere collegati a disturbi mentali negli adolescenti (DiCugno, 2020). Lo studio svolto da Cooper e collaboratori (2023), sempre di tipo longitudinale, ha coinvolto oltre 10.000 genitori e caregivers di bambini tra i 9 e gli 11 anni e, successivamente, tra gli 11 e i 13 anni.

Lo studio di Cooper et al. (2023)

I partecipanti hanno completato il questionario “Sleep Disturbance Scale for Children” (SDSC), che valuta i disturbi del sonno in età evolutiva, descrivendo il comportamento dei figli durante il sonno negli ultimi sei mesi. Tale questionario include un punteggio totale di disturbi del sonno e le seguenti sottoscale: arousal (es. sonnambulismo, incubi); ipersudorazione; disturbi respiratori del sonno; disturbi della fase sonno-veglia (es. movimenti degli arti, bruxismo); disturbi dell’addormentamento e del mantenimento del sonno; eccessiva sonnolenza diurna. Le misurazioni sono state ripetute a distanza di due anni.

Sulla base dei risultati ottenuti, i bambini sono stati classificati in quattro profili di disturbi del sonno:

  • disturbi leggeri
  • difficoltà nel prendere sonno o mantenerlo
  • disturbi moderati e non specifici o “disturbi misti”
  • disturbi intensi

Questi quattro profili sono risultati altamente associati con lo sviluppo di psicopatologia nelle fasi iniziali dell’adolescenza; i bambini con disturbi del sonno più accentuati hanno manifestato sintomi emotivi e comportamentali più gravi sia internalizzanti, come ansia e depressione, che esternalizzanti, come aggressività. Inoltre, nei bambini con disturbi più intensi è stato riscontrato un aumento dei disturbi somatici, come mal di pancia e mal di testa; questa comorbidità è probabilmente sostenuta da meccanismi neurobiologici e fisiologici condivisi.

 I profili di disturbi del sonno individuati sono caratterizzati da diversi sintomi, gravità e livello di comorbidità. L’appartenenza ad un determinato profilo è risultata variare nel tempo, dimostrando traiettorie individualizzate nei problemi del sonno durante questo periodo. Per esempio è stato rilevato un marcato calo del numero di individui all’interno del profilo di disturbo misto, che può indicare come questa tipologia di problematiche potrebbe risolversi spontaneamente nel tempo, mentre è stato riscontrato il mantenersi nel tempo del pattern dei problemi di addormentamento e mantenimento del sonno, che potrebbe riflettere la natura cronica di queste difficoltà.

È stata identificata una forte associazione tra le traiettorie dei problemi del sonno e i sintomi psicopatologici, fornendo inoltre prove sulla direzionalità di queste associazioni, tali per cui un peggioramento nel profilo del sonno ha preceduto l’aumento dei sintomi psicopatologici, in particolare per quanto riguarda le manifestazioni internalizzanti.

La ricerca futura dovrebbe cercare di accertare tali associazioni e le loro implicazioni per il funzionamento emotivo e psicosociale dell’individuo.

Conclusioni

Purtroppo, i disturbi del sonno nei bambini spesso vengono sottovalutati o non riconosciuti, mentre interventi precoci potrebbero aiutare ad alleviare i sintomi e a migliorare sia il sonno che la salute mentale durante lo sviluppo e a lungo termine. Ad oggi gli interventi clinici proposti e con maggiore evidenza empirica sono quelli a orientamento cognitivo-comportamentale, che affrontano i comportamenti, i pensieri e le emozioni associati al disturbo del sonno e prevedono l’utilizzo di diverse strategie come l’estinzione (standard o graduale), l’apprendimento discriminativo, l’addormentamento ritardato, i risvegli programmati e i rinforzi positivi (Perego, 2022).

Nello studio di Cooper e collaboratori (2023), i disturbi del sonno sono risultati essere eterogenei, altamente in comorbidità nella tarda infanzia e nella prima adolescenza, variabili nel corso dello sviluppo e associati a manifestazioni psicopatologiche internalizzanti ed esternalizzanti. L’identificazione di profili del sonno suggerisce che gli interventi dovrebbero mirare a modelli specifici di disturbi del sonno, sottolineando la necessità di un’identificazione e di un trattamento precoci per migliorare e potenzialmente prevenire le difficoltà a livello di salute mentale nella prima adolescenza. Il follow-up previsto chiarirà la traiettoria evolutiva dei diversi disturbi del sonno nella media e tarda adolescenza e una loro più precisa associazione con la salute mentale.

 

In amore vince chi giunge: tre consigli per aiutare un partner con attaccamento insicuro

Dal bisogno di molte rassicurazioni al voler conoscere ogni dettaglio dei nostri impegni, questi sono i segnali che possono indicare che la persona con cui stiamo intrattenendo una relazione si sente insicura. La sicurezza emotiva è il fondamento di una relazione sana; contribuisce a una maggiore intimità, a un più forte benessere emotivo e persino a una migliore salute fisica.

In questa sede proponiamo tre consigli pratici per chi si trova in una relazione con un partner insicuro della stessa.

Introduzione

 Qualora ci dovessimo trovare in una relazione con un partner insicuro, è essenziale affrontare la situazione con empatia, comprensione e comunicazione efficace. L’insicurezza può avere un impatto significativo sul benessere emotivo e sulle relazioni di una persona, in particolare quando si tratta di relazioni di coppia. Lo studio di Selcuk e colleghi (2017), ad esempio, ha rilevato che quando le persone sentono che il loro partner le apprezza, sono più propense ad avere un sonno favorevole. Un altro studio, condotto da Bourassa e colleghi (2020), ha osservato che una relazione non sana può agevolare la velocità di invecchiamento.

Una serie di fattori interni, esterni e relazionali causano insicurezza in una relazione. Internamente, l’insicurezza deriva da una visione negativa di sé, caratterizzata da sentimenti di indegnità o incapacità. I fattori esterni includono relazioni passate spiacevoli o esperienze infantili, soprattutto quelle che hanno messo in dubbio il senso di sé o che non hanno permesso di fidarsi degli altri.

Tra i fattori più importanti troviamo lo stile di attaccamento. L’ attaccamento è un sistema biologico innato che porta il bambino a ricercare la prossimità con una figura di riferimento specifica (caregiver). In questo modo aumentano le probabilità del piccolo di sopravvivere all’ambiente. Le caratteristiche del legame di attaccamento con il caregiver (ovvero lo stile di attaccamento)  influenzano in maniera importante le future relazioni dell’individuo.

Uno stile “sicuro” deriva da un caregiver disponibile, sensibile e responsivo rispetto ai bisogni fisici ed emotivi del bambino; al contrario, se il caregiver si mostra imprevedibile o inadeguato, si sviluppa un attaccamento insicuro.

La base dell’insicurezza: lo stile di attaccamento insicuro

Uno stile di attaccamento insicuro spesso deriva quindi dalle prime esperienze di vita, che plasmano la percezione che un individuo ha delle relazioni e della propria autostima. Questo stile di attaccamento può manifestarsi con comportamenti ansiosi-preoccupati, timorosi-evitanti o distanzianti-evitanti. I partner con uno stile di attaccamento insicuro possono lottare con la difficoltà a fidarsi dell’altro, la paura dell’abbandono e una bassa autostima, rendendo essenziale per l’altro partner un approccio alla relazione fatto di empatia e comprensione.

La relazione con uno stile di attaccamento sicuro

Una relazione caratterizzata da un attaccamento sicuro si riferisce a un legame sano e di sostegno reciproco tra i partner. In uno stile di attaccamento sicuro, entrambi gli individui si sentono sicuri, apprezzati ed emotivamente connessi nella relazione. Si fidano l’uno dell’altro, comunicano apertamente i propri bisogni e sentimenti e si affidano l’uno all’altro per ricevere sostegno.

I partner con un attaccamento sicuro hanno una visione positiva di se stessi e del proprio partner, credono che i loro bisogni saranno soddisfatti e che il loro partner risponderà al loro benessere emotivo e fisico. Questo tipo di relazione favorisce un senso di sicurezza, stabilità emotiva e soddisfazione generale per entrambi i partner.

Consigli pratici per una relazione sicura

Coltivare una relazione con un partner con attaccamento insicuro richiede strategie specifiche per aiutarlo a superare le sue insicurezze e a costruire un legame più forte e resistente.

Astenersi dal giudizio

 Il primo passo per favorire una relazione sicura è cercare di mantenere un atteggiamento empatico e compassionevole. Con il progredire della relazione, l’aumento del comfort e della vulnerabilità possono far sì che i difetti del partner appaiano più evidenti che mai. È importante ricordare che non bisogna tentare di correggere gli aspetti problematici del partner, bensì riconoscere che l’insicurezza spesso deriva da paure profonde e da esperienze passate che hanno plasmato la propria visione del mondo. Di fronte a una situazione difficile, è necessario sostituire commenti come “Avresti dovuto saper gestire meglio la situazione” con “Vedo che hai fatto del tuo meglio”, oppure “Affrontare le sfide può essere davvero difficile, ma possiamo farcela”.

Mostrarsi sinceramente attenti e comprensivi, ascoltare attivamente le preoccupazioni e validare le emozioni può contribuire a infondere un senso di sicurezza nel partner.

Dimostrarsi responsabili

Una comunicazione efficace è alla base di qualsiasi relazione sana, e diventa ancora più cruciale quando si ha a che fare con un partner insicuro. È fondamentale dimostrarsi responsabili e affidabili non solo a parole ma nelle azioni quotidiane. Per esempio, dopo un litigio sarebbe ideale comunicare all’altro che è normale trovarsi in disaccordo, non c’è niente di male, e che averli non significa che la relazione si stia sgretolando. L’ascolto attivo e l’atteggiamento empatico restano essenziali durante le discussioni. Affrontando apertamente le insicurezze, si può lavorare insieme per trovare soluzioni costruttive e sviluppare strategie per costruire fiducia e sicurezza nella relazione.

Conversare sulla sicurezza emotiva

Costruire la fiducia è fondamentale quando si coltiva la sicurezza in una relazione. I partner insicuri spesso lottano con sentimenti di dubbio e incertezza, temendo il rifiuto o l’abbandono.

Per ogni disaccordo e discussione, vi è un’opportunità parallela di avere una conversazione conciliante sulla creazione di una sicurezza emotiva. Sovente le relazioni si rafforzano attraverso un processo di rottura e riparazione. Evitare i litigi può implicare anche perdere la possibilità di conoscere il partner a un livello più profondo. Dopo un litigio diventa significativo far sapere al partner come ci siamo sentiti e parlare delle aree su cui si può lavorare, anziché attribuire le colpe. Sostanziale diventa, inoltre, chiedere scusa quando è il caso, comunicare il proprio disagio per aver ferito i sentimenti dell’altro e chiedere cosa poter fare la prossima volta che il partner si trova in un momento di difficoltà. La vera sicurezza deriva anche dall’essere ascoltati e compresi.

Conclusione

L’insicurezza è una sfida che può essere superata con il giusto sostegno e comprensione. I consigli di cui sopra aiutano a creare un ambiente sicuro e solidale che permette al partner di affrontare le proprie insicurezze e costruire la fiducia all’interno della relazione. Promuovendo l’empatia, incoraggiando la comunicazione e fornendo rassicurazioni, è possibile rafforzare il legame e creare le basi per una relazione sana e sicura.

Una riflessione italiana sui combattenti stranieri: Sergio e Delnevo

Ndr: il presente contributo è il quarto ed ultimo di una serie di articoli sull’argomento pubblicati su State of Mind. Nel primo articolo sono state analizzate le motivazioni che spingono i più giovani ad arruolarsi, nel secondo articolo sono stati approfonditi i meccanismi di reclutamento e nel terzo articolo il caso di Silvia Romano.

Foreign fighters italiani: Maria Giulia Sergio

 Esemplare come caso “italiano” è quello di Maria Giulia Sergio: una ragazza che nel 2014, all’età di 28 anni, è scappata in Siria con l’obiettivo di vivere nello Stato Islamico e contribuire alla causa dell’Isis. Figlia di una famiglia cattolica di Torre del Greco, Napoli, poi trasferitasi con il nucleo in provincia di Milano. Studentessa in biotecnologie all’Università di Milano, si converte all’Islam, sposa un combattente dell’Isis e scappa in Siria, uno stato che lei stessa definisce come “perfetto” (Orsini, 2016). Maria Giulia difende e loda il terrorismo dell’Isis. Parlando via Skype con la giornalista Marta Serafini sottolinea la necessità che l’Occidente si purifichi e afferma che ciò è possibile solo grazie all’intervento dell’Isis (Serafini, 2015). Per lei e per altre nove persone, familiari suoi e del marito, si dispone un’ordinanza di custodia cautelare: associazione a delinquere finalizzata al terrorismo, articolo 270 bis, codice penale, introdotto dopo l’11 settembre. Furono arrestati il padre, la madre e la sorella di Maria Giulia e due parenti di suo marito; tutti gli altri, tra cui la stessa Maria Giulia e il marito albanese, Aldo Kobuzi.

Tutti erano disposti a partire per la Siria per unirsi ai militanti del Califfato. Tra i ricercati figura la canadese Haik Bushara la quale ha indottrinato e reclutato le due sorelle Sergio inserendole all’interno di un gruppo che incitava alla causa jihadista. Ultimamente, infatti, anche un vasto numero di donne ha offerto la propria vita alla causa dell’islamismo radicale; a testimonianza di un viraggio non solo nella concezione tutta al femminile delle stesse donne islamiche, ma anche della politica di assunzione dei gruppi ai quali queste donne aderiscono. Le organizzazioni terroristiche sfruttano i vantaggi nell’inviare donne a commettere attentati, vantaggi che si riducono essenzialmente alla convinzione che una donna appaia agli occhi degli uomini incapace di portare morte. Le donne sono scelte per ingannare funzionari della sicurezza strumentalizzandone l’aspetto innocente, al punto da essere spesso camuffate da donne in stato di gravidanza.

Foreign fighters italiani: Giuliano Delnevo

 Maria Giulia non è il primo caso di persona italiana ad aver abbracciato la missione jihadista. Un’altra storia è quella di Giuliano Delnevo, un ragazzo di Genova, arruolatosi ad al-Qaeda in Siria e morto mentre combatteva con un gruppo di estremisti israeliani ceceni contro le truppe di Assad nel 2013, a soli 23 anni (Orsini, 2016). Delnevo è stato il primo italiano convertito all’Islam che ha deciso di abbracciare l’ideologia e la mission di un gruppo neo-jihadista all’estero utilizzando inoltre internet come mezzo di propaganda. Il ragazzo, attraverso video e post pubblicati su internet, espone il suo credo nella lotta contro l’Occidente, visto come il Male, che contamina l’Islam e la comunità musulmana, considerata invece come il Bene.

Conclusioni

La potenza del messaggio di “proselitismo” nel processo di radicalizzazione e di reclutamento è evidente sia per quanto riguarda Maria Giulia che per Giuliano Delnevo. Il messaggio individuato da Orsini, a seguito della lettura dei vari documenti trasmessi dall’organizzazione terroristica nella rivista di propaganda dello Stato Islamico Dabiq (Orsini, 2016, p. 188), è il seguente: “l’immonda civiltà occidentale ha svuotato la tua vita di significato. È colpa sua se stai andando alla deriva. È colpa sua se soffri. È colpa sua se il Male ha prevalso sul Bene. È colpa sua se il mondo è precipitato nella disperazione. Ma la tua vita non è priva di valore! Abbraccia la via del jihad, risorgi e diventa il più grande degli uomini! Mischia il tuo sangue con il nostro. Diventa un eroe. Noi abbiamo la soluzione a tutti i tuoi mali. Seguici”.

Il messaggio è chiaro e diretto; proprio questa semplicità conquista e affascina la mente e i cuori: offre un obbiettivo; conferisce spessore esistenziale; essere con loro non solo significa acquisire una dimensione eroica (spesso vagheggiata come impossibile nell’anonimità della società di massa Occidentale), ma anche ridare senso e valore alla propria esistenza, dotandosi di un obiettivo che in questo caso è opporsi alla civiltà Occidentale identificata come il Male assoluto (elemento questo importantissimo in una società in cui distinguere il giusto dall’ingiusto, il bianco dal nero, è diventato sempre più difficile). Al disorientamento esistenziale di vite che non hanno obiettivi sicuri e mete chiare da raggiungere questo messaggio sostituisce una luminosa certezza: quella che la propria vita ha un valore e finalmente anche uno scopo.

 

Leggi tutti gli altri articoli della serie:

I falsi miti sulla psicoterapia e l’attuale proposta CBT

Il 45% delle persone con problemi di salute mentale non cerca aiuto professionale. Le ragioni alla base di tale riluttanza sono molte, fra cui un malinteso su come davvero funziona la psicoterapia. Ripercorrerne le radici storiche e conoscere la proposta CBT aiuta a prendere le distanze dai falsi miti.

La riluttanza a iniziare la psicoterapia: per quali ragioni?

 Nel corso degli ultimi quattro anni, eventi di calibro mondiale come la pandemia da Covid-19, l’incertezza economica, gli sconvolgimenti politici e la guerra hanno impattato significativamente sulla salute mentale collettiva. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale 2022, un’indagine Ipsos ha riscontrato che problemi di ansia e depressione sono aumentati del 25% dal 2019 e che, per la prima volta, la salute mentale supera il cancro nel diventare il primo problema di salute percepito a livello internazionale.

Nonostante ciò, il 45% delle persone nel mondo con problemi di salute mentale di rilevanza clinica non cerca un aiuto professionale. Nel delineare le possibili ragioni sottostanti questo fenomeno, molteplici sono le credenze disfunzionali alla base della diffusa riluttanza a iniziare un percorso di terapia: c’è chi pensa “Se vado dallo psicologo, allora sono un debole”, c’è chi crede “I miei problemi non sono abbastanza grandi” e c’è chi, oggettivamente, lamenta la mancanza di disponibilità di servizi di salute mentale. Molto spesso, però, il rifiuto verso l’idea della psicoterapia nasconde un malinteso di base su come funziona effettivamente la terapia ai giorni nostri. Su questo, è possibile ipotizzare che le persone condividano un immaginario collettivo simile al seguente: la psicoterapia è un percorso lungo e costoso guidato da uno psicologo eccentrico che ha il principale scopo di esplorare i ricordi e i traumi infantili, ottenendo risultati solo poco tangibili. Questi falsi miti sono probabilmente legati ad un’idea stereotipata di terapia della parola molto legata ai contesti e ai modi di cura del passato, dove quello che oggi è il cliché dell’essere sdraiati sul lettino a parlare della propria madre era, un tempo, l’unico setting possibile.

Le radici storiche della psicoterapia

Conoscere la storia e l’evoluzione della psicoterapia può essere utile a riconsiderare alcuni pregiudizi legati al rifiuto a iniziare un percorso d’aiuto psicologico.

Anche se parlare dei problemi personali con un interlocutore più esperto risale almeno ai dialoghi filosofici degli antichi greci, il primo esempio moderno di psicoterapia è quello di Sigmund Freud. In senso ampio, la psicoanalisi freudiana sostiene che portare il contenuto della mente inconscia alla consapevolezza cosciente possa condurre alla risoluzione del conflitto interiore alla base del disagio psicologico. In genere, ciò richiede anni di terapia e i risultati, basandosi su dimensioni difficili da operazionalizzare, non hanno una chiara definizione di successo, se non a livello aneddotico.

Dopo Freud, il comportamentismo ha iniziato a sostenere che i comportamenti umani sono dovuti solo al condizionamento ambientale e che, pertanto, l’inconscio non sia un concetto valido perché non può essere osservato o studiato. Per stare meglio, in altre parole, basta badare a ciò che la persona fa o non fa.

I successivi approcci cognitivisti asserirono che, seppur sia ammesso ignorare le nozioni freudiane di Es, Io e Super-Io, non è possibile minare le premesse alla base della teoria psicoanalitica, comuni a tutti gli approcci terapeutici: i nostri comportamenti derivano dai nostri pensieri e sentimenti e, dunque, se li comprendiamo e padroneggiamo, possiamo cambiare la nostra condotta e alleviare la nostra sofferenza mentale.

La sintesi capace di soddisfare una fetta sempre più larga di professionisti e pazienti avvenne verso la metà degli anni Sessanta con la nascita dell’approccio cognitivo-comportamentale. Quest’ultimo iniziò a sostenere l’idea che i problemi psicologici sono basati su modi di pensare che interpretano irrazionalmente le situazioni, generando modelli di comportamento controproducenti ed emozioni disfunzionali.

Una proposta efficace: la terapia cognitivo-comportamentale (CBT)

Ad oggi, circa il 70% degli psicoterapeuti negli Stati Uniti pratica la terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Ma di cosa si tratta? I suoi principi teorici, tecnici e metodologici si possono enucleare come segue.

Ruolo del terapeuta

Il terapeuta CBT non ha il ruolo di un confidente o di un confessore, bensì di un allenatore che, cooperando con il paziente per stabilire obiettivi personali specifici e misurabili, fornisce delle strategie per raggiungerli. In altre parole, egli aiuta il paziente a divenire terapeuta di se stesso.

Pragmatismo clinico

 Il focus della CBT non è primariamente quello della crescita personale, bensì quello della risoluzione di problemi attraverso un percorso fatto di step realizzabili e concreti, e non di idee astratte. In quest’ottica, il terapeuta assegna dei compiti da svolgere a casa, al di fuori dello spazio clinico. Questi sono degli esercizi con cui il paziente può fare davvero pratica di quanto appreso in seduta.

Momento presente

I contenuti della CBT non riguardano elettivamente i traumi passati o i ricordi infantili (sebbene esaminare la propria storia di vita possa aiutare a superare le esperienze passate che influenzano il modo in cui viviamo nel presente), bensì i temi del presente del paziente, che emergono con priorità nel qui ed ora.

Pensieri e comportamenti

La CBT non è puro comportamentismo perché, oltre ad esaminare le strategie di comportamento disfunzionali e proporre degli stili di condotta più funzionali, si concentra anche sul riconoscimento delle distorsioni del pensiero, che potrebbero influenzare le azioni dei pazienti e causare disagio emotivo.

Durata a breve/medio termine

Laddove molte forme di psicoterapia sono a tempo indeterminato, la CBT è generalmente a breve/medio termine. Per i disturbi più facilmente trattabili, il percorso di cura può durare tra le 6 e le 20 sedute, periodo al termine del quale i pazienti sono in grado di utilizzare gli strumenti che hanno imparato per affrontare il mondo con maggior benessere.

Con queste caratteristiche, la CBT è diventata la forma di terapia più praticata, specie per il trattamento di ansia e depressione. Si tratta di un approccio evidence-based testato per decenni in modo rigoroso più di qualsiasi altra forma di terapia, dando prove concrete della sua efficacia e dimostrandosi un approccio d’elezione per il trattamento di numerosi disturbi.

Anche se è doveroso ricordare che nessun tipo di terapia è adatto in modo assoluto per tutti i tipi di pazienti, la terapia cognitivo-comportamentale può essere un ottimo punto di partenza per chi non ha mai intrapreso un percorso di aiuto psicologico o per chi non si è trovato soddisfatto da approcci a lungo termine più orientati al passato.

Terapia cognitivo-comportamentale e Schizofrenia: un protocollo per il trattamento dei sintomi psicotici

L’approccio CBT per la schizofrenia è incentrato sull’individuazione di credenze ed emozioni riguardanti i sintomi positivi e negativi che caratterizzano la malattia e sulla rivalutazione dei pensieri associati a questi ultimi (Fei et al., 2021).

CBT e schizofrenia

 La CBT per la schizofrenia prevede un percorso a step che comprende: la formazione dell’alleanza terapeutica, la condivisione della formulazione del caso, il questioning dei significati associati ai sintomi psicotici e la prevenzione delle ricadute. Fermo restando che il trattamento d’elezione rimane quello farmacologico, gli esiti di revisioni e meta-analisi sull’efficacia della CBT in pazienti con diagnosi di schizofrenia sono incoraggianti. Rispetto ai controlli, coloro che vengono trattati con CBT e antipsicotici mostrano una minor gravità dei sintomi positivi e negativi, un aumento dell’insight e una migliore aderenza al trattamento farmacologico (Jauhar et al., 2014). Forse è proprio in quest’ultimo aspetto che risiede il valore aggiunto della CBT, data la presenza di moduli ad hoc volti a decatastrofizzare le convinzioni che il paziente presenta rispetto all’etichetta diagnostica e alla farmacoterapia.

Elementi teorici di base della terapia cognitivo-comportamentale

L’assunto centrale della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) prevede che le modalità con cui gli individui valutano e forniscono un senso agli eventi di cui essi fanno esperienza (ovvero i loro pensieri o le loro credenze) influenzino in maniera inevitabile le emozioni e i comportamenti di quest’ultimi (Ellis, 1957; Beck, 1975). La CBT sostiene, ad esempio, che persone affette da disturbi affettivi come la depressione unipolare vedano sé stesse, il futuro o il mondo che le circonda in modo estremamente negativo, distorto, cupo e catastrofico (Beck, 1967); il che porta le persone a provare un intenso stato di malessere emotivo e ad emettere una serie di comportamenti che finiscono per rafforzare e mantenere vivi questi pensieri. Si consideri una persona depressa che mentre cerca di prepararsi per andare al lavoro si rovescia il caffè sulla camicia appena indossata e pensa tra sé e sé: “Tipico di me, sono proprio una persona inutile. Combino sempre pasticci, tanto vale smettere subito prima di peggiorare ulteriormente la situazione”. Ciò fa sì che l’individuo si senta ancora più triste di quanto non lo sia già al momento dell’incidente e che torni a letto, rafforzando così la convinzione di essere una persona inutile. Tuttavia, attraverso l’impiego di strategie cognitive e comportamentali, gli individui possono essere aiutati a prendere coscienza delle proprie credenze disfunzionali, a metterle in discussione e a sostituirle con pensieri più funzionali, riducendo così la sofferenza emotiva ad essi legata e promuovendo parallelamente l’emissione di comportamenti maggiormente adattivi (David et al., 2018).

Un protocollo cognitivo-comportamentale per la schizofrenia

Nel corso degli anni la CBT si è dimostrata efficace nel trattamento di molteplici condizioni psicopatologiche, tra cui la depressione maggiore, i disturbi d’ansia, il disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo da stress post-traumatico (Hofmann et al., 2012). Meno chiaro è invece il quadro riguardante gli effetti di questa forma di psicoterapia sui sintomi lamentati dai pazienti psicotici. Al momento, l’approccio CBT per la schizofrenia è incentrato sull’individuazione di credenze ed emozioni riguardanti i sintomi positivi (per esempio, deliri o allucinazioni) e negativi (per esempio, apatia, anedonia, e asocialità) che caratterizzano la malattia e sulla rivalutazione dei pensieri associati a quest’ultimi (Fei et al., 2021).

In particolare, Turkington e colleghi (2004) hanno delineato già da tempo un protocollo che il terapeuta è chiamato a seguire durante la somministrazione del trattamento. Quest’ultimo inizia solitamente con la formazione di una solida alleanza terapeutica, ovvero un reciproco accordo sugli obiettivi del cambiamento e sui compiti necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi di legami che mantengono la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico (Bordin, 1979). In secondo luogo, è opportuno che il terapeuta ponga enfasi sulla normalizzazione delle esperienze psicotiche. Una prassi è quella di esaminare la comparsa di esperienze insolite (per esempio, l’udire delle voci), allo scopo di eliminare le interpretazioni catastrofiche in merito al significato di queste ultime. Tali spiegazioni normalizzanti vengono poi rafforzate attraverso degli homework, che includono la lettura di dispense nelle quali vengono descritti vari fenomeni, per esempio la relazione tra privazione di sonno e allucinazioni uditive (Oswald, 1974). Gli interventi del terapeuta si basano peraltro sulla formulazione del caso (Ruggiero et al., 2021), ovvero sulla comprensione e sulla condivisione del problema del paziente, del razionale del trattamento e delle strategie tese a risolverlo. Molta importanza viene attribuita specialmente alla comprensione dell’insorgenza dei sintomi psicotici e alle ragioni del loro mantenimento. Ciò viene fatto riferendosi al modello di vulnerabilità allo stress (stress vulnerability model; Zubin & Sprin, 1977), il quale enfatizza l’idea che tutti noi possiamo sperimentare prima o poi dei sintomi psicotici qualora venissimo sottoposti a livelli sufficienti di stress. Tuttavia, a causa delle nostre vulnerabilità genetiche, fisiologiche, psicologiche e sociali, la nostra vulnerabilità a un esaurimento psicotico varia notevolmente.

 Durante la fase centrale, l’intervento bersaglia principalmente allucinazioni, deliri e altri disturbi del pensiero. Nel pezzo sui deliri, per esempio, è consigliato iniziare con tecniche superficiali, come il peripheral questioning, ovvero una tecnica in cui la persona viene interrogata sulle specificità delle sue convinzioni deliranti per capire come è arrivata alle sue conclusioni. L’idea è quella di cercare eventuali lacune nel sistema delirante del paziente che potrebbero fornire al terapeuta una via d’accesso per scalfire la convinzione che il paziente ha nelle sue credenze. Da lì, si possono impiegare dei compiti comportamentali allo scopo di favorire la generazione di spiegazioni alternative.

Il protocollo CBT per la schizofrenia si conclude di norma con lo sviluppo di un chiaro programma di prevenzione delle ricadute e di un relativo piano d’azione da attuare in situazioni di difficoltà. Ciononostante, per mantenere i benefici del trattamento nel lungo termine, è probabile che siano necessarie delle sessioni di richiamo (Drury et al., 2000).

Considerazioni sul trattamento integrato: il valore aggiunto della CBT

Fermo restando che il trattamento d’elezione rimane quello farmacologico, gli esiti di revisioni e meta-analisi sull’efficacia della CBT in pazienti con diagnosi di schizofrenia sono incoraggianti. Rispetto ai controlli, coloro che erano stati trattati con CBT e antipsicotici mostravano una minor gravità dei sintomi positivi e negativi, un aumento dell’insight e una migliore aderenza al trattamento farmacologico (Pilling, et al., 2000; Rector & Beck, 2001; Jauhar et al., 2014). Forse è proprio in quest’ultimo aspetto che risiede il valore aggiunto della CBT. Pensieri come “Non sono una persona da pillole” o “Sono impazzito del tutto, nessuna compressa può più aiutarmi” vengono riconosciuti e affrontati durante le sedute di psicoterapia e pian piano sostituiti con credenze maggiormente funzionali che contribuiscono in maniera significativa alla regolarizzazione dell’assunzione della terapia farmacologica. Inoltre, la psicoterapia prevede uno spazio dedicato all’esame delle convinzioni che il paziente presenta rispetto all’etichetta diagnostica con lo scopo di decatastrofizzare i pensieri del paziente. Ciò può essere fatto riferendo all’individuo le informazioni più ottimistiche pubblicate di recente nelle riviste scientifiche sul decorso della malattia. Il lavoro della CBT per migliorare l’aderenza ai farmaci nasce proprio da queste sessioni che cercano di comprendere e rimodellare la formulazione individuale della schizofrenia elaborata dal paziente (Turkington & Siddle, 2000).

Salute mentale nelle università: il caso della Yale University

In un mondo accademico che si concentra sull’eccellenza e sulle prestazioni, le difficoltà legate alla salute mentale possono passare inosservate o non ricevere l’attenzione necessaria. La salute mentale degli studenti merita attenzione, comprensione e azioni concrete per garantire un ambiente di apprendimento sano e sicuro.

Introduzione

 La salute mentale degli studenti universitari è diventata un tema di crescente preoccupazione nelle istituzioni accademiche di tutto il mondo. Un recente articolo del Washington Post ha messo in luce la controversia riguardante i servizi di salute mentale presso la Yale University (Wan, 2022), una delle università più prestigiose degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Secondo l’articolo, alcuni studenti che affrontavano problemi di salute mentale sarebbero stati costretti a ritirarsi e seguire una procedura di riammissione, attraverso un processo lungo e complicato. Questo ha scatenato un dibattito tra gli amministratori universitari, che difendono i servizi di salute mentale di Yale, e i critici che sostengono che le politiche per la tutela della salute mentale dell’università sono inadeguate.

La situazione a Yale

Secondo il Washington Post (Wan, 2022), più di 25 studenti ed ex-studenti di Yale hanno lamentato politiche e servizi inadeguati rivolti agli studenti in difficoltà rispetto alla propria salute mentale. Alcuni studenti hanno dichiarato di non aver ricevuto risposte dopo aver cercato assistenza per problemi di salute mentale, mentre altri hanno avuto accesso a sessioni di consulenza limitate. Inoltre, parecchi studenti hanno nascosto le loro difficoltà mentali per evitare le procedure di ritiro dall’università, che sembrerebbero esercitare pressioni sugli studenti a lasciare il campus in tempi brevi.

Una ormai nota e triste testimonianza di una giovane studentessa di Yale morta per suicidio, mette in luce una parte delle procedure attuate dall’Università in casi di problemi di salute mentale:

Al momento della dimissione dall’ospedale… il mio documento di identità di Yale fu confiscato, così come la chiave della mia stanza. Mi fu data una sera per impacchettare tutta la mia vita (trad. it. Giambrone, 2015).

L’articolo pubblicato sul The Atlantic (2015) sostiene che le procedure di ritiro rendono particolarmente difficile per gli studenti con problemi di salute mentale lasciare il campus, anche quando la pausa da scuola potrebbe migliorare il loro benessere, anche in vista delle complicate procedure di riammissione. Secondo diversi studenti di Yale, nel campus c’è il timore che l’amministrazione costringa gli studenti con problemi mentali ad andarsene; c’è anche il timore che agli studenti malati non sia permesso di tornare. Di conseguenza, gli studenti che soffrono di ansia, depressione e altri disturbi potrebbero non ricevere le cure di cui hanno bisogno. E per molti di quelli che scelgono di richiedere cure, la domanda diventa presto: “Quanto dovrei aprirmi?”.

Il racconto di una studentessa riguardo alla sua esperienza personale (Williams, 2014) con problemi di salute mentale e la risposta ricevuta dall’Università di Yale aiuta a comprendere il meccanismo delle procedure di riammissione al Campus e alla frequenza dei corsi universitari. La studentessa descrive un incontro con un valutatore che la interroga sul suo problema (autolesionismo) e le suggerisce che sarebbe più sicuro per il suo benessere lasciare Yale, nonostante i suoi sforzi nel cercare aiuto e nell’assicurare il suo impegno nella terapia, il valutatore insinua che Yale non può averla nel campus. Secondo le conversazioni dell’autrice con il personale dell’ospedale e con i compagni di corso, sembra che agli studenti che sono stati ricoverati in ospedale sia raramente permesso di rimanere a Yale. La studentessa, autrice dell’articolo, suggerirebbe che Yale dia priorità alla propria immagine e vorrebbe che chi non è “a posto” se ne vada, aspettativa pesante e deleteria per gli studenti.

In sostanza, se uno studente di Yale sente di avere problemi di salute mentale e decide di chiedere aiuto, scelta che in alcuni casi potrebbe richiedere l’assenza dal Campus o l’ospedalizzazione, deve presentare richiesta di ritiro dall’università e dopo il suo periodo di cura è sottoposto ad una valutazione non clinica del suo stato di benessere, che sembra disincentivare al reinserimento.

In risposta all’articolo del Washington Post del 2022 scritto da Wan, gli amministratori di Yale hanno pubblicato lettere difensive, sottolineando il loro impegno per la salute e il benessere degli studenti. Il Decano e il Direttore della Salute Mentale e del Counselling dell’Università di Yale hanno scritto una lettera in cui sostenevano che l’articolo ignorasse gli sforzi complessi e articolati di Yale per affrontare la salute mentale degli studenti. Il Presidente dell’Università di Yale ha anche pubblicato una lettera in cui difendeva gli sforzi di Yale nel promuovere il benessere degli studenti.

Punti di vista alternativi

Nonostante la difesa degli amministratori di Yale, i critici sostengono che ci siano ancora molti problemi da affrontare nei servizi di salute mentale dell’università. Rishi Mirchandani, un rappresentante del gruppo di advocacy per la salute mentale “Elis for Rachael”, ha scritto che la risposta degli amministratori universitari è stata basata su argomentazioni fuorvianti. Ha affermato che il problema non riguarda la necessità di rimanere iscritti continuativamente, ma piuttosto la mancanza di alternative al ritiro a tempo indeterminato senza assicurazione sanitaria, alloggio e supporto istituzionale.

 Alicia Floyd, ex studentessa di Yale che ha tentato il suicidio nel 2000, ha criticato gli amministratori per non aver affrontato direttamente l’argomento principale dell’articolo del Washington Post: la pressione esercitata sugli studenti in crisi a lasciare immediatamente il campus. I leader di “Elis for Rachael”, hanno sottolineato che le politiche di Yale possono mettere gli studenti in una situazione ancora più precaria.

L’organizzazione “Elis for Rachael” è nata in memoria di una studentessa di Yale morta per suicidio nel 2021.

Migliorare il sostegno agli studenti

L’associazione “Elis for Rachael” propone una serie di cambiamenti per migliorare il supporto e la tutela degli studenti che devono affrontare ritiri medici. Primo tra tutti, suggeriscono che l’Università offra un piano di assicurazione sanitaria accessibile agli studenti sia iscritti che in ritiro medico, per consentire loro di consultare professionisti esterni e affrontare la necessità crescente di assistenza psicologica. Suggeriscono di implementare un corso di formazione annuale sul primo soccorso per la salute mentale per studenti, docenti, personale e amministratori. Ancora, richiedono di eliminare gli ostacoli non medici costosi per il reintegro degli studenti dopo un ritiro medico, come requisiti di trasferimento di crediti accademici o interviste non cliniche (come quella descritta nell’articolo di Williams, 2014). Inoltre, ritengono sia necessario fornire una motivazione dettagliata e concreta per il rifiuto delle domande di reintegro e di pubblicare criteri obiettivi per il processo di reintegro.

Importanza dei servizi di salute mentale nelle università

Il caso di Yale solleva una questione più ampia circa l’importanza dei servizi di salute mentale all’interno delle università, a disposizione degli studenti. Gli studenti universitari affrontano spesso pressioni significative, tra cui l’adattamento a un nuovo contesto lontano da casa, l’equilibrio tra studio-lavoro-vita sociale e il confronto con aspettative elevate. Questi fattori possono sfidare la salute mentale degli studenti e contribuire ad incrementare lo stress percepito, in una fase della vita già stressante per definizione.

Investire in servizi di salute mentale adeguati nelle università è essenziale per garantire che gli studenti abbiano accesso a risorse e supporto coerenti con il loro bisogni in caso di momenti di difficoltà e sofferenza mentale. I servizi di salute mentale dovrebbero essere accessibili, inclusivi e sensibili alle sfide specifiche che gli studenti affrontano durante il loro percorso accademico. Non solo aiutano gli studenti a superare le difficoltà, ma contribuiscono anche a creare un ambiente di apprendimento sano e supportivo.

Conclusioni e prospettive future

Il caso di Yale University evidenzia l’importanza di migliorare i servizi di salute mentale nelle università. Gli studenti universitari dovrebbero poter contare su servizi efficaci e accessibili per affrontare le sfide della salute mentale durante il loro percorso accademico. Le istituzioni accademiche devono impegnarsi a migliorare e modernizzare i propri servizi, assicurando che gli studenti abbiano risorse adeguate in caso di crisi. Inoltre, è fondamentale promuovere una cultura che incoraggi la ricerca di aiuto e la consapevolezza della salute mentale tra gli studenti.

Investire nella salute mentale degli studenti è un investimento nel loro benessere e successo accademico. Le università dovrebbero lavorare a stretto contatto con gli studenti, i rappresentanti degli studenti e gli esperti di salute mentale per sviluppare politiche e servizi che rispondano alle esigenze degli studenti universitari. Solo attraverso uno sforzo collettivo sarà possibile creare un ambiente universitario che sostenga appieno il benessere mentale degli studenti e li aiuti a raggiungere il loro pieno potenziale accademico e personale.

Una riflessione italiana sulla radicalizzazione islamica: Silvia Romano

Ndr: il presente contributo è il terzo di una serie di quattro articoli sull’argomento pubblicati su State of Mind. Nel primo articolo sono state analizzate le motivazioni che spingono i più giovani ad arruolarsi, nel secondo articolo sono stati approfonditi i meccanismi di reclutamento. Il quarto e ultimo articolo verrà pubblicato nei prossimi giorni

Radicalizzazione: Silvia Romano

Silvia Romano, una ragazza milanese di 25 anni, laureata in mediazione linguistica con una tesi sulla tratta di esseri umani, è stata rapita in un villaggio nel sud-est del Kenya il 20 novembre 2018, mentre svolgeva il suo incarico come volontaria per la ONG marchigiana “Africa Milele”. La giovane fu portata via da alcuni uomini armati e, dopo vari trasferimenti e passaggi di consegna tra diverse bande di rapitori, fu successivamente trasferita in Somalia, dove è stata tenuta sotto sequestro per più di un anno dai jihadisti di al-Shabaab.

La cooperante italiana Silvia Romano è stata finalmente liberata sabato 9 maggio 2020, dopo 18 mesi di prigionia: l’emozione e la gioia collettiva sono, tuttavia, state turbate dall’immagine rimbalzata su tutti i media di una ragazza profondamente cambiata, scesa dall’aereo avvolta in una veste islamica verde. Silvia Romano ha dichiarato di essere stata trattata bene dai suoi carcerieri, nonché di essersi spontaneamente convertita alla religione islamica. La ragazza, il cui nome ora è Aisha, ha raccontato di aver superato i durissimi mesi di sequestro grazie alla lettura del Corano e all’apprendimento della lingua araba: la sua conversione sarebbe, quindi, frutto di una lenta maturazione interiore. Non sono mancate polemiche anche a seguito di un’intervista al quotidiano La Repubblica nella quale un portavoce di al-Shabaab ha confermato che è stato pagato un riscatto per la liberazione di Silvia Romano e che il denaro sarà impiegato soprattutto per l’acquisto di armi necessarie alla jihad. Tale portavoce dell’organizzazione terroristica ha inoltre aggiunto che la giovane si è convertita all’Islam volontariamente “perché ha visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva prima”.

Per quanto riguarda il vissuto di Silvia Romano nel periodo di prigionia, nessuno può sapere con certezza quale sia stato il suo universo interiore o il suo microcosmo relazionale perché non sono state condotte ricerche sociologiche a riguardo. Tuttavia, è ipotizzabile che Silvia Romano abbia attraversato molte difficoltà, una vera e propria odissea esistenziale dalla quale, probabilmente, nessuno di noi sarebbe potuto uscire immune, senza subire un profondo capovolgimento nel proprio modo di percepire la realtà. Il trauma del rapimento, la paura di morire o di essere sottoposta a violenze, l’isolamento e lo sradicamento totale da ogni legame con il mondo appartenente alla sua vita precedente sono solo alcuni elementi che caratterizzano il periodo di prigionia. Silvia Romano potrebbe aver vissuto tutto ciò ed aver dovuto cercare una strada nuova e del tutto imprevista per non impazzire o per non farsi sopraffare dalla disperazione in diciotto lunghissimi mesi di sequestro. Non è ancora possibile fornire una spiegazione né sociologica né psicologica della sua trasformazione senza aver avuto modo di analizzare i dettagli di quanto testimoniato dalla ragazza: molti aspetti della vicenda sono ancora oscuri, in quanto secretati dagli inquirenti. Analogamente, è ancora presto perché venga elaborato e reso disponibile il materiale di studio e la documentazione frutto di ricerche sul campo e di interviste: la storia di Silvia Romano è in fieri e sarà necessario un congruo lasso di tempo per poterne delineare i contorni con la giusta oggettività. Alcuni potrebbero, nell’attesa, comodamente imboccare la “scorciatoia” di una semplificazione ideologica del suo percorso, invocando l’ipotesi di fantomatici “lavaggi del cervello” inflitti alla giovane oppure richiamando la “sindrome di Stoccolma” a causa della mancanza di parole e di atteggiamenti ostili nelle prime dichiarazioni rilasciate da Silvia Romano nei confronti dei suoi carcerieri dopo il rientro in Italia.

Un’ipotesi di analisi sociologica su quanto potrebbe essere avvenuto durante la prigionia della ragazza ci viene offerta dagli studi compiuti da Marc Sageman(2004): Silvia Romano, forse, ha intravisto nel “tunnel” che stava attraversando una “uscita di emergenza”, rappresentata da un processo interiore di “risocializzazione”, e avrebbe percepito nell’adesione alla religione dei suoi carcerieri lo strumento per stabilire con essi un contatto, un rapporto di interazione basato sul rispetto reciproco, per sentirsi, quindi, meno isolata. Un ulteriore aspetto che possiamo considerare è il ruolo femminile nell’adesione all’Islam; per Sageman (2008), le donne rappresentano uno snodo cruciale nel processo di indottrinamento, non necessariamente verso la radicalizzazione, in quanto esse sono “l’infrastruttura invisibile” del sistema sociale e religioso musulmano.

Il valore simbolico della conversione di una donna occidentale all’Islam è altissimo: un’organizzazione estremistica come al-Shabaab o al-Qaeda non potrebbe che averne un considerevole ritorno di immagine e di prestigio in tutto il mondo arabo e non solo, al di là del probabile ingente riscatto ottenuto e indipendentemente dal fatto che Silvia Romano, presumibilmente, non diventerà mai una terrorista come loro.

 

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L’enigma del desiderio. Sesso, nostalgia e appartenenza – Recensione del libro di Galit Atlas

In L’enigma del desiderio. Sesso, nostalgia e appartenenza, Galit Atlas, con la prodezza di uno sguardo costantemente in divenire, accompagna il lettore verso l’enigmatico, l’ineffabile, della vita affettiva e sessuale.

Le radici della vita affettiva e sessuale

Vi sono aspetti della nostra esistenza che possiamo vedere e verbalizzare, altri che possiamo soltanto percepire o sperimentare, ascoltando quello che non viene detto, il silenzio tra le note […] il vuoto che contiene ogni cosa (Atlas, 2023, p.3).

Nel suo ultimo contributo “L’enigma del desiderio. Sesso, nostalgia e appartenenza” la psicoanalista Galit Atlas, con la prodezza di uno sguardo costantemente in divenire, accompagna il moto del lettore verso l’enigmatico, l’ineffabile, della vita affettiva e sessuale.

In un territorio dominato dall’eccesso e dalla perdita, senza mai perdere di vista la natura intersoggettiva delle interazioni umane e attingendo ai contributi di eminenti esponenti del panorama psicoanalitico, filosofico e religioso propone il tentativo di renderne visibili le radici, transitando tra la cultura occidentale e quella orientale.

Il suo vertice attentivo, orientato verso i primissimi scambi madre-bambino, punta a svelare la complessità della vita pre-edipica e a segnalare il suo legame con la sessualità adulta, superando rigidi divari e contrapposizioni che dominano il campo psicoanalitico. Da qui si espande la riflessione sulla necessità di innovare lo sguardo psicoanalitico sulla sessualità, ancora lacunoso nel riconoscimento della complementarietà degli aspetti che la riguardano.

Come figli e figlie – sostiene Galit Atlas (2023) – dialoghiamo con il corpo di nostra madre; come uomini e donne, incontriamo la sua identità e ne tratteniamo parti dentro di noi (p.6).

In tal senso, la soggettività e l’intersoggettività sono analizzate mettendo in luce la dialettica esistente tra gli aspetti afferrabili, o “pragmatici” e ignoti, o enigmatici, che caratterizzano le relazioni, partendo dalle prime esperienze di contatto con il corpo materno fino ad arrivare alla vita adulta.

Il corpo protagonista di aspetti enigmatici, oltre che pragmatici, viene scandagliato nelle sue parti visibili e meno visibili, presentato nelle sue potenzialità e fragilità, svincolato dal rigido incasellamento di genere.

Attraverso le storie dei suoi pazienti offre al lettore la possibilità di scorgerlo in un gioco di pieni e vuoti, di accostarsi alle potenti emozioni, alla sofferenza, alla perdita evocata dall’esperienza sessuale e alle dinamiche ad essa soggiacenti. Diviene così afferrabile, percorrendo i suoi “racconti terapeutici”, nel viaggio personale verso una nuova regolazione emotiva, la ricerca spasmodica e comune di un vuoto da riempire che espone a nuova intensa condizione di angoscia ed eccitazione senza possibilità di contenimento.

Vulnerabili, eccitati, sollecitati da emozioni potenti da cui tentano di proteggersi, individuiamo paziente e analista impegnati a co-costruire, elaborare, tradurre quella commistione di parole e silenzi strettamente interconnessi –che appartengono al momento presente e alle loro storie passate– e ad anticipare inconsapevolmente il loro futuro.

La vita pre-edipica, la seduzione e la vergogna

Sebbene non esistano ancora evidenti dati a sostegno di un legame diretto tra specifici pattern di attaccamento e la vita sessuale, le prime esperienze di contatto con il corpo materno e la loro influenza sulla capacità di regolazione emotiva nelle successive relazioni, sono state indagate fornendoci significative informazioni sull’importanza di questi precoci scambi. L’Infant Research, in particolare, attraverso i suoi studi, ha rilevato che la disregolazione materna impedisce alla madre di percepire correttamente le proprie emozioni. Più nel dettaglio, tale condizione ostacola anche la sua possibilità di identificare e rispondere correttamente alle emozioni dell’infante esponendolo a sua volta ad una condizione di disregolazione emotiva. Secondo Galit Atlas, una diade così funzionante, in cui prevalgono gli aspetti enigmatici nella relazione, ossia una diade costituita da “madri enigmatiche”, è una diade in cui il corpo materno non riesce a svolgere correttamente la sua funzione di contenimento di questi aspetti inafferrabili, introducendo una condizione di disorganizzazione che spingerà successivamente l’adulto attraverso la sessualità a cercare una riparazione.

L’attaccamento alla madre, allora, è sempre presente, nelle nostre relazioni consce e inconsce con gli altri. Abbiamo nostalgia di quello che abbiamo perduto […]. In altre parole, attraverso il sesso non cerchiamo di entrare in contatto con l’oggetto pragmatico reale soltanto (Atlas, 2023, p.25).

Per chiarire meglio questo aspetto, affidandosi al pensiero di Laplanche, l’autrice conduce il lettore alla scoperta della seduzione, evidentemente densa dei suoi significati irrappresentabili –provenienti dall’inconscio materno– e diretti verso il corpo e la mente del bambino, indicandola come condizione fondamentale per lo sviluppo del suo inconscio e dei risvolti sulla vita adulta.

L’eccitazione, i pensieri, le preoccupazioni che affliggono i suoi pazienti sono presentate nella loro dimensione eccessiva e soverchiante. C’è sempre un troppo che non può essere contenuto, che può generare disgusto, vergogna, angoscia di abbandono. Sono, di fatto, testimonianze di una difficoltà di autoregolazione emotiva che non tarda a palesarsi nelle relazioni affettive della loro esistenza e nella stanza d’analisi. Galit Atlas riconduce queste esperienze ai “fallimenti intersoggettivi” dei primissimi scambi madre-bambino e presenta l’emergere delle difese che quest’ultimo sviluppa per fronteggiare tutte quelle situazioni in cui l’altro viene meno quale adulto responsivo. In tali circostanze i desideri non possono essere riconosciuti, i bisogni sono negati e il controllo diventa inevitabile.

Quando l’investimento è indirizzato alla mente come a un oggetto che, in maniera onnipotente, cerca di sostituire l’ambiente di custodia e cura del bambino, nelle prime fasi dello sviluppo si manifesta la tendenza ad allontanarsi prematuramente dalla madre, volgendosi piuttosto verso la mente che, a quel punto, sostituisce l’oggetto in un processo di adattamento al fallimento intersoggettivo e nel tentativo di risolvere il problema del “desiderio” e dei bisogni pieni di vergogna della mente e del corpo (Atlas, 2023, p.67).

Seguendo i racconti clinici dei suoi pazienti diviene possibile, di fatto, osservare proprio quelle condizioni in cui la perdita, che non può essere vissuta, determina il manifestarsi di “fantasmi”, in cui viene proiettata la parte del sé, carica di aspetti spaventosi e che generano vergogna.

Attraverso i contributi di Jessica, Benjamin, Sullivan e Bromberg, Hartman, l’autrice segnala come in una condizione di mancato contenimento, l’eccesso esperito dall’infante nel contatto con il corpo materno lo conduca a dissociare parti attive e passive del sé, cercando un sostituto che le contenga. In tal senso, il fantasma diviene il ricettacolo delle parti inaccettabili del sé, il “non me” che, tuttavia, finisce per assumere il controllo. Tuttavia, questo fantasma –per riprendere il riferimento alla tradizione ebraica a cui Galit Atlas attinge–, sospeso tra vita e morte, cerca una persona in cui penetrare per poter raggiungere la riparazione.

Dipendenza, abbandono e svezzamento

Le esplorazioni dello scenario relazionale condotte dall’Infant Research sulle diadi madre-bambino hanno permesso di rilevare precocemente il manifestarsi di una relazione co-costruita da parte di entrambi i membri appartenenti alla diade che sono sin dai primissimi scambi in una condizione di interazione reciproca. L’individuazione e la descrizione di specifici pattern di attaccamento ha permesso, inoltre, di rilevare che la perturbazione della relazione tra madre e bambino può innescare reazioni differenti da parte dei bambini in relazione ad una maggiore o minore capacità di tollerare la separazione. Più nel dettaglio, in presenza di pattern di attaccamento ambivalenti, il bambino, in assenza del caregiver, mostra difficoltà a tollerare la separazione, anche se di breve durata, manifestando ansia e collera o indifferenza anche dopo il ricongiungimento.

Come fa notare Galit Atlas (2023):

Lo stile di attaccamento ambivalente è legato alla fantasia di una fusione regressiva armoniosa con la madre, finalizzata a negare una possibile separazione. In fasi successive della vita, l’investimento emotivo del bambino e dell’adulto ansioso mira a controllare e a mantenere l’oggetto vivo, vicino e inseparabile (p.115).

Quando questo accade, la separazione, vissuta come un abbandono, può essere interpretata dal bambino come conseguente all’inaccettabilità del suo bisogno e alla sua distruttività.

Attingendo ai contributi di Carper, l’autrice segnala la necessità di non trascurare il legame tra distruttività e dipendenza, di cui questi bambini –poi adulti– si fanno testimoni, e il loro bisogno di riparazione. In essi, infatti, l’attacco mosso verso l’oggetto è necessario per un’illusoria percezione di controllo e per la liberazione dalla dipendenza. Pertanto, si comprende bene come in una tale condizione, lo “svezzamento”, venga a rappresentare la soluzione per rendersi indipendenti e non essere più esposti all’angoscia terrificante dell’abbandono e della perdita.

Rotture nell’unità e punti di svolta

La cesura della nascita, del venire al mondo come bambino e come madre, concerne la perdita di un respiro, quando sfioriamo lo spazio in cui il significato si sbriciola, dove io sono “me” e “non me”, quando le cose sono note e completamente sconosciute

Se c’è un aspetto che non può sfuggire della maternità è senz’altro quello che riguarda la tensione tra vita e morte, creazione e frammentazione, mondo interno e mondo esterno. Si tratta –come sostiene Galit Atlas– di un’esperienza che possiede numerose parti enigmatiche non ancora attentamente prese in esame. In tal senso, il suo tentativo si spinge proprio nella direzione di fornire una lettura differente della maternità e della nascita, segnalando la mancata integrazione del potenziale distruttivo e trasformativo che le riguarda.

Proseguendo nella sua riflessione l’autrice segnala la rottura esistenziale che caratterizza la nascita, come esperienza vissuta tanto dal bambino quanto dalla madre, sebbene in quest’ultima non sia stata ancora sufficientemente indagata. Il corpo protagonista del generare e del venire al mondo è osservato nella sua potenza e nella sua fragilità e nella permeabilità, rottura e ricostruzione dei suoi confini fisici ed emotivi.

Siamo tutti nati da una donna e, in questo senso, la vagina rappresenta la via d’accesso non soltanto alla mente e al corpo, bensì anche al mondo, oltre che la capacità enigmatica e pragmatica di nascere e rinascere e il continuum all’interno di quella cesura (Atlas, 2023, p.80).

Superando il contributo di Winnicott, Galit Atlas propone una prospettiva il cui la “paura del crollo” è letta all’interno di una cornice intersoggettiva. La rottura, di fatto, avvenuta nella mente della madre viene acquisita dal bambino proprio in virtù della “connessione intersoggettiva” esistente tra madre e bambino e non dovrebbe essere considerata, come fa notare, espressione di una assenza di connessione. È, infatti, attraverso la comunicazione inconscia che la rottura avvenuta è trasmessa dalla madre al bambino.

Inoltre, analizzando nei capitoli a seguire la gravidanza, più nel dettaglio, ne segnalerà fantasie, preoccupazioni, spinte alla fusionalità, sogni e movimenti aggressivi affrontati quando entrambi i membri della coppia analitica sono immersi nel processo della “nascita della madre”.

Sessualità e immigrazione

In prossimità della seconda sezione del testo, Galit Atlas riserva al lettore uno spazio intimo in cui lo invita a scoprire la sua storia, le difficoltà incontrate nel passaggio da oriente a occidente, il suo desiderio di trovare una casa. In questo spazio racconta la vergogna, la curiosità e le prime consapevolezze sulla sessualità maturate nell’ambiente in cui le donne amavano trattenersi e parlare, quello della cucina. Diversamente dall’immaginario comune, la cucina viene presentata dall’autrice come luogo profondamente enigmatico, sede del piacere e della proibizione.

Noi ragazze imparavamo il linguaggio poetico molto velocemente e capivamo anche che, quando in cucina venivano usate rime e metafore oscure, di solito si riferivano al sesso (Atlas, 2023, p. 136).

La sua storia, come quella di molti pazienti immigrati, incontrati nella stanza d’analisi, le hanno consentito di analizzare la relazione tra immigrazione e sessualità, conducendola a segnalare l’influenza della componente traumatica dell’immigrazione sulla sessualità. Mettendo a confronto la cultura medio-orientale e quella occidentale evidenzia il differente rapporto tra desideri, piacere e interdetti nel contatto con l’altro. Nel varcare le tre porte, a cui fa riferimento metaforicamente per segnalare i principali momenti di svolta della sua vita, segnala proprio le difficoltà di adattamento a nuove norme, l’emozione della vergogna e l’influenza del corredo culturale, incontrate nella sua vita proprio come i suoi pazienti. Puntando, inoltre, l’attenzione verso una difficoltà piuttosto comune a parlare di sessualità, sostiene:

[…] il divario tra le culture è un buco nero che cattura buona parte di quello di cui non parliamo: l’orrore, la vergogna, la confusione. La sessualità, allora, trattiene nella propria orbita una lunga tradizione enigmatica di silenzio e vergogna. Bugie e camuffamenti sono quasi sempre parte delle sue manifestazioni esteriori (Atlas, 2023, p.140).

In tal senso, non solo chi chiede aiuto, ma anche chi si trova nella posizione di fornirlo non sembra sfuggire alla difficoltà di parlare di sessualità, ricorrendo alla vergogna e al senso di colpa per introdurre divari necessari per negare l’irrappresentabile. È così che:

L’Altro primitivo –una donna, oppure una cultura– allora contiene le proprie parti irrazionali e disinibite, come pure le parti vulnerabili e dipendenti (Ivi p. 149).

Visioni e suggestioni sul lavoro psicoanalitico

Come non aderire, allora, all’invito alla riflessione che Galit Atlas (2023), a mio avviso, rivolge non solo ai professionisti del panorama psicoanalitico quando afferma:

[…] dobbiamo riconoscere che alcune cose possono essere sentite soltanto da dentro, non attraverso l’interazione reale osservata tra due persone ma, piuttosto, nelle aree enigmatiche e invisibili della mente interiore, il luogo in cui sento me stessa e così ti conosco, il luogo in cui ti sento e mi conosco (p.89).

È, infatti, proprio scoprendo desideri, emozioni, vulnerabilità, impasse, confusione di confini e punti di svolta che avvengono all’interno dello spazio intersoggettivo tra paziente e analista, che conduce il lettore a scoprire i prodotti, per usare la sua metafora, del processo di “cucinare insieme”. Attraverso l’esplorazione degli aspetti enigmatici e pragmatici rivela la necessità di un “tocco affidabile” e contenitivo dinanzi all’ipereccitazione e all’angoscia abbandonica suscitata da bisogni e desideri sessuali. Ecco che nostalgia e distruttività, rabbia e angoscia appartenenti ad entrambi i membri della coppia divengono forieri di rotture più o meno intense a cui seguono riparazioni. Come pure il farsi strada nella stanza d’analisi di un linguaggio enigmatico che contiene tenerezza e aggressività, può portare in superficie in entrambi i membri della coppia l’esistenza di un livello infantile e uno adulto a cui appartengono specifici bisogni. Qui il trauma, fa notare l’autrice, può appartenere non solo al paziente. Quando questo accade, attraverso il processo analitico, la co-creazione di un “protettore-testimone” terzo consente il processo di integrazione di parti prima dissociate.

Parole, silenzi, sogni, emozioni dirompenti si avvicendano nello spazio intersoggettivo permettendo elaborazioni di crolli attraverso nuove difese. Collusioni protettive, difese dal materiale erotico, uno sguardo prospettico e retrospettivo nell’uso dell’enactment sono posti sotto la lente di ingrandimento per l’individuazione di buone prassi.

Il futuro enigmatico e la morte e l’incontro con la madre

L’enigmatico sin qui osservato costituisce una premessa alla riflessione conclusiva e, a mio avviso, esistenziale, in cui è il futuro ad essere analizzato nei suoi aspetti ignoti, o meglio nelle possibilità possedute dall’uomo a cui, pur inconsciamente, si accosta attraverso i suoi sforzi.

Appare qui interessante il lavoro che Galit Atlas insieme ad Aron compiono per proporre una visione dell’agency umana in cui presentano le potenzialità e l’attività dell’uomo come creatore del proprio destino. In altri termini:

[…] noi sosteniamo che tutte le produzioni della mente, tutte le formazioni di compromesso includano qualche anticipazione inconscia del futuro e lo sforzo di trasformare il fato in destino (Atlas, 2023, p. 176).

Attingendo ai contributi di Jung, Bion e Bollas presentano la funzione prospettica degli enactment, introducendo delle novità rispetto alle principali riflessioni esistenti nel panorama psicoanalitico. La loro tesi individua gli enactment riconoscendo la “drammatizzazione reciproca” di paziente e analista e la capacità generativa posseduta capace di anticipare il futuro.

Per finire, l’autrice conclude il suo contributo riservando lo spazio conclusivo al tema della morte fisica, quale enigma per eccellenza, in cui la familiarità e l’aspetto perturbante che la caratterizza viene ricondotto all’incontro con la madre, a quel “tornare da dove siamo venuti”, radice dell’enigma del desiderio.

 

La stoffa del leader: un’introduzione alla psicologia della leadership

Nel corso degli anni sono state elaborate numerose teorie sulla leadership allo scopo di spiegare l’efficacia o l’inefficacia di alcuni leader.

Un’introduzione sul concetto di leadership

Con il termine leadership si intende l’insieme dei processi implicati nella guida di altri individui, di cui fanno parte l’organizzazione, la direzione, il coordinamento e la motivazione degli sforzi di quest’ultimi per il raggiungimento di determinati obiettivi del gruppo (APA, 2015). Nella sua forma più elementare, si tratta di un processo di influenza che una persona, ovvero il leader, esercita nei confronti dei restanti membri del gruppo. Ciononostante, la leadership può essere reciproca, cioè quando i leader influenzano i seguaci e i seguaci influenzano i leader, transazionale, quando leader e seguaci si scambiano nel corso del tempo energie e competenze al fine di aumentare la quantità di ricompense potenzialmente ottenibili, trasformazionale, nel caso in cui i leader ispirano e motivano i seguaci a tal punto da innescare in loro un mero cambiamento, e cooperativa piuttosto che coercitiva, ovvero quando i seguaci accettano volontariamente o meno le proposte avanzate dal leader (Palomari et al., 2002).

Teorie storiche sulla leadership

Nel corso degli anni sono state elaborate numerose teorie allo scopo di spiegare l’efficacia o l’inefficacia di alcuni leader. In questo quadro è possibile ricordare, per esempio, la teorie dei tratti di personalità, le quali si concentrano sull’individuazione di una serie di caratteristiche generali che un leader è chiamato a possedere per essere tale indipendentemente dalle caratteristiche del gruppo al quale egli appartiene, ovvero abilità di supervisione, intelligenza, sicurezza di sé e risolutezza (Colbert et al., 2012). Parallelamente, sono state costruite delle teorie cognitive sulla leadership, tra cui la teoria della categorizzazione del leader (leader categorization theory). Quest’ultima postula che i singoli membri del gruppo valutino in maniera automatica e spontanea la misura in cui gli individui, compresi loro stessi, possono essere classificati come leader. Tali giudizi vengono determinati dalle credenze che i membri possiedono rispetto alle caratteristiche possedute dalla maggior parte dei leader di cui essi stessi hanno fatto conoscenza (Lord et al., 1984).

Quali caratteristiche deve possedere un leader?

Degna di nota è inoltre la prospettiva di Douglas MacGregor (1960), il quale ha individuato due categorie di leader: quelli della teoria X, i quali consideravano i propri collaboratori come mezzo meccanico da dirigere per raggiungere un fine, e quelli della teoria Y, i quali credevano invece che i propri collaboratori potessero svolgere un ruolo più attivo nel gruppo e sentirsi coinvolti in prima persona nel conseguimento degli obiettivi e nell’organizzazione del collettivo.

Supponendo di essere parte di un gruppo in cui è presente un leader della teoria Y, quali sono gli elementi che lo contraddistinguono? Per rispondere a questa domanda è possibile menzionare una serie di skills che al giorno d’oggi appaiono imprescindibili per un leader:

  • La prima di esse è una buona capacità di team-building, ovvero un leader di successo è spesso e volentieri alla ricerca di talenti, si concentra sullo sviluppo e sull’affinamento delle abilità dei membri del gruppo e, soprattutto, è capace di costruire un impegno condiviso e un forte senso di appartenenza nei componenti del team (Ammeter et al., 2002).
  • La seconda riguarda la capacità di infondere delle aspettative positive. Decenni di ricerche sull’effetto Pigmalione dimostrano infatti che nutrire aspettative positive circa le capacità e le prestazioni dei membri del gruppo porta quest’ultimi a ottenere dei risultati migliori (Eden, 1992). In altre parole, credere sinceramente nel proprio team può spronarlo al successo. In aggiunta, i leader che presentano una mentalità inclusiva sono quelli che guidano i team più efficaci. A tal proposito, la ricerca scientifica dimostra che i leader che utilizzano il pronome “noi” più frequentemente rispetto al pronome “io” mentre parlano al gruppo si ritrovano a coordinare membri più impegnati e ispirati (Johnson, 2020).
  • La terza riguarda la prioritizzazione del gruppo: quando un leader di successo è chiamato a mettere al primo posto il benessere dei membri del team. Sostenere i membri del gruppo ed essere premurosi o empatici nei loro confronti è dunque fondamentale per un leader (Coles et al., 2020). Non è un caso che le organizzazioni più affermate si assicurino che i loro dipendenti siano soddisfatti e impegnati, condicio sine qua non per il raggiungimento di migliori prestazioni e lunghi profitti.
  • Infine, la quarta è costituita dal pensiero proattivo: un buon leader è colui che anticipa non solo le mosse dei competitors, ma anche le esigenze dei membri del gruppo di cui è parte (Hu et al., 2018). Ciò include uno spiccato interesse per la crescita e lo sviluppo dei componenti del team nel loro lavoro e nella loro carriera, l’anticipazione del momento in cui un individuo potrebbe lasciare l’azienda e la costruzione di un piano per la sua sostituzione. Questo aspetto può comportare  anche la necessità di accogliere le esigenze dei singoli, per esempio concedendo congedi parentali o la possibilità di lavorare da remoto.

Detto ciò, in futuro, la ricerca in psicologia sociale, oltre a comprendere quali siano le caratteristiche effettive di un leader di successo, potrebbe verificare se gli attributi di quest’ultimo cambino in relazione al contesto in cui egli si trova ad operare (Khoshhal & Guraya, 2016). Per esempio, gli attributi del leader di un equipe sanitaria sono gli stessi di quelli di un leader che lavora in ambito assicurativo, automobilistico o sportivo?

 

Dipartimento di Formazione Continua: il piano formativo ECM di Studi Cognitivi

Studi Cognitivi Formazione presenta il piano formativo ECM, offerto dal Dipartimento di Formazione Continua e rivolto ai professionisti della salute mentale.

 

Il Dipartimento di Formazione Continua ha l’obiettivo di sviluppare le competenze dei professionisti della salute mentale e costruire progetti terapeutici evidence-based nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale, con lo scopo di migliorare il livello della salute mentale in Italia, attraverso professionisti altamente formati e qualificati.

Il Dipartimento di Formazione Continua propone un percorso di aggiornamento continuo rivolto agli psicoterapeuti CBT che hanno frequentato una scuola di specializzazione del gruppo Studi Cognitivi, agli psicoterapeuti di altro orientamento interessati ad acquisire conoscenze in ambito CBT, ai medici o agli psichiatri desiderosi di ampliare le proprie competenze psicologiche o agli psicologi che intendono arricchire la pratica diagnostica con una prospettiva terapeutica più approfondita.

L’ambiente formativo

L’ ambiente formativo offre l’opportunità di interagire con docenti esperti e professionisti del settore. La comunità di apprendimento consente di condividere esperienze, scambiare idee e costruire connessioni significative con colleghi che operano nel campo della salute mentale.

Qualità riconosciuta e varietà di formazione

Studi Cognitivi Formazione è riconosciuta da più di 20 anni per la qualità dei programmi formativi che propone nelle sue scuole.

L’offerta formativa del Dipartimento di Formazione Continua prevede una vasta selezione di argomenti che riguardano le tecniche e i protocolli della terapia cognitivo-comportamentale.

La concettualizzazione Libet come guida per il progetto terapeutico

Il termine LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment) fa riferimento a un modello di concettualizzazione del caso clinico adottato in ambito cognitivo esistenziale (Sassaroli, 2013).

Tale concettualizzazione si basa sulla nozione di tema di vita: uno stato mentale di sofferenza soggettiva che può dipendere da esperienze spiacevoli dolorose e/o ricorrenti nella storia individuale, e sulla nozione di piani semi-adattivi, l’insieme delle strategie con cui la persona ha cercato di proteggersi dalla sofferenza psicologica che possono essere state utili parzialmente o limitatamente a un certo contesto di vita ma che possiedono anche conseguenze problematiche spesso non riconosciute o sottovalutate.

Gli ex allievi delle scuole del gruppo avranno accesso direttamente alla formazione LIBET ADVANCED.

Conoscenze e applicazione delle tecniche

Tra i corsi proposti ci sono:

  • Tecniche di gestione degli antecedenti
  • Tecniche di riduzione dell’arousal
  • Tecniche di esposizione
  • Tecniche di skill training
  • Tecniche di attivazione comportamentale
  • Tecniche di ristrutturazione cognitiva
  • Tecniche metacognitive

Disturbi trattati

Inoltre, sono erogati corsi specifici per disturbi come:

  • Disturbo da attacchi di panico
  • Disturbo d’ansia generalizzata
  • Disturbo d’ansia sociale
  • Fobie specifiche
  • Disturbo d’ansia per la salute
  • Disturbi Ossessivo-Compulsivi
  • Disturbo Post-Traumatico da Stress
  • Disturbi Depressivi
  • Disturbi Bipolari e Psicosi

Disturbi di Personalità

Sono parte del percorso di approfondimento i Disturbi di Personalità:

  • Disturbo Borderline di Personalità
  • Disturbo Narcisistico di Personalità
  • Disturbi di Personalità Ansiosa (es. OCD)

Corsi tematici

Infine, sarà possibile frequentare corsi tematici:

  • Il rischio suicidario: dalla valutazione alla gestione del contratto
  • LIBET primary
  • LIBET advanced
  • ACT Acceptance & Commitment Therapy (Primary)
  • ACT Acceptance & Commitment Therapy (Advanced)
  • Introduzione alla Schema Therapy
  • Schema therapy (I livello di certificazione)
  • TCC dell’Età Evolutiva
  • Elementi di Terapia Dialettico Comportamentale
  • Terapia CBT della Coppia
  • La terapia cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia sociale
  • Trattamento MCT per il disturbo d’ansia generalizzata
  • La terapia Metacognitiva – Il disturbo da uso di alcool

Ogni corso è arricchito da esempi e casi clinici, che consentono ai partecipanti di effettuare una diagnosi funzionale a partire dalla storia di vita del paziente, di analizzare la domanda, di comprendere come agire per motivare al cambiamento e progettare e attuare un intervento terapeutico efficace. A differenza dell’approccio cognitivo standard, nella LIBET viene approfondita l’evoluzione del LMI (Luogo Mentale Intollerabile) all’interno della storia di vita individuale, considerando altresì l’influenza di figure significative e di accudimento.

Metodologie formative funzionali all’apprendimento

Il Dipartimento di Formazione Continua si avvale dell’utilizzo di metodologie formative che massimizzano l’apprendimento e permettono di applicare le conoscenze in modo efficace. I corsi sono progettati per garantire risultati duraturi e per rispondere ai bisogni e agli stili di apprendimento di ciascun partecipante.

Le metodologie includono:

  1. Approccio pratico ed esperienziale: i corsi proposti integrano esercitazioni pratiche, simulazioni di casi clinici e attività di role-playing, permettendo di mettere in pratica le competenze apprese e sviluppare le abilità cliniche.
  2. Apprendimento collaborativo tramite discussioni di gruppo e scambi di esperienze con gli insegnanti, ma anche tra colleghi.
  3. Materiale didattico multimediale: è previsto l’utilizzo di una varietà di risorse didattiche, tra cui presentazioni interattive, video, materiali audio e studi di caso
  4. Supporto personalizzato: i docenti forniscono supporto costante agli iscritti attraverso sessioni di domande e risposte, forum online o sessioni di mentoring individuali

Studi Cognitivi Formazione offre inoltre la possibilità di comporre, per ciascun iscritto, un piano di studio personalizzato grazie al supporto di un consulente che aiuta il professionista a pianificare le date dei corsi e a costruire una proposta formativa in linea con i suoi obiettivi.

Per ricevere maggiori informazioni in merito al piano formativo proposto >> contatta Studi Cognitivi Formazione

Per consultare il catalogo dei corsi >> clicca qui

Il falso sé

Nel momento in cui le figure genitoriali non sono in grado di adattarsi ai bisogni del bambino, come difesa si costituisce il Falso Sé.

Lo sviluppo del bambino secondo Winnicott

 Donald Winnicott, dedicandosi allo studio dei primi mesi di vita del bambino, ha potuto notare e sottolineare l’importanza degli aspetti relazionali per lo sviluppo del bambino, in particolare con la figura materna. Tra i concetti da lui elaborati rientra quello della “madre sufficientemente buona”, requisito necessario per uno sviluppo sano del bambino. Una madre che soddisfa tale criterio adotta un comportamento adattivo nei confronti dei bisogni del bambino e ne supporta temporaneamente il senso di onnipotenza, facendo sì che egli possa procedere lungo la propria linea di sviluppo. Nelle prime fasi di vita si crea uno stato simbiotico che unisce madre e bambino, ma, nel corso del tempo, la fusione madre-bambino diminuisce gradualmente in modo da permettere al bambino di scoprire che esiste un mondo esterno. Questo progressivo cambiamento prevede spesso la presenza di un oggetto transizionale, cioè quegli oggetti, come una coperta, un peluche o un gioco, che accompagnano il bambino nel distacco, offrendo un’alternativa intermedia tra la presenza costante della madre e la sua totale assenza. Il distacco implica il riconoscimento dei confini tra il Sé e l’altro, processo nel quale il bambino necessita della conferma dei genitori, che possano rimandargli la sua esistenza in quanto singolo e supportarlo nello sviluppo e nel contatto con il mondo, che gli permetterà la costruzione di un senso del Sé.

Il concetto di Falso Sé

Nel momento in cui le figure genitoriali non sono in grado di adattarsi ai bisogni del bambino, come difesa si costituisce il Falso Sé: quando il bambino non si sente visto o compreso, sviluppa il Falso Sé come un modo per ottenere l’amore di cui ha bisogno e utilizza il Falso Sé come strategia per sopravvivere in un ambiente che sembra non accoglierlo, nascondendo il vero Sé.

Spesso ciò che ne scaturisce è un adattamento ai bisogni e alle aspettative dei genitori; a partire dall’esperienza passata, l’individuo avrà timore di essere rifiutato, respinto o punito. Il Falso Sé può essere quindi considerato come una risposta difensiva alle esperienze precoci in cui il vero Sé dell’individuo non è stato adeguatamente riconosciuto o accettato.

Il concetto di Falso Sé mette in evidenza la complessità dell’identità e dell’autenticità umana: se da un lato il Falso Sé può fornire un senso di sicurezza e protezione, dall’altro può anche creare una profonda disconnessione dal Sé autentico. La mancata espressione o costruzione del Sé può tradursi in un malessere psicologico che il bambino vivrà nell’immediato o in un periodo successivo. È comune in queste persone il senso di vuoto: non potendo abbandonarsi a sentimenti propri e non avendone fatto esperienza, la persona non conosce i suoi veri bisogni ed è alienata da sé stessa, sino a non riconoscere e diversificare i propri bisogni da quelli degli altri (Remigio, 2020).

Il vero Sé

Un adulto può vivere serenamente i propri sentimenti solo se da bambino ha avuto genitori amorevoli e validanti. Quando ciò non avviene risulterà compromessa l’autenticità della persona e ne conseguirà l’adozione di una maschera che l’individuo userà per adattarsi alle richieste degli altri e sentirsi accettato.

Ognuno di noi ha in realtà un Falso Sé, poiché, senza di esso, saremmo troppo esposti e vulnerabili. Esso infatti non deve essere considerato completamente negativo o dannoso, ma deve essere riconosciuto come una risposta semi-adattiva che ha permesso alla persona di sopravvivere. Il riconoscimento del Falso Sé può condurre a una maggiore consapevolezza e a scelte più autentiche e soddisfacenti. Attraverso esperienze relazionali autentiche, che includono l’accettazione incondizionata e il riconoscimento empatico delle emozioni e dei bisogni della persona, sarà possibile avere una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e desideri e raggiungere un equilibrio che permetta di esprimere se stessi e allo stesso tempo non sentirsi rifiutati dall’altro. Per giungere a questo sarà probabilmente necessario un percorso arduo di separazione dall’altro e di esposizione al rischio del rifiuto, ma ciò che se ne ricaverà sarà finalmente l’emergere del vero Sè.

La psicoterapia nello sviluppo delle intelligenze artificiali – Psicologia Digitale

I chatbot di intelligenza artificiale (IA) si fondano su modelli di linguaggio di grandi dimensioni (large language models, LLM) alimentati da una enorme mole di dati. La loro vera forza però è che continuano ad apprendere quando interagiscono.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 40) La psicoterapia nello sviluppo delle intelligenze artificiali 

 Quando “parliamo” con un chatbot avanzato, quello che scriviamo è un’ulteriore fonte di apprendimento che va ad aggiungersi ed integrarsi con i dati già noti e con quelli presi online in tempo reale.

Negli ultimi mesi milioni di utenti hanno potuto conversare con i chatbot come ChatGPT di OpenAI e Bing Chat di Microsoft; è stupefacente il grado di accuratezza delle informazioni e la somiglianza con un dialogo umano.

Come costruire una buona IA

Non bisogna dimenticare che si tratta di una simulazione: per quanto assimilabile al linguaggio umano rimane pur sempre una tecnologia.

Il fatto che, per esempio, possano rispondere in maniera empatica non vuol dire che provino realmente empatia. Inoltre, le risposte dipendono in larga parte dai dati con i quali sono state addestrate e potrebbero quindi riflettere pregiudizi e bias.

Per questo è importante sviluppare intelligenze artificiali allineate con standard di sicurezza, affidabilità ed eticità, che siano trasparenti e tutelino la privacy degli utenti.

L’ideale è adottare un approccio incentrato sull’uomo e non solo sullo sviluppo di sistemi sempre più complessi e avanzati dal punto di vista tecnico.

In tutte le fasi, dalla progettazione e sviluppo al monitoraggio e valutazione, bisogna tener conto di cos’è davvero la comunicazione umana, quali sono le norme in un dato contesto, quali le reazioni che potrebbero avere gli utenti e l’impatto generale di un dialogo con un chatbot. Nella comunicazione umana le risposte dipendono anche dal contesto più ampio ed è necessaria la comprensione delle sfumature più sottili.

Addestrare l’IA con la psicoterapia

Attraverso numerose pratiche e tecniche un terapeuta può aiutare i pazienti a superare difficoltà e sviluppare strategie più adattive, efficaci e sane. A prescindere dallo specifico orientamento che indirizza il trattamento, il dialogo è una risorsa imprescindibile di qualsiasi psicoterapia.

Lin e colleghi (2023) propongono di addestrare le intelligenze artificiali come fossero pazienti con i quali lavorare sulle aree carenti.

Un approccio basato sulla psicoterapia potrebbe portare allo sviluppo di IA centrate sull’uomo ed in grado di comprendere meglio l’esperienza umana, migliorarne le abilità comunicative, l’intelligenza emotiva, l’empatia, diminuire il rischio che si presentino pregiudizi, stereotipi e altri tipi di bias.

Nel loro studio hanno mostrato un esempio di come ciò si potrebbe realizzare. Gli autori hanno infatti progettato SafeguardGPT, un sistema che consente di lavorare su software già esistenti, come ChatGPT, e implementare nuove funzionalità.

SafeguardGPT utilizza tecniche di psicoterapia e apprendimento per rinforzo per correggere risposte non adeguate e migliorare le capacità di comunicazione. Il terapeuta (reale o virtuale) invita il chatbot a riflettere e modulare gli output sulla base di più elementi presenti nel dialogo in un circuito di feedback continuo.

Direzioni future

Esistono molti chatbot che utilizzano modelli linguistici; con l’evolversi di questi modelli diventerà sempre più difficile prevedere come verranno elaborate le risposte.

Per migliorarne le prestazioni si potrebbe addestrare l’intelligenza artificiale su set di dati molto ampi che comprendano anche, per esempio, trascrizioni di sessioni di terapia o indicazioni su specifici profili neurologici e psicologici, in modo da alimentare framework come SafeguardGPT e avere output più attendibili. Inoltre, in futuro è auspicabile utilizzare tecniche di feedback più avanzate come quelle multi-agente, in cui il circuito di feedback viene alimentato da più interazioni cooperative tra più agenti IA (Graber-Stiehl, 2023; Lin et al., 2023).

Sebbene il modello SafeguardGPT sia un contributo nuovo e interessante, c’è molta strada da fare perché i chatbot siano davvero affidabili e responsabili.

Soprattutto, perché siano realmente incentrati sull’uomo e non sul riprodurre caratteristiche e modalità umane.

Quello che sappiamo è che sono strumenti con infinite potenzialità in molti campi; sappiamo anche però che le persone tendono ad antropomorfizzare le macchine e che le loro esperienze dipendono in gran parte dalle loro aspettative nei loro confronti.

Ricordiamoci insomma che una tecnologia è solo una tecnologia.

 

Approcci computazionali e analisi del linguaggio: il futuro della ricerca in psicoterapia

Nonostante sia stato dimostrato che la psicoterapia è generalmente efficace per una serie di condizioni psicopatologiche, si sa ancora molto poco sulle modalità di utilizzo del linguaggio da parte dei terapeuti che risultano efficaci con i propri pazienti.

 

 In origine, uno dei metodi maggiormente impiegati in questo filone di ricerca consisteva nell’affidare a un essere umano l’identificazione degli enunciati clinicamente significativi espressi del terapeuta partendo dai trascritti delle singole sedute. Grazie alla loro aumentata potenza di calcolo, gli approcci computazionali consentono tuttavia di superare i limiti attentivi dell’individuo, nonché di facilitare la registrazione e la trascrizione delle sessioni terapeutiche. Miner et al. (2022) hanno adottato un metodo computazionale allo scopo di esaminare le caratteristiche del linguaggio espresso da psicoterapeuti e pazienti durante la psicoterapia. I ricercatori hanno valutato tre aspetti del linguaggio dei terapeuti, i.e. puntualità (timing), responsività (responsiveness) e coerenza (consistency) in una serie di domini linguistici clinicamente rilevanti, tra cui pronomi, orientamento temporale e polarità emotiva. I ricercatori hanno dimostrato che all’interno delle sedute le tipologie di linguaggio dei terapeuti erano (a) dinamico, (b) responsivo al linguaggio dei pazienti e (c) correlato con la diagnosi di quest’ultimi. Questi risultati hanno dimostrato che l’analisi computazionale del linguaggio espresso dalla diade psicoterapeuta-paziente è fattibile e che gli approcci computazionali possono aiutare a rispondere a domande di lunga data sui comportamenti specifici emessi dai terapeuti efficaci nel corso della terapia.

Metodi di ricerca in psicoterapia

Nel corso degli anni molti studi hanno provato a isolare quelle componenti delle sedute di psicoterapia che spiegassero il cambiamento terapeutico, cioè il miglioramento delle condizioni del paziente (Castonguay et al., 2010; Elliott, 2010). Fin dagli anni ’50 uno dei metodi maggiormente impiegati in questo filone di ricerca consiste nell’affidare a un individuo esperto in materia l’identificazione degli enunciati clinicamente significativi espressi del terapeuta partendo dai trascritti delle singole sedute. Sarà sempre l’individuo a trarre le conclusioni sulla base delle caratteristiche osservate (Rogers, 1942; Stiles, 1979). Sebbene sia stato fondamentale in passato, l’affidarsi esclusivamente all’ispezione umana dei trascritti resta un metodo che non permette di rispondere in maniera esaustiva alle critiche che negli ultimi anni sono state mosse alla ricerca sui processi psicoterapeutici, per esempio l’assenza di una buona riproducibilità dei risultati ottenuti o la scarsa scalabilità degli interventi applicati (Miner et al., 2020; Flemotomos et al., 2022). Ad oggi, disponiamo tuttavia di strumenti che ci consentono di ovviare a queste problematiche.

Tra di essi, gli approcci computazionali che analizzano il linguaggio naturale si configurano tra i principali candidati ad assumere una posizione di rilievo nella ricerca in psicoterapia da qui ai prossimi decenni. Grazie alla loro aumentata potenza di calcolo, questi metodi consentono infatti di superare i limiti attentivi dell’essere umano, nonché di facilitare la registrazione e la trascrizione delle sedute terapeutiche.

Studiare la psicoterapia con un approccio computazionale

In uno studio pubblicato su NPJ Mental Health Research a cura di Miner et al. (2022) è stato sperimentato un approccio computazionale in tre fasi con l’obiettivo di misurare il linguaggio di un gruppo di terapeuti e di pazienti durante delle sedute di psicoterapia individuale. Durante la prima fase è stato stilato un elenco di caratteristiche linguistiche clinicamente rilevanti (cioè pronomi, orientamento temporale e polarità emotiva); durante la seconda è stata registrata la puntualità (timing), la responsività (responsiveness) e la coerenza (consistency) del linguaggio dei soggetti; durante la terza fase è stata valutata la relazione tra il linguaggio del terapeuta e la diagnosi e gravità dei sintomi del paziente.

 Nel complesso, i risultati ottenuti dai ricercatori hanno messo in luce sfumature linguistiche del processo terapeutico che in precedenza solo raramente erano state misurate in maniera diretta. Il timing del linguaggio del terapeuta era estremamente dinamico, cioè subiva dei cambiamenti significativi tra l’inizio e la fine della seduta. A differenza di quanto accadeva in apertura, durante gli ultimi minuti della seduta i terapeuti utilizzavano una percentuale minore di parole con emotività negativa; una percentuale maggiore di parole focalizzate sul presente e sul futuro; una percentuale minore di parole focalizzate sul passato; una percentuale maggiore di pronomi personali, compresi quelli in prima persona singolare, in prima persona plurale e in seconda persona. Inoltre, verso la fine della seduta i terapeuti tendevano a parlare più velocemente e per una durata maggiore di tempo rispetto ai pazienti.

Nonostante il linguaggio dei terapeuti fosse fortemente dinamico, quello dei pazienti non mostrava le medesime tendenze, cioè il linguaggio del terapeuta non rispecchiava sempre il linguaggio del paziente nel corso della seduta. Per esempio, è stato osservato che all’inizio della seduta non vi fossero differenze significative tra pazienti e psicoterapeuti nell’utilizzo di pronomi personali in prima persona plurale, ma che verso la fine della stessa i terapeuti impiegassero un numero significativamente maggiore di pronomi personali in prima persona plurale rispetto ai pazienti.

Passando oltre, il linguaggio dei terapeuti risultava altamente responsivo a quello dei pazienti per una serie di caratteristiche linguistiche clinicamente rilevanti. Ad esempio, gli psicoterapeuti diminuivano la propria velocità di eloquio in risposta all’aumento della velocità di eloquio del paziente, o viceversa (i terapeuti rallentavano significativamente il loro eloquio quando i pazienti acceleravano il proprio). Oppure, i ricercatori hanno dimostrato che i terapeuti diminuivano nettamente l’utilizzo di pronomi personali in risposta all’aumento della velocità di parola (rate of speech) del paziente, o viceversa.

Infine, il linguaggio degli psicoterapeuti era consistente tra le sedute (cioè non subiva particolari cambiamenti se era lo stesso terapeuta a prendere parte a sedute differenti) e correlato alla diagnosi dei pazienti, ma non alla gravità dei sintomi di quest’ultimi (Miner et al., 2022).

Implicazioni per la formazione e la ricerca futura

Uno dei risultati maggiormente rilevanti ottenuti da Miner et al. (2022) è che alcuni schemi linguistici espressi dagli psicoterapeuti fossero molto simili nell’arco delle sedute nel caso in cui quest’ultime venissero eseguite dallo stesso professionista. Ciò potrebbe essere interpretato come una sorta di “firma del terapeuta”, coerentemente con un lavoro precedente che aveva individuato una serie di “firme” linguistiche espresse dai partecipanti in compiti di regolazione emotiva svolti in laboratorio (Nook et al., 2017). Nel campo della psicoterapia, è possibile che queste “firme” linguistiche possano riflettere le esperienze vissute, le preferenze o persino la formazione del terapeuta. Dunque, uno spunto per la ricerca futura è senz’altro quello di individuare se esistano delle “firme” più efficaci di altre sul piano clinico e se quest’ultime possano essere modificate. Sul piano formativo, il ricorso ad approcci computazionali consentirebbe di svelare il comportamento linguistico di terapeuti efficaci con i propri pazienti consentendo così ai giovani psicoterapeuti in formazione di “imparare dalle parole” dagli esperti. Tornando alla ricerca, se impiegati in accordo con i principi etici e deontologici che lo psicologo è tenuto a osservare, gli approcci computazionali possono rappresentare infine un metodo per incoraggiare la revisione critica e la collaborazione tra colleghi, nonché degli strumenti per giungere a valutazioni dell’aderenza e della qualità del trattamento maggiormente obiettive sia in contesti terapeutici reali che in contesti di natura sperimentale.

 

Sindrome della Rassegnazione: i sintomi di una condizione che colpisce i bambini rifugiati in Svezia

È disponibile su Netflix il documentario “Sopraffatti dalla vita” che mostra un particolare quadro psicopatologico che ha portato gli studiosi a identificare una possibile nuova sindrome, detta Sindrome della Rassegnazione, in merito alla quale gli interrogativi e i dubbi non stentano a emergere. La visione del documentario mi ha spinto ad approfondire l’argomento attraverso la lettura di articoli scientifici, alla ricerca dei primi dati e delle prime ipotesi in merito a tale Sindrome.

 

Cos’è la Sindrome della Rassegnazione?

 La Sindrome della Rassegnazione indicherebbe un disturbo di lunga durata che colpisce prevalentemente bambini e adolescenti che hanno vissuto un estenuante e faticoso processo di migrazione. L’evento scatenante infatti, sembrerebbe essere la risposta negativa alla richiesta d’asilo avanzata dalla famiglia del minore. Ma c’è di più: il fenomeno sembra verificarsi solo tra i figli di rifugiati in Svezia.

Come si manifesta la Sindrome della Rassegnazione?

I bambini che soffrono di Sindrome della Rassegnazione si ritrovano per mesi, se non per anni, in uno stato vegetativo senza che vi siano patologie mediche che possano giustificare questo stato.

I sintomi tipici evolvono in questo modo: l’ansia – spesso il primo sintomo che predice gli altri – e i sintomi depressivi, in particolare la letargia (grave stanchezza), progrediscono nello stupor (una condizione di mancata reattività dell’individuo) fino al raggiungimento di uno stato vegetativo del bambino e alla completa assenza di qualsiasi risposta agli stimoli esterni, compresi quelli che provocano dolore.

I pazienti possono essere ricoverati già dopo pochi giorni caratterizzati da rapido deterioramento e stupor. In altre occasioni invece vi è una presentazione più graduale di ansia, disturbi del sonno, ritiro sociale e altri sintomi, successivamente accompagnati da mutismo, incapacità di partecipare ad attività ludiche e scolastiche, incapacità di comunicare del tutto e, infine, di muoversi e rispondere agli stimoli, lasciando il paziente in posizione supina apparentemente incosciente e generalmente con gli occhi chiusi. In questa fase, si ricorre all’alimentazione mediante sondino.

La remissione avviene dopo mesi o anni in cui il bambino vive in questo stato vegetativo, con il ritorno graduale al recupero delle funzioni e dell’autonomia pre-sindrome. Il recupero si pensa sia legato al ripristino della speranza da parte della famiglia di ottenere l’asilo politico.

Sindrome della Rassegnazione: alcuni dati

Dal 1 gennaio 2003 al 31 aprile 2005, sono stati segnalati 424 casi di Sindrome della Rassegnazione (Hessle e Ahmadi, 2006) e delle 6547 domande di asilo presentate per bambini (0-17 anni) in Svezia nel 2004 (Von Folsach e Montgomery, 2006), nel 2,8 % dei casi si è manifestata tale Sindrome. Nessun caso è segnalato da altri paesi, il fenomeno sembra verificarsi esclusivamente in Svezia.

Le ultime stime contano 414 individui (2014–2019) (Socialstyrelsen, 2017). Tra i bambini e gli adolescenti richiedenti asilo in cura psichiatrica in Svezia nel 2014, il 5,1% soffriva della Sindrome della Rassegnazione (Fagerström, 2020).

Le diverse centinaia di casi segnalati esclusivamente in Svezia negli ultimi dieci anni, hanno spinto il Consiglio Nazionale Svedese per la Salute e il Benessere a riconoscere la diagnosi di Sindrome della Rassegnazione (decisione non pienamente condivisa da altri medici e studiosi che vedono la Sindrome della Rassegnazione attribuibile ad altre diagnosi quali disturbo da stress post-traumatico, depressione grave con catatonia o disturbo di conversione / dissociazione).

Davvero la Sindrome della Rassegnazione si manifesta solo in Svezia?

Descrizioni di disturbi simili alla Sindrome della Rassegnazione si possono trovare in letteratura, pertanto alcuni autori sostengono che non si tratti di una “nuova” condizione.

Numerosi fenomeni simili alla Sindrome della Rassegnazione sono stati segnalati da medici e antropologi in altri contesti, culture e periodi di tempo, suggerendo un meccanismo psicosomatico comune (Kihlbom, 2013). Morti acute o più graduali conseguenti a una minaccia di morte reale o immaginaria sono note nelle culture della maggior parte dei continenti (Lester, 2009).

Sono state descritte “epidemie” di morte in situazioni di guerra e prigionia, situazioni in cui non resta alcuna speranza (Kihlbom, 2013). Il termine del campo di concentramento “muselmann” denotava coloro che, privi di ogni speranza, esibivano un comportamento di rassegnazione (Kertész, 1998) e per settimane vivevano senza nutrirsi in uno stato di “autoipnosi arcaica” (Kihlbom, 2013).

Sono stati osservati fenomeni simili anche nelle ragazze Amish che mostravano una sintomatologia del disturbo di conversione molto simile alla Sindrome della Rassegnazione (Thomas,2017)

Tuttavia, oggigiorno spicca l’ampiezza del fenomeno e la sua distribuzione geografica.

Sindrome della Rassegnazione: possibili spiegazioni

 La natura e la prevalenza della condizione sono state oggetto di un intenso dibattito pubblico. Sono stati tirati in causa anche fenomeni quali il malingering o la sindrome di Munchausen per procura, ipotesi etichettate però come xenofobe. Altre posizioni a riguardo hanno invece suggerito che sia il processo migratorio, presumibilmente imprevedibile e lungo, a creare una condizione di notevole stress e a traumatizzare i bambini, il cui corpo infine “si rassegna” nello stupor.

Un’indagine ufficiale (Hessle e Ahmadi, 2006) e un comitato di esperti (Rydelius, 2006) hanno proposto modelli esplicativi multifattoriali che coinvolgono vulnerabilità individuale, traumatizzazione, migrazione, modelli culturalmente condizionati e influenza genitoriale.

Tra le spiegazioni avanzate troviamo:

  • Eventi stressanti: una risposta continua allo stress può essere, se non la spiegazione, almeno un fattore che contribuisce all’insorgenza della patologia.
  • Spiegazioni Psicodinamiche: secondo queste teorie, le madri gravemente traumatizzate proiettano sui figli il loro bisogno di consolazione. La madre crea e mantiene inconsciamente una realtà alternativa in cui trova un suo significato prendendosi cura di un bambino immaginato morente che a sua volta, inconsciamente e influenzato dalla madre, continuerà a manifestare il disturbo.
  • Isteria di massa e suggestione: secondo le teorie di Shorter (1992), il contesto culturale – in particolare i paradigmi medici, le aspettative familiari e i ruoli sociali – suggerisce un pool di sintomi “legittimi” e ad essi si associano determinate malattie organiche per le quali il paziente non può essere biasimato. Non a caso, il picco stimato nei casi di Sindrome della Rassegnazione è stato accompagnato da notevole attenzione da parte dei media e da una massiccia divulgazione.
  • Il modello della codifica predittiva: tale ipotesi suggerisce che il cervello costruisce dei modelli (priors) del mondo che agiscono come aspettative del mondo esterno e interno. Quando un input esterno raggiunge il cervello e non trova corrispondenza in uno di questi modelli, si produrrà un segnale di errore. Nella Sindrome della Rassegnazione, quindi, abbiamo degli input che non trovano corrispondenza nei modelli dell’individuo e, nel tentativo di ridurre gli errori, si produrranno una serie di effetti fisiologici, comportamentali e percettivi, anche a discapito degli stati che garantiscono la sopravvivenza. In questo modo l’individuo si forma un’autorappresentazione inconsapevole da trasmettere all’esterno che potrebbe ridurre al minimo l’errore: dopo ciò che ho passato, dovrei ricevere aiuto (priors) > non lo ricevo > errore! > tutti i sistemi si mobilitano per ridurre l’errore, a scapito della sopravvivenza > sono nuovamente nella condizione di ricevere aiuto > ricevo aiuto (es. la mia famiglia ottiene l’asilo politico) > si riduce l’errore > sto meglio e inizio a guarire. L’ipotesi della codifica predittiva risulta più complicata ma spiegherebbe meglio l’incidenza di fattori culturali, tuttavia – in attesa di ulteriori delucidazioni – non si possono escludere combinazioni di più fattori e un mix di spiegazioni.

Trattamento

L’iter medico a cui sono sottoposti i bambini con quadro patologico sospetto include un iniziale screening tossicologico e un’intervista anamnestica tramite interprete. La risonanza magnetica è consigliata (Rydelius, 2006), tuttavia, non sempre viene eseguita.

Una volta che il quadro si è stabilizzato e che viene scartata l’ipotesi di una malattia somatica e quando il genitore si sente a suo agio nell’alimentare il figlio tramite sondino, il paziente viene dimesso e la parte successiva del trattamento è effettuata in ambiente domiciliare con regolari visite ambulatoriali alla clinica. A parte l’alimentazione mediante sonda, di sostegno vitale, il trattamento mira a promuovere e mantenere un ambiente familiare sicuro e pieno di speranza.

Accanto all’assistenza fornita dalla famiglia, gli infermieri, gli psicologi, i fisioterapisti e i terapisti occupazionali sono responsabili dell’assistenza quotidiana. Un pediatra e uno neuropsichiatra infantile sono coinvolti nelle visite domiciliari a intervalli regolari. Per quanto riguarda i farmaci, non esistono al momento segnalazioni di trattamenti farmacologici efficaci.

La gestione dello studente con ADHD in classe

Per uno studente con ADHD la classe può facilmente trasformarsi in un contesto potenzialmente ansiogeno.

 

L’ADHD in classe

 I fattori disturbanti in classe aumentano vistosamente di numero e facilmente si corre il rischio che possano in qualche modo interferire con la complessa azione di supporto e gestione dell’alunno iperattivo. Anche in questo caso risulta particolarmente importante inquadrare ogni intervento in un’ottica più generale, come potrebbe essere quella del programma ABC – Antecedents, Behavior, Consequences (Di Pietro et al., 2001)–, per poi agire cercando di adottare strategie per incentivare i comportamenti positivi e costruttivi e strategie per ridurre i comportamenti problema.

La prima cosa a cui prestare attenzione in questa prospettiva è l’arredamento dell’ambiente-classe. È infatti indispensabile che l’ambiente fisico sia ripulito da tutti i possibili stimoli potenzialmente capaci di elicitare i comportamenti disfunzionali.

Più nel dettaglio è importante che l’aula sia adeguatamente impostata e organizzata per dare allo studente con ADHD una certa percezione di stabilità. Lo spazio di lavoro sul banco dovrebbe essere ripulito da tutti i materiali non indispensabili per portare a termine i compiti programmati. I corridoi di transito tra i banchi dovrebbero essere sgombrati al fine di evitare la possibilità che lo studente possa inciampare e andare incontro ad un infortunio qualora dovesse impulsivamente alzarsi senza l’immediata supervisione dell’insegnante specializzato nella sua gestione (o dell’insegnante curriculare).

Al fine di garantire una migliore e più efficace sorveglianza sarebbe anche importante spostare il posto dello studente iperattivo collocandolo lontano dalle finestre (per motivi di sicurezza) dell’aula e lontano dalla porta (onde evitare che, a seguito di sommovimenti repentini o scatti d’ira, l’alunno possa fuggire facilmente fuori dall’aula).

In questa prospettiva sarebbe importante collocarlo vicino la cattedra dell’insegnante, non soltanto, come già detto, per motivi di sicurezza, ma anche perché è stato osservato che gli allievi hanno maggiori benefici apprenditivi se il loro posto è disposto vicino alla postazione del docente (Dewitz, 2014).

È fondamentale che l’insegnante abbia ‘a portata’ di sguardo il bambino iperattivo, nella misura in cui nell’immediatezza dello sguardo sia possibile richiamare subito la sua attenzione. Molto utile è anche l’organizzazione dei materiali scolastici: le copertine colorate, tabelle promemoria e divisori possono aiutare la fragile capacità organizzativa e mnemonica.

Anche le pareti dovrebbero essere sgombrate da materiali come fogli penzolanti, cartelloni o addobbi inutili. Tutto ciò che potrebbe innescare distrazioni dovrebbe quindi essere eliminato dal raggio percettivo dello studente con ADHD (Amicone et al. 2017).

Anche il colore delle pareti, in un’ottica di psicologia ambientale, non va affatto sottovalutata. In effetti bisognerebbe considerare la sfumatura cromatica più idonea all’età degli studenti al fine di creare un’atmosfera piacevole promuovendo un umore positivo condiviso da tutti, ma ricordando che i colori freddi (azzurro e verde) inducono una certa forma di prezioso rilassamento (Amicone et al., 2017).

Queste sono le misure più importanti dal punto di vista fisico-organizzativo che devono essere subito attuate, pur rispettando sempre l’inderogabile principio dell’accomodamento ragionevole.

Inoltre, è assai importante anche la strutturazione delle attività. È fortemente consigliabile anche scrivere a chiare lettere, magari sulla lavagna, le materie che si affronteranno, i tempi di lavoro, la pause e tutte le attività previste nel corso della giornata scolastica. Grazie poi ad una illustrazione chiara del piano organizzativo lo studente con ADHD vedrà davanti a sé un prospetto sufficientemente limpido di ciò che lo attenderà e ciò dovrebbe contribuire a smorzare l’ansia e la tensione dovute all’imprevedibilità del lavoro da svolgere.

Particolarmente importante è l’attenzione che gli insegnanti devono porre allorquando è il momento di cambiare locazione scolastica (ad esempio nel passaggio dall’aula alla palestra oppure dall’aula ad un laboratorio). In queste circostanze aumentano vistosamente i fattori distraenti, e l’impatto che essi possono avere su un individuo con ADHD è davvero molto elevato. Ad esempio l’igiene ambientale realizzata in aula non può certo estendersi all’intero edificio scolastico e l’ordine predisposto in classe sarà sicuramente perturbato durante il tragitto tra l’aula e il punto d’arrivo. In queste circostanze la sorveglianza degli insegnanti deve farsi massima, lo studente iperattivo non deve sfuggire al raggio d’azione dell’insegnante e ancora una volta un lavoro inclusivo potrebbe riguardare, in una fila ben organizzata, l’alunno iperattivo associato ad un compagno particolarmente calmo (cfr. Marzocchi e Bongarzone, 2019).

Oppure si potrebbe impiegare lo studente iperattivo in un gioco di ruolo nel quale svolgerebbe la parte –paradossale– di sorvegliante, cosicché all’aumentare dell’impegno di sorveglianza potrebbe diminuire la tendenza alla distrazione. La sua mente, cioè, sarebbe impegnata in un compito altamente gratificante e poco spazio dovrebbe restare alla ricezione –per lui amplificata– di stimolazioni esterne.

In un’ottica realmente inclusiva è anche importante estendere il lavoro all’intero gruppo classe, orientando gli interventi sull’addestramento del gruppo. In quest’ottica di intervento globale è importante puntare all’eliminazione di tutto ciò che può in qualche modo disturbare, nei momenti cruciali, la concentrazione dello studente con ADHD.

Se da un lato appare evidente l’impossibilità di ridurre al completo silenzio un gruppo classe che può essere anche molto cospicuo, dall’altro lato questo genere di sensibilizzazione potrebbe aiutare tutti a sviluppare competenze prosociali e a stabilire un clima di collaborazione tra pari (Strocchi, 2011).

Un altro intervento deve invece mirare a rendere edotti i compagni dell’alunno iperattivo del pericolo che si corre –in termini di minaccia reale all’equilibrio e alla serenità dell’andamento delle lezioni– qualora qualcuno dovesse rispondere e dare retta a provocazioni, alle battute (spesso inopportune) e alle sollecitazioni irregolari dello studente in questione.

Da non sottovalutare sono anche le accortezze da tenere sempre presenti durante le attività in classe. Queste possono essere così riassunte: innanzitutto nella scelta dei materiali didattici si dovrebbero sempre preferire mappe e schemi e comunque assai preponderante dovrebbe essere il ricorso a supporti iconici. Le immagini, infatti, riescono a veicolare meglio la quantità di informazioni che si vuole trasmettere e riescono a farlo con una modalità accattivante e capace di mantenere ben salda l’attenzione. Rispetto, quindi, alle informazioni veicolate dal linguaggio verbale (scritto o orale), la didattica per immagini risulta di gran lunga più potente, ed è quindi una modalità da preferire.

Prima di iniziare ogni attività è bene illustrare al bambino, con gentilezza e sicurezza, il tema, la strutturazione, i tempi e gli obiettivi dell’attività che si intende svolgere. Questa fase ha come obiettivo quello di rendere edotto lo studente circa gli scopi e il senso dell’attività, preparandolo in modo deciso e consapevole ad affrontare il compito.

Mantenere viva l’attenzione di uno studente ADHD

La sfida principale per ogni insegnante (di qualsiasi ordine e grado) che abbia un alunno con ADHD in classe è quella di mantenere viva e alta l’attenzione. Questo obiettivo deve essere sempre tenuto presente da ogni insegnante e una delle strategie da prediligere per raggiungere lo scopo è quella di interagire assai frequentemente con lo studente con ADHD. L’interazione frequente non deve mai essere imperativa –salvo nei casi, si spera rari, nei quali risulta fondamentale. Essa al contrario deve cercare di coinvolgere attivamente. È bene quindi evitare da un lato atteggiamenti cedevoli e dall’altro atteggiamenti imperativi, mantenendo un equilibrio mediano tra i due eccessi.

Con atteggiamento virtuoso è bene quindi riuscire a teatralizzare la comunicazione, renderla appetibile e seducente per lui, evitando più che possibile formule generalissime e vuote (anzi, è sempre bene chiamare per nome gli studenti con ADHD, farli sentire persone attivamente partecipi dei lavori scolastici e non elementi di disturbo).

Prima di tutte le attività è essenziale mettere a fuoco anche un altro obiettivo –forse più importante del compito stesso– che è quello di mantenere un comportamento positivo e rispettoso di alcune regole base già precedentemente fissate (Di Pietro et al., 2012). È essenziale che il numero di regole sia illustrato con chiarezza e semplicità, e che ogni frase proferita dall’insegnante contenga soltanto le istruzioni indispensabili associando, nella maniera più evidente e chiara possibile, un divieto e la promozione di un comportamento positivo.

È importante, cioè, che lo studente con ADHD abbia presenti non soltanto i divieti (ciò che non è possibile in alcun modo o ciò che è sconveniente o ciò che è pericoloso), ma sia anche incentivato a seguire comportamenti costruttivi, positivi e benefici. Ogni intervento su soggetti iperattivi e oppositivi deve assolutamente evitare di ridursi ad una mera illustrazione dei divieti, ma deve divenire occasione di crescita autentica e acquisizione di consapevolezza. Ecco ad esempio alcuni accorgimenti che l’insegnante dovrebbe seguire nella formulazione delle regole di condotta per l’alunno con ADHD:

  • Le regole devono essere proposizioni positive e non divieti;
  • Le regole devono essere semplici ed espresse chiaramente;
  • Le regole devono descrivere le azioni in modo operativo (ad esempio evitando formulazioni tipo «stare buoni», «avere cura di…» che possono non risultare chiare perché troppo vaghe);
  • Le regole dovrebbero utilizzare simboli pittorici colorati (che costituiscono un ottimo e immediato segnale del contenuto della proposizione);
  • Le regole devono essere poche (al massimo 8-10) ed espresse sinteticamente (Di Pietro et al., 2012, p. 106).

Un quadro normativo così delineato potrebbe essere riportato anche su un cartellone (Figura 1. Trattato da Di Pietro et al., 2012, p. 107).

ADHD a scuola la gestione degli alunni con ADHD in classe Imm

Ogni attività, infine, deve prevedere momenti di decompressione. Questi sono fondamentali per tutti, ma nei soggetti con ADHD diventano preziosi momenti di rigenerazione psicofisica, durante i quali possono scaricare gradualmente e in modo controllato (sempre sotto la diretta supervisione dell’insegnante) l’energia compressa e accumulata durante l’attività, così da poter ritornare a lavorare nelle migliori condizioni possibili.

Interventi comportamentali: rilevare i rinforzi negativi e i comportamenti positivi

Gli interventi dal punto di vista comportamentale dovrebbero prevedere una prima fase di accurata osservazione finalizzata alla rilevazione dei rinforzi negativi. Alcune tecniche utili potrebbero essere le seguenti:

  • Il chaining, cioè l’apprendimento di sequenze comportamentali complesse grazie alla progressiva acquisizione di micro-sequenze comportamentali semplici;
  • Lo shaping, cioè un rinforzamento differenziale per approssimazioni progressive verso il comportamento finale da raggiungere;
  • Il prompting, vale a dire l’illustrazione di brevi e immediati suggerimenti di tipo verbale;
  • Il matching, vale a dire la presentazione di esempi che possano essere di supporto ai soggetti ADHD;
  • Il fading, cioè l’eliminazione dell’aiuto esterno per incrementare l’autonomia della persona;
  • Il modeling, cioè l’apprendimento di nuovi comportamenti tramite l’osservazione;
  • Il task analysis, cioè la scomposizione e la semplificazione del compito (cfr. Vio et al., 2015).

 Nelle prime settimane di scuola è importante che gli insegnanti svolgano osservazioni strutturate facendo affidamento su un semplice strumento di rilevazione, una tabella in particolare, sulla quale l’insegnante annoterà la data, l’episodio, la situazione precedente al comportamento problema e le conseguenze della sua realizzazione. Grazie a questo strumento l’insegnante specializzato potrà rendere edotto l’intero team dei docenti delle condizioni che hanno determinato l’insorgenza del comportamento irregolare. In tal modo potranno quindi essere individuate le situazioni stimolanti (che andranno a tutti i costi evitate).

Sarebbe utile, per un lavoro più scrupoloso e accurato, che i dati osservativi raccolti (indispensabili per gli interventi di riduzione dei rinforzi negativi) fossero comunicati anche alla famiglia.

La famiglia, secondo il principio dell’alleanza educativa, potrebbe ricevere dal confronto con gli insegnati preziose indicazioni e a sua volta potrebbe fornire al team docente informazioni magari utili per una più precisa messa a punto degli interventi.

Inoltre, per arricchire ancor di più il quadro delle azioni educative è indispensabile creare un’altra tabella di rilevazione dei comportamenti positivi. Questa è importante perché, come abbiamo già precedentemente ricordato, non è sufficiente eliminare le condizioni di contorno che possano fungere da stimolo per l’attivazione dei comportamenti disfunzionali. È importante bilanciare equamente le azioni di divieto e ammonimento con azioni di valorizzazione e premiazione dei comportamenti positivi.

Se con il primo strumento di rilevazione gli insegnanti avevano a disposizione una mappa accurata delle situazioni elicitanti da evitare, con questo strumento nuovo hanno invece a disposizione una mappa dei comportamenti positivi da rinforzare. Il loro compito, dopo la prima fase osservativa, sarà dunque quello di cercare di incrementare al massimo le condizioni atte alla realizzazione dei comportamenti positivi. Questi due strumenti dovranno costantemente arricchirsi, nella piena consapevolezza che ogni intervento dovrà dialetticamente bilanciarsi tra riduzione dei rinforzi negativi e incentivazione dei rinforzi positivi, tenendo sempre presente gli obiettivi fondamentali da raggiungere: comportamenti positivi, sviluppo di competenze e consolidamento dell’autonomia e dell’autocontrollo.

Alcune tecniche specifiche

Entrando nel merito di alcune tecniche specifiche, tre in particolare risultano particolarmente utili in ambito scolastico: la token economy, il «time-out» e il semaforo (cfr. Marzocchi, Bongarzone, 2019).

La token economy

La token economy si basa sul principio dei rinforzi simbolici, che possono essere bollini, adesivi o gettoni. Tali materiali possono essere costruiti insieme con lo studente con ADHD, oppure possono essere precedentemente approntati dall’insegnante specializzato. Dopodiché l’insegnante mette a fuoco i comportamenti-bersaglio sui quali s’intende lavorare e, una volta fissati, può aver inizio l’intervento. Esso consisterà nella strutturazione di un’attività con durata variabile (può essere di un mese o di tre, dipende molto dalla resistenza al cambiamento, dalle difficoltà comportamentali e dalla pervasività del disturbo). Dovranno essere fissati dei premi settimanali e un premio finale, bisognerà chiarire preliminarmente quanti gettoni/bollini serviranno per raggiungerli (per esempio, 10 bollini per quello settimanale, 100 bollini per quello finale).

Vengono dati al bambino i gettoni/bollini ogni volta che manifesta un comportamento positivo. È particolarmente importante riuscire a veicolare l’idea –pedagogicamente imprescindibile– che la concessione del gettone simbolico non è una mera remunerazione estrinseca, quasi che il bambino comprasse il raggiungimento del suo obiettivo; al contrario, il gettone, proprio nella sua dimensione simbolica, è la gratificazione necessaria di uno sforzo realmente profuso e che ha dato esito positivo. In pratica, è la manifestazione sensibile di una dinamica più profonda e importante, vale a dire il riconoscimento dell’avvenuto successo formativo che, pur nella sua precarietà (perché ogni successo formativo va ripetuto e consolidato fino a diventare habitus fisso della persona), attesta comunque la giusta direzione degli sforzi compiuti.

La tecnica del «time-out»

La tecnica del «time-out», invece, si utilizza quando vengono messi in atto comportamenti particolarmente problematici. In questi casi l’insegnante deve interrompere il flusso (potenzialmente pericoloso) dell’azione disfunzionale e collocare lo studente in un luogo neutrale dove non ci sono stimoli distraenti, e al bambino viene chiesto di riflettere –nella misura del possibile– sull’origine e l’evoluzione della sua condotta disfunzionale.

La tecnica del semaforo

La tecnica del semaforo, invece, consiste nello stampare l’immagine per l’appunto di un semaforo e ritagliare un talloncino con il nome del bambino che si ha in carico. Vengono ancora una volta fissati alcuni comportamenti bersaglio da inibire e vengono altresì fissati tutti i comportamenti positivi da premiare. Ogniqualvolta il bambino mette in atto i comportamenti negativi il talloncino viene fissato con la molletta sul rosso, in caso contrario sul verde.

Queste tecniche sono abbastanza semplici da realizzare, eppure hanno un grande valore pedagogico. Come dicevamo più sopra, infatti, tali tecniche iconiche aiutano i soggetti con ADHD a visualizzare visivamente il risultato dei loro comportamenti, contribuendo quindi ad un confronto diretto con le norme del buon comportamento fissate precedentemente e concretizzate, per l’appunto, nei rinforzi simbolici o nelle immagini stampate. Il bambino, in altri termini, non deve sforzarsi di tenere a mente divieti, norme e direttive, ma ha modo di confrontarsi con tutto ciò in modo visivo e tutto ciò esercita una costante azione di controllo direzionale sul suo comportamento.

Decodifica semantica: lo sviluppo di un metodo non-invasivo per la ricostruzione del linguaggio

È possibile registrare i pensieri dell’essere umano in maniera non-invasiva? La risposta a questa domanda è stata fornita da uno studio pubblicato su Nature Neuroscience da Tang et al. (2023) sulla decodifica semantica.

 

Introduzione

 Le componenti di un discorso possono essere decodificate grazie al ricorso a registrazioni intra-craniche in modo tale da ripristinare la comunicazione in persone che hanno perso l’abilità di parlare. Nonostante la loro efficacia, questi dispositivi vengono impiantati attraverso procedure neurochirurgiche invasive, il che le rende difficilmente sostenibili per la maggior parte degli utenti. Decodificatori linguistici che impiegano invece registrazioni non-invasive possono essere più tollerabili ed aver la possibilità di essere impiegati sia per fini riparativi che migliorativi. Tang et al. (2023) hanno sviluppato dei decodificatori semantici che si basano sulla registrazione dell’attività cerebrale tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI). Questi strumenti sembrano performare molto bene in molteplici contesti sperimentali, tra cui la decodifica di discorsi passivamente ascoltati dai partecipanti o spontaneamente immaginati dagli stessi e la decodifica semantica durante compiti di natura non strettamente linguistica.

Lo sviluppo di un decodificatore semantico non-invasivo

In questo lavoro i ricercatori svilupparono dei decodificatori semantici in grado di ricostruire molteplici stimoli linguistici percepiti o immaginati (i.e. parole o frasi) a partire dalla registrazione dell’attività cerebrale eseguita tramite risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging; fMRI), una neurotecnologia che rileva la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale. Durante la fase di costruzione, i decodificatori sono stati testati su tre soggetti ai quali veniva registrata l’attivazione cerebrale durante l’ascolto di una serie di storie. I risultati mostravano che le sequenze di parole decodificate durante la sessione sperimentale riflettevano non solo il significato degli stimoli (es. delle storie), ma, alle volte, anche i periodi verbali esatti contenuti nei racconti. I ricercatori si chiesero se le parole decodificate nei soggetti catturassero il significato racchiuso nelle storie che quest’ultimi avevano ascoltato ricorrendo inoltre ad un semplice esperimento comportamentale. A uno dei partecipanti è stato fatto leggere il trascritto delle parole decodificate durante la sessione sperimentale di un altro soggetto e, successivamente, gli sono state poste 16 domande di comprensione del testo. Pur non avendo ascoltato in prima persona il racconto ed essendosi basato solamente sulle parole decodificate nel corso della sessione, il partecipante ripose correttamente a più della metà delle domande (i.e. a 9 su 16). Ciò dimostrava che l’informazione semantica racchiusa nelle storie (e nelle menti dei soggetti) poteva essere recuperata a partire dal segnale rilevato dall’fMRI.

Potenziali applicazioni del decodificatore semantico

Terminata la fase di sviluppo dello strumento, il passo successivo compiuto dai ricercatori è stato quello di mettere in luce la vasta gamma di potenziali applicazioni che il loro decodificatore linguistico poteva avere. La prima di esse consisteva nella decodifica dei discorsi spontaneamente immaginati dall’essere umano. Allo scopo di testare se il decodificatore semantico che avevano costruito fosse in grado di decodificare i discorsi immaginati dai soggetti in assenza di stimoli esterni, gli scienziati chiesero ai partecipanti di raccontare a se stessi una storia di 1 minuto mentre la loro attività cerebrale veniva registrata dall’fMRI. Al termine della registrazione, i partecipanti dovevano raccontare la medesima storia agli sperimentatori in modo da produrre un trascritto che fungesse da referenza. L’analisi dei dati raccolti evidenziò che l’impiego del decodificatore consentiva di recuperare in maniera accurata il significato dello stimolo immaginato (i.e. dei racconti inventati dai soggetti), ma che difficilmente esso decodificava le esatte parole o frasi riportate dai partecipanti in seguito alla registrazione. Ciò significava che la performance di decodifica dello strumento era lievemente peggiorata rispetto al compito descritto in apertura, ossia quello in cui i soggetti dovevano limitarsi ad ascoltare dei racconti che venivano loro proposti dagli sperimentatori. Tuttavia, questo risultato era concorde con l’evidenza che produzione e percezione del linguaggio fossero localizzate in porzioni cerebrali parzialmente comuni (Silbert et al., 2014).

Una seconda applicazione tentata dai ricercatori riguardava l’impiego del loro decodificatore semantico durante compiti di natura non strettamente linguistica. In questa fase, i soggetti vennero esposti alla visione di quattro cortometraggi privi di audio mentre la loro attività neurale veniva registrata dall’fMRI. Le analisi qualitative mostravano che le sequenze di parole decodificate a partire dall’attivazione cerebrale descrivevano accuratamente gli eventi raffigurati nei cortometraggi. Ciò suggeriva che un decodificatore sviluppato tramite compiti di percezione del linguaggio poteva essere in grado di costruire fedeli descrizioni linguistiche anche durante compiti sperimentali nei quali l’input uditivo era stato eliminato.

 Siccome è stato dimostrato che le rappresentazioni del linguaggio dipendono fortemente dall’attenzione (Kiremitçi et al., 2021), i ricercatori ipotizzarono infine che il loro decodificatore semantico avesse ricostruito solamente quelle frasi o parole alle quali i soggetti avevano prestato attenzione. Per testare quest’ipotesi, gli scienziati fecero ascoltare ai partecipanti una traccia audio in cui due storie diverse venivano narrate rispettivamente da un uomo e da una donna chiedendo loro di far attenzione solamente a una delle due voci. I risultati delle analisi sottolineavano che le parole decodificate dallo strumento erano più simili a quelle presenti nel racconto atteso rispetto a quello non-atteso. Ciò dimostrava che il decodificatore semantico ricostruiva selettivamente lo stimolo (i.e. la storia) al quale il soggetto aveva rivolto la propria attenzione. Questo risultato dimostrava inoltre che i partecipanti avevano un controllo attivo e cosciente sull’output prodotto dal decodificatore, es. che quest’ultimo poteva ricostruire solamente quei discorsi ai quali i soggetti porgevano attenzione.

Implicazioni per la neuroprivacy

Un’importante considerazione sul piano etico rispetto all’impiego della decodifica semantica riguarda la possibile violazione della privacy mentale (Rainey et al., 2020). Non è un caso che i ricercatori si siano domandati se il loro decodificatore potesse venire sviluppato senza la collaborazione attiva dei partecipanti. A tal proposito, essi svilupparono una serie di altri decodificatori semantici a partire dai dati raccolti in 7 soggetti che erano stati esposti all’ascolto di 5 ore di racconti narrativi. Dai risultati delle analisi, i ricercatori osservarono che i decodificatori sviluppati dall’incrocio dei dati raccolti in soggetti differenti performavano decisamente peggio rispetto a quelli sviluppati a partire dai dati del singolo partecipante. Ciò suggeriva che la collaborazione restava conditio sine qua non per lo sviluppo di un efficiente decodificatore semantico. Allo scopo di testare se una persona potesse sottrarsi consapevolmente alla decodifica eseguita da uno strumento che era stato precedentemente sviluppato con la sua collaborazione, gli scienziati chiesero ai partecipanti di completare tre compiti di natura cognitiva (es. contare fino a 7, nominare e immaginare degli animali, raccontare a sé stessi una storia) mentre ascoltavano degli estratti di narrazioni. Sia il secondo che il terzo riducevano sensibilmente la performance del decodificatore relativa all’ascolto passivo delle narrazioni. Dunque, i soggetti potevano consapevolmente resistere alla decodifica semantica.

In conclusione, gli strumenti di decodifica semantica rappresentano tecnologie utili per ripristinare la comunicazione in persone che hanno perso l’abilità di parlare, ma al contempo rischiano di compromettere la privacy mentale dell’individuo. Nonostante sia attualmente necessaria la collaborazione dei soggetti sia per la costruzione che per l’applicazione dei decodificatori, sviluppi futuri potrebbero consentire agli utenti di aggirare questi requisiti. Inoltre, anche se le frasi generate dal decodificatore risultano imprecise nei soggetti non collaboranti, esse potrebbero essere intenzionalmente mal interpretate per scopi malevoli.

Combattenti stranieri: i meccanismi di reclutamento

Ndr: il presente contributo è il secondo di una serie di quattro articoli sull’argomento che verranno pubblicati nei prossimi giorni su State of Mind. Nel primo articolo sono state analizzate le motivazioni che spingono i più giovani ad arruolarsi.

Il reclutamento dei combattenti stranieri

 I reclutatori dello Stato islamico sono veri e propri seduttori di coscienze. La loro efficacia è proporzionale alla capacità di dare senso alla vita, di sedare l’angoscia, individuare rancori e vulnerabilità, offrire risposte differenziate da veicolare verso la cornice universale della persecuzione musulmana. I reclutatori si propongono come figure carismatiche in grado di sollecitare un senso condiviso di umiliazione che genera rabbia e solidarietà. Dopo l’aumento del livello di allerta internazionale nei confronti dell’islamismo radicale, i reclutatori hanno modificato il loro modus operandi: dal proselitismo nelle comunità islamiche, in carcere o in moschea, si sono trasferiti su internet. Hanno trasformato web e social media in strumenti di diffusione d’informazioni, lotta e condizionamento in grado di aggirare le difficoltà legate alla sorveglianza e alla distanza fisica (Teti, 2015; Gates & Podder, 2015). Su Twitter compaiono i mujatweet, brevi estratti di video inviati in rete sotto forma di preview. Gli hashtag sono scelti per facilitare le comunicazioni, Telegram, Proton Mail e altre piattaforme sono utilizzate per aggirare la censura, gli account suicidi di YouTube servono per filmati a forte carica emotiva, come esecuzioni e scene di sangue, che dissipano l’ansia e suscitano reazioni di attrazione.

I processi di identificazione sono efficaci perché tutto è funzionale alla costruzione di una cultura jihadista (Heghammer, 2017) che fonde forme d’arte e pratiche sociali unendo tradizione e modernità, attingendo dalla tradizione islamica e da quella occidentale declinata in chiave radicale: le colonne sonore dei filmati di guerra, ad esempio, mescolano rap e hip-hop con i nasheed, gli inni religiosi cantati a cappella che celebrano Allah e il jihad. Video e materiali tradotti servono per allargare l’audience ma hanno forma unidirezionale: sono concepiti per non ricevere contro-argomentazioni. I reclutatori preparano la strada per chi, fino a quel momento, ha vissuto nel peccato e il desiderio di intraprendere il percorso per la purificazione: se si accetta la percezione di sé come di creature cadute, bisognose di soccorso, l’ISIS diventa una missione di salvataggio. Il meccanismo di aggancio si muove dal basso verso l’alto: non sono i gruppi organizzati che arruolano secondo un modello top-down. L’offerta dello Stato islamico, del tipo down-top, ha prodotto il cosiddetto fenomeno del terrorismo ad accesso libero (Guolo, 2015), in cui gli aspiranti jihadisti si rivolgono alla rete per cercare persone a loro affini o per trovare informazioni e contattare i reclutatori. Nelle prime fasi, la tecnica di avvicinamento ricalca il grooming, cioè il metodo utilizzato dai pedofili per entrare in contatto con le vittime. I reclutatori creano un rapporto confidenziale, consolidano la relazione, costruiscono un vincolo di esclusività funzionale al progressivo isolamento da famiglia o amici e all’identificazione di un leader a cui obbedire. Il legame è propedeutico al cambiamento di mentalità che si concretizza nella interiorizzazione di nuove convinzioni di sé e del mondo, premessa necessaria per le successive modifiche di comportamento (O’Keefe, 2004).

I profili dei combattenti stranieri

In ogni caso il profilo dei foreign fighter non è uniforme: è possibile identificare grossolanamente tre profili principali: ludici, martiropatici e rettificatori (Khosrokhavar, 2003; Guolo, 2015).

 I ludici considerano la guerra un’esperienza totalizzante e l’antepongono al martirio. Il loro stile di pensiero è inflessibile, proiettivo, intriso di grandiosità: la guerra è vita, la sensazione di percepirsi come guerriero è eccitante. Le campagne di fascinazione dell’ISIS mostrano campi di addestramento e scene di combattimento che sembrano videoclip. I combattimenti utilizzano videocamere GoPro di ridotte dimensioni e peso, producono filmati di straordinaria somiglianza con i videogiochi che saranno proposti ai potenziali combattenti insieme a videogame educativi contestualizzati al jihad.

I martiropatici sono attratti dal martirio e dalla morte intesa come sacrificio. In essi prevalgono autodistruzione e depressione. A loro è offerta una visione apocalittica della grande battaglia che sfocia nella fine del mondo: il tema dell’apocalisse spinge all’azione e infonde fiducia nell’intervento divino.

I rettificatori sono mossi dal senso d’ingiustizia: aspirano alla purificazione del mondo e a riportarlo a un ordine smarrito. Per alimentare questa motivazione, ci sono filmati e immagini che rievocano il mito dell’innocenza infantile profanata: bambini morti, ridotti in schiavitù, vittime di bombardamenti da parte dell’occidente. Oppure enfatizzano slogan contro l’Occidente visto come assassino di donne, bambini e anziani.

In ogni caso il reclutamento assume presto le caratteristiche di un mondo settario (Lifton, 1961): il leader prende il controllo della comunicazione, utilizza un linguaggio carico di simboli e di cliché intellegibili solo ai membri del gruppo e questo contribuisce alla cristallizzazione del pensiero. Stabilisce con chi parlare, crea una manipolazione mistica, insiste sulla richiesta di purezza e di standard irraggiungibili. I reclutatori sfruttano le ragioni personali facendo leva sulla minaccia globale per costringere le reclute al dovere ad agire e a mobilitarsi per la difesa della collettività. Il jihadista aderisce a una fede collettiva.

 

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L’Effetto Mandela

L’Effetto Mandela si riferisce a un falso ricordo condiviso da molte persone riguardante la cultura popolare. È diventato un tema diffuso su Internet nell’ultimo decennio e ha spinto diversi ricercatori a studiare il fenomeno. Un recente articolo ha esplorato l’Effetto Mandela specifico per le icone visive, tentando di fornire chiarimenti sul perché si verifica.

Introduzione

 Il termine “Effetto Mandela” è stato coniato dalla ricercatrice Fiona Broome per descrivere il suo falso ricordo rispetto alla morte di Nelson Mandela che, insieme a molte altre persone, credeva fosse avvenuta in una prigione negli anni ’80 (mentre in realtà avvenne nel 2013). Da allora il termine si è diffuso per descrivere casi in cui molte persone condividono falsi ricordi altamente specifici, che implicano nomi, eventi o immagini. Oltre alla diffusa convinzione che Mandela sia morto molto prima di quanto sia effettivamente accaduto, ci sono molti altri esempi notevoli di questo fenomeno come, ad esempio, la convinzione che Topolino indossi le bretelle oppure la citazione della favola di Biancaneve che la maggior parte delle persone crede sia “Specchio, specchio delle mie brame”, ma che invece è “Specchio, servo delle mie brame”.

Nell’ultimo decennio, l’Effetto Mandela è diventato argomento di discussione su Internet grazie a specifiche icone della cultura popolare, dando vita a un termine specifico per le icone visive, ossia l’Effetto Mandela Visivo (VME).

In un recente articolo del 2022, i ricercatori Prasad e Bainbridge hanno esplorato questo fenomeno attraverso quattro esperimenti.

La ricerca tra risultati e possibili spiegazioni

Nel primo esperimento i ricercatori hanno selezionato 40 icone culturali e hanno creato due immagini alterate di ciascuna. Per esempio, hanno modificato l’omino del Monopoli originale aggiungendo un monocolo in un’immagine alterata e degli occhiali nell’altra. Hanno poi mostrato tutte e tre le immagini ai partecipanti alla ricerca, che hanno dovuto scegliere quella corretta. Gli intervistati hanno anche indicato il loro grado di familiarità con l’icona e il grado di sicurezza nell’effettuare la scelta. Di queste 40 icone culturali, cinque hanno superato i criteri per l’Effetto Mandela Visivo, ossia la maggioranza ha selezionato la stessa immagine errata e ha dichiarato un’elevata familiarità e sicurezza. Queste cinque icone culturali erano: C-3PO di Star Wars, il logo di Fruit of the Loom, Curious George, l’omino del Monopoli, Pikachu e il logo della Volkswagen.

Nel secondo esperimento, hanno verificato se l’Effetto Mandela Visivo fosse dovuto a problemi percettivi o attentivi, confrontando i movimenti oculari dei partecipanti mentre guardavano le cinque icone che avevano suscitato l’Effetto Mandela Visivo nel primo esperimento con quelli di cinque icone che gli intervistati precedenti avevano identificato correttamente. Dopo aver visto la versione corretta di ogni immagine, ai partecipanti è stato chiesto di scegliere quale delle due immagini fosse corretta. Per esempio, hanno visto l’omino del Monopoli senza monocolo e poi hanno dovuto scegliere tra quella con e quella senza monocolo. I ricercatori non hanno riscontrato differenze significative nei movimenti oculari tra le immagini corrette e quelle errate. In altre parole, l’Effetto Mandela Visivo non era dovuto a una mancanza di attenzione. Inoltre, l’ultima immagine che avevano visto era la versione canonica, quindi è improbabile che la confondessero con una versione non canonica che avevano visto altrove.

 Nel terzo esperimento, Prasad e Bainbridge hanno raccolto immagini da Internet per vedere quanto fossero comuni le versioni con Effetto Mandela di icone popolari e se questo potesse spiegare l’Effetto Mandela Visivo. Le versioni dell’Effetto Mandela si trovavano sul web, ma molte di queste erano canoniche e alcune immagini erano ritagliate, in modo da far mancare l’aspetto soggetto all’Effetto Mandela. Ad esempio, l’immagine canonica di C-3PO presenta una gamba destra inferiore argentata, ma la maggior parte delle immagini del robot mostrava solo la testa e il busto.

Effetto Mandela: la teoria dello schema come spiegazione

La spiegazione più comune dell’Effetto Mandela è la teoria dello schema, concernente le aspettative su come dovrebbero apparire le cose e che incorporiamo nei nostri ricordi. Per esempio, l’omino del Monopoli è la quintessenza del ricco signore anziano. Sapendo che queste persone spesso portavano un monocolo come segno della loro appartenenza all’alta società, incorporiamo il monocolo nella nostra memoria visiva dell’omino del Monopoly. Nel caso di C-3PO, la teoria degli schemi funziona perfettamente. Poiché le persone vedono raramente le sue gambe, in genere pensano che siano entrambe di colore oro, come il resto del corpo. Ma la teoria degli schemi fallisce in altri casi. Ad esempio, molti pensano che la coda di Pikachu abbia la punta nera, nonostante il fatto che venga quasi sempre mostrato con un’evidente coda gialla. In base alla teoria degli schemi si potrebbe sostenere che, poiché le orecchie di Pikachu hanno la punta nera, le persone potrebbero ricordare erroneamente che anche la coda ha la punta nera.

Recupero vs richiamo

In psicologia vi è la distinzione tra riconoscimento, che è una forma passiva di recupero della memoria, e richiamo, che è la sua controparte attiva. Nel loro quarto esperimento Prasad e Bainbridge hanno esaminato se l’effetto si verificasse anche nel richiamo. I partecipanti hanno prima visualizzato l’immagine canonica e poi è stato chiesto loro di disegnarla a memoria. Quasi la metà delle immagini disegnate dai partecipanti comprendeva elementi tipici dell’Effetto Mandela Visivo. Per esempio, molti hanno disegnato Pikachu con una punta nera sulla coda, anche se non c’era nell’immagine canonica che avevano appena visto.

Conclusioni

Lo studio non ha messo in luce una singola spiegazione per cui questo accade, ma ha eliminato alcune possibilità. Le differenze visive non sono evidenti tra le diverse versioni, quindi le persone non guardano le immagini in modo diverso. Di conseguenza, anche se le persone guardano la versione corretta di quella parte dell’immagine (ad esempio, la coda di Pikachu), commettono comunque questo errore. Ha anche escluso la teoria degli schemi come spiegazione universale, poiché le persone ricordano erroneamente che il logo di Fruit of the Loom ha una grande cornucopia dietro di sé, anche se le cornucopie non sono molto comuni nella vita quotidiana.

I ricercatori hanno concluso che deve esserci qualcosa di intrinseco a certe immagini che favorisce l’Effetto Mandela Visivo. Per sapere cosa sia esattamente, però, bisognerà attendere ulteriori ricerche.

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