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Una riflessione italiana sulla radicalizzazione islamica: Silvia Romano

Al momento della liberazione, Silvia Romano è apparsa una ragazza profondamente cambiata, dopo essersi spontaneamente convertita alla religione islamica

Di Giorgia Flammia, Serena Giunta, Gioacchino Mazzola

Pubblicato il 19 Giu. 2023

Aggiornato il 21 Giu. 2023 10:34

Ndr: il presente contributo è il terzo di una serie di quattro articoli sull’argomento pubblicati su State of Mind. Nel primo articolo sono state analizzate le motivazioni che spingono i più giovani ad arruolarsi, nel secondo articolo sono stati approfonditi i meccanismi di reclutamento. Il quarto e ultimo articolo verrà pubblicato nei prossimi giorni

Radicalizzazione: Silvia Romano

Silvia Romano, una ragazza milanese di 25 anni, laureata in mediazione linguistica con una tesi sulla tratta di esseri umani, è stata rapita in un villaggio nel sud-est del Kenya il 20 novembre 2018, mentre svolgeva il suo incarico come volontaria per la ONG marchigiana “Africa Milele”. La giovane fu portata via da alcuni uomini armati e, dopo vari trasferimenti e passaggi di consegna tra diverse bande di rapitori, fu successivamente trasferita in Somalia, dove è stata tenuta sotto sequestro per più di un anno dai jihadisti di al-Shabaab.

La cooperante italiana Silvia Romano è stata finalmente liberata sabato 9 maggio 2020, dopo 18 mesi di prigionia: l’emozione e la gioia collettiva sono, tuttavia, state turbate dall’immagine rimbalzata su tutti i media di una ragazza profondamente cambiata, scesa dall’aereo avvolta in una veste islamica verde. Silvia Romano ha dichiarato di essere stata trattata bene dai suoi carcerieri, nonché di essersi spontaneamente convertita alla religione islamica. La ragazza, il cui nome ora è Aisha, ha raccontato di aver superato i durissimi mesi di sequestro grazie alla lettura del Corano e all’apprendimento della lingua araba: la sua conversione sarebbe, quindi, frutto di una lenta maturazione interiore. Non sono mancate polemiche anche a seguito di un’intervista al quotidiano La Repubblica nella quale un portavoce di al-Shabaab ha confermato che è stato pagato un riscatto per la liberazione di Silvia Romano e che il denaro sarà impiegato soprattutto per l’acquisto di armi necessarie alla jihad. Tale portavoce dell’organizzazione terroristica ha inoltre aggiunto che la giovane si è convertita all’Islam volontariamente “perché ha visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva prima”.

Per quanto riguarda il vissuto di Silvia Romano nel periodo di prigionia, nessuno può sapere con certezza quale sia stato il suo universo interiore o il suo microcosmo relazionale perché non sono state condotte ricerche sociologiche a riguardo. Tuttavia, è ipotizzabile che Silvia Romano abbia attraversato molte difficoltà, una vera e propria odissea esistenziale dalla quale, probabilmente, nessuno di noi sarebbe potuto uscire immune, senza subire un profondo capovolgimento nel proprio modo di percepire la realtà. Il trauma del rapimento, la paura di morire o di essere sottoposta a violenze, l’isolamento e lo sradicamento totale da ogni legame con il mondo appartenente alla sua vita precedente sono solo alcuni elementi che caratterizzano il periodo di prigionia. Silvia Romano potrebbe aver vissuto tutto ciò ed aver dovuto cercare una strada nuova e del tutto imprevista per non impazzire o per non farsi sopraffare dalla disperazione in diciotto lunghissimi mesi di sequestro. Non è ancora possibile fornire una spiegazione né sociologica né psicologica della sua trasformazione senza aver avuto modo di analizzare i dettagli di quanto testimoniato dalla ragazza: molti aspetti della vicenda sono ancora oscuri, in quanto secretati dagli inquirenti. Analogamente, è ancora presto perché venga elaborato e reso disponibile il materiale di studio e la documentazione frutto di ricerche sul campo e di interviste: la storia di Silvia Romano è in fieri e sarà necessario un congruo lasso di tempo per poterne delineare i contorni con la giusta oggettività. Alcuni potrebbero, nell’attesa, comodamente imboccare la “scorciatoia” di una semplificazione ideologica del suo percorso, invocando l’ipotesi di fantomatici “lavaggi del cervello” inflitti alla giovane oppure richiamando la “sindrome di Stoccolma” a causa della mancanza di parole e di atteggiamenti ostili nelle prime dichiarazioni rilasciate da Silvia Romano nei confronti dei suoi carcerieri dopo il rientro in Italia.

Un’ipotesi di analisi sociologica su quanto potrebbe essere avvenuto durante la prigionia della ragazza ci viene offerta dagli studi compiuti da Marc Sageman(2004): Silvia Romano, forse, ha intravisto nel “tunnel” che stava attraversando una “uscita di emergenza”, rappresentata da un processo interiore di “risocializzazione”, e avrebbe percepito nell’adesione alla religione dei suoi carcerieri lo strumento per stabilire con essi un contatto, un rapporto di interazione basato sul rispetto reciproco, per sentirsi, quindi, meno isolata. Un ulteriore aspetto che possiamo considerare è il ruolo femminile nell’adesione all’Islam; per Sageman (2008), le donne rappresentano uno snodo cruciale nel processo di indottrinamento, non necessariamente verso la radicalizzazione, in quanto esse sono “l’infrastruttura invisibile” del sistema sociale e religioso musulmano.

Il valore simbolico della conversione di una donna occidentale all’Islam è altissimo: un’organizzazione estremistica come al-Shabaab o al-Qaeda non potrebbe che averne un considerevole ritorno di immagine e di prestigio in tutto il mondo arabo e non solo, al di là del probabile ingente riscatto ottenuto e indipendentemente dal fatto che Silvia Romano, presumibilmente, non diventerà mai una terrorista come loro.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Sageman Marc (2008), Leaderless Jihad, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2008
  • Sageman Marc (2004) , Understanding Terror Networks, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2004.
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