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Esplorando le differenze tra timidezza e introversione

Timidezza e introversione sono comunemente sovrapposte e usate in modo intercambiabile nel linguaggio comune. Tuttavia, la timidezza è teoricamente ed empiricamente distinta dall’introversione.

Timidezza

 Il termine “timidezza” è stato utilizzato per riferirsi a un’ampia gamma di esperienze. La timidezza può essere definita come una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, in particolare quando si è di fronte a qualcosa di nuovo o quando si percepisce una valutazione sociale. Può manifestarsi in modi diversi, con comportamenti reticenti e diffidenti, e può essere correlata a diversi aspetti, tra cui la preoccupazione di valutazioni negative e dell’attenzione del pubblico, di situazioni formali e di violazione della privacy.

Le persone timide tipicamente sono indecise, insicure e impacciate, esitano ad agire a relazionarsi con gli altri.

La timidezza è concettualizzata come un tratto temperamentale, ovvero un aspetto innato che rimane stabile nel tempo. È un fenomeno di grande interesse nello studio del comportamento umano, poiché l’interazione e la connessione sociale sono fondamentali per gli esseri umani. Nonostante la timidezza sia una caratteristica presente in varia misura in tutti gli individui e che esiste da molto tempo, le ragioni che la sottendono sono ancora poco conosciute.

Gran parte della ricerca scientifica sulla timidezza si è focalizzata principalmente sui suoi aspetti negativi e sulle conseguenze che può avere. Tuttavia, negli ultimi vent’anni, si è sviluppato un cambio di prospettiva che ha iniziato a considerare anche gli aspetti positivi e adattivi della timidezza. Nel tempo è avvenuta una vera e propria “de-patologizzazione” della timidezza. I ricercatori hanno iniziato a mettere in discussione l’idea di considerarla come una condizione patologica e ad evitare una medicalizzazione eccessiva, di quella che spesso è una normale variazione del modo di essere di una persona.

È anche vero che è stato osservato che le forme estreme di timidezza sono predittive del disturbo d’ansia sociale, dei disturbi internalizzanti (come depressione e altri disturbi d’ansia) e in generale difficoltà socio-emotive.

Tuttavia, sebbene alcuni individui timidi siano a rischio di sviluppare comportamenti disadattivi (per esempio riconducibili a sintomi internalizzanti), la timidezza non è sempre intrinsecamente problematica. La timidezza è un fenomeno onnipresente nell’esperienza umana, fino al 90% della popolazione la sperimenta in qualche momento della propria vita, invece una percentuale minore, pari a circa il 15% degli individui, è caratterizzata da timidezza temperamentale, che si presume abbia un esordio precoce e mostri stabilità nel tempo.

Ma le persone silenziose e riservate, si comportano in questo modo perché si sentono inibite e ansiose nelle situazioni sociali (quindi sono timide), oppure perché preferiscono stare da sole (quindi sono introverse)? E qual è la differenza?

Introversione

Nella società moderna, l’estroversione viene spesso lodata come un tratto di personalità desiderabile, associato a una vita sociale intensa e a un’energia contagiosa. Tuttavia, esiste un altro aspetto della personalità altrettanto prezioso e affascinante: l’introversione.

L’introversione è un tratto della personalità che si posiziona all’estremo opposto dell’estroversione nella dimensione introversione-estroversione, teorizzata nel modello della personalità a 5 fattori da McCrae e Costa (1987). Gli introversi sono caratterizzati da una predisposizione alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Preferiscono spesso trascorrere del tempo da soli, utilizzando quei momenti per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Gli introversi hanno spesso una vita interiore ricca e intensa. Sono riflessivi e trovano piacere nell’approfondire le loro conoscenze e intuizioni. La quiete li aiuta a concentrarsi su se stessi e ad esplorare le profondità della propria mente. Questa predisposizione alla riflessione e all’introspezione può condurre a una maggiore consapevolezza di sé, alla creatività e alla capacità di affrontare le sfide in modo ponderato.

L’introversione spesso è stata fraintesa come timidezza o mancanza di capacità sociali. Tuttavia, essere introversi non significa necessariamente essere timidi. Gli introversi possono eccellere nelle interazioni sociali quando si tratta di connessioni più profonde e significative. Preferiscono la qualità nelle relazioni alla quantità delle relazioni e possono offrire un ascolto attento e una presenza tranquilla, ciò crea un ambiente confortevole per l’altro.

La capacità di trascorrere del tempo da soli può consentire agli introversi di sviluppare una profonda comprensione di sé stessi, di coltivare le proprie passioni e di recuperare energie, cosa che spesso promuove le interazioni sociali. Inoltre, gli introversi sono spesso osservatori attenti, in grado di cogliere dettagli sfuggenti e di apprezzare la bellezza dei momenti tranquilli.

 È importante sottolineare che l’introversione non è un tratto esclusivo e che molti individui presentano caratteristiche sia introverse che estroverse. Non si tratta di un binario rigido, ma di un continuum in cui le persone possono trovarsi in posizioni diverse a seconda del contesto e delle circostanze. Comprendere e apprezzare il delicato equilibrio tra introversione ed estroversione può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità all’interno della società.

La cultura occidentale spesso enfatizza l’estroversione come l’ideale da raggiungere, promuovendo l’immagine dell’individuo socievole e carismatico come modello di successo. Tuttavia, altre culture valorizzano l’introversione come un tratto di saggezza e rispetto per sé stessi e gli altri. Ad esempio, in molte tradizioni orientali, l’introversione è considerata come una caratteristica preziosa per la meditazione.

La chiave per vivere appieno l’introversione è l’autenticità. Gli introversi possono migliorare il proprio benessere abbracciando la propria natura e ascoltando i propri bisogni, nonostante il modello di successo trasmesso dalla società (l’individuo estroverso). Ciò significa trovare modi personalizzati per bilanciare momenti di solitudine rigenerante con opportunità di connessione sociale significativa. Trovare un ambiente che favorisca l’espressione autentica della propria personalità può aiutare gli introversi a fiorire e a contribuire in modo unico alla società.

Differenze tra timidezza e introversione

L’introversione è diversa dalla timidezza dal punto di vista teorico ed empirico.

La timidezza è una predisposizione temperamentale, spesso associata a una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, specialmente quando si affronta qualcosa di nuovo o si percepisce una valutazione sociale. D’altra parte, l’introversione è un tratto di personalità caratterizzato da una preferenza alla tranquillità, alla riservatezza e all’introspezione. Gli introversi non provano necessariamente ansia nelle interazioni sociali, ma preferiscono trascorrere del tempo da soli per ricaricarsi e riflettere sulle proprie esperienze.

Le persone timide tendono a esitare nell’interagire con gli altri a causa dell’insicurezza e della preoccupazione riguardo le valutazioni negative e l’attenzione da parte dell’ambiente sociale. Gli introversi, d’altra parte, possono preferire poche relazioni sociali di qualità rispetto a numerose connessioni superficiali. Sono spesso in grado di offrire ascolto attento e una presenza tranquilla, creando un ambiente confortevole per gli altri.

La timidezza è principalmente correlata all’ansia sociale e ai pensieri negativi come la paura di essere giudicati, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete, la riservatezza e l’introspezione.

È importante notare che timidezza e introversione non sono mutuamente esclusive e possono coesistere in diverse misure nelle persone. Inoltre, non tutte le persone timide sono necessariamente introverse, e viceversa.

In conclusione, sebbene timidezza e introversione siano spesso intrecciate nel linguaggio comune, sono concettualmente ed empiricamente distinte. La timidezza è caratterizzata da una risposta di inibizione e ansia nelle situazioni sociali, mentre l’introversione è una preferenza per la riservatezza e l’introspezione. La timidezza è una caratteristica del temperamento delle persone, e –se eccessiva– può predire un disturbo d’ansia in futuro, mentre l’introversione è una caratteristica di personalità che riguarda la quiete e la riflessione. Tuttavia, nessuna delle due caratteristiche è patologica di per sé.

Comprendere queste differenze può aiutare a promuovere una migliore comprensione delle diverse personalità presenti nella società e ad apprezzarne le caratteristiche.

 

Self-discrepancy: di cosa si tratta e quali sono i fattori protettivi

L’individuo sperimenta self-discrepancy quando i concetti di sé reale, sé ideale e sé normativo non coincidono. Tale discrepanza può portare a sentimenti di depressione e ansia. L’attitudine alla resilienza e la capacità di regolare le proprie emozioni risultano fattori protettivi nel fronteggiare la discrepanza percepita.

Cos’è la self-discrepancy

 La discrepanza fra i diversi concetti di sé, o self-discrepancy, e il disagio psicologico che questo crea nell’individuo sono temi esplorati nel tempo da diversi autori (Freud, 1933/1964; James, 1890; Horney, 1950; Rogers, 1961). Tuttavia, solo Higgins (1987) fu in grado di proporre un modello sistematico che fosse capace di mettere in relazione specifici tipi di self-discrepancy con alcune tipiche conseguenze emotive.

Secondo la teoria della self-discrepancy di Higgins (1987), l’individuo possiede tre differenti concetti di sé:

  • Reale, che è definito dagli attributi che la persona crede di avere attualmente;
  • Ideale, che corrisponde all’insieme di caratteristiche che l’individuo idealmente vorrebbe avere, in base a speranze e desideri;
  • Normativo, che rappresenta gli attributi che l’individuo pensa che dovrebbe possedere, in base a doveri e responsabilità.

A completamento della concettualizzazione di Higgins (1987), Ogilvie (1987) propose l’aggiunta di un quarto concetto di sé, il Sé Indesiderato. Questo può essere definito come il peggiore dei sé possibili, come l’istanza che raccoglie in sé tutti gli attributi che la persona non vorrebbe avere. Poiché basato su eventi reali e vissuti, si tratta di un concetto cruciale nei processi di auto-valutazione e di benessere psicologico, a differenza del Sé Ideale, che si concettualizza più come un’idea solo immaginata di sé.

Ansia e depressione come risposte alla self-discrepancy

La teoria assume che, a seconda delle discrepanze fra i concetti di sé, possono emergere vulnerabilità a specifiche emozioni. In particolare:

  • La discrepanza fra il Sé Reale e il Sé Ideale causerebbe un generale sconforto, dunque tristezza, insoddisfazione e depressione;
  • La discrepanza tra il Sé Reale e il Sé normativo causerebbe uno stato di agitazione, dunque ansia, paura e nervosismo.

Di base, maggiore è lo scarto che l’individuo percepisce fra i concetti di sé e il numero di disallineamenti o mancate corrispondenze, maggiore sarà l’intensità del disagio psicologico che proverà.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di sondare l’evidenza scientifica delle relazioni suggerite da Higgins (1987) fra specifiche discrepanze del sé e specifiche emozioni, ma i risultati sono apparsi spesso contraddittori. Alcuni studi hanno confermato che soggetti con elevata depressione riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Ideale e soggetti con elevata ansia riportano una self-discrepancy tra il loro Sé Reale e il loro Sé Normativo; una recente meta-analisi (Mason et al., 2019), invece, ha riscontrato che discrepanze relative sia al Sé Ideale sia al Sé Normativo possono far scaturire sia ansia sia depressione, senza che fra essi sussistano dei legami univoci come postulato da Higgins (1987). Secondo l’ipotesi di Ozgul (et al., 2003), dal momento che gli individui internalizzano norme, valori e regole culturali da cui discendono standard ideali e normativi differenti, per la ricerca potrebbe essere difficile tipizzare in senso categoriale e assoluto concetti di Sé Ideale e di Sé Normativo che siano uguali per tutti.

I fattori protettivi: abilità di regolazione emotiva e resilienza

Alla luce dei risultati contraddittori ottenuti, fu lo stesso Higgins (1999) a suggerire agli studiosi di focalizzarsi su una nuova domanda di ricerca: “quando c’è l’effetto?”, ossia “in quali condizioni specifiche discrepanze del sé portano a sviluppare specifiche conseguenze emotive, come predetto dalla teoria?”. Ciò spinse i ricercatori a sondare i possibili fattori in grado di moderare tale relazione. Lo studio di Gurcan-Yilirim e Gencoz (2020), partendo dal presupposto che, in presenza di self-discrepancy, alcune capacità psicologiche risultano dei fattori protettivi contro stati emotivi negativi, si è posto l’obiettivo di valutare la funzione protettiva dell’abilità di regolazione emotiva e di resilienza.

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva è il processo attraverso cui gli individui sentono, comprendono, gestiscono ed esprimono le loro emozioni. I suoi elementi distintivi sono la comprensione, la consapevolezza e l’accettazione delle emozioni, il controllare i comportamenti impulsivi, quando si sperimentano emozioni negative, e l’avere accesso a delle strategie che aiutino a modulare le risposte emotive.

 All’interno della cornice teorica di Higgins (1987), si presume che le persone che non riescono a raggiungere i loro standard ideali o normativi o a discostarsi dai loro standard indesiderati possono provare ansia e depressione. In questa direzione, la capacità di regolazione emotiva potrebbe proteggere gli individui da tali esiti emotivi negativi: in presenza di self-discrepancy, più un individuo agisce con consapevolezza e accettazione delle proprie emozioni, più riuscirà a regolare efficacemente quelle negative che conseguono la percezione dello scarto fra i differenti sé.

Resilienza

La resilienza è l’abilità di mantenere o riacquistare uno stato di benessere psicofisico nonostante le esperienze avverse vissute. Si tratta di un insieme di attributi personali che permettono all’individuo di crescere anche nel momento in cui si devono fronteggiare eventi di vita negativi: adattabilità, capacità di problem solving, fiducia in se stessi, senso di supporto sociale, tolleranza agli affetti negativi, capacità di definire chiari obiettivi, orientamento all’azione, attitudine ad accettare positivamente il cambiamento e ad avere un forte scopo nella vita.

È possibile ipotizzare che, in presenza di self-discrepancy, tali caratteristiche siano un fattore protettivo che non permette di sviluppare significativo disagio psicologico: di fatto, anche in presenza di emozioni negative, le persone resilienti potrebbero vedere lo stress come un’opportunità per crescere, abbandonandosi a sentimenti negativi per meno tempo.

Conclusioni

Alla luce di quanto considerato, sarebbe auspicabile che nei programmi di benessere psicologico gli interventi prendano in considerazione l’importanza che i diversi concetti di sé rivestono nella vita emotiva dell’individuo. Sarebbe opportuno sia comprendere gli obiettivi e gli standard che le persone hanno relativamente ai loro Sé Ideali, Normativi e Indesiderati, così da aiutarle a ridurre il disagio psicologico in presenza di self-discrepancy, sia concentrarsi sul miglioramento delle loro capacità di regolazione delle emozioni e della resilienza, in qualità di strategie di coping protettive.

Perdonare se stessi e gli altri (2023) di Guidalberto Bormolini e Roberta Milanese – Recensione

Il perdono, “un balsamo miracoloso” in grado di curare le ferite emotive. Questo il tema del testo “Perdonare se stessi e gli altri. Strategie per fare pace con il passato”, scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione di un noto monaco Guidalberto Bormolini ed una stimata psicoterapeuta, Roberta Milanese, entrambi autori di già numerose pubblicazioni.

Il perdono libera l’anima, rimuove la paura.
È per questo che il perdono è un’arma potente.

Cit. Nelson Mandela (p.5)

 Il perdono non è soltanto oggetto di interesse nell’ambito della religione, ma anche in quello di diversi altri settori, dalla psicologia alla spiritualità e alla medicina; negli ultimi trent’anni ne sono stati messi in luce i suoi effetti benefici a livello psicofisico. Un “balsamo miracoloso” per le ferite emotive, lo definiscono gli autori del testo, ma, seppur utile, estremamente difficile da concedere e concedersi.

Rabbia, risentimento, rancore sono tra le emozioni che abitano il cuore della persona ferita, emozioni che diventano tossiche più per chi le prova che per la persona a cui sono indirizzate, ossia l’offensore. Ma chi è in grado di ferirci di più?

Genitori, fratelli, figli, partner. Spesso infatti la ferita è molto più sensibile al tipo di legame affettivo che all’effettivo danno.

Ma, ancora, dolore, senso di colpa, rimorso, vergogna, paura di soffrire nuovamente, desiderio di vendetta, spesso attanagliano la persona ferita, ma come affermava Francis Bacon “un uomo che medita la vendetta mantiene fresche le sue ferite” (p.20).

Cosa rende difficile perdonare?

Gli autori offrono ampie riflessioni, tra queste il confondere il perdonare con il dimenticare, perdonare come “scusare”.

“Nel perdono non si scusa il torto, ma ci si libera di tutte le emozioni e i pensieri negativi legati al ricordo di ciò che si è vissuto” (p.41).

Tra le spiegazioni rientrano anche il bisogno di giustizia, spesso mascherato di desiderio di vendetta, la tendenza a giudicare, ritenere il perdono come atto di debolezza, temere che perdonare debba per forza corrispondere al riconciliarsi.

Nella seconda parte del testo viene approfondito invece, come tali ferite emotive, affinché possano guarire, necessitino di tempo e di cura da parte della persona.

 Il testo si focalizza anche sul lavoro in psicoterapia, offrendo utili spunti, tecniche per gli addetti ai lavori, funzionali all’accompagnamento nel difficile, ma non impossibile, viaggio del perdono. Tra queste la scrittura dei torti subiti, la “congiura del silenzio” come manovra terapeutica utile ad evitare il continuo socializzare del problema, l’“epistolario della rabbia e della vendetta”, utile strumento volto a far decantare emozioni tossiche che impedirebbero il perdono, ed altro ancora, esposto con chiarezza e precisione.

Infine, l’ultima parte apre le porte a riflessioni più profonde sul registro spirituale. Il significato e l’importanza del perdono all’interno della religione cristiana, la confessione come strumento potente di riconciliazione, il perdono concesso anche in ambito giuridico. Tutti gli ambiti dell’uomo sono intrisi di colpe, pene e perdono per tornare alla vita; ancora una volta si evidenzia come il perdono sia faticoso ma essenziale strumento di guarigione non tanto e non solo verso chi è rivolto, quanto per la stessa persona che lo concede.

Una lettura dal tema importante ma resa leggera, un pregio riconoscibile nello stile di entrambi gli autori del testo. Se il perdono è un prezioso dono, questo testo ne sa esaltare anche la bellezza e utilità.

L’accettazione del lutto

Approfondiamo di seguito il lutto e la sua elaborazione, soffermandoci sull’accettazione come fase finale e indicando infine gli orientamenti terapeutici di riferimento.

 Accettare una perdita significativa non è un processo semplice. Alla fine, però, si arriva a un punto in cui si può riconoscere che la perdita è avvenuta e ci si adatta al cambiamento. L’accettazione è considerata l’ultima fase della teoria del lutto ideata dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Tale teoria offre una visione del processo di elaborazione del lutto, la cui accettazione porta alla comprensione di una nuova realtà che può illuminare il cammino per uscire dal lutto.

Introduzione

L’incontro dell’uomo con la morte è uno degli argomenti su cui più si è scritto dall’inizio della stessa apparizione dell’uomo sulla terra. Numerosi sono i riferimenti bibliografici e filmici che ci accompagnano fin dall’infanzia; pensiamo, ad esempio, alla morte di Mufasa ne “Il Re Leone” o a quella della mamma di Bambi. Sono forse un mezzo fornitoci per normalizzare la morte e aiutarci a capire che è solo una parte della vita? Il nostro modo abituale di vivere e di pensare, tuttavia, ci spinge a negare la temporaneità dell’esistenza e ci permette di accorgerci della morte solo quando tocca altri a noi vicini. Il lutto è infatti riconosciuto come il più grande fattore di stress che affrontiamo come esseri umani (O’Connor, 2019).

L’elaborazione del lutto

Il processo di elaborazione del lutto può essere complesso e non è uguale per tutti. Alcune reazioni generali e universali alla perdita sono l’incredulità per la morte, la rabbia, il pianto, la negazione, il senso di colpa ecc. Il senso di vuoto e l’intensa nostalgia del defunto sono i sintomi principali di un lutto prolungato. Nell’edizione rivista della Classificazione Internazionale delle malattie (ICD-11), il lutto è descritto come un intenso dolore emotivo, difficoltà ad accettare la perdita e incapacità di sperimentare uno stato d’animo positivo. Queste reazioni sono associate a una compromissione funzionale e durano più di sei mesi dopo la perdita (Pop-Jordanova, 2021). Nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) questa condizione viene definita “disturbo da lutto persistente e complicato” quando perdura per oltre 12 mesi.

Nel 1969 la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross, ha proposto una teoria secondo la quale il lutto avviene in cinque fasi: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione.

  • Negazione: nella prima fase del processo di elaborazione del lutto, la negazione ci aiuta a minimizzare il dolore schiacciante della perdita. Mentre elaboriamo la realtà della perdita, cerchiamo anche di sopravvivere al dolore emotivo.
  • Rabbia: la seconda fase del lutto è la rabbia. Stiamo cercando di adattarci a una nuova realtà e probabilmente stiamo vivendo un forte disagio emotivo. Le cose da elaborare sono talmente tante che la rabbia può sembrare uno sfogo emotivo.
  • Contrattazione: quando si affronta una perdita, non è insolito sentirsi così disperati da essere disposti a fare qualsiasi cosa per alleviare o minimizzare il dolore. In questa fase del lutto, si può cercare di contrattare per cambiare la situazione, accettando di fare qualcosa in cambio di un sollievo dal dolore provato.
  • Depressione: durante la nostra esperienza di elaborazione del lutto, arriva un momento in cui la nostra immaginazione si calma e iniziamo lentamente a guardare alla realtà della nostra situazione attuale. In questa fase del lutto, tendiamo a chiuderci in noi stessi man mano che la tristezza aumenta.
  • Accettazione: quando arriviamo a un punto di accettazione, non smettiamo di sentire il dolore della perdita, ma non stiamo più resistendo alla realtà della nostra situazione e non stiamo lottando per renderla diversa.

L’accettazione del lutto

“Accettare non significa essere felici della perdita. Piuttosto, in questa fase si accettano finalmente il dolore e la perdita subiti e si inizia a guardare avanti e a pianificare il futuro” (Stroebe et al., 2017).

 Questa fase consiste nell’accettare il fatto che esiste una nuova realtà che non può essere cambiata e nel capire come tale realtà avrà un impatto sulla propria vita, sulle proprie relazioni e sulla propria traiettoria. Accettare non significa scivolare di nuovo nella negazione, fingendo che la perdita non sia avvenuta. Piuttosto, accettare significa abbracciare il presente, comprendere la portata della perdita piuttosto che combatterla, accettare la responsabilità di se stessi e delle proprie azioni e iniziare il viaggio verso una nuova fase della vita con soddisfazione.

L’accettazione è un concetto essenziale in diversi orientamenti terapeutici, tra cui l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Terapia Dialettico Comportamentale (DBT). Nell’ACT, accettazione significa aprirsi e fare spazio a emozioni, sensazioni e sofferenze, abbandonando la lotta contro di esse. Questo non implica volerle o farsele piacere, ma semplicemente offrire loro una casa affinché l’impulso a evitarle non finisca per esercitare un controllo sul comportamento (Presti & Miselli, 2018). Nella DBT, accettazione significa comprendere che tutti noi stiamo facendo del nostro meglio. La pratica dell’accettazione convalida le proprie emozioni, i propri pensieri e le proprie azioni. Ciò può aiutare a cambiare la propria prospettiva su una situazione e, normalizzando esperienze come il lutto, si possono trovare meccanismi di coping per affrontare lo stress ed emozioni complesse (Theriault, 2012).

Conclusioni

Le emozioni provocate da una perdita significativa possono essere molto difficili e, in alcuni casi, possono creare l’illusione che la propria vita sia irrimediabilmente compromessa. Come non si può controllare la pioggia che ha rovinato un’uscita, il volo perso che è costato una fortuna o le conseguenze di una relazione sentimentale, non è possibile controllare la perdita di qualcuno o qualcosa. L’accettazione spesso non è una pratica facile da implementare. Tuttavia, crea la possibilità di acquisire fiducia per il futuro, e agganciarsi a questa scelta iniziale diventa fondamentale per plasmare la propria realtà e superare il dolore.

Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood – Report dall’evento di Milano

Report del Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood tenutosi a Milano l’11 e il 12 maggio.

 

 Tony Atwood, psicologo clinico britannico, che esercita a Brisbane (Australia) è considerato il più grande esperto mondiale di Sindrome di Asperger. La Sindrome di Asperger rientra, secondo la più recente classificazione diagnostica, all’interno dello spettro dell’autismo (DSM 5, 2013), che prevede tre livelli che aiutano a identificare la gravità dei sintomi nei domini della comunicazione e dei comportamenti/interessi ristretti o ripetitivi. Le persone con Asperger sono quasi sempre sovrapponibili per caratteristiche alle persone con autismo lieve (livello 1) proprio perché la condizione di neurodiversità che le caratterizza richiederebbe di per sé un supporto minimo per funzionare negli ambiti di vita. Spesso però la società, nel non fornire questo aiuto minimo nei vari contesti, si rende responsabile di impoverire le risorse personali e ostacolare un progetto di vita finalizzato alla piena autonomia. Il mondo del lavoro gioca in questo un ruolo decisivo e il Prof. Atwood dedica proprio l’intero convegno a questo tema.

Come è noto, la sfera lavorativa è molto importante per ogni individuo, sia per l’aspetto economico, che contribuisce all’indipendenza, sia perché partecipa alla costruzione identitaria. La dignità data dal lavoro è però tutt’oggi un diritto non garantito a tutte le persone, specialmente a quelle che divergono da quegli standard di produttività ritenuti fondamentali. Ma questa non è che una delle ragioni per cui le persone con autismo, seppur altamente qualificate, non solo ritardano l’ingresso nel mondo del lavoro ma faticano anche a mantenere un impiego nel lungo periodo. Le caratteristiche specifiche della maggior parte delle persone nello spettro dell’autismo le portano ad esempio ad avere difficoltà nella gestione dello stress oppure ad avere atteggiamenti con colleghi e capi considerati socialmente non adeguati (ad esempio correggere un errore del capo di fronte ai colleghi). Le difficoltà sociali e relazionali che ne derivano si sommano spesso a quelle riscontrate negli altri ambiti della loro vita, minando il senso del proprio valore personale e inducendo spesso veri e propri stati depressivi. Atwood, riferendosi alla realtà australiana e inglese, attribuisce grande responsabilità al contesto socioculturale ed economico nel determinare la possibilità che le persone hanno di esprimere il proprio potenziale e lo fa condividendo il racconto di esperienze che sono tipiche anche del contesto italiano, questo perché le caratteristiche riconducibili all’autismo, spesso hanno come risposta universale l’esclusione.

Ma quali sono nel dettaglio le caratteristiche tipiche dell’Autismo che possono avere un impatto negativo in ambito lavorativo?

Le persone con autismo sono caratterizzate da una spiccata sensibilità sensoriale e da una generale difficoltà nella comprensione dei comportamenti sociali che richiede la capacità di decifrare le espressioni facciali e comprendere le infinite sfumature delle norme sociali, che per le persone neurotipiche sono frutto di apprendimenti spesso inconsci. Le persone con autismo possono non sapere, finché non gli viene esplicitamente insegnato, che correggere gli errori è una buona cosa ma se chi sbaglia è il capo, potrebbe essere opportuno non farlo o farlo con alcuni accorgimenti.

L’ipersensibilità sensoriale può aumentare il carico di stress perché spesso gli ambienti di lavoro sono rumorosi, le luci possono essere molto forti o può essere richiesto il contatto con superfici che risultano particolarmente sgradevoli al tatto.

Secondo Atwood, parlare dunque di inserimento lavorativo per persone con autismo, non può limitarsi alle riflessioni riguardo la mansione lavorativa, ma deve riguardare tutta la complessità che ruota attorno all’avere e mantenere un lavoro, dal colloquio all’eventuale licenziamento o cambio di mansione o luogo di lavoro; sappiamo che per le persone con autismo gestire i cambiamenti può risultare complicato ed è per questo che devono essere adeguatamente accompagnati.

Lo psicologo australiano sottolinea inoltre come la condizione di neurodiversità non sia rara ma ormai ampiamente diffusa, ciò rende la questione non più solo di appannaggio degli addetti ai lavori o dei familiari, ma anche della società tutta, che ha convenienza nel riconoscere le potenzialità e le caratteristiche delle persone con autismo. Anche il comparto legislativo, in relazione alla situazione italiana, dovrà andare in questa direzione, con politiche in grado di garantire ai cittadini con autismo la possibilità di manifestare le proprie peculiarità all’interno dei contesti lavorativi.

Questo potrà avvenire solo se i neurotipici si sforzeranno di riscrivere in parte le norme sociali nella direzione di una maggior inclusione della neurodiversità e, a quel punto, un capo che si sentirà correggere da un dipendente con autismo, ne saprà apprezzare la trasparenza e la dedizione al risultato.

Verso una definizione di Mansplaining

Psicopatologia della consapevolezza (2023) di Fritz Perls – Recensione

“Psicopatologia della consapevolezza”, recentemente pubblicato anche in Italia dalla Casa Editrice Astrolabio nell’ottima traduzione di Piergiulio Poli e Silvia Pellegrini, è un libro che comprende uno scritto inedito di Fritz Perls e una serie di commenti di alcuni tra i principali esponenti della Gestalt contemporanea.

La Gestalt e il pensiero di Perls

L’incontro con il libro ha generato un’esperienza intensa, ricca di emozioni contrastanti. Ho trovato un Perls molto diverso da quello che traspare dai suoi ultimi scritti, qui incline a un atteggiamento che, con un’associazione che potrebbe fargli storcere il naso, somiglia alla rêverie o alla consapevolezza preconscia, con cenni di riconoscimento e affetto per i suoi contemporanei e persino per Freud, aperto a problematizzare questioni di carattere generale e teorico, non solo di carattere psicologico ma che spazia nei territori della filosofia e persino della metafisica.

Quella che invece ha trovato conferma è la sua capacità non comune di sollecitare, elicitare, indurre associazioni e intuizioni (o insight, per usare una terminologia cara ai gestaltisti) in chi legge, grazie a una scrittura evocativa e fortemente insatura, quello stile che fa dire spesso ai suoi detrattori che non è stato un pensatore analitico e capace di costruire sistemi teorici strutturati e solidi.

Il libro parte con l’enunciazione di alcuni rilievi critici della psicologia a lui contemporanea, alcuni dei quali già espressi altrove, come la critica all’associazionismo e al modello dell’arco riflesso come paradigma del comportamento, l’avvertenza già cara a Freud di non scambiare i ricordi con il passato reale, la critica al concetto di empatia, altri formulati in modo originale o più esplicito che altrove, ossia la critica all’ipotesi della “mente” come qualcosa di reale e la confusione tra autorealizzazione e realizzazione di Sé, dove il Sé è descritto come un “fenomeno narcisistico appartenente al contesto o all’immaginazione”.

Particolarmente pregnante è il fatto che, nella critica al concetto di Ego e di mente, che rende ragione del fatto che alcuni gestaltisti abbiano descritto la Terapia della Gestalt come un comportamentismo fenomenologico, Perls si spinge a definire la prima struttura dell’esperienza come l’incontro tra Io e Tu, con un riferimento chiaro a Buber e all’esistenzialismo.

Nel riferimento alla distinzione tra il passato e i ricordi, Perls con poche pennellate spazza via una delle più scorrette accuse che la vulgata psicologica gli ha fatto, ossia che nell’attenzione esagerata al presente si sia dimenticato il fatto che ogni uomo ha una storia, è inserito in un flusso di eventi che dà senso alla sua esistenza e non può pensare di vivere in un qui ed ora avulso dalla temporalità (accusa che fa sorridere, vista la profonda conoscenza di Heidegger che traspare nelle pagine di questo scritto):

Nella terapia la cosa importante non è il passato, ma ciò che del passato è ancora nel presente, ovvero le molte gestalten incomplete che il paziente porta ancora con sé.

Nel secondo capitolo ci parla di Friedlander, un filosofo tedesco molto importante per la sua formazione, che gli ha fornito, come lui stesso afferma, una sorta di orientamento nel mondo che Perls manterrà fino alla fine. I concetti fondamentali della filosofia di Friedlander sono la struttura polare dell’esperienza, che si declina in una serie di dimensioni caratterizzate dall’avere due poli estremi che, spesso, sono vissuti come rigide dicotomie, e il concetto di indifferenza creativa, la qualità che permette, appunto, di muoversi lungo le polarità superando gli irrigidimenti e i blocchi appresi dall’esperienza. Questo concetto non è del tutto nuovo, e in effetti Perls riconosce i punti di contatto della filosofia di Friedlander da un lato con i presocratici e dall’altro con diverse filosofie orientali.

In questo capitolo ho trovato molto interessante il modo in cui Perls recupera uno dei concetti fondamentali del pensiero di Freud, ossia la polarizzazione tra Eros e Thanatos, che declina in modo interessante pur rifiutando il costrutto di “Istinto di morte”.

L’argomento centrale del saggio, che dà il titolo all’opera, è un lungo capitolo sulla consapevolezza, che per l’ultimo Perls diventa l’aspetto più importante dell’esistenza e il nodo centrale del processo terapeutico, mettendo sullo sfondo le precedenti ipotesi e i modelli (anche molto minuziosi) sul ciclo del contatto e sulla struttura processuale del Sé:

Mi sono reso conto che il centro di ogni conoscenza è la consapevolezza e adesso lavoro in base all’equazione consapevolezza = qui e ora = realtà. La filosofia ontologica, su cui si basa l’esistenzialismo, è incompleta senza la cognizione che (anche se tutto è come è) la trasformazione dell’essere in esserci, in Dasein, può avvenire solo attraverso la consapevolezza dell’essere stesso. […] Con l’equazione su menzionata viene rimosso il primo ostacolo per una teoria universale valida: tale ostacolo è la finzione che noi abbiamo una mente.

Nella disamina approfondita del concetto di consapevolezza, un aspetto importante è che Perls riformula anche la teoria delle “resistenze”: se nella formulazione originaria della terapia della gestalt sono associate alle interruzioni del ciclo del contatto (in alcune rielaborazioni della teoria si arriva ad associare specifiche modalità di interruzione a specifiche fasi del ciclo), in quest’opera Perls le legge come manifestazioni della polarità negativa della consapevolezza, azioni deliberate per annullare almeno in parte un’esperienza di consapevolezza intensa quando l’individuo non ha sufficiente fiducia nell’autoregolazione organismica.

Parlando del fine della terapia, Perls mette in crisi un’altra immagine stereotipata creata per stigmatizzare il suo pensiero e la sua visione dell’uomo, ossia quella di un cultore dell’individualismo estremo ed egoistico:

La vera terapia non è solo l’adattamento alla società, ma l’integrazione dell’autorealizzazione e l’identificazione con i bisogni sani della società e con il cosmo.

Le critiche a Perls

Fin qui, il manoscritto di Perls. I commenti, quasi tutti provenienti da una specifica area culturale all’interno del movimento gestaltico, sono stati per lo più spiacevoli conferme dell’ennesimo tentativo di regolare i conti con un padre che si tenta di rimuovere e che non ha nessuna intenzione di facilitare questo compito.

Le critiche allo scritto, che sconfinano quasi sempre nelle critiche all’ultimo periodo della vita personale e professionale di Perls, non sono nuove nei contenuti, e non hanno a loro sostegno delle argomentazioni forti.

Una prima critica, di natura tautologica, è che l’ultimo Perls si distanzia da quello che ha dato il via alla prima formulazione della “Teoria della terapia della Gestalt” insieme a Paul Goodman e alla moglie Lore Posner, e siccome quello resta il punto più alto della formulazione teorica, allora quello che ha fatto dopo è poco interessante.

Una seconda, che trovo intellettualmente poco onesta, è insistere sul fatto che l’ultimo Perls avesse un approccio alla terapia e in generale all’umano di tipo pragmatico, ateorico. Partendo dal presupposto che, per mettere in evidenza l’assurdità della critica, basterebbe leggere anche solo questo saggio (e infatti alcuni commenti cercano in modo capzioso di convincere il lettore che gli aspetti teorici proposti siano comunque insufficienti), il limite della critica è che si confonde il rifiuto di un approccio teoretico alla psicoterapia (il rifiuto cioè di una teoria generale della realtà, di una metapsicologia, per usare un concetto psicoanalitico) con il rifiuto di avere dei presupposti teorici, che invece sono presenti e riconoscibili: l’esistenzialismo, la filosofia del come se di Vaihinger, il pensiero di Buber, la semantica generale di Korzibskj, oltre al già citato Friedlander, solo per citare i più rilevanti. Dire che per l’ultimo Perls la psicoterapia fosse il reparto operativo di una filosofia esistenziale non vuol dire sminuirne la portata teorica, ma piuttosto riconoscere che nel corso degli anni ha deciso di mettere sullo sfondo le questioni metapsicologiche e ha focalizzato la sua attenzione sulla consapevolezza, cosa che tra l’altro in quest’opera si coglie perfettamente.

Tra i commenti, i più rilevanti sono quello di Robert Resnick, che si differenzia dagli altri perché è il caldo e sentito racconto di un incontro e di un’amicizia, quella con Perls, appunto, senza nessun tentativo di fare un regolamento di conti postumo senza contraddittorio, come invece avviene altrove, e quello di Bernd Bocian, che ci racconta il forte legame di Perls con alcuni analisti a lui contemporanei, soprattutto Erich Fromm e Wilhelm Reich.

Spiace che Perls non abbia potuto portare avanti quest’opera, che nelle sue intenzioni era un primo capitolo di un progetto ambizioso, e spero che prima o poi venga colmata la lacuna che vede mancare un tentativo di dare una struttura organica o quantomeno epistemologicamente fondata, consapevoli della natura paradossale del compito, alla “Gestalt della consapevolezza” (Per citare J. M. Robine, curatore del libro).

La neuroplasticità: la capacità del nostro cervello di modificarsi

Il termine neuroplasticità, o plasticità cerebrale, indica la capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che da quello funzionale, sulla base dell’esperienza al fine di apprendere informazioni sull’ambiente, oppure per riparare o compensare danni cerebrali (Crespi & Cirillo, 2022).

 

 Si potrebbe quindi parlare di “mappe” soggette a modificazioni sulla base dell’esperienza esterna (segnali afferenti visivi, uditivi, somatosensoriali, ecc.) o di cambiamenti dell’ambiente interno (lesioni cerebrali, patologie focali e patologie diffuse).

La capacità neuroplastica del cervello permette al sistema nervoso di riorganizzare la sua struttura, le sue connessioni e il suo funzionamento. Come funziona questo processo? Una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni nel momento in cui sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come legge di Hebb, che può essere riassunta dall’espressione “what fires together, wires together” (Crespi & Cirillo, 2022): la trasmissione sinaptica tra neuroni è facilitata ogni volta che un circuito nervoso è frequentemente attivato e neuroni pre e post sinaptici sono attivati simultaneamente.

Neuroplasticità e apprendimento

In passato si riteneva che la plasticità fosse limitata a periodi specifici dello sviluppo e che oltre tali periodi le capacità acquisite non potessero più essere modificate. Effettivamente la plasticità cerebrale varia durante il corso della vita ed è massima in specifiche finestre temporali, note come periodi critici. In questi periodi è necessario che l’individuo venga esposto all’esperienza sensoriale per poter stabilire rappresentazioni corticali ottimali: infatti, dopo la chiusura di tali periodi critici, una serie di elementi funzionali e strutturali impedisce significativi cambiamenti plastici nel cervello. Il passaggio da uno stato plastico a uno più fisso è vantaggioso in quanto consente il consolidamento e il mantenimento di più complesse funzioni percettive, motorie e cognitive, ma, se l’esperienza sensoriale è anormale o assente, possono esserci significativi effetti negativi, come la mancata acquisizione di abilità sensoriali e cognitive (Cisneros-Franco et al., 2020).

La riduzione di questa flessibilità a livello cerebrale è dovuta al processo di apoptosi, cioè la morte cellulare programmata, nella quale le cellule che non sono rilevanti per una certa abilità cognitiva localizzata in una precisa area cerebrale vengono eliminate. Il momento in cui ciò avviene è determinato da un orologio biologico che stabilisce quando una certa area tende a maturare. Come detto sopra, l’assenza o la modificazione delle stimolazioni può causare la mancata acquisizione di una funzione.

Un esempio esplicativo di questo meccanismo è quello di Hubel e Wiesel (1977), che svolsero esperimenti su alcuni animali: hanno testato gli effetti della cucitura della palpebra di gatti e scimmie neonate e, quindi, la mancata esposizione della retina a stimolazioni esterne. Se ciò perdurava oltre il terzo mese (periodo critico), si verificava una cecità irreversibile dell’animale, con un deficit irreversibile della maturazione della corteccia occipitale; se invece le palpebre venivano scucite entro uno o due mesi, l’animale era in grado di acquisire le abilità visive.

Neuroplasticità in età adulta

Nonostante il cervello sia più plastico durante lo sviluppo, è stato dimostrato che anche la corteccia cerebrale dell’adulto ha una certa potenzialità di riorganizzazione plastica.

Negli esseri umani è possibile osservare come danni cerebrali causino la morte cellulare e la compromissione dei circuiti funzionali. Le aree che circondano il tessuto e che erano precedentemente connesse a quelle danneggiate, sono soggette a processi rigenerativi che possono portare a un certo grado di recupero funzionale. Si parla quindi di plasticità funzionale: i circuiti esistenti vengono riadattati in modo da compensare almeno in parte il deficit conseguente alla lesione. Si definisce invece plasticità neuroanatomica il processo per cui i neuroni sopravvissuti nell’area danneggiata tendono a creare nuove connessioni con il tessuto nervoso circostante.

 La plasticità può essere riscontrata anche negli individui adulti senza lesioni cerebrali, ad esempio nell’apprendimento di nuove abilità per effetto di esercizio ripetuto e continuato, che coinvolgono una parte specifica del corpo, determinando un ampliamento della rappresentazione di quel distretto corporeo nella corteccia somatosensoriale e motoria. Un esempio molto esplicativo di questo meccanismo è quello dello studio svolto da Woollett e Maguire (2011) sui tassisti londinesi: l’ippocampo posteriore, implicato nelle conoscenze visuo-spaziali deputate alla navigazione, è risultato di volume maggiore nei tassisti e l’ampiezza di tale struttura cerebrale è risultata crescere con l’aumento progressivo dell’esperienza come tassista.

Infine, con l’avanzare dell’età, il cervello subisce modificazioni in diverse aree cerebrali, con conseguente deterioramento delle corrispondenti funzioni cognitive. Per intervenire su questo processo possono essere praticati alcuni training specifici, che possono riguardare diverse funzioni. Essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora, è stato dato molto spazio ai training di memoria, che mirano ad aumentare la plasticità facendo utilizzare alla persona varie strategie (es. l’associazione, la categorizzazione, i metodi immaginativi ecc.) per migliorare i processi di codifica e recupero. Questi training si basano sull’assunto per cui la cognizione, così come il cervello, sono plastici anche in età avanzata seppure in maniera minore rispetto all’età infantile; il cervello anziano, infatti, tende a riorganizzarsi in modo da far fronte al deterioramento cerebrale dovuto all’avanzare dell’età (Camiscia, 2022).

Considerazioni conclusive

La neuroplasticità costituisce un interessante meccanismo del funzionamento cerebrale e una sua maggiore comprensione può contribuire ad accrescere le conoscenze sul sistema nervoso e sulle possibilità di intervento per potenziare abilità cognitive e somato-sensoriali o per compensare abilità deficitarie a seguito di danno o deterioramento.

Cos’è la self-disclosure del terapeuta

Oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia: il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni.

 

 La self-disclosure in psicoterapia è la rivelazione verbale intenzionale di ciò che il terapeuta sta pensando o sentendo nel presente o di ciò che egli ha personalmente vissuto nel passato (Knox e Hill, 2003). Anche se informazioni non verbali come il setting dello studio e l’atteggiamento comunicativo e corporeo del terapeuta sono parti di sé che vengono svelate, quando si parla di self-disclosure in psicoterapia si fa riferimento a due principali categorie:

  • Auto-rivelazioni immediate o in vivo, che rivelano qualcosa su come il terapeuta sta percependo il qui ed ora della situazione terapeutica (sentimenti o pensieri sul paziente o sulla relazione);
  • Auto-rivelazioni biografiche, che rivelano qualcosa sulla vita personale del terapeuta al di fuori della terapia (ricordi di infanzia, condizioni di salute, gusti, preferenze).

Il tema della self-disclosure del terapeuta è sempre stato controverso, specie in ambiente psicoanalitico: secondo Freud (1912), il terapeuta doveva essere uno “schermo opaco impenetrabile” capace di mantenere l’asimmetria epistemica tra sé e il paziente (Mitchell e Black, 1995). Le scuole psicodinamiche, invece, addolcirono questa posizione, ammettendo la soggettività e la storia personale del terapeuta come parte ineliminabile della terapia (Aron, 1996). Da sempre gli psicoterapeuti umanistico-rogersiani sostengono che la self-disclosure ha un grande potenziale terapeutico, garantendo un atteggiamento genuino e congruente da parte del professionista (Yalom, 2003). Anche nella terapia cognitivo-comportamentale le auto-rivelazioni del terapeuta sono preziose per facilitare interventi emotivamente intensi, come l’esposizione agli stimoli temuti (Goldfried, Burckell e Eubanks-Carter, 2003).

Fino a che punto spingersi? “Ci sono passato anche io, ma tanto tempo fa”

Studi empirici indicano che oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia (Henretty e Levitt, 2010). Il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni (Borys e Pope, 1989).

In effetti, alcune ricerche sostengono che le rivelazioni del terapeuta che indicano somiglianza con i pazienti, normalizzando le esperienze di questi ultimi e umanizzando il terapeuta, aumentano l’efficacia del trattamento (Audet, 2011). Addirittura, alcuni studi ritengono che i terapeuti che hanno sperimentato personalmente problemi psicologici sarebbero qualificati in modo preferenziale per aiutare pazienti con problemi simili e, in questo senso, sono invitati a condividere la loro storia personale a fine terapeutico. Zerubavel e Wright (2012) hanno esplorato questa idea nel contesto dell’etichetta di “guaritore ferito”: presupponendo che i guaritori feriti differiscono dai professionisti compromessi (in quanto i loro problemi attualmente non ne impediscono l’efficacia terapeutica), i primi dovrebbero prendere in considerazione la divulgazione della propria storia di salute mentale per ispirare la guarigione del paziente e incoraggiarlo a condividere il proprio materiale difficile.

 In effetti, la domanda su cui si concentra l’attuale attenzione clinica non è tanto categoriale, chiedendosi se i terapeuti dovrebbero rivelare i propri problemi psicologici o meno; essa è più dimensionale e si interroga su fino a che punto i terapeuti dovrebbero spingersi nell’auto-rivelazione. Considerando che la presenza della self-disclosure del terapeuta è generalmente preferita alla sua assenza, lo studio di McCormic, Pomerantz, Ro e Segrist (2019) ha provato che solo un livello moderato di self-disclosure tende a produrre valutazioni più favorevoli da parte dei pazienti; diversamente, nessuna auto-rivelazione o livelli estremi o lievi di condivisione di sé finiscono per stimolare percezioni imprevedibili, positive o meno, da parte dei pazienti (Gelso e Palma, 2011).

Nel tentativo di delineare i criteri elettivi attraverso cui i terapeuti possano condividere parti di sé in una misura adeguata e utile all’efficacia terapeutica, Moody e colleghi (2021) hanno ipotizzato che la variabile temporale possa essere un ottimo parametro per calibrare se e quanto condividersi con il paziente. Di fatto, solo i terapeuti che avevano utilizzato self-disclosure su eventi passati (e non attuali) della propria storia personale avevano ottenuto maggiore apprezzamento da parte dei pazienti. In questo senso, l’idea che il terapeuta si riveli affidandosi più ad espressioni come “anche io, molto tempo fa”, piuttosto che a frasi come “anche io, di recente”, potrebbe avere un impatto più positivo sul paziente.

Alcune raccomandazioni utili per i professionisti

Alla luce di quanto considerato, Hill e colleghi (2018) hanno proposto alcuni consigli pratici utili ai professionisti per calibrare le self-disclosure in terapia:

  • Essere cauti, ponderati e strategici nel loro utilizzo, avendo in mente l’obiettivo per cui le si utilizza;
  • Valutare come il paziente potrebbe rispondere e se è probabile che l’auto-rivelazione lo aiuti;
  • Assicurarsi che la relazione terapeutica sia forte prima dell’intervento;
  • Divulgare materiale personale in modo sintetico, con pochi dettagli e relativamente a temi risolti;
  • Rendere l’auto-rivelazione rilevante per il materiale del paziente, riportando l’attenzione su di lui una volta concluso l’intervento;
  • Osservare la reazione del paziente e valutare di conseguenza l’efficacia della self-disclosure.

Autoinganno: l’arte di raccontarsela

Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente.

 

La situazione a casa è talmente pesante che sono costretto a bere

Mi maltratta spesso, per il forte sentimento che prova per me…

Ero un grande talento, se avessi incontrato altri allenatori avrei sicuramente fatto carriera

Sono a dieta, però oggi è stata una brutta giornata quindi mi merito un dolcetto

 Quante volte capita di raccontarsela? Se ricordate “La volpe e l’uva” di Esopo vi è chiaro di cosa sto parlando. Nella famosa favola è un animale a raccontarsela, ma il messaggio era ovviamente diretto a tutti noi. Esopo era consapevole che gli esseri umani sono particolarmente abili ad auto-ingannarsi, raccontare a sé stessi versioni poco verosimili della realtà, se non talvolta palesemente false.

Ma a cosa serve raccontarsela? L’autore che si è occupato maggiormente di studiare il tema dell’autoinganno è lo psicologo evoluzionista Robert Trivers, il quale ha cercato di comprendere quale utilità possa avere tale capacità cognitiva per gli esseri umani. Secondo Trivers, le funzioni dell’autoinganno sono molteplici: il diniego dell’inganno stesso, impersonificare un personaggio pubblico che appaia altruista, produrre racconti interni non obiettivi del comportamento messo in atto e false narrazioni storiche che nascondano le vere intenzioni. L’autoinganno nega una parte di sé non facilmente accettabile, da celare agli altri ma in primis a sé stessi.

L’avvocato interiore

Per comprendere l’utilità dell’autoinganno dobbiamo prima considerare la funzione del pensiero cosciente. Secondo i più recenti studi delle scienze cognitive, la mente cosciente assomiglia a un osservatore a posteriori, un improvvisatore di senso, più che a un agente; ciò significa che molto spesso i nostri pensieri arrivano in un secondo momento a spiegare qualcosa che è già avvenuto, più che rappresentare il motore dell’azione.

La mente non fa altro che interpretare, giustificare, conferire senso al nostro comportamento, esattamente come fa per il comportamento altrui […]. Il compito della mente improvvisatrice è rendere pensieri e comportamenti il più coerenti possibili, rimanere nel “personaggio” meglio che riusciamo. Per far ciò, il nostro cervello, in ogni momento, non fa che sforzarsi di pensare e agire in maniera tale da allinearsi ai nostri pensieri e alle nostre azioni precedenti. (Chater, 2021).

Similmente, Barret (2017) spiega che le nostre emozioni sono il risultato di sensazioni derivanti dal sistema interocettivo –l’affect, a valenza positiva o negativa e ad arousal alto o basso– interpretate poi a livello conscio: secondo la metafora utilizzata dall’autrice, l’affect è seduto al posto di guida mentre la razionalità è un passeggero chiacchierone. Il pensiero razionale quindi conferisce un significato emotivo a quanto già accaduto nel nostro corpo.

La mente inconscia (qui il termine non ha a che fare con la psicoanalisi, ma con la gerarchia dei processi neurali) è in anticipo rispetto alla mente cosciente nella presa di decisioni, la coscienza arriva soltanto successivamente nel corso del processo. In qualche modo, è come se la mente cosciente fungesse da avvocato interiore, che può commentare, giustificare, razionalizzare o bandire dalla consapevolezza i nostri comportamenti, intenzioni e talvolta gli stessi pensieri. Una suggestiva metafora dello psicologo morale Jonathan Haidt (2013) ci aiuta a comprendere questo punto:

Il cervello è un’entità duale, rappresentabile come un elefante e il suo portatore. L’elefante è la parte istintiva, mentre il portatore quella razionale. […] Il portatore è bravo a trovare scuse/giustificazioni/razionalizzazioni per ciò che l’elefante ha già fatto o vuole fare. Non importa se queste motivazioni siano fondate o meno. Procrastiniamo e troviamo scuse tipo: “domani sarò più motivato”, “domani avrò più tempo”. Proviamo a difendere le nostre intuizioni morali sul piano razionale, per esempio tirando in causa presunti danni che in realtà non ci sono. Invece, semplicemente, le intuizioni morali precedono il ragionamento strategico.

Coerentemente con tale prospettiva, nell’autoinganno sono particolarmente coinvolti meccanismi di diniego, proiezione e dissonanza cognitiva. Tendiamo a cercare informazioni che ci diano ragione, evitando e negando quelle che potrebbero smentirci o sgualcire la nostra immagine; ad esempio, accogliamo e valorizziamo –e magari condividiamo sui social– gli articoli che sostengono le nostre stesse idee, trascurando quelli che ci danno torto (gli algoritmi dei motori di ricerca, purtroppo, ci danno una grande mano in questo). Lo stesso meccanismo viene messo in atto con i ricordi: le persone ricreano continuamente le proprie memorie sulla base dell’obiettivo del momento, il quale spesso è proprio mantenere un’immagine positiva di sé stesse. Diverse ricerche dimostrano che tendiamo a rievocare più facilmente i nostri comportamenti corretti rispetto a quelli scorretti, mostrando invece una tendenza opposta quando ricordiamo i comportamenti altrui (Trivers, 2013).

Inoltre, l’autoinganno subentra spesso quando ricostruiamo motivazioni e narrazioni per razionalizzare i nostri comportamenti scorretti e discutibili (Mercier e Sperber, 2011).

È inutile che perda tempo a fare la raccolta differenziata con tutte le industrie che continuano a inquinare.

Vohs e Schooler (2008) hanno effettivamente verificato sperimentalmente che, manipolando una variabile che consenta di ridurre la responsabilità personale, è più probabile che gli individui mettano in atto un comportamento immorale. Ed è proprio ciò che l’autoinganno ci consente di fare, quando attribuiamo il nostro comportamento a contingenze esterne per auto-assolverci. Per alleggerire il peso della responsabilità è necessario attribuire quest’ultima a qualcun altro: il diniego crea un buco nella realtà che ha bisogno di essere riempito. È come se esistesse un’equazione della responsabilità, tale che a una diminuzione di una parte corrisponde necessariamente un aumento da qualche altra (Trivers, 2013). Come a dire “se non voglio che dipenda da me, lo faccio dipendere da qualcun altro”. Proiezione.

È stata la sua gelosia a spingermi a tradirla!

Il diniego porta spesso ad altro diniego, poiché una volta negata la realtà non si torna indietro ammettendo di averla distorta. “Il diniego spinge a continuare a negare, e i costi potenziali aumentano a ogni giro” (Trivers, 2013).

Il meccanismo che genera maggior autoinganno è però l’evitamento della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957); quest’ultima consiste in un disagio causato da compresenti cognizioni o pensieri antitetici e per questo in contrasto tra loro. Un disagio che spesso viene gestito proprio attraverso l’autoinganno. Nel caso di cattive abitudini, ad esempio, è molto frequente osservare persone che risolvono in tal modo gli stati di dissonanza cognitiva, come “So che fumare uccide e fumo un pacchetto di sigarette al giorno”. Per uscire da un simile conflitto interno la persona può raccontarsi numerose autogiustificazioni: “Smetterò quando vivrò un periodo meno stressante”, “Fumare mi impedisce di ingrassare”, “Mi tocca fumare a causa del nervoso che mi fanno venire i colleghi”, “Di qualcosa si dovrà pur morire”, “Ci sono vizi peggiori” ecc…

Facciamo consapevolmente qualcosa di sbagliato e dobbiamo trovare una narrazione efficace che lo giustifichi, che allevi il conflitto interiore. Nuovamente, notiamo come la nostra mente assuma il ruolo di avvocato interiore che giustifica i nostri stessi pensieri e azioni, per evitare di farci sentire persone sbagliate o incoerenti.

Tanto più l’autoinganno procede –tramite diniego, proiezione e riduzione della dissonanza– tanto più le persone rischiano di allontanarsi. Trivers (2013) sostiene che “due persone possono partire da una posizione molto vicina riguardo a un certo argomento, ma via via che entrano in gioco forze contraddittorie di dissonanza cognitiva, e ne seguono autogiustificazioni, possono arrivare a due posizioni molto distanti. […]. Questo processo può essere una forza importante che spinge le coppie sposate verso il divorzio più che verso la riconciliazione”.

A volte l’autoinganno può anche assumere una funzione di placebo; recentemente mi è capitato di ascoltare il racconto di una persona che manipola intenzionalmente sull’orologio da polso i dati relativi alle sue ore di sonno, affinché queste risultino maggiori; una volta constatato che il dispositivo indica un buon numero di ore la persona si sente più riposata, pur riconoscendo che quel conteggio non è verosimile. Può sembrare assurdo, ma diversi studi ci raccontano che una pillola utilizzata come placebo può funzionare anche quando il paziente è al corrente dell’inganno (per esempio,  Kaptchuk et al., 2010).

Da questa prospettiva, le interpretazioni della realtà sembrano strumenti che l’individuo utilizza al bisogno per creare una narrazione che gli sia più funzionale possibile: giustificare i propri comportamenti e intenzioni, creare una realtà desiderata, avere una buona reputazione, sentirsi in un certo modo. La potenza delle narrazioni è davvero sorprendente!

Inganno me per ingannare te

 Von Hippel e Trivers (2011) hanno confrontato molti studi e teorie su bugiardi e liar scout, chiedendosi per quale ragione l’evoluzione avrebbe selezionato la particolare capacità di mentire a sé stessi. L’autoinganno si sarebbe evoluto negli esseri umani fondamentalmente per ingannare meglio gli altri: “Per imbrogliare gli altri, possiamo essere tentati di riorganizzare internamente le informazioni nei modi più improbabili, facendolo per lo più implicitamente […]. Nascondiamo la realtà alla nostra mente cosciente per celarla meglio agli spettatori esterni”. Una sorta di metodo Stanislavskij utilizzato nella vita reale. L’autoinganno ha qui la funzione di ricreare una fittizia realtà interiore, e convincersi di essa, per poi recitarla in maniera convincente. Mentire a sé stessi per poter mentire meglio agli altri; più mi convinco della mia bugia, più è probabile che il mio comportamento pubblico non la sveli.

“Non ho passato l’esame… in fondo è meglio così, avrò modo di studiare meglio”.

Autoingannarsi, prima di ingannare, favorirebbe un minor carico cognitivo e permetterebbe di essere maggiormente credibili. Infatti, la fatica del tenere in mente due rappresentazioni di realtà potrebbe farci scoprire tramite la produzione di indizi di menzogna: sbattere meno le palpebre, gesticolare di meno, fare pause più lunghe durante l’eloquio, tenere un tono di voce più alto e agire con maggior frequenza attività di spostamento (attività irrilevanti che si osservano spesso, anche in altri mammiferi, quando sono in atto due motivazioni opposte). Inoltre, al crescere del carico cognitivo, le persone tendono a lasciarsi sfuggire più spesso commenti e pregiudizi che altrimenti terrebbe per sé (Wegner, 2009). Dunque, il modo migliore per risultare credibili nell’inganno è ridurre il carico cognitivo, censurando la versione “vera” e convincendo prima sé stessi della versione distorta; mentire prima di tutto a sé stessi, convincendosi che la menzogna è la realtà, in modo da alleggerire i processi cognitivi e poter così comportarsi in modo più disinvolto. Il cervello può agire in modo più efficace quando è ignaro della contraddizione in atto (Trivers, 2013).

I costi dell’autoinganno

L’autoinganno è piuttosto diffuso nelle nostre vite e ha una funzione evoluzionistica; all’interno del gruppo, saper ingannare può risultare utile ad accaparrare risorse o a simulare uno status maggiore. Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente: “l’autoinganno sembra avere forti effetti immunitari, di solito in base alla regola che all’aumento dell’autoinganno corrisponde una diminuzione della forza immunitaria” (Trivers, 2013). Secondo Trivers c’è ancora un mondo da scoprire sulle correlazioni tra autoinganno e salute, ma i primi studi sembrano promettenti: a lungo andare l’autoinganno innesca meccanismi psicologici e fisiologici dannosi per chi lo ospita. Ad esempio, sappiamo che gli uomini che negano e nascondono la propria omosessualità manifestano un maggior numero di problemi immunitari (Cole et al., 1996). I benefici dello svelamento, invece, sono storicamente diffusi, basti pensare al ruolo “terapeutico” della confessione, comune nella maggior parte delle religioni sia in forma pubblica che privata (Trivers, 2013).

Da terapeuti, possiamo riscontrare un altro effetto dannoso dell’autoinganno prolungato: la resistenza al cambiamento. Se la persona continua a negare parti di realtà, o comunque racconta a sé stessa una realtà distorta, ecco che tale condizione può rappresentare un grosso ostacolo all’azione. L’autoinganno permette di mostrare una visione di sé diversa agli altri ma soprattutto a sé stessi; in qualche modo, consente di manipolare la realtà ma nel frattempo di mantenere lo status quo, poiché i cambiamenti desiderati avvengono soltanto nella mente. Le fantasie, le menzogne, le interpretazioni distorte possono essere sostitutive; in qualche modo possono bastare. E nel momento in cui i pensieri bastano, non si agisce, non si cambia. Tutto avviene puramente a livello mentale, come un racconto di cui si scrive a proprio piacimento la trama.

Mindfulness & Meditation Summit 2023

Il 20 e 21 ottobre, non perdere il Mindfulness & Meditation Summit, un evento formativo straordinario che cambierà il tuo modo di vivere e percepire il mondo che ti circonda.

La mindfulness, intesa come pratica di consapevolezza del momento presente, sta guadagnando sempre più riconoscimento come potente strumento per promuovere il benessere mentale, ridurre lo stress, sviluppare la resilienza emotiva ma anche di cambiamento e crescita personale. Questo Summit offre l’opportunità unica di immergersi nel mondo della mindfulness e scoprire il suo potere trasformativo.

Federmindfulness, organizzatrice dell’evento insieme al Provider ECM Sperling s.r.l., ha voluto riunire esperti internazionali, professionisti del settore mindfulness provenienti da tutto il mondo. Tra i relatori di spicco di questo evento, abbiamo il piacere di presentarti Daniel Siegel, uno dei principali esperti mondiali nel campo della neuroscienza e della mindfulness. Psichiatra, autore di bestseller e professore di psichiatria presso l’Università della California, Siegel è noto per il suo lavoro pionieristico nel campo della neurobiologia interpersonale e per aver integrato la scienza moderna con le pratiche di consapevolezza. In entrambe le giornate del Mindfulness & Meditation Summit, Siegel avrà dei momenti dedicati in cui condividerà la sua vasta esperienza e presenterà le sue ultime scoperte nel campo della neuroscienza e della mindfulness.

Attraverso le sue presentazioni coinvolgenti e le sessioni pratiche, Siegel ti guiderà nel comprendere come la mindfulness possa influenzare il cervello, la mente e le relazioni interpersonali. Avrai l’opportunità di imparare le pratiche di consapevolezza sviluppate da Siegel e scoprire come queste possano favorire il benessere emotivo, migliorare la comunicazione e promuovere relazioni più significative.

Oltre a Daniel Siegel, il Summit ospiterà molti altri relatori di talento, esperti e innovatori nel campo della mindfulness. Avrai l’opportunità di interagire con loro, porre domande e approfondire le tue conoscenze. Tra i relatori, potrai ascoltare nomi di spicco come Franco Fabbro, Caroline Welch, Geshe Tenzin Tempel, Silvia Bianchi, Michele Bovo, Loredana Buonaccorso, Alberto Chiesa, Franco Cucchio, Carlo Di Berardino, Roberto Gavin, Ambra Mara Giovannetti, Greta Gschwentner, Elena Luisetti, Nitamo Montecucco, Gioacchino Pagliaro, Francesca Sireci.

Questo evento è pensato per tutti, indipendentemente dal livello di esperienza nella pratica della mindfulness. Che tu sia un professionista sanitario, un professionista del benessere, ma anche un praticante mindfulness o un interessato all’argomento, il Mindfulness & Meditation Summit ti offrirà una ricca varietà di contenuti che soddisferanno le tue esigenze e ti aiuteranno a sviluppare le tue competenze.

Inoltre, siamo entusiasti di annunciare che il Congresso Mindfulness ha ottenuto il patrocinio di importanti istituzioni e organizzazioni tra le quali C.N.O.P., FNOMCeO, Fondazione Cariplo, Ass. Ita. Donne Medico, A.I.A.M.C., A.I.Te.R.P., A.I.C.P.R., F.I.A.M.O., S.I.O.M.I.. Questo sottolinea l’autorevolezza e l’importanza dell’evento nel panorama e nella comunità medico-scientifica e psicologica italiana.

Per maggiori informazioni sui relatori, inclusi Daniel Siegel, il programma dettagliato e le modalità di registrazione, ti invitiamo a visitare il sito ufficiale del Congresso Mindfulness a questo indirizzo.

Non perdere l’opportunità di partecipare a questo evento straordinario: iscriviti oggi stesso e inizia il tuo viaggio verso una maggiore conoscenza e consapevolezza!

Definizione e storia del bias di conferma

Il bias di conferma è un pregiudizio cognitivo che promuove tutte quelle informazioni che confermano le nostre convinzioni e pregiudizi preesistenti.

 

 Immaginiamo di credere al mito che le persone di segno Gemelli abbiano una “doppia faccia”. Ogni qualvolta incontriamo una persona con queste caratteristiche, tenderemo a considerare maggiormente le informazioni che avvalorano ciò a cui già crediamo. Potremmo addirittura andare alla ricerca di prove che supportino ulteriormente questa credenza, prestano poca attenzione a quelle che non lo fanno.

I bias di conferma condizionano sia le modalità attraverso cui assorbiamo le informazioni, sia le modalità attraverso cui le interpretiamo e le ricordiamo. Di conseguenza, quando ci troviamo in situazioni che ci portano a sostenere o contestare un tema specifico, tenderemo a ricercare le informazioni che sostengono il nostro fine e interpretare tutte le nozioni a supporto delle nostre idee. Inoltre, richiameremo alla mente relative minuzie in modo da corroborare questo comportamento.

L’idea alla base del bias di conferma è stata osservata da filosofi e scrittori fin dall’antichità. In particolare, gli anni ’60 sono il periodo nel quale lo psicologo cognitivo Peter Wason (1960) effettuò svariati esperimenti rivelando che le persone sono predisposte a ricercare le informazioni che avvalorano le loro credenze preesistenti.

Come accorgersi dei bias di conferma?

Quando si parla di bias di conferma, spesso vi sono dei segnali che indicano che una persona ne è vittima, inavvertitamente o consapevolmente, ma può anche essere molto sottile e difficile da individuare. Alcuni dei segnali che potrebbero aiutare a identificare quando si sta sperimentando questo pregiudizio sono:

  • cercare solo informazioni che confermino le proprie convinzioni e ignorare o screditare le informazioni che non le supportano;
  • cercare prove che confermino ciò che già si pensa sia vero, piuttosto che considerare tutte le prove disponibili;
    basarsi su stereotipi o pregiudizi personali nel valutare le informazioni;
  • ricordare selettivamente le informazioni che supportano le proprie opinioni, dimenticando o scartando quelle che non lo sono;
  • avere una forte reazione emotiva alle informazioni (positive o negative) che confermano le proprie convinzioni, mentre si rimane relativamente indifferenti alle informazioni che non lo sono (Satya-Murti & Lockhart, 2015).

Esempi di bias di conferma

Può essere utile considerare alcuni esempi di come funziona il bias di conferma nella vita quotidiana per avere un’idea più precisa degli effetti e dell’impatto che può avere.

  • Interpretazioni di questioni attuali: uno degli esempi più comuni di bias di conferma è il modo in cui cerchiamo o interpretiamo le notizie. Siamo più propensi a credere a una notizia se questa conferma le nostre opinioni preesistenti, anche se le prove presentate sono poco solide o inconcludenti. Per esempio, se sosteniamo un particolare candidato politico, siamo più propensi a credere alle notizie che lo dipingono in una luce positiva, mentre scartiamo o ignoriamo quelle che lo criticano.
  • Relazioni personali: un altro esempio di bias di conferma è il modo in cui scegliamo amici e partner. È più probabile essere attratti e stringere amicizia con persone che condividono le nostre stesse convinzioni e i nostri stessi valori, mentre è meno probabile frequentare chi non lo fa. Questo può portare a un effetto camera d’eco, in cui sentiamo solo informazioni che confermano le nostre opinioni e non le mettiamo mai in discussione.
  • Processo decisionale: il bias di conferma può spesso portare a prendere decisioni sbagliate. Ad esempio, se siamo convinti che un particolare investimento sia buono, possiamo ignorare i segnali che indicano il contrario. Oppure, se siamo decisi ad ottenere un lavoro in una determinata azienda, potremmo non considerare altre opportunità che potrebbero essere più adatte a noi.

Impatto dei bias di conferma

 Il bias di conferma può avere un impatto significativo sulla nostra vita sia in positivo, sia in negativo. Da un lato, può aiutarci a rimanere fiduciosi nelle nostre convinzioni e nei nostri valori, dandoci un senso di certezza e sicurezza. Dall’altro, questo tipo di pregiudizio può ostacolare la nostra capacità di osservare le situazioni da una lente oggettiva e può limitare le nostre scelte indirizzandoci verso conclusioni errate. Se consideriamo ad esempio la stagione elettorale, i cittadini sono inclini a ricercare le informazioni che esaltino positivamente i loro candidati preferiti, ricercando per di più le informazioni che vanno a screditare il candidato avversario. Eludendo ciò che è oggettivo, interpretando le informazioni al fine di assecondare le nostre credenze e ricordandone solo i dettagli che le avvalorano, spesso perdiamo informazioni fondamentali, che potrebbero influenzare la scelta del candidato a cui dare sostegno.

Conclusioni

In conclusione, ora che siamo venuti a conoscenza dei bias di conferma accettando il fatto che esistono, potremmo sforzarci di riconoscerli, sollecitando la nostra curiosità nei confronti di punti di vista opposti e prestando attenzione a ciò che gli altri hanno da dire e perché.

“Dove c’è una mente aperta, ci sarà sempre una terra di scoperta” disse Kettering (1936).

È essenziale riconoscere la nostra vulnerabilità ai bias di conferma e difenderci attivamente da essi, essendo aperti a tutto ciò che non è coerente con le nostre convinzioni e teorie, mettendole in discussione.

La gestione del trauma con la realtà virtuale

Gli eventi traumatici o fortemente stressanti possono portare ad una serie di disturbi: la Realtà Virtuale potrebbe essere la soluzione (e non è una novità).

 

 Come ben noto, traumi ed eventi fortemente stressanti possono portare alla formazione di una serie di disturbi, tra cui il disturbo d’adattamento, il disturbo acuto da stress e il disturbo da stress post-traumatico, conosciuto anche con l’acronimo PTSD (Post Traumatic Stress Disorder).

Questi disturbi hanno un’eziologia certa, ossia l’esposizione ad un trauma, come ad esempio morte e gravi lesioni, oppure fenomeni di indicibile violenza come guerre, aggressioni, torture, stupri, catastrofi naturali o attentati.

L’innesco della patologia

È importante considerare che non sempre le reazioni al trauma sono patologiche: lo diventano solo quando si reagisce con terrore e si vive una sensazione di impotenza tutte le volte che l’evento viene rivissuto per mezzo di ricordi (spesso intrusivi e ricorrenti), flashback o incubi. La conseguenza è ovviamente l’evitamento di tutti quegli stimoli che, sia implicitamente che esplicitamente, sono associati al trauma, una marcata attenuazione della reattività e riduzione dell’affettività, accompagnata da rabbia, aggressività, comportamenti a rischio (compreso l’uso di alcool e sostanze psicoattive), fino ad arrivare all’ideazione suicidaria.

Statisticamente l’esposizione ad eventi traumatici è un’esperienza abbastanza comune, con stime che oscillano tra il 37% ed il 93% della popolazione: quindi i sintomi del PTSD dovrebbero essere considerati come parte della normale reazione al trauma, visto che si verificano quasi universalmente a seguito di gravi sconvolgimenti. Ad esempio, nel 94% delle vittime di stupro sono soddisfatti i criteri sintomatici del PTSD nella prima settimana dopo l’aggressione, ma solo chi presenta un decorso cronico non mostra l’estinzione dei sintomi entro le 4 settimane successive. Si potrebbe dire quindi che il da stress disturbo post-traumatico sia la causa del fallimento del recupero, causato dalla mancata estinzione della paura a seguito dell’evento traumatico.

Sul versante psicologico, base del comportamento patologico, risiede l’idea che l’evento traumatizzante sia la prova del fatto che il mondo è un luogo sistematicamente pericoloso, insidioso e imprevedibile, e di conseguenza ci si ritiene incapaci e incompetenti nell’affrontarlo.

Quale approccio?

La terapia dell’esposizione graduale, ossia della desensibilizzazione sistematica, rappresenta il metodo più efficacemente documentato: il trattamento consiste nel racconto e nell’immaginazione dell’evento traumatico durante la seduta, in modo da rielaborare le emozioni ad esso associate. Ed è proprio nel setting che entra in gioco la Realtà Virtuale, la quale può offrire indubbiamente una soluzione più efficace per riportare l’esperienza, consentendo al paziente di riviverla in prima persona, rielaborando così la situazione all’origine del disturbo risperimentandola.

Il protocollo Virtual Vietnam

La dottoressa Barbara Olasov Rothbaum è una delle figure di maggior spicco nella ricerca e nello sviluppo di strumenti virtuali in affiancamento alla psicoterapia, ed è stata l’ideatrice, in collaborazione con la Georgia Tech, di una trilogia di studi sulla cura del PTSD in veterani americani del Vietnam, chiamato Virtual Vietnam. Il protocollo si basa su due distinti ambienti classici dell’iconografia bellica del Vietnam: il primo rappresenta scenari da un Huey Helicopter (Bell UH-1), mentre l’altro simula una giungla vietnamita, dove il ricercatore controlla i vari effetti visivi e uditivi (come esplosioni, urla, alternanza giorno/notte etc.). L’autrice conclude la sua pluriennale ricerca affermando che la terapia tramite Realtà Virtuale ha portato significativi risultati nella cura del disturbo su una popolazione particolarmente delicata come quella rappresentata dai reduci di guerra e che, per quanto fortemente immersiva, nessuno dei partecipanti ha subito scompensi durante l’esposizione, grazie alla possibilità di modularla secondo le personali esigenze.

Altre applicazioni

Più recentemente la Realtà Virtuale è stata utilizzata anche per trattare il PTSD derivante da altre esperienze traumatiche, come:

  • l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, grazie alla simulazione di quei tragici momenti;
  • gli atti di terrorismo in Israele, con la simulazione di bombe esplose su mezzi pubblici;
  • la guerra in Iraq e in Afghanistan, con la creazione di scenari diversificati ed affrontabili sia in situazioni di tranquillità che di guerra.

Gli scenari bellici sono stati analizzati da una rassegna di Rizzo e Shilling, che ha preso in considerazione soldati e veterani che hanno preso servizio nelle operazioni Enduring Freedom, Iraqi Freedom e New Dawn. Il punto di partenza è una metanalisi del 2001, che evidenziava come il 25-30% dei soldati soddisfaceva i criteri per il PTSD. Nel 2004 l’Institute for Creative Technologies (USC) ha sviluppato un prototipo di VRET con scenario virtuale iracheno e afghano consistente in 4 situazioni di Virtual Iraq/Afghanistan, divenuto clinicamente operativo nel periodo 2005-2007. Nel 2011, visti gli esiti promettenti di questo sistema, l’esercito americano ha finanziato lo sviluppo di una versione aggiornata, denominata Bravemind. I 4 ambienti originali sono stati ricostruiti e sono stati aggiunti 10 scenari (città dell’Iraq e dell’Afghanistan, un villaggio rurale afghano, una zona industriale, un posto di blocco stradale, aree residenziali, una base operativa montagnosa e un’area di accoglienza ospedaliera). Ogni scenario consente stimolazione visiva, audio 3D direzionale, stimoli tattili e olfattivi; il tutto erogato dal terapeuta per promuovere la modulazione dell’ansia necessaria all’esposizione per produrre apprendimento, elaborazione emotiva ed estinzione del disturbo.

I primi test clinici hanno prodotto risultati promettenti, ma gli esiti di studi non controllati sono difficili da generalizzare: di fatto, l’80% dei pazienti che ha completato il trattamento virtuale ha mostrato riduzioni sia statisticamente che clinicamente significative dei sintomi d’ansia e depressivi, nonché miglioramenti nella vita quotidiana. Dopo una media di 7 sessioni, il 45% non è più risultato positivo allo screening per PTSD ed il 62% è migliorato in modo generalizzato. Questi progressi sono stati mantenuti anche al follow-up di 3 mesi dopo il trattamento.

Trattamenti a confronto

Due studi sulla Realtà Virtuale su larga scala hanno esaminato l’aumento della componente tradizionale dell’esposizione con un trattamento psicosociale aggiuntivo e con un supplemento farmacologico.

 Nel 2017 Beidel ha combinato la Realtà Virtuale con la Trauma Management Therapy (TMT) all’interno di un programma intensivo giornaliero condotto in 3 settimane. La componente virtuale veniva somministrata ogni mattina e la Trauma Management Therapy di gruppo ogni pomeriggio, focalizzandosi sul reinserimento sociale, sulla gestione della rabbia, il problem-solving e la gestione della depressione. Tramite un campione di 102 pazienti (con un drop-out del 2%), Beidel ha riportato che il 66% non soddisfaceva più i criteri diagnostici per PTSD. Sebbene sia impossibile determinare gli effetti differenziali della Realtà Virtuale rispetto alle componenti psicosociali della Trauma Management Therapy, i risultati della combinazione di questi approcci si sono mostrati promettenti.

La Rothbaum ha confrontato gli effetti di 5 sessioni di terapia aumentata con D-cicloserina, alprazolam e placebo in uno studio con 156 veterani con PTSD. I sintomi del PTSD sono significativamente migliorati in tutte le condizioni al post-trattamento e ai follow-up a 3, 6 e 12 mesi, sebbene non vi fossero differenze nell’esito del trattamento tra le condizioni terapeutiche. La Realtà Virtuale ha migliorato le misure psicobiologiche (per esempio, reattività del cortisolo) a una scena rilevante per il trauma, fornendo un ulteriore supporto per l’efficacia di questa forma di trattamento che si serve del mondo virtuale.

Quindi, la tendenza generale dei risultati pubblicati è incoraggiante verso l’uso della Realtà Virtuale e la sua applicazione clinica come approccio efficace per fornire un trattamento basato sull’evidenza per il PTSD.

Lo stress nei civili

La terapia virtuale è stata utilizzata anche per facilitare il trattamento del disturbo post-traumatico da stress nella popolazione civile.

Ad esempio, molte migliaia di civili sopravvissuti all’attacco dell’11 settembre a New York al World Trade Center (WTC) sono stati ritenuti ad alto rischio nello sviluppare il PTSD.

È stato quindi sviluppato un WTC virtuale per il trattamento dei sopravvissuti, che espone gradatamente e sistematicamente all’attacco simulato: i risultati sono stati positivi, mostrando un significativo miglioramento sia statistico che clinico rispetto ai gruppi di controllo.

La Realtà Virtuale si è rivelata utile anche per i traumi da incidente stradale: anche in questo caso, il punto di forza è la possibilità di modulare l’ambiente, le condizioni atmosferiche ed il tipo di guida degli autisti: il paziente, seduto nell’abitacolo, è in grado di dirigere il mezzo nelle direzioni che desidera, proprio come se stesse fisicamente guidando. In questo modo può rivivere il trauma in prima persona, rielaborando la situazione all’origine del disagio potendola risperimentare sotto la guida di un terapeuta.

 

Chi la dura (non) la vince. Perché smettere è sottovalutato

La fallacia dei costi irrecuperabili è un bias cognitivo che ci fa persistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto, facendoci sottovalutare la possibilità di mollare.

 A 8.000 metri la scarsità di ossigeno si fa sentire, anche con le bombole: la respirazione si fa difficoltosa, i neuroni iniziano a morire uno dopo l’altro, si rischiano danni irreversibili al cervello; la mente non è lucida e il corpo non ha modo di acclimatarsi. Manca così poco alla vetta, così poco per arrivare sul tetto del mondo e godere della vista degli dei. Poi ecco spuntare una nuvoletta all’orizzonte. Tu sai che dovresti tornare indietro, che quell’innocuo batuffolo potrebbe trasformarsi in tormenta, ma non lo fai, perché mancano poche centinaia di metri e non vorrai mica mollare ora, giusto? Ed è così che si consuma una delle più grandi tragedie sul Monte Everest. Chiunque legga il resoconto incredibile di Krakauer della spedizione del 1996 sull’Himalaya (Thin Air) non potrà che domandarsi: “Ma perché non sono tornati indietro?!” e la risposta, di getto, sarà “Perché son matti”.

Ma che differenza c’è tra uno scalatore che non molla a pochi metri della vetta nonostante il rischio di morire e tu, che da anni resti in una relazione ormai giunta al capolinea, o tu, che da secoli ti lamenti del tuo lavoro, ma non fai nulla per andartene? Siete, siamo, tutti matti?

Nooo, siamo tenaci, caparbi, risoluti, noi non molliamo, noi non siamo dei perdenti.

Eppure ci sono situazioni in cui converrebbe smettere, ma pare che smettere sia sottovalutato.

Perché non riesco a smettere

Come sempre, le scelte peggiori non le facciamo seguendo la pancia, ma la testa. Poiché la nostra mente è irrazionale, spesso le nostre decisioni sono influenzate da bias cognitivi. Decidere di smettere non fa eccezione.

The sunk cost fallacy

Uno dei motivi che ci impedisce di mollare a metà un libro che si è rivelato una sòla o il fidanzato con cui stiamo assieme da 8 anni (che pure lui, come il libro, si è rivelato una sòla) è la fallacia dei costi irrecuperabili. Si tratta di un bias cognitivo che ci fa persistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto (soldi, tempo, energie…); mollare sarebbe uno spreco, ritirarsi vorrebbe dire sancire ufficialmente la perdita. Inaccettabile.

Bias dello status quo

 Detto anche Bias di Padre Maronno, raggiunge la sua massima espressione in una delle domande più terrificanti che possiamo rivolgerci: “E se poi te ne penti?”. Cambiare spaventa perché, erroneamente e in maniera irrazionale, supponiamo che una scelta diversa dallo status quo peggiorerà la situazione. Meglio quindi mantenere le cose così come stanno, perché chi cambia la strada vecchia per la nuova…

Se esce testa, smetto

Come fare, quindi, a bypassare i nostri bias?

La prossima volta che dovrete decidere se mollare o tenere duro, lanciate in aria una moneta: se esce testa, mandate al diavolo il fidanzato, il capo o la serie tv che “è diventata inguardabile, ma mi sono affezionato ai personaggi”; se esce croce, non cambiate nulla della vostra situazione.

Sappiate però che è meglio esca testa.

Nel 2013 l’economista Steven Levitt ha condotto questo esperimento con più di 20.000 persone, di cui circa 6.000 hanno affidato al lancio della moneta scelte decisive per la loro vita. Dopo 6 mesi sono state ricontattate e chi aveva rinunciato era in media più felice di chi aveva perseverato nella sua situazione.

A volte il vero vincitore è colui che smette.

 

L’importanza dei valori nella costruzione di nuovi piani di vita in ottica LIBET

Di seguito, la presentazione di un caso clinico con focus su alcuni aspetti centrali per la concettualizzazione del caso in ottica LIBET e un’ipotesi di percorso terapeutico incentrato sulla ricerca dei valori in chiave ACT.

 

Caso clinico

 Angela ha 23 anni e convive con il suo compagno da 3 anni. Iscritta a medicina, si descrive da sempre come una persona molto centrata nell’ambito prestazionale, con standard estremamente rigidi. Arriva in terapia a inizio novembre, per una problematica legata ad una deflessione del tono dell’umore. L’esordio della sintomatologia è rintracciabile in un episodio specifico, ben chiaro nella mente di Angela. A fine giugno ha sostenuto l’esame di Anatomia, che è risultato estremamente faticoso per gli standard della paziente, standard che la paziente ha sostenuto essere per lei la massima espressione di una lotta interna. Angela difatti risulta in costante attivazione al fine di non toccare un vissuto di abbandono contrassegnato da una tristezza per lei non tollerabile: tale attivazione risulta sostenuta da una credenza ben radicata in Angela “più mi impegno, più ottengo risultati, più non deluderò le persone per me importanti che così non mi abbandoneranno”. Difatti, anche per l’esame di Anatomia, Angela studia incessantemente per settimane e settimane in biblioteca, privandosi di altre aree della sua vita per lei importanti (amici, sport, hobbies), disregolando il ritmo sonno veglia e con un tono dell’umore a tratti disforico che riporta anche nelle relazioni. Arriva il giorno dell’esame, che supera brillantemente. Tornata a casa con un’aspettativa, su cui ha iperinvestito lottando incessantemente, “se non deludo l’altro, non mi abbandonerà” apre la porta e non trova più alcun oggetto del fidanzato, ma un biglietto sul tavolo “se per te sono più importanti i libri della nostra relazione allora non vedo il motivo per andare avanti”.

Concettualizzazione LIBET e valori ACT

Il caso presentato fa emergere alcuni aspetti centrali per la concettualizzazione del caso in ottica LIBET. Angela entra in contatto con il proprio tema doloroso, una rappresentazione cognitiva emotiva frutto della propria storia, che nello specifico potremmo riportare all’area dell’abbandono; non abbiamo molti altri dati, ma sicuramente sarebbe utile esplorare meglio questi aspetti in sede di colloquio. Emerge implicitamente anche l’aspetto processuale, cioè quanto sia intollerabile per Angela vivere quel dolore. Dolore da cui Angela sembrerebbe proteggersi attraverso una lotta contraddistinta da impegno e alti standard, con costi molto importanti per quanto riguarda l’impatto sulla propria qualità di vita. Qui emerge una prima riflessione clinica, ossia quanto quella fatica e sofferenza legata al costo di quelle strategie siano state per Angela secondarie rispetto alla loro funzione: mantenerla lontana dal tema dell’abbandono; di fatto, però, organizzano tutta una serie di scopi e comportamenti per evitare qualcosa rispetto al perseguimento di obiettivi di vita per lei significativi. Questo punto, la creazione di nuovi piani di vita, è centrale nella terapia con Angela ma, per potervi accedere, è necessaria la condivisione di quale sia la propria sensibilità (area dell’abbandono) e come vi sia stato un iperinvestimento rispetto alla lotta per evitare il contatto con essa, che ha avuto un ruolo nello scompenso e nella sintomatologia così clinicamente marcata.

 La creazione di nuovi piani di vita diventa così un punto centrale nella terapia e trova in modelli più centrati sulla psicologia esistenziale come l’ACT (Acceptance Commitment Therapy, Hayes 2005) una risorsa estremamente funzionale. L’ACT è una psicoterapia basata su evidenze sperimentali, che usa strategie di accettazione e mindfulness insieme a strategie di impegno nell’azione e modificazione del comportamento. Senza voler entrare nello specifico della descrizione del modello in questo contesto, è utile focalizzarci sul concetto di valori, uno dei processi chiave dell’ACT. Potremmo definire i valori come direzioni/scelte di vita, che si riferiscono alla qualità delle azioni e dei comportamenti che intraprendiamo nei diversi ambiti della nostra vita, in modo da accrescerne il significato e la pienezza.

La ricerca dei valori

Come potremmo ricercare i valori di Angela?

T: mi sembra, Angela, che gli ultimi anni siano stati dedicati ad un grande impegno nello studio e nella tua carriera universitaria. Tutto questo impegno sembra che arrivi dal tuo timore di deludere le persone per te importanti e quindi dal timore di un ipotetico abbandono. Quindi quello che tu hai fatto per allontanarti da ciò che temi o ciò che non vuoi provare ha di per sé un senso, ha funzionato per un po’.

P: sì, ma non più.

T: esatto. Questo però ci spiega perché le abbiamo messe in pratica per molto tempo. Hai già potuto constatare però come non funzionino sempre e soprattutto non a lungo termine. Se tu ti sentissi meno costretta a difenderti da tale dolore, da tale timore, che cosa ti vedresti fare? Che Angela vorresti essere?

P: beh sicuramente una compagna più presente con il mio compagno, più attenta alla mia famiglia, più leggera per godermi i momenti con i miei amici. Però anche lo studio è per me una parte importante. Ma anche il mio benessere fisico, il divertimento… Fino a poco tempo fa andavo sempre a correre con le mie amiche e organizzavo spesso cene a tema a casa nostra con il mio compagno e i nostri amici, era molto divertente. Mi manca molto.

T: immagino, da come ne parli sono cose che sembrano veramente molto importanti per te e sembra che da un punto di vista pratico tu abbia ben in mente cosa vorresti raggiungere e cosa ti manca. Quello che ci possiamo chiedere è se questi valori della tua vita sono così importanti per te, da tollerare il rischio di deludere l’altro.

Lo scopo della ricerca dei valori è quello di trovare una direzione per le proprie azioni impegnate. Nell’ACT le azioni impegnate sono comportamenti efficaci e guidati dai propri valori, nonostante la presenza di pensieri ed emozioni indesiderati. Nel caso clinico presentato, la deflessione del tono dell’umore (sintomo) e il vissuto dell’abbandono (tema di vita) portano Angela ad azioni come alti standard e controllo prestazionale (piano disadattivo) e di conseguenza a grandi costi valoriali. In terapia sarebbe quindi utile esplorare quali azioni concrete (impegnate) potrebbe mettere in atto nella direzione di ciò che che per lei risulta significativo (valori).

Questo lavoro è stato proposto dagli autori in un simposio all’ultimo congresso CBT Italia (Firenze, 2022) dal titolo “L’Acceptance and Commitment Therapy come tecnica dell’intervento LIBET: focus sui valori”.

Bias ed euristiche: due facce della stessa medaglia?

In che modo noi esseri umani prendiamo decisioni in condizioni di ambiguità, incertezza e scarsità di risorse a disposizione? Grazie alle scoperte di Kahneman & Tversky degli anni ‘70, ad oggi ci è possibile comprendere ciò che si trova alla base delle nostre decisioni: le euristiche e i bias.

 

Introduzione

 Come mai il nostro cervello, a volte, è così pigro? A questa domanda, esistono numerose risposte individuali, ma altrettante che ci accomunano grazie alla nostra biologia. Il nostro cervello, infatti, utilizza come fonte primaria di energia il glucosio: lo sforzo cognitivo ed emozionale del cervello si basa sullo zucchero a disposizione nel corpo, generando secondariamente la sensazione di stanchezza (Gailliot & Baumeister, 2007). Per sopravvivenza e adattamento, il cervello ha imparato, nel corso dei secoli, ad utilizzare scorciatoie mentali che gli consentissero di risparmiare energie. La pigrizia mentale, quindi, non è data solo da fattori individuali, ma anche dalla fisionomia del cervello stesso che, di fatto, è pigro. La pigrizia è quindi profondamente radicata nella natura umana. A sostegno di ciò esiste una legge, chiamata “legge del minimo sforzo”, che afferma che se vi sono vari modi di raggiungere lo stesso obiettivo, la gente tenderà ad adottare quello meno impegnativo (Kool et al., 2010). Allo stesso modo, il nostro cervello è meccanicamente portato al pensiero euristico per una sua fisionomia e per la sua pigrizia, grazie alla quale cerca di ottimizzare e ridurre il più possibile le energie da usare. Ma cos’è questo pensiero euristico?

Gli esperti hanno descritto due sistemi di decisione umana: uno veloce e intuitivo; l’altro lento e metodico. Le euristiche, o scorciatoie mentali, una caratteristica chiave del ragionamento intuitivo, sono spesso accurate, applicate istintivamente ed essenziali per un processo decisionale efficiente. Le euristiche però sono anche soggette a fallimenti, i cosiddetti bias cognitivi, che possono portare a errori. Ad oggi sono state proposte diverse strategie per mitigare i bias; tuttavia, la comprensione attuale di tali interventi per ottimizzare la sicurezza, per esempio diagnostica nel caso della medicina o della psicologia, è ancora incompleta (Mangus & Mahajan, 2022).

I bias e le euristiche

Ognuno di noi, quando deve prendere una decisione o mettere in atto un determinato comportamento o atteggiamento, fa riferimento ad un suo personale archivio di conoscenze e valori che influenza il risultato della scelta (Kahneman, 2013). A volte, però, il modo nel quale percepiamo la realtà può essere falsato da credenze personali o modi di pensare errati. In questo caso, possiamo parlare di distorsione cognitiva o di dissonanza cognitiva. Un esempio può essere l’eccessiva generalizzazione di un concetto o di una caratteristica. La dissonanza cognitiva è un normale processo psicologico che può verificarsi in tutte le persone in misura maggiore o minore (APA, 2014). Ecco che il bias può essere definito come una deviazione dalla norma in questi processi, e tanto più questa deviazione è frequente e sistematica, tanto più sarà possibile essere legittimati a parlare di bias (Caverni, Fabre, & Gonzalez, 1990). In alcuni processi è più facile individuare la presenza di bias se esiste un modello normativo che specifica quale tipo di comportamento dovrebbe essere tenuto canonicamente (Caverni et al., 1990). La componente importante di questo fenomeno è la sua sistematicità ed il fatto che non sia attribuibile a fattori casuali e sia quindi prevedibile (Blanco, 2017). Una visione più tradizionale dei processi cognitivi umani di qualche decade fa suggeriva come gli esseri umani siano in grado di prendere decisioni razionali, avendo la capacità di valutare costi e benefici potenziali delle loro azioni, scegliendo infine l’opzione più favorevole. Questo richiederebbe di essere in grado di prendere in considerazione tutte le informazioni rilevanti, e di scartare invece quelle irrilevanti, che potrebbero contaminare il processo decisionale (Stanovich, 1999). Studi più recenti, invece, evidenziano come le decisioni prese dagli individui siano spesso influenzate da fattori marginali apparentemente irrilevanti o come spesso gli individui evitino di prendere in considerazione elementi importanti (Palumbo-Liu, 2005). È stato anche dimostrato come il comportamento irrazionale delle persone agisca secondo schemi prevedibili (Ariely & Norton, 2008). Nei problemi più complessi quindi, la soluzione razionale e ottimale è impossibile da raggiungere, ed è necessario affidarsi ad un limitato ammontare di informazioni, in quella che Kahneman definisce come “razionalità vincolata” (Kahneman, 2003). Il bias, fra gli elementi che vincola questa razionalità, è sicuramente uno dei più sistematici (data la sua costanza e ripetizione, attraverso un’iterazione continua) e misurabili (Blanco, 2017).

 Detto ciò, nei processi di pensiero intuitivo e di rapide decisioni, le regole della razionalità non vengono seguite. Al contrario, come descritto in precedenza, l’esperienza e la percezione personale, che determinano i bias cognitivi, dominano la direzione del processo decisionale per creare scorciatoie note come euristiche (Whelehan et al., 2020), dal greco heurískein: trovare, scoprire. Le euristiche sono, dunque, escamotage mentali che portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo. Esse sono utilizzate in modo ottimale per compiti semplici, per ridurre il carico cognitivo dei processi di pensiero e per guidare le nostre decisioni in un modo che il cervello percepisce come più efficiente ed economico (Whelehan et al., 2020).

I processi di pensiero analitico devono essere applicati per le decisioni complesse e richiedono un ragionamento basato su prove. Sebbene in molti casi queste “regole rapide e frugali” possano condurre a scelte corrette, esse possono anche distorcere il nostro ragionamento, aumentando così il rischio di giudizi errati e di errori prevedibili (Whelehan et al., 2020).

Quale differenza quindi?

Sicuramente, le euristiche cognitive possono essere utili data la loro rapidità ed economicità. C’è però da tener conto anche l’altra faccia della medaglia: se applicate in un contesto non adeguato, infatti, possono farci commettere errori gravi e sistematici, i bias. I bias sono dunque euristiche inefficaci, assunte senza aver maturato prima la giusta esperienza che permette di poter saltare qualche passaggio logico. Si può dire che sono euristiche che non funzionano nella realtà, dove invece sarebbe stato necessario un giudizio critico e non intuitivo.

A questo punto risulta evidente come nei nostri processi decisionali il nostro cervello possa prendere due strade diverse: una rigorosa, logica, analitica e più razionale o un’altra in cui opera in modo meccanico, pigramente, con poco o senza sforzo e con nessun senso di controllo volontario. I bias cognitivi.

Le diverse tipologie di evitamento

In psicologia, il concetto di evitamento è definito come una strategia volta a sottrarsi a persone, situazioni, eventi, pensieri temuti.

 

 L’evitamento è considerato una strategia adattiva, ovvero utile a uno scopo in una determinata situazione, se messo in atto in situazioni di reale pericolo o minaccia.

Tuttavia, la messa in atto sistematica di questa strategia può diventare una vera e propria forma di difesa, che ha lo scopo di proteggere l’individuo da una situazione/persona che causa disagio considerato intollerabile.

Definizione del concetto di evitamento

In psicologia, il concetto di evitamento è definito come una strategia comportamentale, che implica la messa in atto di comportamenti atti a sottrarsi a persone, situazioni e/o eventi temuti. È importante sottolineare che l’evitamento può riguardare situazioni esterne, ma anche stati interni come pensieri, emozioni e sensazioni. Questi contesti sono generalmente evitati a causa delle emozioni negative che suscitano nella persona.

L’evitamento come strategia adattiva

L’evitamento è considerato una strategia adattiva, ovvero utile a uno scopo in una determinata situazione, se messo in atto in situazioni di reale pericolo o minaccia (Sassaroli et al., 2006). Per esempio, evitare di camminare di notte su strade prive di illuminazione è un comportamento protettivo adeguato alla situazione, e dunque adattivo poichè volto a garantire la sopravvivenza. Infatti, l’evitamento è una strategia comune, usata in maniera molto diffusa proprio per la sua funzionalità.

L’evitamento come strategia disfunzionale

Tuttavia, la messa in atto sistematica di questa strategia può diventare una vera e propria forma di difesa, che ha lo scopo di proteggere l’individuo da una situazione/persona che causa disagio considerato intollerabile. Infatti, l’evitamento diventa una strategia disfunzionale quando viene applicato in maniera rigida e generalizzata a molti contesti di vita, impedendo all’individuo di esplorare adeguatamente l’ambiente (Sassaroli et al., 2006). In molti casi, si innesca un circolo vizioso: più si teme una situazione, più la si evita, più si perde fiducia nelle proprie capacità, più viene rinforzata l’idea di non essere in grado di svolgere un compito o affrontare una situazione.

I tipi di evitamento

Sono stati teorizzati vari tipi di evitamento, riferiti a diversi contesti.

  • Evitamento cognitivo: messa in atto di strategie cognitive che hanno lo scopo di evitare, procrastinare o nascondere pensieri temuti (Dickson et al., 2012).
  • Evitamento situazionale: evitamento attivo di contesti o, appunto, situazioni che richiamano o riguardano situazioni temute (Davis & Conlon, 2017). Per esempio: un bambino che subisce bullismo a scuola tenderà a temere il contesto scolastico proprio perché considerato pericoloso. A livello psicopatologico, le fobie sono l’emblema dell’evitamento situazionale, proprio perché implicano l’evitamento di situazioni, persone, animali o oggetti che causano eccessiva ansia, paura o disagio.
  • Evitamento comportamentale: non voler ingaggiarsi in un determinata azione (Uzun et al., 2020). Per esempio: la procrastinazione è l’atto di rimandare un’attività il più a lungo possibile, non adempiendo ai propri obblighi per ansia e paura.
  • Evitamento aggressivo: proiettare le proprie emozioni spiacevoli su altre persone, al posto di affrontare i problemi alla base delle proprie paure (Lyons-Ruth, 1996). Per esempio: usare un linguaggio aggressivo con una persona a cui si è legati nel momento in cui si sperimentano difficoltà o situazioni stressanti in un altro ambito di vita.
  • Evitamento emotivo: messa in atto di comportamenti compulsivi o dannosi per evitare il disagio emotivo (Kahn & Garrison, 2009). Per esempio: le dipendenze (internet, sostanze) o i disturbi alimentari sono comportamenti di evitamento emotivo messi in atto per non rimanere nel disagio provato a causa di una situazione stressante.

Come si affronta l’evitamento in psicoterapia

 In psicoterapia, una tecnica molto diffusa ed efficace per trattare l’evitamento è l’esposizione: questa strategia prevede che l’individuo affronti le situazioni, eventi o persone che teme, con l’aiuto del terapeuta, così da disincentivare la messa in atto di comportamenti protettivi e la progressiva desensibilizzazione a stimoli temuti.

Sul piano pratico, vengono fissati con il paziente step graduali per fronteggiare l’evento o la situazione temuti, andando progressivamente da quello meno ansiogeno al più spaventoso, in modo da affrontare le paure temute in diversi contesti.

Questa tecnica è riconducibile alla terapia cognitivo-comportamentale, ma viene comunemente utilizzata in svariate forme di psicoterapia, nel trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dei disturbi dell’alimentazione e del disturbo da stress post traumatico.

Gravidanza e maternità in presenza di un disturbo alimentare

La nascita di un figlio è un evento delicato nel ciclo di vita di una donna; infatti, durante la gravidanza e nel post-partum le donne vanno incontro a profondi cambiamenti dal punto di vista fisico, psicologico e relazionale. Tuttavia, non per tutte è una “dolce attesa”: quando è presente un disturbo alimentare, l’aumento del pancione può essere accompagnato da sentimenti negativi e conflittuali e le consuete preoccupazioni riguardo al parto e all’arrivo del piccolo possono assumere delle sfumature affettive differenti.

I cambiamenti corporei in gravidanza

 La nascita di un figlio è un evento delicato nel ciclo di vita della donna, che comporta importanti trasformazioni sul piano somatico, psicologico e relazionale. Durante la gravidanza e il post-partum fisiologicamente il corpo si adatta ai cambiamenti, e i vissuti correlati sono per lo più di segno positivo. La condizione di “dolce attesa” fa riferimento a un momento della vita in cui le donne si legittimano a essere meno vincolate agli standard socioculturali: il sovrappeso durante la gestazione è percepito come connesso alla salute propria e del bambino e oscura le preoccupazioni per l’immagine corporea (Pauleta, Pereira & Gracia, 2010; Grussu & Bramante, 2016).

Numerosi studi sostengono che non è semplice modificare le abitudini alimentari e al contempo mantenere una alimentazione equilibrata e controllata, e che vi è una correlazione tra uno stile alimentare disregolato e l’emergere di un disturbo alimentare in epoca perinatale (Dörsam, Preissl, Micali, Lörcher, Zipfel & Giel, 2019).

Quando la donna soffre o ha sofferto di un disturbo alimentare possono insorgere emozioni negative e conflittuali: nonostante la gestazione venga spesso vissuta come un momento di tregua rispetto ai modelli condivisi di bellezza femminile (Grussu & Bramante, 2016; Bergmeier, Hill, Haycraft, Blewitt, Lim, Meyer & Skouteris, 2020) e si rilevi una minore insoddisfazione corporea, l’aumento del peso allontana dagli standard sociali di magrezza e di bellezza. Risulta disturbante soprattutto l’aumento di peso in parti del corpo non direttamente connesse alla gravidanza, come gambe, viso e braccia, mentre le trasformazioni che avvicinano agli standard sociali, come l’aumento del seno, sono più tollerate (Merkitch, 2020).

I disturbi alimentari in gravidanza

Le trasformazioni corporee possono comportare vissuti complessi soprattutto se la gravidanza è inaspettata (Easter, Treasure & Micali, 2011). Nelle donne con anoressia nervosa (AN) la gravidanza talvolta nasce in seguito all’alterazione del ciclo mestruale: l’amenorrea può essere interpretata come un segno di “non fertilità” e nessun metodo contraccettivo viene attuato (Claydon, Davodov, Zullig, Lilly, Contrell & Zerwas, 2018).

I disturbi alimentari in epoca perinatale possono avere diverse ripercussioni sulla madre, sulla gravidanza e sul feto, ed essere associati a esiti avversi in gravidanza e nel post-partum, fra cui la nascita pretermine e le restrizioni nella crescita fetale e infantile (Micali, Stermann Larsen, Strandberg Larsen & Nybo Andersen, 2016).

Nelle donne con bulimia nervosa (BN) si rileva un aumentato rischio di diabete gestazionale (Astrachan-Fletcher, Veldhuis, Lively, Fowler, & Marcks, 2008) e, a causa dei comportamenti compensatori disfunzionali, un’oscillazione tra un consumo impulsivo di cibo e la consapevolezza di nuocere a sé e alla gravidanza, con forti sensi di colpa nei confronti del bambino, sentimenti che possono portare a loro volta a un uso inappropriato del cibo.

Anche nel Binge Eating Disorder (BED), o disturbo da alimentazione incontrollata, possono insorgere preoccupazioni legate al fatto che il peso gestazionale danneggi il bambino, aspetto che aumenta i sensi di colpa nella donna (Arnold et al., 2019).

In presenza di anoressia i livelli di mortalità perinatale sono sei volte più alti rispetto alla norma (Astrachan-Fletcher et al., 2008), aumenta il rischio di complicazioni ostetriche ed è presente la preoccupazione per l’aumento del peso; diventare madre simbolicamente richiama un sacrificio personale e una minaccia all’identità anoressica (Easter, Treasure & Micali, 2011).

I disturbi alimentari nel post-partum

Se da una parte la gravidanza può avere ricadute positive sul decorso di un disturbo alimentare preesistente, e quindi essere protettiva rispetto alla salute della donna e del feto, parimenti non accade per il post-partum, dove il rischio di ricaduta nel disturbo alimentare aumenta dell’80% (Astrachan-Fletcher et al., 2008).

 Alcune donne riferiscono che nel post-partum è come se non fosse più concesso loro di avere dei chili in più; altre si sentono fortemente in difficoltà per il fatto di non riuscire più a tornare al peso di prima, o si scontrano con le aspettative irrealistiche del poter ritornare alla forma fisica oppure al peso corporeo che avevano di prima del concepimento (Clark, Skouteris, Wertheim, Paxton, & Milgrom, 2009).

L’incidenza dei disturbi alimentari aumenta dopo il parto anche perché le abitudini alimentari cambiano sostanzialmente, talvolta in maniera disordinata e caotica (Lai, Tang & Tse, 2006).

Alcune donne con un disturbo alimentare sperimentano apprensione anziché il piacere della condivisione durante l’allattamento, che può essere vissuto in maniera duplice: può placare i sensi di colpa sviluppati in gravidanza e agire da potente rinforzo della competenza materna, e contemporaneamente può diventare un incentivo per perdere peso velocemente oppure un giustificativo per consumare cibi più calorici come cioccolato e gelato (Stapleton Fielder & Kirkham, 2008).

Quando al momento del post-partum è presente un disturbo alimentare sul versante anoressico, le donne possono mostrare consistenti paure per il fatto che il neonato possa ingrassare. Alcune donne bulimiche, invece, possono sentirsi intrappolate nel circuito dieta-abbuffate-vomito e, quindi, oscillare tra la mancanza di un senso materno di protezione, quando vengono mantenute le condotte di compensazione, e forti senti di colpa nei confronti del proprio bambino (Manzato, Zanetti & Gualandi, 2010).

Il trattamento

Per quanto concerne il trattamento, è importante che avvenga una precoce presa in carico del disturbo alimentare e che venga proposta un’adeguata assistenza prenatale e post-natale: la gravidanza può essere un momento propizio per un adeguato supporto psicologico, dal momento che la madre è maggiormente disposta a prendersi cura di sé e del proprio bambino (Zappa, 2019). È auspicabile un intervento di tipo multidisciplinare che tenga conto della salute psicofisica della donna e del nascituro e del loro benessere relazionale; in questo senso, è possibile intervenire aumentando la consapevolezza dei rischi che il disturbo alimentare ha in gravidanza e nel post-partum e riducendo lo stigma di queste donne nel condividere le proprie sofferenze (Bye, Shawe, Bick, Easter, Kash-Mcdonald & Micali, 2018).

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