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Chi è la crocerossina: la sindrome di Wendy

Nella sindrome di Wendy, anche nota come Sindrome della crocerossina, la persona impronta la sua esistenza sulla cura dell’altro bisognoso. Alla base c’è la credenza di doversi meritare l’amore attraverso il sacrificio, pena l’abbandono e il rifiuto. Spesso, questa sindrome cela una personalità dipendente che dovrebbe essere aiutata ad affrontare la separazione e ad auto-affermarsi.

Perché si chiama Sindrome di Wendy?

 Per conoscere la Sindrome di Wendy può essere utile ripercorrere le origini del nome, quando il termine fu coniato ispirandosi alla favola di J.M. Barrie “Peter Pan”. Nel racconto, Wendy è una bambina di 10 anni che, a causa delle complicate condizioni di vita, è obbligata a diventare adulta prima del previsto, occupandosi dei suoi fratelli e dell’amico d’avventure Peter Pan. Wendy si offre volontariamente e con piacere di conservare l’ombra dell’amico affinché non si sgualcisca, accettando di accompagnarlo nelle peripezie dell’Isola che non c’è e, qui, di diventare la mamma accudente di tutti i bambini sperduti.

Wendy non si lamenta del ruolo da adulta che ha dovuto precocemente assumere e, anzi, è felice di offrire aiuto e di essere riconosciuta dall’altro come una figura di supporto.

Wendy è tutte quelle donne e tutti quegli uomini che, nel proteggere e gratificare l’altro a discapito dei propri bisogni, si riconoscono nella sindrome della crocerossina.

Quali sono le caratteristiche della crocerossina

Anche se le donne tendono ad essere più colpite, gli uomini non ne sono immuni: in ogni caso, si tratta di persone che si mostrano particolarmente accudenti, protettive, premurose e orientate alla soddisfazione dell’altro, senza sentire di pagare il costo di mettere in secondo piano le proprie opinioni ed esigenze.

Che sia nei confronti di genitori, figli, fratelli, amici o partner, tali comportamenti sono intrapresi con assoluta consapevolezza e intenzionalità: la credenza alla base di queste persone è “Esisto fino a che c’è qualcuno da curare”, perché solo attraverso il sacrificio si sentono vive e di valore.

I comportamenti risanatori nei confronti dell’altro appagano la persona con la sindrome della crocerossina che, nel rendersi indispensabile per l’altro, lo tiene a sé escludendo l’eventualità di abbandono o rifiuto. Il circolo vizioso, dunque, vuole che queste condotte assistenziali siano percepite come necessarie affinché la relazione possa andare avanti, pena il venir meno del motivo per cui l’altro può rimanere legato a sé.

Visto che la persona con la sindrome della crocerossina può esistere solo se c’è qualcuno da accudire, non è un caso che queste persone scelgano di costruire delle relazioni affettive con partner bisognosi. Solitamente, i partner soccorsi sono individui un po’ complicati, inafferrabili o problematici che, fin dall’inizio, trasmettono la sensazione che potrà essere difficile stare vicino a loro. Questo tema non fa altro che attivare lo schema protettivo di chi ricopre i panni della crocerossina, che così si sente ingaggiato/a nella sua missione di vita: “Io ti aiuterò e tu starai meglio, così mi sarai riconoscente e mi amerai”.

La psicoterapia per la personalità dipendente

Se dovessimo esplorare le credenze di chi presenta la sindrome della crocerossina, probabilmente queste sarebbero simili alle seguenti (Quadrio, 1982):

“Io sono indispensabile”

“L’amore richiede un certo sacrificio”

“Gli altri intorno a me non devono arrabbiarsi”

“Gli altri vanno protetti”

 Come possibile evincere da queste convinzioni profonde, spesso dietro il ruolo di crocerossina si cela una personalità di tipo dipendente, caratterizzata da un pervasivo ed eccessivo bisogno di essere vicino all’altro, anche a costo di sottomissione. La paura centrale è quella di ritrovarsi soli, senza nessuno a cui badare e, dunque, da cui essere protetto: l’idea che non ci sia nessuno da aiutare spaventa la persona che fa da crocerossina, che impernia l’idea di sé sull’essere utile e indispensabile per qualcuno. L’amore, infatti, non viene vissuto come qualcosa di gratuito e incondizionato, bensì come qualcosa da doversi meritare con azioni di cura.

Le radici di questo funzionamento sono frutto dell’interazione fra molteplici variabili sperimentate dall’infanzia all’oggi di queste persone: il temperamento, i tratti di personalità, l’educazione genitoriale, le esperienze traumatiche, lo stile di vita, i bisogni e le circostanze attuali.

Per poter venire fuori dalla sindrome di Wendy, iniziare un percorso di psicoterapia potrebbe essere una buona soluzione. Per poter essere veramente efficace, però, questo dovrebbe avere specifici obiettivi:

  • Esplorare innanzitutto la storia di vita della persona, cercando di capire quale clima familiare ha respirato e da quali dinamiche relazionali ha imparato che l’amore ha un prezzo che deve essere guadagnato;
  • Comprese le radici della personalità dipendente, il terapeuta potrebbe spingere la persona a guardare più da vicino i propri timori abbandonici e di rifiuto, tentando di ristrutturare la disfunzionalità delle credenze di sé che li sostengono;
  • Aiutare il paziente ad accettare la consapevolezza che gli eventi di separazione sono possibili e tollerabili e, in parallelo, sostenerlo/a nella sua individuazione, incentivando opportunità di auto-affermazione finora inesplorate;
  • Svolgere un cospicuo lavoro sulla bassa autostima del paziente, che dovrebbe essere guidato/a a costruire un’idea di sé di valore centrata sui propri bisogni e non più condizionata dal soddisfacimento di quelli degli altri.

Due componenti dell’empatia: empatia cognitiva ed affettiva

L’empatia è la capacità di capire e condividere il vissuto emotivo dell’altro. Si tratta di un costrutto multidimensionale che include diverse componenti, tra cui quelle affettiva e cognitiva (Bray et al. 2021).

Che cosa si intende per empatia?

 Il comportamento umano si basa sull’interpretazione delle azioni dell’altro, che riflette la nostra flessibilità nel mondo sociale; per poterci adattare e per sopravvivere, la cognizione sociale utilizza diversi meccanismi, tra i quali l’empatia (Reniers, 2011).

L’empatia varia negli individui ed è considerata generalmente stabile nel tempo. Nella sua forma più matura, si caratterizza come una risposta a un insieme di stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale, che trova, in buona parte delle persone, compimento intorno ai 13 anni (Schmidt, 2015).

Da un punto di vista cognitivo l’empatia si basa sulla possibilità di comprendere il punto di vista dell’altro e spiegarsi razionalmente la sua esperienza emotiva; da un punto di vista affettivo, l’empatia permette di sperimentare in prima persona il vissuto emotivo dell’altro. Il coinvolgimento di entrambi i sistemi (cognitivo ed affettivo) permette di condividere l’esperienza interiore dell’altro, pur rimanendo consapevoli della distinzione tra le esperienze proprie e quelle degli altri (Monti, 2015).

Le componenti dell’empatia

I modelli teorici sull’empatia prevedono che essa sia formata da diverse componenti. Vediamone alcuni esempi.

Il modello di Hoffman

Il modello elaborato da Hoffman nel 2008 fornisce una descrizione dello sviluppo dell’empatia articolato e complesso. Hoffmann non la considera come qualcosa di unitario, ma propone un modello a tre componenti: affettiva, cognitiva e motivazionale.

Secondo Hoffman l’empatia si manifesta fin dai primi giorni di vita e, nelle primissime manifestazioni empatiche, il ruolo di maggior rilevanza è rivestito dalla dimensione affettiva, mentre la dimensione cognitiva è pressoché assente.

Procedendo nello sviluppo, la componente cognitiva acquisisce un’importanza crescente e si fonde sempre di più con quella affettiva, permettendo lo sviluppo di forme più evolute di empatia.

Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman è presente nell’esperienza empatica un terzo fattore: la componente motivazionale. L’esperienza di empatizzare con una persona che sta soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto comportamenti di aiuto: condividendo l’emozione dell’altro, soccorrerlo fa provare a chi aiuta uno stato di benessere, mentre la scelta opposta potrebbe portare con sé un senso di colpa.

Il modello di Blair

Il modello di Blair (2005) distingue tra tre componenti dell’empatia: cognitiva, affettiva e motoria.

  • Componente cognitiva: l’individuo si rappresenta lo stato mentale di un altro e i suoi processi mentali.
  • Componente emotiva: la risposta all’espressione emotiva dell’altro (es. il pianto) e la risposta ad altri stimoli emotivi (es. venire a sapere del lutto subito da un amico). Include una risposta emotiva.
  • Componente motoria: l’azione che riflette le risposte emotive della persona osservata.

Componente cognitiva e componente affettiva

Aspetto condiviso dai diversi autori è che l’empatia è formata da una componente cognitiva e da una affettiva.

 La componente cognitiva corrisponde alla comprensione dell’esperienza dell’altro e richiede che l’informazione sia mantenuta nella mente e manipolata per giungere ad una comprensione delle informazioni in entrata.

La componente emotiva invece, richiede il riconoscimento dell’emozione altrui sulla base dell’espressione facciale, del linguaggio del corpo e della voce. Questo suscita una risposta emotiva alla situazione che l’altro sta vivendo e l’identificazione dello stato emotivo altrui.

Entrambe le componenti sono processi necessari ma distinti per rendere possibile la risposta empatica (Reniers, 2011).

Le basi neurali dell’empatia

Quando consideriamo la componente affettiva dell’empatia, l’enfasi è tipicamente posta sul vivere gli stati emotivi degli altri consapevolmente, il che implica una distinzione sé-altro, nonché una comprensione della provenienza dell’esperienza emotiva. Menon e Uddin (2010) suggeriscono che la consapevolezza emotiva si verifichi perché l’insula crea una rappresentazione delle emozioni positive e negative integrando le stimolazioni ambientali con sensazioni corporee.

La componente cognitiva dell’empatia si basa invece sull’attribuire stati emotivi agli altri e identificarsi con uno stato mentale altrui. Richiama parzialmente i meccanismi di fondo della teoria della mente. Le regioni cerebrali più comunemente associate con la teoria della mente sono la corteccia prefrontale dorso mediale (dmPFC) e la giunzione temporoparietale (TPJ) (Schmiedt, 2015).

 

Dalla felicità alla realizzazione: il segreto di una vita appagante

La felicità è un’emozione passeggera non destinata a durare a lungo. Di conseguenza, inseguirla costantemente come unico obiettivo desiderabile può portare a delusioni. La realizzazione, invece, è uno stato dell’essere, ma soprattutto un obiettivo di crescita sia personale che professionale. Accettare sé stessi, sfruttare al massimo le proprie risorse, sviluppare relazioni significative e avere una visione ottimistica del futuro sono fondamentali per raggiungerla.

Sfida la fugacità della felicità: abbraccia la strada verso la realizzazione

 La felicità spesso si delinea come l’unico obiettivo desiderabile, ma è un’emozione effimera e passeggera. La chiave per vivere una vita appagante risiede nella ricerca della realizzazione. Ciò significa accettare se stessi e sfruttare appieno le proprie risorse, mantenendo una visione ottimistica del futuro. Il dottor Gregory Scott Brown, uno psichiatra americano, ha recentemente incontrato un paziente che gli ha rivelato che la sua più grande paura era guardarsi indietro e rendersi conto di aver trascorso l’intera esistenza “immerso nella tristezza”. Alla domanda dello psichiatra su quali fossero le sue aspettative riguardo al percorso insieme, il paziente ha risposto che desiderava trovare la felicità. Anche il dottor Brown si è trovato spesso a riflettere sulla natura della felicità e sui modi per raggiungerla. Le numerose conversazioni con pazienti alla costante ricerca della felicità gli hanno insegnato che ciò che veramente conta per una vita migliore è sentirsi realizzati.

La felicità è un’emozione effimera

Come riportato nell’articolo, molti pazienti del dottor Brown spesso attribuiscono la loro felicità a un momento specifico della vita, come il giorno del matrimonio o quello della laurea, e riportano il desiderio di volersi risentire esattamente nello stesso modo. Tuttavia, la felicità, così come la tristezza, sono emozioni e in quanto tali non sono destinate a durare a lungo. Desiderare continuamente uno stato di felicità può portare ad aspettative irrealistiche e a sentirsi delusi.

La realizzazione è uno stato dell’essere

La realizzazione è diversa dalla felicità: si raggiunge accettando se stessi, apprezzando ciò che si ha e guardando positivamente al futuro. I pazienti che si sentivano realizzati potevano guardare con gioia alla propria vita e alle loro relazioni, mostrare gratitudine e rimanere ottimisti. A tal proposito, il dottor Brown chiede spesso ai suoi pazienti di immaginare una vita migliore basata sulla realizzazione e a fare cambiamenti concreti per avvicinarsi ad essa.

Come reagire alle fluttuazioni emotive

Quando le persone si sentono realizzate hanno la tendenza a non reagire eccessivamente alle fluttuazioni emotive, considerandole come un’“onda” che si alza e poi si abbassa. Il dottor Brown insegna ai suoi pazienti ad utilizzare il modello HALT (Hunger, Anger, Lonely, Tired) per evitare che le emozioni preponderanti prendano il controllo. Raccomanda di chiedersi se ci si senta affamati, arrabbiati, soli o stanchi. In caso di risposta affermativa può essere utile seguire questi step: mangiare un pasto nutriente, allontanarsi dalla fonte di stress, provare la tecnica di respirazione 4-7-8, fare una breve passeggiata, scrivere 3 cose per cui si è grati, parlare con un amico e svolgere delle attività rilassanti.

Imparare adattarsi

 Imparare ad adattarsi alle diverse situazioni delle vita è un’abilità per preservare una buona salute mentale. Ciò non significa rinunciare ai propri sogni, ma sfruttare al massimo ciò che si ha e cercare di creare la vita che si desidera. Alcuni ricercatori hanno sviluppato un test chiamato Adaptability Quotient (AQ) per valutare il livello di adattabilità delle persone.

Se non ci si sente abbastanza in grado di adattarsi, può essere utile chiedersi quanto si sia disposti a cambiare e ad imparare, anche commettendo degli errori. Cambiare può significare sostituire vecchie abitudini con nuove abitudini più utili. Con la curiosità e l’apertura alla vita si potranno imparare molte cose sia su se stessi che sulle persone che ci circondano.

Sviluppare relazioni significative

Anche avere delle relazioni significative è essenziale per il benessere psicofisico, come dimostra lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto. Gli amici, ad esempio, sono essenziali per una vita sana, ma creare e mantenere amicizie richiede impegno. Partecipare a incontri di interesse comune, terapie di gruppo o attività religiose può aiutare a creare connessioni significative. Quest’ultime rappresentano un’opportunità per avere una buona salute mentale e avvicinarsi alla realizzazione personale.

Non avere rimpianti

Può capitare di pensare al passato e voler cambiare qualcosa di esso, talvolta avendo rimpianti su ciò che è stato. Tuttavia, non è possibile cambiare il passato, ma può cambiare il modo in cui si pensa ad esso, cercando ad esempio di imparare dalle esperienze ed evitare di ripetere gli stessi errori. Vivere senza rimpianti aiuta a provare gratitudine per aver appreso da diverse circostanze passate. Concentrarsi su questo aspetto e sulla realizzazione personale, permetterà di avvicinarsi ad una vita migliore e di essere felici lungo il percorso.

 

Coping e strategie di coping

Nel corso degli anni diverse distinzioni si sono susseguite ma le strategie di coping che gli individui possono mettere in atto sono così numerose che non è stata ancora concordata una classificazione definitiva. Vediamone alcune.

 

 “It happens?” “What? Sh*t!” chi, come me, ha visto e rivisto Forrest Gump, avrà fatto di questo botta e risposta uno stile di vita, c’è chi invece ne conoscerà la versione originale, “Sh*t happens”, chi avrà sentito il più edulcorato “C’est la vie” o un più genuino “È la vita”. Insomma che si preferisca la versione più patriottica, quella più elegante, quella più rude o quella cinematografica, la verità è una sola: i momenti difficili accadono, fanno parte della vita.

Se problemi e difficoltà possono colpire indistintamente ognuno di noi, ciò che cambia è il modo in cui ognuno di noi reagisce a problemi e difficoltà. Parliamo dunque di coping.

Cosa si intende per coping?

I primi studiosi a occuparsi di coping sono Folkman & Lazarus (1984), secondo i quali il termine coping (dall’inglese to cope, ovvero fronteggiare) indica gli sforzi cognitivi e comportamentali compiuti per padroneggiare, tollerare o ridurre le richieste e i conflitti interni ed esterni che sono valutati come gravosi o eccessivi per le risorse della persona.

Cosa significa questo? Che dinanzi a un particolare evento, questo diventa stressante quando la persona lo percepisce come tale: se un individuo crede che le sue risorse siano adeguate per far fronte alle richieste dell’evento, egli lo affronterà con successo anche se tali richieste sono considerevoli. Questo è il coping: tutte le strategie che l’individuo è in grado di mettere in atto per risolvere le difficoltà che incontra.

Categorie di coping

Folkman e Lazarus concettualizzano due grandi categorie di coping:

  • il coping centrato sul problema: l’individuo analizza il problema per capirlo meglio, ad es. chiede informazioni e supporto ad altri o segue un piano di azione;
  • il coping centrato sull’emozione: il soggetto tenta di attenuare il disagio (es. evitando il problema) o di osservarne soltanto il lato positivo.

Nel corso degli anni diverse distinzioni si sono susseguite ma le strategie di coping che gli individui possono mettere in atto sono così numerose che non è stata ancora concordata una classificazione definitiva.

Ad oggi comunque risultano tre i tipi di coping maggiormente studiati:

  • coping orientato al problema;
  • coping orientato alle emozioni: in cui l’individuo tenta di regolare l’emotività negativa attraverso attività coscienti come la ricerca di supporto socio-emotivo;
  • coping orientato all’evitamento: la persona ricorre ad attività e/o strategie cognitive in un tentativo deliberato di svincolarsi dalle situazioni stressanti, cercando ad esempio delle distrazioni.

Strategie di coping più utilizzate

In concreto, quali sono le strategie di coping più comuni? Vediamone alcune:

  • Ricerca di supporto sociale: cercare un supporto emotivo, informativo e/o un aiuto più concreto al problema (es. “Chiedo ai miei amici cosa avrebbero fatto al mio posto”)
  • Distanziamento: distaccarsi da sé e minimizzare l’impatto della situazione (es.: “Farò finta che non sia successo niente”).
  • Autocontrollo: controllare le proprie sensazioni ed azioni (es. Sforzarsi di non esprimere ciò che si prova).
  • Accettazione delle proprie responsabilità: riconoscere il proprio ruolo nel problema e cercare di aggiustare le cose (es.: “So che in parte è stata colpa mia, chiederò scusa”).
  • Fuga ed evitamento: fuggire dalla situazione problematica ed evitare lo stress (es. “Non vado a scuola così evito l’interrogazione”).
  • Problem solving programmato: concentrarsi sul problema per modificare la situazione attraverso un approccio analitico ad esso (es.: “Faccio una lista dei pro e dei contro”).
  • Rivalutazione positiva: donare un senso positivo a quanto accaduto per crescere personalmente (es.: “Questa situazione mi ha insegnato come nella vita non è sempre importante arrivare primi”).
  • Umorismo: trovare aspetti divertenti per minimizzare la situazione.
  • Soppressione delle attività concorrenti: limitare tutte le attività che non riguardano il problema, per concentrarsi esclusivamente su di esso e sulla sua soluzione.
  • Concentrarsi sulle emozioni e cercare un modo per gestirle.
  • Negazione: negare o agire come se l’evento non fosse reale.
  • Coping religioso: rivolgersi alla religione per cercare supporto in periodi di stress.

Coping e salute mentale: esistono strategie di coping più efficaci di altre?

Secondo alcune ricerche sull’efficacia delle strategie di coping, il coping centrato sul problema sembra essere associato al benessere psicologico, esso ha una relazione positiva con autostima e senso di autoefficacia e delle relazioni negative con solitudine, ansia e depressione.

 Sono sempre più riconosciuti anche i benefici terapeutici del coping orientato alle emozioni, ovvero quel tipo di coping che permette di entrare in contatto con ciò che si prova e cercare un modo funzionale per gestirlo. Al contrario, preoccuparsi per le emozioni “negative” senza fare qualcosa di costruttivo per regolarle (in psicologia si usa “regolare le emozioni” per intendere il gestirle), tende ad amplificare il disagio e porta a conseguenze psicologiche negative, come depressione, ansia e stress.

Per quanto riguarda il coping orientato all’evitamento, queste strategie tendono a ridurre il disagio e l’ansia nel breve periodo, subito dopo che si verifica lo stress (entro una settimana), ma sono meno utili per il raggiungimento del benessere psicologico a lungo termine.

Quando le strategie di coping non sono efficaci

Il ricorso a determinate strategie di coping può dipendere sia dalle caratteristiche individuali che dagli aspetti situazionali. Ci sono infatti strategie che possono risultare efficaci in alcune situazioni ma non in altre (è diverso affrontare un lutto o il fatto di essere bloccati per strada con l’auto in panne) o ci sono strategie più efficaci in alcuni periodi di vita (pensiamo a quelle usate da un bambino e a quelle usate da un adulto), piuttosto che in altri.

Bisogna inoltre ricordare che spesso un singolo problema può richiedere l’impiego di diverse strategie di coping, gli stessi Folkman & Lazarus (1985) hanno visto come gli individui tendano a utilizzare strategie di coping che interagiscono l’una con l’altra in risposta a una situazione stressante.

Come spesso accade, ciò che rende “problematico” un fenomeno psicologico è la rigidità e la pervasività con cui questo si manifesta.

Facciamo un esempio: per non affrontare lo stress dell’interrogazione, decido di non andare a scuola e resto a casa. Non possiamo dire tout court che questa strategia sia inefficace: se so di aver studiato poco e se, restando a casa, ho modo di studiare meglio e andare più preparato il giorno successivo, la strategia di coping utilizzata si è rivelata utile. Se però, ogni giorno in cui è prevista un’interrogazione io mi assento, è evidente che la strategia di evitare si sta rivelando disfunzionale e che forse ho bisogno di affrontare lo stress da interrogazione in un altro modo se voglio superare l’anno scolastico.

Affinché le nostre strategie di coping possano dirsi efficaci, è importante ricorrere ad esse in modo flessibile, integrando diverse strategie per affrontare i problemi, e capire che non è sempre possibile evitare le situazioni difficili, né ridere di ogni evento stressante, né ancora cercare ogni volta le proprie colpe per ciò che succede o avere costantemente tutto sotto controllo.

Alcuni consigli

Molto più semplice a dirsi che a farsi, come agire quindi quando ci troviamo ad affrontare un momento difficile e non ci sentiamo pienamente in grado di gestirlo? Ecco alcuni consigli:

  • Rifletti su ciò che stai facendo: fermati un attimo e cerca di capire cosa stai facendo per risolvere il problema. Chiediti se la strategia di coping che stai utilizzando ti sta aiutando davvero nell’immediato e se può davvero aiutarti nel lungo termine.
  • L’esperienza insegna: pensa a quando hai affrontato una situazione difficile in passato, chiediti che cosa hai fatto che ti è stato d’aiuto e cosa, al contrario, ti ha ostacolato.
  • Una prospettiva diversa: quando si affronta una situazione stressante è spesso difficile capire se ciò che stiamo facendo ci sia d’aiuto oppure no. In questo caso può essere utile immaginare un tuo amico alle prese con la stessa situazione stressante: cosa gli consiglieresti di fare? Ti sorprenderà vedere come ciò che consiglieresti spesso non coincide con ciò che stai facendo.
  • L’aiuto di un terapeuta: qualora invece ti rendessi conto che le tue risorse non sono adeguate per far fronte agli eventi difficili, la psicoterapia si rivela un aiuto indispensabile per capire le radici della tua sofferenza, flessibilizzare le tue strategie di coping al momento inefficaci e per trovarne di nuove.

Come più volte ripetuto, bisogna accettare il fatto che i momenti difficili fanno parte del cammino della vita, meglio dunque avere a disposizione più paia di scarpe per affrontarlo: perché se è vero che “sh*t happens” è pur vero che in quel momento sarebbe meglio non indossare le stesse vecchie scarpe che indossiamo da anni e con le suole ormai consumate!

Sostenere chi sostiene (2022) di Erika Borella e Silvia Faggian – Recensione

Il libro “Sostenere chi sostiene. Strumenti e indicazioni per supportare chi si occupa di persone con demenza” è dedicato a come aiutare i caregiver di persone con disturbi neurocognitivi maggiori.

 

 In Psicologia spesso diciamo che ogni malattia importante è “familiare”, nel senso che la ricaduta emotiva, l’angoscia, lo stress non investono solo il paziente ma anche i suoi familiari. Inoltre, c’è un secondo aspetto, meno considerato. Da diverse ricerche svolte dal mio gruppo di lavoro (l’U.O.S.D. di Psicologia Clinica degli Ospedali dei Colli di Napoli) e da associazioni di volontariato, alla domanda rivolta ai ricoverati su quale sia stato il fattore più importante nel sostenere il percorso di cura, la risposta è sempre uguale: non i medici, non gli infermieri (categorie entrambe apprezzate, sia pure in un questionario proposto da operatori sanitari), ma l’elemento decisivo è considerato il sostegno dei familiari. Ecco, dunque, che prendersi cura di chi cura è importantissimo per un duplice aspetto. Da un lato anche i familiari vivono un disagio che non può essere ignorato, dall’altro si tratta di sostenere la risorsa più importante per i pazienti.

Questo libro si occupa dei caregiver dei pazienti affetti da disturbi neurocognitivi maggiori. È indubbio che le demenze, come la malattia di Alzheimer, siano tra le patologie che richiedono un impegno maggiore a chi assiste alla progressiva riduzione di autonomia di un congiunto. I motivi sono ben descritti nel volume. L’esperienza di non essere riconosciuto dal proprio genitore o di essere considerato un estraneo è una delle più stranianti che possa capitare ad essere umano; senza tralasciare l’impegno di un’assistenza che può durare molti anni.

Il libro “Sostenere chi sostiene”, la cui lettura è agevole e non particolarmente impegnativa, anche per i non professionisti essendo scritto con uno stile molto chiaro, consta di tre capitoli per poco più di cento pagine, escludendo quelle dedicate alle bibliografie. Il primo, dopo aver passato in rassegna quali siano i disturbi neuro-cognitivi più importanti, è dedicato a presentare il profilo del caregiver di una persona con demenza e le conseguenze sul piano pratico e psicologico di tale impegno; il secondo capitolo è dedicato all’esposizione dei principali interventi possibili per sostenere i caregiver, mentre nel terzo viene fornita una panoramica della rete dei servizi presenti sul territorio, a partire dalla realtà avanzata della Regione Emilia Romagna. Il testo, che è introdotto accogliendo due testimonianze personali, è completato da poche pagine finali che contengono i suggerimenti concreti basilari per i familiari.

 Dal libro “Sostenere chi sostiene” emerge con chiarezza come in tale ambito siano stati fatti progressi importanti dal punto di vista psicologico e che la scienza sa cosa serve per aiutare pazienti e familiari. Purtroppo è altrettanto evidente che mancano le risorse e forse anche la consapevolezza dei decisori per offrire in modo sistematico su tutto il territorio nazionale il ventaglio di interventi necessario per una reale presa in carico delle persone.

Il modello bio-psico-sociale, anzi bio-psico-socio-spirituale, della salute è, sul piano teorico, un modello affermato da ormai sei decenni, ma siamo ancora lontani dalla sua sistematica applicazione. Anzi, in tempi recenti nel sistema sanitario del nostro paese, che sta attraversando la transizione verso l’accentuata informatizzazione, si assiste ad un’ulteriore spersonalizzazione dei percorsi di cura, con riduzione dei tempi dedicati all’ascolto e, di contro, sempre maggiori energie materiali e psicologiche sono richieste dal disbrigo delle necessarie pratiche burocratiche.

In ogni caso, il volume costituisce un’utile lettura per i professionisti del settore ma forse soprattutto per chi sta vivendo l’esperienza di caregiver, o è comunque coinvolto sul piano personale da tali accadimenti, sia per essere meglio informati sulla rete dei servizi esistenti, sia per comprendere meglio e dare un senso più chiaro al proprio vissuto.

Le autrici sono due psicologhe di orientamento cognitivo-comportamentale con esperienze formative e operative nel campo della Psicologia dell’Invecchiamento, nelle procedure per il potenziamento cognitivo e nel sostegno a persone con demenza e loro familiari.

Guardarsi nelle Zoom call e il rischio sulla salute mentale

Con la virtualizzazione imposta dalla pandemia, le Zoom call sono diventate parte integrante della nostra vita lavorativa e privata. Guardare continuamente la propria immagine durante le videochiamate, però, potrebbe portare ad auto-oggettivarci più facilmente, con effetti non indifferenti sulla salute mentale, specialmente delle donne.

La virtualizzazione post-pandemica

 Con la pandemia da Covid-19 e le conseguenti limitazioni alla libertà di movimento, negli ultimi anni siamo stati costretti a passare più tempo nelle nostre case, reinventando un modo per continuare a lavorare e a interagire con gli altri. Gli strumenti per videochiamare le persone a distanza esistevano già, ma mai come nel periodo pandemico abbiamo utilizzato piattaforme come Zoom, Face-Time o Google Teams che ci consentissero di vedere e comunicare con gli altri. Sono strumenti sicuramente utili a imitare gli incontri di persona, ma sempre con una cruciale differenza: se nella vita reale non abbiamo costantemente l’opportunità di guardarci in uno specchio mentre interagiamo, nelle videochiamate il sistema consente di mostrare agli utenti anche un video di se stessi durante la conversazione. Visto che la virtualizzazione della vita quotidiana sembra uno scenario destinato a durare a lungo, avremo ancora per molto la possibilità di guardare noi stessi per ore durante la giornata, fra una riunione online e l’altra.

Di fronte a questa realtà, ciò che gli psicologi si stanno chiedendo è riassumibile nella seguente domanda: è davvero totalmente positiva questa soluzione virtuale o ci sono degli effetti collaterali a livello di salute mentale che abbiamo il dovere di prendere in considerazione?

Guardarsi nelle Zoom call: il rischio dell’auto-oggettivazione

L’ipotesi mossa da alcuni psicologi è che le lezioni, le riunioni o, in generale, gli incontri virtuali, se costanti e mantenuti nel lungo termine, portino a sviluppare un’attenzione continua nei confronti del proprio aspetto, con effetti dannosi sulla salute mentale, specialmente nelle donne.

Il meccanismo potenzialmente responsabile di questa relazione negativa sarebbe la cosiddetta auto-oggettivazione, ossia la tendenza a trattarsi come oggetti da guardare. Nella società moderna è innegabile che le donne continuino ad essere inserite in una cultura che dà priorità al loro aspetto, come evidente dalla maggiore oggettivazione del corpo femminile rispetto a quello maschile (ad esempio, per fini pubblicitari). Se questi sono i contenuti della cultura di appartenenza, non sorprende che le donne, interiorizzando l’idea di essere per l’altro un oggetto, finiscano per essere le prime a considerarsi come tali.

Gli effetti cognitivi, emotivi, comportamentali, fisici e fisiologici dell’auto-oggettivazione sono tuttavia molteplici e non sempre positivi. Alcuni di essi hanno uno stretto legame con forme di disagio mentale, soprattutto nelle donne, che tendono a subire più conseguenze negative:

  • Dal punto di vista cognitivo, una ricerca ha mostrato che, quando le donne indossano un costume da bagno e si guardano allo specchio, in una conseguente prova di matematica danno risultati peggiori rispetto agli uomini, poiché influenzate dall’esperienza oggettivante;
  • Dal punto di vista emotivo e comportamentale, lo studio di cui sopra ha rivelato che provare un costume da bagno può produrre sentimenti di vergogna che portano le donne a mangiare con più moderazione;
  • Dal punto di vista fisico, l’auto-oggettivazione porterebbe le donne a prendere le distanze dal proprio corpo, causando un peggioramento delle prestazioni motorie e difficoltà a riconoscere i propri stati corporei;
  • Dal punto di vista fisiologico, una ricerca avrebbe dimostrato che le donne che tendono ad auto-oggettivarsi avrebbero maggiori difficoltà a riconoscere la propria temperatura corporea: più una donna è concentrata sul proprio aspetto, minore è la connessione tra la quantità di vestiti che indossa e il freddo che sente.

In generale, in alcune donne l’auto-oggettivazione, diventando il modo predefinito di pensare a se stesse nel mondo, sarebbe associata a conseguenze negative sulla salute mentale, come sintomi di alimentazione disordinata, ansia, depressione e dismorfismo corporeo.

Nascondere il video personale per smettere di auto-oggettivarsi

Alcuni ricercatori hanno dimostrato che essere vicino a uno specchio, scattare una foto a se stessi e sentire che il proprio aspetto viene valutato da altri aumenta la tendenza all’auto-oggettivazione e, a ben pensare, quando entriamo in una chiamata Zoom possiamo essenzialmente fare tutte queste cose contemporaneamente.

 Visto che, nel bene e nel male, le chiamate Zoom continueranno ad essere degli strumenti utili nel mondo del lavoro, un modo per ridurre gli effetti negativi delle riunioni online sulla salute mentale potrebbe essere quello di utilizzare la funzione “Nascondi vista personale”, nascondendo così la propria immagine a sé, ma non agli altri. Si tratta tuttavia di una soluzione ancora dibattuta e poco convincente del tutto. Secondo alcuni studiosi disattivare la vista di sé può aiutare le persone più inclini all’auto-oggettivazione a controllare meno la propria immagine, mentre secondo altri tale soluzione potrebbe far sentire quelle stesse persone in una posizione di maggiore svantaggio. Questi ultimi sarebbero dell’idea che essere consapevoli del proprio aspetto dia più benefici che problemi: una grande mole di letteratura mostra che apparire attraenti ha degli innegabili rinforzi sociali ed economici tangibili (per le donne più che per gli uomini) e, sulla base di questo, monitorare il proprio aspetto consentirebbe di anticipare come si potrà essere valutati dagli altri, aiutando a regolarsi di conseguenza.

Per queste ragioni, in futuro non sarà così improbabile continuare a vedere le persone con la fotocamera accesa per tutta la durata delle loro chiamate Zoom. Consapevoli dei rischi dell’auto-oggettivazione e del loro impatto specifico sulla popolazione femminile, però, è importante essere a conoscenza del fatto che qualsiasi piccola tregua dal fissare la propria immagine sullo schermo può essere davvero un grande beneficio per il proprio benessere mentale.

Stress da università

Gli studenti universitari sollevano varie questioni: costi, difficoltà a trovare alloggi, carenza di studentati, sollecitazione a performance elevate e visione negativa di un eventuale ritardo nel conseguimento della laurea.

Premessa

Negli ultimi mesi diversi quotidiani (Il sole 24 ore, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Open online, Il Mattino, solo per citarne alcuni), hanno parlato delle forti pressioni a cui si sentono sottoposti gli studenti e che in casi estremi hanno drammaticamente condotto al suicidio.

Gli articoli individuano alcuni punti critici che meriterebbero di essere approfonditi e a partire dai quali, in questo articolo, si cercherà di formulare alcune riflessioni.

Il contesto universitario

All’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Ferrara la presidente del consiglio degli studenti nell’ambito del suo intervento ha detto: “Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione o persino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona con la performance” (Tuttoscuola, aprile 2023).

La studentessa ha inoltre contestato il sistema di borse di studio e studentati che darebbero solo l’illusione di garantire pari opportunità perché nella realtà è difficile accedervi e richiedono risultati eccellenti da conseguire entro periodi di tempo determinati.

Le preoccupazioni connesse ai costi, in particolare per i fuori sede, sono tra le questioni sollevate dagli studenti e che potrebbero contribuire ad aumentare le pressioni da parte delle famiglie a procedere velocemente e bene. È recente la protesta messa in atto dagli studenti in diverse università contro il caro affitti degli appartamenti e delle stanze.

Evidentemente i punti da considerare sono molteplici: inflazione, lavoro precario, stipendi bassi, costi eccessivi delle case, solo per citare alcune questioni che di frequente sono oggetto di dibattito. Certamente ci sono problematiche sociali di rilievo e tuttavia, da una parte taluni argomenti sollevati non sembrano in grado da soli di giustificare lo stress che riferiscono gli studenti, dall’altra alcuni temi sollevati dagli universitari stessi sembrano connessi maggiormente allo studio e ad aspetti emotivi. Il presente articolo proverà ad affrontare proprio queste ultime componenti.

Gli standard prestazionali

Un ulteriore aspetto evidenziato dagli studenti, in termini negativi, è la percezione che all’Università si faccia riferimento a un modello di prestazione che fa sentire molto a disagio chi è fuori corso. A tale proposito Open online in un articolo riporta proprio le difficoltà incontrate da alcune studentesse fuori corso.

Una ragazza racconta come dopo essere sempre stata una studentessa modello, a causa di problemi personali, ha rallentato gli studi e in seguito, a causa delle difficoltà a recuperare, prima si è isolata e successivamente è caduta in uno stato depressivo.

Sono invece le ambizioni che i genitori proiettano sui figli motivo di pressione per una ragazza che racconta che finché era una studentessa modello si sentiva motivo di orgoglio, ma quando ha iniziato a rendere meno si è sentita motivo di vergogna.

Altre storie parlano dei sensi di colpa verso la famiglia, del dispiacere di avere deluso le aspettative, ma anche di non sentirsi compresi per l’impegno dedicato. Come se i familiari talvolta dessero importanza ai risultati e non considerassero adeguatamente la dedizione mostrata nei confronti dello studio.

Gli studenti intervistati convergono sul fatto che i suicidi provocati dagli insuccessi universitari non li sorprendono: “Quando la mente diventa il tuo nemico, è molto difficile uscirne, entri in una dimensione molto buia, molto solitaria, molto autocritica. La comparazione con gli altri diventa una costante”. Ritengono inoltre che un elemento spesso presente nelle situazioni più estreme è il ricorrere alle bugie (Open on line, 2023).

Da un’inchiesta condotta da Skuola.net emerge che gli studenti sentono sempre di più la pressione sociale, le aspettative familiari e la paura del fallimento.

Circa un universitario su tre ammette di avere mentito almeno una volta in famiglia sul suo rendimento e per molti la bugia è sistematica.

I dati raccolti da Skuola.net inoltre confermano come le aspettative contribuiscono a creare malessere; in questi casi le domande sull’università vengono percepite come una pressione sociale che fa sentire in difficoltà particolarmente chi non si sente in regola (Skuola.net).

Componenti emotive, aspettative e bugie

Volendo provare a fare una sintesi a partire dalle testimonianze degli studenti (riportate da alcuni articoli), sembrano emergere dei temi trasversali: la paura del fallimento, il senso di inadeguatezza e il confronto con gli altri, utilizzato come una sorta di ‘misura’ del proprio valore, le aspettative, come la paura di deludere l’altro e presumibilmente anche se stessi in quanto non adeguati all’idea che si vorrebbe avere di sé.

Le aspettative degli altri possono creare sofferenza, in particolare laddove gli studenti non riescono a tenere ritmi adeguati nel sostenere gli esami. Le aspettative, inoltre, possono essere alla base di alcune bugie dette in famiglia; in altri casi i ragazzi potrebbero mentire per tranquillizzare i genitori oppure perché si sentono inadeguati e avvertono un senso di vergogna per il loro andamento universitario. Parlando di bugie, un altro aspetto da considerare è che nel momento in cui si cominciano a raccontare, se questa modalità diviene sistematica e non occasionale, è la situazione che si viene a creare a diventare fonte di uno stress importante. Dire le bugie può sembrare una buona strategia nell’immediato ma con il passare del tempo finisce per diventare un problema sempre più difficile da gestire.

Sembra, infatti, che se già c’era una difficoltà a condividere l’andamento degli esami, il rischio è che diventerà ancora più difficile comunicare la situazione effettiva una volta che si saranno accumulate informazioni non vere e magari si è fatto credere alla famiglia di essere in regola o prossimi alla laurea.

Tornando invece al tema delle aspettative, questo meriterebbe di essere focalizzato meglio, individuando, per esempio, come queste vengono avvertite. I ragazzi come si spiegano le difficoltà che incontrano nel sostenere gli esami che, in un secondo momento, possono creare il problema delle aspettative deluse? Certamente la questione è complessa e coinvolge più fattori.

Sono inoltre da considerare gli aspetti relazionali che sembrano diventare una componente importante nei casi più complessi. Andrebbero valutati, per esempio, i motivi che rendono difficile informare la famiglia delle difficoltà che si incontrano negli studi. Il problema primario è rappresentato dalla difficoltà ad aprirsi in famiglia (e con gli amici), oppure dai problemi negli studi? Potrebbe accadere, per esempio, che un malessere creato dal disagio di non riuscire a corrispondere alle attese degli altri determini una deflessione dell’umore e, di conseguenza, un senso di sfiducia nella possibilità di riuscire a far fronte alle difficoltà incontrate, creando, quindi, una sorta di circolo vizioso.

E ancora, cosa fa sì che i ragazzi ritengano che dire la verità comporterebbe gravi conseguenze e sentano di non poterle affrontare? Tra le motivazioni potrebbe esserci la paura della reazione dei genitori? Paura di deludere? Difficoltà ad accettare i propri presunti limiti intellettuali (non sempre c’è una corrispondenza tra capacità e rendimento)? Vergogna?

Un altro disagio emerso è il confronto. Anche in questo caso andrebbe focalizzato cosa porta a fare dei confronti e come fanno sentire, sia nel caso fosse a proprio favore (cioè quando si ha un rendimento migliore degli altri), o al contrario se ci si sente inadeguati. Per lo studente che reagisce male ai successi dei colleghi, perché magari lo fanno sentire incapace, potrebbe essere utile lavorare sull’insicurezza; sentendosi più sicuro di sé dovrebbe riuscire ad affrontare meglio il confronto con il rendimento degli altri, cioè senza sentirsi necessariamente messo in discussione.

Altro tema è il timore del fallimento. Spesso descrive il modo in cui si sente la persona se non riesce in qualcosa, ma sembra prima di tutto esprimere un vissuto emotivo. Quando si incontrano difficoltà negli studi ne andrebbe compresa la natura e non vanno lette prevalentemente come espressione di una propria incapacità. Come vedremo di seguito, spesso delle flessioni nel rendimento possono accadere e sono legate ai passaggi di studi e a difficoltà che presenta il nuovo contesto. In altri casi, può darsi che vadano valutati i criteri di scelta della Facoltà per vedere quanto in effetti corrispondono alle attitudini ed aspirazioni di ciascuno studente.

Purtroppo, come sappiamo, sono tutti meccanismi per i quali se non si interviene possono cronicizzarsi creando uno stato emotivo all’interno del quale diventa difficile distinguere la causa dall’effetto.

È inoltre importante che i ragazzi sentano di poter chiedere aiuto quando attraversano dei momenti di disagio, senza vivere questa esigenza come una debolezza. Il sostegno può venire dalla famiglia, dagli amici o colleghi, quando questo non è possibile o non è sufficiente, è bene rivolgersi a un professionista. Avere la disponibilità di centri di ascolto adeguati presso tutte le Università è una delle richieste degli studenti. La questione, tuttavia, appare delicata perché evidentemente non basta che ci sia l’offerta di professionisti ma è necessario che la persona capisca di avere bisogno di aiuto. Come sappiamo se il problema è sentito come ‘esterno’, legato al contesto, più difficilmente ci sarà una richiesta di consulenza psicologica pur in presenza di una sofferenza.

Università: un percorso complesso

L’argomento è complesso e andrebbe esaminato considerando i diversi aspetti coinvolti nell’esperienza universitaria. Mettere l’attenzione prevalentemente sulle richieste dell’Università o della società rischia di non intercettare adeguatamente altri problemi più profondi. In condizioni analoghe non tutti gli studenti reagiscono allo stesso modo; andrebbe compreso meglio quali elementi possono produrre nei ragazzi reazioni di sofferenza anche estrema, e perché è percepita senza via di uscita.

Come abbiamo visto, gli studenti sollevano varie questioni: costi, difficoltà a trovare alloggi, carenza di studentati, sollecitazione a performance elevate, visione negativa di un eventuale ritardo nel conseguimento della laurea e da qui tutti i problemi riferiti dai fuori corso, solo per citare alcuni punti.

Tra i diversi ambiti c’è l’incertezza per il futuro lavorativo (sia nel trovare lavoro che per l’aspetto della precarietà). Certamente la percezione di una mancanza di prospettiva futura può influire sulla motivazione e creare stati di ansia e preoccupazione. Da valutare anche la fiducia o meno che gli studenti ripongono nelle prospettive fornite dagli studi universitari.

Il presidente della Conferenza dei Rettori, Salvatore Cuzzocrea, a commento dei fatti di attualità, dice: “Credo che il merito sia una buona cosa e non dovrebbe essere percepito come un danno, anzi, aiuta a creare una linea di partenza equa per tutti. È normale commettere errori, bisogna imparare a cadere e rialzarsi. Tuttavia, se sbaglio un rigore, non posso incolpare l’allenatore. I giovani oggi devono comprendere che un insuccesso non li rende dei falliti. Ritengo che anche la società contemporanea, che valorizza maggiormente il successo facile da tiktoker piuttosto che l’istruzione e il lavoro, abbia una parte di responsabilità” (La Redazione, 2023).

In una Società che si sta trasformando occorre anche valutare la reale motivazione e interesse che hanno i ragazzi a intraprendere gli studi universitari. Il livello di convinzione, infatti, può influire sul rendimento.

Crescere comporta anche riuscire ad affrontare una certa quota di incertezza, comprendere come far fronte alle caratteristiche della società in cui si sta vivendo così da individuare i modi per provare a realizzare al meglio le proprie aspirazioni e progetti. Percorsi spesso tortuosi e non facili nei quali bisogna da una parte capire come orientarsi a livello pratico, scegliendo iter formativi utili a realizzare le proprie attitudini e interessi lavorativi, e dall’altra riuscire a comprendere ed affrontare le risposte emotive connesse all’esperienza degli studi e più in generale alla fase della vita che si attraversa. I due aspetti si intrecciano inevitabilmente perché, per esempio, uno studente con un’adeguata sicurezza nelle proprie capacità riuscirà ad affrontare eventuali difficoltà con una serenità maggiore di chi parte già con un senso di scarsa fiducia nella sua possibilità di riuscita.

La risposta alle difficoltà che si incontrano nel corso degli studi universitari appare pertanto complessa e articolata perché coinvolge più fattori. Considerare le pressioni che arrivano dall’Università o dalla Società quale fattore prevalente può essere fuorviante, perché pone l’attenzione sul contesto esterno e non sullo sviluppo di capacità di risposta di tipo individuale.

I fattori esterni sono in gran parte fuori dal controllo dell’individuo, spostare la riflessione sui fattori interni può favorire la scoperta di un modo più efficace per affrontare il disagio che può impattare sull’esperienza universitaria nel suo complesso e in tutti i suoi aspetti.

Tornando più specificamente agli studi universitari, poiché c’è un’interazione fra stato emotivo e rendimento negli studi, è anche attraverso una messa a fuoco maggiore della componente emotiva che potrebbe risultare più facile capire la modalità con cui ciascuno studente risponderà agli ostacoli che incontra.

Per riflettere sull’interazione fra componente psicologica e atteggiamento verso lo studio possono essere utili alcune osservazioni condotte da Dweck.

Mindset e apprendimento

Carol Dweck, docente presso la Stanford University, dagli inizi della sua carriera ha cercato di capire come le persone affrontano i fallimenti.

La studiosa si è interessata in particolare di apprendimento, e ha osservato come di fronte ai problemi che si possono verificare nel corso degli studi alcuni studenti riescono a mantenere l’impegno, mentre altri, pur avendo capacità analoghe, si scoraggiano e vivono male le difficoltà che incontrano.

Il lavoro della studiosa si fonda sull’idea che le persone fin da piccole sviluppano convinzioni su di sé (mindset) in base alle quali daranno significato alle loro esperienze. Quindi persone diverse potranno reagire in modo diverso a un’esperienza analoga. Gli individui possono essere più o meno consapevoli delle proprie credenze, ma comunque queste influenzeranno fortemente ciò che desiderano e il modo in cui si impegneranno per ottenerlo (Dweck, 2017).

A spiegazione dei diversi atteggiamenti che i ragazzi attuano nei confronti dell’apprendimento la Dweck individua il mindset statico e dinamico. Coloro che hanno sviluppato prevalentemente un mindset statico ritengono che l’intelligenza e le capacità costituiscano entità date, tratti fissi che non è possibile migliorare; pertanto sono più preoccupati di apparire brillanti e temono le difficoltà perché li potrebbero esporre a dei possibili insuccessi che in questo caso verrebbero vissuti male, in quanto percepiti come espressione di incapacità.

Gli studenti che hanno sviluppato un mindset di tipo dinamico, invece, ritengono che le capacità possano essere potenziate attraverso l’impegno e l’apprendimento. In questo caso gli studenti si sentiranno meno preoccupati di mostrarsi bravi perché eventuali insuccessi incidono meno sull’autostima; piuttosto sono interessati a impegnarsi per accrescere le loro capacità e superare le difficoltà incontrate nello studio.

L’insuccesso può motivare o demotivare

Non sembra esserci necessariamente una correlazione tra capacità e rendimento nello studio. Questo non vuol dire che chiunque possa riuscire in tutti i campi e settori e a tutti i livelli, ma semplicemente che ci sono delle potenzialità che vengono utilizzate in modo differente in relazione al mindset. La Dweck, infatti, osserva come studenti capaci possono andare in crisi quando incontrano delle difficoltà, mentre studenti anche meno preparati sono stimolati dalle difficoltà perché rappresentano un’occasione per mettersi alla prova.

E ancora la Dweck riporta come studenti che sembrano molto dotati, ma che hanno sviluppato un mindset statico, dubitano più facilmente di sé stessi e sminuiscono la propria intelligenza quando sbagliano un compito, oppure non superano un esame; mentre gli studenti con mindset dinamico presentano preoccupazioni di questo tipo in misura minore.

Dagli studi effettuati dalla Dweck e collaboratori, gli studenti con i due mindset non differiscono nelle loro risposte quando tutto va bene, ma quando incontrano delle difficoltà, in questo caso, nel percorso di studi. Come se gli studenti con mindset statico per mantenere fiducia nelle proprie capacità avessero un maggiore bisogno di conferme e andassero in crisi quando queste, per qualche ragione, vengono a mancare, mentre gli studenti con mindset dinamico sono meno dipendenti dai successi e mantengono una maggiore costanza anche quando non riescono a superare una prova.

“Si potrebbe pensare alla vulnerabilità come una forma di consapevolezza delle proprie capacità. In realtà non è così. La vulnerabilità non riguarda l’effettiva competenza che gli studenti mettono in un compito” (Dweck, 2000).

L’apprendimento non è un processo lineare

Alla luce dei mindset individuati dalla Dweck è possibile provare a fare alcune riflessioni sull’apprendimento, senza che queste abbiano alcuna pretesa di esaustività. Pur non essendoci una correlazione diretta fra abilità e rendimento, alcuni studenti tendono a vivere i risultati delle prove come indicatori delle proprie capacità e si scoraggiano più facilmente in presenza, per esempio, di un rendimento ritenuto poco soddisfacente.

Può essere utile ricordare ai ragazzi che incontrare delle difficoltà è assolutamente normale. Non basta un insuccesso per formulare una valutazione negativa. Un calo di rendimento, per esempio, si può verificare nei passaggi dalla scuola primaria a quella secondaria di primo grado e poi nel passaggio alla scuola secondaria di secondo grado e ancora arrivati all’Università. In queste variazioni di contesto formativo i ragazzi spesso cambiano compagni e devono ambientarsi con il nuovo gruppo, hanno nuovi docenti e si devono adattare a nuovi stili di insegnamento; andando avanti nel percorso di studi gli studenti vengono sottoposti a richieste progressivamente crescenti, e questo può richiedere una fase di assestamento. Sempre in questi cambi di livello di istruzione possono verificarsi cali del rendimento che vanno compresi e non vissuti come prova di scarse capacità. Un altro passaggio che può essere critico è l’ingresso all’Università, che rappresenta un contesto molto diverso rispetto a quello scolastico e dove spesso, anche in relazione alla Facoltà, agli studenti viene richiesta una maggiore autonomia nella preparazione degli esami e nella organizzazione degli stessi. Inoltre, la relazione con i docenti è tipicamente più impersonale.

Mindset e reazioni di tipo depressivo

La Dweck e collaboratori hanno condotto un’osservazione nei campus universitari nel periodo di febbraio e marzo, quando gli studenti sono più sotto pressione per le prove d’esame, in modo da poter verificare se fosse emerso un rapporto tra mindset e risposte riconducibili a una deflessione dell’umore (per esempio tristezza, insoddisfazione).

Hanno quindi individuato i mindset di un gruppo di studenti e poi hanno chiesto loro di tenere un diario dove dovevano rispondere a domande sull’umore, le loro attività e il modo in cui affrontavano i problemi.

Gli studenti con mindset statico tendevano a rimuginare sui loro insuccessi, tormentandosi con l’idea che questi fossero indicativi della loro incompetenza e inadeguatezza. Anche in questo caso, le situazioni percepite come fallimento sembravano definire l’identità personale degli studenti e lasciavano poco spazio alla speranza di un miglioramento. I ricercatori notarono, inoltre, che gli studenti con mindset statico, quando si sentivano depressi, si scoraggiavano e lasciavano andare le cose, non avevano fiducia nella possibilità di risolvere i problemi di studio.

Anche molti studenti con forma mentis dinamica erano piuttosto abbattuti, ma comunque si impegnavano per risolvere i loro problemi e per restare al passo con il lavoro da svolgere.

La Dweck spiega questo diverso comportamento facendo ricorso appunto ai diversi mindset. Se le persone credono che le capacità siano immutabili tenderanno a percepire un insuccesso, una difficoltà, come qualcosa che le definisce in maniera permanente lasciando meno spazio alla possibilità di un recupero. Per gli individui che invece credono che le loro qualità possano essere sviluppate, eventuali insuccessi possono comunque abbattere e scoraggiare, ma non saranno in grado di definire l’identità e il senso di sicurezza, in modo stabile; pertanto crescita e cambiamento rimangono possibili e più facilmente viene avvertita la possibilità di recuperare.

Conclusioni

Per comprendere ulteriormente quali fattori portano a sviluppare un mindset piuttosto che un altro, può essere utile fare riferimento a una teoria dello sviluppo, come la teoria dell’attaccamento di Bowlby e i successivi ampliamenti che sono stati fatti.

Alcune parole di Bowlby mettono in evidenza un aspetto interessante per l’argomento trattato: “Abbiamo ampie prove del fatto che gli esseri umani di ogni età sono più sereni e in grado di affinare il proprio ingegno per trarne un maggior profitto se possono confidare nel fatto che al loro fianco ci sono persone fidate che verranno in loro aiuto in caso di difficoltà” (Bowlby, 1989).

Anche la Dweck tra i fattori che contribuiscono allo sviluppo dei mindset fa riferimento al ruolo della famiglia. Sono importanti i messaggi che i genitori mandano ai figli a commento delle esperienze di apprendimento; viene messa l’attenzione sui risultati, sul talento? O sull’impegno? Discorso analogo anche per le lodi. A parere della Dweck le lodi rivolte alla persona possono anche contribuire a rendere insicuri. I bambini e i ragazzi che vengono lodati per i loro successi possono sviluppare uno stato di preoccupazione quando temono di non riuscire. Infatti, se nel momento in cui ottengono buoni risultati vengono lodati, cosa accadrà quando invece non riusciranno a superare una prova, quando si verifica un insuccesso? Dimostrano di essere incapaci? Potremmo dire che un certo uso delle lodi e dei giudizi negativi potrebbero contribuire a creare una sorta di ansia da prestazione.

Sappiamo che anche la scuola e le istituzioni formative ed educative in generale possono rivestire un ruolo importante, così come altre figure di riferimento. Pertanto, i messaggi che vengono trasmessi, in modo esplicito o implicito, anche da questi contesti, tra cui l’Università, dovrebbero essere volti a favorire la crescita e lo sviluppo armonico dei giovani senza sollecitare pressioni eccessive.

La teoria dell’attaccamento –che non affronteremo in questo articolo– può essere utile a cogliere come un senso di sicurezza adeguato dovrebbe favorire la capacità di affrontare eventuali ostacoli e insuccessi senza che questi impattino in modo significativo sull’autostima, sul senso di sé e quindi sul proprio senso di valore. Leggere il lavoro della Dweck alla luce della teoria dell’attaccamento può aiutare a comprendere meglio i diversi atteggiamenti verso l’apprendimento che adottano gli studenti e quali esperienze nelle fasi dello sviluppo possono rafforzare un mindset piuttosto che l’altro (Mannino, 2019).

L’obiettivo, pertanto, non è far sparire gli intoppi, gli impedimenti, ma che ciascuno trovi una strategia per farvi fronte in modo proattivo. Tutti gli studenti, tutti gli individui in generale, possono andare incontro a momenti di difficoltà, magari dovuti a disagi incontrati nella vita personale. Mettere l’attenzione principalmente sulle richieste e pressioni esercitate dall’Università rischia di non dare un’adeguata centralità alle risorse personali (emotive, cognitive, relazionali, ecc) di ciascun individuo, ostacolando un’adeguata comprensione delle difficoltà incontrate, necessaria per individuare percorsi efficaci per superarle.

La riflessione, per essere adeguatamente proficua, come già detto, dovrebbe coinvolgere almeno quattro livelli: quello individuale, quello familiare, quello Universitario e quello più ampio della Società.

Il concetto di salute mentale: tra definizioni e abuso

Secondo la World Health Organization (WHO) la salute mentale è molto di più che l’assenza di disturbi mentali. Si tratta altresì di uno stato di benessere psichico che consente all’individuo di realizzare le proprie capacità, di far fronte agli ostacoli della vita quotidiana, di apprendere e di lavorare in maniera efficiente, nonché di apportare un contributo significativo alla comunità di cui egli è parte.

Definire la salute mentale

 A partire dallo scoppio della pandemia, se non prima, la salute mentale è divenuta oggetto di numerose discussioni che si sono sviluppate in contesti sempre meno specialistici, quali televisione, radio, quotidiani e social network. Nella maggioranza dei casi, l’obiettivo di questi discorsi era quello di sensibilizzare lettori e ascoltatori sui rischi associati alla psicopatologia. Questo fine veniva spesso perseguito ricorrendo a messaggi che incrementassero la consapevolezza riguardo ai fattori associati all’esordio o il mantenimento della malattia e che, al contempo, contrastassero una serie di pregiudizi culturali rivolti alla psicoterapia o alla farmacoterapia. Solo nel 2023, le campagne più cliccate sulla salute mentale sono svariate, tra cui If this speaks to you, speak to Mind (Mind); Britain, get talking (ITV); Suicidal doesn’t always look suicidal (CALM); My Cause, My Cleats x Kicking the Stigma (NFL); It feels good to share (Walkers). Pur avendo effettivamente reso alcuni argomenti appartenenti al campo della psicologia clinica e della psichiatria maggiormente accessibili al pubblico, questi interventi hanno contribuito alla diffusione di una definizione eccessivamente vaga e grossolana di “salute mentale” e generato così una serie di incertezze e di equivoci attorno a costrutti che in ambito clinico-specialistico non presentano ambiguità. In altre parole, ad esser stato favorito è stato un approccio estremamente superficiale alla psicopatologia, in quanto ad oggi si finisce per parlare abitualmente di salute mentale più o meno cagionevole riferendosi a qualsiasi non meglio specificata condizione soggettiva fonte di sofferenza per l’individuo. E allora, che cos’è la salute mentale? Secondo la World Health Organization (WHO) la salute mentale è molto di più che l’assenza di disturbi mentali. Si tratta altresì di uno stato di benessere psichico che consente all’individuo di realizzare le proprie capacità, di far fronte agli ostacoli della vita quotidiana, di apprendere e di lavorare in maniera efficiente, nonché di apportare un contributo significativo alla comunità di cui egli è parte. La salute mentale è alla base delle nostre capacità individuali e collettive di prendere decisioni, di costruire relazioni sociali e di plasmare il mondo in cui viviamo; caratteristiche che la rendono fondamentale non solo per lo sviluppo personale, ma anche per quello comunitario e socio-economico (WHO, 2022).

I rischi del misunderstanding

In un articolo pubblicato sul New York Times lo psicologo statunitense Huw Green (2022) ha sottolineato che la circolazione dell’espressione “salute mentale” in ambienti e canali non specialistici porta con sé il rischio di indurre molte persone a stabilire pericolose equivalenze tra esperienze psicopatologiche e altre che in realtà non lo sono. Green continua sostenendo che di questo passo si rischia di favorire sia la diffusione di inappropriate forme di autodiagnosi e di auto-aiuto, sia un eccessivo e immotivato ricorso agli specialisti del settore. Il punto chiave è che un impiego smodato e inappropriato del termine “salute mentale” rischi di patologizzare esperienze e condizioni che in realtà fanno parte della vita quotidiana delle persone e che non richiedono di essere necessariamente trattate attraverso dispositivi clinici. E allora, cos’è un disturbo mentale? L’American Psychological Association (APA) riporta che un disturbo mentale è qualsiasi condizione caratterizzata da significativi problemi cognitivi ed emotivi, comportamenti anomali, funzionamento compromesso o qualsiasi combinazione di questi. Per essere tali, i disturbi mentali devono associarsi a un disagio significativo o a una disabilità nelle attività lavorative, sociali o in altre attività ritenute importanti dall’individuo (APA, 2022).

Per diagnosticare un disturbo mentale è necessario che vengano soddisfatti una serie di criteri riportati nei manuali psicodiagnostici in seguito ad un esame specialistico che solitamente comprende il colloquio clinico e l’impiego di strumenti che consentano una valutazione, per quanto possibile, obiettiva. La diagnosi di un disturbo mentale non è fine a sé stessa, bensì ha un’utilità clinica, es. aiutare il clinico a determinare la prognosi, i piani di trattamento e i potenziali esiti di quest’ultimo per il paziente. Tuttavia, la diagnosi di un disturbo mentale non equivale alla necessità di un trattamento. La necessità di un trattamento è una decisione clinica complessa che prende in considerazione una serie di fattori, tra cui la gravità dei sintomi, la loro salienza (per esempio presenza/assenza di pensieri suicidari), i rischi e i benefici degli interventi disponibili (APA, 2022).

La psicoterapia come intervento universale per promuovere la salute mentale

 Non va neppure dato per scontato che la psicoterapia sia il miglior modo per preservare la propria salute mentale, dato che vi sono alcuni casi in cui quest’ultima non solo si è dimostrata inefficace, ma ha anche prodotto un peggioramento delle condizioni dei pazienti. Si tratta dei cosiddetti effetti iatrogeni (Bark & Parker, 2009). La psicoterapia non è neppure da considerarsi alla stregua di un intervento universalmente valido, come alcuni invece suggeriscono. Green, in proposito, cita il caso di Emily Anhalt, una psicoterapeuta statunitense popolare sui social network, la quale sostiene che chiunque dovrebbe intraprendere una psicoterapia e che quest’ultima dovrebbe diventare persino un prerequisito per diventare genitore. Pur condividendo la tesi che molti individui al momento non seguiti da uno psicoterapeuta probabilmente ne trarrebbero beneficio, lo stesso Green si è mostrato molto più cauto in merito all’ipotesi di una prescrizione universale della psicoterapia. Infatti, egli sottolinea che la psicoterapia ha dei costi che non sempre risultano sostenibili per il paziente, senza contare che essa potrebbe non adattarsi agli schemi culturali o religiosi della persona.

In conclusione, la continua crescita dell’attenzione verso la salute mentale sarebbe da accogliere positivamente secondo Green, ma a patto di intendere quest’ultima come una delle tante modalità con cui guardare alle nostre vite. Gli specialisti, al contempo, non dovrebbero perdere di vista l’obiettivo di permettere ai propri pazienti di condurre una vita felice e appagante senza passare troppo tempo in quella che Antonino Ferro (1996) chiama stanza d’analisi.

 

A porte chiuse (2022) di Floriana Lunardelli – Recensione

A firma della dott.ssa Floriana Lunardelli, dottoressa in psicologia con esperienza pluriennale all’interno di un centro antiviolenza genovese, “A Porte chiuse. Violenza domestica e dipendenza affettiva” è un saggio incentrato sul fenomeno in crescita della violenza domestica, a carico di donne e minori, un male contemporaneo che si cela dietro le mura domestiche più insospettabili.

Il tema del Male

 La prima parte del saggio affronta la tematica del Male, tratteggiandone i contorni da un punto di vista filosofico e religioso, letterario e artistico, per poi esaminare le teorie psicologiche più accreditate.

Servendosi di un’ampia letteratura, di miti e narrazioni bibliche, la dott.ssa Lunardelli ha evidenziato come, in tutti i tempi e presso tutte le culture, il male, contrapposto al bene, sia stato tema di riflessione.

Tale questione pone l’uomo di fronte a una duplice sfida: esistenziale-pratica, nel momento in cui sia necessario prendere posizione con un atteggiamento rassegnato e fatalista, ribelle, sprezzante o fiducioso; e teorica nel caso in cui promuova una riflessione razionale volta a ricercare una spiegazione alla radice del problema (Lunardelli, 2022).

Un importante contributo alla comprensione di tale fenomeno giunse dalla filosofa Hannah Arendt quando, nel 1961, fece precipitare il Male nel grigio torpore della banalità, come dimensione estrema manchevole di profondità, rivelandone l’aspetto più agghiacciante e descrivendo uomini ambiziosi di carriera e potere, non sempre consapevoli del dolore procurato dai loro agiti (Lunardelli, 2022).

Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” (…) il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale (Arendt, 1986).

In tal senso, il male può assumere sembianze invisibili e polimorfe che gli consentono di penetrare capillarmente anche in sedi impensate, come le mura domestiche, nonché raggiungere i vertici del potere (Lunardelli, 2022).

La violenza come volto del male contemporaneo

Oggi, la violenza contro le donne viene considerata “una delle più estese violazioni dei diritti umani” (2013), reputata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un problema di salute pubblica di proporzioni enormi che interessa trasversalmente tutte le classi sociali (Lunardelli, 2022).

La seconda parte del saggio è esplicitamente dedicata all’analisi del fenomeno della violenza all’interno delle mura domestiche, declinata nelle sue espressioni più frequenti e caratteristiche: violenza psicologica, fisica, sessuale ed economica.

Secondo la letteratura scientifica sul tema, la violenza domestica – anche definita Intimate Partner Violence – fa riferimento a “ogni tipo di danno fisico o psichico subito da una persona da parte di un famigliare che, sfruttando un rapporto di potere, viene a trovarsi in una situazione strutturalmente più forte e comprende minacce o atti di violenza fisica, psichica o sessuale agiti all’interno di un rapporto famigliare o di coppia presente o passato”.

Risulta importante sottolineare che, in qualunque forma venga agita, la violenza ha come obiettivo principale quello di incutere paura e assoggettamento.

A tal proposito, appare essenziale far riferimento alla teoria della “ruota del potere e del controllo” di Pence e Paymar (1990; Fig.1), nel quale vengono esplicitate le fasi che mantengono il ciclo della violenza: la prima fase riguarda l’intimidazione, attraverso comportamenti imprevedibili e minacce di violenza e di morte, successivamente si attua l’isolamento della vittima dalle figure di riferimento importanti, dai propri famigliari, dai propri amici, per poi passare alla svalutazione, che porta la vittima a perdere il senso della propria identità e a sperimentare un profondo sentimento di inadeguatezza e angoscia. Le fasi hanno un denominatore comune: la negazione della violenza – economica, psicologica, fisica e sessuale –da parte dell’uomo, attraverso atteggiamenti di minimizzazione, razionalizzazione e giustificazione dei propri comportamenti aggressivi (Lunardelli, 2022).

 

A porte chiuse (2022) di Floriana Lunardelli - Recensione del libro Imm 1

Fig.1: Ruota del Potere e del Controllo (Pence e Paymar, 1990)

Storie di vita

Il saggio si conclude con la presentazione delle storie di due donne, rivoltesi al centro antiviolenza di Genova, differenti per età, classe sociale e livello di istruzione, ma accomunate dai segni di un vissuto familiare difficile, testimoniato, in entrambi i casi, da bassa autostima, locus of control esterno e un senso di sé fragile, espresso, però, con modalità differenti (Lunardelli, 2022).

 Maddalena, donna di 47 anni, sembra aver interiorizzato il modello materno, che la confina al ruolo di vittima all’interno delle sue relazioni. Dimostra, infatti, scarsa fiducia in sé stessa e una forte fragilità, tende continuamente a svalutare le proprie azioni e pensieri, e ricerca relazioni non paritarie e partner a cui sottomettersi: è il caso del suo matrimonio, durato 14 anni in un susseguirsi di conflittualità e violenza psicologica, a cui sono conseguiti rapporti occasionali e relazioni dove la sessualità si configurava come un surrogato utile a colmare il profondo senso di vuoto (Lunardelli, 2022).

Francesca, studentessa universitaria di 25 anni, sembra, invece, aver imparato che l’uso dell’aggressività nelle relazioni affettive, anche le più significative, sia naturale, così come le reazioni violente all’interno del nucleo familiare; pertanto, instaura relazioni conflittuali e deludenti, l’ultima con un ragazzo tossicodipendente (Lunardelli, 2022).

Ad impreziosire il saggio, sono presenti dei contenuti digitali, a cui accedere mediante QR code, che rimandano all’ascolto della viva voce di donne vittime di violenza, che hanno avuto il coraggio di raccontare le loro difficili storie di vita. Questi racconti rappresentano preziose testimonianze, che gettano una luce sul percorso di aiuto necessario a sostenere donne e minori costretti in abitazioni che non contengono il calore di una famiglia ma il dolore, sovente messo a tacere, della violenza. Un faro di speranza ad indicare che esiste una via, al di là di quella porta chiusa.

 

Perché vivere in grandi città diminuisce il rischio di depressione

Siamo stati spesso portati a pensare che le grandi città potrebbero avere conseguenze negative sulla salute mentale, ma un confronto dei tassi di depressione suggerisce che più grandi sono le città, migliore è il benessere riscontrato tra gli abitanti.

La salute mentale nelle città

Vivere in una grande città, è risaputo, consente agli abitanti di entrare in contatto con più persone e vivere più esperienze rispetto alla vita nei piccoli centri abitati. Pensiamo al numero di persone che ogni giorno si possono incontrare e alle possibilità di svago (e non solo) che una grande città offre: eventi sportivi, musei, concerti, mostre, ristoranti e quant’altro. Anche ospedali e scuole, per continuare con gli esempi, spesso offrono più servizi a chi vive nelle grandi città.

Eppure a volte può capitare che gli abitanti dei grandi centri urbani si sentano sopraffatti dal ritmo frenetico e “soli in mezzo alla folla”. Per questo motivo, nel corso degli anni, numerose ricerche – ma anche l’opinione comune – hanno messo in luce le conseguenze negative che la vita nelle grandi città può avere sulla salute mentale degli abitanti. Questa visione chiama in causa aspetti quali l’inquinamento acustico, i tassi di criminalità, la breve durata e la superficialità delle interazioni sociali per spiegare come le grandi città possano rendere la vita dei cittadini non sempre facile da sostenere e impegnativa da un punto di vista psicologico.

Ma le città possono davvero avere conseguenze negative per la salute mentale? In realtà ci sono poche prove che dimostrino un’associazione tra rumore, criminalità e interazioni sociali fugaci e tassi di depressione più elevati nelle città. Inoltre nessuna indagine ha messo a confronto i livelli di depressione in città più grandi rispetto alle città più piccole.

Il rapporto tra città e salute mentale è più complesso di quanto suggeriscono le spiegazioni convenzionali. Uno studio condotto dall’Università di Chicago mostra come le città più grandi degli Stati Uniti presentino in realtà tassi di depressione sostanzialmente più bassi rispetto alle città più piccole. In particolare, un raddoppio della popolazione cittadina è stato associato a una diminuzione media del 12% dei tassi di depressione (Stier et al., 2021).

Come spiegare questi risultati?

La teoria dello urban scaling

I tassi più bassi di depressione nelle grandi città sembrano essere una conseguenza del modo in cui le città sono costruite e possono essere spiegati da una nuova visione scientifica delle città chiamata teoria dello urban scaling. La teoria richiama un insieme di modelli matematici che analizzano come sono organizzate le città. Un assunto fondamentale di questa teoria è che la struttura fisica delle città segue regole semplici.

Le città hanno reti infrastrutturali stratificate – costituite da linee elettriche, strade, linee ferroviarie, ecc. – con componenti più grandi che si diramano in altre più piccole che servono gruppi più ristretti di persone. Il movimento delle persone attraverso le città è consentito e limitato da queste reti infrastrutturali. Attraverso il ricorso ad alcuni principi di matematica e fisica, è possibile ottenere delle equazioni che possano spiegare come le persone si muovono nelle città. In particolare le equazioni della teoria dello urban scaling cercano di analizzare cosa succede quando si bilanciano i costi e i benefici associati al movimento di individui, di beni e di informazioni attraverso le reti infrastrutturali delle metropoli.

Sebbene possa sembrare un’analisi complicata, i risultati sono semplici relazioni tra le dimensioni della popolazione di una città e una serie di parametri urbani. Ad esempio: se i residenti di una città di 1 milione di persone hanno una media di 43 contatti sociali all’interno della stessa città, i residenti di una città di 10 milioni di persone dovrebbero avere una media di 63 contatti sociali.

Urban scaling e depressione: quale legame?

In che modo la teoria dello urban scaling può aiutarci a comprendere i tassi di depressione nelle grandi città? Da diversi anni gli studi in materia mettono in luce come il numero di contatti sociali sia fortemente associato al rischio di depressione: maggiore è il numero di persone con cui si interagisce, minore è il rischio di manifestare sintomi depressivi.

È importante notare che l’ambiente fisico della città dà forma a queste reti sociali: le infrastrutture facilitano la consegna di beni, servizi e informazioni, che contribuiscono a sostenere tutte le opportunità che le città hanno da offrire. Allo stesso tempo, queste reti infrastrutturali permettono alle persone di muoversi all’interno della città per accedere a queste opportunità.

Conclusione

Le città hanno storicamente una cattiva reputazione per quanto riguarda la salute mentale e fisica. Tuttavia, in un mondo in rapida urbanizzazione, la maggiore connettività sociale delle grandi città potrebbe avere un’influenza positiva sulla salute mentale degli abitanti.

Poiché ogni anno un numero sempre maggiore di persone vive nelle città, è importante riconoscere, misurare e interiorizzare il modo in cui i luoghi fisici che abitiamo – e le persone con cui condividiamo questi spazi – influenzano il nostro benessere in modi che potremmo non aspettarci.

Psicosi postpartum o psicosi puerperale

È importante che la psicosi post-partum non venga confusa con la depressione post-partum e con altri disturbi psichici perinatali, per questo è fondamentale rivolgersi ad operatori specialistici della salute mentale.

 

 I disturbi psichici perinatali gravi possono impattare in primis sulla salute materna ma anche sulla relazione madre-bambino e sullo sviluppo di quest’ultimo. Per questo è essenziale sensibilizzare la popolazione e gli operatori socio-sanitari su questi disturbi al fine di riconoscerli e trattarli precocemente.

I disturbi psichiatrici perinatali: la psicosi puerperale

Tra i disturbi psichici perinatali ritroviamo condizioni che fanno riferimento alla psicosi puerperale. Con questo termine in letteratura perinatale ci si riferisce a una condizione clinica che viene definita dagli autori “caleidoscopica” vista l’elevata complessità ed eterogeneità delle composizioni sintomatologiche osservabili. Possono esservi sintomi maniacali, depressione severa o quadri misti. Si possono riscontrare deliri, allucinazioni, insonnia persistente, comportamenti bizzarri, fluttuazioni del tono dell’umore (depressione, mania, fasi miste), preoccupazioni ossessive per la salute del neonato e labilità emotiva (Heron, 2008; Sit, 2006), fino a casi estremi quali suicidio (Appleby, 1998, Orsolini, 2016) e infanticidio (Spinelli, 2004). In alcuni casi sono descritti sintomi cognitivi atipici quali disorientamento, confusione, perplessità, derealizzazione e depersonalizzazione (Bergink, 2014). La psicosi puerperale rappresenta quindi un’emergenza psichiatrica che spesso necessita di un’ospedalizzazione.

La psicosi puerperale ha una temporalità di esordio specifico, generalmente entro le quattro settimane dal parto (Di Florio et al, 2013), anche se può esordire tardivamente anche nelle settimane successive.

Il quadro clinico può essere altamente mutevole, grave e presentarsi subdolo all’osservazione, e anche per questo motivo è essenziale non sottovalutarne i segnali sospetti.

La psicosi puerperale è un disturbo raro nella popolazione generale, con una stima all’incirca di uno/due parti su mille (Di Florio, Smith e Jones, 2013), anche se tali stime possono essere inficiate da diagnosi differenziali non corrette. Infatti, la psicosi puerperale non va confusa con il disturbo bipolare, con la depressione post-partum, con la schizofrenia.

L’eziologia della psicosi puerperale

I fattori eziopatogenetici fanno riferimento a fattori genetici, fattori ostetrici, fattori ormonali, deprivazione di sonno e fattori psicosociali, anche se la ricerca presenta ancora molto da approfondire in termini eziologici in relazione a tale disturbo.

 Tra i fattori genetici, un elemento di vulnerabilità può essere la diagnosi di disturbo bipolare, anamnesi positiva per disturbi psichiatrici e familiarità per disturbi psichiatrici; alcuni studi genetici identificano possibili geni candidati. Tuttavia va sottolineato che per la metà delle donne con diagnosi di psicosi puerperale si presenta una anamnesi psichiatrica muta. Riguardo ai fattori ostetrici, la letteratura sembra coerente nell’indicare l’essere primipare come fattore rischio di carattere ostetrico. È inoltre possibile che una maggiore suscettibilità ai significativi sbalzi ormonali possa essere un fattore di rischio; anche la carenza di sonno può essere un fattore di vulnerabilità significativo da considerare. A differenza della depressione post-partum, i fattori psicosociali sembrano giocare un ruolo minoritario nell’esordio della psicosi puerperale.

Diagnosi differenziale della psicosi puerperale

È importante che la psicosi post-partum non venga confusa con la depressione post-partum e con altri disturbi psichici perinatali, per questo è fondamentale rivolgersi ad operatori specialistici della salute mentale per poter chiedere aiuto e procedere a una diagnosi e trattamento tempestivo.

In una review sistematica Dolman, Jones e Howard (2013) hanno identificato alcuni temi caratterizzanti il vissuto delle madri che presentano diagnosi di disturbi psichici gravi, tra i quali emergono: lo stigma, il senso di colpa, l’isolamento, la paura degli effetti della malattia e dei farmaci sul figlio, la perdita della custodia del figlio.

Il trattamento per la psicosi puerperale

Le linee guida internazionali (NICE, 2015) raccomandano la necessità di un ricovero congiunto di madre e figlio in reparti specializzati, le cosiddette “Mother-Baby Units”, che offrono trattamenti multidisciplinari e integrati a livello medico-farmacologico, psicosociale, psicoeducativo e psicoterapico rivolti alla diade in epoca perinatale. In tali reparti specializzati, madre e neonato non vengono separati, ma si lavora in contesto protetto per favorire il mantenimento del rapporto madre-neonato.

Il trattamento farmacologico risulta essenziale e dipende dall’anamnesi psichiatrica personale e familiare della paziente. Se tempestivamente identificata e trattata, la psicosi puerperale ha una prognosi a breve termine generalmente buona. Alcuni studi evidenziano che il 95% dei casi trattati raggiunge una remissione dei sintomi a un anno dall’esordio. Tuttavia, la psicosi puerperale rappresenta uno dei principali fattori di rischio per il suicidio dopo il parto. Per questo motivo, queste donne vanno monitorate attentamente, essendo la patologia a decorso fluttuante.

A lungo termine, uno studio effettuato retrospettivamente ha evidenziato che solo il 58% delle donne con psicosi puerperale affronta una seconda gravidanza; altri studi evidenziano che si può sviluppare un disturbo bipolare ricorrente non legato al periodo perinatale.

 

Diario di una stalker mancata (2022) di Francesca Innocenzi – Recensione

“Diario di una stalker mancata”, edito nel 2022 da Edizioni Progetto Cultura, è un romanzo di Francesca Innocenzi insegnante marchigiana, con un dottorato di ricerca in poesia e cultura greca e latina di età tardoantica, con al suo attivo diverse pubblicazioni. L’Innocenzi è inoltre l’ideatrice e direttrice del premio letterario Paesaggio interiore.

 È l’autrice stessa, nella premessa, a sottolineare che non si tratta di un romanzo autobiografico. L’Innocenzi narra la storia di un amore non ricambiato:

Ci si potrebbe chiedere il motivo per cui la nostra storia meriti di essere raccontata, dato che non è stata una storia… La realtà dei fatti, certo, è elementare: io ti ho amato, tu non mi hai amata.

La protagonista del romanzo scrive del suo amore infelice, di come è stata respinta e accusata di essere una stalker. Per chi legge è difficile comprendere se ciò che narra è realmente accaduto o se si tratta di qualcosa presente soltanto nella sua psiche. Una cosa è chiara, ella utilizza la narrazione come una cura:

Sto portando avanti questo strano diario così, giorno dopo giorno, con gli stessi effetti di una cura palliativa: il male resta, il dolore non svanisce, però, almeno, riesco a non cercarti.

 L’Innocenzi con questo romanzo usa il pretesto di narrare la storia di una donna che racconta il suo amore e vuole discolparsi dall’accusa di stalking per narrare emozioni, a volte dolorose, quasi intollerabili, altre volte che lasciano trasparire tutta la debolezza della protagonista del romanzo. Infatti, la protagonista di fronte alla minaccia d’abbandono si sente persa, vive una sensazione di annientamento, la sua possibilità di esistere dipende dal poter vivere la relazione con l’altro. L’impressione che ha il lettore è che la protagonista del romanzo dell’Innocenzi sia imprigionata nel suo stesso sentimento e lo scrivere sia la via di fuga da questa prigione. La scrittura può aiutare a confrontarsi con le proprie emozioni anche se dolorose, consente di esplorare il proprio mondo emotivo ed in qualche modo permette di esprimersi senza timori. Lo scrivere può essere un viaggio interiore che permette di costruire il proprio sé, aiuta ad intravedere nuove strade e ad acquisire una nuova consapevolezza. La scrittura spesso aiuta ad entrare nel trauma, ad affrontare i sensi di colpa e ad elaborare i lutti difficili.

In conclusione, il romanzo di Francesca Innocenzi è una testimonianza sull’efficacia della scrittura terapeutica.

 

Come mantenere una vita sociale senza stancarsi

Ti è mai capitato di sentirti completamente prosciugato di energie dopo un’interazione sociale? Scopriamo come mantenere una vita sociale appagante senza sacrificare il nostro benessere mentale ed emotivo.

Introduzione

 Le interazioni sociali svolgono un ruolo fondamentale per il benessere, la felicità e la longevità. Al contrario, la solitudine prolungata e l’isolamento sociale possono avere effetti dannosi sulla salute, equiparabili a fumare 15 sigarette al giorno, accorciando potenzialmente la vita di una persona di 15 anni e aumentando il rischio di malattie cardiovascolari, ictus, disturbi mentali e demenza (Kroll, 2022).

Tuttavia, in un’era digitale caratterizzata da costanti connessioni virtuali e una vita frenetica, se le interazioni sociali diventano troppo intense, possono essere dannose per il nostro benessere. Perciò, è importante imparare a mantenere attiva una vita sociale senza sentirsi esausti per questo.

Vediamo alcuni suggerimenti per gestire le interazioni sociali in modo più sostenibile.

Perché è importante coltivare la vita sociale

Le interazioni sociali ci permettono di condividere esperienze, emozioni e pensieri con gli altri e questo aiuta a sentirci connessi e compresi, riducendo il senso di isolamento e solitudine.

Il contesto sociale offre supporto emotivo: avere una rete sociale solida può aiutarci a superare momenti di difficoltà o sfide personali. Le persone care possono offrire sostegno, incoraggiamento e punti di vista diversi che possono aiutarci a trovare soluzioni.

Inoltre, attraverso le relazioni sociali, possiamo acquisire conoscenze, sviluppare abilità sociali e ampliare la nostra visione del mondo. Ma la vita sociale non si limita solo alle relazioni personali, può estendersi anche ai rapporti professionali. Coltivare una rete di contatti nel campo lavorativo può fornire supporto alla carriera e offrire occasioni di collaborazione e scambio di idee.

La ricerca ha dimostrato che una vita sociale attiva è correlata a un maggiore benessere mentale ed emotivo, infatti, le interazioni sociali positive possono aumentare i livelli di felicità, ridurre lo stress e migliorare la nostra salute psicologica complessiva.

Coltivare la vita sociale è importante perché ci permette di connetterci con gli altri, trovare sostegno emotivo, migliorare il nostro benessere mentale ed emotivo, crescere come individui, creare opportunità professionali e promuovere una migliore salute generale.

D’altronde come già ci diceva Aristotele nel IV secolo a.C.: “l’uomo è un animale sociale”. Quindi lo stare in società con altri individui comporta una serie di vantaggi, oltre al fatto che tendiamo a questo per natura.

…Ma a quale costo?

Perché la vita sociale è stancante?

 Le interazioni sociali possono essere divertenti ed edificanti, ma per alcuni di noi possono comportare un notevole esaurimento di energie personali. La dottoressa Neo (2023) ha individuato alcuni motivi per cui le interazioni sociali di oggi possono essere stancanti.

  • L’essere costantemente connessi. Viviamo in un’era in cui siamo costantemente connessi attraverso i social media, le telefonate, i messaggi e le e-mail. Questo costante flusso di comunicazione può essere estenuante, impedendoci di riposare adeguatamente e di essere pronti per interazioni di qualità.
  • Il ritmo sociale individuale. Ognuno di noi ha un ritmo sociale diverso. Alcuni di noi possono sostenere lunghi periodi di interazione, mentre altri hanno bisogno di pause frequenti. Non riconoscere e non rispettare il proprio ritmo sociale può portare a sentirsi stanchi durante o dopo aver passato del tempo con i propri amici.
  • L’essere introversi e mascherarsi da estroversi. Spesso ci sforziamo di conformarci agli stereotipi sociali, ma se siamo più introversi che estroversi, questo può richiedere un notevole sforzo. L’energia necessaria per comportarsi da estroversi nel contesto sociale può lasciarci esausti.
  • L’eccessivo ascolto o risoluzione dei problemi altrui. Alcune persone sono naturalmente inclini ad ascoltare gli altri e aiutarli attivamente per risolvere i loro problemi. Questo può essere emotivamente gravoso, poiché si tende a caricarsi del peso delle preoccupazioni degli altri, senza un adeguato supporto per sè stessi.
  • Non sopportare una persona che si frequenta. A volte ci ritroviamo ad interagire con persone che ci causano frustrazione o risentimento. Questo può essere dovuto a comportamenti negativi o al fatto di non poter stabilire confini chiari. L’energia spesa per sopportare tali interazioni può prosciugare le nostre energie rapidamente.
  • Altre sfide personali. Problemi di salute, periodi stressanti o difficoltà emotive possono influire sulla nostra capacità di socializzare senza stancarci. È importante riconoscere questi momenti e prendersi cura di sé stessi prima e durante le interazioni sociali.
  • L’impegno eccessivo sui social media. La pressione di documentare ogni momento della nostra vita sui social media può essere estenuante. Sentiamo il bisogno di stare al passo con tutto e tutti, il che può richiedere un’enorme quantità di energia.

Come preservare l’energia nelle interazioni sociali

Individuare e accettare i motivi per cui ognuno di noi può sentirsi prosciugato di energie nel mantenere attiva la propria vita sociale è il primo passo per trovare un equilibrio sano nelle interazioni sociali e preservare l’energia.

L’autrice Neo (2023) propone alcune strategie per recuperare l’energia e mantenere un sano equilibrio.

  • Identificare il proprio ritmo sociale e stabilire tempi di riposo. Dopo interazioni sociali intense, può essere utile concedersi del tempo per riposare e rigenerarsi. Trovare dei momenti per stare da soli, in cui poter ricaricare le energie e dedicarsi ad attività rilassanti che ci rigenerano. Riconoscere e rispettare il proprio personale ritmo sociale può aiutare a sentirsi meno stanchi. Inoltre, se si è introversi, non cercare di conformarsi a standard estroversi, bensì accettare e rispettare il proprio bisogno di pause e di momenti di decompressione anche durante le interazioni sociali. Ottimizzare i momenti di socializzazione con piccoli gruppi o interazioni uno-a-uno.
  • Stabilire limiti e confini. Imparare ad affermare i propri bisogni e a stabilire confini chiari, riguardo la quantità di interazioni sociali e le persone con cui si spende il tempo. Non aver paura di dire “no” quando si ha bisogno di tempo per se stessi o quando si sente di non essere in grado di gestire ulteriori interazioni sociali. Chiedere alle persone se desiderano solo essere ascoltate o hanno anche bisogno che si propongano soluzioni alle difficoltà che vengono condivise.
  • Coltivare relazioni significative. Impegnarsi nell’investire il proprio tempo e le proprie risorse nelle relazioni che trasmettono energia positiva. Coltivare legami autentici con persone che ci comprendono e ci supportano, riducendo così lo stress e la stanchezza derivanti da interazioni superficiali o negative.
  • L’autocura. Prendersi cura di se stessi in modo globale, assicurandosi di avere una buona alimentazione, dormire a sufficienza, fare attività fisica e dedicare del tempo a hobby o attività che ci appassionano. Mantenere un buon equilibrio tra lavoro, riposo e socializzazione è essenziale per recuperare l’energia.
  • Essere consapevoli. Essere consapevoli delle proprie emozioni e dei segnali che il corpo invia. Se si percepisce stanchezza dopo un’interazione sociale, può essere utile ascoltare il proprio corpo e prendere le misure necessarie per recuperare l’energia.
  • Limitare l’uso dei social media. Ridurre il tempo trascorso sui social media e creare momenti senza tecnologia, concentrandosi sulle interazioni faccia a faccia e sulla connessione reale con gli altri, piuttosto che sull’interazione virtuale. Ridurre le notifiche non necessarie sui dispositivi, per esempio impostando la modalità “non disturbare” e stabilendo eccezioni per persone importanti.
  • Pianificare attentamente le interazioni sociali. Creare equilibrio tra interazioni con persone vicine e nuove amicizie. Considerare il proprio calendario con impegni lavorativi e familiari, identificando periodi di maggiore attività o stress nella pianificazione delle attività di interazione sociale.

Con queste strategie è più probabile che le interazioni sociali siano fonte di arricchimento e nutrimento, anziché di esaurimento delle energie.

Conclusione

Le interazioni sociali sono fondamentali per il nostro benessere psicofisico, offrendo uno spazio di condivisione di esperienze, di supporto emotivo, di crescita personale e professionale. Tutto questo, però, può essere stancante. Tuttavia, è possibile mantenere una vita sociale appagante senza sacrificare il nostro benessere mentale ed emotivo. Per farlo è importante essere consapevoli dei motivi per cui le interazioni sociali possono prosciugare le nostre energie e adottare strategie per recuperarle. L’obiettivo finale è rendere le interazioni sociali fonte di energia positiva anziché di stanchezza e trovare un equilibrio personale nel connettersi con gli altri.

I soldi fanno la felicità? Un breve excursus sulla relazione tra ricchezza e benessere

Stando a quanto riportato dalla letteratura scientifica, un reddito (income) elevato, quindi una maggiore ricchezza, predice livelli elevati di felicità, ma con un’utilità marginale decrescente (Dolan et al., 2008).

Ricchezza e felicità nel senso comune

 Ricchezza è sinonimo di felicità? La risposta a questa domanda ha implicazioni non solo sulle modalità con cui il singolo individuo conduce la propria esistenza, ma anche sulle strutture attorno alle quali intere società vengono organizzate. Nel senso comune, si presume che un reddito maggiore porti con sé una maggior felicità, qui intesa in senso lato come l’accumulo di sentimenti edonici, pur riconoscendo l’esistenza di costrutti similari, quali la soddisfazione e l’eudaimonia (Angner, 2010; Dolan e Kudrna, 2016). Non è un caso che in gran parte delle società contemporanee, la ricchezza venga incoraggiata e valorizzata, mentre la povertà rappresenti un motivo di esclusione, stigmatizzazione e discriminazione. Un reddito individuale elevato offre a chi lo possiede maggiori opportunità di consumo e quindi un numero più alto di occasioni in cui poter soddisfare le proprie preferenze e i propri desideri, fino a ottenere di più di ciò che si desidera o di quanto si ha effettivamente bisogno (Harsanyi, 1997; Nussbaum, 2008); aspetto della vita che risulta invece precluso ai meno abbienti. Per questa ragione si presume che un reddito maggiore si associ a maggiori livelli di felicità e, viceversa, che un reddito minore si associ a minori livelli di felicità. Ma questo è stato dimostrato in termini empirici? Cosa dice la scienza in merito?

Evidenze empiriche sulla relazione tra ricchezza e felicità

Stando a quanto riportato dalla letteratura scientifica, un reddito (income) elevato predice livelli elevati di felicità, ma con un’utilità marginale decrescente (Dolan et al., 2008), cioè le variabili reddito e felicità sono maggiormente associate tra loro se rilevate in un campione avente un reddito basso, mentre risultano minormente associate tra loro se rilevate in un campione avente un reddito elevato (Layard et al., 2008). Tuttavia, è necessario tenere a mente che la relazione tra reddito e felicità dipende fortemente dal modo in cui la felicità viene concettualizzata e misurata. A tal proposito, il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman (2004) ha dimostrato che il possesso di un reddito elevato si associava ad una migliore valutazione complessiva della vita, ma non a livelli più elevati di benessere emotivo. Questa relazione appariva statisticamente significativa solo per quei residenti negli Stati Uniti d’America aventi un reddito annuo inferiore ai 75’000 $. Al contrario, coloro che possedevano un reddito annuo superiore ai 75’000 $ mostravano sì una miglior valutazione complessiva della propria vita, ma non un maggior benessere emotivo (Kahneman & Deaton, 2010). A livello statistico, si era verificato un mero effetto tetto, si è giunti a un punto in cui la variabile indipendente, il reddito annuo, non produceva più alcun effetto sulla variabile dipendente, la felicità.

 Tuttavia, in una ricerca successiva, Killingsworth (2021) ha dimostrato come ricchezza e felicità fossero significativamente associate non solo in soggetti aventi un reddito annuo inferiore a 75’000 $, ma anche in individui con reddito annuo maggiore di 75’000 $. Interessanti sono infine i risultati ottenuti da Jebb et al. (2018), i quali hanno osservato il medesimo effetto tetto riscontrato da Kahneman & Deaton (2010) anche in altri paesi, tra cui Australia, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia, Danimarca e Finlandia. In aggiunta, Jebb et al. (2018) hanno evidenziato persino alcuni “punti di svolta” (“turning points”), in cui le persone più ricche arrivavano a valutare la propria vita in maniera peggiore rispetto ai meno abbienti. Questi risultati contrastanti potrebbero essere frutto delle diverse modalità di analisi dei dati impiegate nei vari studi, ma la relazione tra ricchezza e felicità resta comunque un tema degno di ulteriori approfondimenti.

Delay discounting e felicità: una prospettiva futura per la ricerca

Premesso che ricchezza e felicità siano positivamente associate, è lecito chiedersi se esistano delle variabili, o meglio dei meccanismi, che contribuiscono ad alterare la natura di questa relazione. Il delay discounting può essere senz’altro uno di essi. Si tratta di una funzione cognitiva tale per cui il valore che un individuo fornisce ad una ricompensa, per esempio a una certa quantità di denaro, tenda a decrescere progressivamente nel corso del tempo (Odum, 2011). Questo fenomeno è stato osservato sia nell’essere umano che in svariate specie animali ed è stato dimostrato che in esso siano coinvolti molteplici circuiti cerebrali, soprattutto a livello della corteccia prefrontale (Frost, 2017; Moro et al., 2023). La ricerca ha messo in luce come una rapida svalutazione della ricompensa si associ a una cattiva gestione finanziaria, nonché a dei livelli inferiori di benessere emotivo (Hamilton & Potenza, 2012; Kennedy, 2020). Per questa ragione è possibile ipotizzare che il delay discounting rappresenti un mediatore della relazione tra reddito e felicità, anche se ciò resta da ancora dimostrare.

Il concorso “Un contributo per il diritto alla salute psicologica” indetto da Psicoterapia Aperta

Si è chiuso il 15 giugno 2023, la prima edizione del premio “Un contributo per il diritto alla salute psicologica” indetto da Psicoterapia Aperta e riservato agli oltre 1000 iscritti al portale.

Introduzione a cura di Luigi D’Elia

 Ringraziamo tutti i colleghi che hanno preso parte a questa Prima Edizione del Premio, sia in qualità di partecipanti sia come membri della Commissione esaminatrice dei lavori giunti.

L’intenzione è quella di riproporre questo Premio anche l’anno prossimo, perché diventi un appuntamento annuale fisso in cui darci un tempo ed uno spazio per rileggere, ricostruire, promuovere e diffondere insieme una cultura che tenga conto della funzione sociale della nostra professione e riconosca la salute mentale come un diritto e un “bene” comune.

Vincono 700 € per questa prima edizione: Michela Bianchini e Sabrina Melani con l’articolo: “Il mezzo telematico ai tempi della permacrisi: nuove chiavi di lettura e proposte per una migliore fruibilità della psicologia e psicoterapia”.

 

Vi proponiamo la lettura dell’articolo vincitore:

Il mezzo telematico ai tempi della permacrisi: nuove chiavi di lettura e proposte per una migliore fruibilità della psicologia e psicoterapia

di Sabrina Melani e Michela Bianchini

Nel Febbraio 2020 l’Italia si è trovata ad essere il Paese occidentale più colpito dalla pandemia da Sars-Cov-19 e a dover affrontare nuove sfide per arginare i contagi e salvaguardare la salute pubblica.

In questo scenario, il Governo Italiano ha attuato misure drastiche, come il lock down esteso a tutto il territorio. Ciò ha portato ad un isolamento fisico e sociale il quale ha influito indubbiamente sul benessere psicologico della popolazione.

La pandemia, infatti, rappresenta un fattore di stress psicosociale complesso e con diverse sfaccettature. Il nostro Paese non aveva le risorse adeguate per una risposta medica ottimale all’emergenza, con conseguente sovraccarico dell’organizzazione della Sanità pubblica. Inoltre, le ripercussioni sul piano economico e finanziario sono ancora tangibili, a distanza di tre anni dall’inizio della diffusione del virus.

Secondo uno studio condotto da dieci Università italiane in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità su un ampio campione di popolazione (Fiorillo et al., 2020), le misure di contenimento hanno influenzato in modo significativo la salute mentale e il benessere della popolazione generale, come dimostrato dai maggiori livelli dei sintomi di ansia, depressione, stress e ideazione suicidaria registrati.

La diffusione di tali effetti sulla salute mentale sta causando quella che viene definita una “seconda ondata di pandemie” (Fiorillo et al., 2020; Cuomo et al., 2020).

“Dalle sedute in presenza al mezzo telematico”

Le restrizioni hanno, inoltre, ridisegnato la fruibilità dei servizi di salute mentale pubblici e privati, costringendo i professionisti a fornire sedute in presenza solo in casi di emergenza e affidandosi per il resto dei casi all’utilizzo di modalità telematiche. Diversi studi (Boldrini et al., 2020; Tomaino et al., 2023) hanno indagato i punti di forza e le problematiche dei percorsi di psicologia e psicoterapia online.

Le sole linee guida disponibili del CNOP risalivano al 2017 (Documento sulle Raccomandazioni sulla Telepsicologia) e risultavano estremamente generiche. Pertanto, i professionisti si sono trovati a ristrutturare in brevissimo tempo il loro lavoro in funzione del mezzo telematico.

Rispetto alle criticità gli psicologi e gli psicoterapeuti hanno riportato diversi punti. Molti di loro, che prima di questo evento non erano avvezzi a queste modalità, si sono trovati impreparati a gestire il passaggio dal face-to-face all’online, sia dal punto di vista metodologico sia tecnologico. I partecipanti allo studio condotto da Tomaino e collaboratori (2023), infatti, hanno messo in evidenza il bisogno di uno strumento digitale che possa garantire standard di privacy e sicurezza e che sia di facile accesso e utilizzo sia per i professionisti sia per i pazienti, preferibilmente raccomandato dal CNOP.

Tuttavia, nonostante ad oggi non sia disponibile tale strumento, dallo studio emerge che i professionisti, in seguito alla pandemia, si sentono più abili nell’utilizzare gli strumenti digitali e che sono più propensi ad utilizzarli in futuro nella loro pratica clinica, nonostante la preferenza rimanga quella per la modalità in presenza.

La pandemia, pertanto, si prospetta come un’occasione per permettere alla pratica clinica di fare un passo in avanti verso l’utilizzo delle tecnologie, salto che altrimenti avrebbe impiegato molto più tempo ad attuarsi. Infatti, come viene evidenziato da Tullio e colleghi (2020), questo cambiamento, anche durante la pandemia, non si è verificato subito: all’inizio i pazienti preferivano rimandare le sedute in presenza, tuttavia, poiché la situazione pandemica si prolungava, si è passati all’alternativa
online.

Questo cambiamento di setting ha determinato delle difficoltà anche da parte del terapeuta, poiché, indubbiamente, la relazione cambia (il linguaggio non verbale è meno accurato, ad esempio), senza contare di altri problemi riguardanti la privacy, la sicurezza, il consenso informato e i problemi di connessione legali alle modalità online.

In definitiva, da questi studi si può evincere che la pandemia ha messo in evidenza vari problemi ancora da risolvere; tuttavia essa stessa è stata anche motivo di presa di coscienza di queste mancanze ed ha permesso di far avanzare in maniera più consistente l’alternativa della pratica online.

Se durante la pandemia, data la situazione di emergenza, i tempi ristretti e la necessità impellente a farne uso, non c’è stato modo di valutare e organizzare in maniera ottimale l’alternativa di sostegno psicologico e psicoterapia a distanza, ora è il momento di fare un bilancio degli aspetti positivi e negativi riscontrati per poter realizzare un accurato sistema psicologico e psicoterapeutico telematico.

“Il Bonus Psicologico: punti di forza e criticità”

Gli ultimi quattro anni ci hanno visto protagonisti non solo di una pandemia, ma anche dello scoppio di una guerra alle porte dell’Europa, di problemi economici e sociali e dell’emergenza climatica: pertanto questo periodo è stato definito di “permacrisi” ovvero di crisi permanente.

In risposta a ciò, il CNOP ha lavorato con le forze politiche affinché si istituisse il cosiddetto “Bonus Psicologico”, con l’obiettivo di consentire ai cittadini che ne fanno richiesta di usufruire di un contributo fino ad un massimo di 600 euro per sostenere le spese di un intervento psicoterapeutico a livello privato.

 Indubbiamente, come anche riportato dal CNOP, la misura è stata un’apertura verso la consapevolezza sull’importanza del benessere psicologico. Tuttavia, i fondi stanziati per l’iniziativa, circa 10 milioni di euro più altri 10 per rafforzare i servizi pubblici, ed il requisito dell’ISEE inferiore a 50.000€, hanno da subito messo in evidenza la prima criticità del bonus, ovvero la copertura per un numero esiguo di cittadini (circa 16.000 su una popolazione di 60 milioni). Inoltre, si sono riscontrate non poche difficoltà, sia da parte dei cittadini che dei professionisti aderenti, nell’accreditarsi tramite il portale INPS dedicato per la richiesta del bonus. Allo stato attuale, la misura è stata mantenuta e rifinanziata per l’anno 2023 e 2024, con una drastica riduzione dei fondi (5 milioni per il 2023 e 8 milioni per il 2024). In conclusione, nonostante l’istituzione del Bonus Psicologico e la sua conversione a fondo strutturale sia un segnale di attenzione verso la salute psicologica dei cittadini italiani, i suoi limiti lo rendono una misura non abbastanza efficace per far fronte a quella che è realmente la richiesta.

“Psicoterapia Aperta: il portale a portata di tutti”

Nata nel 2018 dall’idea di Luigi D’Elia, Psicologo e Psicoterapeuta, insieme ad un comitato promotore, Psicoterapia Aperta è un progetto di rete che mette in connessione professionisti da ogni parte d’Italia che scelgono di dedicare una parte del loro tempo a sedute di sostegno psicologico e psicoterapia a tariffe calmierate a chi, per motivi economici, non può intraprendere tali percorsi.

Negli anni, la rete di Psicoterapia Aperta si è espansa, con l’attuale adesione di circa 988 Psicologi, 3061 percorsi terapeutici lowcost offerti ai cittadini e 374 città o paesi in cui è presente la rete di professionisti.

La spinta a creare questo network di psicologi e psicoterapeuti che mettono a disposizione parte del loro tempo per proporre colloqui a tariffe sociali nasce dalla crescente domanda di assistenza psicologica in contrasto con la realtà disponibile nel pubblico e l’inaccessibilità a livello economico per molti del privato.

Se si pensa che, in media, una seduta di un’ora va dai 60 ai 100€, è indubbio che persone con difficoltà economiche, studenti, disoccupati o con lavori precari non possono permettersi di affrontare tale spesa e quindi si sentono esclusi da quello che dovrebbe essere un diritto di tutti, il diritto al benessere psicologico e alla salute mentale.

Grazie a questo portale, il cittadino può effettuare la ricerca di un professionista aderente nella propria zona attraverso una mappa e contattarlo direttamente. Le sedute possono essere svolte sia in presenza sia online: questa è un’ottima agevolazione dato che la rete, nonostante sia in continua espansione, non copre l’intero territorio italiano, pertanto il cittadino non si vede costretto a rinunciare al servizio qualora attraverso la ricerca non trovi un professionista vicino a sé.

Rispetto ad altri portali che offrono terapie low cost, Psicoterapia Aperta si distingue in quanto è il cittadino stesso che sceglie il Professionista a cui rivolgersi, senza filtri; inoltre, l’adesione da parte degli Psicologi e Psicoterapeuti al progetto è totalmente gratuita e preceduta dalla condivisione della carta di intenti che rende Psicoterapia Aperta una realtà seria, attenta alla deontologia e all’etica della professione e non un portale di procacciamento.

La crescita di Psicoterapia Aperta durante questi anni difficili denota il grande bisogno da parte della popolazione di cercare percorsi alternativi per poter usufruire di assistenza psicologica e, allo stesso tempo, la capacità della categoria di Psicologi e Psicoterapeuti in libera professione di mettersi al servizio di questa richiesta crescente, senza sminuire il proprio operato ma offrendo un servizio trasparente e di qualità.

“Psicologia e Psicoterapia in Italia: proposte per il futuro”

Per il futuro, possiamo immaginare una proposta psicologica e psicoterapica online come opzione sempre disponibile sia per i pazienti sia per i professionisti.

Si può auspicare che i professionisti vengano formati sulle normative e sulle funzionalità dello spazio telematico, con linee guida più dettagliate e pratiche, e che venga messa a disposizione una piattaforma ufficiale che possa rimediare ai vari problemi di accessibilità e di privacy che troviamo al giorno d’oggi. Questo potrà garantire una maggiore accessibilità e una maggiore fruibilità dei servizi psicologici e psicoterapici, non solo nel privato ma anche nel pubblico. Infatti, la realizzazione di una piattaforma interamente dedicata alla fruizione delle sedute di psicologia e psicoterapia online promossa dall’Ordine degli Psicologi farà sì che i cittadini possano richiedere una consulenza tramite il SSN presentando apposita ricetta del MMG o ad un libero professionista e, laddove idonei, usufruire del bonus psicologico.

Se la versione telematica venisse integrata nel SSN, come per la figura dello psicologo di base, ma anche nei servizi ospedalieri ambulatoriali, permetterebbe un accesso molto più ampio e diffuso.

Considerando che gli spazi ospedalieri non sono sempre disponibili o ampi, si potrebbero prevedere più colloqui in contemporanea da parti diverse e così ridurre i tempi di attesa e aumentare l’efficienza del servizio stesso.

Se si estende lo sguardo anche alla realtà scolastica, il fatto di integrare lo psicologo dando la possibilità di impostare uno sportello online, potrebbe rendere più accessibile il servizio per i ragazzi, esperti di tecnologie e potrebbero andare oltre le barriere sociali di presentarsi di persona dallo psicologo o psicoterapeuta.

L’utilizzo della modalità online, permetterebbe anche una maggiore tracciabilità dei pagamenti, come anche una riduzione dei costi del servizio stesso (considerando l’affitto di studi privati), sia a livello privato, sia a livello pubblico.

Il benessere mentale è parte fondamentale della vita delle persone e la pandemia ha messo ben in evidenza quanto sia importante, pertanto, andrebbe sostenuto da fondi più consistenti che permettano una maggior integrazione della figura dello psicologo/psicoterapeuta come parte integrante del SSN e che continui ad essere incentivato attraverso l’istituzione dello psicologo di base a livello nazionale, il bonus psicologico e con la promozione di progetti di rete professionale come quello di Psicoterapia Aperta.

Transizione Digitale e Apprendimento: sfida e opportunità

Il 27 gennaio 2023 è stata organizzata dall’Università degli Studi “Giustino Fortunato”, in collaborazione con la Catholic University of North (Chile), l’UDIMA Online University of Madrid e la SSML Internazionale, la Conferenza Internazionale “Digital Transition: Research & Development”.

Introduzione

 La conferenza è stata una notevole occasione di riflessione multidisciplinare sulla transizione digitale. Il tema è stato letto da diverse prospettive: da quella economica a quella giuridica, da quella sociologica a quella psicologica.

Tra le varie tematiche trattate, particolare rilievo è stato dato anche all’ambito dell’apprendimento in età adulta, in particolar modo quello universitario digitalmente mediato.

I quesiti proposti sono stati i seguenti: apprendimento e transizioni digitali, quali sono gli sviluppi e le potenzialità? Quali invece le sfide e le opportunità?

L’esperienza delle università telematiche suggerisce che le tecnologie digitali non sono un ostacolo al successo accademico e alle interazioni formative digitalmente mediate. Tutt’altro: possono costituirsi come opportunità, per chi, per diverse motivazioni (lavorative, personali, geografiche, familiari) avrebbe difficoltà ad abitare l’organizzazione di un corso universitario erogato in forma esclusivamente presenziale.

Fare didattica a distanza apre a molte opportunità.

Storicamente emblematica è l’esperienza pedagogica di Alberto Manzi: con la trasmissione “Non è mai troppo tardi” (1960-1968), proposta in collaborazione con l’allora Ministero della Pubblica Istruzione. Il pedagogista ha inteso insegnare a leggere e scrivere ai telespettatori italiani fuori età scolare, totalmente o parzialmente analfabeti, utilizzando il medium televisivo (Rai Teche, “Non è mai troppo tardi”).

Un fine nobile: la didattica a distanza, ben fatta, può assumere una profonda valenza anche sociale e culturale.

Tecnologia e didattica a distanza

Oggigiorno, la didattica a distanza può contare sulle potenzialità offerte dalle tecnologie digitali. Le piattaforme e-learning sono ambienti capaci di rievocare le dinamiche formative che avvengono nei contesti presenziali.

Rievocare, ma non replicare, poiché le dinamiche psicosociali che si attivano nei contesti formativi presenziali non sono totalmente sovrapponibili a quelle che si attivano nei contesti blended o squisitamente distanziali.

Questa diversità merita dovuti approfondimenti da parte degli esperti del settore.

Ecco allora una delle sfide attuali della transizione digitale: come possiamo rendere ancora più efficaci quelle proposte formative che usano come mezzo di mediazione anche il canale telematico-digitale?

 Nell’epoca della transizione digitale, le proposte formative telematiche possono essere rese ancora più efficaci valorizzando i processi di self-regulated learning, cioè puntando a rafforzare le capacità degli studenti di costruire apprendimenti autoregolati. Questo approccio mette al centro lo sviluppo delle competenze, nonché la capacità di gestire e controllare attivamente il proprio apprendimento.

Il self-regulated learning, infatti, avviene quando la persona riesce ad attivare, in maniera organizzata ed efficace, tre processi operazionali precisi: la pianificazione, l’esecuzione e la valutazione dell’apprendimento (Zimmerman, 1990, 2011).

Il digitale, in questo settore, interviene proponendosi come opportunità per incentivare e curare questi tre processi, aumentando così la possibilità di successo accademico.

  • Pianificazione: gli studenti possono essere incoraggiati a pianificare il proprio apprendimento, stabilendo obiettivi di apprendimento chiari e realistici. Nel contesto digitale, gli strumenti tecnologici –come i calendari online, le piattaforme di gestione dell’apprendimento e gli strumenti di pianificazione– possono essere utilizzati per aiutare gli studenti a organizzare le proprie attività di studio e a tenere traccia dei propri progressi.
  • Esecuzione: durante l’apprendimento, gli studenti dovrebbero essere responsabili delle loro azioni e attivamente coinvolti nel processo. Nelle proposte formative telematiche, ciò può essere incentivato fornendo agli studenti una certa autonomia nella scelta dei materiali e delle risorse di apprendimento, incoraggiandoli a prendere decisioni informate sulle strategie di studio e a monitorare il proprio progresso. Gli insegnanti e i tutor possono fornire linee guida e supporto personalizzato attraverso la comunicazione online, come discussioni virtuali o sessioni di tutoraggio individuale.
  • Valutazione: gli studenti dovrebbero essere coinvolti attivamente nella valutazione del proprio apprendimento. Oltre alla valutazione tradizionale, le proposte formative telematiche possono sfruttare gli strumenti digitali per incoraggiare la riflessione metacognitiva e l’autovalutazione degli studenti. Ad esempio, i quiz online, le attività interattive e le restituzioni di attività didattiche costituiscono occasioni propizie per gli studenti attraverso cui monitorare i propri progressi e identificare i margini di miglioramento.

Attraverso queste soluzioni, gli studenti possono imparare a gestire in maniera efficace il tempo a disposizione, sviluppando così una maggiore consapevolezza delle proprie capacità di apprendimento. Non bisogna poi dimenticare che fare esperienza di questi strumenti significa anche apprendere l’utilizzo produttivo e flessibile delle diverse risorse digitali, quale know how prezioso, se non imprescindibile, nei successivi contesti lavorativi.

Il self regulated learning

Il self-regulated learning favorisce inoltre la motivazione intrinseca: imparare a gestire autonomamente il proprio studio equivale a sentirsi protagonisti ed autori del proprio processo di apprendimento.

Un e-learning ben strutturato, inoltre, include anche la possibilità di vivere socialmente la comunità universitaria di appartenenza.

Del resto, le interazioni sociali tra pari sono predittori di successo accademico, nonché promotori di apprendimenti autoregolati: anche questi processi possono essere attivati dalle piattaforme e-learning (Ouyang & Chang, 2018; Khurshid, 2020). La predisposizione di forum didattici in cui sono proposte attività da svolgersi in maniera cooperativa (basti pensare alle ricerche di gruppo) possono favorire scambi costruttivi tra pari anche da remoto, abbattendo costi e distanze, consentendo così la restituzione di conoscenze e saperi socialmente costruiti.

Questi spunti comprovano chiaramente come i cambiamenti innescati dalla transizione digitale investano ogni campo dell’esperienza umana, in primo luogo quella formativa ed universitaria. Nell’epoca dell’accelerazione digitale dell’accesso, possesso e scambio delle informazioni, in cui i sistemi formativi sono stimolati a ripensare le proprie prassi e le proprie proposte alla luce delle esigenze diffuse, sempre nuove e diverse, diventa sempre più cruciale capire come favorire i processi di apprendimento attraverso un utilizzo sapiente delle nuove tecnologie.

Guardiani della Galassia vol.3 – il legame inscindibile tra senso di appartenenza e separazione

Il legame e l’inscindibilità tra il senso di appartenenza e la possibilità di separarsi viene affrontato nel terzo capitolo di “Guardiani della Galassia” a tre livelli: individuale, di coppia e nel gruppo.

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

 I film Marvel nel tempo sembrano impegnarsi a trasmettere sempre di più dei significati profondi e ricchi di risvolti psicologici. L’ultimo di questi, uscito al cinema da poco (Maggio 2023), è il terzo episodio di “Guardiani della Galassia”.

Il tema principale che emerge dal film è il legame inscindibile tra il senso di appartenenza e la possibilità di separarsi, da cui deriva la scoperta e l’accettazione di sé e dell’altro. La maggior parte del film è incentrata sulla vita di Rocket e sul tentativo –e la riuscita– del resto del gruppo di salvarlo, ma anche le storie che appaiono più di contorno all’episodio, come quella tra Peter Quill e Gamora, e la storia del gruppo stesso, sembrano evidenziare il tema separazione/appartenenza.

La realtà da cui proviene Rocket è caratterizzata da estremo dolore e violenza e contemporaneamente dalla condivisione di questo dolore e della speranza con il primo gruppo di amici incontrato nel suo percorso. Proprio questa condivisione lo fa sentire parte di qualcosa e gli dà la forza di prendersi la responsabilità di quello di cui ha bisogno, di tentare laddove l’ignoto spaventa, di provare a salvarsi in un contesto da cui è difficile scappare.

L’antagonista principale dell’episodio è l’Alto Evoluzionario, che fa esperimenti sugli animali, poi anche sui bambini, deformandoli, con il fine di ottenere una realtà perfetta di cui lui è il creatore. La figura dell’Alto Evoluzionario assomiglia a quella di un padre dai tratti psicotici che usa il controllo e la violenza sui figli credendoli di sua proprietà, con la convinzione insana, come lui stesso afferma, di esserne il “creatore”.

Rocket assume le caratteristiche di figlio per l’Alto Evoluzionario e di fratello per gli altri animali costretti nelle gabbie. Facendo leva proprio sul senso di appartenenza alla fratrìa e sulle sue peculiarità individuali, riesce a ribellarsi provando a salvare se stesso e gli altri. Il sacrificio non voluto per la sua ribellione è la morte dei fratelli per mano dell’Alto Evoluzionario, fratelli che muoiono fisicamente ma il cui legame resta dentro di lui e che gli dà la forza per scappare definitivamente.

Portandosi dentro il forte legame col primo gruppo di appartenenza, ovvero la sua famiglia d’origine, e potendosi separare da questo alla ricerca di una propria identità, Rocket riesce a costruire insieme ai protagonisti il gruppo che conosciamo come “Guardiani della Galassia”.

La ricerca della propria identità e l’accettazione dell’altro come diverso da sé emerge preponderante in questo episodio nella dinamica di gruppo dei Guardiani e nella relazione tra Quill e Gamora. Quill infatti per tutta la durata del film ripete a Gamora che in un altro tempo loro si sono amati e che lei era diversa da com’è ora. È fondamentale un passaggio dove i due litigano e Gamora gli dice che probabilmente lui sente il bisogno che sia lei a cambiare per non guardare le proprie difficoltà interiori.

 Al termine del film lei torna con la squadra dei Ravagers (dove Quill è cresciuto e da cui si è separato) e lui le rimanda che lei è bella così com’è e non deve cambiare. Questo passaggio è molto importante perché Quill sembra capire che appartiene a quel legame e, elaborando che la lontananza fisica non scioglie la relazione, può accettare Gamora per quello che è, non forzandola ad essere quello che vorrebbe che fosse.

Il senso di appartenenza, la possibilità di separarsi e l’accettazione dell’altro per quello che è permettono a Quill di incuriosirsi rispetto a sé stesso e di scegliere di non rimanere ancorato al gruppo dei Guardiani per la paura di perderli. Forte dell’appartenenza al gruppo, decide di partire alla ricerca delle proprie origini. Così ogni elemento del sistema si deve reinventare.

Mantis decide, come il fratello Peter, di muoversi alla ricerca di sé, Nebula e Drax di rimanere su Knowhere per guidare la comunità rinnovata e infine Rocket e Groot si ritrovano a condurre il nuovo gruppo di “Guardiani della Galassia”.

L’insegnamento principale del film è che i legami, una volta formati, non possono essere spezzati, ma che da essi si può scegliere di entrare ed uscire solo se si è consapevoli di appartenervi. Possiamo separarci perché sappiamo di poter tornare. La relazione può rinnovarsi, può mutare, ma resta. Whitaker disse che ci si può separare perché si appartiene e si può appartenere perché ci si separa. La separazione permette la scoperta di sé e dell’altro e l’accettazione di entrambi, arricchisce il legame, fortificando il senso di appartenenza.

Come mettere a tacere il nostro critico interiore

Siamo spesso i peggiori giudici di noi stessi. Anche se i pensieri autocritici ci mantengono ingannevolmente al sicuro, possono diventare una dannosa abitudine. Tre frasi possono aiutarci a ristrutturare funzionalmente questi pensieri e l’autocompassione può essere uno stimolo alla produzione di pensieri positivi.

I pensieri autocritici: come si esprimono?

 Se ci fermiamo un momento a pensare al modo in cui ci parliamo ogni giorno, ci accorgeremo di quanto poco gentile e indulgente sia il nostro dialogo interiore. Quando i commenti negativi che ci rivolgiamo affollano la nostra mente con una certa frequenza e ricorrenza, si può parlare di tendenza all’autocritica.

Tale concetto è definito in svariati modi dalle diverse tradizioni psicologiche e psicoterapeutiche. Le terapie psicodinamiche lo concettualizzano come l’interiorizzazione di una prospettiva critica appresa nella prima infanzia o come un meccanismo di difesa utile a scongiurare un rifiuto anticipato (Blatt, 1995). L’approccio cognitivo-comportamentale lo definisce come un comportamento eccessivamente autocritico fatto di pensieri automatici negativi rivolti al Sé, come conseguenza di uno schema interpersonale distorto e maladattivo (Beck et al., 1979).

In fondo, ciò che accomuna entrambe le definizioni è che il critico interiore viene identificato in un assetto di insoddisfazione che la persona rivolge ad aspetti di sé e che si esemplifica nei seguenti elementi:

  • Costante e severo autocontrollo;
  • Valutazioni eccessivamente critiche del proprio comportamento;
  • Incapacità di trarre soddisfazione da prestazioni di successo;
  • Continua preoccupazione per gli errori;
  • Reazioni negative ai fallimenti percepiti, in termini di autolesionismo od ostilità eterodiretta.

Come spiegato dalla psicologa Dober, si tratta di un’abitudine all’autovalutazione negativa che, nella maggior parte dei casi, si traduce in sentimenti di inutilità, fallimento e colpa. I pensieri negativi che esprimono questa tendenza potrebbero essere “Non sono abbastanza bravo”, “Sono un perdente”, “Ci sono un sacco di persone migliori di me”, “Non arriverò mai a raggiungere i miei obiettivi”. Sono giudizi crudeli e dolorosi che intaccano il valore personale e che, se diventano abitudine, possono essere veramente dannosi. Numerosi studi testimoniano come l’autocritica sia un importante fattore di rischio nello sviluppo dei disturbi depressivi e di altre forme di disagio psicologico (Blatt, 1995; Freud, 1994; Winnicott, 1965).

Tre frasi per mettere a tacere il nostro critico interiore

Allora come fare a rompere l’abitudine all’autovalutazione negativa?

Un primo passo in questa direzione è sicuramente quello di accorgersi della sua presenza, facendo attenzione alle situazioni esterne o interne che danno inizio alla catena di pensieri autocritici. Il passo forse più importante, però, è quello della ristrutturazione cognitiva, ossia di una messa in dubbio dei nostri pensieri negativi, la cui verità diamo spesso per scontata. La psicologa Dober suggerisce di porsi tre fondamentali domande quando notiamo un pensiero autocritico:

  • Quando ho già sperimentato questa difficoltà? Come ho superato tutto questo? Questi quesiti sono volti a disputare empiricamente la credenza secondo cui la realtà dolorosa è intollerabile, attingendo a prove concrete di esperienze passate in cui la persona ce l’ha fatta.
  • Cosa direbbero di me i miei cari, se parlassi loro di questa situazione? Questa domanda è utile a decentrarsi da una prospettiva autoriferita e negativa.
  • Ciò avrà importanza tra 5 anni? Un esercizio di proiezione nel tempo aiuta a ridurre la catastrofizzazione con cui la persona può interpretare un’avversità presente.

 La consapevolezza maturata dalle risposte a queste domande permette alla persona di fare un passo indietro e analizzare criticamente il contenuto dei suoi pensieri, senza credere immediatamente a ciò che gli stanno dicendo in quel momento. Uno strumento come la mindfulness può essere di grande sostegno in questa direzione: aiutandoci a focalizzare la nostra attenzione sul qui ed ora e ponendoci come osservatori esterni della nostra attività mentale, favorisce la cosiddetta “defusione cognitiva”, ossia la comprensione dell’esistenza di uno spazio fra i nostri pensieri e la realtà.

Il ruolo dell’autocompassione

Capire, riconoscere e mettere in discussione i pensieri autocritici è certamente un buon punto di partenza per migliorare il nostro benessere psicologico, ma la ristrutturazione cognitiva basta a se stessa?

È altrettanto importante sostituire quanto cognitivamente discusso con nuovi pensieri funzionali, che promuovano una condotta più gentile e indulgente nei confronti di sé. A questo proposito, la psicologa Dober sottolinea il ruolo dell’autocompassione nell’allontanarci da un dialogo interiore negativo e stimolare la produzione di pensieri positivi.

L’autocompassione è un atteggiamento relazionale positivo che comporta il trattare se stessi con calore e comprensione in situazioni di vita problematiche, assumendo una posizione non giudicante nei confronti della propria sofferenza emotiva e delle vulnerabilità personali (Neff, 2003). È la capacità di essere ricettivo verso il proprio dolore e, al tempo stesso, disponibile a liberarsi da esso attraverso l’autoaccettazione. Da un punto di vista concettuale, si tratta di un costrutto definito da tre qualità dimensionali che si rafforzano a vicenda:

  • Gentilezza verso se stessi. Si riferisce alla capacità di vedere se stessi con cura, e non con un eccessivo autobiasimo, di fronte a circostanze di vita difficili.
  • Umanità comune. È una visione del mondo che riconosce l’universalità della sofferenza e dell’imperfezione comuni a tutti gli esseri umani, consentendo un atteggiamento non giudicante verso il fallimento e le avversità.
  • Consapevolezza. Riflette la capacità di osservare sentimenti ed eventi spiacevoli nel momento presente, senza evitarli o ruminarli.

Anche se l’autocritica è legata a tutte e tre le dimensioni, dimostra una particolare relazione con la prima. Se giudicare se stessi comporta sofferenza mentale autoinflitta, essere gentili nei propri confronti implica la consapevolezza di potersi meritare amore nonostante i fallimenti, la capacità di essere empatico verso i propri comportamenti, pensieri e sentimenti e, infine, la disponibilità ad essere compassionevolmente consapevoli della propria autocritica (Neff, 2003).

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