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Cosa si intende per catastrofizzazione

La catastrofizzazione è un’attività predittiva negativa focalizzata sulla realtà, ovvero su eventi oggettivamente minacciosi/pericolosi che potrebbero accadere.

 

 Marta è a casa, è alle prese con le valigie per la partenza del giorno dopo. Il suo aereo decollerà nel primo pomeriggio. Pensa alla destinazione, è una vita che sogna quel viaggio a Tokyo. Per arrivarci pensa però dovrà affrontare un volo di più di 12 ore: “Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”, la gioia del viaggio svanisce, lascia il posto all’ansia. Marta sente il suo cuore batterle forte in petto, suda, le manca quasi il fiato. Si chiede se forse non sarebbe meglio rinunciare al viaggio dei suoi sogni. 

Nella storia appena esposta troviamo un esempio di catastrofizzazione. La catastrofizzazione è la tendenza ad anticipare gli eventi futuri attraverso una catena di previsioni negative (“Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”). Essa fa quindi riferimento al prevedere una serie di minacce e pericoli, una sciagura in qualche modo oggettiva.

La catastrofizzazione come credenza irrazionale

Nell’esempio di Marta troviamo:

  • una situazione (A): Marta è a casa, prepara le valigie;
  • un pensiero (B): “Il carburante sarà sufficiente? I piloti non sentiranno la stanchezza di tutte quelle ore? E se l’aereo cade?”;
  • una conseguenza emotiva (C): prova una forte ansia (e forse anche una conseguenza comportamentale se Marta rinuncerà al viaggio)

Secondo l’approccio cognitivo comportamentale, in ognuno di noi, in determinate situazioni, insorgono particolari pensieri, di cui spesso non siamo consapevoli, che possono dar vita a emozioni e comportamenti problematici e fonte di malessere.

In particolare secondo Albert Ellis, uno dei fondatori della terapia cognitiva e il padre della Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), i pensieri possono dividersi in pensieri – o credenze – razionali, chiamati rational beliefs, e pensieri – o credenze- irrazionali chiamati irrational beliefs.

Le credenze irrazionali, secondo la REBT, si possono dividere in quattro categorie:

  • Doverizzazioni o Pretese
  • Valutazione Globale (di Sé, del Mondo e/o degli Altri)
  • Catastrofizzazione
  • Intolleranza alla Frustrazione

Se si fa esperienza di un evento attivante (A) e si dà spazio alla credenza irrazionale (B), questa provoca emozioni disfunzionali (C), come ansia, rabbia, depressione, senso di colpa.

Dunque la catastrofizzazione è una delle credenze irrazionali alla base della sofferenza emotiva, in particolare essa predispone ad emozioni intense di ansia e paura.

Catastrofizzazione e terribilizzazione: quale differenza?

Sebbene si tratti di due termini poco utilizzati nel linguaggio comune, nel linguaggio specialistico catastrofizzazione e terribilizzazione sono spesso usati come sinonimi. In realtà tra loro esiste una differenza che è importante sapere: ciò consente, ai non esperti, di riconoscere meglio il motivo della propria sofferenza e, ai più esperti, di intervenire in modo più efficace con pazienti che presentano questa tipologia di pensieri irrazionali.

 Mentre la catastrofizzazione è un’attività predittiva negativa focalizzata sulla realtà, ovvero su eventi oggettivamente minacciosi/pericolosi che potrebbero accadere, la terribilizzazione si riferisce a una valutazione più soggettiva del pericolo (si etichetta qualcosa in termini assolutamente negativi).

Facciamo un esempio: riferendoci all’episodio di Marta, un aereo che cade è un evento oggettivamente spaventoso/minaccioso (allo stesso modo un incidente, un lutto, un cataclisma, ecc.). Dunque il pensiero “L’aereo potrebbe cadere” è una previsione negativa di una sciagura oggettiva. In questo caso parliamo di catastrofizzazione.

“Sarebbe terribile se venissi lasciata dal mio fidanzato” – La fine di una storia d’amore è un evento spiacevole, molto triste, ma non rappresenta un pericolo. È la persona, in questo caso, a definire ed etichettare come “terribile” un evento non oggettivamente minaccioso e/o pericoloso. Si parla in questo caso di terribilizzazione.

Come rendere la catastrofizzazione “meno catastrofica”?

Abbiamo detto che la catastrofizzazione è una credenza irrazionale alla base della nostra sofferenza emotiva. Quali caratteristiche rendono un pensiero “irrazionale”?

Un pensiero è irrazionale quando non si basa sulla realtà verificabile dei fatti conosciuti. Quindi un pensiero irrazionale implica valutazioni che derivano da premesse non empiriche (non osservabili), ignorando la realtà in favore di ciò che la persona ritiene dovrebbe esistere. Queste valutazioni sono espresse in un linguaggio assolutistico: contengono parole come “mai”, “sempre”, “assolutamente” oppure “devo”, “deve”, “ho bisogno”, che implicano un bisogno incondizionato.

Per gestire la tendenza alla catastrofizzazione è utile:

  • riconoscere il pensiero catastrofico: cosa temiamo in particolare?
  • sottoporre il pensiero catastrofico a un’analisi della sua fondatezza, chiediamoci: in base a cosa pensiamo questo? Quali prove abbiamo che l’evento temuto si verificherà? Quanto è probabile che si verifichi davvero?
  • ricordare che un pensiero non è necessariamente un dato di realtà: il più delle volte le previsioni catastrofiche si presentano sotto forma di immagini che ci spaventano e non riusciamo a distinguere tra pensiero e realtà, ci è sufficiente pensare a qualche guaio per stare male. Ma pensare a un pericolo non corrisponde all’effettiva esistenza del pericolo.

E per la terribilizzazione? Anche in questo caso torna utile:

  • riconoscere il pensiero e riconoscere che siamo noi in realtà ad etichettare come “terribile” qualcosa che oggettivamente non lo è;
  • ricordarsi che definire una cosa come terribile, implica dire che questa è la peggior cosa che possa accadere, a cui non si può porre rimedio. Ma chiediamoci: davvero non c’è rimedio?;
  • comprendere che doloroso non significa terribile: per quanto uno scenario ritenuto terribile possa essere per noi fonte di sofferenza emotiva, queste emozioni dolorose non sono indicative del fatto che l’evento è la cosa peggiore che mi possa accadere (anche se sarò estremamente triste, ci sarà un rimedio);
  • ridefinire l’evento temuto: definire ciò che temiamo come “triste”, “brutto”, “negativo”, anziché come “terribile”. Anche se di poco, questa ridefinizione ci aiuterà a stare lievemente meglio.

Queste indicazioni prendono spunto dagli interventi di disputing utilizzati in terapia, dove vengono condotti ovviamente in modo più preciso, attento e completo rispetto a quanto si possa fare in un articolo. Pertanto vanno lette come dei suggerimenti utili a capire meglio l’irrazionalità di quella catastrofizzazione fonte spesso di preoccupazioni e ansia. Laddove la sofferenza emotiva provata fosse percepita come ingestibile, raccomandiamo sempre di rivolgersi a un professionista della salute mentale.

 

Meme e psicologia culturale: contesti e valori dietro a semplici immagini

I meme che troviamo su Internet sono assimilabili a unità di informazione culturale che vengono trasmesse da una mente all’altra (Iloh, 2021). Essi riflettono contesti e significati specifici, maggiormente percepibili da alcuni e meno percepibili da altri.

La prima definizione di meme

 Mentre in molti tra i più giovani sarebbero certamente in grado di identificare un meme qualora ne scorgessero uno, chiedere a questi ultimi di definirlo si rivelerebbe probabilmente un compito molto più arduo. Nonostante la popolarità dei meme, in realtà si sa sempre meno su cosa siano effettivamente e da dove derivi l’etichetta utilizzata per identificarli (Aslan, 2018). Il termine “meme” risale storicamente ai contributi di Richard Dawkins (1976) che nel saggio intitolato “Il gene egoista” utilizza la parola “meme” come sostitutivo del termine “gene”, in quanto assonanti, allo scopo di riflettere la locomozione e la diffusione di un gene da un organismo all’altro. Dawkins definisce dunque un meme come un’unità di trasmissione culturale o una mera unità di imitazione (2006, p. 192). Stando alla definizione elaborata da Dawkins alcuni esempi di meme potrebbero essere gli slang, ovvero quelle parole che utilizziamo per essere maggiormente espressivi rispetto a quanto potremmo esserlo utilizzando soltanto il gergo comune, oppure le tendenze nel campo della moda, per esempio quella delle chunky sneakers (Johnson, 2007). La popolarità di un meme è ciò che ne garantisce la sopravvivenza. I meme lottano l’uno contro l’altro per attirare l’attenzione degli individui; ciò che li rende “egoisti” è proprio la loro competitività con altri meme dovuta alla lotta per prevalere (Wiggins & Bowers, 2015). Di conseguenza, i meme vivono e muoiono grazie alla cultura e alla società che li adotta o li rifiuta.

I meme di Internet

I meme che troviamo su Internet si ispirano alla natura di quelli individuati da Dawkins, anche se vengono (nell’accezione comune) più spesso considerati come scherzi o battute che guadagnano visibilità attraverso la loro diffusione nel mondo digitale (Marwick, 2013). Invece di mutare in maniera casuale e di diffondersi attraverso una forma di selezione darwiniana come accade per quelli di Dawkins, i meme di internet vengono modificati costantemente e deliberatamente dalla creatività umana (Solon, 2013). Questi ultimi sono pertanto assimilabili a unità di informazione culturale che vengono trasmesse da una mente all’altra (Iloh, 2021). Indubbiamente, i meme di internet sono estremamente eterogenei e in costante evoluzione. Questi ultimi spaziano da un breve testo abbinato a un’immagine, a un’illustrazione, a una gif, a un video, a sequenze di immagini e via dicendo. Un noto esempio è la cosiddetta content image meme composta da una o più immagini con un testo sovrapposto, dove il testo trasmette il contenuto e l’immagine dà il tono (Majumder et al., 2017, p. 2). Questa forma di meme è caratterizzata dalla relativa facilità con cui viene creata o alterata e apre alla possibilità di modificare dei meme esistenti per generarne di nuovi. Tuttavia, è opportuno sottolineare che il solo fatto di unire un testo a un’immagine non è condizione sufficiente per la creazione di un meme. È la trasmissione, la diffusione e, in particolare per i meme di Internet, la rapidità della condivisione a qualificare un contenuto digitale come un meme (Gleik, 2011).

Meme e psicologia culturale

 In psicologia, i meme possono essere intesi come unità e indicatori culturali (Wang & Wang, 2015). In particolare, i meme sono unità che riflettono contesti e significati specifici, maggiormente percepibili da alcuni e meno percepibili da altri. Jackson (2019) e Williams (2020) affermano persino che molte sfaccettature della cultura e dell’estetica popolare contenute nei meme non possano essere comprese senza la conoscenza pregressa del contesto da cui esse derivano. Questa ipotesi si sposa perfettamente con il noto esempio di Geertz (1973), secondo cui un individuo avrebbe bisogno di un più ampio contesto culturale per distinguere un ammiccamento da un semplice battito di ciglia. Allo stesso modo, alcuni conoscono il significato culturale contenuto e riflesso nei meme, mentre altri potrebbero non conoscerlo. Secondo gli psicologi culturali esistono delle caratteristiche specifiche che consentono ai meme di funzionare come delle unità culturali (Dawkins, 1976). Queste ultime includono: la fecondità, la fedeltà e la longevità (Jan, 1999; Marwick, 2013; Percival, 1994; Shifman, 2013, 2014). La fecondità descrive la velocità con cui un meme viene replicato (Jan, 1999). L’immagine del meme di Michael Jordan che piange, per esempio, è stata scattata alla cerimonia di ritiro dell’atleta statunitense ed è stata rapidamente modificata, rendendola virale sui social network. La fedeltà indica invece la riconoscibilità e la capacità di un meme di essere copiato accuratamente (Marwick, 2013; Voelkl & Noë, 2010).

La riproducibilità dello stesso meme di Jordan che piange è favorita dal fatto che esso prenda la forma di uno dei formati di meme più popolari, ovvero la content image meme, consentendo al pubblico di abbinare quella determinata foto ai testi più disparati.

La longevità incarna infine la durata, la persistenza e il progresso di un meme (Voelkl & Noë, 2010). Ancora una volta il meme del pianto di Jordan costituisce un ottimo esempio di questa caratteristica, in quanto esso è stato diffuso dalla cerimonia di ritiro dell’atleta, dove l’immagine ha avuto origine, fino ai giorni nostri. Attualmente, il meme in questione ha più di 12 anni e l’NBA ha persino commemorato il suo 10° anniversario nel 2019 (NBC Sports, 2019). Il meme di Jordan che piange costituisce peraltro un perfetto esempio di alta memorabilità, poiché anche quando l’atleta vi ha fatto riferimento durante il memoriale di Kobe Bryant nel 2020, il pubblico ha capito immediatamente il suo riferimento al meme e ha prontamente accennato una risata. In quell’occasione Jordan disse che le lacrime che stava piangendo per l’amico deceduto sarebbero probabilmente diventate un altro “meme di Jordan che piange”.

In conclusione, grazie alla loro stessa identità e al loro formato, i meme riflettono al meglio la cultura in cui essi vengono prodotti; sono distinguibili, adattabili e duraturi. In quanto tali, i meme hanno il potenziale di amplificare le rappresentazioni dei nostri valori, contesti, comunità e ambienti, incarnando tali dinamiche e offrendo alla ricerca qualitativa un terreno fertile per ulteriori approfondimenti su queste tematiche.

 

Crying Jordan Meme Psicologia

Imm. 1 – Il meme di Micheal Jordan per i lettori di State of Mind

 

Filosofia della Mente

Che rapporto c’è tra la mente e il cervello? Come fa la mente a rappresentarsi la realtà̀ esterna? È possibile spiegare i fenomeni mentali dal punto di vista delle scienze naturali? Questo articolo, che non ha certamente la pretesa di essere esaustivo, vuole spiegare in modo sommario e semplice di cosa si occupa la filosofia della mente e come questa interagisce con le scienze psicologiche.

Introduzione

La mente umana è un territorio complesso e ancora sconosciuto. La filosofia della mente affronta i problemi tradizionali riguardo alla comprensione e alla definizione della mente, il suo funzionamento e il suo rapporto con il corpo e il mondo. Questi interrogativi sono stati dibattuti per secoli, spesso all’interno di altre branche filosofiche, come la metafisica e la gnoseologia. Con lo sviluppo delle neuroscienze, le problematiche si sono specificate nel dualismo mente-cervello.

Ci sono diverse posizioni sulla natura della mente, che vanno dalla considerazione delle proprietà mentali come qualcosa di separato e oggetto di indagine specifica, alla riduzione della mente all’attività cerebrale e all’approccio computazionale, che vede la mente come una macchina simile a un computer. Alcuni sostengono che la mente sia un fenomeno complesso che non può essere ridotto semplicemente alla fisiologia o alle analogie con le scienze computazionali.

La ricerca scientifica e sperimentale, unita alla riflessione filosofica, contribuisce a fornire nuove indicazioni per l’indagine nel campo dei processi mentali più complessi, come i sentimenti e le emozioni.

La filosofia della mente svolge il ruolo di base concettuale per la psicologia. Prima di studiare i processi mentali, gli psicologi affrontano domande filosofiche sul significato e la natura stessa di ciò che si intende per “mente” o per uno specifico processo di pensiero. La filosofia della mente fornisce quindi i fondamenti teorici necessari per comprendere i fenomeni mentali e per formulare ipotesi scientifiche che possano essere indagate tramite metodi empirici.

La filosofia della mente offre strumenti concettuali per affrontare le sfide concettuali e teoriche che sorgono nel campo della psicologia. Inoltre, questa disciplina stimola il pensiero critico e la riflessione su questioni etiche e morali legate alla comprensione e all’utilizzo delle conoscenze sulla mente umana.

Cos’è la filosofia della mente

La filosofia della mente è un ramo della filosofia che si occupa di esplorare e comprendere la natura della mente umana.

Ma cosa si intende quando si parla di “mente”?

La mente può essere considerata come quella dimensione interiore della nostra esperienza che ci permette di pensare, sentire, percepire e avere consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda. È ciò che ci caratterizza come esseri umani, consentendoci di avere esperienze soggettive e di riflettere sulle nostre emozioni, pensieri e intenzioni.

Tra gli aspetti centrali della mente che la filosofia si propone di esplorare, vi sono la coscienza, l’intenzionalità e l’identità personale.

La coscienza rappresenta la nostra capacità di essere consapevoli di ciò che accade sia dentro di noi che fuori di noi. È quel senso di essere presenti al mondo, di avere esperienze percettive e di essere consapevoli di noi stessi come individui.

L’intenzionalità riguarda la capacità della mente di essere rivolta verso qualcosa, come contenuto della propria attività mentale. Ciò significa che possiamo avere pensieri, desideri e credenze che si riferiscono a qualcosa di interno o esterno a noi stessi. Questo aspetto della mente solleva importanti questioni filosofiche riguardo alla natura della rappresentazione mentale e alla relazione tra la mente e il mondo esterno.

L’identità personale riguarda tutto ciò che rende una persona la stessa entità nel corso del tempo. La filosofia della mente si domanda se l’identità personale sia basata su caratteristiche fisiche, come il corpo, o su aspetti psicologici, come la continuità di memoria e di esperienze. Ciò spinge a riflettere sulla natura dell’identità individuale e su come essa sia collegata alla nostra esperienza soggettiva.

Principali teorie

La filosofia della mente si è sviluppata nel corso dei secoli attraverso l’elaborazione di diverse teorie che cercano di spiegare la natura della mente umana. Tra le principali teorie filosofiche sulla mente vi sono il dualismo, il materialismo e il funzionalismo, ognuna delle quali presenta differenze concettuali e implicazioni significative.

Il dualismo propone una visione secondo cui mente e corpo sono entità separate e distinte. Secondo questa teoria, la mente è un’entità non fisica che esiste indipendentemente dal corpo. Questo dualismo sostiene che la mente può influenzare il corpo e viceversa, ma le due sono considerate sostanzialmente diverse nella loro natura. La posizione del dualismo può sollevare questioni filosofiche complesse, come la natura dell’interazione tra la mente e il corpo e la possibilità di una sopravvivenza della mente dopo la morte del corpo.

Il materialismo, al contrario, sostiene che la mente è strettamente collegata al corpo e alle sue attività fisiche. Secondo questa prospettiva, tutte le esperienze mentali possono essere spiegate attraverso processi neurali e biologici nel cervello. Il materialismo considera la mente come il prodotto delle interazioni fisiche del cervello e del sistema nervoso. Questa teoria solleva questioni riguardo alla natura delle esperienze soggettive, dell’identità personale e della relazione tra mente e corpo.

Il funzionalismo è un approccio che si concentra sulle funzioni e sui processi mentali piuttosto che sulla loro sostanza specifica. Secondo questa posizione teorica, ciò che rende qualcosa una mente non è la sua composizione fisica, ma le sue capacità e le sue relazioni funzionali. Il funzionalismo pone l’accento sulle attività mentali e sul modo in cui esse interagiscono con l’ambiente. Questa prospettiva può offrire un modo di comprendere la mente che va oltre la sua manifestazione fisica, consentendo di esplorare il ruolo dei processi mentali nella nostra interazione con il mondo.

Le differenze concettuali tra queste teorie hanno profonde implicazioni non solo in ambito filosofico, ma anche in psicologia. La concezione che abbiamo della mente influenza la nostra comprensione dei processi mentali, delle malattie mentali, della consapevolezza e della natura dell’esperienza umana.

Contributi della filosofia della mente alla psicologia

La filosofia della mente e la psicologia sono due discipline che si intersecano in molteplici aree, contribuendo reciprocamente alla comprensione dei fenomeni mentali e ad ampliare la conoscenza della mente umana.

Una delle principali aree di sovrapposizione tra la filosofia della mente e la psicologia riguarda l’oggetto dell’indagine: i fenomeni mentali. La filosofia della mente si occupa di analizzare e definire concettualmente la natura e le caratteristiche della mente, tra cui la coscienza, l’intenzionalità, l’identità personale e l’esperienza soggettiva. Queste sono tematiche centrali anche nella psicologia, che studia i processi mentali e il comportamento umano. La filosofia della mente fornisce una base concettuale, contribuendo a definire e a chiarire i fenomeni mentali oggetto di studio della psicologia.

La filosofia della mente offre alla psicologia un approccio critico e analitico per indagare la natura dei concetti e delle categorie fondamentali utilizzati della disciplina stessa, come l’identità personale, la coscienza e l’intenzionalità, offrendo una definizione e una comprensione concettuale di tali fenomeni. Ad esempio, concetti come “mente”, “mente conscia” e “mente inconscia” richiedono una riflessione approfondita per comprendere le definizioni precise e le implicazioni che ne derivano. Questa branca della filosofia si occupa di esaminare le questioni ontologiche, epistemologiche e semantiche legate a tali concetti, offrendo le basi concettuali per molte teorie psicologiche, come la psicoanalisi di Freud o la psicologia cognitiva contemporanea. La filosofia della mente aiuta a definire i concetti chiave della psicologia, consentendo una maggiore precisione teorica e una migliore integrazione dei risultati empirici.

Inoltre, la filosofia della mente contribuisce alla psicologia fornendo un quadro teorico e concettuale che può essere applicato nello studio delle malattie mentali e nella terapia psicologica. Ad esempio, l’approccio filosofico del funzionalismo, che enfatizza le funzioni e i processi mentali piuttosto che la loro sostanza specifica, può fornire spunti preziosi per comprendere i disturbi psicologici e sviluppare interventi terapeutici. La filosofia della mente, dunque, aiuta a definire i confini e le caratteristiche dei fenomeni mentali, consentendo così alla psicologia di identificare i problemi, di analizzarli criticamente e di sviluppare modelli di intervento coerenti.

La filosofia della mente influisce anche sull’etica e sulla morale nella pratica psicologica. Riflette sulle questioni etiche riguardanti l’autonomia del paziente, il rispetto della dignità umana e il trattamento etico dei disturbi mentali. Ad esempio, la concezione filosofica della persona come un essere dotato di coscienza e intenzionalità implica una considerazione etica del paziente come un individuo con una sfera di esperienza e di volontà che va considerata e rispettata. La filosofia della mente contribuisce a sviluppare linee guida etiche per i professionisti della salute mentale, promuovendo un approccio rispettoso, consapevole e moralmente responsabile nei confronti dei pazienti.

Affrontando i problemi filosofici che la psicologia incontra lungo il suo cammino, la filosofia della mente contribuisce a formulare soluzioni e a far avanzare la comprensione della mente umana. Ad esempio, il problema del libero arbitrio, la natura dell’identità personale nel tempo o il rapporto tra mente e corpo sono tematiche che richiedono un’analisi filosofica approfondita. La filosofia della mente aiuta a chiarire le questioni concettuali e a offrire prospettive teoriche che possono essere integrate nella pratica e nella teoria psicologica. Attraverso la sua natura critica e analitica, la filosofia della mente favorisce il progresso della psicologia, incoraggiando la riflessione e la ricerca di soluzioni ai problemi filosofici che sorgono nell’ambito della comprensione della mente umana.

Riassumendo

La filosofia della mente è un affascinante campo di indagine che si interroga sulla natura e sulla comprensione della mente umana, sul rapporto mente-corpo, individuo-ambiente e tra le menti degli individui, combinando elementi di filosofia e scienze cognitive (come la psicologia e le neuroscienze). Attraverso il dialogo con le scienze cognitive, la filosofia della mente contribuisce a definire i fondamenti teorici utili per lo studio dei processi mentali e a raggiungere una comprensione più profonda dei meccanismi che sottendono il funzionamento mentale e il benessere psicologico.

La felicità nella teoria delle emozioni di base e spunti dalle neuroscienze affettive

La teoria delle emozioni di base postula l’esistenza di esperienze ed espressioni universali, innate e a prescindere dalle diverse culture. Tali emozioni vengono definite “primarie” e comprendono: la rabbia, la paura, la gioia o felicità, la tristezza, la sorpresa e il disgusto (Ekman, 1992).

La felicità nella storia della psicologia

Fin dai tempi di Aristotele, la felicità è stata considerata come la somma di due aspetti: l’edonia, ovvero il piacere, e l’eudaimonia, lo scopo di condurre una vita degna di essere vissuta (Annas, 1998). Il legame tra piacere e felicità, in particolare, ha una lunga tradizione nella storia della psicologia. Sigmund Freud, per esempio, sosteneva che gli individui “si sforzano di essere felici; vogliono diventare felici e rimanere tali. Questo sforzo avrebbe due componenti. Da un lato, l’essere umano mira all’assenza di dolore o dispiacere e, dall’altro, a provare forti sentimenti di piacere” (Freud & Riviere, 1930, p. 76). Una prospettiva divergente è che la felicità dipenda unicamente dall’eliminazione del “dolore e del dispiacere” così da consentire all’individuo di perseguire liberamente i propri scopi. Questa visione conferisce infatti un ruolo marginale all’edonia nella generazione della felicità, ma si adatta perfettamente alle parole di William James che, quasi un secolo fa, afferma: “La felicità, ho scoperto di recente, non è un sentimento positivo, bensì una condizione negativa di libertà da una serie di sensazioni restrittive di cui il nostro organismo sembra di solito la sede. Quando queste vengono eliminate, la chiarezza e la limpidezza del contrasto costituiscono la felicità” (James, 1920, p. 158).

Felicità come emozione universale

Nell’ambito delle neuroscienze affettive, le teorie delle emozioni di base si configurano tra quelle maggiormente accreditate da un punto di vista scientifico. Queste ultime postulano l’esistenza di emozioni universali, ovvero esperienze ed espressioni uniche, innate e condivise tra le culture. Tali emozioni vengono definite “primarie” e, in laboratorio, sono state associate a particolari espressioni facciali rintracciabili in individui di generi ed etnie differenti. Le emozioni primarie comprendono: la rabbia, la paura, la gioia (o felicità), la tristezza, la sorpresa e il disgusto (Ekman, 1992). Le teorie delle emozioni di base affondano tuttavia le proprie radici nella prospettiva evoluzionistica introdotta da Charles Darwin, il quale fu il primo a suggerire che le espressioni affettive costituissero delle mere risposte adattive alle situazioni ambientali in cui si trovava l’individuo. Secondo le teorie evoluzionistiche, le emozioni provate dall’essere umano sono state selezionate e conservate nel corso dei secoli, in quanto segnali efficaci nel garantire la sopravvivenza della specie (Plutchik, 1980). In effetti, sia le emozioni positive, per esempio la felicità, che quelle negative, come la tristezza, presentano lampanti funzioni adattive (Nesse, 2004). Per esempio, la felicità ci segnala che abbiamo raggiunto uno scopo e che quindi possiamo concentrarci su altro obiettivo o goderci un momento di meritato riposo. La tristezza ci segnala invece il fallimento di un nostro scopo e ci spinge a riorganizzare il nostro comportamento qualora volessimo continuare a perseguirlo (Castelfranchi, 2022).

Verso le basi neurobiologiche della felicità

Dato il potenziale contributo dell’edonismo alla felicità, è opportuno dedicare uno spazio alla comprensione dei meccanismi cerebrali associati al piacere, i quali sono peraltro presenti e similari nella maggior parte dei cervelli dei mammiferi.

Le evidenze scientifiche sul tema suggeriscono che i circuiti neurali coinvolti nel piacere derivante dalla soddisfazione di bisogni fondamentali, come dal cibo e dal sesso, si sovrappongano a quelli coinvolti nel piacere associato alla soddisfazione di bisogni secondari, per esempio denaro, arte, musica o altruismo (Kringelbach 2010).

All’interno di questi circuiti, un neurotrasmettitore in particolare costituisce la fonte primaria dei segnali di piacere provati dall’organismo: si tratta della dopamina. La via dopaminergica maggiormente coinvolta nei meccanismi di ricompensa è il cosiddetto sistema mesolimbico. Quando facciamo esperienza di stimoli gratificanti, questo circuito si attiva e provoca il rilascio di dopamina (Small et al. 2003; Cameron et al. 2014). Dai piaceri derivanti dall’utilizzo di droghe a quelli associati alla vincita di somme più o meno cospicue di denaro, alla vista di un quadro o all’ascolto di una canzone sembrano tutti coinvolgere i medesimi sistemi cerebrali. È dunque probabile che anche il piacere derivante dalla soddisfazione di bisogni di natura sociale, come trascorrere del tempo in compagnia di altri esseri umani, attinga alle stesse radici neurobiologiche che regolano i piaceri sensoriali.

Questa possibile sovrapposizione tra circuiti neurali offre senz’altro l’opportunità di ipotizzare dei principi cerebrali più ampi del piacere che possano contribuire alla comprensione del fenomeno della felicità.

Eziologia ed eziopatogenesi dei disturbi mentali

I modelli di eziologia e patogenesi cercano di spiegare i processi causali (eziologia) e di sviluppo (patogenesi) di un determinato disturbo. La fusione dei due termini dà vita al modello di eziopatogenesi, ossia lo studio delle cause e dello sviluppo della condizione patologica.

I disturbi mentali e le loro cause

 Il disturbo mentale è una condizione caratterizzata da una compromissione del pensiero, dei sentimenti, dell’umore, del comportamento o delle interazioni sociali, accompagnata da un disagio clinicamente significativo.

Le cause dei disturbi mentali sono molto complesse e variano a seconda del disturbo specifico e dell’individuo. I ricercatori hanno identificato una varietà di fattori biologici, psicologici e ambientali che possono contribuire allo sviluppo o alla progressione dei disturbi mentali, la maggior parte dei quali deriva da una combinazione di diversi fattori piuttosto che da un singolo fattore (Clark et al., 2017).

Le scienze che si occupano di spiegare i processi che generano e mantengono un determinato disturbo sono rispettivamente l’eziologia e la patogenesi. I termini “eziologia” e “patogenesi” sono dunque strettamente correlati alle domande sul perché e sul come si sviluppa una certa patologia.

Eziologia

L’eziologia, composta da due termini greci aitía “causa” e -logía “studio di”, si riferisce allo studio delle cause del disturbo. In relazione a ciò, gli studi epidemiologici analizzano quali fattori associati rendono per una popolazione più o meno probabile avere una condizione o un disturbo, contribuendo così a determinarne l’eziologia.

Come parte dell’eziologia di una determinata sindrome, sono considerate fattori eziologici solo le cause che avviano direttamente il processo patologico (e quindi devono necessariamente precedere temporaneamente l’insorgenza della sindrome). I fattori eziologici possono quindi essere considerati come condizioni necessarie per lo sviluppo di un disturbo. L’eziologia di una certa patologia è per lo più definita non solo da una, ma piuttosto dall’interazione di molti elementi diversi, tra cui la predisposizione genetica o i fattori ambientali. La predisposizione genetica si riferisce alla suscettibilità intrinseca di una persona a un particolare disturbo. I fattori ambientali possono includere l’educazione, lo status socio-economico, nonché l’esposizione a fattori di stress (per esempio, maltrattamento infantile) o sostanze (Witthöft, 2013).

Eziopatogenesi

Prima di introdurre il concetto di eziopatogenesi, è necessario definire cosa si intende per “patogenesi”. Derivante dal greco pathos “sofferenza, malattia” e genesis “creazione”, la patogenesi è lo studio di come si sviluppano i disturbi. La patogenesi è il processo attraverso il quale la sindrome si sviluppa, progredisce e alla fine diventa clinicamente evidente. La patogenesi di un disturbo può essere suddivisa in tre fasi principali: iniziazione, progressione e manifestazione clinica. Gli eventi iniziali sono quelli che pongono le basi per lo sviluppo della patologia. Questi eventi possono essere, come abbiamo visto precedentemente, genetici o ambientali. La progressione si riferisce al peggioramento dei sintomi nel corso del tempo. La manifestazione clinica è il momento in cui i segni del disturbo diventano evidenti e si può fare una diagnosi (Sharma, 2022).

 Con il termine “eziologia” facciamo dunque riferimento ai fattori causali di un disturbo, mentre con “patogenesi” intendiamo il modo in cui questi specifici fattori hanno causato la sindrome. Sebbene i due termini facciano riferimento a due aspetti separati, sono altamente connessi tra loro. I meccanismi patogenetici di un disturbo o di una condizione sono messi in moto dalle cause sottostanti, che se controllate permetterebbero di prevenire la patologia. Per tale motivo è stato introdotto il termine “eziopatogenesi”, al fine di indicare sia il fattore causale, sia il modo in cui esso agisce per determinare il disturbo. L’eziopatogenesi dei disturbi mentali non è ancora completamente compresa.

Sempre più evidenze supportano l’ipotesi che la malattia mentale e i disturbi correlati non abbiano necessariamente origine nel cervello. È stato suggerito che l’infiammazione svolga un ruolo centrale in questi disturbi e in diversi studi sono stati riportati livelli alterati di citochine. Recentemente è emerso che i batteri che popolano l’intestino umano potrebbero modulare l’infiammazione di basso grado, così come le funzioni cerebrali di alto livello, tra cui l’umore e il comportamento. Questi batteri costituiscono il microbiota, ovvero l’insieme dei microrganismi coinvolti in processi chiave importanti per il mantenimento dell’omeostasi corporea (Pisanu & Squassina, 2018).

L’eziopatogenesi coinvolge dunque molteplici interazioni tra il sistema nervoso e altri sistemi fisiologici, pertanto è necessario un approccio multidisciplinare che combini la ricerca clinica con l’indagine dei fattori biologici e psicosociali che contribuiscono alla vulnerabilità e alla resilienza del disturbo.

L’esperimento del violinista nella stazione metropolitana di Washington DC

In questo articolo viene presentato e analizzato un interessante esperimento sul contesto, la percezione e le priorità personali in cui il rinomato virtuoso del violino, Joshua Bell, si esibì in incognito con il suo strumento da 3,5 milioni di dollari presso la stazione della metropolitana di Washington DC come se fosse un semplice musicista di strada.

L’esibizione del violinista in metropolitana

 Dopo 43 minuti di esibizione Joshua Bell raccolse un totale di 32.17$ e tra le 1.097 persone che passarono dalla stazione quella mattina, solo una fu in grado di riconoscere il violinista che solo tre giorni prima si era esibito nella maestosa Symphony Hall davanti al suo pubblico. Meno di un centinaio furono quelli che distrattamente si fermarono ad ascoltare qualche secondo per poi continuare per la loro strada dopo aver lasciato una moneta. L’esperimento, ideato e condotto dal The Washington Post nel 2007, aveva lo scopo di indagare se la bellezza della musica avrebbe potuto trascendere e influenzare il comportamento delle persone anche in un ambiente ordinario come una stazione della metropolitana.

L’articolo pubblicato l’8 aprile 2007, scritto da Gene Weingarten e titolato “Pearls Before Breakfast”, racconta dell’intrigante esperimento che si è svolto alla stazione della metropolitana di L’Enfant Plaza a Washington DC. Durante l’ora di punta del mattino, precisamente alle 7:51, il virtuoso del violino Joshua Bell si è esibito come un musicista di strada, vestito in modo del tutto informale: un giovane uomo con indosso jeans, una maglietta a maniche lunghe e una visiera dei Washington Nationals uscì dalla metropolitana alla stazione di L’Enfant Plaza, si fermò in un atrio al coperto in cima alle scale mobili, prese il suo violino dalla custodia e iniziò a suonare nel bel mezzo dell’ora di punta del mattino di venerdì 12 gennaio 2007.

Durante i successivi 43 minuti, nei quali Bell eseguì brani classici di altissimo valore, nessuno poteva sapere che il violinista di 39 anni non fosse realmente un musicista di strada, (nonostante fosse vestito e si comportasse come tale), ma piuttosto un “ex bambino prodigio” adesso musicista di fama mondiale. In breve, in una delle tante stazioni della metropolitana di Washington c’era un artista straordinario che si esibiva gratuitamente su uno dei migliori violini mai realizzati: il suo Stradivari del valore di 3,5 milioni di dollari, (realizzato personalmente da Antonio Stradivari nel 1713, quando il maestro di Cremona aveva ormai 69 anni) e nessuno se ne stava accorgendo.

Quali sono state le reazioni dei passanti davanti al violinista?

Come spiega ulteriormente il giornalista, l’idea era di dimostrare attraverso un semplice esperimento, se (solamente ascoltando la musica) le persone avrebbero notato che stava accadendo qualcosa di speciale. Si sarebbero fermati un attimo per goderne? Avrebbero mostrato qualche segno di riconoscimento o sarebbero passati oltre, senza nemmeno girare la testa? Qualcuno avrebbe riconosciuto Joshua Bell?

 In questo non ci fu alcuna correlazione, modello etnico o demografico, che potesse differenziare le persone che si fermavano un minuto a guardare o che lasciavano soldi all’artista. Il 90% delle persone lo ignorava semplicemente. Solo una fu in grado di riconoscere il valore di quelle note, avvicinarsi a Bell e riconoscerlo. L’autore dell’articolo ha raccontato che, tuttavia, il comportamento di uno specifico gruppo rimase assolutamente costante: ogni volta che un bambino passava di fronte a Bell, cercava di fermarsi a guardare, e ogni volta il genitore allontanava velocemente il bambino per poi continuare nel loro percorso.

L’articolo solleva la questione su come sia necessario un contesto specifico, per apprezzare la bellezza. L’esperimento suggerisce come molti passanti, immersi nella frenesia della vita quotidiana, non siano riusciti a cogliere la straordinaria performance che avevano di fronte. Ciò solleva il dubbio se la bellezza richieda un ambiente appositamente creato, un “frame” che la inquadri e che la possa servire al pubblico per essere apprezzata o se possa realmente emergere e influenzare le persone anche in situazioni comuni e inaspettate. Saremmo ancora in grado di commuoverci davanti ad “un Klimt” che adorna la sala d’aspetto del nostro dentista o è forse il processo metacognitivo stesso del sapere di trovarsi davanti a un capolavoro a farcelo apprezzare e di conseguenza a commuoverci? L’universalità dell’arte può essere potente e suscitare emozioni profonde, anche in contesti inaspettati. Può sfidare le nostre percezioni preconfezionate e aprire nuovi orizzonti di significato solo nel momento in cui siamo disposti a lasciarci sorprendere.

 

Un estratto video dell’esperimento è presente su Youtube:

Prendersi una pausa dalla tecnologie – Psicologia Digitale

Staccare la spina, disconnettersi e fare ordine tra dispositivi ed app migliora il benessere e aumenta le energie.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 41) Prendersi una pausa dalla tecnologie

La definizione di benessere non è statica: epoche, culture e strumenti diversi richiedono approcci diversi. La salute è “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o infermità” (OMS, 2022) ed è influenzata da ciò con cui abbiamo a che fare quotidianamente, per esempio le tecnologie digitali.

Il benessere psicofisico include il digital wellbeing, il benessere digitale. Questo stato di benessere si raggiunge attraverso l’uso consapevole delle tecnologie, la conoscenza degli effetti (positivi e negativi), l’equilibrio tra attività online/offline.

Tra le strategie per migliorare il rapporto con la tecnologia ci sono il digital decluttering e il digital detox. Nel primo si fa ordine tra hardware e software per lasciare solo quello che serve davvero ed eliminando le distrazioni inutili; il secondo è una vera e propria disintossicazione attraverso un periodo di astinenza volontaria da dispositivi e app.

Minimalismo digitale

Non è necessario disconnettersi totalmente. Essere dei digital minimalist non significa rinunciare completamente all’uso della tecnologia digitale ma decidere consapevolmente su cosa concentrarsi. Seguendo l’approccio del minimalismo digitale (Newport, 2019) basta concentrarsi su un piccolo numero di attività alla volta e tralasciare il resto. Il punto è che sovraccaricarsi e diluire l’attenzione su troppi stimoli allo stesso tempo riduce energie che potrebbero essere impiegate meglio e altrove. Si tratta anche di dare più valore a quello che facciamo: invece che passare il tempo a fare scrolling sui social passivamente, possiamo scegliere di dedicare tutta la nostra attenzione a fare altro.

Essere minimalisti significa anche utilizzare solo dispositivi e app che sono realmente utili. Attraverso la pratica del digital decluttering si ottimizza ciò che è utile e si elimina ciò che non serve, come le app che non utilizziamo (le ghost app).

Prendersi una pausa

Il concetto di digital detox richiama letteralmente la disintossicazione e in effetti si riferisce a prendersi un periodo di tempo in cui ci si astiene volontariamente dall’uso di dispositivi digitali.

Di solito il digital detox viene visto in primis come un modo per migliorare il benessere psicofisico: prendersi una pausa dal digitale per poi riprendere a vivere la tecnologia in modo sano come strumento per informarsi, condividere, divertirsi, senza sentirsi sopraffatti.

Disconnettersi migliora anche concentrazione, gestione del tempo, efficienza e produttività: e-mail, SMS, social media, eccetera, frammentano l’attenzione e fanno diminuire le prestazioni, non solo a lavoro. Soprattutto quando strumenti di comunicazione professionale e personale convergono si abbassa anche la qualità del tempo dedicato alla vita privata.

Un altro aspetto per il momento un po’ sottovalutato ma comunque emergente è che gli strumenti digitali non consumano solo risorse cognitive ma anche materiali (Moe e Madsen, 2021).

Produzione, uso e smaltimento comportano dei costi per l’ambiente; l’astensione dai media digitali è anche un modo per ridurre al minimo i consumi e/o l’uso di energia. Per esempio, inviare una e-mail comporta l’emissione di circa 19 grammi di CO2 (Ademe, 2022).

Il digital detox diventa quindi anche una questione di sostenibilità e tutela ambientale.

The joy of missing out

Sospendere o ridurre il tempo speso online può essere difficile anche per chi ha un rapporto equilibrato con la tecnologia.

La paura di essere esclusi, di essere lettaralmente “tagliati fuori”, di non essere aggiornati su ciò che accade ai nostri contatti e nel mondo, può incidere negativamente sul nostro benessere. La fear of missing out (FOMO) indica una vera e propria forma di ansia sociale.

Brinkmann (2019) mette in discussione l’importanza di essere sempre presenti e attenti a ciò che accade online. La disconnessione diventa un atto di consapevolezza e amore verso se stessi.

Limitare il tempo online ci può dare libertà e spazio per dedicarci al momento presente, a vivere le nostre emozioni, siano esse positive o negative, riprendere in mano le nostre priorità, essere consapevoli e fare qualcosa per il gusto di farlo.

I media digitali catalizzano le nostre risorse cognitive: la chiamano “economia dell’attenzione” perché proprio la nostra attenzione è un bene, una risorsa, che diamo a beneficio di strumenti e servizi che su questa fondano le loro economie e per questo ci spingono ad accelerare, ad essere sempre presenti.

In questa corsa senza fine la nostra attenzione viene sommersa da stimoli come mai prima di oggi.

Scegliere di resistere è un atto che dobbiamo a noi stessi: l’attenzione è una risorsa preziosa ma limitata, tanto vale dedicarla a ciò che per noi è realmente importante.

L’abito fa il monaco

L’abbigliamento che indossiamo potrebbe influire sui nostri stati psicologici e sulle nostre prestazioni. Questo fenomeno è indicato col termine “enclothed cognition”. Alla luce delle recentiscoperte, gli individui possono scegliere intenzionalmente di indossare abiti che inducano stati psicologici più desiderabili e migliorino le prestazioni legate al compito.

Introduzione

 Gli esseri umani hanno inventato l’abbigliamento almeno 100.000 anni fa. Sebbene continui a servire per proteggere gli individui da circostanze ambientali avverse, le funzioni dell’abbigliamento sono varie. Gli stili di abbigliamento (e talvolta i requisiti) variano da una regione geografica all’altra, da una religione all’altra, da una fascia d’età all’altra e da una professione all’altra. Nella nostra cultura occidentale, un grande scopo dell’abbigliamento è il fattore estetico. Ciò che indossiamo può essere un modo implicito e non verbale per esprimere la nostra personalità. Ma non solo. Numerose ricerche hanno documentato gli effetti che l’abbigliamento ha sulla percezione e sulle reazioni degli altri. Lo stile di abbigliamento degli studenti influenza la percezione della bravura accademica tra i coetanei e gli insegnanti (Behling & Williams, 1991), i pazienti sono più propensi a tornare da terapeuti vestiti in modo formale che da terapeuti vestiti in modo casual (Dacy & Brodsky, 1992) e i professionisti del servizio clienti vestiti in modo appropriato suscitano intenzioni di acquisto più forti di quelli vestiti in modo inappropriato (Shao, Baker, & Wagner, 2004). Tuttavia, gli abiti che indossiamo hanno potere sugli altri come pure su noi stessi.

L’enclothed cognition

Gli psicologi cognitivi Hajo Adam e Adam Galinksy della Northwestern University hanno esaminato gli effetti psicologici e di performance che l’indossare specifici capi di abbigliamento ha sulla persona che li indossa. Per questo fenomeno hanno coniato il termine “enclothed cognition”. L’enclothed cognition coglie l’influenza sistematica che gli abiti hanno sui processi psicologici di chi li indossa. Fa parte di un campo di ricerca più ampio che esamina il modo in cui gli esseri umani pensano sia con il cervello sia con il corpo, un’area di studio nota come embodied cognition.

Gli esperti di embodied cognition hanno scoperto che i nostri processi di pensiero si basano su esperienze fisiche che attivano concetti astratti associati. Ad esempio, l’esperienza fisica di pulirsi è associata al concetto astratto di purezza morale (Zhong & Liljenquist, 2006). A causa di questo significato simbolico, è stato dimostrato che la pulizia fisica influenza i giudizi di moralità (Schnall, Benton & Harvey, 2008). In modo simile, provare calore fisico aumenta i sentimenti di calore interpersonale (Williams & Bargh, 2008), annuire con la testa mentre si ascolta un messaggio persuasivo aumenta la suscettibilità alla persuasione (Wells & Petty, 1980), e portare una cartellina pesante aumenta i giudizi di importanza (Jostman et al., 2009). Gli autori sostengono che l’esperienza di indossare i vestiti innesca concetti astratti associati e i loro significati simbolici. In particolare, si ritiene che indossare i vestiti faccia sì che le persone “incarnino” l’abbigliamento e il suo significato simbolico. Di conseguenza, quando un capo di abbigliamento viene indossato, esercita un’influenza sui processi psicologici di chi lo indossa, attivando i concetti astratti associati attraverso il suo significato simbolico –in modo simile al modo in cui un’esperienza fisica, che per definizione è già incarnata, esercita la sua influenza. L’abbigliamento può cambiare il modo di pensare, sentire, percepire e comprendere se stessi durante le situazioni e le esperienze.

La storia di 3 studi

Adam e Galinsky (2012) hanno condotto tre studi sull’enclothed cognition. Nel primo studio, i partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi. A un gruppo è stato chiesto di indossare un camice bianco, mentre all’altro abiti casual. Poi i partecipanti sono stati sottoposti a un test di attenzione selettiva che misurava la loro capacità di notare le incongruenze. I partecipanti che indossavano il camice bianco hanno commesso quasi la metà degli errori rispetto a quelli che indossavano abiti casual.

 Nel secondo studio, hanno riunito i partecipanti per testare l’aumento dell’attenzione. A un gruppo è stato detto di indossare un camice da medico e all’altro di indossare un camice da pittore. I camici da medico e da pittore erano identici. A ciascun gruppo è stato poi chiesto di osservare una coppia di immagini simili per individuare quattro piccole differenze. I partecipanti che indossavano il camice da medico hanno trovato più differenze rispetto a quelli che indossavano il camice da pittore. Questo indica una maggiore attenzione.

Nel loro ultimo studio, volevano scoprire se il semplice guardare un oggetto fisico, come un camice, potesse influenzare il comportamento. Alcuni partecipanti indossavano quello che veniva loro descritto come un camice da medico o da pittore. Altri sono stati istruiti a guardare il camice di un medico che si trovava di fronte a loro. Utilizzando lo stesso compito di ricerca visiva dell’esperimento 2, il gruppo che indossava il camice da medico ha mostrato una maggiore attenzione sostenuta.

Quindi, cosa succede esattamente quando le persone hanno comportamenti diversi se indossano lo stesso capo di abbigliamento, ma gli viene detto che appartiene a professioni diverse? O quando indossano l’abito invece di guardarlo? I ricercatori ritengono che l’abbigliamento abbia un significato simbolico. Sostengono che l’influenza degli abiti dipende sia dal fatto di indossarli sia dal significato che essi suscitano nei loro schemi psicologici. Ad esempio, i medici (che indossano il camice) sono generalmente ritenuti altamente intelligenti, precisi e scientifici. I pittori sono generalmente ritenuti creativi e liberi. Di conseguenza, quando una persona attribuisce uno stereotipo simbolico a un capo di abbigliamento mentre lo indossa, allora la caratteristica, la forza e/o l’abilità simboleggiata dall’abbigliamento stesso sembra avere effetti misurabili sugli stati psicologici e sulle prestazioni.

Conclusione

In conclusione, la enclothed cognition è un concetto che evidenzia il potente impatto che le nostre scelte di abbigliamento possono avere sui nostri pensieri, sui nostri comportamenti e sul nostro umore generale. È importante essere consapevoli del significato simbolico degli abiti che indossiamo e scegliere quelli che si allineano con la nostra mentalità e i nostri obiettivi. Comprendendo il potere della enclothed cognition, possiamo usare l’abbigliamento a nostro vantaggio e creare una mentalità positiva e sicura.

Disturbi internalizzanti ed esternalizzanti: cosa si intende?

Le problematiche in età evolutiva vengono suddivise in disturbi esternalizzanti e disturbi internalizzanti. Scopriamo cosa si intende.

 S., 15 anni, nell’ultimo anno ha iniziato a preoccuparsi costantemente per lo studio, pensando a verifiche e interrogazioni dei giorni successivi, ma anche alla risposte date nei compiti scritti, immagina costantemente scenari negativi sul futuro chiedendosi cosa farà da grande e teme quello che i coetanei possono pensare di lei. Non riesce a smettere di pensare, si sente frequentemente stanca, fatica a dormire.

M., 11 anni, si arrabbia spesso per piccole cose, litiga ripetutamente con i compagni di classe, riceve frequenti note da parte degli insegnanti, che la descrivono come sfidante e irrispettosa delle regole. È dispettosa nei confronti dei compagni, soprattutto quando pensa che le abbiano fatto un torto, e sfida apertamente gli insegnanti, rifiutandosi di seguire o uscendo dall’aula senza autorizzazione. Nonostante i genitori abbiano cercato di imporre delle regole, M. persiste nel suo comportamento, che la sta portando a un basso rendimento scolastico, con rischio di perdere l’anno, e difficoltà con i coetanei. 

In cosa differiscono le situazioni descritte? Nel nel primo caso la sintomatologia sperimentata è rivolta principalmente verso di sé, verso l’interno, e risulta ascrivibile a un disturbo d’ansia generalizzata, mentre nel secondo caso i sintomi si rivolgono verso l’esterno, coinvolgendo le altre persone e il contesto, configurandosi come un disturbo oppositivo provocatorio.

Approfondiamo ora le due grandi categorie in cui rientrano le manifestazioni descritte: i disturbi internalizzanti e i disturbi esternalizzanti.

Le problematiche internalizzanti

I problemi internalizzanti indicano difficoltà sviluppate e mantenute all’interno della persona, spesso caratterizzate da ipercontrollo, inteso come la tendenza a controllare o a regolare i propri stati interni emotivi e cognitivi in modo eccessivo e inappropriato. Spesso portano con sé bassa autostima, difficoltà scolastiche e difficoltà nelle relazioni sociali (Di Pietro e Bassi, 2021).

I disturbi internalizzanti sono spesso accomunati dal ritiro sociale, comportamento che implica solitamente autosvalutazione di sé, delle proprie abilità sociali o timore del giudizio, e da problemi psicofisiologici, lamentele di fastidi, malattie o dolori fisici che non hanno una base medica accertata, ma sono probabilmente causati da disagio psicologico; alcuni esempi sono il mal di stomaco, il mal di testa e le vertigini.

I disturbi d’ansia costituiscono la categoria maggiore dei disturbi internalizzanti; sono caratterizzati da pensieri negativi, interpretazioni negative o errate di sintomi ed eventi, attivazione fisiologica, ipersensibilità a segnali fisici, paura e ansia in relazione a situazioni specifiche o in modo generalizzato.

Tra i disturbi d’ansia in età evolutiva rientrano il disturbo di panico, l’agorafobia, il disturbo d’ansia da separazione, il disturbo d’ansia sociale e il disturbo d’ansia generalizzata.

Nella sfera internalizzante rientrano anche i disturbi depressivi. La depressione è caratterizzata da umore depresso, tristezza, irritabilità, perdita di interesse nelle attività, alterazioni del sonno e dell’appetito, rallentamento, mancanza di energie, senso di inadeguatezza, lamentele somatiche e preoccupazioni sulla morte.

Aspetto tipico della depressione in età evolutiva è l’irritabilità, che rischia di essere fuorviante in quanto bambini e ragazzi possono faticare a riconoscere ed esprimere le loro emozioni e dall’esterno l’irritabilità potrebbe non venire collegata alla tristezza, impedendo il riconoscimento dello stato depressivo (Di Pietro e Bassi, 2021).

 Talvolta si rischia di non dare il giusto peso a queste difficoltà, proprio per il fatto che i sintomi si esprimono verso l’interno e sono meno visibili dall’esterno: un bambino che sta in silenzio durante la lezione per la paura di arrossire o balbettare, dà meno nell’occhio di un compagno che lancia il materiale scolastico o scorrazza per la classe.

Generalmente non è possibile individuare una causa specifica per questi disturbi, ma si tratta di influenze reciproche tra variabili personali, comportamentali e ambientali. I sintomi possono persistere per diversi anni e aumentare la possibilità di recidive quando non trattati oppure mantenersi fino all’età adulta.

Le problematiche esternalizzanti

Questo tipo di problemi si caratterizza per il fatto che il bambino o l’adolescente riversano il disagio verso l’esterno; comprendono il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo della condotta. Non si tratta però sempre di disturbi, ma la diagnosi si effettua nei casi in cui il comportamento tende a cronicizzarsi nel tempo e ha conseguenze negative per il soggetto o per altre persone (Di Pietro e Bassi, 2021).

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività interessa il bambino fin dai primi anni di vita, si mantiene durante lo sviluppo e spesso persiste anche in età adulta. Come dice il nome, le caratteristiche tipiche sono appunto difficoltà di attenzione, impulsività e iperattività. Questi bambini faticano a mantenere l’attenzione e a concentrarsi, tendono ad agire senza pensare a quello che stanno facendo, hanno difficoltà a modificare il loro comportamento sulla base dei loro errori e non riescono a stare fermi o tranquilli. Sono di continuo alla ricerca di attenzioni, perdono le cose, sono disorganizzati e sempre in movimento, hanno difficoltà ad andare d’accordo con fratelli e sorelle e si sentono facilmente frustrati. Affinché sia possibile diagnosticare il disturbo, i deficit devono avere un impatto significativo sui principali ambiti di vita del bambino o dell’adolescente (Di Pietro e Bassi, 2021).

Il disturbo oppositivo provocatorio è un quadro ricorrente di comportamenti oppositivi, provocatori, disobbedienti e ostili verso le figure di riferimento. Tra i comportamenti messi in atto ci sono la violazione delle regole, attacchi di rabbia, il polemizzare con gli adulti, l’uso di parolacce, il disturbare, l’attribuire ad altri le cause dei propri comportamenti, umore negativo e irritabilità (Kaufman et al., 2016).

Infine, il disturbo della condotta è un quadro persistente e ripetitivo di comportamento in cui vengono violati i diritti di base degli altri o le principali regole sociali, sia in famiglia che nel contesto sociale più ampio. Alcuni comportamenti presenti nel disturbo della condotta implicano azioni prevaricanti, come aggressività fisica o violenza sessuale, altri invece riguardano comportamenti come furti, fuga da casa o saltare la scuola (Kaufman et al., 2016).

Conclusioni

Non è sempre facile distinguere le fisiologiche manifestazioni dell’infanzia e dell’adolescenza da veri e propri disturbi. Per questo è importante rivolgersi ad uno specialista che possa aiutare nell’inquadramento e nell’impostazione di un eventuale percorso terapeutico, senza sottovalutare il vissuto del bambino o dell’adolescente.

 

La percezione dell’umorismo nella coppia e la soddisfazione relazionale

Le persone sono generalmente in grado di giudicare con precisione il senso dell’umorismo del proprio partner, ma chi ha una relazione altamente soddisfacente sembra mostrare una maggiore tendenza a ritenere che lo stile umoristico del partner sia simile al proprio.

Introduzione

 “Quando parliamo di ciò che rende il partner “perfetto”, quasi sempre parliamo di qualcuno che ci faccia ridere, e molte ricerche dimostrano quanto sia importante l’umorismo in una relazione felice e sana” riferisce l’autrice dello studio Mariah F. Purol.

Purol e i suoi colleghi (2022) hanno voluto indagare l’accuratezza della percezione dello stile umoristico del partner e il suo impatto sulla soddisfazione della relazione.

Partecipanti e metodo

Lo studio è stato condotto su 337 coppie eterosessuali di età compresa tra 19 e 89 anni. I partecipanti hanno completato il questionario sui quattro stili umoristici: auto-valorizzante, affiliativo, auto-distruttivo e aggressivo. I partecipanti hanno valutato se stessi e i loro partner su ciascuno stile.

L’umorismo auto-valorizzante implica la capacità di trovare l’umorismo nelle situazioni quotidiane, anche quando le cose non vanno bene. L’umorismo affiliativo implica l’uso dell’umorismo per creare legami sociali e rafforzare le relazioni. L’umorismo auto-distruttivo consiste nel fare di se stessi il bersaglio dello scherzo, spesso a scapito dell’autostima. L’umorismo aggressivo prevede l’uso di sarcasmo, insulti e offese per sminuire gli altri e affermare il proprio dominio. Inoltre, ai partecipanti è stato chiesto di valutare quanto trovassero divertenti se stessi e i loro partner. La soddisfazione relazionale è stata misurata con una versione modificata del Couples Satisfaction Index, una misura a cinque item che chiede ai partecipanti di esprimere la loro soddisfazione per la loro attuale relazione sentimentale.

I risultati dello studio

Dallo studio è emerso che, nel complesso, i partecipanti hanno dimostrato accuratezza nel giudicare lo stile umoristico del partner, indipendentemente dal tipo specifico di stile umoristico valutato. Ciò suggerisce che le persone sono generalmente in grado di percepire e comprendere il senso dell’umorismo del proprio partner. Tuttavia, lo studio ha anche rilevato che i pregiudizi variavano a seconda dei diversi stili di umorismo. Ad esempio, i partecipanti tendevano a sottostimare leggermente la quantità di umorismo auto-valorizzante usato dal partner e a sovrastimare leggermente la quantità di umorismo aggressivo usato dallo stesso. È stata riscontrata anche un’associazione tra la soddisfazione della relazione e la tendenza a ritenere che lo stile umoristico del partner sia simile al proprio. Le persone con relazioni particolarmente soddisfacenti hanno mostrato una maggiore presunzione di somiglianza nel giudicare lo stile umoristico del partner. Questo suggerisce che le persone possono avere la tendenza a proiettare il proprio stile umoristico sul partner o a interpretare l’umorismo del partner in modo da allinearlo al proprio stile.

 In generale, abbiamo una buona comprensione dell’umorismo del nostro partner e di quanto sia divertente. Tuttavia, a volte, le coppie che presumono di condividere il senso dell’umorismo con il proprio partner (anche se non è così) riferiscono di essere un po’ più felici nelle loro relazioni. Ciò si allinea bene con altri lavori sulla somiglianza di personalità nelle relazioni: forse essere simili non conta molto, ma pensare di essere simili sì.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che i partecipanti più soddisfatti hanno riferito che il loro partner ha usato più umorismo adattivo, compreso l’umorismo affiliativo e auto-valorizzante. I più soddisfatti della loro relazione hanno anche valutato il loro partner come più divertente. I meno soddisfatti, invece, hanno riferito che il loro partner utilizzava un umorismo più aggressivo. In aggiunta, i partecipanti hanno sempre giudicato il proprio partner più divertente di quanto il partner giudicasse se stesso.

Limiti e conclusioni

Lo studio, come tutte le ricerche, include alcuni limiti. Nella ricerca sulla percezione, può essere difficile misurare la “verità”: di chi è la prospettiva “vera”? Se pensiamo di essere divertenti, ma il nostro partner pensa che le nostre battute siano terribili, chi ha ragione? In questo studio, le auto-rivelazioni dei partecipanti sull’umorismo sono state trattate come verità.

In uno studio futuro sarebbe interessante ottenere i resoconti dell’umorismo di un partecipante da osservatori diversi (ad esempio amici, familiari, estranei ecc.). Se pensiamo di essere divertenti, ma le persone intorno a noi non sono d’accordo, la saggezza della folla potrebbe avvicinarsi un po’ di più a ciò che può essere realmente vero.

Disturbi affettivi e ospedalizzazione: la compromissione della memoria verbale è un indicatore di rischio

Un recente studio pubblicato su Clinical Medicine ha evidenziato che i pazienti con disturbi affettivi cronici, che presentano concomitante alterazione della memoria verbale ma non delle funzioni esecutive, hanno maggior rischio di effettuare, dopo aver subito una prima ospedalizzazione, ulteriori ricoveri psichiatrici (Sankar et al., 2023).

I disturbi affettivi cronici

 Gli studi presenti in letteratura indicano che le alterazioni della neurocognizione sono caratteristiche del disturbo bipolare e del disturbo depressivo maggiore oltre che della schizofrenia (Balanzá-Martínez et al., 2010; Di Sciascio et al., 2015; Altshuler et al., 2004). Alcuni autori riportano che i pazienti con disturbi affettivi cronici, quando subiscono ripetuti ricoveri, difficilmente riescono a raggiungere un buon livello d’istruzione, a creare una famiglia e a trovare un’occupazione soddisfacente (Kos et al., 2010).

La memoria di lavoro

La memoria verbale appartiene alla cosiddetta working memory. Secondo il modello proposto da Baddeley e Hitch (Baddeley e Hitch 1974) la memoria di lavoro è “un sistema per il mantenimento temporaneo e per la manipolazione dell’informazione durante l’esecuzione di differenti compiti cognitivi, come la comprensione, l’apprendimento e il ragionamento” (Baddeley, 1986). Questo sistema ha il compito di integrare tra loro varie informazioni ed è costituito da un circuito che conserva l’informazione in forma verbale ed anche da un sistema che codifica le informazioni spaziali e visive. Le funzioni esecutive sono costituite da una serie di processi cognitivi che, interagendo tra loro, permettono al soggetto il raggiungimento di uno scopo e gli forniscono le abilità per un adeguato controllo del comportamento (Shallice, 1994; Benso, 2010).

Lo studio di Sankar e collaboratori (2023)

Lo studio pubblicato su Clinical Medicine (Sankar et al., 2023) utilizza i dati del più grande studio longitudinale realizzato fino ad oggi sulla correlazione esistente tra disturbi neurocognitivi e futuri ricoveri psichiatrici. Sono state raccolte le informazioni relative a 518 pazienti affetti da disturbo bipolare e da disturbo depressivo maggiore. Tutti i soggetti sono stati valutati per le funzioni esecutive e per il dominio della memoria verbale. La valutazione è avvenuta tramite la somministrazione di un’ampia batteria di test neuropsicologici. Sono inoltre stati presi in considerazione i dati riguardanti l’ospedalizzazione dei pazienti e le loro condizioni sociodemografiche attraverso l’analisi dei registri nazionali danesi. Al momento dell’inclusione nello studio è stata valutata la gravità dei sintomi e la terapia effettuata da ogni partecipante.

 Grazie all’analisi dei dati raccolti, i ricercatori sono giunti alla conclusione che la compromissione della memoria verbale è un indicatore, che va ad aggiungersi a quelli già noti (Tabarés-Seisdedos et al., 2008), per valutare il rischio di futuri ricoveri psichiatrici. Gli autori della ricerca ipotizzano, inoltre, che il disturbo della memoria verbale possa influenzare negativamente la compliance del paziente alla terapia farmacologica. Al contrario dei precedenti studi presenti in letteratura, non è stata rilevata un’associazione statisticamente significativa tra presenza di disturbi neurocognitivi e decadimento delle condizioni socioeconomiche.

Conclusioni

In considerazione dei risultati ottenuti la riabilitazione neurocognitiva può ritenersi una valida risorsa per pazienti con disturbi affettivi cronici, per migliorare la compliance e i risultati ottenibili con la terapia farmacologica.

People-pleasing: come smettere di voler piacere agli altri a tutti i costi

I “people-pleaser” sono quelle persone che tentano di piacere agli altri a tutti i costi. Questa tendenza è spesso legata a una paura dell’abbandono sviluppata nel corso di un’infanzia difficile. Tre sono i modi possibili per liberarsi da essa: coltivare l’auto-consapevolezza, definire i confini e lasciare andare le opinioni degli altri.

Cos’è il fenomeno del people-pleasing

 In psicologia il termine “people-pleasing” fa riferimento alla tendenza a voler piacere agli altri a tutti i costi. Si tratta di un vero e proprio stile di funzionamento per cui la persona si mostra estremamente disponibile e accomodante con gli altri nel tentativo di compiacerli e ottenere così la loro approvazione.

È innegabile che la condiscendenza e la capacità di venire incontro agli altri siano tratti desiderabili, ma non per questo anche interamente vantaggiosi. Come in molte cose, la salute sta nell’equilibrio: nei people-pleaser, il problema non sarebbe tanto la presenza di queste tendenze, quanto la loro costanza e pervasività nel delineare un pattern di funzionamento ricorrente in diverse situazioni. Di fatto, molto spesso, dietro il bisogno di mettere costantemente gli altri al primo posto si nasconderebbe una risposta al trauma, che con il tempo può portare a un dannoso abbandono di sé.

L’infanzia dei people-pleaser

Come molte problematiche psicologiche, la tendenza assolutistica a voler essere approvati dalle persone pone le sue radici nel passato di questi individui. Nella maggior parte dei casi, infatti, i people-pleaser nascondono un’antica paura dell’abbandono come conseguenza di traumi relazionali e di attaccamento vissuti in infanzia, dove la loro fiducia epistemica nelle relazioni è stata recisa alla base. L’esperienza infantile riportata da questi individui rimanda all’idea che, a un certo punto della loro crescita, hanno imparato che avere dei limiti, affermare i propri bisogni ed esprimere la propria individualità avrebbe necessariamente portato a sentimenti di colpa o vergogna e a condizioni di giudizio o separazione.

Per potersi immedesimare nel vissuto di queste persone, potrebbe essere utile immaginare un bambino che, in risposta all’espressione di emozioni forti (ad esempio, attraverso il pianto), si trova di fronte a una di queste reazioni genitoriali: una in cui l’adulto cerca in tutti i modi di mettere a tacere il bambino con comunicazioni imperative e aggressive e una in cui l’adulto ignora il figlio, invitato a continuare a piangere da solo nella propria stanza, senza farsi vedere. In entrambi i casi, il messaggio che il bambino assorbe è che esprimere come ci si sente e avere dei bisogni è troppo per gli altri, dunque reprimere i propri sentimenti è l’unico modo per poter essere accettati e inclusi. Se pensiamo alla natura del bambino, il cui bisogno emotivo più essenziale è essere visto, apprezzato e sentire di appartenere, questo messaggio può risultare estremamente confondente e disorganizzante.

Il servilismo dell’adulto traumatizzato

Se, nel corso della sua infanzia, il bambino cresce in un’atmosfera familiare repressiva ed evitante, da adulto potrà diventare un people-pleaser che compiace gli altri, a costo di sacrificare la sua verità interiore. In altre parole, potrà diventare una persona che, nella sofferenza di dover mettere i propri bisogni in secondo piano per sopravvivere, è in continua lotta per mantenere un equilibrio mentale.

Questo stile di funzionamento, nel lungo termine, non porterebbe solo a sviluppare delle credenze mentali distorte su se stessi (“Se dico quello che penso, gli altri mi rifiuteranno”), ma anche dei corrispondenti pattern fisici di servilismo e adulazione.

 Anche se, nel panorama scientifico psicologico, le risposte più comuni del sistema nervoso al trauma rimangono lotta, fuga e congelamento, negli ultimi tempi la risposta servile è diventata un modello sempre più riconosciuto fra gli esperti del trauma (Walker, 2013). In questo contesto, con servilismo gli autori si riferiscono alla tendenza dei people-pleaser di evitare o ridurre il conflitto per sentirsi protetti e più sicuri con l’altro, in modo da guadagnarne l’approvazione.

Certamente una quota di adulazione può essere un tratto necessario e vantaggioso in alcuni contesti (pensiamo a quelli dove c’è una differenza di potere, come quello lavorativo), ma quando si tratta di uno stile di risposta cronico, ciò può diventare fisicamente estenuante ed emotivamente stressante.

Come liberarsi dell’obbligo di compiacere gli altri

Date queste premesse, molti psicologi si sono interrogati su quale sia il modo migliore per favorire il benessere psico-fisico dei people-pleaser.

Secondo Allyn, tre possono essere gli interventi più efficaci per aiutare queste persone a smettere di ottenere a tutti i costi l’approvazione dell’altro.

Coltivare l’autoconsapevolezza

Dal momento che i people-pleaser sono molto concentrati sul garantire il benessere dell’altro così da essere accettati, è importante che essi inizino a traslare questo obiettivo su di sé. In termini pratici, dovrebbero imparare ad attenzionare ed accogliere i propri bisogni emotivi, fisici e relazionali per quelli che sono, senza combatterli o reprimerli. Dovrebbero iniziare a notare quando scatta la risposta servile del sistema nervoso, praticando la respirazione e il movimento per centrarsi su di sé e radicarsi. Solo così essi potrebbero passare da una mente reattiva a una mente razionale, riconoscendo ed esprimendo le proprie esigenze momento dopo momento.

Definire i confini

Il people-pleaser dovrebbe essere incoraggiato a perseguire la cura di sé come imperativo primo, sapendo che questo passa anche attraverso il dire di no. Sebbene le persone che avevano sempre beneficiato della mancanza di confini del people-pleaser potrebbero inizialmente respingere i limiti nuovi che egli impone, questo non elimina il suo diritto ad averli. Sviluppare dei confini è un modo sano per preservare la propria energia così da poterla restituire autenticamente agli altri.

Lasciare andare le opinioni altrui

È naturale voler essere apprezzati, ma è un’illusione pretendere di piacere a tutti. Gli esseri umani sono delle entità complesse che, in quanto tali, non sempre possono essere accettati da tutti per le sfaccettature che mostrano. In questa direzione, non controllare costantemente ciò che l’altro pensa su di sé e ricordarsi che a volte l’opinione dell’altro può celare una proiezione personale che nulla ha a che fare con noi, può essere veramente d’aiuto per i people-pleaser.

Il disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) nel postpartum 

Tra i disturbi psichici che possono esordire, mantenersi o ri-presentarsi nel periodo perinatale, ovvero in gravidanza o nel periodo del post-parto, troviamo, accanto a molte altre condizioni, il disturbo ossessivo-compulsivo come uno dei disturbi più frequenti durante il periodo perinatale.

Il disturbo ossessivo-compulsivo nei periodo perinatale

 In generale il DOC è un disturbo psichico relativamente comune, e può portare a un deterioramento della qualità della vita e a difficoltà nel funzionamento quotidiano sociale e lavorativo.

Secondo gli studi sembra che il periodo perinatale sia una fase di vita particolarmente vulnerabile all’insorgenza di un disturbo ossessivo-compulsivo nelle madri (Uguz e Ayhan, 2011), mentre per i neopadri sembra essere un disturbo meno frequente (Rosse McLean, 2006). I tassi di prevalenza del disturbo ossessivo-compulsivo in gravidanza in letteratura si aggirano sul 1-3%, mentre il range dei tassi di prevalenza del DOC nel postparto è molto più ampio e va dallo 0,7% al 9% (Bramante, 2016). Al di là della soddisfazione dei criteri diagnostici, le madri possono presentare sintomi di carattere ossessivo-compulsivo dopo il parto. Tra i sintomi ossessivi ritroviamo ad esempio pensieri ossessivi di poter fare del male al bambino e relativa paura di perdere il controllo; in seguito a tali pensieri, possono esserci compulsioni di controllo o evitamenti comportamentali che compromettono la qualità della relazione di accudimento; in alcuni casi vi può essere comorbilità con sintomatologia depressiva.

Ossessioni e compulsioni

In generale il DOC è un disturbo caratterizzato da ossessioni e compulsioni di diverso genere.

Con il termine ossessione si intendono pensieri ricorrenti e ripetitivi, impulsi o immagini vissuti come intrusivi e che causano elevate quote di ansia. Le compulsioni consistono in comportamenti (in alcuni casi più volte ripetuti) o azioni mentali che la persona si doverizza a compiere in risposta a un’ossessione, per prevenire eventi temuti o ridurre il disagio legato alle ossessioni.

In riferimento al periodo perinatale, e nel postparto in particolare, si evidenziano pensieri ossessivi riferiti alla paura di arrecare un danno al bambino (paura di fare del male al bambino). In tal senso il timore è legato un’intensa e disfunzionale paura di perdere il controllo e paura delle ossessioni stesse, ma non vi è l’intenzione o il desiderio di fare del male al bambino.

Le compulsioni possono quindi tradursi in comportamenti di ipercontrollo per assicurarsi che il neonato stia bene, o rituali di altro tipo.

Altre forme di ossessioni possono riguardare il timore da contaminazione, con le corrispettive compulsioni di lavaggi e pulizia; ossessioni a carattere aggressivo, quali pensieri terrifici di morte, es. il pensiero di perdere il controllo e poterlo accoltellare o lanciare dalla finestra (si sottolinea, non avendo l’intenzione o il desiderio di farlo); in risposta a tali ossessioni la madre può essere portata a togliere coltelli dalla cucina, evitare di avvicinarsi alle finestre, non fare il bagnetto da sola al bambino, mettendo in atto evitamenti che vanno a peggiorare la sintomatologia ossessivo-compulsiva e la fiducia rispetto alla propria capacità di regolazione emotiva.

Le madri con disturbo ossessivo-compulsivo nel postparto interpretano l’avere le ossessioni sopra descritte come il fatto che potrebbero metterli in atto a danno del bambino (fenomeno della fusione pensiero-azione): “Lo penso, allora significa che potrei perdere il controllo, impazzire e farlo”. In conseguenza vengono attuati evitamenti e compulsioni per arginare il disagio emotivo.  Tali pensieri indesiderati, che diventano ossessioni, risultano estremamente angoscianti ed egodistonici per le madri, ovvero ritenuti e giudicati inaccettabili, maturando emozioni di tristezza, colpa e vergogna.

 La ricerca evidenzia che i pensieri di fare del male al bambino sono comuni in molte donne dopo il parto: la differenza tra le mamme con DOC e mamme “sane” sta nel fatto che le prime si autocolpevolizzano e esperiscono un forte senso di colpa e responsabilità solo per il fatto di avere avuto un pensiero o per la comparsa di un’immagine, spaventandosi molto e a volte vergognandosi, elementi che non facilitano la richiesta di aiuto specialistico psicologico psicoterapico.

I fattori di rischio e la diagnosi differenziale

Tra i fattori di rischio per l’esordio del DOC in gravidanza ritroviamo l’essere primipara, essere nel secondo-terzo trimestre di gravidanza, familiarità con il disturbo-ossessivo compulsivo, avere avuto un aborto spontaneo, problematiche gestazionali. In relazione al post-parto, i fattori di rischio per l’esordio di sintomatologia ossessivo-compulsiva sono di nuovo essere primipara, elevati livelli di ansia, avere un disturbo di personalità ossessivo-compulsivo o un disturbo evitante di personalità, familiarità psichiatrica, pregressa depressione maggiore e sindrome premestruale in anamnesi. Risultano particolarmente critiche le prima 4 settimane del puerperio.

È fondamentale chiedere il supporto specialistico, nelle madri che presentano sintomatologia DOC per alleviare la sofferenza e il disagio, nonché per favorire il benessere della diade mamma-bambino. In tale contesto, tale fenomenologia sintomatica non va comunque sottovalutata, ed è dunque fondamentale una consulenza da parte dello specialista della salute mentale (psicologo psicoterapeuta o psichiatra) per effettuare una corretta e attenta diagnosi differenziale rispetto ad altri disturbi quali ad esempio, disturbi depressivi nel post-parto, psicosi post-partum, o disturbo della relazione mamma-bambino.

Il trattamento del DOC nel postpartum

In termini di trattamento, secondo le linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) la psicoterapia cognitivo-comportamentale è indicata per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo in gravidanza e nel post-partum; in particolare sono indicati interventi che implicano procedure di esposizione e prevenzione della risposta (ERP), psicoeducazione e l’applicazione di tecniche di ristrutturazione cognitiva per regolare le emozioni di ansia e di colpa, il senso di responsabilità e l’intolleranza dell’incertezza. Accanto all’intervento psicoterapico, in alcuni casi si propone l’integrazione psicofarmacologica, ad esempio con SSRI.

Ricordo di Reuben Baron, lo statistico degli psicologi

Reuben Baron, professore emerito alla Università del Connecticut, è morto domenica 25 giugno dopo una lotta con l’Alzheimer. Aveva 86 anni.

 

C’è stato un momento, durato fino a poco meno di dieci anni fa, in cui molti psicologi e psichiatri si sono dilettati di un po’ di statistica for dummies nelle loro ricerche empiriche, salvo poi giustamente ricorrere alle competenze di un vero esperto quando il gioco iniziava a farsi duro.

In questa statistica ancora accessibile ai profani Reuben Baron, il coautore dell’articolo più citato nella storia della psicologia “The moderator–mediator variable distinction in social psychological research” ha giocato un ruolo importante. Lo pubblicò nel 1986 insieme a David Kenny (Baron & Kenny, 1986). Il lavoro mostrava come indagare, misurare e dimostrare relazioni tra variabili psicologiche che andassero oltre la semplice correlazione, relazioni denominate “mediazione” e “moderazione” e che, in qualche modo, alludevano a una sorta di causalità anche se poi non potevano assicurarla.

Però ci si accontentava: la “mediazione” e la “moderazione” di Kenny e Baron comunque permetteva di andare oltre una semplice convergenza tra dati che poteva essere casuale e priva di senso e inoltre lo permetteva con una certa semplicità che concedeva anche al non iniziato in statistica di calcolarle, anche se presumibilmente poco rispettando tutti i criteri di rigorosità che richiedevano quelle analisi. Poco male: a mettere tutto a posto ci pensava poi lo statistico in un secondo momento. L’importante per noi tutti non statistici era non essere costretti a consultarlo subito, lo statistico, figura notoriamente ieratica e restia a risposte chiare mentre il ricercatore non statistico è più in attesa di verdetti semplici: “Sia invece il vostro parlare: ‘Sì, sì’, ‘No, no’; il di più viene dal Maligno”

Da allora quel lavoro è stato citato in media circa tremila volte all’anno ed è diventato l’articolo più citato nella storia della psicologia. La tendenza positiva continua ancora oggi, sebbene da un po’ il livello di complessità dei calcoli statistici sia andato oltre il calcolo di Baron e Kenny, e probabilmente è stato un bene: effettivamente la semplicità della formula di Baron e Kenny a volte è stata usata semplicisticamente come una sorta di prova galileiana definitiva invece che di una stima tendenziale (Zhao, Lynch & Chen, 2010).

Purtroppo, Reuben Baron, professore emerito alla Università del Connecticut, è morto domenica 25 giugno dopo una lotta con l’Alzheimer. Aveva 86 anni. Dai necrologi apprendiamo che Baron, oltre a incrementare il rigore statistico nello stabilire relazioni di causa ed effetto in psicologia dimostrando il motivo per cui, ad esempio, l’esercizio migliora il benessere mentale o lo stato socioeconomico influisce sulla capacità di lettura, aveva anche altri interessi di tipo sociale e spirituale, oltre ad essere particolarmente attento nell’aiutare i suoi tesisti a laurearsi.

Quest’ultimo tratto sembra in linea con il contributo di Baron, che ha aiutato un po’ tutti gli psicologi a condurre le loro ricerche empiriche malgrado i loro limiti in statistica.

Wilhelm Maximilian Wundt: il fondatore della psicologia scientifica

Wilhelm Maximilian Wundt è considerato uno dei padri della psicologia moderna. Fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale, ha contribuito all’identificazione della psicologia come una disciplina autonoma e scientifica.

Introduzione

 Wilhelm Maximilian Wundt, considerato il fondatore della psicologia scientifica, ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo e nell’affermazione di questa disciplina. Attraverso il suo lavoro pionieristico, Wundt ha gettato le basi per l’evoluzione della psicologia come scienza indipendente, aprendo la strada a nuove prospettive e metodi di ricerca.

Vita e formazione

Nato nel 1832 in Germania, Wundt ha avuto una formazione accademica eclettica, che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei suoi interessi e nel suo contributo storico.

Wundt ha studiato medicina e successivamente si è specializzato in fisiologia, sotto la guida di importanti scienziati dell’epoca come Hermann von Helmholtz. Durante i suoi studi di fisiologia, ha acquisito una solida base scientifica che ha influenzato il suo approccio alla psicologia.

Tuttavia, la formazione di Wundt non si limitava solo alle scienze naturali. Ha anche sviluppato un interesse per la filosofia, studiando sotto la guida di Johann Friedrich Herbart e Friedrich Adolf Trendelenburg. Questo background filosofico ha avuto un’influenza significativa sulla sua visione della psicologia e sulla sua ricerca scientifica.

Dopo il dottorato in medicina, ha insegnato presso l’Università di Heidelberg. Durante questo periodo, ha svolto importanti ricerche sulla fisiologia sensoriale, che hanno gettato le basi per la sua futura carriera nel campo della psicologia.

Pubblica anche il primo volume del suo famoso libro di testo “Fondamenti di psicologia fisiologica”, che può essere considerato il primo manuale completo di psicologia sperimentale. Con questa pubblicazione, Wundt si trasforma interamente in uno “psicologo”.

Successivamente, accetta la cattedra di psicologia presso l’Università di Lipsia e lì fonda il primo laboratorio di psicologia sperimentale al mondo. Il laboratorio diventa presto il punto di riferimento per gli psicologi del tempo.

Fondazione del primo laboratorio di psicologia

Nel 1879, Wundt fonda il primo laboratorio di psicologia presso l’Università di Lipsia: pietra miliare nella storia della psicologia. Questo evento ha un importante significato storico perché rappresenta una netta separazione tra la psicologia e la filosofia, identificando la psicologia come una disciplina scientifica autonoma e dotata di metodi di ricerca rigorosi.

Inoltre, la creazione di un luogo dedicato allo studio scientifico della psicologia ha un’importanza fondamentale, poichè prima la psicologia era principalmente un campo di indagine filosofico, con teorie e speculazioni basate sulla riflessione e prive di un riscontro empirico. La presenza di un laboratorio specificamente progettato per la psicologia ha consentito agli studenti e ai ricercatori di condurre esperimenti controllati e oggettivi per studiare i processi mentali e comportamentali. L’ambiente di laboratorio ha permesso lo sviluppo di strumenti necessari per registrare, misurare e analizzare le risposte degli individui a stimoli specifici, portando così a una maggiore precisione e rigore nello studio della mente e del comportamento umano.

La creazione del laboratorio di Wundt ha anche favorito lo sviluppo di una comunità accademica di psicologi, stimolando la collaborazione e la condivisione di conoscenze. Gli studenti e i ricercatori potevano lavorare fianco a fianco, scambiandosi idee, confrontando risultati e sperimentando nuovi approcci. Questa sinergia ha alimentato il progresso della psicologia in quanto scienza e ha contribuito all’espansione della disciplina in tutto il mondo.

Il metodo sperimentale

Wundt introduce il metodo sperimentale nello studio della psicologia. Attraverso l’utilizzo di metodi come l’introspezione, egli tenta di analizzare in laboratorio i processi mentali soggettivi, ovvero sensazioni, immagini mentali ed emozioni. Questo approccio innovativo permise di esaminare gli aspetti interni della mente umana, aprendo la strada a una comprensione scientifica dei processi mentali.

Il metodo sperimentale, attraverso l’osservazione, la descrizione, la generazione di ipotesi e gli esperimenti-verifiche di ipotesi, permette di stabilire una relazione di causalità tra un fenomeno sotto esame e una o più variabili controllate dallo sperimentatore.

 Wundt ha utilizzato l’introspezione come uno dei principali strumenti per studiare l’esperienza umana. Attraverso l’introspezione, coloro che partecipavano ai suoi esperimenti osservavano e descrivevano le proprie esperienze mentali. Questo approccio consentiva di esaminare gli aspetti interni della mente umana, come le sensazioni, le idee e le emozioni. Tuttavia, Wundt non si affidava esclusivamente all’introspezione. Riconosceva l’importanza dell’osservazione diretta dei comportamenti e dei processi mentali esterni. Utilizzando l’osservazione, intendeva raccogliere dati empirici sugli aspetti esterni del comportamento umano, come le reazioni fisiche e le manifestazioni comportamentali. Inoltre, Wundt attribuiva grande importanza alla misurazione oggettiva nella ricerca psicologica. Per lui, era fondamentale misurare e quantificare gli eventi psicologici in modo accurato e riproducibile. Per fare ciò ha sviluppato strumenti di misurazione, come cronometri e dispositivi per la percezione sensoriale, al fine di registrare e quantificare i dati raccolti.

Questo approccio integrato di introspezione e osservazione ha fornito un quadro più completo per lo studio e lo sviluppo futuro della psicologia. Il rigore metodologico invece ha contribuito a conferire alla psicologia uno status di scienza empirica, basata su dati oggettivi e verificabili.

L’importanza della formazione filosofica di Wundt si riflette nella sua visione della psicologia come una scienza che si occupa degli aspetti soggettivi dell’esperienza umana. Ha cercato di integrare la psicologia con la filosofia, utilizzando i risultati della ricerca psicologica per affrontare le domande filosofiche sulla mente, la coscienza e la natura umana.

L’analisi degli elementi della coscienza

Wundt si è dedicato all’analisi degli elementi fondamentali della coscienza umana, che ha chiamato “sensazioni” e “percezioni”. Attraverso l’introspezione e l’analisi sperimentale, ha tentato di scomporre i processi mentali complessi in componenti più semplici. Wundt credeva che comprendere i componenti di base della coscienza umana fosse fondamentale per ottenere una comprensione più approfondita dei processi mentali. Scomporre la complessità della mente in parti più semplici ha permesso di esaminare e analizzare in modo più dettagliato gli elementi costitutivi della coscienza, ha contribuito a sviluppare una visione più chiara dei processi mentali e delle loro interconnessioni.

L’importanza di scomporre i processi mentali complessi in componenti più semplici risiede nella possibilità di studiare in modo più accurato e scientifico la mente umana. Questo approccio, conosciuto come “Elementismo”, ha avuto un impatto significativo sullo sviluppo successivo della disciplina psicologica, per esempio, aprendo la strada allo Strutturalismo.

L’eredità di Wundt

Wilhelm Wundt ha avuto un’influenza significativa nella formazione di numerosi psicologi di spicco. Attraverso il suo lavoro pionieristico e il suo approccio scientifico, ha ispirato e istruito molti studenti che poi sarebbero diventati importanti figure nel campo della psicologia, come Emil Kraepelin, Hugo Münsterberg ed Edward Titchener. Le sue idee e il suo lavoro hanno avuto un’impronta duratura nella psicologia moderna. Concetti come l’analisi degli elementi della coscienza, l’uso dell’introspezione e il metodo sperimentale sono ancora fondamentali nella ricerca contemporanea. Le sue teorie e scoperte hanno aperto la strada a nuovi approcci e dibattiti nel campo della psicologia. Wundt ha contribuito a far crescere e consolidare la psicologia come una disciplina scientificamente degna. Il suo impegno nella creazione del primo laboratorio di psicologia e nella promozione di metodi rigorosi di ricerca ha dato alla psicologia una base solida e ha stabilito standard elevati per la conduzione di studi psicologici. L’influenza di Wundt si estende anche oltre i confini accademici, contribuendo a diffondere l’importanza dell’approccio scientifico e dell’indagine empirica nella comprensione della mente e del comportamento umano.

Conclusioni

Wilhelm Maximilian Wundt, il fondatore della psicologia scientifica, ha lasciato un’impronta indelebile nello sviluppo e nell’affermazione di questa disciplina. Il suo lavoro pionieristico ha stabilito le fondamenta per l’evoluzione della psicologia come scienza indipendente, aprendo nuovi orizzonti e introducendo metodi di ricerca innovativi. La sua vita e la sua formazione eclettica hanno contribuito in modo significativo alla sua visione della mente umana. La fondazione del primo laboratorio di psicologia a Lipsia ha sancito l’autonomia della psicologia come disciplina scientifica. Il laboratorio ha fornito uno spazio dedicato alla ricerca e alla sperimentazione, consentendo la raccolta di dati empirici e lo sviluppo di strumenti di misurazione oggettiva.

L’impatto di Wundt si estende ben oltre il suo tempo, poiché ha contribuito a creare una comunità accademica di psicologi e ha promosso l’importanza dell’approccio scientifico nell’indagine della mente e del comportamento umano. In conclusione, il lavoro di Wundt ha plasmato la psicologia come la conosciamo oggi, lasciando un’eredità di conoscenza e metodologie che continueranno a influenzare la ricerca e la pratica della psicologia nel futuro.

Sensation seeking: espressioni comportamentali e basi biologiche

Una delle spiegazioni maggiormente accreditate alla base del sensation seeking si basa su un modello in cui fattori genetici, biologici, psicofisiologici e sociali influenzano determinati comportamenti, atteggiamenti e preferenze dell’individuo (Zuckerman, et al., 1980).

Che cos’è il sensation seeking?

 Con il termine sensation seeking si intende un tratto della personalità caratterizzato dalla ricerca di sensazioni ed esperienze costantemente nuove, varie, complesse e intense accompagnata dalla volontà di correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari in nome di tali esperienze (Zuckerman, 1994, p. 27). Questo può essere rilevato ricorrendo a degli strumenti di misura, tra cui la Sensation Seeking Scale-V (SSS-V) che va a scomporre il tratto del sensation seeking in quattro dimensioni: ricerca del brivido e dell’avventura, ricerca dell’esperienza, disinibizione e suscettibilità alla noia (Zuckerman et al., 1978). Una delle spiegazioni maggiormente accreditate alla base del sensation seeking si basa su un modello in cui fattori genetici, biologici, psicofisiologici e sociali influenzano determinati comportamenti, atteggiamenti e preferenze dell’individuo (Zuckerman, et al., 1980). Coloro che presentano dei livelli elevati di sensation seeking sono propensi infatti a emettere dei comportamenti che aumentino la quantità di stimoli di cui far esperienza nella quotidianità. Un aspetto fondamentale è che i comportamenti impulsivi emessi dai sensation seekers, per esempio la pratica di sport estremi, l’utilizzo di droghe o la guida spericolata, sono tesi alla ricerca di un incremento dell’arousal, ovvero dell’attivazione dell’organismo.

Espressioni comportamentali del sensation seeking

L’incremento dei livelli di arousal ricercato dai sensation seekers può essere ottenuto attraverso molteplici comportamenti e attività.

  • Professioni che comportano richieste occupazionali perennemente nuove, inedite e stimolanti vengono considerate come particolarmente attraenti da questi individui. In uno studio pubblicato negli anni ‘70 è stato dimostrato che carriere scientifiche o di servizio sociale, come psicologo, psichiatra o assistente sociale, vengono maggiormente preferite da soggetti con livelli elevati di sensation seeking. Al contrario, punteggi bassi in questo tratto di personalità risultano associati a preferenze per lavori più strutturati e ben definiti, caratterizzati solitamente da ordine e routinarietà (Kish & Donnenwerth, 1969).
  • Un’altra attività amata dai sensation seekers è l’ascolto di musica eccitante, come l’hard rock rispetto alle composizioni classiche strumentali (McNamara & Ballard, 1999). Inoltre, i soggetti che mostrano livelli elevati di sensation seeking risultano più propensi di altri ad apprezzare forme d’arte insolite o sgradevoli (Rawlings, 2003), a viaggiare in luoghi sconosciuti o poco familiari e a partecipare volontariamente agli esperimenti in laboratorio, soprattutto se quest’ultimi vengono descritti come “pericolosi” (Trice & Ogden, 1986).
  • Un’espressione socialmente accettabile della ricerca di sensazioni costantemente nuove è la pratica di sport estremi, per esempio l’arrampicata, le immersioni subacquee, il deltaplano e il lancio con il paracadute. Tra di essi, quelli che sono caratterizzati da un rischio intrinseco maggiore, come il bungee jumping, l’arrampicata, il paracadutismo, le immersioni subacquee, lo sky surf e le corse su strada, vengono spesso preferite dai sensation seekers rispetto ad attività sportive meno rischiose (Wagner & Houlihan, 1994; Malkin e Rabinowitz, 1998).
  • La letteratura scientifica ha individuato infine una serie di comportamenti a rischio solitamente emessi dai sensation seekers costruendo così un ponte con la psicologia clinica. Per esempio, è stata osservata una relazione positiva tra i livelli di sensation seeking e il consumo di sostanze, tra cui alcool e marijuana (Earleywine & Finn, 1991). Oppure, è stato osservato che individui aventi dei livelli di sensation seeking elevati tendano ad avere più partner sessuali (Cohen & Fromme, 2002) e a compiere atti sessuali senza un’adeguata protezione contro le malattie sessualmente trasmissibili (come l’utilizzo del preservativo; Arnold et al., 2002).

Basi biologiche del sensation seeking

 A partire dagli anni ’90, Zuckerman (1996) ha ipotizzato che il sensation seeking fosse un prodotto dell’interazione tra diversi sistemi neurotrasmettitoriali, tra cui quello dopaminergico e quello serotoninergico. Ciò è stato dimostrato da una serie di esperimenti condotti sui ratti nei quali i comportamenti esplorativi degli animali venivano considerati come un indicatore affidabile dei livelli di sensation seeking. Nei loro studi sperimentali, Dellu e colleghi (1996) e Piazza e collaboratori (1993) posizionarono una frotta di ratti in un ambiente sconosciuto e, sulla base del comportamento esplorativo degli esemplari, individuarono due gruppi distinti: i ratti ad alta risposta (high responders; HR), ovvero quelli che mostravano un’elevata tendenza all’esplorazione, e gli esemplari a bassa risposta (low responders; LR), ovvero quelli che esibivano una risposta locomotoria ridotta. I ricercatori hanno osservato che i ratti HR presentavano una maggiore attività dopaminergica a livello del nucleo accumbens e una minore attività nella corteccia prefrontale rispetto ai ratti LR. Inoltre, l’aumento del rilascio da parte dei sistemi dopaminergici si associa a una diminuzione del rilascio da parte dei sistemi serotoninergici e noradrenergici. Qualche anno più tardi, Netter e colleghi (1996) hanno scoperto che l’attività di questi sistemi neurostrasmettitoriali era in relazione con particolari aspetti del sensation seeking nell’essere umano. In particolare, è stata osservata una correlazione positiva tra i domini di disinibizione e ricerca dell’esperienza della Sensation Seeking Scale-V e i livelli di dopamina dei soggetti (Netter et al., 1996). Ciò ha portato a ipotizzare che non solo i ratti HR, ma anche gli esseri umani con alti punteggi di sensation seeking possedessero dei sistemi dopaminergici up-regolati, ovvero che mostrassero dei livelli maggiori di dopamina rispetto a coloro che presentavano dei bassi livelli di sensation seeking.

Tuttavia, le basi neurobiologiche del sensation seeking e le modalità con cui questo tratto di personalità si associa ai processi cognitivi dell’essere umano sono temi che restano un terreno fertile per la ricerca.

 

Credenze metacognitive e caratteristiche alimentari in pazienti con disturbo dell’alimentazione

I disturbi alimentari (es. anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da Binge Eating) presentano preoccupazioni patologiche relative alla forma e al peso corporeo (APA, 2013).

Il nucleo psicopatologico dei disturbi alimentari

 Secondo Fairburn e colleghi (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003) il nucleo psicopatologico centrale condiviso tra i disturbi dell’alimentazione consiste nell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Inoltre, giocano un ruolo nell’esordio e mantenimento del disturbo ulteriori fattori tra cui il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare, le difficoltà interpersonali. La terapia cognitivo comportamentale è ampiamente utilizzata nel trattamento dei disturbi alimentari con tassi di remissione tra il 37% e il 69% (Linardon et al., 2017). Tuttavia, una parte dei pazienti risulta resistente a tale approccio di trattamento e rimane sintomatica, non mostrando miglioramenti (Kass, Kolko, & Wilfley, 2013).

In tal senso, un’ulteriore visione potrebbe riferirsi al modello metacognitivo (Wells, 2009), che identifica alcuni “processi psicologici transdiagnostici” coinvolti in diversi disturbi (Mansueto et al., 2019; Palmieri et al., 2018).

Le credenze metacognitive nei disturbi alimentari

Con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo, alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema, alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995). Le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994) i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti.

Le credenze metacognitive possono essere suddivise in: a) credenze metacognitive positive sulle strategie di controllo che incidono sugli eventi interni; b) credenze metacognitive negative relative al significato, all’incontrollabilità e al pericolo degli eventi interni (Wells, 2002).

Alcuni studi hanno identificato una correlazione tra credenze metacognitive e disturbi alimentari (Palmieri et al., 2021). Ad esempio, secondo alcune ricerche (Woolrich, Cooper, & Turner, 2008) le metacognizioni esplicite sarebbero coinvolte nel mantenimento dell’anoressia nervosa. Altri studi (Cooper et al., 2007; McDermott & Rushford, 2011) hanno dimostrato punteggi più elevati nel Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30), e quindi maggiori livelli di credenze disfunzionali, nei pazienti con anoressia nervosa rispetto ai soggetti di controllo.

Una recente revisione sistematica (Palmieri et al., 2021) ha ulteriormente confermato la presenza di un livello più elevato di metacredenze cognitive disfuzionali nei soggetti con diagnosi di anoressia nervosa rispetto ai soggetti della popolazione generale.

Disturbi alimentari e credenze metacognitive: lo studio

L’obiettivo dello studio esplorativo di Palmieri, Mansueto, Ruggiero e collaboratori (2022) è stato quello di indagare la relazione tra credenze metacognitive in pazienti con disturbi dell’alimentazione (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo da Binge Eating), ipotizzando che le credenze metacognitive possano essere associate alle caratteristiche centrali dei disturbi dell’alimentazione.

Il campione della ricerca è stato costituito da 57 pazienti con diagnosi di disturbi alimentari.

In termini di strumenti, sono stati somministrati al campione di soggetti clinici i seguenti questionari self-report:

  • Il questionario EDI-2  (Garner, Olmsted & Polivy, 1983), di cui sono state somministrate tre sottoscale: a) impulso alla magrezza (riflette il desiderio di perdere peso e la paura dell’aumento di peso); b) bulimia (tendenza a episodi di abbuffata e purging; c) insoddisfazione per il corpo.
  • Il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30) (Wells & Cartwright-Hatton, 2004): è uno strumento autosomministrato composto da 30 item il quale valuta le seguenti dimensioni: (1) credenze positive sul rimuginio (ad esempio, “preoccuparmi mi aiuta a fronteggiare le difficoltà”); (2) credenze negative su pensieri riguardanti incontrollabilità e pericolo (ad esempio, “quando comincio a preoccuparmi per qualcosa non riesco più a smettere”); (3) fiducia nelle proprie capacità cognitive (ad esempio, “la mia memoria talvolta mi inganna”); (4) bisogno di controllare i pensieri (ad esempio, “non essere in grado di controllare i propri pensieri è segno di debolezza”); e (5) autoconsapevolezza cognitiva (ad esempio, “presto molta attenzione al modo in cui funziona la mia mente”).

A seguito delle analisi statistiche dai dati è emerso anzitutto che pazienti con anoressia nervosa e bulimia nervosa hanno punteggi più elevati nella dimensione di “Impulso alla Magrezza” dell’EDI-2 rispetto agli altri sottogruppi del campione (pazienti con Binge Eating Disorder e pazienti con Bulimia Nervosa). Inoltre, pazienti con anoressia nervosa avrebbero livelli significativamente superiori di credenze metacognitive negative rispetto ai pazienti con diagnosi di Binge Eating Disorder. Questo dato è coerente con studi che evidenziano come i pazienti con anoressia nervosa riportino maggiori metacredenze negative rispetto alle altre categorie diagnostiche.

 In termini generali, i dati dello studio dimostrano una correlazione positiva tra le credenze metacognitive e l’impulso alla magrezza, alla tendenza ad abbuffarsi e al ricorso a comportamenti compensatori. Inoltre, tra le credenze metacognitive, la fiducia nelle proprie capacità cognitive è risultata essere un possibile fattore associato all’impulso alla magrezza.

Alcune limitazioni dello studio consistono nella scarsa numerosità del campione e dalla sua scarsa eterogeneità (prevalenza di diagnosi di anoressia nervosa).

Conclusioni

In conclusione, si evidenzia come le metacredenze disfunzionali possano essere implicate nei disturbi alimentari in linea con i risultati di altri studi (Sun et al., 2017). In termini clinici può essere importante valutare le credenze metacognitive nei pazienti con patologie del comportamento alimentare; inoltre, la terapia metacognitiva può essere utile nel trattamento di soggetti con diagnosi di disturbo alimentare.

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