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Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario

L’osservazione dello sviluppo del bambino per Stern è un modo per sezionare l’esperienza umana finalizzato alla descrizione della sua struttura.

Di Giovanni Casartelli

Pubblicato il 26 Mar. 2020

Aggiornato il 09 Apr. 2020 11:16

Stern propone delle tesi che non possono essere considerate come sue esclusive invenzioni, tuttavia, la scelta dell’autore di fondare il proprio paradigma scientifico su tali premesse consente di mettere in discussione alcuni assunti fondamentali propri di importanti scuole di pensiero, come la psicoanalisi e il cognitivismo.

Il presente contributo è il primo di una serie di articoli sull’argomento che verranno pubblicati nei prossimi giorni su State of Mind.

 

Con questo articolo vorrei suggerire di leggere l’intera opera di Stern come un’unica teoria sull’esperienza umana, coerente e sistematica che poggia su quattro tesi fondamentali.

Il mio contributo consiste dunque nel tentativo di individuare nelle quattro tesi i presupposti teorici su cui essa è basata e dai quali essa può essere dedotta. Essi costituiscono le premesse che determinano la sua unicità e le differenze rispetto ad approcci alternativi. In secondo luogo intendo presentare la Teoria del Cambiamento nell’avanzamento terapeutico (Stern, 2004) come suo diretto corollario.

Non è tanto l’originalità assoluta delle tesi ciò che vorrei sottolineare, in quanto non si tratta esclusivamente di invenzioni di Stern che non vedono precedenti nella storia del pensiero, esse infatti affondano le loro radici nella tradizione filosofica della fenomenologia. Tuttavia, con la scelta di fondare il proprio paradigma scientifico su tali premesse, egli mette in discussione alcuni assunti fondamentali propri di importanti scuole di pensiero come la psicoanalisi e il cognitivismo. In ultimo, il contributo di Stern risulta particolarmente importante per aver corroborato tali tesi con un magistrale lavoro di ricerca scientifica.

Di seguito le quattro tesi che, nell’ambito di questo e dei successivi articoli, possiamo denominare come segue:

  1. Tesi della stratificazione dell’esperienza
  2. Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita
  3. Tesi della distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza
  4. Tesi dell’intersoggettività

Tesi della stratificazione dell’esperienza umana

Nelle teorie con le quali si sostiene che lo sviluppo del bambino proceda in modo discontinuo, periodi di stabilità che hanno una certa durata sono interrotti improvvisamente da cambiamenti radicali. Questi salti segnano la fine di un periodo dello sviluppo e l’inizio del successivo. L’arco di tempo compreso tra due discontinuità è comunemente detto fase dello sviluppo.

Vi è un modello di sviluppo, che definiamo classico, che è fondato su almeno due tesi fondamentali che Stern criticherà e rifiuterà. Ricostruiamo ora tale modello attraverso l’analisi delle due tesi per passare poi a considerare le obiezioni di Stern che lo porteranno a formulare la sua posizione.

La prima tesi riguarda la modalità di successione delle fasi. Per i sostenitori del modello classico, provenienti principalmente dalla tradizione psicoanalitica, le fasi dello sviluppo sono periodi di tempo che possiamo rappresentare come segmenti adiacenti, che giacciono sulla retta del tempo della vita di un individuo. Esse succedono una all’altra in modo tale che la successiva rimpiazzi la precedente. Se pensiamo alle fasi dello sviluppo freudiane, avremo una fase orale che termina quando inizia la fase anale, la quale termina quando inizia la fase fallica ecc., senza sovrapposizioni. Esse sono periodi nei quali il bambino vive in una certa modalità il rapporto con la madre e con il mondo attorno a lui; una volta terminata una fase, questa modalità sarà sostituita dalla successiva. Tale tesi si può definire come “Tesi dello sviluppo lineare dell’esperienza”. Stern attribuisce tale tesi sia alla tradizione psicoanalitica che alla psicologia dello sviluppo, entrambe infatti concepiscono lo sviluppo come caratterizzato da forti discontinuità che segnano la fine di una determinata fase e l’inizio della successiva, dove quest’ultima sostituisce o ingloba la precedente senza la possibilità di una convivenza simultanea. A conferma di ciò, le parole di Stern.

L’idea tradizionale sia del bambino clinico sia del bambino osservato induce a considerare una sequenza di fasi. In entrambi i modelli la visione del mondo del bambino si trasforma drasticamente all’ingresso in ogni nuovo stadio, e il mondo viene visto, prevalentemente se non esclusivamente, secondo l’organizzazione del nuovo stadio. (Stern, 1987, p. 45)

La seconda tesi invece riguarda il modo in cui vengono individuate le fasi ed il significato che esse hanno rispetto all’esperienza dell’individuo adulto. Nell’approccio psicoanalitico esse sono ricavate principalmente dalla ricostruzione dell’infanzia di pazienti adulti. Circa il loro significato, non sono da intendere solo come stadi di riorganizzazioni pulsionali, ma anche come periodi di tempo entro i quali il bambino ha a che fare con un preciso problema clinico che deve superare, pena il suo ripresentarsi in forma patologica quando sarà adulto. Le fasi dunque, in questo secondo senso, sono archi di tempo entro i quali originano determinate psicopatologie e, per l’adulto, corrispondono al luogo dove cercare le cause dei propri sintomi psichici.

Le teorie psicoanalitiche dello sviluppo hanno in comune un’altra premessa. Tutte postulano che lo sviluppo proceda secondo stadi successivi, che costituiscono fasi specifiche non solo per lo sviluppo dell’Io e dell’Es, ma anche per determinati aspetti protoclinici. In effetti, le fasi evolutive riguardano il modo in cui il bambino affronta un particolare problema clinico che può manifestarsi in forma patologica nella vita successiva. (Ivi, p. 35)

A tal proposito, in Stern (1985) troviamo una citazione di Peterfreund:

due fondamentali errori concettuali, caratteristici in particolare del pensiero psicoanalitico: una visione adultomorfica della prima infanzia e la tendenza a descrivere gli stadi primitivi dello sviluppo normale in termini di ipotesi riguardanti stati psicopatologici successivi. (Ibidem)

In tal senso, quest’ultima posizione si può definire come “Tesi adultomorfica e patomorfica dello sviluppo”.

Prendo ora in considerazione le obiezioni di Stern a queste due tesi, iniziando dalla seconda. In primo luogo, egli osserva che le fasi psicoanalitiche non sono confermate dall’osservazione diretta sul bambino condotta dalla psicologia dello sviluppo. Esse, infatti, non sono sostenute da una dimostrazione empirica in quanto non sono state ricavate dall’osservazione del bambino, ma sono frutto di una ricostruzione del passato dell’adulto, realizzata a posteriori e finalizzata a spiegare l’origine dei suoi sintomi psichici. Le fasi psicoanalitiche sarebbero periodi di un passato mai esistito costruito appositamente per accogliere la retroiezione delle cause delle nostre nevrosi.

[l’infanzia clinica] viene creata allo scopo di dare un senso a un intero periodo della storia di un paziente, una storia che emerge mentre viene narrata a qualcun altro. […] La verità storica viene stabilita da ciò che viene detto, non da ciò che veramente accadde. Questo modo di vedere implica la possibilità che ogni narrazione della propria vita valga esattamente quanto un’altra. (Ivi, p. 32)

Il bambino descritto dal punto di vista psicoanalitico è chiamato da Stern “bambino clinico” ed è il frutto di una ricostruzione a posteriori.

Questo bambino è la creatura prodotta congiuntamente da due individui uno dei quali è l’adulto, che è giunto ad essere un paziente psichiatrico, e l’altro è il terapeuta, che ha una sua teoria sull’esperienza infantile. (Ivi, p. 30)

Il meccanismo retroiettivo, patomorfico e adultomorfico di ricostruzione dello sviluppo dell’infante, è, dunque, attaccato da Stern. Egli formula contro di esso anche un secondo argomento con il quale mette in luce la natura culturale delle categorie psicoanalitiche attraverso le quali viene riletto lo sviluppo del bambino. I concetti di simbiosi, fiducia, autonomia ecc., secondo alcuni studi sull’influenza della società sul rapporto madre-bambino (Sameroff, 1983), sono dei semplici prodotti della nostra cultura, destinati in futuro a variare e quindi poco attendibili per una ricostruzione oggettiva dello sviluppo.

È doveroso tuttavia sottolineare che non tutti gli psicoanalisti sono in accordo rispetto al problema del significato delle fasi dello sviluppo nell’esperienza dell’adulto. Da un lato troviamo chi come Schafer (1981) sostiene una posizione “estrema”: le narrazioni dell’infanzia del paziente sono completamente disancorate dalla sua reale storia e non è necessario che siano verificate da fatti osservabili. La ricostruzione, in questo senso, ha valore semplicemente se

appare (al narratore), dopo attenta considerazione, sufficientemente fornita di coerenza, compattezza, portata e senso comune. (Schafer, 1981, p. 46)

Le diverse narrazioni possibili sono così equivalenti tra loro a patto che godano di coerenza e compattezza e la loro aderenza ai fatti realmente accaduti è irrilevante. La loro funzione è relativa solo al presente dell’adulto e possono essere ricostruite arbitrariamente per fini terapeutici.

Dall’altro lato troviamo invece chi come Ricoeur (1977) sostiene una posizione meno estrema. Le fasi in quest’ottica sarebbero potenzialmente verificabili attraverso l’osservazione diretta del bambino o attraverso altre prove indipendenti dalle diverse narrazioni.

Ecco come Stern spiega la posizione di Ricoeur.

Ricoeur esprime l’opinione che esistano alcune ipotesi generali sul modo in cui la mente funziona e si sviluppa, indipendentemente dalle varie narrazioni che si possono costruire, ad esempio la sequenza delle fasi dello sviluppo psicosessuale o la natura evolutiva del modo di stabilire relazioni con oggetti o persone. ( Stern, 1987, p. 33)

Ricoeur si mostra in contrasto con la posizione di Schafer:

le affermazioni della psicoanalisi diverrebbero una sorta di retorica della persuasione sotto il pretesto che è l’accettabilità della storia per il paziente a essere terapeuticamente efficace. (Ricoeur, 1977)

Chiarita la dialettica delle posizioni interna alla tradizione psicoanalitica, torniamo alla teoria sterniana.

Al “bambino clinico” Stern oppone il “bambino osservato”, descritto in base alle osservazioni dirette del suo comportamento, nel momento in cui esso è prodotto, condotte dagli psicologi dello sviluppo. Attraverso esperimenti e osservazioni di videoriprese, gli psicologi appartenenti a questa linea di ricerca hanno raccolto dati relativi alle risposte comportamentali dei bambini a determinati stimoli. Questi esperimenti, secondo Stern, possono dirci qualcosa anche sulla vita soggettiva dell’infante e questo è possibile interpretando il comportamento osservato come risposta ad una determinata domanda, appositamente formulata. Per esempio, è possibile avere informazioni sulla capacità di riconoscere determinati oggetti, di preferire determinati stimoli, ma soprattutto sulla presenza di una forma di autocoscienza preriflessiva che Stern chiama Senso del Sé e che costituisce uno dei concetti più importanti della sua teoria.

Il senso del Sé non compare solo in età verbale (dai 15-18 mesi), quando il bambino diviene capace di pensare se stesso oggettivandosi in modo riflessivo, ma emerge sin dai primi giorni di vita. Smentendo una convinzione consolidata, Stern spiega dunque che non è il linguaggio a consentire il fiorire di un senso del Sé, quest’ultimo è presente, in forma preriflessiva, in ogni nostra esperienza cosciente (in senso fenomenico), sin da quando nasciamo.

Secondo la lettura che vorrei proporre, l’idea che vi sia una forma di autocoscienza preriflessiva che accompagna le nostre esperienze, anche in assenza di una vera e propria riflessione su di sé, avvicina Stern ad alcune tesi dei grandi filosofi appartenenti alla fenomenologia, come Husserl, Heidegger e Sartre. La tesi dell’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva è, infatti, condivisa da tutti loro. Tale forma di autocoscienza non richiede strumenti linguistici e una coscienza riflessiva, ma si dà immediatamente in ogni coscienza fenomenica. L’esperire x contiene già un rimando implicito a sé, che non dà vita ad una struttura soggetto–oggetto, cioè che non avviene attraverso un’oggettivazione di sé. Riporto le chiare considerazioni di Gallagher e Zahavi attraverso due passaggi de La mente fenomenologica (2008).

Letteralmente, tutte le maggiori figure della fenomenologia difendono l’idea secondo cui una forma minima di autocoscienza è una caratteristica strutturale costante dell’esperienza cosciente. Quest’ultima si dà per un soggetto d’esperienza in modo immediato, e fa parte di tale immediatezza il fatto che essa sia implicitamente caratterizzata come mia. Per i fenomenologi, questa datità immediata e in prima persona dei fenomeni esperienziali deve essere spiegata con la nozione di autocoscienza preriflessiva. (Gallagher e Zahavi, 2008)

Inoltre, non è una autocoscienza tematica, frutto di attenzione, ne è provocata volontariamente; al contrario, è tacita e, cosa assai significativa, è completamente non osservativa, cioè non consiste nell’osservazione introspettiva di me stesso. (Ibidem)

Accosto ora a tali parole quelle di Stern:

che tipo di senso del Sé può esservi in un bambino in fase preverbale? Per “senso” intendiamo qui la semplice coscienza, distinta dalla consapevolezza autoriflessiva. Stiamo parlando di esperienza diretta, non di pensiero. Quando dico Sé mi riferisco ad uno schema stabile di consapevolezza che si presenta solo in occasione di azioni o di processi mentali dell’infante. Un tale schema è una forma di organizzazione di ciò a cui in seguito ci si riferirà verbalmente come al “Sé”. Questa esperienza soggettiva organizzante è la controparte esistenziale, preverbale, del Sé oggettivabile, autoriflessivo e verbalizzabile. (Stern, 1987, p. 24)

Tali passaggi, a mio avviso, non necessitano chiarimenti. Stern fa propria l’idea fenomenologica dell’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva, l’unica che potrebbe esserci in un bambino in età preverbale; essa accompagna ogni sua esperienza cosciente e rimanda al proprio Sé senza tematizzarlo. Come vedremo, anche Stern, come i filosofi della tradizione fenomenologica, sosterrà che tale forma di autocoscienza sopravviverà anche nell’individuo adulto, non solo accompagnando la riflessione oggettivante di sé, ma rendendola possibile. È infatti la presenza di un sostrato esperienziale implicito a rendere possibile l’oggettivazione, sempre successiva, del Sé.

Veniamo ora alla critica di Stern alla tesi del modello classico, che ho chiamato, “Tesi dello sviluppo lineare”, secondo la quale le fasi evolutive si rimpiazzano via via l’un l’altra senza sovrapporsi. Anche secondo Stern lo sviluppo procede per fasi. Ognuna di queste è caratterizzata dalla comparsa di un particolare tipo di senso del Sé. Nei primi giorni di vita insorge il senso del Sé “emergente”, che Stern definisce come un processo di formazione di un primo senso del Sé. Intorno ai due mesi compare il senso del Sé “nucleare”, col quale il bambino sperimenta se stesso come un corpo unico diviso dalla madre e dal mondo esterno. A 7-9 mesi compare il senso del Sé “soggettivo” che corrisponde alla “scoperta della mente” e della possibilità di condividere gli stati mentali con la madre attraverso il processo di sintonizzazione degli affetti vitali. Infine dopo i 15-18 mesi troviamo il senso del Sé verbale col quale compare il linguaggio e, per la prima volta, la capacità di riferirsi a Sé in modo riflessivo. Ognuno di questi sensi del Sé è accompagnato da un determinato “campo di relazione” che corrisponde al modo in cui il bambino esperisce la relazione con gli altri. Ma veniamo alla differenza col modello classico. Per Stern i sensi del Sé, una volta formati non scompaiono più, al contrario rimangono attivi per tutta la vita dell’individuo. Quando, in prossimità delle discontinuità dello sviluppo, compare un nuovo senso del Sé, esso si accosta a quelli già formati e convive con essi. Al termine dello sviluppo avremo quattro sensi del Sé con i relativi campi di relazione, accostati parallelamente e simultaneamente operanti. L’individuo adulto, secondo questa prospettiva, esperisce la realtà contemporaneamente su livelli differenti.

Possiamo definire questa tesi di Stern “Tesi della stratificazione dell’esperienza”. Per usare una metafora ingegneristica potremmo paragonare lo sviluppo dell’esperienza umana alle fasi di costruzione di una struttura. I vari elementi che la compongono vengono assemblati uno dopo l’altro fino a quando la struttura non è ultimata, dopodiché i vari elementi svolgeranno il loro ruolo simultaneamente. Questo punto di vista ci fa comprendere quale sia il vero significato del lavoro di ricerca di Stern sul bambino. L’osservazione dello sviluppo del bambino è paragonabile all’osservazione delle fasi di costruzione della struttura, è una visita nel cantiere dell’esperienza, momento privilegiato e unico nel quale poter osservare gli elementi, uno ad uno, prima che l’intera struttura li renda singolarmente inavvicinabili. Lungi dunque dall’essere un’ossessiva indagine fine a se stessa di tipo specialistico, l’osservazione del bambino per Stern è un modo per sezionare l’esperienza umana finalizzato alla descrizione della sua struttura.

 

Leggi gli altri articoli sull’argomento:

  1. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
  2. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
  3. Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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