Stern distingue tra esperienza esplicita, che ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, di oggettivare se stessi in modo riflessivo e di usare le parole per eseguire resoconti della propria esperienza, ed esperienza implicita, un’esperienza prelinguistica, non verbale, non simbolica e che non presenta forme di coscienza riflessiva.
Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Nel primo articolo è stata approfondita la Tesi della stratificazione dell’esperienza di Stern. I successivi articoli verranno pubblicati nei prossimi giorni.
Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita
Nella stratificazione dell’esperienza, tra i diversi livelli, vi è un punto di frattura che separa due tipi di esperienza qualitativamente differenti. Il punto di discontinuità è collocato tra i primi tre sensi del Sé e l’ultimo, cioè in prossimità della comparsa del linguaggio. I primi tre sensi del Sé appartengono a quella che Stern chiama l’esperienza implicita e il senso del Sé verbale all’esperienza esplicita. Tali dimensioni dell’esperienza costituiscono due sistemi distinti e paralleli. Non vi è un’evoluzione che nel tempo trasforma l’esperienza implicita in quella esplicita, come due periodi dello sviluppo, ma vi è una convivenza tra due sfere dell’esperienza che operano simultaneamente.
Vediamo ora le caratteristiche dei due tipi di esperienza, l’implicita e l’esplicita, attraverso le parole di Stern (2004).
In estrema sintesi, la conoscenza implicita è non simbolica, non verbale, procedurale e inconscia (nel senso che non è riflessivamente conscia), mentre quella esplicita è simbolica, dichiarativa, cosciente (in senso riflessivo), verbalizzabile e narrabile (p. 93).
Analizzando le proprietà delle due forme di esperienza si può notare come ciò che fa da spartiacque sia proprio la comparsa del linguaggio. L’esperienza esplicita, infatti, ha le caratteristiche dell’esperienza linguistica e cioè la capacità di utilizzare simboli, la capacità di oggettivare se stessi in modo riflessivo e l’uso delle parole per eseguire resoconti della propria esperienza. L’esperienza implicita è, invece, un’esperienza prelinguistica e ha caratteristiche opposte a quella esplicita, essa è non verbale, non simbolica e non presenta forme di coscienza riflessiva.
In estrema sintesi, quando la nostra esperienza è messa a tema e quindi ha la forma del resoconto verbale, o solo mentale, di ciò che stiamo esperendo, si tratta di una forma di esperienza esplicita. È da notare che tale resoconto non può essere simultaneo all’esperienza che ha come oggetto, vi è infatti sempre un pur piccolo scarto temporale tra le due esperienze e quella esplicita è sempre successiva. A conferma di ciò, ecco le parole di Stern (2004).
il momento presente viene esperito mentre è ancora in corso, dunque la sua conoscenza non può essere esplicita, simbolica o verbale. Queste proprietà, infatti, gli vengono attribuite solo a posteriori.
Se accettiamo la distinzione tra coscienza fenomenica (o semplice consapevolezza) e coscienza riflessiva, possiamo affermare che l’esperienza esplicita è accompagnata da una forma di coscienza riflessiva che ha come oggetto un’esperienza fenomenica. Se con ESP1(x) indichiamo la consapevolezza di x che abbiamo in un tempo t1, allora l’esperienza esplicita sarà del tipo ESP2(ESP1(x)) dove con tale espressione si vuole intendere la consapevolezza della consapevolezza di x.
Per maggior chiarezza riporto le parole di Gallagher e Zahavi (2008) attraverso le quali spiegano con una metafora tale struttura:
Un modo per illustrare l’idea guida di questo approccio è quella di paragonare la coscienza a un fascio di luce. Alcuni stati mentali sono illuminati, mentre altri espletano la loro funzione nell’oscurità. Ciò che rende cosciente (illuminato) uno stato mentale è il fatto di essere preso a oggetto da uno stato di ordine superiore (p. 80).
In un dato istante t1 l’individuo adulto può esperire il mondo anche solamente in modo implicito e cioè attraverso una semplice coscienza fenomenica, come quando siamo impegnati in un’operazione che richiede molta attenzione. Tale esperienza implicita – ESP1(x) – può in un momento t2 essere oggettivata da un’esperienza esplicita con la quale portiamo a tema ciò che abbiamo esperito nella forma ‘ho esperito x’ – ESP2(ESP1(x)) – o, impropriamente, ‘sto esperendo x’. Come detto sopra, il resoconto sarà sempre, per così dire, ‘in ritardo’ rispetto all’esperienza originaria.
Spesso capita di illuderci di essere coscienti riflessivamente, in un determinato momento, di ciò che stiamo facendo e ci esprimiamo per esempio nella forma ‘ora sto scrivendo’. In realtà ciò che accade è che nel momento in cui attiviamo una coscienza riflessiva che mette a tema ciò che stiamo facendo, dobbiamo sospendere la nostra coscienza su quell’attività e lasciare eventualmente che essa venga svolta in modo automatico e in assenza di consapevolezza (in un determinato istante o sono consapevole del contenuto della mia scrittura – ESP1(x) – prestando attenzione a ciò che scrivo, oppure sono consapevole di esserne consapevole – ESP2(ESP1(x)) – interrompendo la mia attività, ma non entrambe le cose contemporaneamente). Queste interruzioni possono essere frequenti e ravvicinate e ciò ci dà l’illusione di una simultaneità tra le due forme di coscienza. Ecco a tal proposito le parole di Gallagher e Zahavi (2008).
Al contrario, quando riflettiamo, facciamo un passo indietro rispetto all’attività mentale che è in corso e, come Richard Moran ha recentemente osservato, questo fare un passo indietro è una metafora di distanziamento e separazione, ma anche di osservazione e confronto (pp. 103-104).
Ancora una volta è possibile tracciare un parallelismo tra la teoria di Stern e la fenomenologia. Seguiamo ancora Gallagher e Zahavi in un passaggio estremamente chiaro col quale spiegano il pensiero di Husserl e Merleau-Ponty:
La temporalità contiene una frattura interna che ci permette di ritornare sulle nostre esperienze passate per indagarle riflessivamente; e tuttavia questa stessa frattura ci impedisce anche di coincidere pienamente con noi stessi. Rimarrà sempre una differenza tra il vissuto e il compreso (p. 101).
Ma come è possibile coniugare quest’idea di uno scarto temporale ineliminabile tra esperienza implicita ed esplicita con la tesi della stratificazione dell’esperienza? Secondo quest’ultima i livelli dell’esperienza dovrebbero essere attivi simultaneamente. In realtà le due tesi non sono affatto incompatibili, esperienza esplicita ed implicita possono tranquillamente convivere simultaneamente. Per esempio se sto guidando la mia auto posso contemporaneamente pensare al fatto che prima di partire ho parlato con una certa persona. Nel momento in cui un soggetto ha un’esperienza esplicita, infatti, essa è sempre accompagnata da tutta una serie di esperienze implicite che passano inosservate. Le esperienze implicite possono essere caratterizzate da un alto livello di attenzione e focalizzazione, oppure avvenire in modo automatico e inconsapevole, andando così a costituire quelli che Stern chiama i buchi di coscienza. Da un lato, dunque, vi sono quelli che Stern chiama i momenti presenti, brevi periodi temporali che formano unità percettive globali dotate di senso, in cui è possibile scomporre la nostra esperienza diretta del mondo e che, pur essendo impliciti, rimangono impressi nella memoria e recuperabili come oggetto di una successiva riflessione. Dall’altro lato vi sono i buchi di coscienza, ossia esperienze vissute che non si fissano nella memoria a lungo termine e non possono più essere recuperate. Alla descrizione del momento presente Stern dedica un’importante opera (Stern, 2004) nella quale compie un’analisi fenomenologica dell’esperienza implicita e del suo aspetto temporale.
Stern si oppone ancora una volta al modello classico e in particolar modo alla tesi dello sviluppo lineare dell’esperienza, che vorrebbe vedere una sostituzione dell’esperienza prelinguistica con quella linguistica. Ciò che critica fortemente è la possibilità di una traduzione dell’esperienza implicita in esperienza esplicita. Nella traduzione infatti molte caratteristiche dell’esperienza implicita vengono perdute. Per esempio quando si traduce una percezione amodale attraverso un resoconto verbale, che ne specifica il canale sensoriale coinvolto, si perde la sua amodalità; ecco un celebre esempio che Stern (1985) usa per spiegare questa perdita.
Consideriamo ad esempio un bambino che osserva una macchia gialla di sole sulla parete. Il bambino sperimenterà l’intensità, il calore, la forma, la brillantezza, il piacere e altri aspetti amodali della macchia. Il fatto che la macchia sia gialla non è molto importante, anzi non lo è per niente. Mentre guarda la macchia e la sente-percepisce (secondo Werner), il bambino vive un’esperienza globale che è la risultante di una serie di esperienze amodali, o qualità percettuali primarie, inerenti alla macchia di luce: intensità, calore, etc. Per poter mantenere questa prospettiva altamente flessibile e onnidimensionale sulla macchia, il bambino deve restare cieco a quelle particolari proprietà (qualità percettuali secondarie e terziarie come ad esempio il colore) che specificano il canale sensoriale attraverso il quale la macchia viene sperimentata. Non deve notare né essere consapevole del fatto che si tratta di un’esperienza visiva. Ma il linguaggio costringerà il bambino a fare proprio questo. Qualcuno entrerà nella stanza ed esclamerà: ‘Oh! Guarda che bella macchia gialla di luce!’ (p. 182).
Un altro motivo di perdita delle caratteristiche dell’esperienza implicita è costituito dall’applicazione dei concetti nella descrizione di determinate esperienze. Questo fa sì che venga persa la singolarità dell’episodio per via della generalizzazione che il resoconto concettuale comporta. Ecco le parole di Stern (1985).
Nessun episodio specifico ha un suo proprio nome. Le parole si applicano a classi di cose […] Gli episodi specifici passano attraverso il setaccio linguistico e non possono essere riferiti verbalmente se non quando il bambino è molto avanti nell’uso del linguaggio, a volte mai (p. 183).
Ma non vi sono solo problemi legati alla perdita di alcune caratteristiche, vi sono, come abbiamo detto, intere esperienze implicite che non possono essere catturate dal nostro linguaggio. Ancora Stern (1985).
Infine, esistono esperienze globali al livello della relazione nucleare e intersoggettiva (quale ad esempio il senso del Sé nucleare) che non si aprono al linguaggio in misura sufficiente da consentire un’operazione di trasformazione linguistica. Esperienze del genere, dunque, sono condannate a condurre una vita clandestina, non verbalizzata, e in una certa misura sconosciuta, ma tuttavia assolutamente reale (p. 181).
Non è dunque possibile pensare di trasformare l’intera esperienza implicita in esperienza esplicita effettuando un resoconto linguistico. La nostra cultura tuttavia, influenzata dal modello classico, ha sempre privilegiato l’esperienza esplicita considerandola come la versione ufficiale della nostra esperienza. È proprio contro questa convinzione che si scaglia fortemente Stern (1985) mostrando, senza troppi giri di parole, di ritenere che la comparsa del linguaggio non sia solo una conquista positiva dello sviluppo ma comporti molti aspetti negativi.
E tuttavia in realtà il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Esso fa sì che parti della nostra esperienza divengano più difficilmente comunicabili a noi stessi e agli altri. Inserisce un cuneo fra due forme simultanee di esperienza interpersonale: quella vissuta e quella verbalmente rappresentata (p. 169).
E, nella misura in cui agli eventi che hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di ‘realtà’, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno luogo negli altri campi. (Possono divenire i campi sommersi dell’esperienza.) Il linguaggio, dunque, produce una scissione nell’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale, astratto, intrinseco al linguaggio stesso.
Come è possibile capire da questi passaggi, Stern (2004) propone, in modo molto impopolare, di rivalutare il rapporto tra l’esplicito e l’implicito, cioè tra il linguaggio e l’esperienza prelinguistica, mettendo in discussione i valori che comunemente la nostra cultura attribuisce loro e l’attenzione ad essi dedicata.
Quando un’esperienza viene espressa a parole, si guadagna e si perde qualcosa. Si perde in integrità, autenticità e ricchezza (p. 120).
A proposito dell’apprendimento del linguaggio, è sottolineato come il mondo delle esperienze preverbali e implicite, ricco e confortevole, venga mandato in frantumi e si disperda in mille pezzi irriconoscibili.
In conclusione, la distinzione qualitativa tra esperienza implicita ed esplicita, la loro convivenza simultanea come due sistemi distinti, paralleli e relativamente indipendenti e l’inversione dei loro valori rispetto a quelli attribuitigli dalla nostra cultura costituiscono l’ossatura della seconda tesi sterniana che ho chiamato ‘Tesi della frattura tra esperienza esplicita ed implicita’.
Leggi gli altri articoli sull’argomento:
- Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza e la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 26 Marzo 2020
- Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la frattura tra esperienza esplicita ed implicita – Pubblicato su State of Mind il 02 Aprile 2020
- Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività – Pubblicato su State of Mind il 09 Aprile 2020
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Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la teoria del cambiamento come diretto corollario – Pubblicato su State of Mind il 16 Aprile 2020