La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).
Il modello medico ritiene che la disabilità derivi dalle limitazioni fisiche o mentali di una persona. Il problema risiede nella persona, che è vista come in qualche modo deficiente o anormale. La gente va dai medici con un problema e il medico diagnostica il problema e prescrive una cura. Per la maggior parte delle malattie, questo modello può essere sufficiente: ad esempio, una persona può presentare un forte dolore addominale, le può essere diagnosticata un’appendicite e può subire un’operazione per rimuovere l’appendice. In altre condizioni, tuttavia, adottare solo tale modello aumenta il rischio di pregiudizi e discriminazioni.
Il modello sociale della disabilità suggerisce che la disabilità è spesso creata da atteggiamenti, pregiudizi e barriere erette dalla società e non da qualche problema o deficit dell’individuo.
Il movimento della neurodiversità offre una contro-narrativa al modello medico. La neurodiversità è definita come un paradigma bio-politico interessato alla promozione dei diritti e alla prevenzione di discriminazione nei confronti di persone neurologicamente diverse dalla popolazione “neurotipica” (o non autistica).
La neurodiversità spiega, nel suo senso più ampio, lo sviluppo neurologico atipico come una normale variazione naturale del cervello umano, una forma alternativa della biologia umana. Per la neurodiversità, le persone con autismo rappresentano una normale variazione neurologica al pari di etnia, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Il paradigma della neurodiversità sostiene che la condizione autistica non è una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana o una differenza nei modi di socializzare, comunicare e percepire, che non sono affatto necessariamente svantaggiosi (Jaarsma e Wellin, 2012).
Storia del termine
Judy Singer, una scienziata sociale con tratti autistici, ha coniato il termine nel 1998. Con la sua definizione, la sociologa ha posto l’accento sulle qualità e le risorse delle persone neurodiverse, valorizzando i loro modi atipici di imparare, pensare ed elaborare informazioni, vedendoli come variazioni umane.
Harvey Blume ha reso popolare questo termine in un numero del 1998 di The Atlantic:
La neurodiversità può essere altrettanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale. Chi può dire quale forma di cablaggio si dimostrerà migliore in un determinato momento? La cibernetica e la cultura informatica, ad esempio, possono favorire un modo di pensare un po’ autistico
L’anno successivo Judy Singer scrive:
Il “Neurologicamente diverso” rappresenta una nuova aggiunta alle familiari categorie politiche di classe/genere/razza e aumenterà le intuizioni del modello sociale della disabilità.
Idee sostenute con fervore anche a distanza di anni, in un’intervista rilasciata al giornalista Andrew Solomon nel 2008:
Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali (Solomon, 2008).
Da allora, il paradigma della neurodiversità si è espanso fino a comprendere un gruppo di condizioni cognitive come dislessia, discalculia, disprassia, sindrome di Tourette e disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Le persone che presentano queste condizioni sono oggi indicati come neurodiversi.
La neurodiversità nella storia e in azienda: da Paul Dirac a Steve Jobs
Nella letteratura sulla neurodiversità spiccano diversi nomi di individui brillanti che, nella loro vita, hanno imparato a sfruttare al meglio le loro diverse capacità: Paul Dirac per autismo e Asperger, Mozart e Shakespeare per l’ADHD, Einstein per dislessia. Tra i personaggi più recenti che spiccano nel panorama della neurodiversità troviamo Steve Jobs, dislessico, e Richard Branson, a capo della Virgin, che ha definito la sua dislessia “un vantaggio”. L’attore canadese Dan Aykroyd, star dei Blues Brothers, e la famosa cantante Susan Boyle hanno rivelato di avere la sindrome di Asperger. Per l’ADHD ricordiamo Jim Carrey e l’imprenditore David Neeleman fondatore di diverse compagnie aeree.
Non sottolineare i limiti ma evidenziare le potenzialità, questo il nodo centrale del paradigma della Neurodiversità.
Le persone con ADHD, ad esempio, potrebbero avere più facilità in compiti multi-tasking, operando bene in situazioni stressanti con numerosi input. Hanno altresì maggiori probabilità di essere molto creativi e, con il giusto stimolo, in grado di “iperfocalizzare”.
Gli individui con autismo e Asperger hanno più probabilità di avere punteggi superiori di intelligenza musicale, una migliore attenzione al dettaglio e capacità visuo-spaziali al di sopra della norma. Le persone con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, inoltre, si dimostrano più abili nel lavoro con i sistemi informatici (ad esempio, i linguaggi di programmazione e i sistemi matematici) e si rilevano migliori rispetto a soggetti non autistici nell’individuare piccoli dettagli in modelli complessi (Baron-Cohen et al., 2009). Inoltre, ottengono punteggi significativamente migliori nel test di intelligenza logico-matematico Matrici di Raven rispetto a quelli ottenuti alla Wechsler Adult Intelligence Scale (Mottron, 2011).
La tendenza a investire sui punti di forza delle persone neurodiverse si fa oggi strada nelle decisioni di molte aziende che operano in ambito tecnologico: persone autistiche sono ricercate con maggiore frequenza per svolgere mansioni lavorative, come la scrittura di manuali informatici, la gestione di database e la ricerca di errori nei codici informatici, che richiedono organizzazione e sequenziamento (Wang, 2014).
Le abilità visuo-spaziali che possono appartenere ai dislessici, ad esempio quella di individuare oggetti nascosti (Von Károlyi et al., 2003) o di percepire informazioni visive in modo più rapido ed efficiente rispetto ai non dislessici (Geiger et al., 2008), sembrano rivelarsi vantaggiose in lavori che richiedono il pensiero tridimensionale, come l’astrofisica, la biologia molecolare, la genetica e l’ingegneria (Paul, 2012; Charlton, 2013).
La Dislessia e i DSA in particolare ci consentono di comprendere molto bene quanto spesso quelli che vediamo come “limiti” o disturbi siano spesso prodotti della società. La Dislessia, caratterizzandosi come una differenza nello stile di apprendimento poco incline all’automatizzazione della lettura, porta oggi a maggiori difficoltà in ambito scolastico, in quanto la società odierna impone la lettura come unico (o quasi) strumento di apprendimento. Se però prendiamo in considerazione le società preletterate, in cui le conoscenze venivano trasmesse per via orale, la Dislessia non rappresentava un ostacolo alla riuscita personale. Allo stesso modo, i tratti dell’ADHD potevano essere caratteristiche funzionali nelle società preistoriche in cui la caccia e la ricerca di cibo necessitavano di velocità di reazione e di movimento (Jensen et al., 1997).
Il dibattito sulla neurodiversità
In merito all’autismo e considerando l’ampio utilizzo del termine neurodiversità, soprattutto le posizioni più estreme che si interfacciano sull’argomento e in particolare sul concetto di cura, alcuni autori (Baker, 2006; Jaarsma e Welin, 2012) hanno messo in luce uno specifico paradosso. Con neurodiversità, facciamo riferimento a una normale variazione neurologica al pari di etnia, genere o sessualità (Jaarsma e Wellin, 2012). Quindi la condizione autistica non sarebbe una condizione da curare, quanto piuttosto una specificità umana. Cosa dire, però, delle persone con spettro autistico che hanno bisogno di particolari cure? Il loro bisogno di cura non rischia di perdersi nello stato di una naturale variazione (Jones et al 2001)? Fino a che punto la società crea una disabilità? Se l’idea di cura in questo caso fomenta stereotipi e pregiudizi, con l’accettazione incondizionata della neurodiversità non si rischia, però, di non dar voce alle persone con autismo “più grave”, coloro che mettono in atto comportamenti autolesionistici, tanto per fare un esempio? Sostenendo incondizionatamente la visione della neurodiversità non si rischia di perdere gli aiuti e il diritto all’assistenza, soprattutto a livello sociale e politico, oggi già carenti, per quelle persone autistiche che invece ne hanno bisogno?
Con un suo articolo del 2017, John Elder Robinson, autistico, consulente del Neurodiversity Institute del Landmark College di Putney, sembra fornire una risposta agli interrogativi del dibattito. Egli illustra come negli ultimi anni il tema della neurodiversità sia diventato di primaria importanza, condividendone il punto di vista, ma dichiarandosi anche pronto a sottolineare che ciò non significa che l’autismo non crei delle difficoltà a chi ci convive.
Per quanto riguarda la consapevolezza dell’autismo, secondo Robinson infatti, un pericolo in cui si incorre è il non guardare più alle difficoltà di alcuni autistici, pericolo dovuto alla tendenza nel promuovere esclusivamente il talento e i successi delle persone autistiche.
Eppure, Robinson crede che sia possibile parlare di neurodiversità e mettere in luce gli aspetti e i talenti dei neurodiversi, abbracciando anche l’idea di cura, nel rispetto delle difficoltà che incontrano le persone autistiche. Ciò su cui porre l’attenzione è la definizione di “cura” che spesso, nel dibattito sulla neurodiversità, si rivendica o si rinnega.
Se si considera la cura come “sollievo dalla sofferenza”, allora si scopre come la cura non sia motivo di discriminazione: tutti, in un qualsiasi momento della loro vita, hanno bisogno di alleviare alcune loro sofferenze. Tutti dovrebbero sostenere il diritto al sollievo dalla sofferenza. Nessuno dovrebbe vivere nella paura di crisi epilettiche o soffrire di ansia debilitante o di dolore intestinale. Il vero problema insorge se per cura si intende il “liberarsi di un genere di persone”. Ciò a partire dagli investimenti: perché, si chiede Robinson, oggi giorno sempre più risorse economiche sono investiste per studiare le basi biologiche e genetiche dell’autismo (che, ricorda lo stesso Robinson, sono comunque studi importanti e da non ripudiare) ma sempre meno sono le risorse destinate al sostegno delle difficoltà delle persone con autismo?
Dovremmo tutti sostenere lo sviluppo di tecnologie che aiutino gli autistici che non parlano, ad esempio, a comunicare con il resto del mondo. Dovremmo continuare a implementare trattamenti efficaci per gestire le crisi e i comportamenti autoloesionistici degli individui con autismo. Dovremmo anche sostenere lo sviluppo di terapie per aiutare le persone autistiche a organizzare le loro vite, a fare amicizia, a rendersi autonomi, coinvolgendo il mondo del lavoro (oltre le assunzioni, mantenendo un ambiente attento ad ogni esigenza) e coinvolgendo la società tutta (Robinson, 2017).
Diffondere la cultura della neurodiversità tuttavia non dovrebbe spaventare coloro che vivono una condizione di difficoltà, temendo che possa derivarne una banalizzazione con conseguente risparmio di risorse dedicate a chi necessita di cura. Parlare di neurodiversità consentirebbe invece, a lungo termine, di ridurre quella quota di disabilità che dipende proprio dal mancato riconoscimento della società neurotipicamente orientata di poter essere anche qualcosa di diverso e di potersi permettere una vita felice e autonoma frutto di un “compromesso culturale” tra neurotipici e neurodiversi. La qualità della vita migliorerebbe a vantaggio di tutti liberando risorse che potrebbero essere destinate a chi vive effettivamente una condizione di disabilità, neurotipico o neurodiverso che sia.
Bisognerebbe insomma liberarsi dell’idea che il termine neurodiversità sia sinonimo di disabilità perché è anche questo che induce i neurotipici a immaginare che il mondo vada costruito e vissuto secondo i soli criteri da loro definiti. Così facendo, magari, buona parte delle risorse risparmiate andrebbero rivolte alla diffusione della cultura autistica poiché il compromesso sarà quanto più possibile tanto più vi sarà conoscenza delle reciproche “culture” di appartenenza.