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Se guarissero tutti sarebbe la fine

Il terapeuta dovrebbe agire solo su quanto necessario per ridurre il sintomo, riconoscendo e accettando le variazioni individuali delle persone?

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 29 Lug. 2020

Aggiornato il 04 Ago. 2020 10:22

E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo?

 

Queste riflessioni partono da un confronto con un collega in sede di supervisione su quanto dovesse essere ‘profondo’ o, potremmo dire, per non usare una terminologia più caratteristica della psicoanalisi, vasto ed esaustivo il suo intervento. Partivamo dalla sensazione che lui aveva che, nonostante la remissione dei sintomi motivo della richiesta, ci fosse ancora molto da fare, ovvero che ci fossero ancora dei problemi irrisolti seppure non avvertiti dal paziente e che un intervento davvero risolutivo avrebbe dovuto disvelare e risolvere prima di lasciare la libera uscita al paziente. Avvertivo che il dichiararsi soddisfatto e guarito del paziente lasciava il mio collega con l’amaro in bocca del capolavoro incompiuto, della perfezione mancata di poco. Avrebbe avuto voglia di dire al bravuomo contento e soddisfatto nella sua inconsapevolezza ‘lasciami lavorare, decido io quando sarai davvero a posto, che ne vuoi sapere tu!!!‘, in ciò ricordandomi l’ultima scena degli Aristogatti quando alla comparsa della scritta ‘fine’ il bracco Napoleone ribadisce che è lui il capo e lo dice lui quando è la fine per poi dire subito dopo appunto ‘Fine’.

Contemporaneamente per una sorta di specchio ricorsivo ho pensato che il lavoro di supervisione con il collega ed ex allievo di cui lui si dichiarava soddisfatto e in via di conclusione, aveva ancora molta strada da fare. Proprio perché lui pensava di non aver concluso il suo lavoro con il paziente io ero certo di non aver concluso il mio con lui.

Attenzione, non si tratta di quisquiglie e pinzillacchere, l’argomento è serissimo e riguarda il ruolo dello psicoterapeuta e più in generale quello della psichiatria nella società. Riguarda il concetto di salute e malattia e quello di guarigione che li congiunge. Arriva a toccare il rapporto esistente tra il singolo individuo e la società e a lambire quello tra esso e la specie nel gioco dell’evoluzione. Insomma mica ‘pizza e fichi’.

Ma andiamo con ordine partendo col ricordare l’insegnamento del mio maestro Cesare De Silvestri che diceva che il terapeuta è un umile strumento nelle mani del paziente e che del suo modo di funzionare e di stare al mondo bisogna cambiare solo il minimo indispensabile a eliminare stabilmente il sintomo per cui ha richiesto l’intervento e che qualsiasi allargamento non richiesto oltre questi confini è irrispettoso dell’unicità del paziente e assomiglia ad un sopruso che si pone nella stessa linea dei tentativi di rendere destri i mancini o curare l’omosessualità. Strada che prosegue fino alla normalizzazione di tutte le devianze e porta a rinchiudere i dissidenti nei gulag se si ha il buon gusto di non sterminarli proprio perché non inquinino i ‘sani’. Che sia per razza, per fede o per orientamento sessuale poco conta. L’idea sottostante è che ci sia solo un modo sano e giusto di essere uomini e che ad esso tutti debbano, con le buone o con le cattive, adeguarsi in primis per il loro bene e per salvare l’anima e poi per il bene di tutti evitando il terribile contagio delle ‘mele marce’. Così facendo, e senza rendersene neppure troppo conto, si finisce per voler modificare tutti quei comportamenti e modi di stare al mondo che non coincidono con la nicchia culturale del terapeuta che oggi si identifica grosso modo con la cultura della classe medio borghese dei paesi occidentali capitalistici cui si riferiscono praticamente tutte le ricerche psicologiche additando come normalità i valori e il modo di stare al mondo di una ristrettissima fascia dell’umanità caratterizzata da essere: ‘di razza bianca, occidentale, economicamente garantita, di cultura media, eterosessuale e con legami affettivo-sessuali stabili’. Per nostra fortuna il mondo non si esaurisce in questo campione ed è estremamente più vario e tale enorme varietà di valori e stili di vita mentre un tempo era geograficamente separata tra oriente e occidente e tra nord e sud del mondo, oggi grazie alla facilità degli spostamenti delle persone e a quello ancor più veloce se non istantaneo delle idee sul web, è presente in ogni comunità.

L’eliminazione delle devianze dalla media non è solo moralmente deprecabile (anche la morale che la giudica tale è relativa ad una certa cultura) il fatto è che proprio dalla deviazione dalla norma e persino dagli errori genetici (le mutazioni) si genera quella variabilità che è prerequisito per l’evoluzione della specie e la sua adattabilità agli ambienti più diversi. Non è improbabile che i vari disturbi di personalità e forse anche altre patologie siano rimaste come potenzialità nel patrimonio genetico umano perché in qualche ambiente del passato si sono dimostrate utili, un po’ come la microcitemia nelle zone malariche. Andrebbero forse protette come la tanto decantata biodiversità? E anche nella società attuale non servono forse meticolosi e scrupolosi ossessivi per fare i bancari, i commercialisti e i controllori di volo o i neurochirurghi? E istrionici per animare il mondo dello spettacolo? Ma ancora più seriamente una società in cui tutti fossero soddisfatti di se stessi, fermi nell’autodeterminarsi e orientati al perseguimento dei propri scopi, sarebbe priva di eroi e santi e molto probabilmente non funzionerebbe. Non dobbiamo dimenticare infatti che l’evoluzione è attenta alle specie e non ai singoli individui per cui spesso ciò che risulta essere un vantaggio per la specie in termini di maggiore prolificità e diffusione non è affatto un miglioramento della qualità della vita e della soddisfazione del singolo individuo. L’esempio più eclatante è la stessa morte che piuttosto avversata dal singolo libera risorse per gli individui più giovani eliminando quelli non più in grado di riprodursi.

 

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