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Miti e realtà della psicoterapia: pensierini del capolinea (non sembra ma stavolta è una cosa seria)

Miti e realtà della psicoterapia: ci viene insegnato che la psicoterapia è un format preciso che inizia con la richiesta di una persona sofferente

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 28 Feb. 2019

Mi è stato insegnato che la psicoterapia è un format preciso che inizia con la richiesta di una persona sofferente ad uno specialista, che i due formulano un contratto preciso che stabilisce obiettivi, ruoli e impegni reciproci cui segue il lavoro psicoterapeutico vero e proprio nello studio accogliente e asettico del professionista.

 

La psicoterapia termina con la chiusura concordata con reciproca soddisfazione, un “arrivederci e grazie” e qualche panettone ai successivi natali che in quanto postumo si sottrae furbescamente a ulteriori infinite interpretazioni di transfert. Mi è stato anche insegnato che i due si scambiano soltanto parole e soldi, non devono conoscersi prima, non hanno altri rapporti durante il comune lavoro e tanto meno ne avranno dopo per il resto dell’esistenza.

Per carità di Dio!!! Tutto il resto è violazione del setting in odore di eresia e talvolta motivo di scomunica da parte delle chiese di appartenenza con rischio di microscismi per i quali siamo secondi solo alla “sinistra” (Lorenzini R. 2013 “Storie di terapie” Ed. Alpes Roma; Lorenzini R. 2016 “Trame di vita intrecciate: pazienti e operatori della salute mentale” ed. Alpes Roma; Lorenzini R. et al. 2013 “Matti Persi, Matti ritrovati” Ed Cantagalli Siena). Tutto questo mi avevano giustamente insegnato e tante volte l’ho ripetuto e sostenuto con quell’eccesso di calore che ci metto per convincere me stesso quando le cose non mi aderiscono perfettamente all’anima e alzando la voce mi appaiono più vere. Poi però il lavoro nel servizio pubblico che ha costituito l’asse portante della mia esperienza professionale e personale mi ha indotto più volte (per non dire quasi sempre) a trasgredire queste regole auree, ma l’ho sempre fatto di nascosto, sentendomi in colpa per le dita sporche di marmellata e pronto a giustificarmi con le condizioni esterne che mi impedivano di fare il lavoro “come si deve”. Solo la sfacciataggine, dono isolato della vecchiaia e della desertificazione neurale frontale, mi permette ora, in vista del capolinea, di chiedermi senza dover ossequiare maestri e acconsentire alla maggioranza se davvero “si deve”: rifiutare richieste apparentemente improprie; non avere rapporti diversi oltre l’ora della seduta; evitare di conoscere la casa, i parenti e i vicini del paziente; aiutarlo in modi diversi che non siano le parole; insomma tutte quelle cose che spesso mi venivano naturale e mi sembrava ovvio fare ma che non rientravano nei protocolli di una buona pratica.

Non sarà mica, mi chiedo, che ciò che con una cornice ristretta sembra interferenza e rumore di fondo da eliminare, se si ampia la cornice, può diventare informazione preziosa e occasione terapeutica? Con una visita domiciliare spesso si comprendono il paziente e le dinamiche in cui è immerso più che con 5 sedute dedicate al genogramma e alla storia di vita. Il setting è come il sabato ebraico: creato per essere al servizio dell’uomo finisce per renderlo schiavo. Nasce per favorire la psicoterapia (e, per dirla tutta, la vita personale e familiare di Sigmund Freud) ma a volte sembra che la psicoterapia abbia lo scopo principale di mantenere un setting corretto. Lo si idolatra come se in lui stesse l’efficacia terapeutica e non nella funzione psicologica e psicoterapeutica che non hanno luoghi privilegiati una volta che se ne abbia chiara l’essenza. Si possono agire in uno studio, in un ambulatorio in un reparto di ricovero ma anche in un centro diurno, un maneggio, un bar o camminando in un bosco.

La funzione psicologica è l’acquisizione di consapevolezza circa i significati con cui il soggetto trasforma i fatti in esperienza e la funzione psicoterapeutica vi aggiunge il tentativo di esplorare altri possibili mondi di significati.

Per compiere queste funzioni di profonda riflessione su di sé si è inizialmente ritenuto fosse necessario un contesto privo di “fatti attuali” che sarebbero potuti essere perturbanti rispetto alla concentrazione necessaria per guardarsi dentro e anche per poter così attribuire al soggetto stesso tutto quanto accadeva essendo assente ogni stimolo oggettivo. E’ un po’ il modello delle analisi mediche del sangue o della diagnostica per immagini in cui il soggetto deve stare a digiuno e immobile. Successivamente ci si è avveduti che almeno una perturbazione non poteva non essere presente all’interno di tale setting ed era il terapeuta stesso.

Allora per immunizzarne la presenza sono state compiute due operazioni: da un lato il tentativo impossibile di renderlo asettico, impersonale, in alcun modo connotato, una sorta di voce fuori campo incorporea, incolore, inodore e insapore; dall’altro, su queste premesse, di interpretare la relazione che il paziente istaura con il terapeuta asettico come prodotto esclusivo del mondo di significati con cui costruisce la sua esperienza e allora la terapia è divenuta soprattutto “analisi del transfert” in cui la scoperta del senso che il soggetto attribuisce alla realtà non avviene solo attraverso l’analisi della narrazione di eventi esterni ma, soprattutto con l’analisi del suo modo di costruire la relazione con il terapeuta stesso. Una ulteriore utilissima fonte di informazione di prima mano e non riferita.

Ormai vecchio e non particolarmente preoccupato di una sepoltura in terra sconsacrata, credo che esercitare la funzione psicologica e psicoterapeutica in un contesto più articolato come la vita quotidiana, laddove il mondo di significati del paziente si è creato e si rinforza quotidianamente, è certamente più complesso ma anche estremamente più ricco, seppure necessiti di terapeuti più bravi. C’è la stessa differenza esistente tra osservazioni su animali in laboratorio o in contesti ecologici. Purtroppo nel tempo si è verificata una perversa inversione tra mezzi e fini per cui la ritualità del setting è divenuta più importante delle funzioni psicologica e psicoterapeutica che doveva proteggere (per dirla in termini evangelici: il sabato è divenuto più importante dell’uomo per cui era stato creato e sappiamo come andò a finire chi denunciò questo con forza).

Tanto per esemplificare di cosa sto parlando con eventi realmente accaduti mi riferisco a banalità come mangiare le caramelle presenti sulla scrivania o utilizzare il bagno dello studio che precedenti terapeuti avevano interpretato come palese gesto aggressivo, darsi la mano ad ogni incontro o salutarsi se ci si incontra per caso in altri ambienti. Spiego normalmente ai pazienti affetti da DPTS (disturbo post traumatico da setting) che l’essere in un contesto terapeutico non sospende il codice penale e civile, nè il galateo e la buona educazione e che troverei invece piuttosto aggressivo mi defecasse sulla tappezzeria e comunque dannoso per il lavoro se passasse il tempo concentrato sul controllo degli sfinteri mentre parliamo di mamma e papà. Insomma un po’ di normalità in più e qualche sega mentale in meno giovano enormemente alla salute mentale nostra e dei pazienti, entrambi normalmente precarie. Ma non basta. Oggi quando guardo l’elenco dei pazienti che ho avuto in oltre trent’anni mi accorgo di alcune cose che la vergogna non mi impedisce più di dire anche se ancora mi manca una riflessione teorica che gli dia una cornice unitaria e le trasformi da eccezione appena tollerabile, a modo più ampio ma altrettanto legittimo di lavorare.

Innanzi tutto moltissimi pazienti continuano ad intrattenere rapporti saltuari con me da vari decenni. Mi ricercano di tanto in tanto in momenti difficili della loro vita e la richiesta non è di un loro cambiamento ma di un sostegno per affrontare snodi cruciali del ciclo esistenziale o improvvise emergenze esterne. Sento già i “Pierini” critici dirmi che evidentemente non erano terapie riuscite e ben concluse con la risoluzione del contratto ed è indubbiamente vero. Hanno ragione, mi pento e chiedo l’ammissione al programma di protezione testimoni. Se ci mettiamo poi l’aggravante che probabilmente ci siamo un po’ reciprocamente affezionati e non perdermi di vista li fa sentire meno soli ecco che sento il calore delle fiamme dell’inferno dei terapeuti (come sarà? denso di ingegneri e farmacologi trinariciuti?) lambirmi le chiappe e l’odore di zolfo arrampicarmisi su per i lobi frontali. Prima di fare la fine dello stoppino allora, incenerito per incenerito, allargo il discorso al tema più teorico delle cosiddette “psicoterapie di sostegno”. Cosa sono? In che si differenziano da una terapia vera e propria e in che rapporto stanno con la consulenza? Quest’ultima è la più facile da definire: si sostanzia nella lettura della domanda (problemi e risorse del richiedente) e nella restituzione allo scopo di aumentarne consapevolezza e agentività dando indicazioni su possibili strade per la risoluzione dei problemi evidenziati. La psicoterapia vera e propria, invece, consiste nell’evidenziazione ma anche nel cambiamento di quegli scopi/antiscopi e di quelle strategie di perseguimento/fuga che mettono il paziente in un ricorsivo stato di invalidazione dei propri obiettivi esistenziali provocando emozioni negative. Il compito è dunque un cambiamento la cui vastità e profondità non è un valore in sé, credo, ma anzi deve limitarsi a garantire semplicemente la risoluzione, possibilmente stabile, dei problemi che il paziente avverte come tali. Non si tratta di cambiare totalmente il paziente e convertirlo all’ideale di uomo del terapeuta: che Dio ci protegga da santoni e guru d’ogni genere soprattutto se camuffati da terapeuti. L’immagine che meglio rappresenta il terapeuta è quella dello specchio sebbene non accondiscendente come quello della regina matrigna di Biancaneve. Se dovessi definire in due parole il lavoro psicoterapeutico userei “invalidazione controllata” finalizzata a modificare gli schemi con cui costruisce la propria identità. Nella terapia di sostegno lo specchio rimane ma si ingentilisce e cerca semplicemente di adattare gli schemi con cui interpreta i nuovi eventi che si trova a fronteggiare perché possano essere assimilati e le due parole d’ordine diventano allora “validazione critica”. Spesso ho avuto l’impressione che i pazienti vengano, prendano ciò che gli serve in quel momento e poi se ne vadano salvo ritornare nel momento del bisogno identificandoci come una base sicura (scusate se è poco) e ignorando i nostri ideali di definizione contrattuale, diagnostica e procedurale. Se ne infischiano dei nostri bei progetti e fanno ciò che gli pare e credono gli serva (R. Lorenzini R. 2018 “Psychogame: fare psicoterapia con il gioco dell’intervisione” ed Alpes roma).

Un altro motivo di avvilimento retrospettivo e di preoccupazione per i colleghi giovani è che fin quando si lavora sull’assessment e sulla ricostruzione del disfunzionamento del paziente andiamo forte e con soddisfazione, mentre quando poi si tratta di operare il cambiamento le difficoltà e il senso di inefficacia si affacciano. Altre psicoterapie si pongono dichiaratamente l’obiettivo di aumentare la conoscenza di sé del paziente (prime fra tutte le varie psicoanalisi) e non mettono esplicitamente il sintomo nel mirino lasciando alla nuova consapevolezza unita alla definizione dei propri valori esistenziali il compito di trovare soluzioni adattive migliori facendo a meno del sintomo, sia esso un ossessione o un delirio. L’approccio cognitivo comportamentale (Semerari A. 2000” Storia, teoria e tecniche della psicoterapia cognitiva” ed. Laterza, Bari), probabilmente per trovare spazio in un mercato già denso, si è accreditato come semplice (ed è stato frainteso spesso come sempliciotto), breve (ed è stato inteso spesso come miracoloso), mirato alla rimozione del sintomo (il che è stato interpretato come superficiale e scarsamente efficace). Credo che sia più corretto dire con veltroniana moderazione che l’approccio cognitivo comportamentale utilizza spiegazioni del comportamento umano simili a quelle che abbiamo innate (psicologia scopi/credenze), che tende a limitarsi al minimo tempo necessario e non è un percorso infinito, che parte dal motivo concreto della sofferenza e dunque dal sintomo ma si estende a quegli aspetti della personalità che ne sono la causa per modificare i quali si occupa della storia anche infantile che ha concorso a plasmarli. Insomma l’obiettivo, il file rouge da seguire è il sintomo ma lo scopo è necessariamente una modificazione, più che profonda direi, come nelle ricette, q.b. della personalità che lo produce. Ricorderete che Kunh(1962) l’epistemologo che parlava di paradigmi scientifici, di nucleo metafisico della conoscenza e di cintura protettiva, distingueva periodi di “scienza normale” quando ci si muove all’interno di un paradigma scientifico consolidato e condiviso e se ne sviluppano tutte le potenzialità e di “scienza rivoluzionaria” quando il vecchio paradigma impatta con una anomalia inspiegabile che costringe a sostituirlo con un uno nuovo che, in genere, include il vecchio come caso particolare e spiega l’anomalia irrisolvibile.

Nel percorso della scienza basti pensare alla rivoluzione copernicana che, appunto, è diventata sinonimo di cambiamento radicale o alla relatività di Eistein, la teoria dei quanti e così via. In ogni scienza troverete dei passaggi improvvisi “on-off” tra un prima e un dopo e altrettanto nella storia: la venuta di Cristo, la scoperta dell’America, la rivoluzione francese, la caduta del muro di Berlino, le torri gemelle. Per i più pigri che non vogliono leggersi Kunh la scorciatoia su questo concetto è una “Palladium lectures” di Alessandro Baricco reperibile su “you tube” dal titolo “Il gusto: Kate Mosse” in cui racconta tre passaggi rivoluzionari nella storia sportiva con l’arrivo di fousbory sulle pedane del salto in alto, nella storia della bellezza e della moda con l’affermarsi di Kate Mosse, nella lirica con il trionfo della Callas. Ogni volta si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma inaspettato (il cosiddetto “cigno nero”) e in un tempo brevissimo tutto ciò che c’era prima non è semplicemente superato e migliorato, diviene improvvisamente antico, preistorico. Pensate ad esempio alla rivoluzione informatica (ad essa Baricco (2018) ha dedicato il suo ultimo affascinante libro “the game”). Ho tentato di spiegare a mio figlio cosa fosse la carta carbone. Stentava a crederci e quando l’ho mostrata ha creduto stessi facendo una magia. I PC diventano ogni giorno più potenti e sofisticati facendo cose incredibili ma siamo sempre dentro lo stesso paradigma poi un giorno chissà “flop” e tutto questo ci sembrerà desueto. E’ chiaro che stando dentro un paradigma non possiamo immaginarci il prossimo, solo grandi geni innovatori ne sono capaci e infatti restano incompresi se non più o meno metaforicamente lapidati. Pensate anche alla politica ed a come noi vissuti nel ‘900 riduciamo sempre tutto al paradigma destra/sinistra che, esplicativo e utile un tempo, ora imprigiona le nostre menti. Fine della divagazione chi vuole approfondire lo faccia per proprio conto.

Torno alla psicoterapia. Ho l’impressione che anche in psicoterapia si possa parlare di una “psicoterapia normale” e di una “psicoterapia rivoluzionaria”. Nella psicoterapia normale restano inalterati gli assetti di fondo della personalità, i sintomi vengono grandemente ridotti, si trovano strategie più adattive per fronteggiare la realtà e ciò che non cambia viene accettato (credo che il ruolo dell’accettazione sia grandemente sottovalutato riducendola a mesta rassegnazione, ma ciò meriterebbe un discorso a sè). Insomma il panicoso agorafobico riesce a condurre una vita perfettamente normale libera da evitamenti e crisi acute ma pur sempre panicoso resta. Nella psicoterapia rivoluzionaria invece avviene un cambiamento improvviso per crisi e il soggetto smette di essere panicoso e non solo di comportarsi come tale. Assistere a questi passaggi è infrequente anche in una lunga carriera professionale. Al di fuori del contesto terapeutico tali eventi assumono il carattere di conversioni e sono spesso connessi all’esperienza religiosa, mistica o comunque soprannaturale. Nel campo scientifico mi viene in mente l’intuizione della forma circolare della molecola del benzene che risolse in un attimo, addirittura con un sogno, il rompicapo su cui si lavorava da anni della mancanza di due atomi di carbonio rispetto a quelli previsti. Molto simile è l’esperienza de “l’eureka” quell’intuizione istantanea ed autoevidente che pone fine all’angoscioso vissuto del wanstimmung innescato da uno shock epistemico e segna l’ingresso trionfale nel meraviglioso, sconfinato e privato territorio del delirio (Lorenzini R. Coratti B. 2008; Lorenzini 2018).

Ritengo che entrambi le psicoterapie “normale” e “rivoluzionaria” abbiano la loro ragion d’essere. Addirittura credo che quella normale necessiti di competenza, impegno e pazienza superiore, mentre perché si verifichi il cambiamento di paradigma caratteristico dell’altra devono entrare in gioco una serie di fattori molti dei quali imperscrutabili e certamente poco controllabili. Per dirla in altri termini si deve creare una particolare alchimia in cui la fortuna e il caso hanno la loro notevole parte.

A tutti noi piacerebbe che le nostre terapie fossero rivoluzionarie per sentirci come Gesù che ordina a Lazzaro “alzati e cammina!” e abbiamo provato irritazione nell’ascoltare la storiella secondo la quale il giovane già un po’ frollato rispondeva “con calma e per favore!” (le famose resistenze al cambiamento). Quando abbiamo sognato questo lavoro ci siamo immaginati come ipnotisti, maghi, guaritori, santoni. Abbiamo immaginato di tirar fuori dal cilindro l’interpretazione definitiva, geniale che tutto spiega e libera da ogni sofferenza. Invece il più delle volte lavoriamo per mesi per ottenere modesti cambiamenti che magari il paziente attribuisce ad altro. Ci pensavamo Maradona e invece ci troviamo a fare i mediani. Ma, come ricorda Ligabue, al centro dello schieramento dell’Italia campione del mondo c’era Oriali che sta peraltro ancora lì sulla panchina azzurra. Il lavoro apparentemente meno nobile, lungo e faticoso della “psicoterapia normale” spesso è propedeutico al tempo breve e esaltante della “psicoterapia rivoluzionaria” o della conversione che avviene autonomamente nel paziente proprio a motivo dell’oscuro lavoro preparatorio compiuto.

Alla psicoterapia normale appartiene anche il lavoro di psicoeducazione sulle emozioni che sembra essere un operazione piccola e banale che ho molto rivalutato leggendo l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio (Carofiglio G. 2017 “Con parole precise” ed Laterza, Bari) in cui riporta uno studio degli anni ’50 di Henry Bernard Levy che voleva capire perché a Tahity ci fosse un incidenza di suicidi enormemente superiore a quella mondiale ed anche a quella di paesi con analoghe situazioni economiche e climatiche. Insomma la domanda lecita era “ma perché questi si ammazzano come lemmi pur vivendo in un posto niente male?”. Levy si accorse che nella lingua tahitiana non esistevano parole per indicare il dolore morale o psichico, mentre ce ne erano molte e con diverse sfumature per il dolore fisico. Certamente è improprio stabilire una relazione causale tra i due fatti ma il sospetto che ciò che non è esprimibile a parole finisca per essere agito è legittimo e interessante. Proseguendo su questa linea mi viene da pensare che tutta la psicoterapia potrebbe essere sintetizzata nell’invito “parliamone”, che significa sostituire agli agiti dei sistemi primitivi le loro rappresentazioni corticali manipolando quest’ultime e auspicandosi che poi esse retroagiscano su quegli stessi sistemi. Fa parte della tradizione comportamentale-cognitivista con gli homework, ora prepotentemente rinforzata con le strategie della terza ondata (per usare questo odioso linguaggio da bollettino dei naviganti) la consapevolezza che possenti cambiamenti nelle rappresentazioni corticali si generano proprio a partire dagli agiti, ed anzi talvolta questa è l’unica via percorribile.

Insomma quando facciamo l’assessment e la restituzione invitando il paziente ad essere insieme a noi psicologo di se stesso e gli diamo le parole per completare quell’operazione di mentalizzazione iniziata con le figure di attaccamento, non stiamo semplicemente preparandoci all’intervento terapeutico importante vero e proprio, non gli stiamo rubando tempo e soldi, ma stiamo salvando la vita al tahitiano che è in lui. Per i lemming invece non c’è riparo ci vogliono gli SSRI (per precisione va detto che la storia del suicidio di massa del lemming è una fake news originata da un documentario della Disney del 1958 per la quale i piccoli roditori artici hanno chiesto un cospicuo risarcimento).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baricco A. 2018 “the Game”” ed Laterza, Bari
  • Carofiglio G. 2017 “con parole precise” ed Laterza, Bari
  • Kuhn, T. 1962 “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”Einaudi editore, Torino
  • Lorenzini R. 2018“Psychogame: fare psicoterapia con il gioco dell’intervisione” ed Alpes roma.
  • Lorenzini R. “il senso del delirio” Cognitivismo clinico vol. 15 num. 1giugno 2018.
  • Lorenzini R. 2016 “trame di vita intrecciate:pazienti e operatori della salute mentale” ed. Alpes Ro
  • Lorenzini R. et al. 2013“Matti Persi, Matti ritrovati” Ed Cantagalli Siena
  • Lorenzini R., Coratti B.2008“La dimensione delirante Ed. Raffaello Cortina Milano
  • Lorenzini R. 2013 “Storie di terapie” Ed. Alpes Roma
  • Semerari A. 2000” Storia, teoria e tecniche della psicoterapia cognitiva” ed. Laterza, Bari.
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