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L’efficacia delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasive nel trattamento dei disturbi d’ansia

Vergallito e colleghi (2021) hanno svolto una review sistematica della letteratura esistente sul tema e una analisi quantitativa dell’efficacia della Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) e della Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) nel trattamento dei disturbi d’ansia.

 

Introduzione alle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva

La possibilità di utilizzare tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva per il trattamento dei disturbi psichici sta ricevendo sempre più attenzione sia in ambito scientifico che in ambito clinico applicativo.

In particolare, la Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) – (in italiano Stimolazione magnetica transcranica) e la Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) – (in italiano “stimolazione transcranica a corrente diretta) sono ad oggi riconosciute come tecniche di stimolazione neurofisiologica non invasiva utili per il trattamento del disturbo depressivo maggiore. Nel 2018 infatti la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato la rTMS quale tecnica per il trattamento della depressione maggiore, utilizzando una stimolazione ad alta frequenza (10 Hz) sul lato sinistro dalla corteccia prefrontale dorsolaterale (Hui J, 2019).

Riguardo agli altri disturbi psichici, quali ad esempio la schizofrenia, l’abuso di sostanze, il disturbo ossessivo compulsivo, l’efficacia di tali tecniche, da sole o in combinazione con percorsi psicoterapici, è stata esplorata da alcune review e metanalisi, con alcuni risultati incoraggianti ma ancora preliminari (Kennedy, Lee, Frangou, 2018; Kostova, Cecere, Thut, et al., 2020; Trojak, Sauvaget, Fecteau, et al., 2017; Brunelin, Mondino, Bation, et al., 2018).

Anche considerando i disturbi d’ansia, vi sono tuttora evidenze limitate riguardo all’efficacia di tali tecniche per il trattamento degli stessi. La metanalisi di Vergallito e colleghi (2021) ha l’obiettivo di valutare l’efficacia dei trattamenti di stimolazione cerebrale non invasiva sui disturbi d’ansia. Secondo il DSM-5, tra i disturbi d’ansia si annoverano le fobie specifiche, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo da panico, l’agorafobia e il disturbo d’ansia generalizzata. Lo studio di Vergallito e colleghi ha pertanto preso in considerazione le ricerche effettuate su disturbi sopra specificati (escludendo il PTSD e il DOC che non rientrano tra i disturbi d’ansia secondo il DMS-5).

I principali trattamenti per i disturbi d’ansia, come indicati da diverse linee guida internazionali, consistono in interventi psicoterapici e/o farmacologici, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale che è considerata il trattamento di elezione (Bandelow, Lichte, Rudolf, et al., 2015; Katzman, Bleau, Blier, et al., 2014). Tuttavia, un significativo numero di pazienti non risponde in maniera efficace ai trattamenti, manifesta ricadute sintomatologiche e ricorrenza cronica della sintomatologia (Fernandez, Salem, Swift, et al., 2015; Taylor, Abramowitz, McKay, 2012). In tali casi, tra le metodologie alternative, stanno emergendo rapidamente e avanguardisticamente le tecniche di stimolazione cerebrale non invasive, come terapie esclusive o coadiuvanti combinate con percorsi di psicoterapia cognitivo comportamentale (Brunoni, Sampaio-Junior, Moffa, et al. 2019; Sathappan, Luber, Lisanby, 2019).

Gli aspetti neuroscientifici dei disturbi psichiatrici

In termini neuroscientifici, seppure esistano differenze che caratterizzano i singoli disturbi, diverse evidenze in letteratura suggeriscono che i disturbi d’ansia siano caratterizzati da una comune alterazione strutturale e funzionale a carico del pathway limbico mesocorticolale (Duval et al., 2015): l’amigdala, la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore, l’ippocampo e le loro connessioni funzionali giocano un ruolo chiave nell’esordio e nella regolazione della paura, dell’ansia e della rilevazione dei segnali di minaccia. Ad esempio, l’iperattivazione a carico dell’amigdala è una delle evidenze più accreditate in tal senso, con una correlazione positiva tra iperattivazione di tale area cerebrale e gravità dei sintomi ansiosi (Ball, Sullivan, Flagan, et al, 2012; Lipka, Miltner, Straube, 2011). La risposta neurale dell’amigdala ai segnali di minaccia è regolata attraverso connessioni bidirezionali con la corteccia cingolata anteriore e con la corteccia prefrontale ventromediale, e alcuni studi di neuroimaging hanno evidenziato una ipoattivazione della corteccia prefrontale in pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia (Ironside, Browning, Ansari, et al., 2019; Kim, Loucks, Palmer, et al., 2011).

In considerazione di tali premesse, il razionale per l’utilizzo delle tecniche di stimolazione neurofisiologica cerebrale non invasive nel trattamento dei disturbi d’ansia consiste nella possibilità di ribilanciare tale attività disadattiva in termini funzionali e di connettività funzionale tra le diverse specifiche aree cerebrali sopra citate (Vicario, Salehinejad, Felmingham, et al., 2019). In tal senso, vale la pena sottolineare che i disturbi psichici, implicano tra i fattori bio-sociali alla base del loro esordio e mantenimento, anche una plasticità neurale patologicamente alterata che può essere modificata attraverso l’ausilio della stimolazione cerebrale non invasiva (Ziemann U., 2017).

L’uso di rTMS e tDCS nel trattamento dei disturbi d’ansia

Vergallito e colleghi (2021) hanno svolto una review sistematica della letteratura esistente sul tema e una analisi quantitativa dell’efficacia della Repetitive transcranial magnetic stimulation (rTMS) e della transcranial direct current stimulation (tDCS) nel trattamento dei disturbi d’ansia.

La review, in accordo con le linee guida PRISMA, si è basata su uno screening di articoli scientifici peer-reviewed pubblicati in lingua inglese presenti in tre database fino alla fine di febbraio 2020. Gli studi presi in considerazione hanno risposto ai seguenti criteri di inclusione: la presenza di un campione di soggetti clinici con una diagnosi di disturbo d’ansia, l’utilizzo di tecniche di stimolazione neurofisiologica cerebrale non invasiva (rTMS e tDCS), la presenza di un gruppo di controllo, di punteggi di assesment pre-post trattamento e l’uso di questionari validati per la misurazione dei sintomi ansiosi. I criteri di inclusione sono stati particolarmente stringenti e focalizzati, soprattutto nel considerare solo studi in cui si valutava l’utilizzo dalla stimolazione cerebrale non invasiva in comparazione a gruppi di controllo o condizioni sham.

Dallo screening è emerso che 11 ricerche hanno risposto ai criteri di inclusione, per un totale di 154 soggetti assegnati alle condizioni sperimentali di stimolazione cerebrale non invasiva e 164 assegnati a condizioni di trattamento “sham” o di controllo.

Sui dati pubblicati da tali ricerche sono state effettuate due metanalisi per valutare in modo aggregato l’efficacia dell’utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva, calcolando indici quali l’effect size per ciascun disturbo e per i punteggi relativi all’ansia generalizzata. Inoltre, considerando la comorbilità tra disturbi d’ansia e disturbi depressivi, è stata effettuata una terza metanalisi che ha analizzato gli outcomes in termini di efficacia dell’applicazione della rTMS e della tDCS sui sintomi depressivi presenti in comorbilità con i disturbi d’ansia.

Dai risultati delle metanalisi degli studi considerati è emersa un’efficacia statisticamente significativa delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva nella riduzione dei sintomi ansiosi, per come valutata dai questionari, sia per i disturbi d’ansia specifici sia per i punteggi relativi all’ansia generalizzata. Gli autori sottolineano una elevata eterogeneità tra gli studi presi in considerazione, in termini di protocolli di utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale (tipologia di regioni cerebrali target della stimolazione, durata dell’intervento e altri parametri specifici al protocollo di stimolazione), nonché nell’associazione di altre terapie psicofarmacologiche aggiuntive in combinazione.

Dai risultati della terza metanalisi, tali tecniche sono risultate parimenti efficaci anche nella riduzione della sintomatologia depressiva (presente in comorbilità con i sintomi ansiosi) in confronto alle condizioni di controllo. Questi dati sono in linea con precedenti studi che hanno dimostrato l’efficacia della rTMS nella riduzione dei sintomi ansiosi durante il trattamento di pazienti con diagnosi di depressione (Chen et al., 2019). Tali evidenze trovano ulteriore riscontro in uno studio recente di Maggioni e colleghi (2019) che suggerisce come le similarità cliniche tra depressione maggiore e sintomi ansiosi possano poggiare su una comune base neurale di alterazioni funzionali a carico della corteccia prefrontale (corteccia orbitofrontale sinistra); invece anomalie specifiche per la depressione maggiore si riscontrerebbero nella funzionalità della corteccia frontotemporale, mentre per il disturbo da panico e per l’ansia sociale a livello parietale.

Conclusioni

In conclusione, possiamo affermare che i risultati della metanalisi di Vergallito e colleghi (2021) siano incoraggianti nel sostenere l’efficacia della stimolazione cerebrale non invasiva per migliorare i sintomi ansiosi; tuttavia gli studi presenti in letteratura sono ancora numericamente molto limitati per arrivare a trattare conclusioni solide e indicazioni definitive sull’applicazione di tali tecniche in via esclusiva o combinata per il trattamento dell’ansia.

È auspicabile pertanto che vengano svolti ulteriori studi che includano sia un maggior numero di pazienti clinicamente diagnosticati, sia condizioni di controllo randomizzate; inoltre sarà rilevante analizzare l’efficacia di trattamenti di stimolazione cerebrale non invasiva in combinazione con interventi di psicoterapia e farmacologia o in modalità esclusiva sulla riduzione della sintomatologia ansiosa.

 

Gli adolescenti e la pandemia (2022) di S. Vicari e M. Pontillo – Recensione

Il Professore Stefano Vicari e la dottoressa Maria Pontillo ci conducono per mano nell’universo dei giovani ai tempi del Covid-19, nel loro libro “Gli adolescenti e la pandemia”.

 

 Se è vero che la pandemia ha rappresentato una soluzione di continuità nell’esistenza di ciascuno, certamente la ferita è stata tanto più profonda e lacerante nelle vite di bambini e adolescenti, coloro i quali vivono quel periodo della vita in cui più si cambia e ci si trasforma, nella costruzione della propria identità.

Aprire una breccia per potersi affacciare oltre il muro di cinta che i giovani ergono a loro difesa, d’altro canto, è un privilegio che i ragazzi permettono solo in determinate condizioni di ascolto e comprensione. Il mondo dei giovani ha infatti regole, prospettive, tempi e luoghi diversi da quelli del mondo di noi adulti. “Gli adolescenti e il Covid-19” ci permette di esplorare questo mondo altro attraverso vari capitoli, dispiegati con sguardi e linguaggi diversi. Gli Autori impiegano ora il metodo di un antropologo, curioso e attento nell’osservazione, ora la completezza e la scrupolosità di uno scienziato, supportato da dati e misurazioni, ora amplificano la viva voce dei ragazzi.

I primi due capitoli narrano i cambiamenti avvenuti con la pandemia nella vita degli adolescenti, anche mediante il racconto delle loro storie personali. I successivi capitoli sono dedicati a consigli utili agli insegnanti, ai genitori e agli adolescenti stessi. Ai genitori, ad esempio, viene suggerito di dedicare del tempo ad ascoltare empaticamente i propri figli, accogliendo e legittimandone le emozioni, dando loro il dovuto spazio, contestualmente, per allenare l’indipendenza. Gli ultimi due capitoli, infine, sono fedeli trascrizioni di frammenti dei diari degli adolescenti al tempo della pandemia.

Il punto di forza di questo testo è la capacità di colpire dritto al cuore e alla mente, di suscitare emozioni e contemporaneamente informare, divenendo così un punto di riferimento teorico per quanti siano a contatto con gli adolescenti, sia a titolo puramente affettivo che lavorativo.

 

Come sfiducia e teorie complottiste condizionano la propensione a vaccinarsi contro il COVID-19

Durante il diffondersi del COVID-19, al contrario di quanto è accaduto per i vaccini di altre malattie, sono intervenuti molti altri fattori che hanno aumentato l’esitazione vaccinale; tra questi vi sono la velocità insolitamente rapida dello sviluppo, l’incertezza sulle informazioni mediche e le preoccupazioni sulla sicurezza dei vaccini. 

 

Il vaccino per il COVID-19

Durante il COVID-19, per arrestarne la rapida diffusione, è stata proposta la vaccinazione globale della popolazione. Dopo i primi mesi di pandemia (marzo-aprile 2020), la scienza ha cominciato a studiare rimedi e i governi hanno sostenuto la comunità accademica e l’industria farmaceutica per identificare un vaccino sicuro ed efficace (Kaur e Gupta, 2020). Lo scopo di un vaccino è infatti quello di ridurre l’ospedalizzazione, la trasmissione della malattia e il numero di pazienti ricoverati nelle terapie intensive degli ospedali. Nonostante i numerosi benefici apportati dal vaccino, la vaccinazione globale non è facile da raggiungere in quanto sono necessarie strategie per rassicurare la popolazione generale e promuovere la fiducia nel sistema sanitario, nella ricerca biomedica, nel vaccino e in coloro che lo propongono (Palamenghi et al., 2020). Poiché la trasmissione del COVID-19 è stata molto rapida, le evidenze scientifiche sono state spesso contraddittorie e incerte tanto da portare sfiducia da parte di molte persone nei confronti della conoscenza scientifica.

L’esitazione vaccinale è considerata una delle principali minacce per la salute globale (Sallam et al., 2021) ed è definita come il ritardo, il rifiuto o la riluttanza ad accettare un vaccino nonostante la disponibilità (Mannan e Farhana, 2020). Le persone esitanti si collocano lungo un continuum tra coloro che accettano e coloro che rifiutano totalmente di sottoporsi ad un vaccino (Sato, 2018). Alcuni studi in letteratura hanno mostrato come diversi fattori socio-demografici tra cui il sesso, l’età, il livello di istruzione e le credenze religiose sono associati all’esitazione o al rifiuto dei vaccini (Murphy et al., 2021). Inoltre, la fiducia nei vaccini è influenzata anche da fattori psicologici come lo stress percepito e l’ansia. È noto, infatti, come durante la pandemia siano aumentati notevolmente alcuni sintomi come angoscia, depressione e paura della morte; le persone si sono quindi trovate in una condizione di vulnerabilità e insicurezza che, unite alla rabbia e all’ostilità per le misure di isolamento e quarantena, hanno portato con sé livelli più elevati di fiducia nella vaccinazione contro il COVID-19 (Patelarou et al., 2021). Altri studi, però, dimostrano invece come rabbia ed emozioni negative siano risultate correlate ad una minore accettazione del vaccino e come sintomi psicologici simili possano quindi portare a risposte differenti (Sun et al., 2021). Per comprendere i meccanismi con cui alcune variabili psicologiche aumentano l’esitazione vaccinale mentre altre la riducono, è necessario considerare alcuni fattori come la diffidenza, lo scetticismo e le credenze di cospirazione (Chou e Budenz, 2020).

Fiducia e complottismo in relazione al vaccino

Oltre a ciò, anche la fiducia nella medicina e nella scienza è un fattore che influenza la propensione al vaccino. Nel contesto della vaccinazione, il concetto di fiducia può essere suddiviso in tre livelli: fiducia nel prodotto (e.g. un vaccino), fiducia nel fornitore (e.g. gli operatori sanitari), e infine fiducia nei responsabili politici (e.g. il sistema sanitario). Ciascuno di questi livelli influenza in modo differente la percezione della sicurezza e dell’efficacia del vaccino da parte delle persone e, di conseguenza, l’adesione alle campagne di vaccinazione.

Durante il diffondersi del COVID-19, al contrario di quanto è accaduto per i vaccini di altre malattie, sono intervenuti molti altri fattori che hanno aumentato l’esitazione vaccinale; tra questi vi sono la velocità insolitamente rapida dello sviluppo, l’incertezza sulle informazioni mediche e le preoccupazioni sulla sicurezza dei vaccini. Questi minano la fiducia delle persone nei confronti delle istituzioni e riducono la loro volontà di impegnarsi in comportamenti sanitari preventivi (Chou e Budenz, 2020).

Anche le credenze nelle teorie del complotto sono associate alla sfiducia nella scienza e allo scetticismo; queste sono definite come un “sottoinsieme di false credenze in cui si ritiene che la causa ultima di un evento sia dovuta a un complotto di più attori che lavorano insieme con un obiettivo chiaro in mente, spesso illegalmente e in segreto” (Swami e Furnham, 2014, p. 220). Frequentemente le credenze di cospirazione sono causate da una sfiducia nelle istituzioni pubbliche, che provoca una resistenza negli interventi medici e porta le persone a concentrarsi sul proprio benessere negando il problema e talvolta addirittura l’esistenza del Coronavirus.

Infine, l’ultimo fattore che influenza la diffidenza vaccinale è l’informazione relativa ad un vaccino; relativamente a quello per il COVID-19, sono infatti ancora sconosciuti gli effetti a lungo termine (Sherman et al., 2021). Spesso le persone scettiche usano piattaforme online per sostenere gli effetti negativi della vaccinazione: il 50% dei tweet contiene convinzioni anti-vaccino, e questo aumenta la percezione dei rischi (Hussain et al., 2018). Uno studio di Simione e colleghi del 2021 aveva l’obiettivo di esplorare la propensione al vaccino nella popolazione italiana ed esplorare la sua relazione con le variabili socio-demografiche, psicologiche, e con le credenze errate sul COVID-19. Ad un campione di 374 adulti italiani sono stati somministrati l’Inventario delle credenze sul COVID-19 e dei questionari che misuravano l’ansia e depressione (Kar et al., 2021), l’ansia da morte e malattia (Simione e Gnagnarella, 2020), la somatizzazione (Shigemura et al., 2020), la rabbia (Trnka e Lorencova, 2020), l’ideazione paranoide (Lopes et al., 2020) e i sintomi psicotici (D′Agostino et al., 2021). L’analisi fattoriale esplorativa sulle credenze sul COVID-19 ha evidenziato tre fattori quali credenza nelle teorie cospirative, sfiducia nelle informazioni mediche e sfiducia nella medicina e nella scienza, correlati positivamente con il sesso femminile, le credenze religiose, l’età, le condizioni psichiatriche e i sintomi psicologici; mentre negativamente con il livello di istruzione. Inoltre è emerso che l’ansia da morte, mediata dalla credenza nelle teorie cospirative, riduceva la propensione a vaccinarsi; la paranoia, invece, mediata dalla sfiducia nella scienza riduceva l’adesione alla vaccinazione. Infine, il disagio psicologico ha ridotto la propensione alla vaccinazione aumentando sia le convinzioni di cospirazione che la sfiducia, mentre l’ansia ha avuto l’effetto contrario, diminuendo le convinzioni e la sfiducia.

Conclusioni

In conclusione il seguente studio approfondisce il complesso modello di relazione che lega il disagio psicologico e la paranoia alla diffidenza e quindi all’adesione alle teorie del complotto, evidenziando il ruolo di tali fattori nel predire la propensione al vaccino. Comprendendo tale modello è più semplice combattere le posizioni di sfiducia, riducendo lo stigma e l’isolamento dei sostenitori della cospirazione e aumentando la fiducia nelle organizzazioni scientifiche e nei politici in tempi difficili come la pandemia da Coronavirus.

Witzelsucht: la sindrome di fare battute inappropriate

Un esempio di disturbo dell’umorismo è il Witzelsucht, che comprende due manifestazioni apparentemente paradossali: l’eccessiva produzione inappropriata di battute e l’apprezzamento alterato dell’umorismo.

 

Umorismo e Witzelsucht

 “Si conosce un uomo dal modo in cui ride”. L’aforisma di Dostoevskij ci aiuta a intuire come l’umorismo, e il modo in cui esso si esprime e si percepisce, sia un elemento utile per capire la struttura psichica di un individuo. Tuttavia, la vera difficoltà consiste nel dare una definizione univoca di questo fenomeno, poiché è complesso e multiforme e costituito da numerosi elementi. Dal punto di vista psicologico, molti concordano sul fatto che l’umorismo possa essere descritto come un tratto di personalità relativamente stabile, costituito da diverse dimensioni (Martin & Ford, 2018; Ruch & Raskin, 2008). L’umorismo può essere concettualizzato come un’abilità cognitiva (ad esempio, la capacità di apprezzare e comprendere una barzelletta), come un comportamento abituale (ad esempio, la tendenza a ridere e a far divertire gli altri), come aspetto legato all’espressione delle emozioni (ad esempio, uno stato d’animo abitualmente allegro), come attitudine (ad esempio, avere una visione positiva del mondo) e, infine, come strategia di coping (la capacità di mantenere una prospettiva umoristica di fronte alle avversità; Martin, 2001). Una visione evoluzionistica dell’umorismo ne propone, inoltre, una spiegazione neurobiologica e suggerisce che, in particolari situazioni dovute a malattie neurologiche, possano manifestarsi veri e propri “disturbi dell’umorismo” (Gervais & Wilson, 2005).

Esiste infatti una condizione che induce le persone a raccontare barzellette inappropriate, fare giochi di parole di pessimo gusto e riportare storie inutili, detta “Witzelsucht”. Dunque, non si tratta di una sindrome annoverata nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM; American Psychological Association [APA]), bensì di una manifestazione di una patologia cerebrale organica. Il termine tedesco Witzelsucht significa letteralmente scherzo (Witz) e dipendenza (Sucht), fu coniato dal neurologo tedesco Hermann Oppenheim (1880) per descrivere il comportamento attuato da alcuni suoi pazienti con tumore del lobo frontale destro, che mostravano una tendenza compulsiva a proferire battute sconvenienti ed un eccessivo uso del sarcasmo.

Sebbene umorismo e risata vengano spesso accomunati, si tratta di due processi distinti, che si riflettono anche in patologie conseguentemente diverse. La risata è normalmente un’espressione di allegria con tipici movimenti facciali e contrazioni cloniche dei muscoli respiratori. I disturbi più comuni della risata sono associati alla sindrome (o paralisi) pseudobulbare (PBA), una condizione caratterizzata dall’incapacità di controllare i muscoli del distretto facciale, che si manifesta con involontari, improvvisi e frequenti episodi di risata e/o pianto. Questa condizione può essere innescata da stimoli banali e può essere incongruente rispetto all’emozione sottostante di felicità o tristezza (Miller et al., 2011).

D’altro canto, l’umorismo è un’abilità cognitiva altamente evoluta e, come le altre funzioni cognitive, può essere compromessa da danni cerebrali. I disturbi dell’umorismo includono incapacità di produrre o apprezzare battute e dipendenza dal raccontare barzellette inappropriate (Dionigi & Gremigni, 2010). Un esempio lampante di disturbo dell’umorismo è il Witzelsucht, che comprende due manifestazioni apparentemente paradossali: l’eccessiva produzione inappropriata di battute e l’apprezzamento alterato dell’umorismo.

Precedenti ricerche nelle neuroscienze sull’umorismo, condotte principalmente con la tecnica di Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), hanno mostrato che la rete cerebrale che elabora l’umorismo coinvolge due componenti diverse: la prima è una componente cognitiva, correlata ai meccanismi di rilevamento e risoluzione delle incongruenze, che comprende il linguaggio, la conoscenza semantica e le aree celebrali connesse con la Teoria della Mente; l’altra è una componente emotiva, correlata alla sensazione di allegria o divertimento tipicamente associata a un’esperienza umoristica, che comprende le aree dopaminergiche del mesocorticolimbico, inclusa l’amigdala (Rodden, 2018). La ricerca suggerisce che l’integrazione dell’umorismo si verifica nella regione frontale laterale destra ed è compromessa quando emergono lesioni a questa regione: la lesione orbitofrontale provoca umorismo disinibito, così come anche lesioni al circuito fronto-sottocorticale possono provocare la tendenza ad effettuare battute in maniera compulsiva.

Casi clinici

La sindrome Witzelsucht è una condizione rara, tuttavia diversi articoli scientifici hanno riportato questa condizione quali, ad esempio, Granadillo & Mendez (2016), nel loro studio pubblicato sul The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences.

Un primo caso riporta la situazione di un uomo di 59 anni che, in seguito ad un’emorragia cerebrale, ha subito lesioni al lobo frontale destro, che sembra essere vitale per la produzione dell’umorismo e per il controllo inibitorio. Dopo tale evento l’uomo aveva iniziato a mostrare comportamenti sessuali disinibiti (come abbracciare ragazze giovani in maniera compulsiva) e commettere furti. Inoltre, il paziente riferiva una continua felicità e impellente bisogno di raccontare le sue barzellette. Era solito svegliare di notte la moglie solo per raccontarle le battute che aveva appena inventato. Quando la moglie, esasperata, gli chiese di smettere di svegliarla, egli iniziò a scrivere le sue freddure su carta, tant’è che quando fu visitato dall’équipe psichiatrica, aveva 50 pagine di battute pronte per l’uso.

 Un secondo caso riportato dagli autori (Granadillo & Mendez, 2016) spiega la condizione di un uomo di 57 anni che si è presentato ai medici a seguito di un continuo peggioramento del comportamento avvenuto nel corso dei tre anni precedenti. Il paziente riferiva di essere diventato un “burlone”, facendo sempre battute o commenti infantili e ridendo facilmente ai propri commenti. Egli riportava anche un aumento della sua disinibizione, dicendo o facendo cose inadeguate e dimostrando un’eccessiva familiarità con gli estranei (ad esempio, entrando senza permesso nella casa del vicino ed iniziando a suonare il piano). La sua storia medica passata non presentava particolari malattie, tranne che per un’appendicectomia e una tonsillectomia, e anche la sua storia familiare non mostrava indicatori interessanti. I risultati dei test neuropsicologici avevano inoltre mostrato che il paziente aveva deficit esecutivi e un ridotto recupero delle informazioni in memoria. Il resto dell’esame neurologico era normale. Questo paziente presentava cambiamenti comportamentali progressivi coerenti con la behavioral variant FTD (bvFTD). La bvFTD è caratterizzata da una precoce e pervasiva modificazione cerebrale nelle regioni che sono state considerate critiche per i processi di cognizione sociale: corteccia orbitofrontale, corteccia prefrontale ventromediale, insula e lobo temporale anteriore (Rascovsky et al., 2007). Nelle successive visite di controllo, il paziente continuò a fare commenti inappropriati comportandosi in modo abbastanza sciocco, infantile e inappropriato. Ad esempio, durante una visita in clinica, afferrò la cravatta dell’esaminatore e quella di un medico di passaggio e iniziò a confrontarle. La sua storia clinica continuò a peggiorare, fino a che non sviluppò la malattia di Parkinson.

Il paradosso del Witzelsucht

Il paradosso di chi soffre di Witzelsucht è che questi pazienti non mostrano apprezzamento se l’umorismo non viene generato da loro stessi. Anche quando sono in grado di riconoscere e comprendere una battuta rimangono impassibili, sembrando insensibili, non mostrando alcuna risposta affettiva, né ridendo. Una possibile spiegazione è che tale sindrome vada ad impattare sulla componente cognitiva coinvolta nella comprensione dell’umorismo, nota anche come teoria dell’incongruità-risoluzione (I-R). È possibile definire l’incongruità come una caratteristica che risulta nell’interazione stimolo-soggetto quando lo stimolo è difforme dal modello cognitivo di riferimento del soggetto (Forabosco, 1992), mentre per risoluzione si intende il processo di problem solving in cui il soggetto cerca di risolvere l’incongruità attraverso una regola cognitiva (Suls, 1972).

Secondo il modello della risoluzione dell’incongruità (I-R), dato uno stimolo umoristico è possibile individuare due momenti cronologicamente successivi. Il soggetto, ascoltando o leggendo la parte iniziale del testo umoristico, definita set-up, attiva delle conoscenze coerenti col testo che gli permettono di crearsi un’aspettativa sul suo prosieguo (prima fase). Procedendo nella lettura e comprensione della rimanente porzione di testo, denominata punch-line, il soggetto incontra un’incongruità rispetto alle aspettative create nella prima fase in merito alla prosecuzione del testo (seconda fase). È in questa seconda fase che egli si confronta con un processo di problem solving, in modo da trovare una regola cognitiva, semantica, logica o esperienziale, che concili le due parti di testo precedentemente percepite come incongrue.

Ad esempio, si consideri la seguente barzelletta:

Lo sai che ho appena bruciato 1000 calorie? 
Davvero?  E come hai fatto?
Ho dimenticato la torta nel forno…

Nella prima fase (incongruità) il soggetto percepisce che c’è una discrepanza tra la prima domanda e la risposta successivamente fornita, ma esiste una regola cognitiva per spiegare l’apparente incongruità data dal doppio senso del “bruciare calorie” che crea una coerenza tra la domanda e il fatto di avere lasciato la torta nel forno troppo a lungo. Se la regola non è rintracciata, lo stimolo non viene percepito come umoristico e produce perplessità (Forabosco, 1992).

I soggetti affetti da Witzelsucht non sono in grado di compiere questo passaggio cognitivo. Tuttavia, forme più semplici di umorismo che non richiedono l’integrazione di un punch-line (ad esempio, la slapstick comedy, un tipo di comicità elementare basata sulla fisicità, con azioni surreali ed esagerate quali cadute, scontri ed inseguimenti) possono comunque essere vissute come divertenti.

 

Psicologo o psicoterapeuta? – Lettera di un lettore

NOTA DELLA REDAZIONE

Pubblichiamo una lettera di un nostro lettore che preferisce rimanere anonimo. Si tratta di una riflessione sul dibattito in corso riguardante il ruolo di psicologi e psicoterapeuti. La lettera rappresenta bene una certa posizione tra quelle in campo, ma non è l’unica possibile, né rappresenta la posizione di State of Mind.

 

 La psicologia è una professione sanitaria e dunque la sua mission è la salute mentale collettiva che viene garantita soltanto se non si fa confusione tra ruoli e competenze regolate dalla legge.

Come spesso accade nelle discussioni pubbliche, il focus della questione viene ribaltato e, puntando su indignazione e sconcerto, si prova a far credere che l’oggettivo sia incredibile. E così anche nel recente dibattito sul ruolo di psicologi e psicoterapeuti, si vuol dipingere come assurdo il fatto che, come previsto e regolato dalla legge, lo psicologo possa svolgere attività di promozione e prevenzione della salute mentale ma non possa effettuare una terapia sui pazienti, competenza che invece spetta allo psicoterapeuta. Vale a dire a chi, dopo la laurea in psicologia, ha scelto di proseguire gli studi per ulteriori quattro anni e ha conseguito una specializzazione che lo ha legittimato alla cura. Equiparare le due figure significherebbe, peraltro, non riconoscere allo psicologo il fondamentale ruolo nella prevenzione del disturbo, tramite consulenza individuale o all’interno di strutture sociali (scuola, lavoro, salute).

Se si fa il paragone con la professione medica, sarebbe come indignarsi del fatto che un laureato in medicina non possa eseguire una TAC su un paziente oncologico, attività riservata agli specializzati in radiologia, o, se si preferisce, come indignarsi che un laureato in medicina non possa curare un paziente con la psicoterapia, se non è specializzato in questa disciplina. Tornando alla psicologia, lo scandalo sarebbe che chi si è specializzato in psicoterapia abbia l’esclusiva sulla terapia e che non possa accedervi, invece, chi non si è specializzato. E non pensa, chi grida allo scandalo, che tale separazione di ruoli, come suggerisce il codice deontologico di psicologi e psicoterapeuti è, al contrario, fondamentale per la tutela del paziente, priorità assoluta nella professione.

Riservare il trattamento e la cura del paziente, come stabilisce la legge, a professionisti che hanno il titolo per farlo è un’opportunità logica e sensata, oltre che di indubbio valore meritocratico: si tratta di studenti che, dopo aver conseguito la laurea in Psicologia ed essersi iscritti all’Ordine degli psicologi, si sono impegnati in una ulteriore formazione quadriennale riconosciuta dal MIUR, per acquisire capacità di valutazione differenziale, disegno e scelta di intervento sul paziente. Ma al di là della seppur ingiusta e ingiustificata equiparazione dei ruoli interni all’ordine, in ballo c’è qualcosa di molto più grave: a rimetterci sarebbe la persona in condizioni di fragilità, la salute della quale dovrebbe essere la mission dell’intera professione. Mantenere distinzione tra le due figure professionali significa farsi carico della responsabilità alla quale la deontologia richiama: il dovere di assicurarsi che i pazienti non siano affidati indistintamente a professionisti specializzati e non specializzati e che, in tal modo, perdano le garanzie di ricevere un trattamento di qualità, idoneo al proprio disagio.

Non è un caso che nel Servizio Sanitario Nazionale, per curare pazienti con psicopatologie, si assumano psicoterapeuti, vale a dire psicologi specializzati e quindi legittimati all’esercizio della psicoterapia, e che non ci sia invece traccia di psicologi che eroghino “terapia psicologica”. Da notare, per inciso, che il termine “terapia psicologica” non compare proprio nella legge 56/89, il cui articolo 3, invece, recita testualmente: “L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia”. Tutto, al contrario, rischia di diventare psicoterapia, a prescindere dal possesso degli strumenti clinici per il trattamento dei disturbi psicopatologici. Strumenti che si acquisiscono solo attraverso una formazione specifica quale rappresenta ad oggi la specializzazione in psicoterapia.

Sono sempre più diffuse iniziative che invitano le persone che soffrono di disturbi psicopatologici a rivolgersi a psicologi, senza nominare l’esistenza di psicoterapeuti e della psicoterapia. Tali iniziative generano una preoccupante confusione nell’opinione pubblica tra il ruolo di psicologo e il ruolo di psicoterapeuta, e certamente non contribuiscono a fare chiarezza sulle competenze dell’una e dell’altra figura professionale. Tutto ciò rischia di tradursi in un approccio sbagliato alla problematica del singolo oltre che in un dispendio economico, da parte della persona o dello Stato, non giustificato da un’attenzione adeguata alla salute del paziente.

Terapie psicologiche a distanza e realtà virtuali

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

 

Introduzione

 Quella che Freud aveva chiamato una talking cure, una cura di parole, sta radicalmente mutando in seguito all’incremento esponenziale dei nuovi sistemi digitali.

Il vorticoso sviluppo delle applicazioni informatiche e la pandemia causata dal diffondersi del Covid-19 hanno avuto un impatto sulla professione dello psicologo, favorendo una migrazione dal setting faccia-a-faccia alla comunicazione a distanza, un cambiamento che per il futuro si prospetta sempre più radicale grazie agli strumenti di virtual reality.

È un percorso che nasce da lontano. Già negli anni Cinquanta, lo psichiatra e psicoanalista statunitense Leon Joseph Saul si era battuto per utilizzare il telefono nella pratica clinica, ma l’idea era stata accolta dallo scetticismo di chi era abituato al tradizionale spazio fisico e relazionale: una stanza tranquilla adeguatamente illuminata, una scrivania, una poltrona, un comodo lettino per il paziente.

La novità dei nostri tempi è costituita dal trattamento tramite videochiamata offerto da applicazioni quali Zoom e Skype. Questi sistemi offrono la possibilità di una comunicazione completa: audio, video e all’occorrenza testo.

Vantaggi e svantaggi della psicoterapia online

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è la possibilità data a un paziente di scegliersi il proprio terapeuta senza farsi condizionare dalla distanza geografica. Con un semplice clic, l’abitante di uno sperduto villaggio di campagna può entrare virtualmente nello studio di uno psicologo del centro di Milano. E una persona disabile che non è in grado di raggiungere autonomamente lo psicologo può farsi seguire a distanza.

Altri vantaggi sono: l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

Tra gli svantaggi, si possono annoverare: la carenza di privacy per il paziente che non ha uno spazio isolato dove mettersi a conversare senza essere spiato o interrotto; la mancanza di un setting chiuso, con la porta che delimita simbolicamente lo spazio dell’incontro; la difficoltà del terapeuta di rispondere rapidamente ed efficacemente quando si verifica una crisi; le adeguate competenze digitali necessarie ad una gestione del rapporto on line.

Psicoterapia online e realtà virtuale

La richiesta di prestazioni psicologiche online è destinata ad aumentare con il tempo, in parallelo alla crescita di confidenza con le nuove tecnologie di comunicazione e la perdita di importanza del territorio fisico. Probabilmente, tra pochi anni assisteremo alla crescita di tecnologie basate sulla realtà virtuale. Gli spazi simulati possono rappresentare un contesto di interazione sociale che permette a un paziente di sperimentare i propri comportamenti disfunzionali come se li stesse provando nella realtà, mentre invece si trova in uno studio clinico. Evidenze scientifiche comprovano l’efficacia dei sistemi di realtà virtuale per indurre reazioni comportamentali, cognitive ed emozionali del tutto simili alle situazioni reali equivalenti.

 Gli ambienti di realtà virtuale, come quelli che prevedono un display montato sulla testa, permettono l’introduzione della profondità stereoscopica che crea l’illusione di vedere oggetti in uno spazio reale. Ciò offre una serie di vantaggi al ricercatore: maggiore controllo sulla presentazione dello stimolo lungo un piano tridimensionale, varietà nelle opzioni di risposta e validità ecologica potenzialmente aumentata. È possibile che il paziente possa interagire con avatar virtuali all’interno di scenari atti a studiare il comportamento sociale. I movimenti nello spazio virtuale e i relativi cambiamenti percettivi sono trattati dal cervello più o meno allo stesso modo di quelli nello spazio reale equivalente. Si potrà misurare un comportamento di aiuto senza doversi fidare di un paziente che riferisce verbalmente cosa avrebbe fatto ipoteticamente in una data situazione.

Un altro ambito di applicazione è la terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’ansia, in quanto la realtà virtuale permette al paziente di affrontare un’esposizione all’oggetto o alla situazione temuta.

Sono solo due dei tanti esempi che dimostrano come la realtà virtuale stia iniziando a svolgere un ruolo importante nella psicologia clinica.

Agli psicologi del futuro sarà richiesta una particolare competenza nell’uso di dispositivi hardware e software che collaborano per creare uno spazio virtuale all’interno del quale interagire con il paziente.

La mente distopica (2022) di Nicola Ghezzani – Recensione del libro

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”.

 

 I fenomeni dissociativi consistono in condizioni caratterizzate dall’esperienza di sintomi neurologici insoliti e da cambiamenti relativi alla consapevolezza ed al senso di identità (Ganslev et al., 2020). Tra tali fenomeni, spicca il disturbo di Depersonalizzazione/Derealizzazione: la prima consiste in una sensazione di distacco dal proprio corpo e dai propri pensieri, emozioni e sensazioni. La Derealizzazione, invece, si manifesta mediante il senso di irrealtà ad estraneità rispetto all’ambiente circostante (Spiegel, 2021).

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”; la prima è caratterizzata dalla tendenza a cogliere i difetti del mondo e ad opporsi ad essi, in virtù di una sensibilità diversa rispetto al resto della popolazione (Ghezzani, 2022). L’angoscia esistenziale, invece, porta ad interrogarsi su argomenti spesso dati per scontati dalla maggior parte delle persone, quali il senso della propria esistenza, della propria essenza e, addirittura, delle proprie relazioni (Ghezzani, 2022). Una prima panoramica su tali caratteristiche permette di intuire l’eccezionale complessità delle sopra-citate condizioni dissociative che, pur essendo state identificate alla fine dell’Ottocento (Coons, 1996) e pur interessando fino all’1,9% della popolazione generale (Yang et al., 2022), risultano tutt’ora di difficile comprensione, persino per gli stessi professionisti della salute mentale, come riferito dallo stesso Nicola Ghezzani (2022), autore dell’opera qui recensita, nonché psicoterapeuta, presidente della SIPSID (Società Italiana di Psicologia Dialettica) e fondatore dell’associazione culturale ASIP (Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni Psichiche).

 Mediante l’opera da lui realizzata, “La mente distopica. Derealizzazione, depersonalizzazione e angoscia esistenziale”, nella quale riporta in modo estremamente coinvolgente la propria esperienza con la Derealizzazione, l’autore permette di superare la nebulosità relativa alla comprensione di tali particolari condizioni cliniche; un aspetto che contribuisce a rendere il volume particolarmente utile e interessante consiste nell’alternarsi di descrizioni ed esempi pratici –spesso resi più semplici dai riferimenti a situazioni e vissuti comuni ad ognuno (come la tendenza a vagare con la mente mentre si guida un’auto)– con nozioni teoriche e strategie/strumenti di intervento (dalla “oggettivizzazione del sintomo”, necessaria per evitare interpretazioni drammatiche delle manifestazioni dissociative, al “cambiamento di contesto”). Il risultato è una lettura scorrevole ed esaustiva, sicuramente interessante per molti, anche se indirizzata prevalentemente ad un pubblico di specialisti e di pazienti, che accompagna il lettore nella comprensione di una manifestazione psicopatologica spesso trascurata, in un continuo e sapiente gioco di integrazione tra la puntualità delle nozioni scientifiche, i vissuti della persona-paziente e i significati e conflitti spesso celati dai sintomi.

Il disprezzo

Il disprezzo sembra avere un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo. È stato osservato che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone (Roseman, 2018).

 

Introduzione al disprezzo

 Nonostante molti non conoscano con esattezza la definizione della parola disprezzo, è sicuramente una delle emozioni più facilmente riconoscibili in gran parte delle culture, per via delle modalità espressive (vocali, facciali e comportamentali) con cui la si manifesta, o per via della facilità nel riconoscere la situazione in cui occorre (Roseman, 2018). Infatti, nonostante sia oggetto di dibattito la sua appartenenza alla classe delle emozioni primarie, è indubbio che il disprezzo sia presente nella vita di tutti i giorni, e che accompagni l’essere umano fin dalla nascita. Può essere esperito sia nei confronti di persone che di oggetti.

Il disprezzo si manifesta con un atteggiamento negativo verso qualcuno o qualcosa che si ritiene inferiore, inutile o non meritevole di rispetto (Roseman, 2018). Come emozione, il disprezzo ha un insieme di componenti:

  • la componente fenomenologica, ovvero l’insieme di pensieri che hanno come contenuto l’inutilità della persona (o oggetto) e quanto essa sia rivoltante;
  • la componente fisiologica ed espressiva, che consiste nel restringimento delle labbra, con un lieve sollevamento dell’angolo in alto delle labbra, solamente da una parte del viso, spesso accompagnandosi a uno sguardo altezzoso;
  • la componente comportamentale, che si manifesta tramite frasi che hanno lo scopo di umiliare l’individuo o mancargli di rispetto, oppure trattarlo come inferiore.

Il disprezzo ha inoltre un obiettivo, ovvero una funzione, ed è quella di trasmettere il fatto di non voler avere nulla a che fare con l’oggetto (o stimolo) dell’emozione, e di avvisare le altre persone che quella persona è immeritevole e deve essere esclusa dal gruppo (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi avere anche un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo (Roseman, 2018). È stato osservato (Roseman, 2018) che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone.

Sono stati osservati due tipi di disprezzo (Roseman, 2018). La persona che prova disprezzo spesso ha un atteggiamento indifferente verso il bersaglio e le sue emozioni, e ciò serve a trasmettere che il target è insignificante e indegno di attenzione. Questo tipo di disprezzo è definito passivo. Il disprezzo attivo invece è l’insieme di comportamenti che l’individuo attua per far capire ad altri che il bersaglio è indegno e immeritevole di avere relazioni con gli altri.

Il disprezzo in diversi contesti

È possibile osservare il disprezzo, e le sue conseguenze, in diversi contesti (Roseman, 2018).

Un esempio potrebbe essere a scuola, dove il disprezzo verso un determinato gruppo etnico può portare a denigrazione, minacce, provocazioni, bullismo, violenza ed esclusione (Roseman, 2018).

 Un altro campo dove è possibile ritrovare il disprezzo è nelle relazioni sentimentali (Roseman, 2018). Katz e Gottman (1993) hanno osservato come frasi con contenuto sprezzante rivolte verso il partner fossero forti predittori di insoddisfazione relazionale e divorzio (Katz e Gottman, 1993).

Il disprezzo si può inoltre ritrovare nel contesto lavorativo, dove è possibile che il datore di lavoro provi disprezzo verso i dipendenti, o che siano i dipendenti stessi a provare disprezzo verso il datore di lavoro; inoltre, è possibile che il disprezzo sia anche diretto verso i clienti (Pelzer, 2005).

Il disprezzo si può anche osservare pure in campo politico, dove è facile che gli individui provino questa emozione verso coloro che votano o sostengono un partito politico opposto al proprio (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi un’emozione con una funzione sociale specifica, ovvero segnalare all’altro che l’oggetto di tale emozione deve essere allontanato dal gruppo (Roseman, 2020). Tuttavia, il disprezzo, se non viene riconosciuto e adeguatamente gestito, può avere ripercussioni negative nella società, come violenza, pregiudizio, razzismo e guerre  (Roseman, 2020).

Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

Dopo aver pubblicato, nello scorso numero, un articolo dedicato al tema della Qualità di Vita nelle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, proponiamo oggi un approfondimento sul tema in riferimento all’ambito più ampio delle disabilità.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 4) Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

 

Il concetto di Qualità di Vita (QdV) ha origini molto antiche, radicate nell’idea di benessere e felicità già argomentate da Platone e Aristotele; ma la sua importanza è cresciuta rapidamente negli ultimi anni, diventando sempre più un focus di attenzione nel campo della ricerca e della pratica in ambito educativo, sanitario, dei servizi sociali e della famiglia (Schalock e Verdugo, 2002). La crescita dell’interesse verso il costrutto di Qualità di Vita nell’ambito delle disabilità è sicuramente in gran parte dovuta alla de-istituzionalizzazione delle persone con disabilità (Verdugo et al., 2005) e alla pubblicazione della Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità (Organizzazione delle Nazioni Unite [ONU], 1975).

Il campo della Disabilità Intellettiva (DI) è fortemente influenzato dal costrutto, ovvero il concetto, di Qualità di Vita (Morisse et al., 2013) e l’importanza di misurarla in questo ambito ha a che fare con due principali ragioni: la prima è che tale costrutto permette una visione integra e multidimensionale della vita di una persona, consentendo di identificare e mettere in atto degli interventi personalizzati senza cadere nel riduzionismo; la seconda ragione, di conseguenza, si riferisce all’orientamento delle azioni attuate dai servizi pubblici e dai professionisti, basato su un importante ruolo attribuito alla persona in quanto beneficiaria di servizi, la cui esperienza deve sempre essere tenuta in considerazione (Verdugo et al., 2005).

Negli ultimi anni si è diffusa, pertanto, una maggiore attenzione agli esiti degli interventi di sostegno e di (ri)abilitazione per persone con disabilità, con un superamento della logica di guarigione, a favore di un’ottica maggiormente orientata al miglioramento della Qualità di Vita e dell’inclusione. In questa prospettiva, la Qualità di Vita rappresenta un obiettivo da conseguire per le persone con disabilità, tanto quanto per quelle senza, così come un indice della qualità delle azioni di sostegno attuate (Coscarelli e Balboni, 2014).

I modelli di QdV

Prima di poter applicare la Qualità di Vita, è però necessario giungere a una concezione condivisa e operativa di tale costrutto, altrimenti si corrono due rischi speculari: da una parte quello di ridurre il costrutto di QdV a una dimensione specifica e, di conseguenza, scarsamente rappresentativa della sua complessità; dall’altro lato, il pericolo è quello di farlo diventare talmente onnicomprensivo e variegato da risultare ripetitivo e difficilmente misurabile (Cottini, 2009).

A tal proposito, sono stati sviluppati vari modelli di Qualità di Vita e, sebbene non vi sia ancora un totale consenso sulle sue componenti (chiamate domini) che la definiscono, vi è accordo sul fatto che si tratti di un costrutto multidimensionale, che si manifesta con indicatori di tipo sia oggettivo che soggettivo, fortemente influenzati da fattori personali e ambientali (Müller e Cannon, 2014). I modelli più rilevanti, citati da Coscarelli e Balboni (2014) in merito alla QdV nel contesto della DI, sono stati elaborati da Felce e Perry (1995), Cummins (2000) e Schalock e Verdugo (2002). Tra questi, il modello di Schalock e Verdugo del (2002) è quello che si è dimostrato essere più valido tra le differenti culture, nonché il principale riferimento teorico utilizzato nell’ambito della DI (Coscarelli e Balboni, 2014).

Il modello di Schalock e Verdugo

Il modello di Qualità di Vita elaborato da Schalock e Verdugo (2002) ha subìto vari cambiamenti nel corso del tempo, integrando sempre più accorgimenti riferiti alla validità sia etica (universale) che emica (culturale) di tale costrutto (Coscarelli e Balboni, 2014), fino a raggiungere l’attuale strutturazione in 8 dimensioni.

Nel 2002 un panel internazionale di esperti nel campo della Qualità di Vita ha pubblicato una sintesi dei princìpi riguardanti il concetto di QdV sui quali era emerso un certo consenso. Tali princìpi evidenziano una certa sensibilità alle caratteristiche soggettive, alla persona in quanto tale (più che alla sua disabilità), al suo punto di vista e all’uguaglianza dei fattori coinvolti nel determinare la Qualità di Vita di una persona con disabilità rispetto a una senza disabilità. Tra questi, inoltre, emerge l’importanza di considerare i fattori culturali e ambientali e la variabilità che può subire la QdV nel corso dell’intero ciclo di vita (Verdugo et al., 2005).

La definizione di Schalock e colleghi (2010) di Qualità di Vita è quella di un fenomeno multidimensionale composto da domini centrali che sono influenzati da caratteristiche personali e ambientali. Tali domini sono gli stessi per tutte le persone, anche se possono variare in valore e importanza. Questi sono inoltre basati su indicatori sensibili alla cultura.

Un buon livello di Qualità di Vita è il risultato di una buona corrispondenza tra i desideri e i bisogni di una persona, e il loro soddisfacimento. Ciò è supportato dai dati, i quali suggeriscono che riducendo la discrepanza esistente tra le risorse individuali e le richieste ambientali, aumenta la QdV di quella persona (Schalock, 2000).

Pertanto, il concetto di Qualità di Vita secondo il modello di Schalock e Verdugo (2002) rappresenta un costrutto multidimensionale latente, sotto al quale sono stati concettualizzati 8 domini che concorrono a spiegarlo, a loro volta definiti da indicatori che ne aiutano l’operazionalizzazione e quindi la misurazione in quanto rappresentano dei comportamenti, delle percezioni e delle condizioni connesse alla QdV (Schalock et al., 2010; Verdugo et al., 2005; Morisse et al., 2013, vedi Tabella 1). Tale struttura si è dimostrata applicabile sia alle diverse culture, che alle varie categorie di partecipanti: individui con Disabilità Intellettiva, familiari e professionisti. È stato in seguito aggiunto un altro livello di strutturazione del modello, costituito da fattori che raccolgono i vari domini in 3 categorie: Indipendenza, Partecipazione sociale e Benessere (Coscarelli e Balboni, 2014).

Qualità di vita - tabella

Tabella 1. Modello concettuale della QdV: fattori, domini e indicatori (adattata da Schalock et al., 2008).

La questione etica

Schalock e colleghi (2002) si sono occupati anche della questione etica relativa alla misurazione della Qualità di Vita, affermando che tale costrutto è importante per tutti gli individui e dovrebbe essere considerato allo stesso modo per persone con o senza disabilità, in quanto esse hanno lo stesso diritto di godere di una vita di qualità. In altre parole, il valore della vita è lo stesso, che la persona sia abile, o disabile. A tal fine, l’applicazione del concetto di QdV per persone con DI dovrebbe basarsi su 5 princìpi (Schalock et al., 2002):

  • L’obiettivo primario è aumentare il benessere individuale;
  • Devono essere tenuti in considerazione il patrimonio culturale ed etnico dela persona;
  • Lo scopo di qualsiasi programma orientato alla QdV dovrebbe essere quello di produrre dei cambiamenti a livello personale, istituzionale, comunitario e nazionale;
  • L’applicazione della QdV dovrebbe aumentare il grado di controllo e opportunità personali;
  • La QdV dovrebbe rivestire un ruolo preponderante nella raccolta degli esiti.

Nel tempo, quindi, la Qualità di Vita è diventata un agente di cambiamento sociale, in cui risulta centrale la predisposizione di sostegni individualizzati, adattati cioè ai bisogni e alle preferenze della persona. È necessario, inoltre, che tali sostegni vengano attuati all’interno di ambienti inclusivi (Schalock et al., 2008). La forza dell’inclusione sta nell’inserimento al 100% della persona con disabilità all’interno del sistema sociale, adattando tale sistema a ogni individuo con o senza disabilità tramite l’eliminazione delle barriere alla piena partecipazione di tutti come ugualmente unici e valorizzati. Ciò non avviene in un’ottica di integrazione, la quale si basa invece su un adattamento al sistema, spesso tramite la creazione di gruppi che, per quanto siano inseriti all’interno del sistema sociale, sono comunque separati da esso, segregati (Eid, 2018).

Misurazione della Qualità di Vita

La misurazione della Qualità di Vita si basa innanzitutto sulla valutazione degli indicatori, i quali rappresentano gli elementi da quantificare al fine di ottenere una misurazione dei domini a cui si riferiscono (Coscarelli e Balboni, 2014). Gli indicatori hanno una connotazione ecologica, ossia devono essere considerati in rapporto al contesto sociale e alla quotidianità della persona; inoltre sono sensibili all’età del soggetto e alle sue condizioni (ad esempio, sviluppo tipico, disturbo mentale, ecc; Cottini, 2009).

La letteratura si mostra discordante sulle modalità di misurazione degli indicatori di Qualità di Vita, i quali possono essere classificati in soggettivi e oggettivi, e sull’utilità di disporre di entrambe le tipologie di risultati. In generale, vengono considerati soggettivi gli indicatori che hanno a che fare con la percezione di (a) soddisfazione per la vita rispetto a standard personali e (b) felicità, in termini di stati affettivi positivi (Cummins, 2000). Vengono invece considerati come oggettivi gli indicatori relativi alle circostanze di vita obiettive, indipendenti quindi dalle percezioni di benessere personali (per esempio, reddito, livello di istruzione). Pertanto, questi ultimi vengono solitamente valutati richiedendo al soggetto di quantificare esperienze e condizioni di vita relative ai domini della Qualità di Vita (es. “disponi di una casa / appartamento / stanza che puoi chiudere a chiave?”: dominio del benessere materiale; Cummins, 2000, p. 10). Gli indicatori soggettivi invece vengono misurati richiedendo di valutare il livello di soddisfazione percepito relativamente ai vari aspetti di vita considerati (es. “Sei importante per la tua famiglia?”: dominio delle relazioni interpersonali; ibidem). Pertanto, la qualità oggettiva o soggettiva degli indicatori rispecchia il contenuto delle domande, non la natura della valutazione che, di per sé, è sempre soggettiva, né la fonte delle informazioni (auto- o etero-valutativa; Hatton e Ager, 2002).

Diverse ricerche hanno mostrato una correlazione medio-bassa tra gli indicatori soggettivi e quelli oggettivi, suggerendo l’utilità di ricorrere a entrambi i tipi di misurazione (Müller e Cannon, 2014). Risulta altresì importante attribuire alle due categorie di indicatori pesi differenti in base agli scopi della misurazione (Verdugo et al., 2005). Per esempio, gli indicatori soggettivi risultano utili nel caso in cui si voglia indagare il livello di soddisfazione di persone con disabilità intellettiva (DI) in confronto a un’altra popolazione; nell’ipotesi in cui i punteggi siano simili, il livello di soddisfazione risulta normativo; altrimenti, conviene indagare quali fattori personali o ambientali possano causare queste differenze. Nel caso in cui si vogliano valutare gli effetti degli interventi e le condizioni ambientali, risulta invece più pertinente il ricorso a indicatori di tipo oggettivo (Verdugo et al., 2005).

Pertanto, i metodi di raccolta dati migliori comprendono questionari e interviste che tengano conto, in maniera indipendente, di entrambe le tipologie di indicatori e che siano progettate per essere completate da utenti con DI o, eventualmente, da informatori che conoscono la persona (detti proxy; Hatton e Ager, 2002).

 

L’ascolto attivo

Dal punto di vista clinico, l’ascolto attivo prevede tre elementi essenziali: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati. 

 

If we could all just learn to listen, everything
else would fall into place.
Listening is the key to being patient centred. 
(Ian McWhinney)

 Durante le ultime settimane a contatto con alcuni pazienti mi sono sentita particolarmente in sintonia con loro da un punto di vista emotivo e mi sono resa conto, dal cambiamento da loro mostrato nei miei confronti a fine seduta, di come, in assenza di specifiche competenze terapeutiche pratiche ancora da sviluppare, il primo passo verso l’altro è la messa in atto di un’abilità difficile da insegnare e da apprendere: l’ascolto attivo. Probabilmente chiunque conosce il significato della parola “ascolto”, definito, cioè, come “processo di ricezione, costruzione di significato e di risposta a messaggi verbali e/o non verbali” e non soltanto mera percezione di un suono attraverso l’udito. Ma chi realmente pratica l’ascolto attivo verso gli altri? Esso è come se si riferisse ad un livello successivo, più profondo, che rimanda ad un’apertura, ad una predisposizione mentale verso l’altro e all’essere emotivamente disposti a condividere il vissuto dell’altro, sia esso di sofferenza o di gioia.

Le teorie inerenti all’ascolto attivo hanno radici nella concettualizzazione dell’ascolto empatico di Rogers (1951), il quale definì l’ascolto empatico come incondizionata accettazione e riflessione imparziale dell’esperienza dell’altro. Dal punto di vista clinico, la maggior parte dei pareri di esperti condivide l’inclusione di tre elementi essenziali nell’ascolto attivo: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati.

Dunque, l’ascolto attivo estende il ruolo terapeutico oltre la semplice raccolta di informazioni e non rimanda necessariamente a lunghe sessioni trascorse esclusivamente ad ascoltare l’altro; finché non si è in grado di dimostrare uno spirito che rispetti genuinamente il valore potenziale dell’individuo, che consideri i suoi punti di vista, non possiamo considerarci ascoltatori efficaci. Secondo Rogers (1957) l’empatia del terapeuta e la capacità di comunicare tale empatia al paziente sono tra le condizioni iniziali necessarie per l’instaurazione di una relazione, ossia per la costruzione dell’alleanza terapeutica, ed il conseguente raggiungimento del cambiamento terapeutico.

In generale, l’ascolto attivo implica la capacità percepita di instaurare interazioni gratificanti. A tal proposito, la letteratura su tale ambito identifica la comprensione, l’esperienza dell’affetto positivo e la costruzione di relazioni soddisfacenti e significative come prodotti del processo di ascolto attivo, sottolineando che le persone preferiscono interazioni che forniscono ricompense reali o percepite, che a loro volta guidano l’interesse delle persone verso interazioni future.

L‘ascolto attivo è, dunque, una capacità comunicativa specifica che consiste nella libera attenzione e che Knights definisce come: “… mettere tutta la propria attenzione e consapevolezza a disposizione di un’altra persona, ascoltare con interesse e apprezzare senza interrompere”. Questo sembra essere un impegno raro e prezioso, poiché la maggior parte delle discussioni implica la competizione per uno spazio in cui parlare. L’ascolto attivo richiede un’intensa concentrazione e attenzione a tutto ciò che la persona sta trasmettendo, sia verbalmente che non verbalmente. Esso richiede che l’ascoltatore si svuoti si preoccupazioni personali, distrazioni e preconcetti.

 Ancora, diceva Carl Rogers nel 1980: “[…] ascoltiamo non solo con le nostre orecchie, ma anche con i nostri occhi, mente, cuore e immaginazione. Ascoltiamo ciò che sta accadendo dentro di noi, così come ciò che sta accadendo nella persona che stiamo ascoltando. Ascoltiamo le parole dell’altro, ma ascoltiamo anche i messaggi e i significati sepolti nelle parole. Ascoltiamo la voce, l’aspetto e il linguaggio del corpo dell’altro… […] senza aggiungere, sottrarre o modificare.” Dare l’opportunità di seguire un filo di pensiero senza interruzioni è sia una convalida dei processi di pensiero (sebbene non necessariamente delle opinioni stesse), sia dell’individuo. Sebbene l’ascoltatore non introduca le proprie opinioni o soluzioni, è tutt’altro che passivo.

Bolton, inoltre, cita nel suo libro “Competenze delle persone” lo psicologo Clark Moustakas: “Etichette e classificazioni che ostacolano l’ascolto attivo fanno sembrare che conosciamo l’altro, quando in realtà abbiamo catturato l’ombra e non la sostanza. Poiché siamo convinti di conoscere noi stessi e gli altri… [noi] non vediamo più cosa sta succedendo davanti a noi e in noi, e, non sapendo di non sapere, non facciamo alcuno sforzo per essere in contatto con il reale”.

È utile, in conclusione, realizzare una riflessione sull’aspetto dell’ascolto, così scontato e sottovalutato ma allo stesso tempo così poco praticato ed essenziale nella definizione della qualità delle relazioni umane.

You can learn to be a better listener, but
learning it is not like learning a skill that is
added to what we know. It is a peeling away
of things that interfere with listening, our
preoccupations, our fears, of how we might
respond to what we hear.
(Ian McWhinney).

 

Sigmund Freud: i principi fondamentali della terapia psicoanalitica

Sigmund Freud (1856 – 1939) fu un neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco, nonché fondatore della psicoanalisi e autore di un’importante teoria dello sviluppo affettivo, cioè la teoria dello sviluppo psicosessuale (o libidico).

 

I principi fondamentali della teoria psicoanalitica freudiana

Freud sosteneva che la mente umana fosse composta da tre istanze fondamentali: l’Io, l’Es e il Super Io.

L’Io è la struttura più razionale, che rende realistiche e accettabili le spinte pulsionali dell’Es, opera secondo un principio di realtà, si adatta all’ambiente sociale, e contiene delle funzioni regolatrici (le difese) tramite cui gestisce istinti e affetti e tiene sotto controllo le pulsioni dell’Es.

L’Es è l’istanza psichica più istintiva e primitiva, il cui obiettivo è la gratificazione pulsionale, la scarica della libido, e l’evitamento del dolore; opera secondo il principio di piacere.

Il Super Io, infine, è il nostro senso morale, comprende i concetti di giusto e sbagliato, di buono e cattivo, proprio come ci vengono insegnati dai genitori o da figure educative significative. Il Super io limita e inibisce le pulsioni dell’Es e spinge l’individuo a perseguire elevati standard morali. Il Super Io si struttura al superamento del Complesso di Edipo/Elettra, quando il bambino interiorizza norme sociali, valori morali, incorpora modelli di condotta genitoriali e assimila codici etici e deontologici. Il Super Io è anche la fonte del senso di colpa e della vergogna, dal momento che comprende due sottosistemi: la coscienza, che punisce il bambino quando mette in atto comportamenti disapprovati dai genitori, e l’ideale dell’Io, che premia il bambino quando mette in atto comportamenti moralmente accettabili, portandolo ad esperire orgoglio.

Secondo Freud, le mente è regolata dal principio di piacere: è esso che guida le azioni umane e che orienta le nostre motivazioni e le nostre condotte. La pulsione per Freud è un processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica o fattore di motricità) che porta l’individuo a protendere verso una meta. La pulsione si compone di quattro dimensioni:

  • una fonte, che è il segnale corporeo che indica un bisogno.
  • un obiettivo, cioè come soddisfare il bisogno.
  • un impeto, che è la dimensione principale delle pulsioni, cioè la spinta che motiva l’individuo all’azione.
  • un oggetto, cioè il mezzo attraverso cui il bisogno viene soddisfatto.

La teoria di Freud sullo sviluppo psicosessuale sottolinea il fatto che la motivazione primaria del comportamento umano sia di natura sessuale (la ricerca di una gratificazione pulsionale) e che lo sviluppo individuale sia un processo largamente inconscio, influenzato dalla nostra sfera emotiva e dalle precoci relazioni oggettuali con figure significative della prima infanzia. In particolar modo, secondo Freud, la personalità è un costrutto dinamico, che evolve modulandosi lungo le cinque fasi che caratterizzano il processo di sviluppo affettivo. Ciascuna di queste cinque fasi – la fase orale, la fase anale, la fase fallica, la fase di latenza e la fase genitale – è caratterizzata da un centro di piacere, rappresentato da una zona erogena, e da un conflitto.

Le fasi dello sviluppo psicosessuale secondo Freud

Nello specifico, il bambino alla nascita è narcisista, cioè agisce unicamente in vista di una gratificazione pulsionale dei propri istinti vitali. Freud definiva il bambino un perverso polimorfo: man mano che cresce, il bambino continua a cercare il piacere sessuale senza uno scopo riproduttivo (perverso), ma comincia a spostare il suo piacere convogliandolo su diverse zone erogene, cioè parti del corpo marcatamente sensibili, al cui contatto il bambino avverte una forte scarica libidica e sensazioni molto piacevoli. Durante le cinque fasi dello sviluppo psicosessuale il bambino è chiamato a risolvere dei conflitti di carattere affettivo, conflitti che vedono contrapposte le esigenze pulsionali e istintuali del bambino (principio di piacere) e le regole e le norme imposte dalla società (principio di realtà): il conflitto, pertanto, è il punto nevralgico della vita affettiva ed emotiva secondo la teoria psicoanalitica di Freud. Se il bambino riesce a superare i conflitti che caratterizzano le varie fasi dello sviluppo, allora può raggiungere un buon livello di maturazione psicobiologica e un equilibrio armonico tra le istanze della sua mente e sviluppare un funzionamento personologico sano. A seconda che le sue pulsioni istintuali siano state esageratamente appagate o frustrate, cioè insoddisfatte, durante il suo percorso di sviluppo evolutivo il bambino può manifestare fissazioni o regressioni. La fissazione avviene quando il bambino, a causa di una frustrazione o di una sovrabbondanza della libido, si blocca ad una fase dello sviluppo psicosessuale, trascinando con sé in epoche successive i suoi desideri libidici. La fissazione spesso porta il bambino a manifestare in età adulta determinati tratti personologici particolarmente accentuati. La regressione, invece, è un meccanismo di difesa, per cui il bambino ritorna a fasi dello sviluppo precedente: quando subentra una regressione, riemergono specifiche esigenze dell’Es e si modifica anche il pensiero del bambino.

Fase orale (nascita-18 mesi): è la prima fase dello sviluppo psicosessuale secondo Freud. In questa fase il bambino stringe la sua primordiale relazione affettiva, cioè la relazione oggettuale con la madre, che funge da prototipo per tutte le future relazioni amorose del bambino. Il legame di attaccamento tra la madre e il bambino, secondo lo psicoanalista, era favorito dal bisogno soddisfatto di cibo: la madre, attraverso il suo seno, gratifica il bambino, appagando il suo bisogno nutritivo. La bocca è la principale zona erogena, nonché fonte di piacere, tramite cui il bambino si relaziona con la madre attraverso il contatto fisico; il seno materno rappresenta l’oggetto di gratificazione pulsionale, divoramento e soddisfacimento sadico orale. Questo stadio termina tipicamente con lo svezzamento, tuttavia una scarsa gratificazione da parte della madre (ad esempio un ritardo nell’esposizione del seno o un’interruzione brusca dell’allattamento) possono frustrare i bisogni libidici del bambino e portarlo a sviluppare una fissazione. La fissazione si traduce in un peculiare pattern personologico, come il pessimismo o angoscia costante o una continuativa brama di gratificazione orale in epoche successive; una fissazione può configurarsi anche come prodotto di un’eccessiva gratificazione orale: in tal caso il bambino farà fatica ad investire altrove la sua libido. Pertanto è importante che il genitore sia in grado di offrire al bambino la giusta dose di gratificazione.

Fase anale (18 mesi-3 anni): in questa seconda fase il centro del piacere è il controllo sfinterico. L’atto di trattenere o espellere le feci è per il bambino metafora di autonomia, indipendenza e controllo sul mondo esterno. La defecazione è un atto su cui il bambino può esercitare un suo controllo, in quanto egli può scegliere se trattenere o rilasciare. In particolar modo, nel momento in cui avverte il bisogno fisiologico di defecare, il bambino può alleviare la tensione che ne deriva mediante la defecazione, procurando a se stesso piacere. Peculiarità di questa fase sono l’ambivalenza dei sentimenti (se da un lato le feci sono qualcosa di buono, cioè da trattenere, dall’altro è sgradevole, e quindi da espellere) e i primi conflitti con l’autorità genitoriale, che sembra pretendere che il bambino impari al più presto ad esercitare un controllo responsabile e consapevole dei propri sfinteri. Il compito educativo dei genitori è molto delicato in questa fase, in quanto un addestramento genitoriale troppo rigido può frustrare i desideri infantili e portare a delle fissazioni istintuali: secondo Freud il bambino che defeca in luoghi e tempi inappropriati, sfuggendo allo sguardo del genitore, potrebbe diventare un adulto irresponsabile, disordinato e poco pratico col denaro, mentre il bambino che assimila in fretta la disciplina genitoriale può diventare stitico e quindi manifestare da adulto tratti di ansietà, eccessivo perfezionismo, ordine, parsimonia.

Fase fallica (3-6 anni): rappresenta la fase dello sviluppo sessuale più importante, in quanto contribuisce in maniera marcata alla formazione della personalità e alla definizione dell’identità sessuale del bambino. Il bambino concentra l’energia pulsionale nella zona genitale, cioè nell’area del fallo, e sceglie come oggetto d’amore la madre, di cui cerca di attirare l’attenzione mediante comportamenti esibizionistici. Bambino e bambina cominciano a definire la loro identità sessuale, in quanto si rendono conto del fatto che tra di loro esistano delle differenze anatomiche e sessuali, e a livello inconscio vagheggiano di unirsi sessualmente col genitore di sesso opposto: è qui che secondo la teoria freudiana subentra il Complesso di Edipo (nel bambino) o di Elettra (nella bambina), che si caratterizza per la presenza di una forte attrazione sessuale per il genitore di sesso opposto e di sentimenti di rivalità e antagonismo per il genitore dello stesso sesso. Il complesso di Edipo si risolve nel momento in cui il bambino sperimenta l’angoscia di castrazione, cioè la paura che il genitore dello stesso sesso possa punirlo per le sue velleità erotiche; il bambino, allora, rinuncia alla madre e si identifica nel padre, assorbendone tratti caratteriali, modelli di giusto e sbagliato, codici etici e deontologici. La dinamica è leggermente diversa al femminile, in quanto nella fase pre edipica la bambina si sente anatomicamente identica al bambino, per cui anche il suo oggetto d’amore è la madre. In seguito, con la scoperta del pene nella fase edipica, la bambina capisce di essere diversa dal bambino ed esperisce un senso di inferiorità e di invidia. Il suo desiderio diventa quello di sostituirsi alla madre e di avere una gravidanza e un rapporto sessuale col padre, tuttavia, per timore di eventuali punizioni da parte della madre, accantona i suoi desideri sessuali e si identifica nel genitore dello stesso sesso. Al superamento del complesso di Edipo/Elettra, il bambino e la bambina strutturano il loro Super Io e acquisiscono il concetto della triangolarità della relazione.

Fase di latenza (6-11 anni): superata la fase fallica, subentra un periodo di tranquillità istintuale, in cui i desideri edipici infantili subiscono l’effetto di alcuni meccanismi di difesa come la formazione reattiva, la sublimazione e la rimozione. Il bambino rimuove il Complesso di Edipo, motivo per cui comincia a stringere legami di amicizia con figure dello stesso sesso con cui formare gruppi, l’identità di genere si rafforza e l’energia libidica viene indirizzata a mete di carattere morale, sociale e intellettuale.

Fase genitale (11 anni in poi): corrisponde all’ultima fase dello sviluppo psicosessuale. I desideri edipici e gli impulsi sessuali che erano stati rimossi nella fase di latenza qui ricompaiono con maggior forza, spingendo l’individuo a focalizzare l’energia pulsionale in un oggetto esterno al nucleo familiare; si consolida la libido oggettuale, la sessualità matura, cioè l’individuo cerca una relazione affettiva e sessuale con un partner esterno. Il centro del piacere è rappresentato dalla zona genitale, al cui primato si assoggettano le zone erogene del passato.

 

Una panoramica sull’uso problematico di Internet e le sue conseguenze

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

 

Introduzione all’uso problematico di Internet

Internet è comparso nelle nostre vite relativamente di recente ma in maniera improvvisa, e da allora se ne è registrato un uso sempre più diffuso (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È considerato un ottimo strumento per poter accedere a praticamente qualsiasi tipo di informazione, oltre che a essere fonte di intrattenimento e di comunicazione facilitata, senza limitazioni temporali o spaziali. Oltre che a fornire servizi ormai indispensabili, come l’accesso all’informazione, all’educazione e alla gestione finanziaria, Internet viene usato anche per svago e divertimento, dato che è possibile videogiocare o chattare con altre persone provenienti da ogni parte del mondo. Inoltre, al giorno d’oggi, Internet viene usato anche per attività come il gioco d’azzardo e la diffusione di sostanze. La possibilità di avere accesso a così tanti contenuti con facilità e immediatezza, in molti casi, è sfociata velocemente in un uso problematico. 

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

Il tempo passato su Internet, tuttavia, non sembra essere un criterio sufficiente per identificare un uso problematico, in quanto è da considerare anche il fine per il quale Internet viene usato (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che molti individui che riportano un uso problematico di Internet passano molto del loro tempo libero a videogiocare, chattare, acquistare prodotti online e navigare su siti pornografici. È stato inoltre osservato che gli utenti possono soddisfare alcuni bisogni attraverso le risorse disponibili su Internet, ciò può causare problematiche come il ritiro sociale e l’isolamento. Nel caso in cui compaiano queste difficoltà, l’utilizzo di Internet viene definito problematico. Gli individui che sembrano più a rischio sono coloro che hanno difficoltà nel controllare gli impulsi, che hanno avuto storie di dipendenze, hanno già sofferto di isolamento sociale, hanno problematiche psicosociali o sono in cerca della propria identità. Alcune ricerche hanno riportato che i disturbi d’ansia, oltre che al disturbo ossessivo-compulsivo, sono quelli con maggiore comorbilità negli individui che abusano di Internet. Inoltre, sembra che chi soffra di uso problematico di Internet riferisca maggiori pensieri depressivi e ideazioni suicidarie.

Complicazioni relazionali dovute all’uso problematico di Internet

Internet è quindi uno strumento che ha un significativo potenziale per influenzare gli atteggiamenti, i comportamenti e le abitudini delle persone, nei contesti amicali, lavorativi e familiari (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Un aumento della socializzazione virtuale può comportare diversi rischi, come la diminuzione delle interazioni nella vita reale, o l’aumento dei fenomeni di isolamento sociale e alienazione dall’ambiente familiare. Infatti, è stato osservato che individui che soffrono di uso problematico di Internet, passando molto del loro tempo libero sulla rete, tendono a trascurare i propri figli, partner e amici. Inoltre, coloro che soffrono di un uso problematico di Internet, tendono ad ignorare le responsabilità lavorative e domestiche, e i loro pensieri sono sempre diretti al computer o al telefono, indipendentemente dal contesto in cui si trovano.

Gli individui con un uso problematico di Internet sono spesso soggetti agli avvertimenti e alle critiche degli altri (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Sembra inoltre che non riescano a gestire correttamente questo intenso interesse verso Internet, e che non possano vivere senza avere a portato di mano il computer o il telefono (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che, quando un individuo con dipendenza da Internet non riesce ad accedere alla rete, tipicamente esperisce una forte rabbia, oltre che sintomi depressivi e svogliatezza (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Infatti, sembra che questi individui, quando privati della possibilità di accedere alla rete, percepiscano un senso di agitazione e minaccia (Chattopadhyay et al., 2020). Al fine di uscire da questi stati d’animo, gli individui con uso problematico di Internet spesso eccedono il tempo passato online, mentono riguardo al tempo passato sulla rete e sono costantemente preoccupati su ciò che può accadere online mentre loro non sono presenti (Chattopadhyay et al., 2020).

L’uso problematico di Internet è una tematica che richiede sempre maggiore attenzione, in quanto sembra comportare conseguenze negative non solo sull’individuo che ne soffre, ma anche alle persone vicine (Candemir Karaburç e Tunc, 2020).

 

Il paradossale fenomeno del Blindsight: definizione e basi neurobiologiche

Il fenomeno del Blindsight, tradotto dall’inglese “visione cieca”, si riferisce alla capacità di un soggetto di saper localizzare uno stimolo visivo nello spazio, seppur situato in una zona di assoluta cecità del suo campo visivo. In altre parole, l’individuo percepisce in maniera inconsapevole la presenza di un oggetto nello spazio, ma di fatto non lo vede.

 

Basi neurobiologiche

Questo strano fenomeno, definito da alcuni come un “sesto senso”, trova in realtà una spiegazione neurobiologica. Il Blindsight infatti, è una sindrome neuropsicologica causata da una lesione che distrugge un’area circoscritta della corteccia visiva primaria (area V1 o area 17), causando uno scotoma, ovvero una zona di cecità all’interno del campo visivo. Nonostante tale cecità venga sperimentata in modo cosciente dal soggetto, questo tipo di lesione non altera la capacità di localizzare gli stimoli nello spazio (Ladavas e Berti, 2020).

I primi a descrivere questo fenomeno furono Poeppel, Held e Frost, che nel 1973 condussero un esperimento con quattro pazienti che presentavano scotomi all’interno dei campi visivi, con lo scopo di studiare la loro capacità di localizzare stimoli bersaglio posti nell’area scotomatica. Dopo aver accuratamente mappato il campo visivo di ciascun occhio per definire con esattezza l’area cieca, ai partecipanti fu chiesto di mantenere gli occhi su un punto fisso e, solo alla comparsa dello stimolo, di “indovinare” la sua posizione direzionando lo sguardo verso di esso. Dato che i pazienti non erano in grado di “vedere” lo stimolo a cui dovevano rispondere, la comparsa di quest’ultimo è stata associata ad un segnale acustico che aveva la funzione di segnalare al paziente quando muovere gli occhi. Dai risultati dello studio è emersa una rilevante correlazione tra la posizione dello stimolo bersaglio e la direzione degli occhi dopo la stimolazione; pertanto il movimento oculare dei soggetti risultava appropriato, nonostante non avessero consapevolezza della presenza dello stimolo.

La spiegazione di questi risultati risale agli anni 1968 e ‘69, quando Trevarthen (1968) e Schneider (1969) avanzarono la teoria dei due sistemi visivi. Secondo gli autori infatti, esistono due sistemi visivi deputati a due funzioni diverse: il primo, il sistema retino-genicolo-striato, si occupa dell’identificazione degli oggetti, mentre il secondo, il sistema retino-collicolo-extrastriato, si occupa della localizzazione degli stimoli nello spazio. Nel caso di pazienti con blindsight, è la prima via ad essere distrutta dalla lesione, mentre la seconda rimane intatta rendendo accessibile, seppur in forma inconsapevole, l’informazione circa la posizione degli oggetti nello spazio.

Diversi studi confermano questa teoria. Nel 1986, Weiskrantz pubblica una monografia basata sull’osservazione del fenomeno del blindsight in un paziente che si era sottoposto ad una rimozione quasi completa del lobo occipitale destro, a causa di un tumore ivi localizzato. L’asportazione aveva provocato un’emianopsia sinistra quasi completa, quindi con conseguente comparsa di uno scotoma nella parte inferiore sinistra del campo visivo. Anche in questo caso, è stato chiesto al paziente di indicare attraverso il movimento oculare la posizione di uno stimolo presentato nella zona scotomica, riscontrando, come negli studi precedenti, una correlazione tra direzione dello sguardo e posizione dello stimolo. Inoltre, quando al paziente è stato chiesto di localizzare lo stimolo anche manualmente, indicandolo puntando con il dito, la correlazione risultava essere più alta. Nonostante la precisione dei risultati, il soggetto riferiva di non vedere assolutamente nulla, e che aveva solamente “indovinato”. Successivamente, Corbetta e collaboratori (1990), grazie a uno studio condotto su quattro pazienti affetti da emianopsia, hanno dimostrato che la capacità di localizzare manualmente uno stimolo posto nella zona scotomica veniva mantenuta solo se al paziente era permesso di dirigere anche lo sguardo verso l’area del campo visivo stimolata; quindi il fenomeno del blindsight non si verifica se il soggetto mantiene lo sguardo sul punto di fissazione mentre indica manualmente la posizione dello stimolo.

Un’importante scoperta deriva dallo studio di Mohler e Wurtz (1977), che hanno addestrato delle scimmie (macachi Rhesus) con scotoma ad eseguire movimenti oculari verso uno stimolo presentato nella loro area cieca. Questi esercizi hanno generato un parziale recupero della sensibilità visiva in quell’area dello scotoma, per cui la scimmia era stata addestrata a eseguire movimenti saccadici. Gli stessi ricercatori hanno poi dimostrato come tale recupero parziale della funzione sia mediato dal ruolo del collicolo superiore: provocando una lesione a quest’ultimo infatti, il deficit si ripresentava. Basandosi su questo studio, Zihl e Von Cramon (1985), hanno addestrato 55 pazienti con scotoma utilizzando gli stessi esercizi: i risultati, nella maggior parte dei casi, sono stati favorevoli. Gli autori hanno ipotizzato una possibile riattivazione del tessuto nervoso che era stato danneggiato in modo reversibile; mentre nei casi dei pazienti che non avevano beneficiato degli esercizi, il recupero della funzione era stato impedito dall’irreversibilità dei danni nel tessuto nervoso coinvolto.

Le ultime scoperte sul blindsight

Recentemente (Berti, 2010), si è scoperto che oltre alla localizzazione degli stimoli nello spazio, i soggetti con blindsight riescono a distinguere lunghezze d’onda diverse, valutare la direzione dei bersagli in movimento e discriminare l’inclinazione di linee. Uno dei soggetti con blindsight più ampiamente studiati (Weiskrantz et al., 1991), riferiva di avere una certa “consapevolezza” di ciò che accadeva nel suo campo visivo affetto da cecità; ed effettivamente questa sensazione coincideva con la presentazione di uno stimolo in rapido movimento in quell’area. Se invece lo stimolo si muoveva lentamente, il paziente non riferiva più la sensazione di consapevolezza. Successivamente, Sahraie e collaboratori (1997) hanno analizzato, attraverso risonanza magnetica funzionale, quali aree del cervello del paziente si attivavano a seguito della presentazione di stimoli in movimento, rapidi e lenti, nel suo campo visivo cieco; quindi secondo la modalità consapevole e inconsapevole. Quando lo stimolo veniva presentato in rapido movimento, nella modalità consapevole, risultava un’attivazione dell’area 46 di Brodmann nell’emisfero destro, e delle aree 18 e 47 in entrambi gli emisferi. Mentre quando lo stimolo veniva presentato in lento movimento, si è registrata un’attivazione del collicolo superiore, di alcune aree frontali mesiali e dell’area 19 ipsilaterale alla lesione. È importante notare che l’area 46 si è attivata anche a seguito della stimolazione del campo visivo intatto, e ciò fa presupporre il coinvolgimento di quest’area nei processi di elaborazione cosciente. La corteccia visiva secondaria invece (aree 18 e 19 di Brodmann), risulta attiva in entrambe le condizioni suggerendo che, nonostante sia necessaria per l’elaborazione visiva, non è sufficiente ad innescare l’elaborazione consapevole. Infine, la stimolazione del campo visivo intatto ha determinato l’attivazione di una zona frontale chiamata Frontal Eye Field (FEF), che potrebbe avere un ruolo nella distinzione tra la visione normale e  la “consapevolezza” di ciò che accade nel campo visivo cieco. Secondo gli autori dello studio, il passaggio dalla modalità consapevole a quella non consapevole sottintende un trasferimento dell’attivazione dalle zone frontali al collicolo superiore (zone sottocorticali).

Gli studi condotti nell’ambito della visione cieca hanno permesso non solo di comprendere meglio la struttura e le funzioni del sistema visivo, ma anche di esplorare i confini della coscienza, spianando la strada verso una possibile spiegazione dei processi di elaborazione inconscia. Ad oggi, grazie alle spiegazioni neuropsicologiche il fenomeno del blindsight appare meno occulto e misterioso; ciononostante, la capacità di percepire ciò che non si può vedere conserva comunque un forte fascino.

 

“Sexual Functioning” in Adolescenti e Giovani Adulti Sopravvissuti al Cancro – FluIDsex

Il rischio di disfunzioni sessuali in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è elevato a causa delle conseguenze psico-fisiche e dei trattamenti medici, seppur questo possa variare in base all’età della diagnosi, alla tipologia di cancro e alla modalità e intensità del trattamento.

 

Introduzione

 Sebbene ad oggi le malattie oncologiche risultino essere responsabili di circa il 10% delle morti annue, progressi in ambito medico in termini di screening, diagnosi precoce e miglioramenti nelle terapie di cura, hanno aumentato significativamente il tasso di sopravvivenza a 5 anni (Shapiro, 2018). In particolare, in Europa, si denota che il 79% degli adolescenti e giovani adulti (adolescent and young adult [AYA]; tra i 15 e i 39 anni) sopravvive al cancro (Trama et al., 2016). La sopravvivenza al cancro è una condizione in cui l’individuo, a seguito di una diagnosi di tumore maligno, è in completa remissione della malattia oncologica, ovvero non presentando segni della malattia da almeno cinque anni, acquisisce un’uguale probabilità di morte di soggetti sani (Verdecchia et al., 2007).

Con tale aumento dei tassi di sopravvivenza al cancro, un interesse scientifico sempre maggiore è stato posto sulle conseguenze della malattia oncologica vissuta, siano queste positive o negative, sulla qualità di vita (quality of life; QoL) dei sopravvissuti (Sedmak et al., 2020). La qualità di vita è un concetto all-inclusive, che include tutti quei fattori che impattano la vita di un individuo (Torrance, 1987). Uno degli aspetti centrali della qualità di vita nella popolazione di adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è il funzionamento sessuale: l’adolescenza e la giovane età adulta rappresentano infatti un periodo di grandi cambiamenti sia fisici che psicosociali che includono la maturazione fisica, la formazione di relazioni sentimentali e lo sviluppo dell’identità sessuale (Cherven et al., 2021). Questo processo di sviluppo normativo negli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è più complesso (Murphy et al., 2015), a causa di sfide non normative che l’esperienza della malattia oncologica genera negli aspetti quotidiani della loro vita (Zebrack e Isaacson et al., 2012).

Ma che cosa si intende per funzionamento sessuale? Il funzionamento sessuale comprende fattori fisici, psicosociali e dello sviluppo che contribuiscono alla salute sessuale di un individuo (Cherven et al., 2021). Un funzionamento sessuale ottimale è complesso e richiede l’interazione normativa di diversi domini, tra cui il desiderio, l’eccitazione, la lubrificazione, l’orgasmo, la soddisfazione e il dolore (Metzger et al., 2013). L’interruzione di una o più di queste componenti può portare a disfunzioni sessuali che possono avere un impatto negativo sul benessere di adolescenti e giovani adulti (Cherven et al., 2021). Il rischio di disfunzioni sessuali è ancora più elevato in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro a causa delle conseguenze psico-fisiche e dei trattamenti medici, seppur questo possa variare in base all’età della diagnosi, alla tipologia di cancro e alla modalità e intensità del trattamento (Metzger et al., 2013).

Disfunzioni sessuali nei giovani sopravvissuti al cancro

Nonostante il ridotto numero di studi presenti in letteratura scientifica, questi mostrano che generalmente più della metà degli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro presenta una compromissione del funzionamento sessuale, con tassi più elevati di disfunzioni sessuali rispetto ai controlli (Cherven et al., 2021). Questo viene anche percepito soggettivamente dai sopravvissuti al cancro, che riportano infatti una minor soddisfazione riguardo al loro funzionamento sessuale (Olsson et al., 2018).

 Si evidenziano inoltre differenze sia quantitative sia qualitative di disfunzioni sessuali tra maschi e femmine. Dal punto di vista quantitativo, le donne adolescenti o giovani adulte sopravvissute al cancro riportano generalmente percentuali più elevate di disfunzioni sessuali rispetto ai sopravvissuti maschi (Geue et al., 2015). Questo maggiore impoverimento del funzionamento sessuale nelle donne, potrebbe essere spiegato da un maggior impatto delle sequele psicologiche ed emotive (come depressione, sintomi di disturbo da stress post-traumatico, sentirsi poco attraenti, problemi di comunicazione con i partner romantici) a seguito dell’esperienza di malattia (Olsson et al., 2018). Dal punto di vista qualitativo, differenze nel genere corrispondono a differenze nella tipologia di disfunzioni sessuali.

Differenze di genere

In particolare, donne adolescenti e giovani adulte sopravvissute al cancro potrebbero presentare dispareunia superficiale e poca o nessuna lubrificazione, seppur questi problemi fisici non differiscono significativamente tra le donne sopravvissute e i controlli. Ciò che invece differisce in modo statisticamente significativo è una frequenza inferiore di orgasmo durante l’attività sessuale (Olsson et al., 2018). Avere orgasmi meno frequenti generalmente nelle donne determina una diminuzione della soddisfazione sessuale la quale può essere anche influenzata da preoccupazioni per l’immagine corporea: le sopravvissute, infatti, tendono maggiormente a sentirsi poco attraenti e in difficoltà nell’esporre le proprie cicatrici durante situazioni intime (Cherven et al., 2021). Una bassa soddisfazione sessuale nelle donne sembrerebbe inoltre essere correlata ad un basso desiderio sessuale e predetta dalla depressione (Olsson et al., 2018).

Anche negli uomini adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, la scarsa soddisfazione sessuale sembra essere associata a una sensazione di non attrattività e depressione. Tuttavia, diversamente dalle donne, anche l’eiaculazione precoce, l’età più giovane e i problemi di erezione hanno un impatto su questa disfunzione sessuale. Seppur uomini sopravvissuti possono riferire problemi fisici, quali eiaculazione precoce, mancata eiaculazione, problemi nell’ottenere l’erezione e frequenza inferiore di orgasmo, questi non differiscono significativamente tra gli uomini sopravvissuti e i controlli (Olsson et al., 2018). Ciò che invece differisce in modo statisticamente significativo è un minore desiderio sessuale (Olsson et al., 2018), soprattutto nei sopravvissuti a tumori delle cellule germinali dei testicoli (Jonker-Pool, 2001).

Conclusioni

Dunque, sebbene ci sia l’evidenza di un funzionamento sessuale generalmente compromesso in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, la presenza di queste disfunzioni sessuali non sembrerebbero ostacolare il desiderio di relazioni sentimentali e il grado di soddisfazione delle relazioni di coppia dei sopravvissuti (Geue et al., 2015). Adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro tendono comunque a riportare una buona qualità di vita, equiparabile a quella di soggetti sani (Sedmak et al., 2020).

In conclusione, dato il crescente numero di sopravvissuti al cancro adolescenti o giovani adulti, il ridotto numero di articoli scientifici circa la loro salute sessuale e la mancanza di interventi o strategie testati per affrontare la disfunzione sessuale tra gli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, maggiori studi risultano necessari (Cherven et al., 2021). Questi consentirebbero di acquisire informazioni maggiori e più mirate per rispondere alla necessità di creare interventi adeguati allo sviluppo, che tengano conto di fattori biologici e psicosociali per migliorare la funzione sessuale degli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro (Carter et al., 2018).

 

Adolescenti. L’età delle opportunità (2015) di Laurence Steinberg – Recensione

L’autore di “Adolescenti. L’età delle opportunità”, Laurence Steinberg, principale studioso di riferimento in tema di adolescenza, affronta il cambiamento di paradigma avvenuto nella scienza dello sviluppo. 

 

 Lo studio scientifico dell’adolescenza è iniziato intorno alla metà degli anni Settanta e, grazie alle scoperte avallate dalle neuroscienze, ad oggi gli anni della transizione dall’infanzia all’età adulta, non vengono più visti come unicamente fonte di pericoli e rischi, ma, al contrario costituiscono l’età delle opportunità, come sottolineato dal titolo del libro.

Ad oggi parlando di adolescenza si considerano gli anni che vanno dai 10 ai 25: l’anticipazione della pubertà ha ridotto i tempi dell’infanzia, e il prolungamento dell’istruzione ha ritardato l’ingresso nel mondo del lavoro. L’allungarsi del periodo di dipendenza dalle famiglie di origine, tipico del mondo occidentale, ha ritardato l’acquisizione dell’indipendenza, favorita dal matrimonio e dalla genitorialità.

Steinberg sottolinea, a tal proposito, come “l’adolescenza inizia con la biologia e finisce con la cultura”.

Nello specifico, il caso italiano è stato definito the Italian latest-late, detenendo il primato della maggiore durata del periodo adolescenziale, rispetto agli altri paesi europei.

Un’importante scoperta sul cervello adolescente riguarda la neuroplasticità: esattamente come nel periodo zero-tre anni, anche durante l’adolescenza l’esperienza è in grado di plasmare lo sviluppo cerebrale.

La malleabilità del cervello adolescente ha risvolti sia positivi che negativi, per cui la plasticità è un’arma a doppio taglio. L’adolescenza è un periodo di enormi potenzialità, ma anche di grandi rischi: se inseriti in ambienti positivi e favorevoli, i giovani fioriranno; se esposti ad ambienti dannosi, invece, soffriranno in modo profondo e duraturo.

Il cervello in adolescenza possiede qualcosa di speciale: ciò che accade in quel periodo della vita viene rievocato con maggiore facilità. Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare questo fenomeno, considerando il gran numero di “prime volte”, il carico emotivo delle esperienze e lo sviluppo di un senso integrato di identità. In realtà, tutte queste ipotesi, non sono corrette: è stata coniata un’espressione per spiegare tale fenomeno, picco di reminiscenza: gli eventi adolescenziali sono banali, ordinari; infatti a qualsiasi età si ricordano vividamente accadimenti particolari, fortemente emotivi, o che capitano per la prima volta, mentre è semplice ripescare dal cassettino della memoria semplici ed ordinari episodi del periodo di transizione, che riemergono in tutta la loro vividezza, esattamente come se si rivivesse quell’istante avvenuto lì e allora, nel qui ed ora.

I cambiamenti cerebrali che occorrono all’inizio dell’adolescenza rendono più inclini all’eccitazione, più emotivi e più soggetti alla rabbia o al turbamento.

I sistemi che a questa età rispondono in misura maggiore agli stimoli, ma anche quelli che possono essere più facilmente danneggiati, sono “le tre R dello sviluppo cerebrale adolescenziale”: il circuito della ricompensa, delle relazioni interpersonali e della regolazione.

Il libro affronta i temi cruciali dello sviluppo durante l’adolescenza offrendo un quadro della disciplina psicologica più aggiornato, arricchito di esempi tratti dall’esperienza dell’autore.

In linea con la visione dell’adolescenza che si dispiega tra rischio e opportunità, l’intento è spostare l’attenzione dalla prevenzione del disagio alla promozione del benessere e del successo dei giovani, fornendo strumenti alle principali istituzioni educative, genitori e insegnanti, oltre che stimolare la riflessione nei legislatori, al fine di intraprendere iniziative mirate.

 Lo stile educativo maggiormente adeguato a favorire lo sviluppo dell’autoregolazione in adolescenza risulta lo stile autorevole che, a differenza di uno stile autoritario, improntato al rispetto delle regole, e di uno stile permissivo, eccessivamente indulgente, trova il giusto equilibrio tra comunicazione affettiva e controllo. Esattamente come un bambino piccolo deve essere guidato nell’acquisizione dell’autonomia che gli permetterà di alimentarsi, camminare, comunicare, così un adolescente necessita di un ambiente affettuoso, risoluto e incoraggiante, che gli permetta di acquisire consapevolezza di sé.

Considerando nello specifico il setting americano, l’autore riflette su quanto sia necessario un cambiamento nella scuola secondaria: ad oggi non è più sufficiente una conoscenza accademica, ma bisogna equipaggiare i giovani ad affrontare la vita adulta. Al fine di sviluppare l’autocontrollo diviene propedeutico l’insegnamento e la pratica di discipline quali la mindfulness, l’esercizio aerobico, l’educazione socioemotiva, per conoscere e regolare le proprie emozioni.

È importante soddisfare tre requisiti, al fine di rendere gli insegnamenti proficui:

  • le attività devono essere stimolanti;
  • l’allenamento deve basarsi su strategie di scaffolding;
  • è essenziale la pratica ponderata.

In sostanza, occorre intervenire sulla zona di sviluppo prossimale dei ragazzi, per potenziarne le capacità, senza sopraffarli, dotandoli della giusta guida.

 

Il suicidio assistito nei pazienti psichiatrici: una revisione sistematica

La prima revisione sistematica con l’obiettivo di identificare e descrivere i dati disponibili relativi ai pazienti che hanno ricevuto o richiesto l’eutanasia o il suicidio assistito (pEAS) è stata condotta da Calati e colleghi nel 2020.

 

 Nei Paesi Bassi, in Belgio, in Lussemburgo e in Svizzera, l’eutanasia o suicidio assistito (EAS) non è limitata ai pazienti con malattie organiche, ma anche a pazienti psichiatrici. Per esempio, nei Paesi del Benelux, la “sofferenza insopportabile” dovuta a condizioni mediche (somatiche o mentali) che “non possono essere alleviate” è tra i requisiti di ammissibilità per ottenerla (in assenza di ragionevoli alternative). In effetti, il dolore psicologico/mentale può diventare intollerabile e presenta substrati neuroanatomici sovrapponibili a quelli del dolore fisico (Eisenberger, 2012).

Nei paesi in cui questa procedura è consentita, le persone che la richiedono sono in progressivo aumento. Un’indagine condotta su 1456 medici ha rilevato che il 2% di tutte le richieste proveniva da pazienti psichiatrici (Van der Heide et al., 2012), e questa stima sembra destinata a crescere.

Malattia mentale e suicidio assistito

Nonostante il suicidio assistito per persone con malattie mentali sia una pratica limitata, la sua crescente frequenza solleva preoccupazioni etiche e legali (Lopez-Castroman, 2017), in particolare a causa dell’assenza di criteri di ammissibilità specifici o aggiuntivi per i pazienti psichiatrici. Infatti, il requisito di ammissibilità della sofferenza mentale insopportabile è una condizione comunemente sperimentata anche dai pazienti psichiatrici a rischio di suicidio (Ducasse et al., 2018).

La prima revisione sistematica con l’obiettivo di identificare e descrivere i dati disponibili relativi ai pazienti psichiatrici che hanno ricevuto o richiesto l’eutanasia o il suicidio assistito (pEAS) è stata condotta da Calati e colleghi nel 2020. Lo studio, inoltre, ha cercato di descrivere i punti eticamente salienti che emergono dalla letteratura empirica su questo argomento.

Ciò che questa revisione ha dimostrato è che, come già anticipato, l’eutanasia o il suicidio assistito per pazienti psichiatrici (pEAS) è in progressivo aumento nei Paesi in cui è consentita. Nei Paesi Bassi, la percentuale di pEAS è aumentata dal 6,8% all’8,7% nel periodo 2013-2017. In Belgio, la pEAS è aumentata dallo 0% al 2,2% nel periodo 2002-2013. Per quanto riguarda la Svizzera, il tasso di pEAS è del 2,1%.

Complessivamente, i pazienti che hanno ricevuto la pEAS erano per lo più donne (70-77%), presentavano almeno due disturbi psichiatrici (56-97%) o comorbilità medica (22-23%). Solo in Belgio la maggior parte (71%) aveva una sola diagnosi.

Nei Paesi analizzati, i disturbi dell’umore erano la diagnosi principale (55-71%), seguiti dai disturbi di personalità (50-64%). In una serie di casi provenienti dal Belgio è stata riscontrata un’alta percentuale di disturbi dello spettro autistico.

Non è un caso che i pazienti psichiatrici che hanno ottenuto o richiesto il pEAS avevano spesso una sintomatologia particolarmente grave, con un alto tasso di comorbidità psichiatriche e fisiche; è noto che le comorbilità sono particolarmente frequenti in coloro che tentano li suicidio, soprattutto nei tentativi reiterati (Blasco-Fontecilla et al., 2016). Inoltre, è stato riportato il ruolo del dolore fisico nei pensieri e nei comportamenti suicidari (Calati et al., 2017).

La percentuale maggiore di donne è un dato interessante poiché, seppure in linea con i dati di frequenza dei tentativi di suicidio tra i due generi, riporta numeri opposti alle stime di prevalenza dei decessi per suicidio (dovuto anche al fatto che gli uomini utilizzano mezzi più letali provocandosi la morte; Bachmann, 2018).

Una spiegazione a questo dato potrebbe risiedere nel fatto che il pEAS possa essere preso in considerazione dalle donne nel tentativo di porre fine alle loro vite, dato che è un mezzo letale. Infatti, nello studio che confronta i suicidi assistiti e non assistiti in Svizzera, il tasso di suicidi non assistiti era più alto negli uomini che nelle donne, mentre il tasso di suicidi assistiti era simile in entrambi i sessi.

 Altre spiegazioni potrebbero risiedere nella preponderanza delle donne con diagnosi di depressione (Hyde & Mezulis, 2020), una delle principali diagnosi che hanno ricorso all’pEAS, oppure alle diverse aspettative e norme sociali in relazione alla mascolinità tradizionale (Moller-Leimkuhler, 2003), che potrebbero non essere associate alle rappresentazioni relative al suicidio assistito. Questi soggetti sono notevolmente simili ai soggetti che si tolgono la vita per suicidio “tradizionale”. Infatti, la psicopatologia, in particolare i disturbi dell’umore e della personalità, e le malattie fisiche concomitanti sono tra i fattori che influenzano il rischio di suicidio (Turecki & Brent, 2016).

Le caratteristiche cliniche di suicidio e suicidio assistito

Date le caratteristiche cliniche che si sovrappongono a quelle dei suicidi non assistiti, il rischio attuale potrebbe essere quello di convertire i suicidi “tradizionali” in pEAS o di aumentare la mortalità per suicidio dando accesso a metodi letali ai pazienti.

Le persone che muoiono a causa di malattie mediche e che ricevono l’eutanasia o suicidio assistito tendono a essere persone dotate di autodeterminazione, capacità di scelta e controllo; i pazienti psichiatrici nella fase acuta della loro malattia potrebbero non avere queste caratteristiche (American Association of Suicidology, 2017), e questo potrebbe rappresentare un grave problema, dato che è consentita in presenza di “sofferenze insopportabili” e in assenza di alternative ragionevoli.

Lavorare sulla sofferenza psicologica insopportabile è un obiettivo per la prevenzione del suicidio nella pratica quotidiana della psicoterapia.

Ci troviamo di fronte a un paradosso: la “sofferenza psicologica insopportabile” è un criterio richiesto per l’eutanasia o suicidio assistito e al tempo stesso è considerato un fattore che può invalidare la capacità individuale di autodeterminazione e di controllo, rendendo impossibile per i pazienti essere eleggibili per l’eutanasia o suicidio assistito. La presenza di un’intensa sofferenza mentale in pazienti con una condizione psichiatrica/psicologica potrebbe limitare la loro capacità di prevedere alternative praticabili e potrebbe indurre il desiderio di morire.

Inoltre, un paziente può percepire la propria sofferenza insopportabile come irrimediabile, ma in realtà alcuni correlati della sofferenza, ad esempio problemi economici o di accesso alle risorse, potrebbero cambiare nel tempo (Verhofstadt et al., 2017). La questione della sofferenza irrimediabile/irreversibile deve essere considerata anche in relazione all’alta percentuale di pazienti che non desiderano più morire e/o ritirano la richiesta di pEAS, indicando la possibile natura transitoria della sofferenza mentale insopportabile e la sua complessità (Caceda et al., 2017).

In conclusione, anche se la psicopatologia non implica automaticamente la mancanza di capacità mentale del paziente, è molto probabile che influenzi il suo processo decisionale o aumenti il rischio di incapacità. Riflettere e comprendere se e in quali condizioni la pEAS possa essere accettata per le persone con disturbi psichiatrici rimarrà un elemento cruciale in questo ambito.

 

Gioco d’azzardo patologico, comorbilità e metacognizione – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo Gioco d’azzardo patologico, comorbilità e metacognizione”.

 

La seconda presentazione della prima giornata di Forum della Ricerca in Psicoterapia, 6 maggio 2022, ha riguardato lo studio sul Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), condotto dagli allievi di Studi Cognitivi di Genova N. Delfino, B. Giagnorio, F. Loffredo, E. M. Fiabane e dai didatti G. Caselli e G. Mansueto. La ricerca in questione si propone di esplorare il ruolo della metacognizione, del pensiero desiderante e della flessibilità psicologica rispetto al Gioco d’Azzardo Patologico e alle psicopatologie più frequentemente osservate in comorbilità.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Dunning-Kruger, Socrate e il miglioramento continuo

L’effetto Dunning-Kruger consiste nel pregiudizio cognitivo secondo cui le persone sopravvalutano erroneamente la loro conoscenza o capacità in un campo specifico.

 

 Una delle citazioni più attuali di sempre è quella di Socrate: “Io so di non sapere”. La lungimiranza di questo concetto, apparentemente banale, è la chiave di una crescita personale continua. Sì, perché la costante voglia di migliorarsi può nascere da esigenze personali e/o dalla consapevolezza di una mancanza. La cognizione di non sapere può diventare il motivo principale del desiderio di conoscenza.

Questa consapevolezza è una sfida molto complessa, a volte la si vive addirittura come una sconfitta o, peggio, come un’umiliazione, complicando così il processo di accettazione. È qui che l’effetto Dunning-Kruger pone le sue radici. Nel 1999, gli psicologi Dunning e Kruger hanno spiegato il pregiudizio cognitivo secondo cui le persone sopravvalutano erroneamente la loro conoscenza o capacità in un campo specifico. Ciò è dovuto al fatto che esiste una forte mancanza di consapevolezza di sé, in grado di impedire loro di valutare adeguatamente le proprie competenze (Gibbs et al. 2017).

Da questa definizione si evincono due importanti aspetti: la prima è che spesso ci si crede migliori in qualcosa rispetto a ciò che siamo realmente; la seconda è che la sovrastima ci impedisce di vedere questa “incompetenza”. Qui torna di attualità –ma non ha mai smesso di esserlo– il filosofo Socrate. La sua più celebre frase può essere il punto di partenza per prendere coscienza dei propri limiti e provare a superarli.

Ciò che affascina di questo effetto è anche l’altro lato della medaglia.

Effetto Dunning Kruger Socrate e il miglioramento continuo Imm 1

Come mostra il grafico, dopo un picco di sopravvalutazione delle proprie competenze connesse a una inadeguata conoscenza della materia, all’aumentare della conoscenza, diminuirà la fiducia in noi stessi. Perciò, chi ha una conoscenza media della tematica, penserà di non avere le competenze adeguate ad affrontarla.

Superati questi due aspetti dannosi e opposti, si arriva allo stadio finale: una conoscenza approfondita della materia che comporta una fiducia in sé stessi e nei propri mezzi adeguata (Coutinho et al. 2021).

 E allora perché continuare a citare Socrate? La risposta adesso sembra evidente: è stato in grado di andare oltre questo pregiudizio cognitivo in ogni sua fase. La sua grandezza è stata quella di non sentirsi mai il migliore, così da avere stimoli per continuare a imparare, nonostante la consolidata consapevolezza nei suoi mezzi.

In conclusione, nella società di oggi, dove sono sempre più richiesti dei profili specializzati, l’effetto Dunning-Kruger è un volano che, non facendoci sentire appagati, ci permette una crescita continua fatta di curiosità e ricerca del sapere, permettendoci di progredire nell’ultima parte del grafico. Fiducia e conoscenza sono un binomio importante nella crescita personale e per la società in generale. L’umiltà di volersi continuamente migliorare è forse l’unica difesa che abbiamo per evitare di essere vittime dell’effetto Dunning-Kruger.

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