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Al di là dei sogni, una trama ricca di colori – Recensione del film

Il regista di “Al di là dei sogni” (Vincent Ward) offre allo spettatore un valido spunto di riflessione, dando vita ad un turbinio di emozioni e colpi di scena in grado di rimettere in discussione ciò che più ritenevamo veritiero, assoluto e definitivo.

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

 

Quando il dolore permette una nuova ed imprevedibile fioritura

Per chi l’abbia già visto, non si può fare a meno di rivederlo, e per chi lo guarda per la prima volta, l’invito è quello di prepararsi ad un viaggio capace di trasportare lo spettatore al di là delle semplici tecniche cinematografiche.

Perché in questo bellissimo film, uscito sul finire degli anni 90 e interpretato da un magistrale Robin Williams, non assistiamo ad una trama scontata, leggera e facilmente digeribile, ma al contrario ad uno scenario fantascientifico in grado di farci prendere le distanze dai soliti confini spazio temporali.

Perché se da un lato ciò che viene descritto sembra lontano anni luce, è pur vero che le capacità immaginifiche non fanno altro che rendere reale quello che più di tutto è custodito dentro di noi; ossia sognare ad occhi aperti.

Il regista (Vincent Ward) offre infatti allo spettatore un valido spunto di riflessione, rispetto al quale lontananza e vicinanza, reale e fantasioso, ancestrale e contemporaneo danzano all’unisono, dando vita ad un turbinio di emozioni e colpi di scena in grado di rimettere in discussione ciò che più ritenevamo veritiero, assoluto e definitivo.

In una trama ben architettata la scena si apre in un lago, in cui l’elemento più antico del mondo, l’acqua, sembra voler dare alla luce due vite, ignare di quanto le attende. Perché se la vita la si considera un viaggio, i mezzi che spesso e volentieri essa ci dona, sono fatti di colore, chiaroscuri, emozioni e tanta tenacia pronta a far sbocciare un comune denominatore: l’amore.

Quest’ultimo difatti guida, sin dalle prime scene del film, i due protagonisti, Chris e Carin, due anime gemelle provenienti da due mondi differenti, ma accomunati dall’amore per la vita e per quella dei figli, Marie e Ian.

Eppure in quella che sembra essere una trama scorrevole e priva di intralci, un ulteriore elemento fondamentale sembra insinuarsi nelle loro vite.

L’ingresso della morte infatti, priva di qualsiasi remore e di qualsivoglia ragionamento, non tarda a creare una falla profonda nell’animo dei due protagonisti, i quali si sentiranno catapultati in una dimensione del tutto nuova, priva di confini e ricca di un dolore all’apparenza irrisolvibile.

Perché se da un lato accogliere la morte di un genitore rientra nell’ordine biologico del nostro tempo, la perdita dei figli riflette qualcosa di innaturale, controcorrente e dolorosamente priva di un significato. Tuttavia, in un crescendo sempre più intenso, il cortometraggio sembra voler dispiegare un qualcosa che la mente di oggi, così razionale ed unilaterale, proprio non riuscirebbe a concepire. Ossia la capacità di affidarsi al mistero per farsi guidare da un qualcosa di sconosciuto, che il più delle volte sembra saperla più della ragione.

Tuttavia questa “nera Signora” sembra non dare pace al rapporto coniugale dei due protagonisti, i quali dopo la perdita di Marie e Ian (i figli) dovranno fare i conti con una delle più acerrime nemiche del panorama contemporaneo: la “Solitudine”. Una condizione che la moglie, Carin, si troverà a vivere a seguito della morte del marito avvenuto sulla strada per il ritorno di casa. Uno stato d’animo inflitto e dinanzi al quale non sembra esservi rimedio alcuno se non quello del suicidio.

Se non vi è morte non può esservi rinascita

Spesso entrambe le condizioni sopra introdotte rispecchiano condizioni esistenziali, che non sempre siamo disposti ad accogliere.

Lo psicoanalista James Hillman le avrebbe definite tappe evolutive, nondimeno, mai come in questa trama il contributo del noto autore americano risulta più appropriato per scoprire i doppi volti di quanto tutti i giorni ci troviamo a vivere.

Nel cortometraggio infatti assistiamo a tante sfumature che valorizzano il contenuto alchemico e trasformativo del Dolore e di quella capacità insita in ognuno di noi che è l’Immaginazione.

Sareste in grado di trovare la felicità nella tristezza? Di immaginare uno scenario alternativo in grado di riflettere il forte legame tra due anime nonostante l’inferno arrecato dalla sofferenza?

Sono due domande rispetto alle quali il regista sembra voler porre una sfida e tramite le quali Hillman vuole invitare ciascuno di noi a riflettere sull’uso delle parole e sul valore che ad esse attribuiamo.

Perché spesso e volentieri in maniera definitiva tendiamo ad autoinfliggerci sentenze prive di alternative e di sentieri che solo l’immaginazione sarebbe in grado di farci percorrere.

Quest’ultima infatti è una delle chiavi principali grazie alla quale Chris, una volta deceduto, avrà l’opportunità di scavare dentro di Sé, affrontando un viaggio che lo aiuterà a scoprire nuove parti di sé e a rivedere quegli schemi di pensiero che altro non facevano se non limitarlo nel cuore e nella mente. Attraverso una guida (interpretata da Cuba Gooding Jr) affronterà una vera e propria discesa verso quanto il suo subconscio è in grado di custodire. Quello che pian piano scoprirà è una ricchezza interiore, in cui le tracce dei forti legami lo avvicineranno sempre più a dimensioni spazio temporali imprevedibili.

Nondimeno quello che più affascina è il gioco di proiezioni operate sia dal protagonista che dai suoi stessi compagni di viaggio. All’unisono ciascuno di loro porta con sé una figura guida che vede riflessa nel volto di un nuovo incontro e gli scenari di quelle medesime tappe del viaggio saranno lo specchio dei ricordi partoriti da una mente capace di serbare il lato più antico ed intimo.

Una discesa verso il buio e verso le tenebre che richiamano un po’ il mondo di Dante, ma che sotto una nuova chiave di lettura insegnano ad acquisire nuovi occhi per promuovere quello che la morte porta con sé: una nuova rinascita.

 

All’interno del flusso ventrale esistono neuroni specifici che reagiscono alla vista del cibo

A livello cerebrale emerge una risposta di attivazione neurale sia alla visione del cibo, sia a disegni che in modo stilizzato rappresentano cibo, sia al nome del cibo stesso.

 

I neuroni del flusso ventrale

Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive umane ha rivelato, negli ultimi 10 anni, l’organizzazione funzionale della corteccia in modo estremamente dettagliato.

Lo studio coordinato da Nancy Kanwisher (2022), pubblicato sulla rivista Current Biology, ha indagato come la vista del cibo attivi in maniera selettiva i neuroni all’interno del cosiddetto flusso ventrale, ovvero una serie di fibre nervose che originano dalla corteccia visiva primaria del lobo occipitale e decorrono fino al lobo temporale inferiore dell’encefalo. Tra i suoi compiti ha quello dell’analisi della struttura fisica di un oggetto (forma e colore) e quindi consente il riconoscimento percettivo degli oggetti (Meenakshi Khosla et al., 2022). L’altro flusso, quello dorsale, è orientato verso il lobo parietale e serve soprattutto alla localizzazione spaziale dell’oggetto.

Questa organizzazione presenta un insieme di regioni che sono selettivamente impegnate in singoli processi mentali, dalla percezione di volti, scene o musica, alla comprensione del significato di una frase, alla deduzione del contenuto dei pensieri di un’altra persona. È interessante notare che questo tipo di mappa mentale è tesa a favorire le interazioni sociali tipiche dell’essere umano. Il fatto che questa organizzazione selettiva sia presente anche per il cibo può far pensare che sia un mezzo per favorire la sopravvivenza o un residuo del pensiero istintuale arcaico.

I neuroni selettivi al cibo

Dallo studio (Meenakshi Khosla et al., 2022) è stato osservato un nuovo componente che sembra rispondere in modo altamente selettivo al cibo, nello specifico alle immagini che raffigurano il cibo. Questa selettività alimentare è evidente sia nella correlazione del profilo di risposta del componente con la salienza nominale del cibo, sia nelle immagini che hanno prodotto la risposta più alta nei singoli soggetti. I soggetti hanno mostrato risposte di attivazione sia alla visione del cibo, sia a disegni che in modo stilizzato rappresentano cibo, sia al nome del cibo stesso (ovvero la salienza nominale), infatti si è avuta la stessa risposta sia alla visione di una foto di fetta di pizza che alla scritta pizza. Sebbene la maggior parte delle immagini in cima alla classifica riguardino cibi preparati (ad es. una fetta di pizza), anche il cibo non preparato (ad es. broccoli, carote, banana, ecc.) ha prodotto forti risposte in questo componente.

Questi risultati mostrano che le risposte neurali dominanti del percorso visivo ventrale includono non solo le selettività per volti, scene, corpi e parole, ma anche la categoria visivamente eterogenea del cibo, disconfermando così i precedenti studi che ipotizzavano che queste vie di trasmissione privilegiata fossero relative solo alle interazioni sociali e frutto della specializzazione funzionale che sorge nella corteccia.

 

L’apprendimento secondo Feuerstein: il modello S-H-O-H-R e il mediatore

Nella spiegazione di come avviene il processo di apprendimento, Feuerstein aggiunse allo schema S-O-R un nuovo elemento: “H”, cioè l’essere umano, chiamato mediatore, ponendolo sia tra lo stimolo (S) e l’organismo (O), sia tra l’organismo (O) e la risposta (R), ampliando lo schema del modello S-H-O-H-R.

 

Comportamentismo: dal modello S-R al modello S-O-R

Nel corso degli anni, diversi approcci psicologici hanno formulato diverse ipotesi per spiegare come avviene l’apprendimento.

Le prime teorie provengono dal comportamentismo secondo cui l’apprendimento avviene mediante uno schema S-R, dove S è lo stimolo ambientale e R è la risposta corrispondente messa in atto dall’individuo. L’apprendimento, dunque, è frutto dell’associazione tra certi stimoli ambientali inizialmente “neutri” (ovvero incapaci di provocare alcuna risposta) e le risposte emesse dell’individuo.

Tra gli esperimenti realizzati sul condizionamento animale, quelli condotti dal fisiologo russo Pavlov sono quelli che hanno avuto maggior incidenza nel confermare tale modello. Egli, infatti, mise in evidenza come risposte automatiche già presenti nel repertorio comportamentale di un organismo possano essere generalizzate e attivate da stimoli neutri. Uno dei suoi esperimenti più noti è quello condotto sui cani nel 1927, in cui dopo ripetute prove nelle quali veniva suonato un campanello (stimolo neutro) prima della comparsa del cibo (stimolo incondizionato), il cane era in grado di stabilire un’associazione tra i due producendo una risposta comportamentale conseguente (salivazione). Inoltre, tale risposta era presente anche quando veniva fatto udire il suono del campanello senza però poi somministrare successivamente il cibo. È stato osservato, dunque, che la sola presentazione del suono bastava per evocare la risposta di salivazione.

In altre parole, un comportamento che normalmente viene emesso in risposta alla presenza del cibo viene manifestato anche in assenza di esso in quella particolare condizione, a dimostrazione che uno stimolo inizialmente incapace di evocare una risposta, se presentato ripetutamente secondo le regole della contiguità temporale assieme a uno stimolo incondizionato, viene associato a questo diventando, così, capace di generare la medesima risposta comportamentale.
Questo approccio, tuttavia, non fornisce spiegazioni di come un soggetto sia in grado di acquisire risposte nuove e di come soggetti diversi possano manifestare differenti reazioni di fronte al medesimo stimolo.

In tal senso, un importante cambiamento nello studio dell’apprendimento fu il crescente interesse verso il ruolo esercitato dai fattori cognitivi coinvolti in tale processo. Si passò, dunque, da uno schema S-R a uno schema S-O-R, dove O rappresenta l’organismo, a indicare che di fronte a uno stesso stimolo l’individuo risponderà in modo diverso a seconda delle proprie caratteristiche. Assumono, pertanto, un ruolo rilevante le differenze individuali e le particolarità dei singoli individui.

Feuerstein: modello S-H-O-H-R

Un’ulteriore modifica nella spiegazione di come avviene il processo di apprendimento venne da Feuerstein, il quale aggiunse allo schema S-O-R un nuovo elemento: “H”, cioè l’essere umano, chiamato mediatore, ponendolo sia tra lo stimolo (S) e l’organismo (O), sia tra l’organismo (O) e la risposta (R), ampliando lo schema del modello S-H-O-H-R.

Nello specifico, l’obiettivo del mediatore è ampliare le capacità dell’individuo, sostenendone il processo di apprendimento, trasformando ogni evento ed esperienza in un’opportunità di cambiamento. Pertanto, seleziona gli stimoli, in base agli obiettivi e alle peculiarità del singolo, e ordina la realtà rendendola più comprensibile al soggetto promuovendo l’acquisizione di una maggior consapevolezza dei fenomeni e del sistema di leggi che li governano.

Un ulteriore compito del mediatore è guidare l’individuo a fornire la risposta adeguata, favorendone la modulazione e rimandando feedback al fine di stimolare una riflessione sul processo messo in atto per giungere a tale conclusione.

Il modello S-H-O-H-R rappresenta la cosiddetta Teoria dell’Esperienza di Apprendimento Mediato (E.A.M), in cui viene messo in risalto non solo l’importanza del ruolo del mediatore nel facilitare il processo di apprendimento adeguandolo alle peculiarità del singolo individuo, ma anche l’importanza della relazione che si instaura tra i due. Secondo Feuerstein, infatti, a parità di condizioni, è il mediatore che fa la differenza: due individui potranno modificarsi e cambiare in misura diversa a seconda delle esperienze di mediazione che hanno vissuto.

 

Qual è il prezzo da pagare per arrivare alla medaglia?

Ndr – La Dott.ssa Rosaria Nocita, Psicoterapeuta presso la Clinica Disturbi Alimentari Milano, commenta in questo articolo i recenti fatti di cronaca relativi alle restrizioni alimentari imposte alle giovani ginnaste.

In alcune discipline sportive e artistiche, come la ginnastica e la danza, è presente un’enfatizzazione dell’ideale di magrezza che può condurre una persona più vulnerabile a tale ideale a interiorizzarlo in modo assoluto, al punto da condizionare la propria autostima e sviluppare un vero e proprio Disturbo Alimentare.

 

L’incitazione alla rinuncia di cibi cosiddetti ‘vietati’, come strategia per tenere sotto controllo il peso e la forma del corpo, rappresenta una pressione psicologica che può minare l’equilibrio psicofisico della persona. Inoltre, il controllo da parte degli insegnanti, volto a verificare che le rinunce alimentari siano seguite con rigore, può rinforzare ulteriormente l’adesione a regole dietetiche non salutari.

È noto che in alcune discipline sportive e artistiche, come la ginnastica e la danza, è tipicamente condiviso lo standard del basso peso corporeo come garante di un’elevata performance sportiva o artistica. Nelle suddette discipline, infatti, è presente un’enfatizzazione dell’ideale di magrezza che può condurre una persona più vulnerabile a tale ideale a interiorizzarlo in modo assoluto, al punto da condizionare la propria autostima e sviluppare un vero e proprio Disturbo Alimentare.

I clinici esperti in Disturbi Alimentari non possono non possono non far sentire la propria voce, anzi è doveroso che si facciano promotori della diffusione di conoscenze scientificamente valide. Per questa ragione ci sentiamo di riportare che gli studi scientifici dimostrano come lunghi periodi di restrizione dietetica esercitano conseguenze negative sulla crescita, sulla funzionalità cognitiva, sulla prestazione fisica (diversamente da quanto si creda!).

Inoltre, ci preme sottolineare che tra i principali fattori di rischio per i Disturbi Alimentari ci sono: l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza, l’adozione di una dieta ferrea, l’eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione per valutare se stessi come persone degne di valore e atleti promessi campioni. La pressione a perdere peso che induce a restringere l’alimentazione, nonché l’impatto del comportamento di controllo degli allenatori possono rappresentare, quindi, fattori di rischio per l’esordio di un Disturbo Alimentare.

Diviene fondamentale, quindi, che allenatori, genitori e atleti stessi approfondiscano la conoscenza dei Disturbi Alimentari e dei falsi miti che ruotano attorno a questo tema, così da poter rilevare eventuali i campanelli di allarme ed attivare interventi tempestivi ed efficaci.

 

“Non c’è due senza tre?” La coppia di fronte all’infertilità

La ricerca sugli aspetti emotivi legati all’infertilità si è spesso concentrata esclusivamente sulle donne, sebbene vi sia un crescente interesse per quanto riguarda le conseguenze psicologiche sull’uomo e sulla relazione di coppia.

 

Introduzione

Abstract: il concepimento è una tappa fondamentale del ciclo di vita della coppia e, quando questa possibilità viene a mancare, non solo può essere compromesso il benessere individuale e relazionale, ma anche la stabilità e la qualità del legame stesso di coppia.

L’infertilità è una difficoltà di coppia molto sentita dagli uomini fin dall’antichità dei tempi; infatti, le prime documentazioni per la sua cura sono state rintracciate in reperti egiziani, babilonesi, nell’Antico Testamento e negli scritti dell’Antica Medicina Indiana (Riccio, 2017). Il concepimento è una tappa fondamentale nella vita umana (Cotoloni, 2021) e, quando questa possibilità viene a mancare, possono esserci delle conseguenze dirette sul funzionamento della coppia e sui progetti di vita a breve e lungo termine (Asha Patel & Sharma, 2018). Nel ciclo di vita della coppia e della famiglia, l’infertilità è una “variabile imprevista” nel percorso di transizione verso la genitorialità (Vignati, 2002); infatti, affrontare lo stato di infertilità può essere molto complesso a causa dell’inaspettata interruzione nella progettualità familiare e della mancanza di riconoscimento della sofferenza della coppia (Mosconi, Crescioli, Vannacci & Ravaldi, 2021). La perdita a cui vanno incontro queste coppie non riguarda solo la perdita del bambino immaginato, bensì anche la perdita del proprio stato di salute e della famiglia ideale (Swanson & Mechanick Braverman, 2021).

Cosa si intende con infertilità

Nel panorama internazionale, esistono diverse definizioni di infertilità e di sterilità di coppia; tuttavia, in Italia si definisce sterile una coppia per cui non è possibile il concepimento per una condizione medica (Riccio, 2017); mentre, si definisce come infertile una coppia per cui non è stato possibile instaurare una gestazione dopo 24 mesi di rapporti sessuali regolari e non protetti tra i partner. In Italia, si stima che l’infertilità riguardi il 15% delle coppie (Ministero della Salute, 2021), mentre, a livello internazionale, si è visto che abbia un’incidenza tra circa l’8-12 % (Szkodziak, Krzyzanowski & Szkodziak, 2020).

La ricerca sugli aspetti emotivi legati all’infertilità si è spesso concentrata esclusivamente sulle donne, sebbene vi sia un crescente interesse per quanto riguarda le conseguenze psicologiche sull’uomo e sulla relazione di coppia. Per molte malattie, c’è un partner ‘malato’ e un altro che è di supporto e ‘custode’; diversamente, nell’infertilità i membri della coppia sono considerati ambedue come pazienti e la valutazione e il trattamento riguarda entrambi (Swanson & Mechanick Braverman, 2021; trad. propria, p. 71). Sperimentare l’infertilità sia fisicamente sia psicologicamente è stato avvertito dalle coppie come uno degli eventi più critici del ciclo di vita e in grado di mettere in crisi i partner (Casu, Zaia, do Carmo Fernandes Martins, Parente Barbosa & Gremigni, 2019). L’infertilità di coppia può avere come conseguenza l’emergere di depressione, un senso di isolamento, il manifestarsi di disturbi psicosomatici e, infine, ripercussioni nella sfera della sessualità (Righetti, Galluzzi, Maggino, Baffoni & Azzena, 2009).

Quando una coppia non riesce a concepire può essere soggetta a ‘un ottovolante di emozioni’ (Swanson & Mechanick Braverman, 2021; trad. propria p. 68): i partner sperano che sia il mese ‘buono’ e provano ansia per l’attesa, fino a quando, invece, l’arrivo delle mestruazioni lascia il campo a delusione e sentimenti di segno depressivo (Righetti et al., 2009).

La diagnosi di infertilità

La diagnosi di infertilità può comportare rabbia, tristezza, sentimenti di perdita e di lutto e il non sentirsi compresi e accolti dall’ambiente circostante; questi vissuti possono diventare a tal punto totalizzanti da compromettere la sfera dell’intimità di coppia e il funzionamento sociale e lavorativo (Cotoloni, 2021). Questo ripiegamento su se stessi, da una parte è connesso al sentimento dell’invidia, che gioca un ruolo fondamentale nella psiche delle coppie sterili che sono così indotte ad evitare le coppie con figli e le situazioni sociali in cui avvertono pressioni da parte di familiari e amici; dall’altra al fatto che si tratta di un lutto che non viene considerato e riconosciuto dal contesto circostante (Righetti et al., 2009), dal momento che ad essere pianto è un bambino che non è mai nato e non può essere seppellito (Riccio, 2017). Il dolore che le coppie si trovano a sperimentare è così forte che si è osservata una tendenza ad inibire le componenti affettive e canalizzare l’attenzione sul corpo, che viene vissuto come vuoto (Cotoloni, 2021), ma anche difettoso e danneggiato (Righetti e colleghi, 2009). Infine, è stato osservato che l’infertilità va a impattare negativamente la sfera della sessualità e dell’intimità di coppia, che cambia significato e passa dall’essere ‘un’esperienza romantica’ a un ‘lavoro stressante’; inoltre, il sesso viene associato al continuo fallimento e a sentimenti di ansia e depressione (Swanson & Mechanick Braverman, 2021), ma anche di vergogna, di stress e minore autostima (Righetti & Luisi, 2007).

All’interno della coppia, si è visto che i partner sperimentano ed esprimono il proprio dolore in maniera differente: da una parte, la propria sofferenza può essere così grande da non consentire di vedere quella dell’altro (Meyers et al., 1998): dall’altra, quando percepita, può emergere un senso di impotenza e una difficoltà nel comprendere come essere di supporto (Righetti & Luisi, 2007). Nelle coppie infertili, si è osservato come i partner si proteggano reciprocamente non rivelando all’altro i propri conflitti e le proprie angosce per la paura di ferire o di mettere in pericolo la coppia (Meyers et al., 1998); tuttavia, si è osservato che, questi aspetti difensivi, anziché proteggere la coppia, possono portarla lontano dall’affrontare il problema, chiedere aiuto e, infine, incrementare gli aspetti fusionali (Scabini & Cigoli, 1999). La letteratura mette in luce come l’infertilità sia un problema di coppia e attivi l’utilizzo di strategie di coping sia sul piano individuale, sia coniugale; infatti, il sostegno del partner si è visto in grado di alleviare lo stress interno alla coppia causato dalla condizione di infertilità, sia negli uomini, sia nelle donne. Tuttavia, si è anche osservato che le donne individualmente tendondo a ricercare sostegno anche nei blog online, nel contesto amicale e nella famiglia; viceversa, gli uomini siano più restii nel condividere le proprie difficoltà, aspetto che è stato attribuito alle aspettative sociali e agli stereotipi culturali di mascolinità che la società si aspetta che l’uomo soddisfi (Casu, Zaia, do Carmo Fernandes Martins, Parente Barbosa & Gremigni, 2019).

Gli interventi sulla coppia

L’intervento dello psicologo deve avere come focus “la coppia” (Visigalli, 2015), e accompagnarla nel: riconoscere la perdita, elaborarne il dolore e integrarla nella propria vita (Swanson & Mechanick Braverman, 2021); aumentare le strategie di coping dei partner e la capacità di chiedere aiuto anche nel contesto esterno alla coppia (Righetti & Luisi, 2007); qualora la coppia decidesse di intraprendere un percorso di PMA, aiutarla a essere consapevole di tale decisione (Riccio, 2017), e sostenerla attraverso le diverse fasi e i possibili fallimenti dei trattamenti e, infine, aiutarla a vedere altre possibili forme di genitorialità, come l’affido oppure l’adozione (Cotoloni, 2021).

L’infertilità è un’esperienza del ciclo di vita della coppia che può mettere a dura prova il legame e, infatti, risulta molto comune che le coppie ‘scoppino’ dopo una diagnosi di infertilità o durante la prassi dei trattamenti, piuttosto che rimanere unite. Si sa che sia più facile affrontare il dolore in due anziché da soli: infatti, la coppia deve impegnarsi congiuntamente nella ricerca di una nuova progettualità su cui investire, che vada anche al di là dell’arrivo di un figlio e le consenta di definirsi non solo come “una vicinanza di individui, ma proficua e continua condivisione di identità” (Scabini & Cigoli, 2000).

 

Io esco da solo: come guarire da agorafobia e attacchi di panico (2022) – Recensione

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo “Io esco da solo” si fa portatore. 

 

Non si può guidare un aereo senza guardare i comandi, ignorando che la benzina stia per terminare. Lo schianto sarebbe inevitabile.

La dr.ssa Scilla Chiesa, autrice dell’introduzione al testo di Marco Fava, utilizza questa efficace metafora per indicare la necessità di gestire le nostre emozioni, per evitare di frantumarci letteralmente contro di esse. La conseguenza ben poco augurabile sarebbe la perdita della coscienza e del dominio di Sé.

Una regolazione emotiva disfunzionale può rivelarsi matrice di disagi potenzialmente lesivi dell’omeostasi e del benessere psicofisico, tanto da esitare, nei casi più gravi, in una dimensione patologica. Il testo lo spiega chiaramente identificando come il panico, oggetto centrale della trattazione, costituisca una degenerazione della paura, e nello specifico un’estremizzazione dell’intento autoconservativo insito in essa.

Questa scarica di angoscia incontrollabile che colpisce all’improvviso e priva del controllo di sé, ha infatti ben poco a che vedere con lo scopo principale della paura, identificabile nella volontà di difendersi da uno stimolo minaccioso in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza; piuttosto si mostra un elemento annichilente, indomabile ma terribilmente dominante, di fronte al quale l’individuo può arrivare a perdere la percezione del proprio corpo e persino della realtà.

Il panico depotenzia, limita, paralizza. Carica di valenza traumatica ogni contesto cui viene associato.

Dopo il primo terribile attacco, ogni istanza reattiva o motivazionale viene meno: la sola priorità diviene quella di evitarne il riproporsi, per sfuggire alle sensazioni terrifiche ancora vivide nella memoria. Da qui le strategie di evitamento, confortanti quanto deleterie: ci rinchiudiamo in casa, ci rifiutiamo di viaggiare da soli, ci costruiamo una confort zone in grado di difendere da quegli stessi pericoli di cui non si conosce neppure l’identità.

Tramutandosi in una sorta di prigione, la volontà di difendersi crea una sintomatologia egodistonica che, oltre a causare stati affettivi disforici e cadute di autostima, comporta un elevato costo esistenziale. In poche parole, il prezzo da pagare è molto alto: colui che soffre di attacchi di panico o di agorafobia è costretto in un recinto, psichico prima ancora che territoriale. È ostaggio di un’angoscia avida e invadente che non si accontenta delle limitazioni. Non giunge al compromesso, ma vuole sempre di più. Fino a che, dopo limitazioni sempre più restrittive, non ci si sente più sicuri neppure a casa. Il circolo vizioso ha ormai preso il sopravvento. Ed è a questo punto che la convivenza con il panico si fa impossibile.

Si tocca il fondo. Sembra arrivata la fine. Ma paradossalmente è proprio questo il momento in cui prospettare una possibile svolta. Un processo decisionale che costringe a fare i conti con questa terribile paura della paura. Provando a capire cosa si può fare per tornare indietro.

È quanto vuole dirci l’autore del testo, che, sulle righe di un racconto onesto ed empatico, espone la sua esperienza di vita senza porsi un intento clinico o scientifico. Non si trova, in queste pagine, nessun tecnicismo o divulgazione o disquisizione scientifica relativa al panico e ai suoi correlati. Nessun modello teorico, nessuna ricerca sperimentale. Né è ad un pubblico di professionisti che l’autore si rivolge: la narrazione, colma di riferimenti dal sapore personale, empatico e dolorosamente “vissuto”, è piuttosto diretta a quelli che, come lui, combattono da anni contro la prigionia del panico, confrontandosi ogni giorno con le sue perfide intransigenze, le sue proibizioni, le sue ostinazioni: fino a rendersi schiavi del suo gioco mortifero.

I messaggi del testo

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo si fa portatore.

L’inganno del panico è quello di millantare se stesso come un’entità invincibile e insopprimibile. Non è così. Tutti coloro che ne soffrono possono riuscire a liberarsene. A guarire. Laddove con guarigione non si intende una miracolistica remissione del sintomo, ma soprattutto una gestione funzionale e consapevole dello stesso, finalizzata a depotenziarne gli effetti e le conseguenze. Terribili quanto erronee, fallaci, ingannevoli. Il bluff della mente, come lo chiama l’autore, è quello di entrare in un circolo vizioso in cui la potenza annichilente del panico alimenta interpretazioni falsate, deficit di conoscenze realistiche sulle malattie e sul loro decorso, credenze erronee ma così cogenti da rendersi impermeabili a qualsiasi interpretazione alternativa.

È necessario smascherare questo inganno, perpetrato da sterili meccanismi di mantenimento, prigionie travestite da difese che danneggiano e impoveriscono. E lo si può fare imparando a ragionare consapevolmente sulla paura, anziché lasciarsi travolgere. Rielaborare le cause, gli effetti, le origini e le direzioni, tramite una rieducazione del pensiero, che per raggiungere questo importante risultato richiede la mobilitazione di tutte le risorse psicofisiche di cui possiamo disporre.

E qui veniamo al secondo messaggio: nessuno può guarire da solo. È necessario affidarsi a una terapia che sia in grado di attivare le capacità cognitive utili a rapportarci al panico in una percezione più reattiva e consapevole, al fine di smantellarne letteralmente le fondamenta. Un sostegno che aiuterà a metterci alla guida di quel famoso aereo delle emozioni con doti di consapevolezza, controllo, agency.

È impensabile credere di poter uscire dal panico senza il supporto di un setting terapeutico adeguato: troppi sarebbero i rischi di ricaduta, di inefficacia, o addirittura di peggioramento. Via dunque ai pregiudizi circa un possibile percorso terapeutico. Per quanto questo comporterà sacrifici economici, fallimenti, talvolta passi falsi e ricadute. È il caso di cominciare il prima possibile, senza ripensamenti.

E la direzione è una e una soltanto: la psicoterapia cognitivo comportamentale. La sola in grado di costruire un impianto razionale contro l’irrazionalità del panico, un antidoto logico e pensante contro i suoi inganni, le sue assurdità, le sue infondatezze.

È grazie al modello cognitivo comportamentale se l’autore è riuscito a costruire un progetto di gestione consapevole delle proprie fobie. L’esercizio al ragionamento realistico cui la psicoterapia lo ha iniziato ha contribuito a restituire una struttura raziocinante ad un pensiero cui il panico aveva tolto competenze astrattive, riflessive, deduttive, rendendolo un mero gregario al servizio della sua fasulla onnipotenza. Ed è questo, forse, il terzo obiettivo del testo: omaggiare un modello terapeutico che tanto lo ha aiutato nel disegno del suo difficoltoso, e ormai insperato, percorso di guarigione.

Passo dopo passo: il percorso di guarigione

Per mettere fine allo strapotere del panico, l’autore identifica un percorso sintetizzabile nei seguenti punti chiave.

  • Obiettivi concreti e realistici. Il panico fa leva su una totale assenza di definizioni, di certezze, di conoscenze: non sappiamo da dove si origina, quanto potrà durare, a cosa ci porterà. Lo sentiamo soltanto arrivare nelle situazioni più inattese, e non possiamo che asservirci al suo crudele dominio. Tutto questo deve finire. L’autore lo spiega bene, evidenziando come sia necessario darsi degli obiettivi, senza pretendere troppo da noi stessi. Iniziando a piccoli passi, accontentandoci del poco che riusciamo a fare, e prendendolo come incentivo per fare meglio e di più la prossima volta. Se non riusciamo ad uscire neppure di casa è inutile imporci di fare improvvisamente un viaggio intorno al mondo. L’inevitabile fallimento cui andremmo incontro servirebbe solo da deterrente per qualsiasi progetto di crescita personale. Al contrario, i compiti devono essere scomposti in tante piccole fasi, i sotto obiettivi così tanto cari alla psicologia cognitivo comportamentale che, sul lungo termine, possono aiutarci a raggiungere grandi distanze.
  • Fare chiarezza e usare la ragione. Conoscere i propri sintomi, cosa li provoca, chiarine gli effetti. Iniziare a ragionare con la mente e non con la paura, ad esempio, servirà a comprendere che non si può morire di panico. Che una palpitazione non preannuncia necessariamente un infarto, e che una dispnea non corrisponde ad un principio di soffocamento. Le malattie hanno un’eziologia, un decorso, un’identità. Non è il caso di estremizzare, né di impiegare sugli stessi un’attenzione dispercettiva. È più opportuno lavorare per raggiungere una preziosa competenza di agency,  che consentirà una gestione più adeguata e consapevole dei propri sintomi.
  • Evitare l’evitamento. Una delle strategie più subdole del panico è quella di spingerci ad evitare i luoghi nei quali si è verificato la prima volta, nella speranza di riuscire a scongiurarne il temuto ripresentarsi. Il rinforzo negativo apportato dalle strategie di evitamento ci spinge a considerarle la via d’elezione per contrastare l’avvento della crisi. All’inizio può sembrare giusto. Ma alla fine questo rimedio illusorio diventa una trappola che impedisce la vita stessa, perché il panico è avido e intransigente. E impone restrizioni sempre più limitanti. Tanto che alla fine nessun posto –neppure la casa– sarà in grado di rassicurarci sufficientemente.
  • Distrarsi. Dobbiamo cercare di distrarre l’attenzione dal pensiero del panico. Trovando dei diversivi in grado di depotenziare la focalizzazione sullo stato di malessere innescato dal sintomo somatico e da lì l’ansia parossistica. Possiamo affidarci alle disponibilità contingenti o alle nostre naturali preferenze, per trovare attività in grado di ispirarci sentimenti positivi: scrivere, parlare con qualcuno, mettersi al computer. Fare una telefonata, se possibile, persino giocare con lo smartphone –non è sempre il caso di demonizzare la tecnologia!–, ma anche semplicemente mettersi a contare, fare associazioni di numeri e lettere. Utile anche l’utilizzo dei canali sensoriali, attraverso i quali stornare adattivamente lo stress suscitato da una sensazione sgradevole o minacciosa, e costruire un più intimo contatto col Sé. Un contatto viscerale che sia in grado di evocare sensazioni piacevoli e contenitive, e che, soprattutto, ci restituisca un’immagine del corpo più affidabile e meno distruttibile. Siamo più forti di quanto il panico ci spinga a credere.
  • Restare sul confine. Non dobbiamo illuderci. Il panico tornerà di nuovo e ci imporrà di tornare indietro, per rifugiarci in quella confort zone che tanto ci protegge. Ma non sarebbe onesto assumere un comportamento di ritirata, all’interno di un percorso di cambiamento concretamente meditato. È invece necessario accettare gli attacchi, quando si presenteranno. E anziché arrenderci alla loro intensità distruttiva, fissare l’attenzione sul sintomo che sono riusciti a suscitare in noi, scomponendone razionalmente le caratteristiche. Iniziamo ad esempio a chiederci: di cosa ho paura? Cosa mi fa male? Per quale motivo? Da quando è iniziato questo sintomo, e oggettivamente, a cosa potrà condurmi? Intraprendiamo un’analisi funzionale del panico, al fine di comprenderne l’origine, la durata e l’intensità. È necessario smascherare l’impostore, per impedirgli di averla vinta ancora una volta. Dobbiamo stare fermi sul confine, senza tornare indietro, e vedere quanto riusciamo a resistere.
  • Normalizzare i fallimenti. Non è il caso di lasciarsi prendere dallo sconforto, di fronte ad un fallimento. Consideriamolo piuttosto un incidente di percorso sul quale non è il caso di drammatizzare. Lo stesso autore riporta i passi falsi, gli errori, le ricadute che hanno costellato il suo percorso di guarigione e che, proprio grazie alla guida direzionante della psicoterapia, è riuscito ad inserire in un contesto di normalizzazione, senza lasciarsi scoraggiare in una prospettiva demotivante.
  • Pensiero positivo. Lasciare spazio all’ottimismo, non in senso irrealistico, e neppure in una modalità di negazione onnipotente. Ma soltanto per permettere l’instaurarsi di quelle strategie di coping che sottraggono all’impotenza, alla passività senza risoluzione, spingendo ad un confronto reattivo con il Sé e con la propria paura. Pensare in positivo vuol dire credere nel miglioramento, motivare il percorso terapeutico, lasciarsi andare a speranze e progettazioni. Una rieducazione di pensiero in grado di renderci un terreno meno fertile per l’insorgenza del panico e delle sue terrifiche conseguenze.
  • Cercare la paura. Alla fine non basta evitare il panico. Dobbiamo letteralmente stanarlo, sfidarlo, affrontando le stesse situazioni che ne causano l’insorgenza. Fino a provocarle volontariamente. Anche se può apparire impossibile. È l’unico modo per tenergli finalmente testa.
  • Voglio capire che paura sei. Da questa frase possiamo carpire il senso più profondo del testo, che non risiede tanto in un miracoloso passaggio dalla paura alla non paura, bensì nel raggiungimento di una gestione consapevole e tollerante dell’ansia distruttiva, quando si insedierà di nuovo nei nostri pensieri.

Uno dei meriti principali del testo di Fava è quello di trattare con semplicità di stile e di linguaggio- argomenti di grande intensità psichica. Esponendo senza sensazionalismi la sua esperienza personale, l’autore è riuscito a lanciare un messaggio diretto e leale, creando una sinergia empatica che si percepisce nell’intero corpo del testo.

Il messaggio è più volte ribadito: realizzare una breccia nella prigione costruita dal panico è possibile. E la narrazione della sua esperienza personale si pone l’obiettivo di mostrare il modo in cui riuscirci a tutti coloro che come lui sono incatenati da questo oscuro carceriere.

Fronteggiare la paura, accettare di penetrarne le profondità, chiamarla per nome. Sono questi, i capisaldi della guarigione, dai quali tutti possono trarre un’ispirazione motivante. Un punto di partenza per iniziare il percorso di liberazione dalla melma ottenebrante del panico, che può prendere vita solo dalla volontà individuale.

Il testo si pone come un prezioso appello alla mobilitazione delle proprie risorse personali –quelle stesse che il panico spinge a reputare inesistenti– per porle al servizio di uno scopo ben più costruttivo e proficuo: raggiungere il benessere e la padronanza di sé. Usare la ragione contro l’irrazionalità, la consapevolezza contro l’ignoto, per togliere potere al panico. Gestire la vita in base alle nostre e non alle sue esigenze.

Tutti ce la possono fare. Quindi è meglio cominciare il prima possibile. Il panico ci ha già portato via troppo tempo.

La trasmissione intergenerazionale del trauma

È importante sottolineare come gli effetti traumatici dovuti alla guerra e alla prigionia non riguardano solamente i soldati stessi, ma anche i loro cari; infatti, lo stress traumatico secondario (STS) non include solamente i tipici sintomi post-traumatici ma influenza anche diversi domini della sfera interpersonale.

 

Spesso ci si chiede a quali risvolti psicologici siano esposti i bambini che si sono trovati in situazioni traumatiche, come abusi o catastrofi ambientali, mentre di rado ci si sofferma sulle conseguenze dell’essere cresciuti da genitori i quali sono stati esposti in prima persona ad eventi traumatici. 

In questo caso la prole può andare incontro a reazioni secondarie a eventi traumatici, avvenuti molto prima che loro nascessero e di cui non hanno alcuna esperienza diretta (Solomon & Zerach, 2020).

Effetti dei traumi di guerra

Uno studio condotto nel 2020 ha analizzato gli outcomes traumatici di seconda generazione riguardanti figli di prigionieri della guerra dello Yom Kippur, avvenuta nel 1973 (Solomon & Zerach, 2020). Come riferimento è stato preso un precedente studio longitudinale di quattro decenni, in cui veniva valutata la salute fisica e mentale di ex prigionieri di guerra (Solomon et al., 2012).

In generale, durante ogni guerra i prigionieri sono sottoposti a indicibili torture, abusi, umiliazioni, deprivazione di cibo e acqua, totale mancanza di igiene. Tutti questi soprusi vengono utilizzati intenzionalmente dai carcerieri come strategie per rendere maggiormente vulnerabili i prigionieri, fino a farli crollare (Solomon & Zerach, 2020).

La prigionia di guerra viene classificata tra i gruppi di traumi perpetrati dall’essere umano e, differentemente dalle catastrofi naturali, ne risultano outcomes post traumatici più gravi, tra cui vari disturbi psichiatrici, psicosociali e di compromissione delle relazioni interpersonali (Herman, 1992; Solomon et al, 2008).

Infatti, è proprio la natura interpersonale del danno subito a rendere più lento e difficoltoso il recovery. Tendenzialmente, oltre a una vasta sintomatologia ansiosa e depressiva, gli ex prigionieri di guerra mostrano chiari sintomi di PTSD (Dikel et al., 2005; Solomon et al., 2012).

È importante sottolineare come gli effetti traumatici dovuti alla guerra e alla prigionia non riguardano solamente i soldati stessi, ma anche i loro cari; infatti, lo stress traumatico secondario (STS) non include solamente i tipici sintomi post-traumatici ma influenza anche diversi domini della sfera interpersonale (Ludick & Figley, 2016; APA, 2013).

Dalla letteratura, nel corso degli anni, è emerso come i figli di veterani risultassero avere numerosi problemi comportamentali, come per esempio l’aggressività, sintomi depressivi e somatici, abuso di sostanze e sintomi PTSD veri e propri, se paragonati a figli di veterani che non soffrivano di PTSD  (Dinshtein et al., 2011). Infatti, anche il recente studio del 2020 sopracitato ha evidenziato come i figli di veterani con PTSD abbiano un alto rischio di sviluppare lo stress traumatico secondario, ma anche altre manifestazioni psicopatologiche come intrusioni mentali, evitamento, paranoia, psicosi, ansia e depressione (Solomon & Zerach, 2020).

In questo studio è emerso come il trauma primario vissuto dai padri di famiglia abbia influito non solo sulla prole, ma anche sulle mogli, nonché madri di queste famiglie, le quali presentavano una vasta sintomatologia secondaria molto simile a quella presentata dai figli (Solomon & Zerach, 2020). Questa scoperta solleva quindi un quesito interessante: qual è il rapporto causale tra PTSD paterno, stress traumatico secondario materno e risvolti psicopatologici nei figli? Il ruolo dello stress traumatico secondario nelle madri è mediatore di quello nei figli, o un aggravante? L’ ipotesi è che, se di per sé i risvolti psicopatologici dei traumi paterni hanno un effetto sia sulle madri che sui figli, lo sviluppo conseguente di una sensibilità psicopatologica nelle madri possa ulteriormente aggravare le condizioni dei figli, i quali si trovano a vivere in un ambiente in cui nemmeno i propri genitori si sentono al sicuro (Zerach et al., 2016).

Il ruolo dei genitori, infatti, è quello di soddisfare i bisogni primari della prole, fornire un ambiente sicuro sia a livello fisico che emotivo, permettendo al tempo stesso l’esplorazione dell’ambiente esterno (Bowlby, 1988). In quest’ottica, il trauma impedirebbe ai genitori di svolgere e bilanciare correttamente le proprie funzioni genitoriali, passando sia dall’assenza di cura, sensibilità ed empatia per la prole sia all’iperprotettività (Solomon & Zerach, 2020).

Personalità e trasmissione intergenerazionale del trauma

In ogni caso, è importante domandarsi quale sia il ruolo del genere e dei tratti di personalità nello sviluppo di stress traumatico secondario nei figli di veterani aventi PTSD. Per quanto riguarda il ruolo del genere, uno studio ha riportato una sintomatologia secondaria più grave nelle donne, ipotizzando che esse abbiano una maggior sensibilità e predisposizione per PTSD e stress traumatico secondario(Baum et al., 2014).

Per quanto concerne i tratti di personalità, come detto in precedenza, sembrano avere un ruolo importante nella trasmissione intergenerazionale del trauma. Lo studio di Solomon e Zerach del 2020 ha individuato, tra i Big Five, il Nevroticismo come fattore di rischio per lo sviluppo di PTSD e stress traumatico secondario (Borja et al., 2009). Questa predisposizione può essere spiegata dal fatto che le persone con alti punteggi per questo tratto, tendono a preoccuparsi eccessivamente e in maniera del tutto involontaria per possibili minacce, focalizzandosi particolarmente su elementi negativi e minacciosi presenti nell’ambiente esterno, tanto da risultare maggiormente vulnerabili a interpretazioni catastrofiche (Aidman & Kollaras-Mitsinikos, 2006). Infatti, come evidenziato dalla letteratura, questi individui sono caratterizzati da alterazioni dell’umore e cognizioni distorte ed eccessiva preoccupazione, elementi tipici del PTSD (APA, 2013).

 

Applicazioni specifiche dei modelli CBT di terza generazione – Congresso CBT-Italia

Firenze, dalla seconda giornata del Congresso CBT-Italia 2022. Applicazioni specifiche dei modelli CBT di terza generazione.

 

Il modello ACT

 Il 29° simposio, svoltosi nella seconda giornata del congresso CBT-Italia, è stato moderato dalla dott.ssa Annalisa Oppo, psicologa, psicoterapeuta e docente di Psicologia generale presso la Sigmund Freud University (SFU) di Milano.

Proprio la dott.ssa Oppo ha inaugurato il simposio parlando di due particolari processi afferenti all’Acceptance and Commitment Therapy (ACT): la fusione cognitiva e il sé concettualizzato. In particolare, la fusione cognitiva con un determinato pensiero o contenuto del sé porta ad avere un sé concettualizzato che provoca dolore e sofferenza psicologica.

Secondo Godbee e Kangas (2020), per promuovere un sé concettualizzato ci sono cinque repertori da allenare: la consapevolezza di un sé (1) distinto, (2) trascendente, (3) persistente, (4) capace di assumere una prospettiva e (5) di osservare. La dott.ssa Oppo si è poi soffermata in particolare sul primo aspetto: avere un “sé distinto” significa discriminare l’esperienza diretta così com’è dall’esperienza controllata da regole verbali, e uno strumento per allenare questo repertorio sono le tecniche di defusione.

A questo proposito, ha presentato brevemente i risultati di una meta-analisi in corso di pubblicazione, secondo cui la defusione è risultata efficace nel ridurre la credibilità e la dolorosità legata a contenuti del sé negativi. La tecnica d’elezione è risultata essere la Word Repetition (ripetizione di parole). Relativamente agli 8 studi inclusi nella meta-analisi, sono emersi alcuni problemi: tutti gli studi includevano un campione di soli studenti, solo uno studio confrontava più tecniche e solo uno studio valutava il follow-up.

Rispetto alla defusione, la dott.ssa Oppo ha poi messo in luce un problema di termini: la defusione non deve essere intesa come una tecnica, bensì come un esito perseguibile attraverso processi di base diversi (Assaz et al., 2018). Ed è da questo razionale che è nato lo studio sperimentale esposto successivamente, che riguardava l’efficacia di due differenti tecniche di defusione cognitiva (vedi Figura 1):

  • la Word Repetition: basata sul processo di estinzione rispondente;
  • il Contextual Cue: basato sulla contestualizzazione attraverso autoclitico.

Tecniche di defusione valutate nello studio di Oppo e colleghi (in corso di pubblicazione)

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 1

Entrambe le tipologie di intervento sono state condotte online e avevano come obiettivo la riduzione della credibilità, della dolorosità e del disagio associati a un pensiero autoreferenziale negativo.

I risultati dello studio hanno mostrato una riduzione significativa di tutte e tre le variabili considerate, in entrambe le condizioni di defusione, che persiste al follow-up. Non si sono rilevate differenze fra le due tecniche in termini di efficacia ma, considerando la loro durata, la Word Repetition è risultata più efficiente. Inoltre, l’utilizzo tra sessioni della stessa parola o di parole diverse appartenenti alla stessa classe non influenza il risultato.

Osservando i dati esplorativi della network analysis, si possono notare due configurazioni diverse che, afferma la dott.ssa Oppo, potrebbero indicare che le due tecniche consentono di ottenere lo stesso risultato, pur agendo attraverso processi diversi.

ACT e psicooncologia

A seguire, la dott.ssa Maria Rosita Campagna, psicologa e psicooncologa, ha argomentato le motivazioni per cui l’utilizzo di interventi basati sull’ACT è utile con pazienti oncologici. Una recente revisione sistematica condotta da Mathew et al. (2020) ha, infatti, dimostrato che il loro utilizzo comporta dei miglioramenti significativi rispetto allo stato emotivo, alla qualità della vita e alla flessibilità psicologica.

Quando il trattamento attivo e le cure non sono più possibili, la qualità della vita diventa l’obiettivo primario per i pazienti e per chi si prende cura di loro, afferma la dott.ssa Campagna. La presa in carico globale della persona sofferente, tipica dell’assistenza in hospice, si riferisce a un modello multidisciplinare in cui lo psicologo-psicoterapeuta è parte integrante dell’équipe di cura. In particolare, il focus dell’intervento psicologico-psicoterapeutico basato sull’ACT è quello di aiutare le persone a sviluppare maggiore flessibilità psicologica, abbandonando i tentativi inefficaci nel controllare, ridurre o evitare la sofferenza, per muoversi verso precisi obiettivi.

La dott.ssa Campagna ha poi presentato il caso di Mhannia, una paziente con diagnosi di tumore maligno ricoverata in hospice. Ha raccontato del primo incontro con Mhannia, durante il quale le ha domandato quali fossero le cose più importanti per lei, per poi chiederle di scegliere tra due caramelle: la caramella bianca avrebbe tolto il dolore, e con esso anche la famiglia e gli amici di Mhannia; la caramella colorata invece le avrebbe consentito di tenere le cose importanti ma anche il dolore (Figura 2). La donna ha scelto la caramella colorata.

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 2

Dopo aver descritto le fasi del trattamento, che per rispettare le condizioni di salute dei pazienti oncologici difficilmente avviene a cadenza regolare, la dott.ssa Campagna ha riportato alcuni episodi del percorso ACT svolto con Mhannia. Per esempio, un valore per la donna era la cura del proprio aspetto fisico e un’azione impegnata svolta in quella direzione è stata trascorrere una giornata per sé, all’insegna della propria bellezza, tra parrucchiera, estetista etc., con l’aiuto dell’Associazione di Volontariato “Ali Rosa”.

Infine, l’intervento si è concluso con una citazione:

Mhannia: “Rosy io ho tanta tanta paura di morire…”
Dott.ssa Campagna: “Non sappiamo ciò che accadrà, ma qualsiasi cosa accada io sarò qui con te…”

ACT e adolescenza: il programma DNA-V

Dopo di che, gli psicologi e psicoterapeuti Francesco Dell’Orco e Antonella Ferrara hanno introdotto il programma DNA-V, aprendo a una riflessione sull’adolescenza: la domanda non è come curare l’adolescenza, ma su quali processi si può lavorare in modo che un individuo che sta attraversando questa fase possa crescere in modo sano.

Il DNA-V è un modello per l’intervento psicologico in ambito educativo e clinico con adolescenti e giovani adulti, sviluppato da L. Hayes e J. Ciarrocchi (2017). Esso affonda le sue radici nella scienza contestualista-funzionale e utilizza l’ACT per trovare soluzioni ai problemi dei giovani di oggi, promuoverne la crescita e lo sviluppo anche in situazioni di difficoltà. L’acronimo DNA-V descrive tre classi funzionali di comportamento (Figura 3):

  • Esploratore (Discoverer): ampliare i nostri repertori comportamentali e riconoscere se quello che stiamo facendo funziona o no (conseguenze del nostro comportamento sul contesto);
  • Osservatore (Noticer): notare il proprio mondo interno e accoglierlo con un atteggiamento aperto e non giudicante;
  • Consulente (Advisor): prendere distanza dai propri pensieri (defusione), riconoscerli, dare loro un nome, e riconoscere se sono utili nel proprio agire.

Tutti e tre al servizio dei Valori (-V).

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 3

L’ACT nell’intervento LIBET

L’ultimo intervento è stato sostenuto dal dott. Luca Calzolari, psicologo e psicoterapeuta, il quale ha brevemente discusso dell’ACT come tecnica all’interno dell’intervento LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased beliefs, elicitation and treatment) e sull’importanza di focalizzarsi sui valori. In particolare, l’ACT è basata sull’idea che la psicopatologia sia la conseguenza di tentativi controproducenti di sopprimere o evitare stati interni, allontanando la persona dal perseguire i propri valori. Questo avviene perché ciò su cui decidiamo di focalizzarci è ciò che crescerà; pertanto, se una persona tende a focalizzarsi prevalentemente sulle proprie preoccupazioni, le alimenterà ulteriormente. Al contrario, se ci focalizziamo su ciò che per noi è importante, sui nostri valori, questi cresceranno sempre di più.

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 4

Il dott. Calzolari ha poi elencato le fasi della terapia LIBET-oriented:

  • formulazione e condivisione;
  • intervento sui sintomi;
  • intervento sui piani: utilità;
  • intervento sui piani: incontrollabilità;
  • intervento sui temi: condizionamento e intollerabilità;
  • costruire nuovi scopi.

Proprio nel corso dell’ultima fase viene affrontata la domanda: che tipo di persona vorresti essere se non lottassi con quel dolore? Ed è qui che ha luogo la connessione con i Valori come processo proprio dell’ACT.

Attraverso un approccio maggiormente esperienziale nell’indagine e nell’esplorazione dei valori, il dott. Calzolari ha concluso sottolineando l’importanza della costruzione di nuovi scopi di vita maggiormente flessibili.

 

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Reflect – Recensione del nuovo corto della Disney

“Reflect”, diretto da Hillary Bradfield, è il nuovo corto della Disney che in pochi minuti affronta in modo potente e diretto il tema dell’accettazione di sé, oltre i pregiudizi e l’ideale di magrezza così diffuso e interiorizzato nella nostra cultura. 

 

La protagonista è Bianca, una giovane ballerina con un corpo non conforme agli standard (irrealistici) comunemente richiesti dal mondo della danza.

Il corto si apre con la protagonista che danza da sola, è brava, ha talento e si diverte a fare quello che fa. L’incanto si rompe quando arrivano i compagni e l’insegnante. Iniziano gli esercizi alla sbarra e alle parole di ammonimento dell’insegnante “pancia in dentro e collo lungo” il riflesso di Bianca si frantuma e diventa mostruoso e angosciante. Bianca però non si lascia sopraffare, continua a danzare ed è nella danza che trova le risorse affinché il suo riflesso non sia più condizionante e determinante.

Il messaggio è potente: il valore personale non è legato al peso e alla forma del corpo ed è possibile andare oltre i pregiudizi e le richieste irrealistiche della società e accettarsi per come si è, senza giudizio.

Il corto porta quindi alla luce un tema fondamentale: le persone con corpi non conformi subiscono quotidianamente pregiudizi connotati da credenze che le dipingono come pigre, negligenti, senza volontà, senza talento. Tali stereotipi rendono queste persone vittime di atteggiamenti discriminatori da parte di insegnanti, datori di lavoro, personale medico, familiari, amici e conoscenti e ciò può portarle a interiorizzare lo stigma sul peso, potrebbero cioè finire per credere che il peso sia controllabile, che sia qualcosa di influenzabile con la volontà, con conseguenti sentimenti di colpa e svalutazione di sé e comportamenti estremi di controllo del peso e della forma del corpo.

I media sono molto influenti rispetto allo sviluppo di determinati atteggiamenti e pregiudizi e purtroppo a lungo hanno proposto una rappresentazione del corpo impregnata di stereotipi: le persone con obesità per esempio sono state spesso rappresentate come persone che mangiano cibo spazzatura e che sono pigre. Vengono invece proposte come di successo, attraenti e interessanti le persone con corpi caratterizzati dalla magrezza.

Tali rappresentazioni mediatiche rafforzano stereotipi che alimentano lo stigma del peso. È pertanto necessario un impegno per spostare la narrazione del peso e del corpo da una narrazione pervasa di pregiudizi a una equa, accurata e non stigmatizzante.

Il corto della Disney sembra essere un piccolo passo per mettere in discussione quella rappresentazione basata su modelli irraggiungibili di irrealistica perfezione che, in molte persone, continua a creare una sofferenza tale da portarle a rinunciare ai propri sogni e ai propri talenti.

 

Complessità e fragilità nelle relazioni amorose online

Nelle relazioni online assistiamo a quella che Wallace (2017) definisce “mentalità da shopping”. Il corteggiamento online è qualcosa di soddisfacente e spesso avviene con più persone contemporaneamente, appagando il bisogno di approvazione e di sentirsi desiderati.

 

Siamo naturalmente portati a instaurare legami con altre persone. Dal filosofo Aristotele nel IV sec a.C. fino ad oggi sono moltissimi gli autori e le ricerche che sottolineano questo aspetto della natura umana.

La ricerca di relazioni è da sempre parte delle nostre vite, ma le modalità con cui si creano e mantengono i legami sono cambiate notevolmente nel corso del tempo.

In questo articolo cercheremo di approfondire l’evoluzione delle relazioni amorose e le caratteristiche essenziali delle varie fasi della coppia in una società dove le tecnologie rivestono un ruolo centrale anche nella costruzione dei legami affettivi.

Negli ultimi decenni, grazie ai Social Network e alle applicazioni per incontri, è stato possibile creare e sviluppare legami in assenza di confini spaziali e temporali; di conseguenza il modo di conoscere un partner, di vivere un legame intimo e la sessualità stessa sono stati completamente stravolti.

I locali, le piazze, i bar non sembrano più essere i luoghi dedicati alle interazioni umane che si svolgono oggi all’interno di applicazioni in questo nuovo mondo “Social”.

Alcune di queste applicazioni sono pensate proprio per facilitare relazioni intime che permettano di appagare il bisogno di sentirsi riconosciuti e di percepirsi come importanti e speciali nella mente dell’altro; bisogni umani non diversi dal passato ma ricercati in una modalità completamente nuova.

Molto spesso il corteggiamento avviene tramite “like”, una modalità molto più rapida rispetto al passato, adatta anche a corteggiare un numero elevato di persone contemporaneamente.

L’assenza di uno spazio fisico infatti permette l’esplorazione di un numero potenzialmente infinito di luoghi senza limiti di distanze, di tempo e, di conseguenza, un numero infinito di persone da conoscere.

Inevitabilmente il vivere così tanto la dimensione online ci porta però a non allenare le competenze sociali interpersonali come nel passato.

Si pensi, per esempio, ad un primo incontro che non sta andando come sperato. L’altra persona ti sta annoiando, capisci che non vuoi averci a che fare e l’unico desiderio che hai è quello di essere da tutt’altra parte. Con molta probabilità, avendo un individuo di fronte, sarebbe difficile andarsene senza dire una parola, ma si cercherebbe il modo più consono e socialmente adeguato per allontanarsi. Il vedere nella realtà l’altra persona permette quindi di mettere in campo e di sviluppare preziose risorse psicologiche e sociali, contribuendo di fatto a incrementare autostima, autoefficacia e capacità di gestione emotiva (Schore, 2003). Molto spesso invece, nelle relazioni online, in una situazione di noia o in cui le cose non stanno andando come sperato, si può interrompere la conversazione, come vedremo più avanti, a volte senza nemmeno un saluto.

Riprendendo quanto detto sopra le persone hanno bisogno di sentirsi riconosciute e di percepirsi come importanti e speciali nella mente dell’altro; che effetto può avere vivere l’esperienza di qualcuno che sparisce improvvisamente durante una conversazione senza nessuna ragione apparente?

Le fasi dell’amore e della coppia

In accordo con Gambini (2007) possiamo individuare quattro fasi nella formazione dell’identità della coppia: Innamoramento, Disillusione, Negoziazione, Amore.

Questo andamento è possibile anche online ma con alcune particolari caratteristiche.

L’innamoramento

L’innamoramento è caratterizzato da una passione travolgente iniziale per lo più “egocentrata”, ma destinata a spegnersi con il tempo e a scontrarsi con la realtà.

Online: durante questa fase, regna sovrana l’idealizzazione reciproca, in cui si amplificano le somiglianze e si trascurano le differenze. L’altro viene investito di forti connotati affettivi e diviene la fonte di gratificazione dei propri bisogni emotivi, di appartenenza, di protezione e di riconoscimento, è molto facile trovare nell’altro proprio quello di cui si ha bisogno. Ci si ritrova all’interno di un patto implicito “segreto”, su una base inconscia e narcisistica (Gambini, 2007).

La disillusione

La disillusione è un processo naturale, in cui la visione di perfezione dell’altro lascia il posto alla realtà e si vede la persona per quello che è e non per quello che vorremmo fosse. Questo passaggio è fondamentale per poter porre le basi per la costruzione di un rapporto solido e stabile.

Online: nel mondo dei social media le relazioni online vivono un più rapido processo di disillusione nel momento dell’incontro di persona. In pochi istanti può crollare tutto l’immaginario autogenerato di idealizzazione dell’altro come perfetto per soddisfare i propri bisogni. Questo viene amplificato dal tempo in cui la relazione si è mantenuta esclusivamente online.

Ad esempio: se messaggiate con una persona da poco tempo e organizzate un incontro di persona, si ridurrà l’ampiezza dell’illusione che si viene a creare. Al contrario, una conoscenza virtuale che perdura per molti giorni o mesi implicherà un’idealizzazione molto forte e difficilmente affine alla realtà, facilitando così il fallimento dell’incontro di persona.

La negoziazione

La negoziazione: è la fase in cui subentrano le classiche discussioni del “tu sei cambiat*!” “tu mi hai mentito, mi dicevi che…”, “all’inizio non eri così con me” ecc…, vengono frantumate tutte le proprie fantasie proiettate sull’altro durante la fase di idealizzazione, che per forza di cose sono state deluse.

Nel decidere, quindi, le sorti della relazione ci saranno due possibilità: la chiusura della relazione o prendere atto delle differenze e costituire una nuova relazione basata sull’accettazione.

Online: la conoscenza tramite una chat facilita molto di più l’idealizzazione del partner e, come detto, è ancora più difficile accettare il “cambiamento” e passare alla visione dell’altro non più come “perfettamente adatto al soddisfacimento dei propri bisogni”. Infatti, uno dei possibili rischi è che al momento dell’incontro fisico l’ampiezza dell’immagine idealizzata, creata durante le conversazioni online, sia talmente elevata da non poter minimamente paragonarsi all’immagine reale. Di conseguenza, si creerà una delusione spropositata difficilmente tollerabile, preferendo così passare ad un’altra conoscenza stimolante, eccitante ma soprattutto meno impegnativa piuttosto che impegnarsi nella fase di negoziazione e accettazione dell’altro.

L’amore

Per quanto il concetto di amore sia davvero difficile da definire si potrebbe dire che una coppia stabile e matura si caratterizza dalla presenza di differenziazione e accettazione.

La consapevolezza dei propri sentimenti, un senso di realtà più adeguato, anche una normalizzazione dei livelli ormonali, sono caratteristiche tipiche dell’avvenuto passaggio al patto esplicito “dichiarato”, in cui una maggiore conoscenza di sé e dell’altro consente progettualità e stabilità nella relazione.

L’amore è qualcosa che si costruisce insieme gradualmente tra le diverse prove della vita quotidiana. Nell’amore sono richiesti l’impegno e la capacità di accettare le differenze l’uno dell’altro.

Per come funzionano le comunicazioni tecnomediate, la possibilità che questo processo possa avvenire in una relazione esclusivamente online sembra poco probabile, in questo caso il sentimento di amore provato potrebbe essere riferito più a se stessi e alle proprie fantasie che all’accettazione delle differenze con l’altro.

Come afferma Veneruso (2019) quando la conoscenza rimane prevalentemente sui social, allora sarà molto più difficile spostare la relazione al di fuori e si rimarrà all’interno di una bolla protettiva per il proprio sé.

Mentalità da shopping

Nelle relazioni online assistiamo a quella che Wallace (2017) definisce “mentalità da shopping”. Il corteggiamento online è qualcosa di soddisfacente e spesso avviene con più persone contemporaneamente, appagando il bisogno di approvazione e di sentirsi desiderati. Delle volte la semplice pigrizia si adatta alla vasta possibilità di alternative presenti negli ambienti online inducendo le persone a non compiere degli sforzi per conoscere meglio una persona, ma interrompendo la frequentazione laddove si sia verificato qualche piccolo attrito. Ed è così che con uno “switch” si passa a un altro utente (un po’ come quando si sceglie che serie tv guardare la sera). Questo può accadere anche nelle relazioni tradizionali, ma in quelle online il fenomeno viene amplificato notevolmente.

C’è poi una predilezione di modalità sempre meno empatiche per concludere le relazioni interpersonali. È probabile che l’assenza dell’altro davanti a sé, offerta dai social media, porti a evitare confronti e spiegazioni e legittimi la scelta improvvisa di bloccare, ignorare o cancellare dai contatti qualcuno tramite un semplice “Click”. L’aspetto negativo è che tutto questo sta diventando una pratica comune e giustificata, senza prendere in considerazione tutti gli effetti che possono riversarsi sull’altro.

Infine, è fondamentale sottolineare come Internet sia stato promotore di nuovi metodi per l’esplorazione sessuale, elevando il concetto di espressione della sessualità e dell’erotismo attraverso il cybersex. Quest’ultimo prevede un tipo di eccitazione non correlata al corpo e al contatto fisico, ma piuttosto alle immagini, al tono di voce e allo scambio di messaggi di tipo erotico (un classico esempio è il sexting). I meccanismi attivati all’interno di questa realtà virtuale sono numerosi, legati alla maggior disinibizione, alla minore ansia e agitazione, alla mancanza della corporeità dell’altro che la situazione virtuale garantisce (Cirillo e Scodeggio, 2019). Internet ha di fatto permesso di abbattere i limiti spazio-temporali anche nella sfera sessuale rispondendo alle esigenze delle coppie a distanza.

La necessità di nuove definizioni

I cambiamenti connessi alla modalità online di creare, gestire e concludere i legami hanno caratteristiche così specifiche rispetto al passato che si rende necessario l’utilizzo di nuovi termini e definizioni.

Alcuni di questi termini sono già riconosciuti e utilizzati nella letteratura scientifica altri ancora sono oggetto di studio e valutazione, i più noti sono i seguenti.

  • Ghosting, ossia divenire un fantasma: interrompere una qualsiasi relazione (intima, amicale, lavorativa) senza dare alcuna spiegazione o preavviso, ma sparendo all’improvviso. Il ghosting è attuato prevalentemente tramite chat su qualsiasi social media (Whatsapp, Facebook, Snapchat, Instragram) e in qualsiasi momento del giorno e della notte. È evidente come una scelta simile si configuri come un atteggiamento poco empatico, con importanti conseguenze sia su chi lo subisce sia su chi lo attua (Le Febvre et al., 2019; Freedman et al., 2018).
  • Zombieing è strettamente correlato al ghosting e indica il ritorno attivo del ghoster nella vita della propria vittima, attraverso messaggi e continue interazioni. Dietro a questo atteggiamento vi è la volontà di riprendere la relazione e comunicare il proprio pentimento.
  • Breadcrumbing, letteralmente “briciole di pane”: una relazione che di fatto continua senza trasformarsi in qualcosa di concreto, limitandosi a chiamate, like e chat. L’individuo viene trattenuto da una presenza ubiquitaria fatta di messaggi, visualizzazioni, commenti, rimanendo letteralmente “imbrigliato” nel legame (Navarro et al., 2020) e nutrendo la continua speranza che presto possa diventare più intimo, senza che questo possa realmente accadere.
  • Benching, “mettere in panchina”: temporeggiare con una persona in modo da prendere il tempo per valutare o garantirsi un’opzione sicura.
  • Cuffing, “ammanettare”: un atteggiamento messo in pratica quando, in periodi in cui si avverte un maggior senso di solitudine, ci si rivolge a qualcuno perché disponibile e solo per distrarsi un po’, sessualmente o per passare il tempo (Spaccarotella, 2020).
  • Orbiting, “orbitare”: tramite la ripresa di like e commenti una persona irrompe nuovamente nella vita di un ex per dire “c’è ancora attenzione per te”, pur non avendo realmente l’intenzione di impegnarsi in una relazione. L’artefice mette in atto condotte passivo-aggressivo (come ignorare i messaggi, ma lasciare un “mi piace” al post pubblicato) creando nel destinatario molta ambiguità e insicurezza. In questo modo, può avere il controllo sulla vittima e sulla situazione senza esserne invaso (Veneruso, 2019).
  • Haunting, “presenza ossessiva”: rappresenta il tentativo di mantenere una costante e indiretta presenza virtuale nei confronti di una persona con cui si ha avuto una relazione. Nei profili social l’haunting si palesa innocentemente attraverso like sotto a tutte le foto e commenti ai post pubblicati, divenendo, tuttavia, un atto continuo e sempre più massiccio. É una pratica che può celare una vera e propria ossessione e può generare confusione e timore a chi ne è bersaglio. In alcuni casi più gravi, l’haunting può essere paragonato quasi allo stalking.

Nell’ampia gamma di relazioni che si sviluppano online e non, è difficile valutare quanto i rapporti siano fragili o al contrario fortemente stabili. La preoccupazione dominante è che l’interfacciarsi con uno schermo abbia fatto in modo che si sviluppi un amore prettamente narcisistico, che si dimentica della presenza e del ruolo dell’altro.

Affidarsi, in amore, non vuol dire “sto con te perché così sto meglio”, perché questo intenderebbe solo una gratificazione dei propri bisogni narcisistici, ma è un affidarsi all’altro con naturalezza e spontaneità, attraverso il ritrovamento e rinnovamento di se stessi nell’altro (Veneruso, 2019). Oggi sembra divulgarsi, invece, la tendenza ad una tipologia di amore più improntata su di sé, sulle gratificazioni che l’altro può offrire, cercando di rifuggire alla frustrazione per un benessere immediato ed esclusivamente egocentrato. La superficialità e l’instabilità interpersonale che interessa la condizione attuale, sembrerebbe essere fortemente connaturata con la natura stessa della rete.

Bauman (2006) sottolinea come la solitudine generi tristezza, ma anche l’essere in una relazione sentimentale caratterizzata dalla netta contrapposizione tra il desiderio delle emozioni e la paura di perdere la propria libertà. Questo conflitto, nei rapporti moderni, ha portato a evitare affetti più stabili, affinché non si debbano affrontare i costi e le responsabilità che ne derivano, mantenendo sempre alta la possibilità di scelta sentimentale. Tutto questo sembra essere lontano dai bisogni da cui siamo partiti a inizio discorso, ma sembra portare a un parziale soddisfacimento di bisogni vitali, il cui mancato soddisfacimento porta l’individuo a ricercare attivamente qualche tipo di soluzione. È possibile che sia sempre più difficile assumersi responsabilità in una relazione e si rifugga dalla stabilità, vista come monotona, poco stimolante e impegnativa? Difficile dirlo con certezza, ma è impossibile non notare i cambiamenti della nostra società.

Questo articolo vuole essere una riflessione su come sono cambiate le relazioni negli ultimi anni e quali direzioni stiano prendendo. A questo punto la domanda sorge spontanea: è necessario fare qualcosa per invertire la rotta o seguiremo la via di una realtà sempre più individualista e di una sessualità tecnologicamente appagante?

 

 

L’ipermentalizzazione ed il disturbo borderline di personalità

Il lavoro condotto da McLaren et. al (2022) ha revisionato differenti studi che analizzavano l’associazione tra mentalizzazione e differenti psicopatologie, con l’obiettivo di valutare la forza dell’associazione tra ipermentalizzazione e disturbo borderline di personalità rispetto ad altri disturbi. 

 

Le caratteristiche del disturbo borderline di personalità

 Il disturbo borderline di personalità è un disturbo mentale caratterizzato da un modello di relazioni caotiche, disturbo dell’identità, impulsività e difficoltà nella regolazione emotiva.

Un altro aspetto rilevante riguarda l’alto rischio suicidario dei pazienti con diagnosi borderline, circa 50 volte superiore a quello della popolazione generale (Skodol et al., 2002).

Una delle caratteristiche principali del disturbo borderline di personalità riguarda la compromissione in ambito interpersonale; le relazioni sentimentali ed amichevoli degli individui con diagnosi di disturbo borderline di personalità, rispetto alle relazioni di individui non affetti da questo disturbo, presentano un maggior numero di relazioni interrotte, conflitti, insoddisfazione relazionale ed abusi (Clifton et al., 2007; Daley et al., 2000).

La centralità dei problemi interpersonali per le persone con questo disturbo influenza la cognizione sociale, ovvero il processo che permette di pensare ai pensieri, alle intenzioni, ai sentimenti, agli atteggiamenti e alle prospettive altrui (Sharp & Fonagy, 2008).

Tuttavia, determinati studi sul riconoscimento delle emozioni nei pazienti con il disturbo borderline di personalità non indicano un deficit nel riconoscimento delle emozioni positive o negative relative ai volti; il risultato rilevante si riscontra con l’introduzione di caratteristiche di incertezza, attraverso volti neutri o ambigui, e di caratteristiche di complessità, attraverso la fusione dei volti con caratteristiche prosodiche: in questi casi i soggetti affetti dal disturbo risultano essere meno accurati nel riconoscimento delle emozioni (Daros et al., 2013; Richman & Unoka, 2015).

Gli stessi risultati si rilevano in altri costrutti socio-cognitivi, come l’empatia e la fiducia, che risultano essere compromessi solo di fronte a compiti complicati, ambigui o carichi emotivamente (Sharp & Vanwoerden, 2015).

La compromissione socio-cognitiva caratteristica degli individui con diagnosi borderline, oltre che essere compromessa, risulta essere caratterizzata da un’eccessiva attribuzione di intenzioni e di pensieri agli altri (Sharp et al., 2011), portando gli individui ad ipotesi imprecise che non prendono in considerazione le reali evidenze (Sharp & Vanwoerden, 2015).

L’ipermentalizzazione

Per la comprensione di queste caratteristiche, Sharp e colleghi (Sharp, 2014; Sharp & Vanwoerden, 2015) hanno introdotto il costrutto dell’ipermentalizzazione. La mentalizzazione si riferisce alla capacità immaginativa di riflessione sugli stati mentali propri ed altrui ed è uno dei meccanismi alla base delle interazioni interpersonali (Allen et al., 2008); una mentalizzazione ottimale richiede un equilibrio ed una flessibilità tra differenti caratteristiche (Satpute & Lieberman, 2006): tra automatico (mentalizzazione emotiva e priva di attenzione) e controllato (mentalizzazione più lenta e che richiede intenzionalità), tra cognitivo (mentalizzazione che si basa sull’utilizzo dei pensieri) e affettivo (mentalizzazione che utilizza maggiormente le emozioni), tra sé (l’automentalizzazione, quella della propria mente) e l’altro (riferita alla mentalizzazione delle menti altrui), tra interno (mentalizzazione basata sull’esperienza interna) ed esterno (mentalizzazione basata su indizi osservabili, come per esempio le espressioni facciali).

 Il modello dell’ipermentalizzazione prevede che gli individui con diagnosi di disturbo borderline di personalità abbiano una mancanza di flessibilità e di equilibrio tra le diverse caratteristiche della mentalizzazione; in particolar modo questo deficit si amplifica in situazioni di iperattivazione emotiva e in situazioni complesse, riducendo la capacità di automonitoraggio e di mentalizzazione flessibile e mostrando una mentalizzazione non adeguata al contesto. L’ipermentalizzazione è caratterizzata da “eccessive inferenze contorte basate su indizi sociali” (Fonagy et al., 2015); un esempio potrebbe essere raffigurato dalla visione di un amico triste da parte di un individuo ipermentalizzato: l’ipermentalizzazione dell’individuo potrebbe portarlo a pensare che la causa della tristezza dell’amico sia da attribuire a sé stesso.

Queste attribuzioni mentali portano ad un aumento dell’iperattivazione emotiva che a sua volta aumenta di conseguenza l’ipermentalizzazione, creando un circolo vizioso (Bo et al., 2017; Fonagy et al., 2015).

Il lavoro condotto da McLaren et. al (2022) ha revisionato differenti studi che analizzavano l’associazione tra mentalizzazione e differenti psicopatologie, con l’obiettivo di valutare la forza dell’associazione tra ipermentalizzazione e disturbo borderline di personalità rispetto ad altri disturbi.

Dallo studio, sia la diagnosi borderline di personalità che le altre psicopatologie sono risultate associate all’ipermentalizzazione, senza però un riscontro riferito alla specificità dell’ipermentalizzazione nel disturbo borderline di personalità.

Questi risultati potrebbero essere stati influenzati dalla tipologia di test utilizzato per la misurazione della mentalizzazione, il MASC (Dziobek et al., 2006), un test che non prende in considerazione scenari di rilevanza personale per i partecipanti.

Questo potrebbe aver influito poiché, come detto in precedenza, l’ipermentalizzazione nei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità si attiva in particolari situazioni di complessità e di iperattivazione emotiva.

Nonostante ciò, i riscontri che confermano l’associazione tra psicopatologia in generale e ipermentalizzazione supportano l’utilizzo transdiagnostico di trattamenti psicoterapeutici basati sulla mentalizzazione, come MBT (Trattamento basato sulla Mentalizzazione) (McLaren et al., 2022).

 

Comportamento sessuale inappropriato nella demenza – FluIDsex

Considerando che un numero significativo di persone anziane dichiara di essere ancora sessualmente attivo, è evidente considerare e cercare di capire come una categoria specifica di persone anziane, quelle affette da demenza, possa manifestare il comportamento sessuale.

 

 Quando si parla di sessualità e di comportamento sessuale nelle persone anziane ci sono diverse visioni e convinzioni condivise dalla società che, tuttavia, risultano essere il prodotto di pregiudizi e di pensieri stereotipati. Brogan (1996) ha affermato che le persone anziane, nella convinzione sociale, sarebbero asessuate.

Drench e Losee (1996) mettono anche in luce che “l’anziano che si discosta dallo stereotipo e desidera una vita sessuale attiva potrebbe essere deriso come sciocco (definito come ‘vecchio sporcaccione’)”.

La sessualità delle persone anziane è percepita come inesistente, come fonte di umorismo o, ancora, come moralmente disgustosa (Cipriani et al., 2016; Kessel, 2001). A supportare tali visioni, Brogan (1996) chiarisce che dietro vi sia il falso presupposto che l’attrazione fisica dipenda, esclusivamente, dalla giovinezza e dalla bellezza. Si può, quindi, affermare che c’è una tendenza sociale evidente a far corrispondere la sessualità e il comportamento sessuale con l’ideale di giovinezza, di bellezza e, più in generale, di condizione di buona salute. Di conseguenza, è altrettanto evidente che l’ideale di vecchiaia lascia spazio a visioni stereotipate e pregiudizi sociali che non accolgono un’espressione appropriata della sessualità e dei suoi comportamenti. Contrariamente a quello che emerge da queste convinzioni, ricerche sulla sessualità negli anziani hanno evidenziato che il 73% delle persone nella fascia di età compresa tra i 57 e i 64 anni, il 53% di quella compresa tra i 65 e i 74 anni e il 26% di quella compresa tra i 75 e gli 85 anni hanno dichiarato di essere sessualmente attivi (Galinsky et al., 2014; Lindau et al., 2007; Waite et al., 2009).

Considerando che un numero significativo di persone anziane dichiara di essere ancora sessualmente attivo, è evidente considerare e cercare di capire come una categoria specifica di persone anziane, quelle affette da demenza, possa manifestare ogni sorta di comportamento sessuale.

Come riescono le persone anziane affette da demenza ad esprimere la propria sessualità?

Quando si parla di demenza si intende una manifestazione sintomatologica rappresentata da alcune difficoltà: memoria, comunicazione e linguaggio, problem-solving e altre abilità cognitive (tra cui la capacità a concentrarsi e a prestare attenzione, il ragionamento e il giudizio, la percezione visiva), che interferiscono con lo svolgimento delle attività quotidiane (Alzheimer’s Association, 2021; Torrisi et al., 2017).

Ci sono diverse forme demenza: la più comune è la demenza di Alzheimer (AD) che rappresenta fino al 70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (VaD) che conta il 25% dei casi, dalla demenza a corpi di Lewy (LBD) che si aggira intorno al 15% dei casi, e dalla demenza frontotemporale (FTD) che comprende tra il 5% e il 10% dei casi (Alzheimer’s Association, 2021; Torrisi et al., 2017).

Negli anziani affetti da demenza, il deterioramento cognitivo, il peggioramento della capacità di giudizio e le alterazioni della personalità determinano cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento sessuale tra i quali, i più comuni segnalati, sono apatia e indifferenza al sesso (De Giorgi e Series, 2016; Derouesné et al., 1996).

Tuttavia, è necessario aggiungere che, in molte forme di demenza, è stato anche riscontrato e descritto ciò che viene definito come “comportamento sessuale inappropriato” (ISB, dall’inglese “inappropriate sexual behavior”). Questo comportamento è caratterizzato da un atto verbale o fisico di natura sessuale esplicita o percepita, che è considerato inaccettabile all’interno del contesto sociale nel quale viene manifestato (Johnson et al., 2006; Tsai et al., 1999).

 La frequenza del comportamento sessuale inappropriato (ISB) nelle persone con demenza varia dal 7 al 25%, con una prevalenza più elevata nei residenti delle case di riposo e nei pazienti con un deterioramento cognitivo più grave (Burns et al., 1990; De Giorgi e Series, 2016; Szasz, 1983). Inoltre, le manifestazioni fisiche sembrano essere più frequenti nei maschi, mentre nelle femmine sembrano esserci maggiori manifestazioni verbali (De Giorgi e Series, 2016).

Il comportamento sessuale inappropriato provoca spesso sentimenti di ansia, imbarazzo o disagio nei caregiver e il risultato di ciò contribuisce ad un’interruzione della continuità dell’assistenza al paziente a casa portando, in questo modo, al confinamento a domicilio o all’inserimento in una casa di riposo (Wallace e Safer, 2009).

Comportamenti sessuali inappropriati in persone con demenza

Per comprendere meglio le rappresentazioni e le manifestazioni del comportamento sessuale inappropriato, è opportuno soffermarsi su alcune classificazioni individuate e, in particolare, Szasz (1983) suggerisce che questo comportamento include:

  • Parlare di sesso, ovvero l’utilizzo di un linguaggio scurrile non in linea con la personalità premorbosa del paziente;
  • Atti sessuali, come toccare, afferrare, esibire o masturbare, che possono manifestarsi in privato o in pubblico;
  • Atti sessuali impliciti, ovvero lettura pubblica di materiale pornografico o richiesta di cure genitali non necessarie.

Una seconda classificazione del comportamento sessuale inappropriato è fornita in relazione all’oggetto della gratificazione sessuale ed è distinta in “convenzionale” (se coinvolge interessi culturalmente e socialmente sanciti) e “non convenzionale” o “parafiliaca” (se l’oggetto sono bambini, animali e persone non consenzienti; Cipriani et al., 2016).

Emergono, da queste classificazioni, due temi importanti da tenere presenti. Il primo riguarda l’appropriatezza del comportamento sessuale, mentre il secondo riguarda il contesto nel quale esso viene esibito.

Il concetto di “appropriatezza” varia a seconda degli individui e può essere influenzato da molti elementi, come, per esempio, le credenze religiose o lo sguardo prevalente della società nei confronti delle persone anziane (De Giorgi e Series, 2016).

Lawrie e Jillings (2004) mettono in luce, inoltre, l’importanza di considerare l’appropriatezza o l’inappropriatezza di un comportamento sessuale valutandola all’interno di contesto più ampio, gestendo, in questo modo, i fattori che vi contribuiscono, come la noia, la solitudine o i gesti di comunicazione mal interpretati.

Le persone con demenza possono, infatti, sentirsi distaccate dagli altri e possono aver perso la capacità di parlare o di comunicare i propri desideri e bisogni (Higgins et al., 2004).

Comportamenti come spogliarsi in pubblico o toccarsi i genitali possono essere mal compresi quando, in realtà, possono essere il risultato di dolore, disagio, ipertermia o tentativi di liberarsi da misure di contenimento (Cipriani et al., 2016; Johnson et al., 2006).

Alla luce di quanto esposto, si osserva quanto i comportamenti sessuali inappropriati causino sofferenza nei pazienti e in chi se ne prende cura, sebbene i comportamenti sessuali inappropriati siano poco comuni rispetto ad altre problematiche comportamentali (Torrisi et al., 2017).

Non è facile prendersi cura di persone che manifestano comportamenti che provocano disagio e sofferenza, ma nei pazienti affetti da demenza, dove il deterioramento cognitivo comporta una serie difficoltà di comunicazione e, quindi, di espressione dei propri bisogni, la riflessione e la valutazione di questi comportamenti diventa fondamentale e indispensabile per la cura stessa.

 

Madri che feriscono (2019) di Anna-Laure Buffet – Recensione

“Madri che feriscono” è uno degli ultimi libri di Anna-Laure Buffet, terapeuta, consulente individuale e familiare specializzata nell’assistenza alle vittime di abuso psicologico. Fondatrice dell’Associazione CVP – Contre la Violence Psychologique.

 

 È un libro che va contro corrente, contro gli stereotipi che vogliono nell’inconscio della collettività la sottomissione alla venerazione della madre vista come una divinità a cui si deve sempre rispetto e amore incondizionati, pena senso di colpa, vergogna, stigma per aver tradito l’amore filiale.

Da queste considerazioni quindi, scaturisce la falsa credenza di essere un figlio cattivo e di conseguenza indegno e inutile.

Tema dell’opera è la violenza perpetrata sui figli da madri tossiche, non tanto violenza fisica quanto verbale ed emotiva, che è assai più subdola e, pertanto, non riconosciuta agli occhi esterni, che ha come caratteristica quella di “produrre effetti nefasti, con una forza intensa, spesso brutale e distruttiva” e che “nel breve e lungo periodo, genera blocchi, impedimenti, disabilità, sensi di colpa, dubbi, paura, vergogna, domande incessanti, difficoltà o persino impossibilità ad avere stima di sé, a sentirsi vivi, persino a sentirsi autorizzati ad agire o a pensare” (Buffet, 2019, p.18).

Lo stile narrativo è coinvolgente e accattivante, poiché interroga il lettore, lo rende spettatore dei casi descritti, permette di entrare nel problema, nel vissuto di chi come vittima ha dovuto subire le angherie e i soprusi di quella che avrebbe dovuto essere il porto sicuro: la madre.

La Buffet tiene alta l’attenzione raccontando le storie di donne e uomini che ce l’hanno fatta, di chi sta provando ad uscirne, e di chi invece, nonostante gli aiuti, non riesce ad accettare la mancanza e la violenza materna. Si cita “Desperate Housewives”, in cui si parla del prototipo della madre perfetta impersonata da Bree Van De Kamp, personaggio creato per denunciare il modello perfezionista, e nello stesso tempo colpevolizzante, per tutte quelle donne che non seguono gli stessi canoni sociali.

Nell’opera si accenna anche al rapporto con il padre che tiene, direttamente o indirettamente, il gioco alla madre e che è spesso negato o violento, assente o incestuoso.

Lo scopo del libro è dare voce ai bambini feriti e agli adulti che sono o che diventeranno, incoraggiandoli a parlare in maniera libera della madre che li ha feriti, di sé stessi e dei maltrattamenti subiti, al fine di avere l’opportunità di scoprire la propria autenticità, riuscendo a vivere finalmente la vita priva di condizionamenti, evitando così di riprodurre il modello negativo.

Propongo la lettura del libro poiché permette di entrare nel vivo delle diverse storie personali e aiuta a capire i meccanismi che determinano il maltrattamento materno.

 Nonostante a volte si riconosca la madre come maltrattante, ciò non basta per guarire, proprio perché fra madre e figlio si è instaurato e perpetuato per anni un legame tossico. Secondo l’autrice la consapevolezza arriva rompendo non solo con la madre, ma anche con quei modelli che ha trasmesso e che sono stati interiorizzati, elaborando il lutto e, infine, rimanendo nel dolore dopo la rottura.

Anna-Laure Buffet indica delle strategie per recuperare autonomia e fiducia in sé stessi, per elaborare il lutto della madre idealizzata, liberando così il proprio sé e le proprie risorse relazionali ed affettive.

Ritengo importante quest’opera perché ognuno, in base al proprio vissuto può riuscire a dare un significato, un nome alla propria sofferenza e voce al proprio urlo di dolore.

Dà inoltre diritto alla persona di potersi liberare dalle emozion di colpa, vergogna, rabbia e dà la spinta per potersi realizzare in tutte le sfere della vita in base al contesto in cui vive, le persone che frequenta, la propria personalità, le proprie ambizioni e i propri mezzi e risorse. Ognuno darà la risposta che potrà e, in ogni caso, trarrà giovamento: alcuni in campo professionale, altri in ambito sociale, altri ancora famigliare o in quelle attività che permetteranno di vedersi restituito ciò che non è stato ricevuto.

È un libro da leggere e da riprendere al bisogno, potrebbe essere utile in tutti quei momenti in cui ci si sente insicuri, frustrati e si ha bisogno di condividere queste fragilità con qualcuno da cui ci si sente compresi.

 

Bulbi e bitcoin: storie passate e presenti di fiori e denari

Il presente articolo affronta la tematica delle criptovalute e intende illustrare come –al di là dei tempi, del contesto, degli eventi– al centro di ogni bolla speculativa ci sia sempre la psicologia dell’individuo.

 

Introduzione

 Fiducia e ottimismo vengono valutati generalmente come nobili sentimenti, ma molto meno spesso nella finanza, soprattutto in quelle plaghe dove si annida l’avventura speculativa. Tali stati emotivi possono infatti scadere in euforia. E con questa in una deriva con tonfo finale.

La bolla speculativa – cioè una generalizzata e significativa deviazione del prezzo di un’attività (sia essa reale o finanziaria) dal suo valore fondamentale – rappresenta la sintesi narrativa di tale dinamica.

L’ampia portata delle bolle è da ricondursi a una molteplicità di fattori, quali il gran numero di attori-stakeholder coinvolti; la rapidità del contagio, anche sotto il profilo geografico; la pervasività economica, derivante dall’intreccio fra fenomeni reali, finanziari e valutari; l’esistenza di alcune zone “grigie” della regolamentazione; gli effetti psicologici di massa.

Se la “tecnologia” delle bolle –o, equivalentemente, delle crisi– si evolve nel tempo (a motivo della sofisticatezza degli strumenti, velocità delle informazioni, integrazione dei mercati, ecc.), il fattore umano –vero protagonista della formazione e dello scoppio delle bolle– resta immutato. Come fatto stilizzato, infatti, le bolle originano dalla primigenia pulsione dello speculatore: un impasto di ingredienti quali avidità; eccitazione derivante dall’azzardo; bramosia di omologazione nella massa (a sua volta, frutto di invidia, paura della diversità e della conseguente esclusione sociale); timore della perdita di controllo sugli eventi, con il correlato panico per la rovina e con la successiva fuga verso allocazioni ritenute meno aleatorie delle proprie risorse economiche (flight to quality).

Così, all’euforia (o “esuberanza irrazionale”), prima o poi fa seguito un’intensità emotiva di segno opposto. Entrambi gli affanni emotivi producono un impatto rilevante sul sistema economico-finanziario interno e, per contagio (che è una forma di esternalità), a livello globale.

Il presente articolo intende illustrare come –al di là dei tempi, del contesto, degli eventi– al centro di ogni bolla speculativa ci sia sempre la psicologia dell’individuo.

Corsa di andata e ritorno

La bolla dei tulipani

La prima bolla speculativa di cui si ha testimonianza è quella dei bulbi dei tulipani olandesi, verificatasi nel 1634-37 (un’ottima analisi è in Galimberti, 2002; si veda anche l’importante studio del Nobel per l’economia Krugman, 1995).

La domanda di questi nuovi fiori fashion e di tendenza (provenienti dalla Turchia e di cui l’Olanda si fece immediatamente promotore nella diffusione in tutta Europa) superò ben presto la loro offerta, a causa del loro lento ciclo riproduttivo, cosicché i prezzi delle specie più ricercate di tulipani subirono delle continue spinte al rialzo.

La bolla è riconducibile alla concezione del bulbo come un ottimo asset, cioè un vantaggioso bene di investimento. E poiché esso era interrato, e quindi l’oggetto di scambio era un bene futuro, emergeva in modo embrionale il primo mercato dei futures documentato nella storia. L’asset-bulbo comprendeva sia il valore capitale (che sottendeva il know-how nella riproduzione del bene; la conoscenza delle regole commerciali e delle rotte; il capitale umano impiegato; il valore dello stock di capitale fisico, come le imbarcazioni, ecc.), sia le aspettative di guadagni futuri da parte degli investitori.

Gli acquisti –tramite una caparra iniziale– con consegna futura del bulbo erano effettuati al solo scopo di partecipare al gioco al rialzo dei prezzi, così da potere lucrare, attraverso la vendita successiva, sull’incremento dei prezzi indotto dalla domanda. Non tanto le genuine preferenze botaniche, quanto le aspettative di facile guadagno alimentarono progressivamente la crescita dei prezzi.

Da qui i “semi” della bolla: il fatto che un semplice acconto garantisse la titolarità del bene futuro generava una corsa agli scambi sul mercato dei bulbi di tulipano. Intensità di scambi che progressivamente scollavano l’asset dal suo valore effettivo (in Francia si arrivò a cedere un mulino in cambio di un bulbo). E come succede prima o poi in ogni bluff, si ritorna alla dura realtà con il fragore della bolla che scoppia: fu sufficiente che ad Haarlem un’asta di bulbi andasse deserta per provocare un panic selling incontrollato e per far cadere i prezzi di mercato in tutto il paese. La febbre dei tulipani si tramutò all’improvviso in panico per i tulipani.

“L’economia è anche psicologia, e la psicologia indica questi stati [gli umori ondivaghi degli speculatori] come possibili e probabili, quando le circostanze si affollano in certi tempi e in certi modi” (Galimberti, 2002, pp. 60-61).

Tali argomenti inducono a esaminare lo scenario che stimola tali pulsioni. Se le preferenze a favore del gioco d’azzardo associato all’episodio dei bulbi di tulipano sono spiegabili, almeno in parte, con il tentativo di esorcizzare la paura della morte (la peste nera che in quel periodo colpì l’Olanda, esiziale quanto un esercito invasore), più complessa e articolata è l’analisi del contesto che oggi ripropone le medesime pulsioni nel settore delle criptovalute.

La bolla delle criptovalute

Con un balzo di qualche secolo, passiamo dall’asset-bulbo all’asset-digitale, come viene appunto definita la criptovaluta.

Per apprezzare il fenomeno della bolla nel settore delle valute virtuali, appare opportuno in premessa richiamare alcune connotazioni.

Alcune caratteristiche delle criptovalute

Le monete virtuali non hanno corso legale. Fanno eccezione alcuni paesi, come Argentina e Venezuela dove, evidentemente, la forte volatilità del prezzo delle crypto fa meno paura dell’iperinflazione. In favore dell’Ucraina si è mosso un gran numero di soggetti appartenenti al panorama delle crypto: destinatari delle donazioni i relief fund del governo ucraino. Due testimonianze –quella dell’America latina e quella dell’Ucraina– in cui le crypto mostrano un ruolo rilevante nell’emergenza.

Non avendo corso legale, l’accettazione della moneta virtuale come mezzo di pagamento è solo su base volontaria. Qualora sussista tale consenso, la moneta viene scambiata in modalità peer-to-peer –cioè direttamente tra due dispositivi, senza l’intermediazione di terze parti istituzionali– per acquistare beni e servizi effettivi ovvero Nft (Not fungible token).

 Pertanto, le monete virtuali non sono regolate da soggetti istituzionali governativi, bensì controllate dall’ente emittente che formula proprie regole, accettate dai partecipanti alla comunità di riferimento. Una volta emesse, le valute virtuali possono essere acquistate o vendute utilizzando denaro a corso legale su piattaforme online di scambio; presso queste ultime vengono custoditi i portafogli digitali degli utenti. A differenza degli intermediari autorizzati, le piattaforme di scambio non sono tenute ad alcuna garanzia deontologica di trasparenza (strumenti ottimali, dunque, per riciclaggio, frodi, terrorismo e per il cybercrime in generale), né devono rispettare requisiti patrimoniali o procedure di controllo interno e gestione dei rischi. Questa assenza di regolamentazione pregiudica la possibilità di tutelare efficacemente gli operatori, esposti quindi a condotte fraudolente, al fallimento, alla cessazione dell’attività o alla scomparsa delle piattaforme di scambio (e, con loro, i portafogli digitali in custodia).

Ancora, il numero di unità di criptovalute che può essere prodotto (tramite il c.d. mining) è limitato, la produzione richiede tempo e avviene a costi crescenti.

Costi di non poco momento perché si tratta, tra l’altro, di una produzione energivora, quindi con forti esternalità negative sull’ambiente. Ma, allora, in un mondo in cui si professa l’eco-sostenibilità, quale spazio hanno in prospettiva le criptovalute (il bitcoin e l’ethereum in particolare, le monete virtuali per eccellenza)? Quanti e quali trade-off vanno bilanciati (uno per tutti, efficienza nelle transazioni vs salvaguardia dell’ambiente)?

Le criptovalute strette fra due bolle

Perché il mondo delle criptovalute mostra attualmente segni di sofferenza? La ragione è ascrivibile allo scoppio di due bolle da considerarsi in qualche modo “gemelle”, in quanto una sviluppatasi nel mondo della finanza tradizionale, l’altra in quello della finanza decentralizzata (DeFi).

Nell’ambito della prima, le sorti delle criptovalute risentono in special modo dei destini dei titoli tecnologici a cui esse sono oggi fortemente collegate. Tanto da essere considerate esse stesse titoli “super-tecnologici”.

Si sa, il sentiero di crescita dei titoli hi-tech è minato dal fragore dello scoppio di bolle speculative (una buona sintesi è in Pontrelli, 2022). Le quotazioni dei titoli tecnologici negli ultimi anni avevano raggiunto livelli non giustificabili dai modelli di valutazione finanziaria. Gli speculatori –come in una sorta di coazione a ripetere nel desiderio di diventare ricchi in breve tempo e con il minimo sforzo– sembrano non aver imparato granché dalla storia: come nella bolla dei tulipani e in quelle successive –antiche e moderne– per i titoli tecnologici è prevalsa ancora una volta la “Teoria dello sciocco maggiore” (Pontrelli, 2022). Essa argomenta che il prezzo di un titolo aumenta solo se chi lo possiede è in grado di rivenderlo a qualcuno più “sciocco” di lui/lei, indipendentemente dalla circostanza che il titolo sia sopravvalutato o meno (la bolla si forma e si espande). Quando non si trova nessuno di più “sciocco” a cui rivenderlo, allora il prezzo cade, talvolta rumorosamente (la bolla scoppia).

Perché attualmente non si trovano altri “sciocchi” a cui passare il cerino?

La spiegazione in parte risiede nella natura stessa dei titoli tecnologici: sono titoli “growth” (cioè ad alto potenziale di crescita), tipicamente molto indebitati e di conseguenza fortemente esposti al costo del denaro. Nell’attuale scenario di politiche monetarie restrittive –inedite da lungo tempo– unite al forte rallentamento delle economie e ai tempi di guerra, le incertezze e i timori degli investitori della finanza tradizionale concorrono all’arretramento dei titoli hi-tech.

Parallelamente, a seguito delle massicce vendite, il crollo delle criptovalute (“Cryptonight”), verosimilmente è prodromico dello scoppio della bolla.

Passando alla finanza decentralizzata, essa è un ecosistema che sfrutta diversi tipi di criptovalute e che consente transazioni digitali tra le parti. Il suo nome deriva dal fatto che gli utenti sono in grado di effettuare transazioni finanziarie direttamente tra loro, senza il coinvolgimento di un’autorità centrale, di banche o di altre istituzioni finanziarie tradizionali (si tratta di un caso di democratizzazione della finanza). Soprattutto a partire dall’estate del 2020 sono nati numerosi cripto-progetti che offrono i servizi tipici della finanza tradizionale ma in un ambiente deregolamentato. Ed è proprio questo il nodo più debole di tale contesto. La promessa di guadagni elevati –con il favore dell’opacità– ha richiamato molti investitori-speculatori, le cui aspettative tuttavia hanno fatto loro da boomerang. Gli episodi che narrano delle loro scelte miopi stanno determinando un effetto-contagio e una fuga da questi nuovi e incerti mercati. Se, dunque, la democratizzazione della finanza è un fenomeno positivo, altrettanto necessario è che essa si accompagni ad adeguate garanzie e tutele affinchè il piccolo investitore non sia lasciato da solo a confrontarsi con un mondo a lui/lei sconosciuto e – come l’esperienza continua a dimostrare – pieno di insidie.

Conclusioni: il ruolo degli aspetti psicologici

In comune con i tulipani, le criptovalute si basano su un processo produttivo che richiede tempo e, pertanto, in epoca di “crypto-mania” –esattamente come ai tempi della “tulip-mania”– è la “mania” stessa a creare un eccesso di domanda di mercato rispetto all’offerta, determinando una conseguente lievitazione del prezzo del bene. Il secondo elemento che accomuna bulbi e criptovalute è la circostanza che essi vengono considerati asset, nel secondo caso asset-digitali (Bianco, 2022).

Ma il filo rosso che attraversa i tempi, il contesto di riferimento e il tipo di asset, è il fattore umano. L’impatto sull’andamento dei mercati di umori, percezioni e preferenze degli agenti economici trovano riconoscimenti autorevoli già con Smith e Keynes; più tardi con Katona (1951) e, in contesti decisionali in condizioni di incertezza, primi fra tutti con Von Neumann e Morgenstern.

I modelli à la Krugman (1998) insistono sul ruolo dei fattori psicologici nella spiegazione delle crisi economico-finanziarie e delle bolle speculative.

Il soggetto, quando è immerso nella folla, è contemporaneamente immerso nella follia. La suggestione collettiva è quindi alla base dei movimenti di qualsiasi natura, da quelli fondamentalisti del terrorismo a quelli speculativi.

 

Wired to Connect: dal 1° Congresso CBT-Italia di Firenze un approccio polivagale alla vita

Firenze, dalla seconda giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Report dal workshop a cura della Dott.ssa Antonella Montano, creatrice del modello, e della Dott.ssa Roberta Rubbino, del programma teorico esperienziale di gruppo sviluppato sulla base del lavoro di Stephen Porges e Deb Dana. 

 

Il programma Wired to Connect è strutturato secondo un modello perfettamente bilanciato tra psicoeducazione, in merito ai contributi teorici che ne hanno costituito le fondamenta, e attività pratiche. In questo workshop, la Dott.ssa Montano e la Dott.ssa Rubbino ci accompagnano in una vera e propria esperienza in vivo del programma, strutturato generalmente in un percorso di 12 settimane, rivolto sia agli adulti, di cui ha parlato la prima, sia all’età evolutiva, di cui sentiamo la spiegazione dalla seconda. Da quello che emerge, per la Dott.ssa Montano è fondamentale che il programma venga seguito in modo costante, quanto meno nella presenza agli incontri: questo perché è un modello per il quale ogni sessione è in modo imprescindibile legata alla precedente.

Il background paradigmatico che guida questo programma conta il contributo essenziale della Teoria Polivagale sviluppata da Stephen Porges e Deb Dana. Come sappiamo la Teoria Polivagale ha avuto una ricaduta fondamentale, unica e nuova sia sulla pratica clinica sia in ambito sperimentale. Tuttavia, la Dott.ssa Montano, che si occupa del training per gli adulti, spiega che è fondamentale considerare la neurocezione non soltanto da un punto di vista teorico e di applicazione alla ricerca, bensì come elemento fondamentale per la costruzione concreta e reale di un “assetto integrato mente-corpo” che sia consapevole, giornalmente, dello stato autonomico dell’individuo che abita quella mente e quel corpo.

La neurocezione è un costrutto che indica il processo attraverso il quale il sistema nervoso scansiona il nostro corpo  –tutto il nostro corpo, quindi tutto ciò che contiene, viscere, emozioni, organi, pensieri– ed è un’esperienza sottocorticale, ben al di sotto del pensiero consapevole, perciò non include alcuna attività cerebrale. La neurocezione è presente in ogni cellula del nostro corpo; si occupa di rilevare l’ambiente in cui siamo inseriti, le persone con cui stiamo interagendo, le emozioni che proviamo, ed è il modo in cui il nostro intero organismo si mette in moto al fine di cercare segnali di sicurezza o di minaccia di vita. Come dice Montanopuò funzionare bene, può funzionare male. Una persona davanti allo specchio può regolare la propria neurocezione oppure no, pensando che aumentare di un etto sia un grave pericolo”. Nel loro programma, questo riconoscimento del proprio dialogo mente-corpo e del proprio livello di arousal affettivo e corporeo viene definito “Scala Autonomica” attraverso la quale –ci spiegano le dottoresse–, in modo sia visivo che immaginativo, possiamo comprendere come ai diversi stati affettivi e cognitivi corrispondano tre diversi stati di attivazione.

Durante il Workshop proviamo noi stessi a compilare la mappa del nostro profilo personale, facendo un’esperienza immaginativa e mnemonica di eventi recenti o passati che ci conducono in questi tre gradini della scala. All’ultimo gradino, il più basso, troviamo il sistema dorso-vagale, che corrisponde alle risposte di freezing e di schiacciamento, di congelamento emotivo e di distaccamento dalla realtà a seguito di eventi traumatici complessi; il secondo gradino, quello intermedio, corrisponde al sistema simpatico, il quale ci ricorda momenti di forte ansia o agitazione corporea; il terzo e più alto gradino di questa scala ci chiede, invece, di ricordarci un momento in cui ci siamo sentiti sereni, trovando così nel sistema ventro-vagale. In questo esercizio ci viene chiesto di immaginare visivamente il ricordo e collegarlo a una sensazione precisa di come ci siamo sentiti, descrivendolo con una parola soltanto e con un colore e una sfumatura di più colori (che andranno riportati sulla scala schematica riprodotta sul foglio che abbiamo ricevuto). Infine, grazie alle condivisioni di alcuni partecipanti, emerge un dato molto interessante: esiste una comunanza reale e palpabile tra di noi per quanto riguarda l’associazione dei tre stati di attivazione fisiologica (dorso-vagale, simpatica e ventro-vagale) e i relativi correlati affettivi.

Il programma è ascritto inoltre alla teoria secondo la quale la co-regolazione sia fondamentale per lo sviluppo sano dell’individuo, a partire dall’infanzia per tutto il ciclo di vita. Noi offriamo opportunità di co-regolazione agli altri, e gli altri le offrono a noi, in un continuo scambio che ben si allinea con l’idea secondo la quale vi sia un continuo dialogo tra i nostri sistemi, tra sistema simpatico e parasimpatico come afferma Porges, e i sistemi degli altri individui.

Il programma Wired to Connect dispone di un percorso mirato a sviluppare queste abilità di “riconoscimento autonomico” nei suoi partecipanti. La Teoria Polivagale sfonda il muro del dicotomico, proponendo un nuovo modo di comprendere le interazioni tra mente e corpo: una visione innovativa secondo la quale il sistema simpatico e quello parasimpatico non si attiverebbero in modalità concorrente a seconda dello stimolo endogeno o esogeno, bensì esisterebbe un’interazione continua tra tre livelli progressivi che si attivano a seconda della gravità percepita. In questo sistema a tre, i traumi sarebbero i responsabili dell’elicitazione anomala dei sistemi primitivi, mentre la consapevolezza, come anche la psicoterapia e il supporto co-regolativo delle interazioni sociali sane, favorirebbero l’attivazione dei sistemi più evoluti.

Bambini e co-regolazione

Anche nei bambini è fondamentale supportare l’apprendimento di queste abilità di co-regolazione e di auto-monitoraggio del proprio stato autonomico. Come ci mostra la Dott.ssa Rubbino, la co-regolazione è un bisogno biologico che nasce con noi e si estende per tutto il corso della vita. È un elemento che garantisce la sopravvivenza dell’individuo: per questo l’isolamento è pericoloso per l’individuo, allorché emerge la necessità di favorire nel bambino il suo sistema di ingaggio sociale.

Come nelle teorie attaccamentiste, anche in termini polivagali si parla di cerchio della sicurezza (Circle of Security; Cooper et al., 2020), per il quale lo stato ventro-vagale dei caregiver entra in risonanza con quello del bambino, che si sentirà sicuro, attivando così a sua volta sia il proprio sistema di ingaggio sociale sia il sistema di sicurezza, in un complesso di elementi che costituiscono la base per lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro. L’interazione attiva con caregiver sicuri darà le basi per l’autoregolazione, perdurando fino alla vita adulta. Come preventivamente e provocatoriamente fa notare la Dott.ssa Rubbino, è impossibile, tuttavia, attivare in modo sistematico i sistemi di regolazione polivagale nella relazione adulto-bambino se prima i caregiver non abbiano saputo riconoscere e gestire la propria scala autonomica.

In questo Workshop, come auditori ci viene offerta non soltanto l’opportunità di esercitarci sulla nostra scala autonomica, ovverosia sulla nostra mappa personale degli stati di attivazione: la Dott.ssa Montano ci esorta a provare con lei anche esercizi di respirazione, quali quello chiamato “Il respiro dell’ape” che aiuta ad allenare l’espirazione, che deve essere più lunga dell’inspirazione al fine di tornare a uno stato ventro-vagale di calma psico-fisiologica, insieme a un altro esercizio di respirazione per il quale durante l’espirazione si emette il suono “VU” che ha la stessa funzione del primo.

A fine Workshop, l’augurio delle Dott.sse per noi partecipanti è quello di riconoscere e restare nel nostro stato ventro-vagale per il resto della giornata: e così ci salutiamo, in un clima di calma e profonda comunanza, dove l’attenzione condivisa e la co-regolazione hanno portato i loro benefici, anche se per un tempo limitato.

 

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Nutrire il corpo e la mente con la mindful eating

Mindful eating significa incorporare la mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, prestando dunque attenzione al cibo e dedicandogli il giusto tempo

 

Mindfulness e alimentazione

 La mindfulness indica l’essere consapevoli e pienamente presenti in ciò che sta accadendo. Sebbene il termine mindfulness possa evocare una sfera esclusivamente circoscritta alla mente, uno dei capisaldi è invece il corpo.

Difatti, nonostante familiarizzare con i nostri meccanismi mentali sia parte integrante del percorso, la mindfulness ha lo scopo di spostare l’attenzione dai singoli processi cognitivi al corpo nella sua integrità, allenandoci a percepirlo dall’interno, a riconoscere i suoi segnali e ad ascoltare quello che vuole comunicare.

In questo senso anche l’alimentazione è un tema estremamente affine.

Sempre più spesso, infatti, la nutrizione affianca il concetto di consapevolezza e assume nuove prospettive.

In questo senso, mangiare in modo mindful significa incorporare la Mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, prestando dunque attenzione al cibo e dedicandogli il giusto tempo.

Questo consente di:

  • favorire il senso di appagamento del cibo che si sta assumendo
  • scoprire pienamente il senso di fame e sazietà
  • comprendere l’origine della fame
  • essere più consapevoli del proprio corpo
  • riscoprire e assaporare pienamente ciò che si mangia

Se quindi la Mindful eating permette di nutrire il corpo e la mente, l’obiettivo non è perdere peso o limitare l’assunzione di cibo, ma assumere un comportamento in cui le reazioni impulsive sono minimizzate e in cui si insegue un’esperienza di vita piena, nel momento presente.

La vita sempre più frenetica a cui siamo sottoposti, infatti, induce non solo ad abitudini alimentari spesso sbagliate ma ad un’attività sbrigativa, in cui la maggior parte delle persone durante i pasti è connessa altrove.

Mangiare non è più un momento di condivisione e di piacere ma una necessità che si realizza in pochi minuti.

Inoltre, specialmente in condizioni di perdita di peso, molte persone avviano una dolorosa battaglia con le calorie in cui ogni pasto viene vissuto come un successo o un fallimento.

Ogni occasione diventa una minaccia alla propria autostima e alla propria autoefficacia, alimentata da pensieri e giudizi negativi sul proprio corpo e sul valore di sé.

Altre volte, invece, un’altra reazione comune che si mette in atto, è quella di ricorrere all’assunzione di cibo in maniera incontrollata e impulsiva pur di attenuare il senso di colpa o di vergogna, ed altre emozioni negative.

Tali comportamenti, pertanto, se cronicizzati, possano assumere il volto di veri e propri disturbi alimentari.

Mangiare in modo mindful esprime, invece, un rapporto equilibrato e positivo con il cibo e con se stessi, in cui il giudizio è sostituito da un atteggiamento di comprensione e gentilezza.

La mente non è più distratta e ogni emozione è accettata e accolta in quanto tale; un’opportunità in grado di interrompere un’alimentazione scorretta e dei pensieri disfunzionali che la sostengono, a favore di un’esperienza di benessere e salute.

(Non a caso, anche nell’ambito dei Disturbi alimentari la Mindfulness sta trovando ampia applicazione attraverso protocolli di dimostrata efficacia).

Si impara, innanzitutto a scegliere, preparare e successivamente a consumare con consapevolezza quello che si dovrà mangiare.

Ma in cosa consiste la mindful eating?

Di seguito alcuni consigli pratici.

 Mangiare consapevolmente è un processo che inizia nel momento della spesa, al supermercato, e nella cura dei prodotti che si scelgono. A tal proposito è bene selezionare cibi, non sulla base delle loro calorie o sulla base della loro immediata disponibilità, ma per esempio alla luce dei loro ingredienti, o dell’uso che ne faremo. Anche le quantità, in questo senso, sono molto importanti.

Altri suggerimenti per avviarsi alla pratica della mindful eating consistono, inoltre nell’osservazione della fame. È importante comprendere la motivazione che spinge a mangiare, cercando di discriminare il reale senso di fame da altri stati emotivi quali la noia, l’ansia, etc.

Prima di iniziare il pasto è utile cercare di eliminare tutte le fonti di distrazione per prestare veramente attenzione al cibo. È auspicabile quindi silenziare o spegnere il cellulare e/o la televisione.

Fondamentale è la fase di osservazione: l’aspetto, la superficie, i colori, la forma e la disposizione del piatto di quello che si sta per consumare.

Mangiare consapevolmente implica masticare lentamente, prestare attenzione, sentendo il gusto nel suo insieme e nelle sue diverse sfumature di sapore.

Quando si porta nuovamente cibo alla bocca (solo quando è completamente ingerito il precedente boccone), bisogna fare attenzione anche alla sensazione di sazietà e se inizia sopraggiungere o se si percepisce il bisogno di cambiare gusto.

Come si può notare la mindful eating non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare.

Un’educazione, in questo senso, alla cura del proprio corpo e della propria mente attraverso l’ascolto delle proprie emozioni e dei propri bisogni.

Wolfgang Blankenburg e la perdita dell’evidenza naturale: la descrizione delle psicosi subapofaniche

Con “La perdita dell’evidenza naturale”, Wolfgang Blankenburg ha aperto un nuovo corso all’interno della psicopatologia fenomenologica, concentrandosi sul nucleo basale dell’esperienza schizofrenica.

 

 Le schizofrenie subapofaniche sono quelle patologie della sfera psicotica caratterizzate dall’avere una spiccata componente negativa e disorganizzata, senza però presentare le caratteristiche di quelle che Conrad chiamava “apofanie”. Si tratta di un’entità clinica non facilmente riconoscibile al suo esordio, non essendo caratterizzata spesso dalla sintomatologia produttiva. Esse hanno molte analogie con il modello dei sintomi di base, che è stato per lungo tempo oggetto di studio ad opera di diversi gruppi nel Nord Europa. Lo psicopatologo che più di altri ha analizzato le schizofrenie subapofaniche è lo psichiatra tedesco Wolfgang Blankenburg (1928-2002), andando a ricercare la schizofrenia dove “non c’è o sembra non esserci” (Di Petta, 2012) e aprendo un nuovo corso all’interno della storia della psicopatologia.

I sintomi di base sono codificati dalla BSABS (Bonn Scale Assessment of Basic Symptoms, Vollmer-Larsen et al., 2007): si tratta di alterazioni di natura elementare, aspecifica e acaratteristica di pensiero, linguaggio e caratteristiche confinate alla sfera soggettiva, talvolta difficilmente verbalizzabili. Ballerini osserva che i gruppi di studio che hanno analizzato i sintomi di base, principalmente quelli di Bonn e Copenaghen, sono riusciti a raccordare nella propria metodologia il piano biologico con quello fenomenologico, articolando la nozione di sintomo di base come indicatore “di vulnerabilità endofenotipica” (Ballerini, Rossi Monti, 1992). Nel modello dinamico proposto da Huber, allievo di Schneider, i sintomi di base non sono sufficienti a formulare una diagnosi di schizofrenia; è necessaria la co-incidenza di molte altre variabili (personologiche, antropologiche e ambientali) affinché si sviluppi un processo psicotico (Gross, Huber, 2010). Klosterkötter propone invece un approccio volto alla rilevazione di sintomi e fattori di rischio prima della fase di esordio psicopatologico. Secondo questo modello i soggetti, nelle fasi precoci di malattia, rispondono ai criteri dell’ultra-high-risk (UHR), con manifestazioni cliniche aspecifiche, spesso associate ad un generico declino funzionale. A questa fase fa seguito la early initial prodromal state (EIPS) in cui clinicamente si ha la presenza esclusivamente di sintomi di base; solo successivamente questi soggetti iniziano a sviluppare “sintomi psicotici attenuati” o “sintomi psicotici intermittenti brevi” che determinano l’entrata nella late initial prodromal state (LIPS), seguita dall’esordio psicotico (Klosterkötter et al., 2010).

Ciò che appare interessante è l’idea di un modello dinamico di continuum delle psicosi, secondo il quale i diversi individui possono progredire (temporaneamente o per un lungo periodo) oppure fermarsi in una specifica posizione, dando così vita a possibili traiettorie di percorsi psicotici che possono andare da manifestazioni sub-cliniche alle floride espressioni schizofreniche (D’Offizi, Saullo, Pascolo-Fabrici, 2018).

In linea generale, la difficoltà diagnostica relativa all’inquadramento delle psicosi subapofaniche ricorda molto il riconoscimento dei “prodromi schizofrenici”.

Bleuler lega la schizofrenia ad un concetto di dissociazione (Spaltung) in linea con Janet e il gruppo francese. Già egli, con le sue quattro “A” (autismo, anaffettività, ambivalenza e allentamento dei nessi associativi) aveva descritto in parte la negatività dei fenomeni psicotici. Minkowski, invece, considerava la “perdita dello slancio vitale” alla base della schizofrenia. Andreasen parlava di schizofrenia di tipo “2” per definire quelle patologie a prevalenza di sintomi negativi (Andreasen et al., 1995), Lorenzi e Pazzagli parlavano di “psicosi bianche”(Lorenzi, Pazzagli, 2006), Federn descriveva delle “psicosi latenti” (Federn, 1947).

Schneider analizza invece ciò che è “visibile” e descrivibile, nelle schizofrenie caratterizzate dai sintomi positivi, delineandone i sintomi di primo rango.

Nel 1958 Conrad pubblica, nel suo libro “Die beginnende Schizophrenie”, studi su soldati della Wehrmacht colti nel momento dell’esordio psicotico, descrivendo quindi anche egli processi clamorosi e conclamati. Egli delineò essenzialmente tre fasi nel processo psicotico: il “Trema”, ovvero il terremoto, lo stadio prodromico in cui l’intera psiche appare come circondata da barriere invalicabili e la libertà viene sempre più compressa e limitata; l’”apofania”, intesa come una “immotivata visione di connessioni”, con una “anormale significatività”, che dà comunque luogo a una riorganizzazione del senso; infine, l’“anastrophé”, intimamente connessa all’apofania, caratterizzata da una sorta di inversione – o trasgressione – dell’ordine o delle proporzioni delle cose e dei fatti che accadono (Conrad, 1958).

Prima di Wolfgang Blankenburg, Wyrsch, nel 1971 parlava di quadri clinici simili, descrivendo “Non si può nemmeno dire che i malati non ci riescono, semplicemente non accade nulla. Essi sembrano come usciti dal mondo a tal punto che l’osservatore riconosce d’intuito il male di cui soffrono” (Wyrsch, 1971).

Wolfgang Blankenburg: cenni biografici e la “perdita dell’evidenza naturale”

L’autore ha una formazione filosofica e psicologica portata avanti all’università di Friburgo fra il 1947 e il 1950. Fra i suoi docenti ci furono Eugen Fink, a sua volta allievo di Hussel e Heidegger, e Szilasi, che collaborò con Binswanger. Seguì anche alcune lezioni di Martin Heidegger, il quale in quel periodo era stato forzatamente messo a riposo per le compromissioni con la linea politica nazionalsocialista. Wolfgang Blankenburg si forma quindi nell’immediato dopoguerra, in una Germania condizionata dagli orrori del conflitto mondiale, dall’elaborazione collettiva del senso di colpa e dei processi di denazificazione (Molaro, Stanghellini, 2020).

Nel 1950 decide di studiare Medicina, dove elabora una tesi su uno studio daseinanalitico di un caso di schizofrenia paranoide, che lo porta ad avere i primi contatti con Binswanger.

Blankenburg nel 1971 inaugura un nuovo corso della fenomenologia, descrivendo dei processi meno visibili ma altrettanto patologici: le schizofrenie subapofaniche (rifacendosi al concetto che Conrad definì “apofania”). Si tratta di un termine coniato da Blankenburg stesso, che sta a definire tutte quelle forme di schizofrenia caratterizzate dalla mancata rivelazione di senso: prive cioè di una sintomatologia positiva, delirante, dispercettiva ed ebefrenica e che restano quindi ad un livello sub-sindromico. In questi quadri, secondo l’autore, può essere colto il nucleo basale dell’esperienza schizofrenica, perché non sommerso dalla produzione delirante-allucinatoria delle forme paranoidi (Blankenburg, 1971).

L’autore porta il caso di Anna Rau, una sua paziente, che afferma che “la realtà le sfugge” e ne “perde l’ovvietà”. Si tratta di una ventenne che arriva alla clinica di Friburgo nell’ottobre 1964, a seguito di un tentato suicidio compiuto assumendo 70 compresse di sonnifero. Viene descritta come una ragazza con uno sviluppo tardivo, i cui genitori hanno un rapporto conflittuale che sta sfociando in un divorzio all’epoca del tentato suicidio. Da adolescente, Anne è una ragazzina timida e chiusa, con un buon rendimento scolastico. Tuttavia, come spesso ripete, non si sente “umanamente all’altezza” e le sue difficoltà aumentano nel passaggio al mondo lavorativo, mostrando incapacità ad adattarsi nei contesti in cui si sperimenta.

Ad Anne, dal punto di vista clinico, viene diagnosticata una “schizofrenia paucisintomatica” o “schizofrenia simplex”, nel complesso di una organizzazione anancastica della personalità, con pensieri forzati che la fanno sentire continuamente esposta a situazioni in cui non si sente adeguata.

 Dagli incontri con questa sua paziente nacque infatti il titolo del suo libro: ella, durante un colloquio, afferma, nel tentativo di esprimere l’assenza e il vuoto che la tormentavano: “È senza dubbio l’evidenza naturale che mi manca”. Racconta che “Manca qualche cosa. Qualche cosa di piccolo, di strano, qualche cosa d’importante, d’indispensabile per vivere. Nella vita umanamente non ci sono. Non sono all’altezza. Mi limito a stare lì, sto semplicemente in quel posto, senza essere presente”. Ella perde quindi la capacità di “costituire la realtà” e di “sintonizzarsi con l’altro”; lo si legge bene nelle sue parole: “mi sono mancate le basi. Ciò che precisamente mi manca è poter sapere in maniera evidente quello che so…nei rapporti con altri esseri umani. È proprio questo che non mi riesce”.

Il caso di Anne Rau mostra come le alterazioni basali emergano in primo piano grazie alla capacità della paziente di autodescriversi, indipendentemente da ogni tipo di intervento personale e riuscendo così ad estrarre i momenti strutturali essenziali a partire dagli enunciati del paziente stesso.

La perdita dell’evidenza naturale (natürlichen Selbstverständlichkeit), per Wolfgang Blankenburg, non è un sintomo specifico (come invece lo possono essere un delirio o un’allucinazione), ma si tratta di uno dei “fili conduttori” della metamorfosi schizofrenica. Pertanto, le essenze dei fenomeni patologici, non sono fatti né sintomi, ma strutture che indicano il modo di darsi e di costituirsi del fenomeno stesso. Inoltre, la polarità tra evidenza naturale e non-evidenza, non è da intendersi in senso dicotomico, come “sano” o “malato”, ma in senso dialettico: “la non evidenza non è meno costitutiva dell’evidenza per l’essere-nel mondo umano, semplicemente lo è in modo diverso”.

In qualche modo, l’”epochè” operata del fenomenologo, ovvero la capacità di abbandonare categorie e nozioni diagnostiche accostandosi al malato, assume analogie con la perdita dell’evidenza naturale del paziente schizofrenico: la prima, serve a cogliere che cosa accade quando si verifica la seconda. Secondo Blankenburg, la differenza fra “epochè” fenomenologica e schizofrenica sta nel fatto che il fenomenologo dispone di un filo conduttore (una “bretella elastica”) che gli permette di allontanarsi momentaneamente dal senso comune, per poi ritornare ad esso.

Nelle psicosi subapofaniche viene perso il senso comune, definito come la facoltà di relazionarsi immediatamente e intuitivamente con gli altri, sulla base di schemi psico-motori socialmente appresi, di cui già faceva cenno Kant nella “Critica del giudizio”.

La crisi del senso comune è una crisi della situatività, dell’essere emotivamente situato nel mondo. Si tratta di un concetto pre-riflessivo e pre-verbale che ha il suo fulcro nella corporeità, concetto che va in linea con l’interpretazione fenomenologica della schizofrenia come forma di disembodiment (Stanghellini 2001a,2001b, Fuchs, 2005).

Secondo Blankenburg, è necessario essere consapevoli del fatto che qualunque posizione assunta dal clinico ha influenza sulla storia del malato: la fenomenologia, che significa innanzitutto “orientamento dello sguardo” e “disposizione ad osservare i fenomeni”, deve quindi essere orientamento alla prassi clinica, osservazione partecipativa e partecipazione osservativa.

Wolfgang Blankenburg si interroga su dove sia il disturbo fondamentale alla base del processo schizofrenico, quello che Minkowski chiamava il “disturbo generatore”, dei pazienti “senza delirio e senza mondo” (Di Petta, 2012).

Per Blankenburg il termine “basale” non ha valenza neurobiologica, ma trascendentale: si discosta in questo senso dal lavoro di Huber in merito ai sintomi di base, in cui in riferimento al nucleo basale della schizofrenia veniva anche data una caratterizzazione neurobiologica. Le persone affette da schizofrenia perdono la possibilità di “costituire” la realtà e di “costituire” l’altro. I pazienti, così, in termini preriflessivi sono privi di “attunement” (Ballerini, 2012) con la realtà, sono incapaci di sintonizzarsi con l’altro. I soggetti schizofrenici sono continuamente impegnati a costruire in modo empirico quel substrato, “già fornito” nel soggetto sano, in cui attuare le esigenze della vita concreta. In questa costituzione intersoggettiva dell’evidenza naturale il soggetto schizofrenico, per poter vivere l’esperienza dell’incontro con la realtà, deve sempre, in primo luogo, produrre i presupposti per poter-incontrare.

Questo tipo di processi, essendo tendenti ad essere meno “evidenti” dei fenomeni psicotici produttivi, corrono il rischio di non essere riconosciuti, come anche sottolinea Ballerini nel suo libro che analizza questo tema (“Delia, Marta e Filippo. Schizofrenia e sindromi sub-apofaniche: fenomenologia e psicopatologia”), e pertanto non adeguatamente curati.

È necessaria pertanto un’attenzione particolare verso questi quadri, che non sono solamente successivi ai sintomi positivi, come per primo Kraepelin ha teorizzato, ma anche prodromici e caratterizzanti l’intero decorso della patologia schizofrenica. Questo si può fare coltivando quello che Minkowski chiamava “sentimento di schizofrenicità” o “diagnosi per penetrazione”, ovvero quella sensazione, data dalla formazione didattica e dall’esperienza clinica, che il terapeuta possiede al cospetto del paziente affetto da psicosi, che permette di andare oltre la semplice presenza della sintomatologia delirante e allucinatoria, più facilmente riconoscibile e che gli psichiatri sono più facilmente formati a riconoscere e trattare.

 

Le emozioni a valenza negativa: a cosa servono e come non esserne sopraffatti

Alcune emozioni vengono percepite in modo più forte, risultando più invadenti e capaci di influenzarci. Quando questo accade in seguito ad emozioni a valenza negativa la conseguenza può essere paura immotivata e ansia eccessiva.

 

Le emozioni negative: a cosa servono e come non esserne sopraffatti

 Possiamo pensare alle emozioni come a dei campanelli d’allarme che ci segnalano quando sta accadendo qualcosa che può avere delle conseguenze, positive o negative, su di noi.

In genere si tratta di stati transitori ma possono diventare qualcosa di molto più duraturo, a volte possono essere causa di sofferenze, per questo motivo è importante conoscerle e imparare dar loro il giusto peso.

È possibile rimuovere un pensiero?

Dopo quanto abbiamo detto, la domanda è inevitabile: è possibile imporsi di rimuovere un pensiero? E la risposta è altrettanto inevitabile: no.

A questo proposito citiamo un esempio. George Lakoff, linguista e neuroscienziato, pronuncia questa frase: “Ora per un minuto proviamo a non pensare ad un elefante rosa”.

Proviamoci anche noi.

Assurdo, non è vero? A nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente di pensare ad un elefante rosa eppure ora non riusciamo ad allontanare quell’immagine dalla nostra mente. Ci è impossibile seguire quello che ci è stato chiesto di fare.

La nostra mente sfugge al nostro controllo e ci porta a compiere una disobbedienza involontaria. Si innesca infatti un processo curioso seguendo il quale una parte del nostro cervello cercherà effettivamente di allontanare il pensiero, ma un’altra parte continuerà a controllare che non ci torni in mente e, così facendo, continuerà a rievocarlo tenendolo vivo.

Quindi il tentativo di sopprimere un pensiero finisce col produrre l’effetto paradossale di rendere quello stesso pensiero un’ossessione.

Proviamo ora ad aggiungere un passaggio a questo esperimento. Mentre cerchiamo di allontanare dalla nostra mente l’immagine dell’elefante rosa, ci viene chiesto di non pensare nemmeno alle scimmie blu. Soffici scimmie che ci dondolano intorno sulle loro liane, mangiando banane e sorridendoci amichevolmente… A questo punto che cosa ne è stato dell’elefante rosa? Con ogni probabilità l’avremo almeno in parte accantonato per far posto a questo nuovo “non-pensiero”.

Possiamo quindi concludere che il modo per scacciare un pensiero ingombrante sia quello di sostituirlo con un nuovo pensiero. E se consideriamo che nella nostra mente c’è spazio solo per un certo numero di pensieri, ci è facile capire come, se saremo capaci di riempire questo spazio con molti pensieri positivi, ne resterà molto di meno per quelli negativi.

La chiave è riuscire a “dialogare” con la nostra parte interiore facendo spazio a quello che ha l’effetto di incoraggiarci e farci sentire più forti.

La consapevolezza delle emozioni a valenza negativa

Alcune emozioni vengono percepite in modo più forte, risultando più invadenti e capaci di influenzarci. Quando questo accade in seguito ad emozioni a valenza negativa la conseguenza può essere paura immotivata e ansia eccessiva. Se consideriamo le emozioni come delle sentinelle che ci allertano su quello che sta accadendo per prepararci a rispondere nel modo più adeguato, è facile capire come alla nostra sopravvivenza sia più utile essere consapevoli di situazioni potenzialmente pericolose piuttosto che di situazioni che ci possono rendere felici.

Il problema non sta tanto nel provare emozioni a valenza negativa ma in quello che queste emozioni possono provocare.

 Possiamo notare anche come spesso ci si senta più attratti dalle notizie negative rispetto a quelle positive. Questo risulta evidente anche dallo spazio maggiore che i media riservano alle notizie negative come evidente risposta alle richieste e alle esigenze del pubblico. Secondo uno studio condotto dallo psicologo americano John Cacioppo, che conferma quanto accennato poco fa, si tratterebbe dell’effetto negatività spiegato con ragioni evolutive legate alla nostra sopravvivenza, per le quali ignorare un’informazione negativa sarebbe molto più rischioso che ignorarne una positiva. Ignorare l’arrivo di un ciclone può essere in effetti molto più pericoloso che ignorare una storia a lieto fine. Nonostante questo, la maggior parte delle persone sostiene di preferire le buone notizie alle cattive e afferma che preferirebbe ascoltare un maggior numero di notizie a lieto fine.

Si può anche notare come spesso la nostra cultura ci porti a cercare di evitare la tristezza, a relegarla in un angolo, nasconderla o mascherarla perché ritenuta negativa, un segno di debolezza. Sperimentare la tristezza è invece l’unico modo per imparare a gestirla. Il primo passo necessario è di ammettere a noi stessi e agli altri che siamo vulnerabili. Una delle funzioni principali della tristezza è di far capire a chi ci sta vicino che abbiamo bisogno di lui, del suo sostegno e del suo conforto nei momenti difficili. Inoltre ci aiuta a riflettere e analizzare in modo profondo quello che ci succede per trovare un senso al nostro stato d’animo. Aiuta quindi ad elaborare gli eventi spiacevoli e agisce da sprone nel sollecitare un cambiamento.

L’esempio in un film

“Inside Out” è un film di animazione prodotto dalla Disney e uscito nel 2015. Il tema centrale sono proprio le emozioni, il modo in cui si manifestano, interagiscono fra loro e ci influenzano.

Ne vengono prese in considerazione cinque, che si avvicendano nella vita della piccola protagonista: gioia, rabbia, disgusto, paura e tristezza. La loro utilità risulta da subito ben chiara. Su tutte spicca la gioia, sicuramente presentata come l’emozione dominante, che ha lo scopo di assicurare la felicità alla protagonista. Se la rabbia serve a combattere le ingiustizie, paura e disgusto hanno entrambe un compito di tutela della bimba: la paura serve a metterla al riparo dai possibili pericoli mentre il disgusto la preserva dalle contaminazioni. Risulta invece più difficile, almeno all’inizio, dare una spiegazione della funzione della tristezza.

Nella vita della bambina, sino ad un certo momento, i ricordi sono tutti felici finché un giorno, improvvisamente, la situazione cambia e irrompe improvvisamente un’emozione nuova: la tristezza.

A questo punto le altre emozioni entrano in subbuglio, disorientate da questa nuova presenza, e cercano di ristabilire la situazione preesistente cercando di negare e soffocare la tristezza, ma è un tentativo destinato a fallire.

Conclusioni

Sarà solo nel momento in cui la bimba riuscirà ad accettare la sua tristezza che sarà capace di piangere e questo aprirà gli occhi ai genitori, finora ignari del suo malessere. Da loro arriverà il conforto che riporterà la serenità e l’accettazione della tristezza darà luogo a nuovi ricordi e alla consapevolezza (necessaria a ciascuno di noi) che la vita è fatta anche di frustrazioni, più o meno grandi, che vanno superate per non restarne intrappolati ed essere capaci di indirizzare le proprie energie verso nuovi traguardi.

 

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