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La leadership: dalle Teorie Implicite sulla Leadership al ruolo delle credenze di base

Teorie sulla leadership implicita sono una forma di filtro percettivo, attraverso il quale le persone riconoscono e valutano un vero leader (Cronshaw e Lord, 1987), mentre esprimono la tendenza a semplificare e categorizzare gli elementi di un ambiente organizzativo (Bryman, 2001).

Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Le teorie implicite sulla leadership (ILTs)

 Nel contesto delle teorie contemporanee sulla leadership, che scaturiscono dalla corrente principale della “Social Cognition”, ciò che si va a sottolineare è l’importanza regolatoria di due meccanismi cognitivi, utilizzati per descrivere e spiegare il comportamento dei leader e della leadership, rimanendo in stretta interazione reciproca (Cronshaw e Lord, 1987). Il primo comprende i processi di categorizzazione della leadership (Lord e Maher, 1991), utilizzando i meccanismi di categorizzazione concettuale della leadership secondo il concetto delle strutture naturali e dei prototipi, basati sulle connessioni semantiche tra le diverse dimensioni e gli aspetti della leadership, assieme a una relazione leader-subordinata all’interno di un’organizzazione (Lord e collaboratori, 1984; Lord e collaboratori, 1982). Le “Teorie sulla leadership implicita” (ILT), basate su un ruolo regolativo implicito della conoscenza, comprendono quest’ultimo tipo di meccanismi cognitivi, i quali sono parte integrante dei processi di categorizzazione della leadership (Schondrick e Lord, 2010). Queste teorie sono più focalizzate sulla conoscenza acquisita sia spontaneamente che automaticamente nel corso della socializzazione, fissata poi nella memoria come modelli cognitivi di vario tipo (idee, compiti, procedure, categorie intuitive o concettuali), riguardanti le caratteristiche e le competenze di un tipico leader (o tipi di leader). Integrando entrambi gli approcci teorici, le teorie sulla leadership implicita costituiscono un sistema gerarchicamente organizzato. Pertanto, esse consistono in un insieme prototipico di attributi/caratteristiche di un leader e di una leadership, che una persona generalmente utilizza nella percezione e valutazione di una “persona stimolo”, confrontandole sia con una categoria di leader che con un leader ideale (Phillips e Lord, 1981). Facendo riferimento al concetto di categorizzazione cognitiva (Rosch, 1978), all’interno della struttura delle ILT coesistono 3 livelli. A livello sovraordinato, le persone classificano gli altri come leader e non-leader. A livello base, gli osservatori attribuiscono qualità di leadership a seconda del contesto sociale (ad esempio, un leader organizzativo, un leader militare, un leader politico, un leader religioso, ecc.), confrontando uno specifico stimolo con un prototipo in questa categoria. A livello subordinato, viene eseguita una categorizzazione dei leader, richiamando alla memoria un ricordo di individui specifici che vengono trattati come rappresentativi di una data categoria (Lord e collaboratori, 1984). Quando si fa riferimento alle teorie cognitive generali, si noti che questi schemi e concetti non costituiscono una categoria omogenea, ma sono diversi, dinamici e contestualizzati (Abelson e Schank, 1977; Schondrick e Lord, 2010). Pertanto, si può presumere che le ILT abbiano una duplice natura. Da un lato, includono la conoscenza dichiarativa, sotto forma di concetti, categorie, piani e compiti; dall’altro, includono la conoscenza procedurale, la quale è alla base dell’elaborazione intuitiva che si verifica nei processi di percezione, valutazione e interpretazione dei comportamenti di leadership, nonché nelle relazioni leader-subordinati (Lord e collaboratori, 1984). Ecco perché le Teorie sulla leadership implicita sono una forma di filtro percettivo, attraverso il quale le persone riconoscono e valutano un vero leader (Cronshaw e Lord, 1987), mentre esprimono la tendenza a semplificare e categorizzare gli elementi di un ambiente organizzativo (Bryman, 2001).

Molti ricercatori hanno cercato di determinare il contenuto delle Teorie sulla leadership implicita. Una delle prime strutturazioni sviluppate di Teorie sulla leadership implicita, è formata da una struttura quadridimensionale: facilitazione del lavoro, facilitazione dell’interazione, supporto e enfasi sugli obiettivi (Taylor e Bowers, 1970; Eden e Leviatan, 1975).

La struttura fattoriale più citata e meglio documentata empiricamente è stata scoperta da Offerman, Kennedy e Wirtz (1994), i quali includono otto caratteristiche principali associate al termine “leader”: sensibilità, dedizione, tirannia, carisma, attrattività, mascolinità, intelligenza e forza. Successivamente, Ling, Chia e Fang (2000) hanno categorizzato invece quattro fattori delle Teorie sulla leadership implicita: moralità personale, efficacia degli obiettivi, competenza interpersonale e versatilità. Una recente ricerca condotta da Bajcar e collaboratori (2014) ha dimostrato, invece, che le persone descrivono i leader politici e organizzativi in maniera diversa e che gli uomini hanno teorie implicite di leadership diverse rispetto alle donne. Gli autori hanno quindi desunto che le differenze individuali nelle teorie della leadership implicita rappresenterebbero una funzione dei processi cognitivi dei percettori. I risultati empirici hanno mostrato che la categorizzazione dei leader politici e organizzativi è determinata da altri modelli di caratteristiche cognitive dei percettori, come la semplicità cognitiva vs complessità, il bisogno di chiusura e lo stile cognitivo di Kirton (Modello dell’adattamento-innovazione).

Un sistema cognitivo-comportamentale di leadership: il modello Full Range

Il modello Full Range della leadership ritrae la leadership come un insieme di comportamenti, che vanno dall’estremamente passivo all’altamente attivo (Avolio e Bass, 2001, Avolio, 2010; Sosik e Jung, 2011). Il modello suggerisce che tutti i leader mostrino una leadership sia attiva che passiva, ma che lo facciano con una frequenza diversa. Pertanto, alcuni leader hanno una tendenza più forte a impegnarsi in comportamenti attivi, mentre altri hanno maggiori probabilità di agire passivamente. Tuttavia, questo modello di leadership, non riesce a spiegare perché alcuni leader sono inclini a farlo e a impegnarsi in comportamenti attivi mentre altri in comportamenti passivi. Secondo il modello, all’estremità passiva dello spettro della leadership risiede la mancanza di leadership. Nello specifico, il “laissez faire” è lo stile di gestione caratterizzato dall’evitamento dell’assunzione di responsabilità, decisioni e azioni, anche in circostanze disperate. Spostandosi ulteriormente lungo il continuum passivo-attivo, troviamo il comportamento di leadership denominato “management passivo per eccezione”. Questo termine si riferisce a uno stile di gestione per cui il leader non agisce finché i problemi non sfuggono di mano. A seguire, abbiamo il comportamento chiamato “management attivo per eccezione”, cioè uno stile caratterizzato dalla ricerca di errori, problemi e violazioni delle regole, assieme al monitoraggio e al controllo disciplinare dei subordinati. Questo stile di leadership è attivo, nel senso che è il leader che prende il controllo della situazione e non viceversa. Il leader controlla attivamente le azioni del subordinato e interviene quando le sue prestazioni non sono all’altezza degli standard attesi. All’estremità attiva della scala, si trova la leadership della “ricompensa contingente”, per cui la ricompensa dipende dalle prestazioni del subordinato. Questo stile di leadership implica un livello maggiore di attività e accettazione rispetto ai comportamenti precedenti, quando il leader fissa gli obiettivi, identifica gli scopi e pone le aspettative.

Secondo Beck (1967, 2011), per comprendere meglio le tendenze disposizionali dei leader a mostrare comportamenti di leadership attivi o passivi, si devono identificare le loro convinzioni fondamentali, ovvero le idee più profonde e durature sulla comprensione di sé, degli altri e del mondo. Il motivo risiede nel fatto che le convinzioni fondamentali siano strutture cognitive profonde, che poi guidano la selezione, la codifica e la valutazione di tutti gli stimoli, con un forte impatto sul comportamento successivo (Segal, 1988). In altre parole, le credenze influenzano la formazione di valutazioni che, a loro volta, attivano i comportamenti. Ad esempio, se una persona crede che il mondo sia un posto ingiusto, potrebbe percepire qualsiasi critica come ostile e, di conseguenza, agire in modo vendicativo quando viene criticato. Identificare le convinzioni sottostanti di un leader fornisce quindi una visione della relativa stabilità dei suoi modelli cognitivi e comportamentali. Gli autori sostengono che le differenze individuali nei tre tipi di valutazioni di base (vale a dire, credenze di base su di sé, sugli altri e sul mondo) rappresentino le differenze individuali nelle inclinazioni dei leader a praticare comportamenti di leadership attivi o passivi. Ad esempio, i leader che fondamentalmente pensano che il mondo sia un luogo sicuro, saranno generalmente più propensi a prendere iniziative e rischi, rispetto ai leader che vedono il mondo come un posto pericoloso.

Le differenze intra-individuali nel comportamento di leadership: le valutazioni delle credenze di base

Le credenze di base su di sé sono giudizi fondamentali che l’individuo ha su se stesso e sulle sue capacità, autostima e abilità per far fronte alle difficoltà (Judge e collaboratori, 1997). Tali credenze rappresentano un tratto di ordine superiore indicato da quattro tratti di ordine inferiore: locus of control, autoefficacia generalizzata, autostima e nevroticismo. Per “locus of control”, si fa riferimento alle convinzioni di una persona sulle cause degli eventi che accadono nella sua vita. Le persone con un locus of control interno credono di riuscire a modellare gli eventi nelle loro vite, mentre le persone con un locus of control esterno attribuiscono le cause degli eventi a fattori esterni, come la fortuna o le azioni di altre persone (Rotter, 1966). L’autoefficacia generalizzata si riferisce invece alle convinzioni di una persona sull’essere in grado o meno di affrontare con successo una vasta gamma di situazioni della vita (Smith, 1989). Infine per autostima si intende l’auto-accettazione di una persona, la simpatia e il rispetto di sé (Judge et al., 1997), mentre il nevroticismo sottolinea la propria tendenza a sperimentare emozioni negative a lungo termine. Resick e collaboratori (2009) hanno riscontrato che i leader aventi maggiori valutazioni positive su di sé, hanno un’elevata probabilità di sviluppare una leadership trasformazionale (leader che cercano di cambiare i pensieri, le tecniche e gli obiettivi esistenti per ottenere risultati migliori e un bene maggiore), rispetto ai leader che riportano valutazioni su di sé negative, perché loro possiedono la necessaria autostima richiesta per svolgere comportamenti trasformativi. Le persone che hanno invece valutazioni su di sé negative ritengono di non riuscire a cavarsela con successo in situazioni impegnative e perciò sembrerebbero inclini a intraprendere comportamenti di evitamento (Kammeyer-Mueller e collaboratori., 2009).

 Sebbene le valutazioni del sé siano state principalmente studiate come caratteristica stabile e correlata alla persona, c’è ormai accordo diffuso sul fatto che le autovalutazioni di base dovrebbero essere viste come costrutto basato sui tratti e sullo stato (Judge and Kammeyer-Mueller, 2004; Judge e collaboratori, 2012). In linea con questa idea, recenti ricerche hanno dimostrato che le autovalutazioni sul proprio stato variano effettivamente da una situazione all’altra, così come è stato mostrato per quanto riguarda le sue parti costitutive: autostima (Heatherton e Polivy, 1991), nevroticismo (McNiel e Fleeson, 2006; Debusscher e collaboratori., 2014), e autoefficacia (Bandura, 2006). Come accennato in precedenza, l’evidenza empirica supporta la nozione che i leader aventi credenze di base su di sé positive hanno più probabilità di essere prevalentemente trasformativi rispetto ai leader con credenze di base su di sé negative. Si suggerisce quindi che questa relazione vale anche a livello di stato, cioè più un leader si sente in controllo, fiducioso e capace in una situazione, più probabilmente tenderà a stimolare, ispirare e aiutare gli altri. Al contrario, meno il leader sente di avere il controllo e di essere capace, più è probabile che mostrerà comportamenti passivi.

Le credenze di base sugli altri fanno riferimento alla teoria implicita che un individuo possiede sulle altre persone, in particolare se ritiene o meno di potersi generalmente fidare degli altri (Judge e collaboratori, 1997). Questa credenza fondamentale sembrerebbe giocare un ruolo cruciale nelle inclinazioni comportamentali attive dei leader. Difatti, nell’essere incline a sfidare, stimolare, ispirare e istruire i subordinati, un leader deve credere che le persone siano degne di fiducia implicando, nel contesto della leadership, che queste ultime possano aspettarsi di dover adempiere pienamente alle proprie mansioni lavorative. I leader che non si fidano degli altri potrebbero invece essere inclini a monitorare da vicino i subordinati, per cercare eventuali errori. Inoltre, i leader che hanno più fiducia negli altri potrebbero essere più propensi a impegnarsi nelle interazioni con i loro subordinati, poiché è stato scoperto che la fiducia genera socialità (Fukuyama, 1995). Diversamente, i leader che sono preoccupati per gli altri potrebbero essere orientati alla socialità passiva e a evitare interazioni con i propri subordinati.

Nella sezione precedente, si è discusso su come siano fondamentali le credenze sugli altri per indurre i leader a percepire i subordinati come affidabili o inaffidabili. Tuttavia, nonostante l’esistenza di tale tendenza generale, sappiamo che il momentaneo livello di fiducia delle persone varia in funzione della persona con cui interagiscono (Mayer e collaboratori, 1995). Ricerche approfondite hanno dimostrato che i leader cambiano il loro comportamento in funzione della loro percezione del subordinato (Lowin e Craig, 1968). In particolare, la teoria “LMX” afferma che i leader cambiano il loro comportamento in base alla loro valutazione sulle capacità e sugli atteggiamenti dei diversi subordinati (Dansereau e collaboratori, 1975). Quando i leader si fidano dei loro subordinati, allora gli concedono più tempo e attenzione, li stimolano e gli forniscono più opportunità di crescita, rispetto a quando non si fidano di loro (Graen e Uhl-Bien, 1995). La ricerca ha dimostrato che, quando il livello di fiducia verso un subordinato è basso, i leader sono più propensi a sottolineare la loro posizione di autorità e rafforzare il controllo (Georgesen e Harris, 2006), a intensificare il monitoraggio (Mayer e Gavin, 2005) e a fornire meno informazioni, responsabilità e autonomia ai subordinati (Mayer e collaboratori, 1995).

Le credenze di base sul mondo sono le convinzioni, profondamente radicate, di un individuo sul mondo circostante (Judge e collaboratori, 1997), cioè se il mondo può essere affidabile o meno. La teoria originale delle credenze di base distingue tra tre valutazioni sul mondo fondamentali: credere che il mondo sia fondamentalmente benevolo (o malevolo); credere che il mondo sia fondamentalmente giusto (o ingiusto); credere che il mondo sia fondamentalmente eccitante (o pericoloso). Le persone che credono in un mondo essenzialmente benevolo sono convinti che il loro ambiente sia un posto sicuro e buono, dove si possono realizzare successo e felicità, e in cui è possibile mantenere valori umani. A tal proposito, queste persone sembrerebbero avere la corretta disposizione ad adottare comportamenti attivi e che, come ha dimostrato la ricerca, c’è una maggiore possibilità di sviluppare azioni tese all’aspirazione e orientate all’obiettivo quando si crede che il successo sia probabile (Jacobs e collaboratori., 1984; Bandura e Locke, 2003). Se un leader crede invece che il mondo sia un brutto posto, in cui il successo rappresenta l’eccezione (i valori non possono essere realizzati dove regna la sofferenza e la miseria), allora ci saranno buone possibilità di sviluppare forme di ritiro e passività, sulla base di un’aspettativa di non contingenza tra le azioni e i probabili esiti futuri (Seligman, 1975; Maier e Seligman, 1976). Al contrario, se un leader pensa che non sia possibile raggiungere obiettivi e valori in questo mondo, allora potrebbe essere meno incline a perseguirli attivamente. Inoltre, i leader che credono in un mondo eccitante, potrebbero avere la mentalità necessaria per pensare in modo innovativo, percorrere strade sconosciute e sfidare teorie ampiamente diffuse, mentre i leader che credono in un mondo pericoloso non correrebbero i rischi dei comportamenti di cui sopra. Nello specifico, credere che il mondo sia eccitante piuttosto che pericoloso, implica un senso generalizzato di sicurezza psicologica, ed è stato dimostrato che la sicurezza psicologica potrebbe promuovere la creatività nelle organizzazioni. In linea con questo, i leader che pensano a un mondo pericoloso aggirerebbero la possibilità di correre dei rischi, al fine di evitare di essere danneggiati o puniti in caso di inadempimento, preferendo piuttosto il ritiro nella passività “sicura”. In ultima analisi, i leader che credono che il mondo sia un luogo maligno, invece di incoraggiare il pensiero indipendente, potrebbero diventare controllanti e iper-vigili sugli errori commessi sotto la loro supervisione, nel tentativo di prevenire ritorsioni all’interno di un ambiente percepito come ostile.

 

La co-occorrenza della psicopatologia nel disturbo dello spettro autistico: inquadramento e trattamento

Il terzo simposio che si è svolto nel pomeriggio della prima giornata del congresso CBT-Italia è stato moderato dalla dott.ssa Giulia Giovagnoli, psicologa e psicoterapeuta del Centro AITA (Roma). Il simposio era dedicato alla questione della doppia diagnosi, ossia la co-occorrenza di uno o più disturbi psichiatrici nella popolazione con disturbo dello spettro autistico (ASD).

 

Disturbo dello spettro autistico e disturbi psichiatrici

La prima relatrice, la neuropsichiatra Martina Siracusano, ha presentato alcuni dati sulla letteratura riguardo alla prevalenza dei disturbi psichiatrici nelle persone con disturbo dello spettro autistico (che va dal 55 all’81%). In particolare, i disturbi più frequenti in questa popolazione risultano essere i disturbi d’ansia (in particolare, le fobie specifiche idiosincratiche) e quelli dell’umore.

La dott.ssa Siracusano ha poi esposto le maggiori criticità che riguardano il campo della diagnosi psicopatologica in questa popolazione:

  • reazioni avverse, inaspettate o atipiche agli stimoli che le persone con disturbo dello spettro autistico possono presentare rispetto alle persone a sviluppo tipico (ipersensorialità);
  • barriera comunicativa (difficoltà a riferire la propria condizione interna);
  • sovrapposizione dei sintomi (è autismo o altro?);
  • strumenti di misura inadeguati.

L’intervento sulla psicopatologia nel disturbo dello spettro autistico

A seguire, lo psicologo e psicoterapeuta Ivan Murtas ha confermato i dati di prevalenza dei disturbi psichiatrici nella popolazione con disturbo dello spettro autistico precedentemente esposti e ha approfondito le motivazioni per cui la sofferenza psicologica è più frequente nelle persone con disturbo dello spettro autistico. Si tratta sostanzialmente di uno scontro tra le caratteristiche tipiche dell’autismo e le richieste della società, organizzata per persone a sviluppo tipico.

Il dott. Murtas ha poi esposto i principi dell’intervento psicoterapeutico in situazioni di co-occorrenza psicopatologica. Le aree principali di intervento sono:

  • abilità socio-comunicative;
  • regolazione emotiva;
  • abilità organizzative e di pianificazione.

Allo stesso tempo, l’intervento deve essere orientato alla sensibilizzazione dei contesti e al trattamento specifico dei sintomi dei disturbi psichiatrici. Il dott. Murtas ha concluso l’intervento sottolineando l’importanza di lavorare sempre in un’ottica di Qualità di vita.

Affettività e sessualità nel disturbo dello spettro autistico

Il simposio è proseguito con l’intervento della dott.ssa Giovagnoli relativo all’affettività e sessualità nel disturbo dello spettro autistico, tema di cui si è poco discusso per molto tempo. Infatti, le difficoltà socio-relazionali portano spesso alla falsa credenza che le persone con disturbo dello spettro autistico non abbiano interesse a instaurare relazioni affettive e sessuali. La dott.ssa Giovagnoli ha quindi approfondito le specificità relative al campo di affettività e sessualità nelle persone con disturbo dello spettro autistico, mettendole in relazione ai sintomi e alle caratteristiche proprie di tale condizione. Ha poi presentato uno studio pilota sulla valutazione dell’efficacia di un training psicoeducativo rivolto ad adolescenti e giovani adulti con disturbo dello spettro autistico per ridurre il rischio di abuso sia come vittime che come agenti. Si tratta di un intervento di gruppo basato su tecniche CBT e supporti visivi che ha affrontato diversi temi tra cui: aspetti emotivi, contraccezione, relazioni, riconoscimento di situazioni di abuso, etc. Al termine del training, i partecipanti hanno mostrato miglioramenti sia nei livelli di educazione sessuale che in quelli del comportamento sessuale.

Allenare le abilità sociali nel disturbo dello spettro autistico

Infine, la dott.ssa Gabriella Tocchi, psicologa e psicoterapeuta, ha presentato un altro contributo: un intervento di Social Skills Training rivolto a un gruppo di adulti con disturbo dello spettro autistico. Si tratta di un programma CBT basato sulla teoria dell’apprendimento altamente strutturato e focalizzato sull’apprendimento delle abilità sociali. L’oggetto del training sono non solo le abilità sociali (saluto, ascolto, fare richieste, iniziare e portare avanti una conversazione, corteggiamento), ma anche le competenze cognitive, metacognitive ed emotive. Il training ha previsto l’utilizzo di strategie visive, role play, homework e una struttura prevedibile.

Per concludere, la dott.ssa Giovagnoli ha sottolineato l’importanza di lavorare in équipe nel caso delle comorbidità psicopatologiche nell’autismo, vista l’alta probabilità di dover combinare agli interventi psicoeducativi una terapia farmacologica.

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Rimuginio: terapia del pensiero ripetitivo negativo – Workshop 1 CBT Italia

Il Dott. Caselli inizia con una breve introduzione di come suddividerà i momenti teorici e descrittivi di questo workshop, portandoci in una intensa spiegazione del rimuginio e delle sue implicazioni cliniche nella vita quotidiana degli individui.

 

Congresso CBT-Italia: workshop 1

 Parte il 1° Congresso Nazionale CBT-Italia a Firenze: si dà il via alla prima – attesa e sperata – serie di incontri teorici e scientifici dedicati al mondo cognitivo-comportamentale.

Non abbiamo una data precedente eppure, dopo due anni di pandemia, sembra di essere tornati in un posto conosciuto nel quale il Dott. Gabriele Caselli ci guida alla scoperta del rimuginio e del suo trattamento.

Venerdì 4 novembre 2022, inizia il 1° congresso Nazionale CBT-Italia, e ci troviamo a Firenze. Ore 8:30, prima fascia oraria dell’intensa giornata formativa che ci aspetta: 4 sale tra le quali scegliere, 4 workshop differenti che spiegano lo stato dell’arte in merito ai temi trattati, scendendo nella pratica esperienziale terapeutica, attraverso esempi di casi clinici, simulazioni videoregistrate e brevi esercizi per noi che costituiamo la platea, per quanto possibile date le due ore di tempo concesse ai relatori. Non tarda ad arrivare la scelta, e ci dirigiamo in direzione della sala dove il Dott. Caselli sta per iniziare il suo workshop; tema: il rimuginio e il suo trattamento.

Il Dott. Caselli inizia con una breve introduzione di come suddividerà i momenti teorici e descrittivi di questo workshop, portandoci in una intensa spiegazione del rimuginio e delle sue implicazioni cliniche nella vita quotidiana degli individui, attraverso un dialogo animato da comprensione e motivazione, maturate in questi anni di ricerca sperimentale, ma soprattutto di pratica clinica costante. Come spiega il Dott. Caselli, a fronte dei dati ad oggi presenti, il pensiero negativo ripetitivo è un fattore di rischio per la severità dei sintomi correlati alla disregolazione emotiva nei Disturbi di Personalità, oltre ad essere inoltre un fattore predisponente e di mantenimento di tante altre sfaccettature della disregolazione emotiva nella popolazione generale. E’ quindi necessario comprendere e accettare questo processo cognitivo sostenuto da metacredenze come aspetto da trattare in modo diretto nelle sessioni di terapia, piuttosto che come effetto della patologia.

Come funziona il rimuginio?

Rimugino ergo sum, oppure catastrofizzo il futuro imminente? Cosa sia il rimuginio lo spiega bene il manuale che Caselli, Ruggiero e Sassaroli hanno pubblicato nel 2017: è un processo cognitivo ripetitivo che si focalizza su temi negativi, e che nell’ultimo decennio è stato rilevato come uno dei maggiori fattori di mantenimento della sofferenza psichica. Il Dott. Caselli ci informa “la maggior parte del tempo in cui noi viviamo serenamente, è tempo in cui non pensiamo a noi stessi. Le persone stanno bene quando non sono focalizzate dentro il proprio circuito di pensieri” e quindi viene da pensare che i nuovi motti fondatori della nostra società, “pensa a te stesso e sforzati di pensare alla migliore versione di te”, siano in realtà trappole cognitive con un certo lustro. E in effetti, il rimuginio è più ostico da trattare nel momento in cui ci siano credenze in merito alla sua utilità, per esempio laddove i pazienti siano convinti che pensare in modo ripetitivo a un problema o a un evento caratterizzato da una elevata quota di preoccupazione, aiuti a trovare una soluzione per affrontarlo meglio, per essere migliori, per avere una migliore performance.

È fondamentale capire quale pensiero regga il rimugino (bassa autostima, svalutazione delle proprie competenze, più in generale credenze sul proprio valore) e che pensiero si faccia largo una volta terminata una “sessione” vera e propria di rimuginio. Questo aiuta il terapeuta a capire come il rimugino solidifichi la visione catastrofica sul futuro o la visione globale negativa di se stessi. Quindi, il terapeuta potrà chiedere al suo paziente “ma dopo aver rimuginato, si è convinto di più che le è utile, forse perché ha trovato una soluzione, o sta peggio di prima?” e questo, d’altro canto, aiuta il paziente a iniziare gradualmente un lavoro di riconoscimento del proprio rimuginio, dei suoi effetti e delle implicazioni.

Nel riconoscimento iniziale del tipo di rimuginio del paziente, il terapeuta potrà inoltre accorgersi di fattori sensibili per la terapia e degli stimoli salienti per il paziente, poiché “spesso dietro il rimuginio di una cosa piccola (corpo, alimentazione, relazione, tema di disordine) abbiamo una tendenza a ruminare su un contenuto molto più attivante per il paziente”. Il Dott. Caselli esorta ancora a chiedere ai pazienti “il problema è risolvibile dal rimugino? Cosa si immagina potrebbe succedere se lei smettesse di rimuginare?”, poiché nella pratica di trattamento occorre concentrarsi, in modo graduale, sulle strategie e sulle tecniche per migliorare il controllo metacognitivo così da spostare la direzione della terapia, conseguentemente, alla possibilità di ridurre la paura di abbandonare il rimuginio. Serve a questo proposito indagare i fattori primigeni al sentimento di paura e di vuoto che sorgono nel paziente allorché pensi di interrompere le sue attività di rimuginio.

Come intervenire sul rimuginio?

Questi pazienti hanno paura di stare male una volta abbandonato il rimuginio quindi “si può offrire loro un lavoro condiviso per provare, insieme, a vietare il rimuginio o a vincolarlo a un lasso di tempo specifico e breve della giornata, vedendo cosa cambierebbe nell’esistenza di questi individui, perché oltre a quello che perderebbero, cosa risparmierebbero?”. Come provocatoriamente dice il Dott. Caselli “il monte felicità non esiste, e se esiste è parte del problema”, perciò in un’ottica di accettazione della realtà e delle sue conseguenze si aiuta il paziente a riprendere il controllo delle proprie attività mentali, un controllo sano, poiché, come sappiamo, ai due estremi abbiamo quasi sempre o mancanza totale di gestione o iper-controllo. Si può chiedere di rimuginare di più, più spesso, perché per farlo il paziente deve riprendere per forza il controllo di quell’attività, e prendere il controllo “significa mettere una mano di coscienza su quella cosa e quindi se mi accorgo che posso avere il controllo su quella cosa significa che posso averlo anche per abbandonarla, creando un’esperienza sana di me che riesco a gestire qualcosa che mi fa male”.

Il workshop procede con la presentazione di tecniche specifiche che possono essere utilizzate per l’esplorazione e il riconoscimento del rimuginio, la riduzione della paura di abbandonarlo e le strategie alternative di pensiero. Troviamo in questo workshop gli spunti per tornare a casa arricchiti, dopo aver assistito a una presentazione sentita e persuasiva, in una stanza congressuale che contava più di cento persone all’ascolto.

Ci salutiamo con i messaggi chiave da tenere in esame nel percorso di monitoraggio e prevenzione delle ricadute: agire senza pensarci troppo e lasciare andare la preoccupazione del fallimento, azioni rivolte ai pazienti, ma che oggi lasciano riflettere anche noi auditori.

 

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La prima giornata del congresso CBT-Italia

Si è consumata la prima giornata del primo congresso nazionale di CBT-Italia, l’associazione che intende rafforzare in Italia la pratica clinica cognitivo comportamentale più classica, appunto CBT secondo l’acronimo anglofono, affiancandosi alle altre società italiane già mature di questo campo che privilegiano -non senza essere inclusive verso la CBT classica, beninteso- altre varianti della psicoterapia cognitivo-comportamentale in senso lato, come quella appunto comportamentale o quella denominata spesso costruttivista e talvolta in altri modi.

Non che la società CBT-Italia intenda espungere da sé queste diverse tradizioni cliniche. Anzi, tra i fondatori di CBT-Italia ci sono esponenti delle altre varie tradizioni già menzionate. Intende semplicemente riprendere una certa tradizione CBT che si rifà a Beck e che è andata in parte indebolendosi, non solo in Italia ma anche altrove, secondo un fenomeno che Glenn Waller ha chiamato “drift”: deterioramento.

L’apertura del congresso

Per questo l’apertura del congresso è stata dedicata a un excursus storico raccontato da Paolo Moderato, presidente di CBT-Italia, racconto che ha avuto il suo controcanto da parte di Fabio Monticelli e Aristide Saggino, presidenti delle associazioni che coltivano quelle altre tradizioni a cui abbiamo accennato. Il racconto di Moderato non ha nascosto quegli aspetti dello sviluppo della CBT classica che ne hanno determinato una parziale ripensamento dei suoi principi clinici e, se vogliamo, anche una crisi salutare, ovvero quello sviluppo processuale che da almeno un ventennio ha spostato l’accento dell’azione clinica dal lavoro sui contenuti cognitivi, le vecchie credenze, ai processi cognitivi. Come si sa, si tratta di uno sviluppo che in qualche modo ha determinato un recupero dei principi dell’analisi funzionale. Su questa apertura ha avuto buon giuoco Saggino a rimarcare a suo favore, ma ne aveva buon diritto, come il processualismo abbia una radice comportamentale che va confessata, e correttamente la ha confessata Moderato, anche lui non per caso di formazione comportamentale. E tuttavia in questa rivendicazione Saggino non ha saputo trattenersi dal definire la crisi della CBT non salutare, come è ogni crisi del resto, ma patologica perché ne tarla i tessuti. Diagnosi troppo pessimistica. Il processualismo CBT e/o di terza onda recupera -è vero- l’impostazione funzionalista del comportamentismo ma non rinnega la svolta cognitiva che ha saputo organizzare la pratica comportamele in un respiro più ampio e più capace di concettualizzazioni capaci di catturare i disturbi nella loro interezza e non solo singole catene disfunzionali.

La risposta di Monticelli, invece, non si è giocata sul rinfacciare alla CBT classica la svolta processuale ma nel sottolineare l’interesse della tradizione costruttivista per gli aspetti evolutivi e relazionali, aspetti che sono stati declinati però, come di consueto in una certa tradizione costruttivista, non in maniera convergente con i principi cognitivi classici ma che -almeno a mio parere- ne divergono, puntando verso un paradigma ormai sempre più compiutamente relazionale, come segnalato dall’adozione da parte di Monticelli di una dizione operativa e scientificamente esplicativa della relazione, quella di rotture e riparazioni. In tal modo la relazione diventa conclusivamente l’unità d’analisi teorica del processo terapeutico e non più uno strumento pratico ed applicativo.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO LA GALLERY

La CBT in Italia – storia, stato dell’arte, sviluppi futuri – tavola rotonda

La dialettica tra impostazione CBT classica e controparti funzionalistico-processuali e/o interpersonali ed evolutive è proseguita nella tavola rotonda successiva in cui si sono confrontati esperti nella psicoterapia dei disturbi di personalità, disturbi che sono da sempre l’arena di confronto sui limiti, reali e supposti, dell’impostazione CBT classica. In questo caso i confini erano meno netti che nella tavola rotonda precedente. Le procedure descritte da Nino Carcione, Cesare Maffei, Ambra Malentacchi e Filippo Perrini combinano tutte le varie tradizioni: cognitiva, cognitivo comportamentale, costruttivista, evolutiva, interpersonale, processuale, esperienziale e così via. Il maggiore grado di sovrapposizione e di eclettismo ha determinato un minor grado di contrapposizione, come forse era da attendersi data l’impostazione della tavola rotonda, più clinica e meno teorica di quella precedente. Il che è stato un bene ma forse anche un male. Integrare è clinicamente positivo ma non sempre è al servizio della chiarezza e della linearità delle idee.

Le relazioni magistrali

Il confronto è proseguito nel pomeriggio nelle presentazioni magistrali di Sandra Sassaroli e Judith Beck, quest’ultima intervenuta online dagli Stati Uniti. Un benvenuto intervento femminile nel pomeriggio dopo la prevalenza maschile del mattino, se vogliamo essere per un momento politicamente retti e corretti. Nei due interventi nettezza teorica e flessibilità clinica si sono mescolate con più naturalezza che nel mattino, più incline alla chiarezza e distinzione Sassaroli, che ha portato avanti il suo lavoro ormai pluriennale di definizione del corretto e classico lavoro cognitivo comportamentale senza rinunciare alla radice evolutiva (della cui integrazione nel cognitivismo clinico è una delle madri, sia in Italia come altrove) e alla cura della relazione, però descritta e trattata in termini convergenti con i principi cognitivi, ovvero di condivisione con il paziente della formulazione del caso e di aderenza al razionale del trattamento da parte del paziente, maneggiando eventuali crisi attraverso la rinegoziazione della formulazione stessa e non per mezzo l’analisi della relazione, che rimane in Sassaroli una cornice e non una unità d’analisi.

Più incline all’eclettismo la presentazione di Judith Beck, con una definizione di CBT classica estremamente flessibile, forse fin troppo quasi a concepirla come un contenitore universale di ogni attività psicoterapeutica, e forse giocando un po’ troppo con una definizione di cognizione che coincide con qualunque manifestazione dell’attività mentale e potendo così comprendere in essa ogni cosa.

 

CBT-Italia 2022: La prima giornata #1

CBT-Italia 2022: La prima giornata #2 Le tavole rotonde

 

CBT-Italia 2022: La prima giornata #3 – Le relazioni magistrali

 

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Comorbilità vera e comorbilità spuria nei disturbi dell’alimentazione: problemi concettuali e strategie di intervento

Firenze, dalla prima giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Disturbi dell’alimentazione: comorbilità o casi complessi?

Il simposio dal titolo “Comorbilità vera e comorbilità spuria nei disturbi dell’alimentazione: problemi concettuali e strategie di intervento” si apre con la presentazione della dott.ssa Simona Calugi “Disturbi dell’alimentazione: comorbilità o casi complessi?”. Nel corso della presentazione si sottolinea che importanti quesiti da porsi riguardano la capacità di discriminare tra una comorbilità spuria e una comorbilità vera, come anche la capacità del clinico di chiedersi quante competenze possiede nella valutazione diagnostica e nel trattamento del disturbo coesistente. Relativamente alla tematica di comorbilità psichiatrica e disturbi dell’alimentazione viene messa in luce la rilevanza dell’impatto delle varie condizioni psicopatologiche sulla vita quotidiana del soggetto, la considerazione dell’insorgenza cronologica delle condizioni, il fatto che la ricerca si concentri prevalentemente su piccoli campioni e spesso in assenza di un gruppo di controllo. Inoltre la dott.ssa Calugi evidenzia come la comorbilità, un concetto definito negli anni 70 da Feinstein, sia un tema complesso sia concettualmente che clinicamente. Date le caratteristiche cliniche dei disturbi dell’alimentazione (come ad esempio la presenza di sintomi depressivi o ansiosi nel corso di un disturbo dell’alimentazione) viene delineato come sia più̀ opportuno e clinicamente utile parlare di “casi complessi” piuttosto che di comorbilità. Prendendo nel complesso quanto detto, viene evidenziato che la complessità̀ è la norma piuttosto che l’eccezione nei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione.

L’approccio pragmatico della CBT-E nella gestione dei casi complessi

Il simposio prosegue con la presentazione della dott.ssa Calugi dal titolo “L’approccio pragmatico della CBT-E nella gestione dei casi complessi”. La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) si avvale di un approccio pragmatico nell’affrontare la comorbilità coesistente al disturbo dell’alimentazione la quale viene riconosciuta e trattata solamente se significativa e se produce implicazioni cliniche rilevanti. Di conseguenza, la CBT-E divide la comorbilità in tre gruppi: il primo è quello dei disturbi che non interferiscono con il trattamento dei disturbi dell’alimentazione e che probabilmente rispondono ad esso (ad esempio la depressione clinica secondaria e l’ansia sociale). In tal caso i disturbi devono essere individuati, monitorati e rivalutati nel corso del trattamento senza però dare una speciale attenzione ad essi. Un secondo gruppo è quello dei disturbi che non interferiscono con il trattamento dei disturbi dell’alimentazione ma non rispondono ad esso (ad esempio il disturbo post-traumatico da stress e il disturbo ossessivo-compulsivo). In tal caso i disturbi devono essere individuati e affrontati primo o dopo il disturbo dell’alimentazione ma non contemporaneamente. Infine, vi è il gruppo dei disturbi che interferiscono con il trattamento dei disturbi dell’alimentazione (tra cui l’uso di sostanze continuativo, i disturbi psicotici acuti e la depressione clinica). La presentazione sottolinea come questi disturbi debbano essere riconosciuti e affrontati prima di iniziare il trattamento. La dott.ssa Calugi evidenzia quindi che in caso di comorbilità bisogna chiedersi se il disturbo è direttamente attribuibile al disturbo dell’alimentazione o alle sue conseguenze, se può interferire con il successo del trattamento del disturbo dell’alimentazione, e se tale disturbo svanisce dopo il trattamento del disturbo dell’alimentazione.

La gestione CBT-E del disturbo dell’alimentazione associato alla depressione clinica

Il simposio si conclude con al presentazione della dott.ssa Sermattei intitolata “La gestione CBT-E del disturbo dell’alimentazione associato alla depressione clinica”. La coesistenza dei disturbi dell’alimentazione con i disturbi dell’umore è stata riportata in oltre del 40% dei casi, ma frequentemente la diagnosi di depressione clinica co-esistente non è corretta poiché vi è una sovrapposizione concettuale tra i due disturbi e risulta complesso discriminare tra una comorbilità vera o spuria. Viene evidenziato come per l’intervento di terapia sia fondamentale distinguere tra depressione secondaria al disturbo dell’alimentazione e depressione clinica coesistente. Nel caso di depressione secondaria al disturbo dell’alimentazione, questa non dovrebbe essere trattata poichè la sua risoluzione avviene a seguito del miglioramento della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. Nel caso di una depressione clinica coesistente, invece, essa dovrebbe essere identificata e trattata (ad esempio con un trattamento farmacologico a base di antidepressivi o in taluni casi è possibile considerare un ricovero) dato che interferisce con il trattamento del disturbo dell’alimentazione.

In conclusione, il simposio ha sottolineato come il termine “comorbilità” per descrivere i problemi clinici coesistenti con il disturbo dell’alimentazione sia spesso usato in modo improprio nell’area dei disturbi dell’alimentazione; inoltre è stato rimarcato che spesso nei trattamenti multidisciplinari è raramente valutato se i problemi clinici coesistenti ostacolino o meno il trattamento del disturbo dell’alimentazione.

La discriminazione digitale verso i più anziani, il digital ageism – Psicologia Digitale

L’ageismo digitale riguarda tutti i pregiudizi verso gli over 50 nel mondo digitale. Questi pregiudizi possono essere impliciti (“gli anziani non sanno usare le tecnologie”) o espliciti (in fase di ricerca, sviluppo e test di nuove applicazioni non vengono considerate alcune fasce d’età). 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 33) La discriminazione digitale verso i più anziani, il digital ageism

 

Il numero delle persone anziane che utilizzano le tecnologie digitali è in costante crescita; nonostante questo la ricerca presenta ancora bias e pregiudizi.

Le tecnologie digitali offrono innumerevoli vantaggi per tutti, a qualsiasi età. Con strumenti ed utilizzi diversi, ma pur sempre alla portata di tutti, dai più piccoli ai più anziani. Proprio per questi ultimi si parla di “approccio age-tech”, ovvero di tutte le soluzioni tecnologiche dedicate agli over 50. Un approccio age-tech (o agetech) alla tecnologia vuol dire progettare, produrre, distribuire una tecnologia tenendo conto di specifiche caratteristiche di una fetta di mercato, quello appunto degli over 50, e di possibili loro limitazioni fisiche e/o cognitive, come di udito, della vista o della mobilità (Orlov, 2021).

La linea di separazione tra l’interesse per specifiche condizioni e la discriminazione in realtà è sottile: anche se più frequenti in età avanzata, questi problemi possono presentarsi a qualsiasi età. Così come, viceversa, dare per scontato che l’età sia una barriera nell’uso di tecnologie è un’altra forma di discriminazione.

Che cos’è l’ageismo digitale

La parola “ageismo” (dall’inglese “ageism”) si riferisce “agli stereotipi, ai pregiudizi e alla discriminazione nei confronti degli altri o di se stessi sulla base dell’età” (World Health Organization, 2022).

Il termine, coniato dallo psichiatra e geriatra americano Robert Butler nel 1969, è poi diventato di uso comune solo recentemente (Accademia della Crusca, 2022). Questa forma di discriminazione può manifestarsi in modo più o meno sottile come quando, per esempio, si ironizza sul fatto che alcune attività (uscire con amici o fare un aperitivo) non siano per anziani oppure in annunci di lavoro in cui viene richiesto un certo limite di età.

Tra le forme più implicite – ma non per questo meno spiacevoli – c’è quello digitale.

L’ageismo digitale riguarda tutti i pregiudizi verso gli over 50 nel mondo digitale. Questi pregiudizi possono essere impliciti (“gli anziani non sanno usare le tecnologie”) o espliciti (in fase di ricerca, sviluppo e test di nuove applicazioni non vengono considerate alcune fasce d’età).

L’ageismo digitale nella ricerca tecnologica

L’ageismo digitale si riferisce a stereotipi, pregiudizi e discriminazioni che funzionano “per sottrazione”, per “non inclusione” più che maniferstarsi in modo diretto ed esplicito.

La quasi totalità degli studi sulle pratiche digitali non include nei loro campioni gli anziani. Gli over 50 sono sottorapresentati anche perché vengono ritenuti meno interessati alle applicazioni digitali sulla base, ancora una volta, di un pregiudizio e non di dati e ricerche in merito. Inoltre, la maggior parte degli approcci considera gli anziani secondo lo stereotipo di persone poco o per nulla competenti in materia di tecnologia (Rosales e Fernández-Ardèvol, 2020).

Si ipotizza che questo sia dovuto ad un bias di categorizzazione in chi commissiona e attua ricerca e sviluppo in ambito tecnologico: per motivi storici e culturali, attualmente si tratta di under 35/40. Secondo alcuni (ad esempio McPherson et al., 2001; Kretchmer, 2017) il punto è che c’è una forte tendenza all’omofilia, quindi a considerare gruppi simili al proprio piuttosto che diversificando il campione, andando di fatto ad escludere i più anziani.

La ricerca tecnologica non è nuova a bias del genere: diversi studi hanno rilevato per esempio sistemi di riconoscimento facciale meno accurati nel riconoscere persone di colore. Questo avviene perché chi progetta esclude a priori alcune categorie, di fatto discriminandole (Buolamwini e Gebru, 2018).

Andare oltre le discriminazioni

Escludere in fase di progettazione un’intera categoria implica creare tecnologie che non ne prendono in considerazione le specifiche.

Creare algoritmi più inclusivi vuol dire includere pratiche culturali, sociali, ma anche aspetti e caratteristiche cognitive, di segmenti più ampi della popolazione.

Vuol dire, per esempio, che nel realizzare sistemi biometrici si tenga conto dei cambiamenti corporei che si verificano con l’invecchiamento: per esempio, i sistemi biometrici basati sulle impronte digitali non tengono conto del fatto che esse possono alterarsi con l’età.

Ancora, i captcha (Completely Automated Public Turing test to tell Computers and Humans Apart) ) sono utilizzati per identificare se il soggetto che cerca di accedere ad una piattaforma digitale sia un umano o un bot. Questa verifica avviene tramite alcuni piccoli test che un bot in teoria non sarebbe in grado di fare: trascrizione di testi distorti o di brevi audio, identificazione di particolari elementi in un’immagine. Alcuni studi hanno mostrato come i captcha possono contenere elementi discriminanti in quanto testi, audio e immagini tendono a riflettere i contenuti culturali occidentali oppure possono essere più difficili per chi ha difficoltà di apprendimento o per chi deve affrontare il naturale declino fisico, come gli anziani (Rosales e Fernández-Ardèvol, 2020).

È rilevante comprendere come funzionano questi meccanismi di discriminazione ed introdurre queste conoscenze nella progettazione di algoritmi più inclusivi.

L’ageismo digitale non ha ricevuto molta attenzione fino ad ora; probabilmente col tempo e con l’aumento degli over 50 connessi diventerà un argomento più rilevante. Del resto, i nativi digitali di oggi saranno gli anziani digitali di domani.

 

Autostima: tra life skills e strutture cerebrali

L’autostima, a seconda del suo livello alto o basso, influenza l’atteggiamento e il modo in cui un individuo affronta gli eventi di vita stressanti. 

 

 L’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra l’immagine che l’individuo ha di sé e l’immagine di ciò che vorrebbe essere. Le persone che si valutano positivamente riconoscono di avere sia pregi che difetti, nutrono fiducia nelle proprie capacità e si impegnano maggiormente per migliorare le proprie debolezze. Possedere un’alta autostima è una risorsa fondamentale, sia per la salute fisica che mentale, poiché consente di sviluppare capacità di regolazione emotiva e capacità di adattamento e di resistenza alle situazioni di forte stress. A tal proposito, essa può essere considerata una strategia di coping, che aiuta a ripristinare le risorse vitali, esaurite dalle situazioni avverse, che mettono a repentaglio il benessere fisico e psicologico dell’individuo (Pyszczynski et al., 2004).

Le persone che si autovalutano negativamente, invece, possiedono una bassa autostima, che può condurre a demotivazione, disimpegno e disinteresse, inficiando gravemente sulle capacità di azione, riuscita e adattamento. Tali individui tendono ad arrendersi facilmente, dopo un fallimento si colpevolizzano per mancanza di capacità e abilità, e sono più vulnerabili ai fattori di stress psicosociali. La combinazione di questi fattori rappresenta un fattore di rischio, conducendo alla possibile comparsa di condizioni invalidanti sia mediche che psicologiche.

Fattori che influenzano l’autostima

L’autostima sembra essere influenzata da due ordini di fattori: uno psicologico e l’altro neuroanatomico, seppur vi sia un numero limitato di studi pubblicati in questo campo.

Fattori psicologici

Da un punto di vista psicologico, gli studi riportano come l’autostima possa essere influenzata, potenziata e supportata promuovendo le life skills (OMS, 1993).

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le life skills sono tutte quelle abilità e competenze cognitive, emotive e relazionali, necessarie per agire in modo efficace sia sul piano individuale che su quello sociale e relazionale. L’educazione allo sviluppo socio-emozionale è essenziale all’implementazione dell’efficacia personale e collettiva, e quindi allo sviluppo e al mantenimento dell’agio psicosociale (Svenson, 2002), consentendo di vivere una vita produttiva e di qualità, di sviluppare al massimo il proprio potenziale, e di avere a disposizione le risorse sufficienti per affrontare efficacemente situazioni stressanti e fallimentari della vita quotidiana.

Nel documento del 1993, l’OMS identificava un nucleo di dieci competenze:

  • Decision making: capacità di prendere le decisioni in diversi momenti e circostanze di vita.
  • Problem solving: capacità di risolvere i problemi della vita in modo costruttivo.
  • Pensiero creativo: capacità di considerare le opzioni disponibili e le conseguenze che derivano dal prendere una scelta, permette di essere flessibili e di adattarsi alle situazioni di vita quotidiana.
  • Pensiero critico: capacità di analizzare le situazioni in maniera costruttiva.
  • Comunicazione efficace: capacità di sapersi esprimere attraverso un linguaggio verbale e non verbale, adattandosi alle regole vigenti nella cultura e società di appartenenza.
  • Capacità di relazioni interpersonali: capacità di creare rapporti sociali, interagire positivamente con gli altri e di supportarsi a vicenda; rappresenta una fonte di benessere mentale.
  • Autoconsapevolezza: capacità di riconoscere i propri punti di forza, le proprie qualità, ma anche punti di debolezza e vulnerabilità.
  • Empatia: capacità di supportare e sostenere una persona in momenti avversi della vita, anche in situazioni non familiari.
  • Gestione delle emozioni: capacità di riconoscere le emozioni proprie e altrui e di individuarne le cause; permette di adattare il proprio comportamento al contesto al fine di rendere prevedibile quello altrui.
  • Gestione dello stress: capacità di riconoscere la fonte dello stress e sviluppare strategie adattive per farvi fronte.

Le politiche socioeducative dovrebbero pertanto realizzare training di prevenzione, d’integrazione e di promozione dell’educazione alle life skills, attraverso cui incrementare il livello di autostima degli individui (Muafi e Gusaptono, 2010) e di conoscenza dell’abilità insegnata (Papacharisis, 2005)

Fattori neuroanatomici

Il contributo delle neuroscienze descrive una correlazione diretta tra autostima e volume di materia grigia di una regione cerebrale, l’ippocampo (Pruessner, 2005). Misurando il volume della materia grigia (GM) dell’ippocampo mediante la morfometria basata sui voxel (VBM) è emerso che, persone con bassa autostima, possiedono un volume ippocampale ridotto (Pruessner et al., 2005; 2010). Il volume ridotto di tale struttura cerebrale è associato a una maggiore vulnerabilità allo stress e a minori capacità di resilienza, e costituisce un fattore di rischio per alcune malattie organiche come il diabete di tipo 2 (Sigal et al., 2006), malattie cardiovascolari (Fletcher, 1996) e malattie respiratorie (Garcia-Aymerich et al., 2006).

Diversamente, persone con alta autostima presentano un volume ippocampale più grande, dotato di più estese connessioni neuronali.

È stato osservato che lo stress cronico attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, rilasciando nel sangue l’ormone cortisolo, che può avere effetti significativi sul cervello: riduce il volume dell’ippocampo, con conseguenze negative sulla memoria episodica e sulla regolazione del tono dell’umore (McEwen et al., 2016).

 Nella pratica scientifica, diversi studi hanno dimostrato una correlazione positiva tra lo svolgimento di attività fisica e l’aumento dell’autostima globale. Tra i vari benefici dell’attività sportiva vi sono, oltre all’innalzamento dell’autostima, miglioramenti sul benessere fisico, cognitivo e sociale (Liu et al., 2015). Tali benefici vi sono quando l’attività motoria, intesa come combinazione di esercizi aerobici, di forza e di equilibrio, è svolta in maniera regolare, moderata e costante nel tempo, per almeno 150 min a settimana negli gli adulti, e per almeno 60 min al giorno in bambini e adolescenti (OMS, 2020).

Studi più recenti riportano la presenza di un fattore neurofisiologico, legato all’attività fisica, che potrebbe influenzare il livello di autostima: il BDNF (fattore neurotrofico cerebrale; Anderson & Shivakumar, 2013; Szhuany et al., 2015).

Il BDNF è una proteina che favorisce la nascita di nuovi neuroni e rafforza quelli esistenti, aumenta la plasticità cerebrale, permette di imparare più velocemente, di ricordare meglio, e di godere di eccellenti prestazioni cerebrali. Tale proteina, inoltre, agisce come antidepressivo naturale, contrasta gli effetti negativi dello stress sul cervello, modula sia il tono dell’umore che la qualità del parenting (Verburgh et al., 2013). Il processo di neurogenesi avviene principalmente nell’ippocampo che, quando sottoposto all’influenza del BDNF (Wrann et al., 2013), mostra cambiamenti morfologici nelle connessioni tra le cellule e un aumento di volume (Greenberg et al., 2009; Park & Poo, 2013). Carenze di BDNF a livello dell’ippocampo sembrerebbero essere correlate a una riduzione nel suo volume, a bassi livelli di autostima e a stati depressivi e ansiosi (Kojima et al., 2019).

Il volume della materia grigia di una regione cerebrale sembrerebbe essere malleabile in seguito a un periodo di training sportivo (Draganski et al., 2004), pertanto, valutando con risonanza magnetica funzionale il volume della materia grigia nella regione che correla con l’autostima, è possibile verificare l’efficacia dei trattamenti.

L’attività fisica risulta così essere un fattore protettivo e una risorsa nel garantire il benessere fisico, psicologico, cognitivo e sociale, contribuendo a ridurre la sintomatologia di alcune patologie come, ad esempio, la depressione (Verburgh et al., 2013; Tan et al., 2016).

Vi sono numerose evidenze del fatto che chi conduce una vita attiva ottenga punteggi elevati in test che misurano il tono dell’umore (O’Connor, 2000; O’Neal Chambliss et al., 2000) o il grado di soddisfazione per la propria vita (Speltini, 1991; Steptoe & Butler, 1996; Hassmen, 2000), e bassi punteggi in quelli che misurano ansia e depressione (Raglin et al., 1985; Petruzzello, 1991; Bodin & Martinsen, 2004; Blumenthal at al., 1982).

Sarebbe opportuno incrementare il livello di autostima, anche attraverso un training sportivo, così da ottenere risultati sul benessere fisico, psicologico e relazionale.

 

Controvento – Riflessioni sull’adolescenza (2022) di A. Di Stanislao – Recensione

Il libro “Controvento – Riflessioni sull’adolescenza”, scritto dal Dott. Augusto Di Stanislao, accompagna il lettore alla comprensione dell’adolescenza, fase di vita cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità. 

 

 Il libro Controvento – Riflessioni sull’adolescenza, edito Duende, è stato scritto dal Dott. Augusto Di Stanislao, Psicologo-psicoterapeuta, Docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso il corso di laurea in infermieristica e Docente di Clinica dell’attaccamento presso la scuola di Specializzazione in psicologia clinica dell’Università di L’Aquila, scrittore. Il manuale accompagna il lettore alla comprensione dell’adolescenza, fase di vita cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità.

Il manuale si propone di fornire una panoramica sul continuo divenire adolescenziale e le sue peculiarità, dunque di accompagnare il lettore alla comprensione di questa fase della vita considerata uno snodo cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità. Si tratta di uno strumento utile a chiunque voglia informarsi su cosa comporti essere adolescente e, ancora di più, ai genitori di ragazzi adolescenti per fornire loro conoscenze su come attraversare questa delicata fase, o alle altre figure che si occupano di loro. Nel manuale vengono infatti illustrati concetti come cosa sia l’adolescenza, quanto dura, che cambiamenti comporta, che sfide prevede, come possono comportarsi i genitori e quali stili educativi possono adottare. In breve, funge da guida per capire cosa accade in questa fase evolutiva e mostra come molti comportamenti che possono sembrare strani sono in realtà normali.

L’adolescenza è stata concettualizzata da vari studiosi negli anni: da Anna Freud (1895-1982) che l’ha definita un disturbo evolutivo, una “lotta emotiva” che interrompe una crescita serena, e impedisce il mantenimento di un equilibrio, a Winnicott (1896-1971), il quale ritiene che l’adolescenza abbia bisogno di cura, e con ciò intende che è necessario raggiungere gradualmente la maturazione, fino a che emergerà l’età adulta. Negli anni ‘60 l’adolescenza è stata concettualizzata come una fase di crescita umana, che si contraddistingue per compiti evolutivi e sfide, ma che non necessariamente deve comportare una crisi. Successivamente, verso metà degli anni ‘80, è stata data maggiore rilevanza al contesto sociale, includendo le figure genitoriali e familiari come partecipanti attivi del cambiamento evolutivo in adolescenza.

L’autore parte dal concetto dell’essere “controvento”, che ritiene sia caratteristico dell’adolescenza: ma che significa?

 L’adolescente, nella visione comune, si pone sempre in contrasto con il resto, è sempre “contro”. Questo aspetto viene spesso considerato problematico poiché difficile da gestire, tuttavia, non è necessariamente così. Infatti, se si considera la fase adolescenziale come una metamorfosi, è necessario accettare la presenza di trasgressione e opposizione, che svolgono un ruolo positivo e funzionale alla crescita e al cambiamento. La fase adolescenziale comporta un significativo disagio e senso di impotenza, sia nel singolo adolescente sia nel sistema familiare; si tratta di un periodo in cui si possono manifestare anche problematiche psicologiche e l’esordio di diverse patologie psichiche. Proprio per questo diventa fondamentale la vicinanza degli adulti che sappiano rimanere in ascolto, che siano presenti senza essere eccessivamente invadenti. Si tratta di concretizzare una presenza costante, un ascolto non giudicante, che possono trasformarsi in dialogo quando è l’adolescente ad avvicinarsi.

I bisogni dell’adolescente devono essere capiti, affrontati e risolti mediante un rapporto di reciprocità generazionale, mettendo anche in discussione ruoli e funzioni dati per certi, fissi e immutabili. Crescere assieme è di estrema importanza, ma è anche essenziale non confondere i ruoli genitore-figlio. In questo percorso i genitori hanno il compito importante di accogliere l’adolescente all’interno del processo di individuazione-separazione, comprendendolo nel suo tentativo di conquistare la propria autonomia e di trovare una sua identità.

Al giorno d’oggi l’adolescenza sembra durare di più, sia per motivazioni economiche, sia perché si rimane più a lungo nel sistema educazionale (scuola e università). Questo è in linea anche con le evidenze scientifiche secondo le quali la maturità psicologica non viene raggiunta durante l’adolescenza, bensì più tardi, intorno ai 25 anni o, comunque, quando si esce dalla dimensione domestica.

 

Covid-19 e disagio psichico: l’impatto delle misure restrittive 

Thompson e colleghi (2022) hanno indagato se e in che modo l’impatto delle restrizioni imposte dai governi e l’esposizione al virus Covid-19 avessero avuto effetti sulla salute mentale dei cittadini.

 

Le misure restrittive legate al Covid-19

 A inizio 2020, dopo i primi casi accertati di Covid-19, i governi di diverse nazioni hanno messo in atto delle misure restrittive per contenere il diffondersi dei contagi. L’adozione di tali misure ha portato gli esperti in materia (ma anche i meno esperti) a riflettere sull’impatto delle stesse sulla salute mentale dei cittadini e a chiedersi se la soluzione per arginare l’emergenza medica, non fosse in realtà portatrice di ulteriori problematiche di natura psichica.

Uno studio longitudinale pubblicato di recente, condotto da Thompson e colleghi (2022), fornirebbe una risposta agli interrogativi nati dal dibattito sulle misure restrittive. La ricerca ha indagato se e in che modo l’impatto delle restrizioni imposte dai governi e l’esposizione al virus, sia diretta (ad esempio, malattia fisica o conoscenza di qualcuno che è morto per Covid-19) che indiretta (basata sulle informazioni trasmesse dai media), avessero avuto effetti sulla salute mentale dei cittadini.

Nel periodo che va dal 18 marzo 2020 al 18 aprile 2020 e dal 9 settembre 2020 al 16 ottobre 2020, sono state raccolte informazioni su un campione rappresentativo di adulti statunitensi (N = 5.594) in merito alle lore risposte psicologiche alla pandemia da Covid-19 e all’esposizione personale diretta e indiretta al virus. Parallelamente è stato indagato l’andamento, per ogni Stato, della situazione pandemica e della sua gravità, attraverso l’analisi del numero di decessi a livello nazionale e il rigore delle misure restrittive adottate da ogni Stato nel tempo.

Gli effetti psicologici del Covid-19

Per quanto riguarda i risvolti psicologici della pandemia, i partecipanti hanno risposto a quesiti sui sintomi di angoscia, di solitudine e di stress traumatico sperimentati nel corso dell’ultima settimana. Hanno inoltre fornito informazioni sull’esposizione al virus, ovvero se avessero contratto o meno il Covid-19, se conoscessero qualcuno malato o morto per via del Covid, e quante ore al giorno avessero trascorso mediamente – nell’ultima settimana – a informarsi sui media (sia tradizionali che online) in merito alla situazione pandemica.

 Nel complesso i dati hanno messo in luce livelli molto alti di solitudine e disagio psichico, come depressione e ansia, sebbene questo non sia risultato associato alle misure restrittive adottate nei vari stati.

La gravità dei sintomi psicologici è invece risultata correlata alle esperienze di esposizione diretta e indiretta al virus: le persone che si sono ammalate di Covid-19 e/o hanno conoscenti contagiati e/o deceduti per via del virus, e coloro che hanno trascorso parecchio tempo informandosi sui media riguardo al virus, hanno avuto maggiori probabilità di sperimentare angoscia, solitudine e sintomi di stress traumatico.

L’esposizione personale al Covid-19 sarebbe dunque la variabile più fortemente correlata all’insorgenza di sintomi psicologici, rispetto alle restrizioni imposte dai governi per contenere il virus. I risultati dello studio potrebbero mostrarsi utili nella pianificazione di interventi a livello politico nel caso – si spera più remoto possibile – di presenza di nuovi focolai e/o future emergenze sanitarie.

 

Il disturbo della balbuzie come “conflitto” della parola

Descrivendo la balbuzie, Fenichel (1945) la definisce un fenomeno isterico pregenitale a mezzo del quale il bambino gestisce un conflitto avente ad oggetto l’impulso ad esprimersi, derivante dall’Es, e l’ostacolo di una censura impeditiva, dettata dall’istanza superegoica, in questa fase già particolarmente dominante.

 

La balbuzie

 La balbuzie è un disturbo del linguaggio caratterizzato dall’emissione di una fluenza verbale stentata e disarmonica, in associazione ad una mimica spasmodica di natura neurologico-muscolare, finalizzata a ripristinare il ritmo verbale a seguito di un blocco espressivo. La difficoltà di pronuncia può manifestarsi all’inizio del discorso attraverso interruzioni seguite da lunghi silenzi: in questo caso si parla di balbuzie tonica. Al contrario, se l’inceppo si focalizza sulle sillabe di una parola o di un gruppo di fonemi che vengono coattivamente ripetuti si parla di balbuzie clonica.

Per quanto un fattore di familiarità risulti parzialmente influente nell’insorgenza della balbuzie, sembra possibile ipotizzarne l’origine non prettamente organica. L’impossibilità di esprimersi con fluenza verbale normotipica sembra dunque attribuibile a fattori di natura soggettiva e ambientale che, tradotti in bagaglio esperienziale, possono rivelarsi una fonte agevolatrice del disturbo (Fenichel, 1945; Horner, 1993). Rispetto ai casi in cui non sono presenti difetti relativi all’apparato fonatorio, né altre disfunzionalità clinicamente riscontrabili, l’ipotesi dell’eziologia non organica viene avvalorata dalla tendenza –tipica del disturbo– ad amplificarsi nei contesti ad elevato impatto emotivo e stressogeno (Gaddini, 1980).

L’eziologia del disturbo e il modello psicodinamico

Il modello psicodinamico interpreta la balbuzie come l’esito di un processo evolutivo disfunzionale, in cui la normale acquisizione dello strumento verbale, legata allo sviluppo di competenze biologiche innate, viene ostacolata da vissuti psichici di disagio, intercorsi in un’età precoce, tipicamente, prima dei 3 anni (Horner, 1993).

Descrivendo la balbuzie, Fenichel (1945) la definisce un fenomeno isterico pregenitale a mezzo del quale il bambino gestisce un conflitto avente ad oggetto l’impulso ad esprimersi, derivante dall’Es, e l’ostacolo di una censura impeditiva, dettata dall’istanza superegoica, in questa fase già particolarmente dominante. Quello che si verifica nella balbuzie –come in ogni altro caso di conversione isterica– è un conflitto tra pulsioni, la cui gestione viene affidata alla creazione di un sintomo somatico compiacente, una manifestazione patologica che limita la funzione senza nessun coinvolgimento organico: in questo caso la parola è dunque presente, ma in una forma stentata e disarmonica, perché ostacolata da meccanismi inconsci censuranti (Freud, 1892-1895) .

E se questo appare il vantaggio primario del disturbo, un possibile vantaggio secondario potrebbe essere identificato nel ricevere maggiore attenzione che, proprio grazie alle sue difficoltà espressive, il balbuziente riesce ad ottenere. L’inceppo, quindi, potrebbe risultare un inconscio attivatore ambientale, grazie al quale egli riesce a rendersi visibile, manifestando una presenza che altrimenti passerebbe inosservata (Crocetti, 2022).

Se per i soggetti normotipici la dimestichezza con lo strumento verbale viene automatizzata e vissuta in una condizione emotiva neutrale, il balbuziente effettua un iperinvestimento nel linguaggio, rendendolo un elemento saliente della propria identità, oltre che un mezzo di auto conferma (Fenichel, 1945). Egli medita continuamente sulla parola più giusta da dire, in un rimuginio quasi ossessivo con cui cerca di reperire, all’interno del suo repertorio semantico, il termine foneticamente più “vantaggioso”, perché in grado di evitare l’interruzione della fluenza. Ma, al di là del vantaggio fonetico, una così intensa ricerca semantica potrebbe celare l’intento di scegliere la parola contenutisticamente più appropriata e meno criticabile da parte degli interlocutori. Il balbuziente nutre infatti una profonda convinzione di inadeguatezza che lo spinge a reputarsi inferiore agli altri, o comunque mai all’altezza delle aspettative.

Questa componente perfezionistica della personalità –di cui la ricerca ossessiva della parola costituisce l’esito disfunzionale– deriva da un’istanza superegoica particolarmente censurante, a sua volta generata da un ambiente evolutivo ipercritico e intransigente, in cui l’istanza genitoriale risulta contaminata da intenzionalità punitive più che educative e supportive.

Il bambino balbuziente viene reso oggetto di critiche e squalifiche costanti, che alimentano in lui un’autopercezione di inadeguatezza e manchevolezza (Bonnard, 1963). Non si tratta di gestire un vissuto traumatico: ciò che il balbuziente deve fronteggiare è piuttosto lo stato ansiogeno dato da un continuo attacco identitario, che lo costringe a rivalutare in senso limitativo tutte le sue pulsioni, le sue capacità, le sue potenzialità (Fenichel, 1932).

L’ambiente familiare e lo stile educativo: possibili fattori predisponenti

L’ambiente familiare del balbuziente disegna un contesto in cui la parola costituisce uno strumento di valutazione intransigente, privo di una valenza emotiva ed educativa, il cui unico messaggio risiede nella irrimediabilità dell’errore.

Il bambino teme il giudizio, ed è consapevole di non poter sbagliare. Per questo si pone al perenne servizio di un perfezionismo che, dalla sfera espressiva, si trasferisce a quella esistenziale, coinvolgendone ogni aspetto. Il rimprovero o la critica del genitore diventano per lui un mezzo valutativo censurante che, una volta interiorizzato, si trasforma in un legislatore interno altrettanto severo che dà vita a una condizione collusiva ansiogena dagli effetti profondamente austosvalutanti.

Nel contesto familiare del balbuziente la valenza emotiva verbale è fortemente deficitaria. L’espressività genitoriale non si focalizza sull’analisi degli stati mentali del bambino, né dei propri. L’aspetto comunicativo è limitato alla trasmissione di messaggi concreti la cui attenzione è tutta rivolta all’aspetto formale delle parole, piuttosto che al significato emotivo e meta-emotivo delle stesse. L’IO desiderante viene depauperato da questa presenza genitoriale normotica, concreta e affettivamente refrattaria, che spinge a vergognarsi di sé e del Sé, in un circolo vizioso costruito sulle basi dell’impotenza, del perfezionismo, della mortificazione silenziosa e inesprimibile (Bollas, 1989).

Il disagio che ne consegue è visibile anche sul lungo termine. Non sono pochi i bambini che, in comorbilità con il disturbo dell’espressione, manifestano disturbi internalizzanti –legati a patologie dell’ansia o dell’umore– e la più tipica lalofobia, inerente fobia specifica dell’espressione verbale. Molti sono ostaggio di un vissuto autoisolante e depressivo, favorito da un’incapacità di costruire relazioni amicali delle quali non si sentono all’altezza. In ambito scolastico il loro difetto di pronuncia tende ad essere accolto con scarsa empatia, soprattutto da parte dei pari, che tendono a mortificarli, talvolta anche crudelmente, consolidando il percetto di inadeguatezza ed impotenza già instauratosi nel contesto familiare (Tomaiuoli, 2015).

La personalità del balbuziente

Il mondo del balbuziente è caratterizzato da una difficoltà adattiva che, al di là dell’espressione verbale, coinvolge trasversalmente ogni dimensione esistenziale, caratterizzandola patologicamente: egli può presentare:

  • tratti di personalità narcisistica ipervigile, sviluppati a causa delle mortificazioni subite in ambito affettivo e sociale;
  • tratti di perfezionismo, posto come strumento difensivo alla mortificazione del Sé;
  • vissuto evitante e inconsciamente ostile verso un ambiente percepito come rifiutante;
  • tratti depressivi, generati dalla scarsa fiducia nel sé e nel mondo affettivo oggettuale che lo circonda.

Essendo rimasti fissi ad una fase anale conflittuale, molto spesso si tratta di soggetti testardi, caratterizzati da aggressività passiva, spiccato senso del dovere, ostinazione e intensa componente superegoica, cui soggiace una latente pulsione oppositiva volta a compensare le umiliazioni di un Sé percepito al contempo fragile e onnipotente. Malgrado la presenza di mortificazioni affettive reiterate, il sano narcisismo del balbuziente non ha infatti subìto una totale amputazione. Si trova piuttosto in una condizione emotiva conflittuale, che vede la contrapposizione tra una visione del Sé desiderosa di riconoscimento e una umile e impotente che ambisce soltanto a nascondersi (Sigurtà, 1955; 1970).

Questa tendenza alla dicotomia determina la formazione di una struttura psichica in cui l’espressione emotiva non ha trovato regolazione né canalizzazione simbolica, e ha dato vita ad uno stile espressivo egualmente conflittuale, disorganizzato, disregolato.

 La parola ha perduto, nel balbuziente, una potenzialità creativa e relazionale, divenendo piuttosto il condensato simbolico di lotte conflittuali tra pulsioni polarizzate e tuttavia compresenti, quali libertà e dipendenza, volontà di apparire e di nascondersi, pulsione relazionale e di isolamento, ma soprattutto volontà di compiacere il proprio narcisismo o quello dei genitori, per usufruire della loro presenza affettiva e sentirsi apprezzato.

Non è un caso se la balbuzie si manifesta nel periodo anale, quello in cui il bambino avverte la necessità di raggiungere gratificazioni autonomiche, pur beneficiando della presenza di un supporto genitoriale costante e attendibile. È esattamente in questa fase evolutiva che il linguaggio può divenire un mezzo di espressione e di conferma del Sé, tramite il quale l’infans manifesta i propri vissuti emotivi, ancorché connotati di oppositività verso la volontà del genitore.

Nasce il linguaggio contrastivo, il fascino irresistibile del “NO”, che, al di là di una negazione, rappresenta un mezzo di costruzione, riconoscimento e conferma dell’identità. Il bambino ha necessità di contrapporsi al genitore, e il genitore è chiamato ad accogliere questo contrasto come un segnale evolutivo da potenziare, anziché da inibire tramite condotte inibitorie e punitive. Eventualità, quest’ultima, in cui la parola non assumerà la preziosa funzione di incontro e relazione che le è propria, ma diverrà un contesto saturato di significati eteroimposti, un terreno di scontro inibito, di critica, di aggressività passiva, verso i quali il bambino dovrà mostrare una dolorosa ma inevitabile compiacenza (Freud, 1963). Si crea così il terreno fertile per un disturbo espressivo che, nei casi normotipici, si risolve con l’esaurirsi della fase anale.

La balbuzie come angoscia del reale

L’Io del balbuziente teme le proprie pulsioni non per una decisione maturata autonomamente, ma a causa di una educazione proibitiva che gliene ha impedito il soddisfacimento, connotandole di un vissuto superegoico iperinvestito (Freud, 1936). La sua potrebbe essere definita un’angoscia del reale, perché legata al timore di esprimere tutte quelle pulsioni che, per quanto innate e naturali, sono state oggetto di una pressante censura educativa.

Persino attività come mangiare, dormire, masticare, risultano circondate da un’aura di non praticabilità, quasi di vergogna, che ha indotto il bambino ad associare alle stesse un insopprimibile senso di colpa.

Il genitore ha instaurato in lui un un senso imperante di vergogna, spingendolo a nascondere, a trattenere, a celare con pudore mortificante la propria espressività, verbale così come somatica. Sotto quest’ottica, l’inceppo verbale non è che una parte del blocco supergoico da cui il balbuziente si sente invaso, e la paura di parlare non è che il riflesso metaforico di una ben più profonda paura di apparire, di esternalizzare il proprio mondo interiore, risultare visibile e giudicabile dagli altri, nella convinzione che questo comporterebbe l’ennesima mortificazione.

Il balbuziente non ha paura di parlare, ma di dire. Dire ciò che ha internalizzato e che percepisce come pericoloso, ostile, minaccioso. La balbuzie diventa un limite insuperabile, un difetto imperdonabile nel quale il soggetto si riconosce e da cui si lascia dominare, riflettendovi la sua intera identità. Invalidato da un sintomo da cui non riesce a separarsi, in una collusione difensiva inscindibile, egli condensa nella parola il proprio vissuto di frustrazione pulsionale, di impotenza e incapacità, rendendola lo specchio di un fallimento esistenziale per certi aspetti ineludibile (Klein, 1923).

Ma solo fino a che la parola viene attribuita al Sé: uno scostamento tra la produzione verbale e l’identità del parlante determina un cambiamento, talvolta notevole, della capacità espressiva, limitandone la disfunzionalità. A testimonianza di ciò si veda come le prestazioni verbali, solitamente scadenti in questi soggetti, subiscano un subitaneo miglioramento nei contesti in cui l’espressione verbale viene svincolata dal Sè: ad esempio interpretazioni teatrali, in cui viene vestito il ruolo di qualcun altro, o prestazioni verbali di gruppo, in cui l’identità risulta diluita con quella di altri individui, dando luogo ad una desoggettivizzazione in grado di sbloccare l’impasse isterica e liquidare il senso di colpa insito nell’espressività verbale (Tomaiuoli, 2015).

Proprio questo aspetto è servito alla strutturazione di programmi terapeutici aventi ad oggetto una rieducazione alla parola, nei quali il balbuziente può riacquistare il piacere dello strumento verbale grazie a un’autorivalutazione più indulgente e gratificante e a un più adeguato investimento relazionale.

In conclusione, la balbuzie è un sintomo che si origina quando capacità innate, come quella inerente lo sviluppo del linguaggio, vengono rese oggetto di esperienze evolutive limitanti che vanno a ledere la dimensione dell’identità e dell’autostima (Hartmann, 1939). Proprio questo aspetto ha contribuito a consolidare l’ipotesi di una natura non organica del disturbo, attualmente identificato con l’esito di un disagio che affonda le radici in un contesto evolutivo affettivamente povero, inadeguato e caratterizzato da elevate componenti stressogeno-conflittuali.

 

Victim Blaming: il caso del terremoto dell’Aquila

Il concetto di “colpevolizzazione della vittima” è stato coniato da William Ryan nel 1971, con la pubblicazione del suo libro “Blaming the victim” (Ryan, 1971). Un caso particolare di victim blaming, più di tipo istituzionale, è quello accaduto proprio ultimamente ad alcune vittime del terremoto dell’Aquila del 2009.

 

Il fenomeno del victim blaming

 Il victim blaming è un processo di tipo psicologico che riguarda la tendenza a colpevolizzare le vittime. La colpevolizzazione avviene, in toto o in parte, per i trattamenti e le cose successe alle stesse vittime. Tale fenomeno è maggiormente osservabile in caso di crimini di natura sessuale o violenti.

Questo fenomeno avviene come reazione molto rapida a fatti di cronaca. L’esigenza di creare questa etichetta è data dalla rapidità delle comunicazioni. Infatti, spesso queste tendono a essere sintetiche ed estremiste, portando le opinioni dei singoli ad essere totalmente a favore di una parte o dell’altra, senza compromessi. Invece, come spesso accade, la realtà è diversa ed è anche più complessa.

L’ipotesi o credenza del mondo giusto di Lerner (1980) ci aiuta a comprendere meglio tale processo psicologico. Infatti, secondo Lerner le persone hanno la tendenza a pensare che tutti ricevano ciò che si meritano, così da mantenere nella loro mente l’idea di vivere in un mondo giusto.

Di solito la maggioranza tende a prendere le parti della vittima, ma è stato dimostrato come vi siano soggetti che tendono a prendere le parti dell’aggressore o comunque a colpevolizzare la parte lesa, per l’appunto.

Il victim blaming non avviene in ogni contesto. Generalmente avviene più spesso per fenomeni di natura sessuale o violenta. Più nello specifico, di solito, si rifà a casi di cronaca come lo stupro. Quindi, l’abuso sessuale è il reato che più di tutti rischia di innescare meccanismi di colpevolizzazione della vittima. Tra gli altri accaduti che possono innescare tale fenomeno vediamo i casi di Revenge Porn, ossia la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (Gravelin et al., 2019).

Un caso particolare di victim blaming, più di tipo istituzionale, è quello accaduto proprio ultimamente ad alcune vittime del terremoto dell’Aquila del 2009.

Il caso del terremoto dell’Aquila

Qualche giorno fa, il 9 ottobre 2022, il Tribunale dell’Aquila ha definito una “condotta incauta” il comportamento di alcuni abitanti di una palazzina dell’Aquila, quella di via Campo di Fossa 6b. I cittadini, infatti, rimasero nelle proprie case la sera del terremoto e morirono sotto le macerie. Questo comportamento è stato definito dal Tribunale come concorso di colpa delle stesse vittime del crollo, quantificando i risarcimenti con una riduzione del 30%. Il Tribunale dichiara infatti che le vittime non sarebbero dovute restare a dormire.

Ma partiamo un po’ dall’inizio. L’edificio in questione era costituito da due palazzine gemelle che quella notte ebbero la sorte opposta: il civico 6a restò in piedi, il 6b si ridusse in polvere, sgretolandosi su sé stesso. Gli abitanti del primo civico sopravvissero tutti, nel secondo palazzo furono 27 i morti, 27 morti dei 309 che morirono l’orribile notte del 6 aprile 2009.

 La scossa che distrusse l’edificio era di magnitudo tra 5.9 e 6.3, delle 3.32. Un mainshock di uno sciame sismico iniziato già nel dicembre 2008. Infatti, nei giorni precedenti la scossa devastante delle 3.32, la preoccupazione aumentò, in quanto le scosse erano diventate molte, continue e più violente. La settimana precedente le scosse si susseguirono sempre in modo più intenso, in particolare il 30 marzo ci fu una scossa di magnitudo 4.0, la più violenta di uno sciame iniziato qualche mese prima. In quell’occasione in migliaia corsero in strada e alcuni decisero di passare addirittura la notte in macchina.

Il giorno dopo fu indetta una riunione della Commissione Grande Rischi in Abruzzo, per tranquillizzare la popolazione. Dichiararono infatti che lo sciame sismico avrebbe rappresentato una forma di rilascio graduale di energia. Quindi, la Commissione rassicurò la popolazione e dichiarò di non preoccuparsi eccessivamente, in quanto quello scarico di energia non poteva che essere positivo, permettendo di evitare una grossa scossa distruttiva.

Perciò, si potrebbe dire che la notte del 6 aprile la popolazione aquilana dormiva nelle proprie case rassicurata da una Commissione formata da scienziati e sismologi italiani, e gli stessi abitanti di via Campo di Fossa 6b non si trovavano incautamente in casa, ma rimasero al loro interno dopo le ripetute rassicurazioni degli esperti.

Nelle diverse precedenti pronunce in Tribunale del terremoto, quella del giudice Croci è l’unica a definire questo tipo di ripartizione di colpa. E, trattandosi di un giudizio di primo grado, si potrà fare ricorso ed è probabile che la decisione verrà modificata in appello.

Il problema di una sentenza come questa, che colpevolizza le vittime in questo contesto, è soprattutto di tipo politico. Infatti, incolpando i cittadini vittime di questa tragedia, ciò porta i cittadini di oggi a diffidare delle istituzioni e perciò di chi dovrebbe vigilare sulla sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture.

La giustizia dovrebbe basarsi più sui fatti che sulle ipotesi, per garantire un risultato più giusto possibile. I tribunali, perciò, dovrebbero avere l’obiettivo di dimostrare se esiste colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Cosa che ovviamente non usa l’opinione pubblica.

Il fatto che tale fenomeno sia emerso proprio da un tribunale, che dovrebbe garantire un giusto risultato, è ad oggi preoccupante.

Questo particolare caso di victim blaming istituzionale può non essere un’eccezione, ma ci si augura che lo sia.

 

Il caleidoscopio. Metafora per concettualizzare il modello sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale – Report

In occasione del 30° anniversario delle attività di formazione della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare (S.R.P.F.), si è tenuto a Todi (13-15 Ottobre 2022) un importante Convegno che ha visto protagonisti diversi tra i più autorevoli esponenti del mondo sistemico relazionale italiano, dal titolo “Il caleidoscopio. Metafora per concettualizzare il modello sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale”.

 

 La Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, che ha promosso il Convegno, è diretta da Carmine Saccu, neuropsichiatra infantile, già professore associato nella clinica diretta da Giovanni Bollea, dal 1975 impegnato in attività didattica nella formazione dei terapeuti sistemico-relazionali, cofondatore dell’Istituto di Terapia Familiare di via Reno, insieme a Maurizio Andolfi, Anna Nicolò e Paolo Menghi, che ha editato la rivista “Terapia familiare”. Il Dottor Saccu possiede uno stile terapeutico particolarmente creativo e innovativo, in cui dà spazio al gioco e all’umorismo, che mette al centro le emozioni del terapeuta, coniugando la visione sistemica con la sua formazione psicoanalitica originaria. Particolarmente importante il suo lavoro con i bambini psicotici e, da qualche anno, a riprova della sua originalità e desiderio di esplorare strade nuove, ama lavorare in “coterapia” con Mafalda, la carlina che raramente si separa da lui. In tanti anni di lavoro, non è venuta mai meno la sua fiducia nella capacità trasformativa delle famiglie. Anche come didatta pone particolare attenzione affinché l’allievo sia attento alle proprie aree di risonanza, allo scopo di scoprire proprie potenzialità creative e nuovi spazi di rapporto. Anche nelle situazioni più difficili, laddove la maggior parte dei terapeuti è inevitabilmente concentrata sui limiti e le carenze, lui riesce a vedere capacità insospettate e con ridefinizioni originali crea inediti modelli relazionali.

La Scuola Romana periodicamente organizza eventi formativi in cui possono incontrarsi allievi ed ex allievi delle sedi di Roma, Napoli, Cagliari e Crotone. Stavolta, dopo Orvieto, è stato scelto Todi come luogo ospitante. L’idea, rivelatasi vincente, alla base del Convegno è stata quella di invitare i relatori a presentare il loro modello di lavoro dedicato esclusivamente alla prima seduta, portando videoregistrazioni o mostrando simulate. Così i partecipanti hanno avuto modo di vedere dal vivo lo stile clinico di diversi grandi terapeuti e ampio spazio è stato dato alla discussione in tavole rotonde, in cui i relatori hanno dialogato tra loro e con il pubblico.

Oltre a Carmine Saccu sono interventi a Todi altri prestigiosi terapeuti, rappresentanti di diverse scuole di matrice sistemico relazionale: Umberta Telfener (recentemente nominata Presidente della European Family Therapy Association [EFTA]), Alfredo Canevaro, Camillo Loriedo, Pietro Barbetta, Rossella Aurilio e Fabio Bassoli. Altre relazioni sono state presentate da quattro didatti interni della S.R.P.F.: Antonio Acerra, Paolo Bucci, Stefano Fantozzi e Alberto Vito. Infine, nell’ultima giornata il Dr. Pakman ha condotto una supervisione in collegamento video dall’Argentina. Tutte le sessioni sono risultate molto vivaci, ricche di stimoli, mai noiose. Non si è solo parlato in astratto a proposito della “prima seduta”, ma i relatori hanno mostrato concretamente come lavorano nel primo incontro con le famiglie, facendo emergere sia punti di contatto che differenze nello stile personale nell’approccio alla famiglia.

 Il Convegno è stato anche l’occasione per presentare due recenti prodotti editoriali: il nuovo libro di Carmine Saccu, dedicato ai “Sommi sacerdoti”, come lui ama definire con una metafora i bambini affetti da gravi deficit relazionali, che reputa maestri nell’attivare le aree fantasmatiche del terapeuta, e il numero zero della rivista “Deutero”, che raccoglie nove contributi di didatti della scuola, che hanno rielaborato i loro seminari clinici svolti nel 2022.

Carmine Saccu, affetto dal virus del viaggiatore che lo ha portato a lavorare in mezzo mondo, ama ripetere che occorre sempre unire l’utile al dilettevole. Per questo, il Convegno è stato organizzato a Todi proprio in concomitanza della disfida di San Fortunato, festa dedicata al patrono della città che si svolge in stile medioevale. Così, i numerosi partecipanti, finite le ore di sessioni congressuali, hanno potuto assistere a gare di arcieri, cortei storici con tamburini e, chi lo ha desiderato, vestirsi in abiti medievali per prendere parte a una cena d’epoca dedicata ai terapeuti nel Palazzo del Popolo, finita tra musiche argentine e balli.

 

Le strategie di coping nella gestione del lutto in persone dipendenti da sostanze

A seguito di una perdita, l’elaborazione del lutto può avvenire in vari modi, ma sempre seguendo il naturale decorso del dolore, fino ad arrivare all’accettazione di quanto accaduto. In alcune situazioni però, è possibile che il lutto non venga elaborato adeguatamente, a causa di una mancata gestione dell’evento stressante in maniera funzionale. 

 

Le strategie di coping

 Le modalità con cui si affrontano e ci si adatta a eventi di vita di vario tipo, che possono risultare stressanti o dolorosi, sono definite come strategie di coping (Lazarus & Folkman, 1984). Tuttavia, non sempre si riescono a mettere in atto strategie adeguate alla situazione che ci si trova a fronteggiare e questo può avere diversi risvolti negativi a livello sia psicologico che sociale.

L’abuso di sostanze, per esempio, è una delle strategie di coping disadattiva più diffusa, proprio perché dà momentaneamente una sensazione di sollievo dalla sofferenza, tuttavia non consente minimamente di fronteggiare e superare una difficoltà in modo funzionale (Dashora et al., 2011).

Nel momento in cui ci si trova ad affrontare un evento doloroso come la perdita di una persona cara, è necessario utilizzare le proprie risorse per fronteggiare l’accaduto ed elaborare il lutto ma, se vengono messe in atto strategie controproducenti, si rischia di aggravare il proprio malessere psicologico, impedendo il normale decorso del dolore; in questo caso, si parla di “disturbo da lutto persistente complicato”, come definito dal DSM-5, ovvero un prolungamento del periodo di sofferenza dovuto a una perdita, e la conseguente incapacità di superare un momento di vita doloroso (APA, 2013). Secondo alcuni autori questo processo sarebbe influenzato proprio dall’utilizzo di strategie di coping disadattive, che non facilitano l’individuo nell’adattamento a una nuova situazione di vita, rendendo così più complesso il percorso di “guarigione”, soprattutto se correlato ad abuso di sostanze (Masferrer et al., 2017).

La gestione del lutto

Uno studio di Caparrós e Masferrer (2021) ha analizzato le diverse strategie di gestione del lutto in persone che abusano di sostanze, partendo dal presupposto che esse siano più vulnerabili e possano avere maggiori difficoltà nell’affrontare la perdita di una persona cara. In questo studio, infatti, viene tenuto in considerazione il disturbo indicato sul DSM-5 (APA, 2013) come disturbo da lutto persistente complicato, che è comunemente definito come un’esperienza emotiva fortemente intensa, negativa e persistente, che si discosta da quello che è comunemente concettualizzato come un normale periodo di lutto a seguito di una perdita (APA, 2013; Newson et al., 2011). In ogni caso, l’abuso di sostanze è spesso usato come strategia disadattiva per affrontare eventi traumatici ma, allo stesso tempo, può rallentare o impedire una corretta elaborazione del lutto (Lombardo et al., 2014).

L’articolo in questione pone l’attenzione sull’identificazione delle strategie di coping utilizzate, in un contesto di disturbo da lutto persistente e complicato, dalle persone che abusano di sostanze, proprio perché queste persone tendono a sviluppare più frequentemente un disturbo da lutto persistente. Nel momento in cui si possiedono scarse o inefficaci capacità di coping, è più probabile incorrere in complicanze nell’elaborazione del lutto.

Questo studio si pone diversi scopi: analizzare il rapporto tra lutto persistente e le numerose strategie di coping, sondare le possibili differenze tra modalità più o meno adattive di gestire il dolore della perdita, valutando un collegamento con i diversi tipi di abusi di sostanze, e, infine, identificare le strategie di coping che caratterizzano il lutto persistente in persone con dipendenze.

Gestione del lutto e dipendenza da sostanze

 Tra i 196 partecipanti allo studio, tutti affetti da dipendenze, ben il 34,2% aveva sviluppato il disturbo da lutto persistente a seguito di una perdita e solo il 36,7% era in grado di svolgere un’attività lavorativa. Sono emerse delle differenze tra il gruppo di partecipanti in grado di gestire il lutto in maniera adattiva e quelli che invece hanno sviluppano una forma di lutto complesso e duraturo: i partecipanti aventi una forma di lutto persistente hanno ottenuto punteggi significativamente più alti in tutte quelle strategie di coping che si possono riassumere come negative, ovvero l’autocriticismo, il ritiro sociale e il pensiero desiderante (concetto che presuppone la volontà di fuggire dalla realtà oggettiva per rifugiarsi in un mondo di fantasia basato sui propri desideri; Masferren et al., 2017).

L’evitamento dei propri sentimenti negativi di sofferenza, il pensiero desiderante, il ritiro sociale e l’autocriticismo sono risultate strategie correlate allo sviluppo di una forma di lutto persistente (Coriale et al, 2012). Quanto emerso può essere motivato dal fatto che, a seguito di una perdita, le persone in lutto attraversano anche una fase di negazione dell’accaduto, di incapacità di accettazione della morte, rendendo così il normale decorso del lutto più complesso e prolungato (McLean et al., 2022). Inoltre, i partecipanti aventi una forma di lutto persistente utilizzano maggiormente strategie come il criticismo e la colpa verso sé stessi, non permettendosi una più naturale elaborazione del lutto.

È stato interessante notare che il tipo di sostanza utilizzata non è risultato avere un impatto sulla forma di lutto sviluppata.

In conclusione, strategie di evitamento e autocolpevolizzazione inficiano notevolmente il processo di elaborazione del lutto in persone con problemi di abuso di sostanze (Taquir et al., 2020). In generale, sia il lutto persistente che l’abuso di sostanze impediscono una lucida gestione di situazioni stressanti e possono essere concettualizzate come strategie maladattive di coping.

La responsabilità della psicologia nel sistema delle cure

Proponiamo ai nostri lettori un estratto della lettera scritta da Maria Simonetta Spada e Margherita Papa e pubblicata su Quotidianosanità.it che invita a riflettere su un tema di particolare importanza e attualità, ovvero la responsabilità della psicologia nel sistema delle cure.

 

31 OTT – Gentile Direttore,

in questo momento storico, dopo un lavoro di ricognizione che ha palesato la disomogeneità italiana relativamente alla presenza della Psicologia nelle organizzazioni sanitarie, è in fase di costituzione il Coordinamento dei Direttori di Struttura Complessa di Psicologia e, proprio da questo vertice osservativo, riteniamo utile partecipare al dibattito in corso.

Risulta superfluo qui sottolineare come, specie nella fase post pandemica, i bisogni psicologici siano fortemente rappresentati in tutte le fasce di età e, con loro, la richiesta di una risposta da parte del SSN.

Si rende quindi sempre più necessario un lavoro di intercettazione precoce dei bisogni psicologici all’interno di un sistema che operi una funzione che va dal sostegno alla salute, ispirato al welfare di comunità, che contempla anche il benessere organizzativo, fino al livello di intervento specialistico, in ambito di patologia acuta o cronica non necessariamente psichica. Teniamo conto infatti dell’importanza della componente psicologica nel processo di cura e di assistenza di tante malattie fisiche e problemi di salute di salute, sino ad arrivare al tema del dolore e delle cure palliative.

 

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Lo psichiatra E. Zanalda sul caso di Assago: “Non etichettiamo subito come malato psichiatrico l’autore del reato” – Comunicato Stampa

Enrico Zanalda, Presidente psichiatri forensi: “Non stigmatizziamo e non etichettiamo subito e in modo semplicistico l’autore del reato come malato psichiatrico”. L’esperto commenta così le prime reazioni a seguito del drammatico episodio di cronaca al Centro commerciale di Assago dal triste bilancio di 5 feriti accoltellati e 1 morto 

Comunicato Stampa

 

Milano, 28 ottobre 2022 – Un fatto drammatico e increscioso quello consumato nella sera del 27 Ottobre che sta suscitando paure e allarmi che meritano il commento e le raccomandazioni di Enrico Zanalda, psichiatra e Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense (SIPF).

Siamo veramente costernati per quanto accaduto ad Assago, ma non vorrei che questa tragedia aumentasse a dismisura l’incremento dello stigma e della paura nei confronti della psichiatria. Non generalizziamo quindi – interviene Enrico Zanalda, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense – né la condizione di paziente psichiatrico, né quella di depresso con un collegamento semplicistico e stigmatizzante che determina allarme sociale e paura dei nostri pazienti. Sarà la perizia psichiatrica ad attribuire la responsabilità della persona. Lo stigma verso la salute mentale è dannoso quanto lo scarso finanziamento dei servizi di salute mentale a distanza di oltre 40 anni dalla legge Basaglia. Al fine di attuare completamente la riforma psichiatrica del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), sarebbe opportuno che la Società Italiana di Psichiatria Forense partecipasse anche nell’ottica della prevenzione, all’attuazione pratica della riforma determinata dalla L 81/2014 superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

È riduttivo etichettarlo in modo automatico come psichiatrico

Senza dubbio appare doveroso sottolineare la probabile mancanza di equilibrio psichico dell’autore dei gravissimi fatti di Assago – continua Zanalda – ma etichettarlo come malato psichiatrico o attribuire alla depressione la causa del comportamento, è riduttivo e stigmatizzante. Questa enfasi non può che aumentare la paura della gente nei confronti delle numerosissime persone che soffrono di depressione o sono ricoverate in ambiente psichiatrico.

Non sottovalutiamo chi sta seguendo percorsi di riabilitazione

Il soggetto pare fosse anche disoccupato e chissà quali altre caratteristiche emergeranno nei prossimi giorni dalla sua biografia. I comportamenti delle persone sono sempre pluri-determinati e dipendono da molteplici fattori: cultura, personalità, educazione, circostanze ambientali, stato di equilibrio mentale dell’autore del reato e vanno soppesati nell’ottica psichiatrico-forense. Etichettarlo come malato psichiatrico in automatico – ribadisce Zanalda – è ingeneroso verso tutte quelle persone che si curano e lottano per il proprio equilibrio psichico e che, dopo questo episodio se etichettato non correttamente, troveranno maggiori difficoltà nei percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale che tutti i giorni i dipartimenti di salute mentale si impegnano a realizzare.

Il timore di emulazione

Nell’immediato, il ritiro dei coltelli dai supermercati come sta succedendo in queste ore, può rassicurare i clienti come operazione di marketing più che di incremento reale della sicurezza del pubblico. L’emulazione – conclude Zanalda – è un fenomeno molto evidente e noto soprattutto in ambito suicidario. Lo è meno nei casi di omicidi di massa, definitivi “mass murder”, anche se il clamore mediatico attira personalità predisposte ad agire scatenando la rabbia incontenibile che provano nei confronti di particolari comunità o della società.

La salute mentale dei migranti

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

 

La salute mentale di migranti e rifugiati

 Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Quest’anno il tema generale è stato: “Rendere la salute mentale e il benessere una priorità globale per tutti”.

Il Parlamento Europeo, a tal proposito, ha focalizzato l’attenzione su migranti e rifugiati, la cui salute mentale viene spesso trascurata o tralasciata. In realtà, il viaggio che si è costretti a intraprendere, l’insediamento in un paese straniero e l’integrazione con una cultura sconosciuta, mettono a rischio prima di tutto la stabilità psichica di donne e uomini che, già segnati da esperienze difficili quali guerre, sfollamenti forzati e rotte migratorie durissime, possono non essere in grado di gestire la portata di emozioni che questo comporta.

La mappatura delle politiche a favore della salute mentale dei migranti pubblicata a luglio 2022 dall’European Migration Network, mette in luce le sfide per gli Stati membri in merito all’accesso ai servizi primari da parte di chi è straniero. Se sulla carta il diritto alla cura è lo stesso messo a disposizione dei cittadini europei, nella realtà dei fatti migranti e rifugiati si trovano di fronte a ulteriori, e non di rado insormontabili, difficoltà, quali le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni, la difficoltà di accesso ai servizi integrati, i costi elevati e le lunghe liste di attesa, la mancanza di consapevolezza e fiducia, gli svantaggi socio-economici. Dunque, l’integrazione dei migranti passa dallo sviluppo di politiche e strategie che pongano attenzione anche alla formazione del personale addetto, affinché possa avere competenze specifiche per sostenere e aiutare chi parla una lingua diversa e ha radici culturali lontane.

Quali difficoltà incontrano migranti e rifugiati?

Nel 2007 Franco Voltaggio, medico e filosofo della scienza, tenne presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma una lectio magistralis intorno alla psichiatria transculturale, che studia e cura tutti quei disturbi riconducibili all’ambiente culturale di insorgenza e non ascrivibili a categorie patologiche riconosciute o condivise. In quell’occasione vennero alla luce problematiche ed esigenze ancora oggi di difficile soluzione: “Mentre i nostri politici decidevano che cosa fare di se stessi, che cosa fare da grandi, se continuare la prima o fare la seconda repubblica, l’Italia, considerata a torto o a ragione una sorta di “eldorado”, venne investita da un grande flusso migratorio. […] Da questa novità, e cioè dall’entrare in contatto finalmente con le cose vere –con gli uomini, le donne, i bambini– sono stati in prima istanza i medici, e ancor prima ovviamente gli psichiatri, che hanno dovuto confrontarsi con le conseguenze della migrazione, scoprendo diverse cose. La prima assomiglia alla scoperta del cavallo, dell’acqua calda, dell’ombrello, della carta vetrata: quando si parla di integrazione non si dovrebbe pensare all’integrazione degli altri nella società italiana, ma a una reciproca integrazione che parte dagli italiani e viene ripresa dagli ospiti” (Scaringi, 2008).

Questi ultimi, però, sono spesso infelici: “prima di tutto perché non trovano lavoro facilmente, perché non trovano alloggio, perché le condizioni di lavoro (quando le trovano) sono condizioni orrende. Ma sono infelici anche per una sindrome che io chiamerei spaesamento: il giovane migrante, che viene in Italia e che viene accolto da quelli che eufemisticamente vengono chiamati Centri di Prima Accoglienza (ma che in realtà sono dei campi di concentramento), è spaesato perché si trova in un posto che non è il suo e sente una malinconia profondissima, una nostalgia forte per il paese che ha lasciato. Però, per quanto possa sembrare paradossale, questa nostalgia, confondendo passato e futuro e presente, la prova anche nei confronti della terra di approdo” (Scaringi, 2008). Sì, perché è la terra dell’abbondanza; e lo straniero, sapendo che se ne dovrà andare anche dalla nuova patria, sperimenta una sorta di nostalgia anticipata: egli “lascia le proprie radici, ma una volta entrato in quella specie di inferno paradisiaco che sarebbe l’Italia, ne recide delle altre” (Scaringi, 2008).

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con un 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

Nonostante le difficoltà attuali, una persona ogni 30 nel mondo vive al di fuori del proprio Paese: i 281 milioni di migranti internazionali incidono infatti per il 3,6% sulla popolazione mondiale. Le donne rappresentano circa il 48% dei migranti internazionali. Le principali aree di partenza sono Asia (111 milioni) ed Europa (67 milioni); seguite da America (47 milioni, di cui 43 milioni Sud America), Africa (41 milioni) e Oceania (2 milioni). Il primo Paese di partenza è l’India (17,9 milioni di emigrati), seguita da Messico (11,2 milioni), Federazione russa (10,8 milioni), Cina (10,5 milioni) e Siria (8,5 milioni). Martoriata dalla guerra civile ancora in corso la Siria vede emigrata la metà della nazione (48,3%). Tassi di emigrazione particolarmente alti si registrano in altri Paesi storicamente sconvolti dai conflitti, come Palestina (78,9%), Bosnia Erzegovina (51,4%) e Armenia (32,3%), ma anche in Paesi tradizionalmente a forte pressione emigratoria, come Portorico, Suriname, Samoa, Giamaica, Capo Verde, ecc. Tra il 20-30% si distingue, inoltre, una folta pattuglia di Paesi dell’Europa mediterranea o centro-orientale: Albania, Macedonia, Moldavia, Croazia, Bulgaria, Lituania, Malta, Georgia, Montenegro, Portogallo e Romania (IDOS, 2021, p. 20).

Questi i dati che emergono dall’edizione 2021 del Dossier Statistico Immigrazione, pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Idos.

Il 59,0% dei migranti internazionali si è insediato in uno dei Paesi del Nord del mondo. Il primo continente di destinazione è l’Europa con 93 milioni di migranti internazionali, seguita da Asia (79 milioni), America (74 milioni), Africa (25 milioni) e Oceania (9 milioni). A livello di aree continentali, un quinto è insediato nell’Ue-27 (19,6%) e un altro quinto in America settentrionale (20,9%). L’incidenza sulla popolazione raggiunge il 12,3% nell’Ue, ma arriva al 15,5% nell’Asia occidentale, al 15,9% nell’America settentrionale e al 22,0% in Oceania. Nei Paesi a sviluppo umano molto alto, l’incidenza degli immigrati raggiunge il livello record del 13,8%, contribuendo così anche al perseguimento di un Pil pro capite molto alto (44.835 dollari annui). Metà dei migranti internazionali si concentra in dieci Paesi: Stati Uniti (50,6 milioni di immigrati), Germania (15,8 milioni), Arabia Saudita (13,5 milioni), Federazione Russa (11,6 milioni), Regno Unito (9,4 milioni), Emirati Arabi Uniti (8,7 milioni), Francia (8,5 milioni), Canada (8,0 milioni), Australia (7,7 milioni) e Spagna (6,8 milioni). L’Italia si colloca all’undicesimo posto, con 6,4 milioni (IDOS, 2021, p. 21).

Secondo l’OMS, sebbene rifugiati e migranti siano colpiti dagli stessi determinanti sanitari della popolazione autoctona, “il loro status migratorio può rappresentare esso stesso un determinante sanitario che, combinato con l’altro individuo (genetica, genere, comportamento personale ed età) e sociale ed economico (istruzione, alfabetizzazione sanitaria, reddito e stato sociale, occupazione, reti di sostegno sociale ecc.), svolge un ruolo nelle diverse fasi del ciclo migratorio e le rende particolarmente vulnerabili dal punto di vista sanitario” (INMP, 2022). A essere maggiormente a rischio di violenze fisiche e sessuali sono soprattutto le donne, il cui status, se associato al fatto di avere titoli di studio bassi e occupazioni instabili, assume un valore rilevante per gli effetti sulla salute; ma anche i minori non accompagnati sono vulnerabili al rischio di subire violenze e soffrire di disturbi mentali causati dal disagio vissuto, anche in relazione all’interruzione del ciclo scolastico dovuta alla migrazione. Infine, l’insicurezza economica e l’impiego in lavori spesso pericolosi e impegnativi, oltre alla residenza in alloggi non sicuri o sovraffollati, influiscono inevitabilmente sulla salute dei migranti.

L’incidenza dei disturbi mentali in migranti e autoctoni

 Parlando di disturbi mentali, “la prevalenza della depressione e dell’ansia può essere maggiore tra rifugiati e migranti nelle diverse fasi dello sfollamento e della migrazione, in base a vari fattori individuali, sociali e ambientali. Il disturbo da stress post-traumatico è frequentemente osservato nei bambini e negli adolescenti rifugiati colpiti da conflitti” (cfr. INMP, 2022). Molti sono infatti i fattori che incidono sull’insorgere di problematiche mentali: una storia di separazione familiare per affrontare un lungo viaggio, essere vedovi o avere un’esperienza di divorzio alle spalle, il recente arrivo in un paese straniero di cui si ha difficoltà a imparare la lingua e a esprimersi, aver subito violenze e abusi sessuali oppure esperienze discriminatorie mai comunicate. In Europa, l’incidenza del disturbo da ansia è in qualche modo simile tra i rifugiati (13%) e la popolazione generale (9%); diverso il caso dei disturbi depressivi che incidono rispettivamente per il 32% contro il 4%. Uno studio sui giovani migranti in Svezia, di età compresa fra i 19 e i 25 anni, ha evidenziato come la prevalenza dei disturbi mentali diminuisca con un più elevato livello di istruzione e che il rischio di sviluppare stress post-traumatico sia associato a una maggiore permanenza nel paese ospitante (cfr. WHO, 2022, p. 125). Per quanto riguarda schizofrenia e disordini psicotici, le popolazioni migranti sono maggiormente esposte, soprattutto in base alle regioni di origine e di destinazione, oltre alla loro combinazione; un ruolo significativo nell’insorgenza di tali disturbi lo hanno fattori quali la separazione dai genitori durante l’infanzia e la discriminazione e la densità etnica nel paese di arrivo. La prevalenza di alcune condizioni mentali rispetto ad altre varia quindi rispetto a fattori sociali e ambientali, oltre che all’accesso ai servizi di cura e diagnosi. Tuttavia, il rischio di sviluppare patologie o dell’aggravarsi di malattie già conclamate risulta essere più alto per i migranti rispetto alla popolazione autoctona. Analizzando, ad esempio, i profili dei pazienti che, in Qatar, arrivano al pronto soccorso in seguito ad atti di autolesionismo e tentato suicidio, la quota più alta (35,5%) può essere ascritta agli espatriati (i qatarioti arrivano al 21,4%). Tra gli adolescenti palestinesi, invece, che vivono nei territori occupati, il 25,6% ha espresso tendenze suicidarie, uso di cannabis e tabacco, mancanza di amici intimi, disordini alimentari e insonnia indotta dalle preoccupazioni (cfr. WHO, 2022, p. 127).

Promuovere la salute di migranti e rifugiati, riorientare le politiche sanitarie, rafforzare le competenze degli operatori del settore, migliorare i sistemi informativi per la raccolta, l’analisi e la condivisione dei dati, significa garantire un diritto fondamentale, anche in linea con l’obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile a non lasciare indietro nessuno, promuovendo la salute mentale e il benessere di tutti.

 

I contraccettivi ormonali e i loro effetti sulla popolazione femminile, maschile e transgender -FluIDsex

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019), ma è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore.

 

I metodi contraccettivi

 I metodi contraccettivi, sia ormonali che non, sono presenti fin dagli egizi. Dai metodi arcaici siamo però arrivati negli ultimi anni ad avere una vasta opzione di scelta per quanto riguarda il controllo delle nascite. È noto come circa il 44% delle donne vada incontro a gravidanze inaspettate e che 2/3 di tali gravidanze sono conseguenti all’uso di metodi contraccettivi non affidabili o alla mancanza di metodi contraccettivi in generale (Abbe et al., 2020).

Ad oggi è possibile scegliere tra diversi metodi contraccettivi, alcuni dei quali in tabella:

Contraccettivi ormonali effetti in individui femminili maschili e transgender Imm 1

Ovviamente ciascuno di questi metodi ha un’efficacia variabile, quelli più efficaci rimangono gli impianti sottocutanei e i dispositivi intrauterini, mentre i contraccettivi ormonali (HC) sono certamente efficaci, ma possono comportare, in alcuni casi, effetti collaterali per quanto riguarda la regolazione emotiva (McCloskey et al., 2021).

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019). Tuttavia, è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore in soggetti che ne fanno uso; i dati che ne risultano sono controversi (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020).

I contraccettivi femminili

Tenuto conto dell’impatto che gli steroidi sessuali hanno sia sul ciclo mestruale che su emozioni e comportamenti, è importante esplorare l’impatto che una terapia di questo tipo può avere (Robakis et al., 2019). Il mondo della ricerca è diviso riguardo agli effetti negativi dei contraccettivi orali (OC): da un lato ci sono studi che riportano una non-associazione tra l’utilizzo di contraccettivi orali e sintomatologie psichiatriche (Toffol et al., 2011, 2012), altri studi invece hanno trovato come donne che usavano contraccettivi orali riportavano un minor numero di sintomi depressivi e un minor numero di tentati suicidi (Keyes et al., 2013). Infine, ci sono studi che correlano l’uso di contraccettivi orali con un maggior rischio di uso di antidepressivi e di diagnosi di depressione (Skovlund et al., 2016).

Andando invece ad approfondire l’interazione dei contraccettivi ormonali con alcuni specifici disturbi troviamo anche qui dati contrastanti.

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo endocrino caratterizzato da iperandrogenemia, ciclo mestruale irregolare, insulino-resistenza, possibile infertilità e multiple cisti ovariche (Robakis et al., 2019), questi sono sintomi che di per sé causano stress psicologico. Associato a tale disturbo abbiamo studi in cui i casi di depressione erano minori nei soggetti con PCOS trattati con contraccettivi ormonali (Rasgon et al., 2003), mentre in un altro studio non erano riportati benefici significativi (Cinar et al., 2012).

Il disturbo disforico premestruale (PMDD) comporta una destabilizzazione dell’umore durante la fase luteale, in questa fase i livelli di estrogeni e progesteroni aumentano rapidamente per poi diminuire durante il mese, ciò che cambia non è quindi la concentrazione assoluta degli ormoni, ma la rapidità dei cambiamenti che seguono (Robakis et al., 2019). All’interno di questo quadro diagnostico i soggetti che soffrono di disturbo disforico premestruale trovano beneficio in una regolazione del flusso di ormoni che l’uso di contraccettivi orali, o combinazioni di essi, comporta (Robakis et al., 2019).

Per i soggetti post-partum è sì consigliato l’uso di contraccettivi per evitare gravidanze involontarie, ma rimane una questione aperta quando si parla invece di allattamento al seno (Robakis et al., 2019). Detto ciò, in uno studio si è notato come l’uso di contraccettivi contenenti etonogestrel è associato a un maggior rischio di uso di antidepressivi, mentre l’uso di contraccettivi contenenti noretindrone è associato a un minor rischio di uso di antidepressivi e a diagnosi di depressione, similmente all’uso di dispositivi intrauterini con rilascio di levonorgestrel (Roberts e Hansen, 2017).

Gli effetti negativi sull’umore sono di maggior impatto tra gli adolescenti, in popolazione psichiatrica o con trascorsi psicopatologici (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020), sebbene, anche per quanto riguarda gli adolescenti, i dati sono anch’essi controversi (McKetta e Keyes, 2019). Altri effetti negativi possono comprendere ciclo mestruale irregolare, libido ridotta, aumento del peso e ipersensibilità al seno, è quindi sempre necessario adattarsi al quadro clinico del soggetto (Thirumalai & Page, 2019).

I metodi contraccettivi maschili

 Per quanto riguarda i metodi contraccettivi maschili, fino ad ora era stato possibile scegliere solamente tra i preservativi, che da un lato proteggono anche da malattie sessualmente trasmissibili, ma dall’altro posseggono una percentuale d’efficacia più aleatoria rispetto ad altri metodi contraccettivi, e la vasectomia, una procedura chirurgica che è sì reversibile, ma che risulta essere invasiva, costosa e poco accessibile (Thirumalai e Page, 2019). Un contraccettivo ormonale maschile è tuttavia teoricamente possibile e diversi studi cercano di arrivare alla distribuzione al pubblico (Thirumalai e Page, 2019). I primi studi prevedevano l’uso di dosi sovrafisiologiche di testosterone (T; Contraceptive efficacy of testosterone-induced azoospermia in normal men, 1990). Tra gli effetti collaterali di questa terapia basata su sovradosi di T è stato però notato lo sviluppo di acne ed eritrocitosi; a ciò si deve sommare la possibilità di sviluppare disturbi conseguenti a un’esposizione prolungata ad alte dosi di androgeni (Thirumalai e Page, 2019); sarà inoltre necessario comprendere i possibili effetti negativi sulla psiche. Si è quindi passati a un trattamento che prevedeva la riduzione del dosaggio di T tramite l’aggiunta di progestinici; sebbene la concentrazione sia minore, si è riusciti a mantenere un’efficacia maggiore del 95% (Nieschlag, 2010). Questi trattamenti sono tuttavia ancora fermi alle prime fasi sperimentali, è quindi plausibile ipotizzare lo sviluppo di una “pillola maschile” nel corso del prossimo decennio (Thirumalai e Page, 2019).

I metodi contraccettivi nella popolazione transgender

Per quanto riguarda l’utilizzo di metodi contraccettivi all’interno della popolazione transgender, il discorso si dirama in più direzioni. Escludendo coloro che si sottopongono a operazioni chirurgiche alla zona genitale, che comporta una perdita permanente delle capacità riproduttive, coloro che si sottopongono a un Gender-Affirming Hormonal Treatments (GAHTs) possono subire un variabile grado di reversibilità per quanto riguarda la perdita delle capacità riproduttive, non è infatti raro che uomini trans debbano affrontare una gravidanza non desiderata (Mancini et al., 2021). Tenuto conto della particolare situazione che i soggetti di questa popolazione devono affrontare, in termini di trattamenti ormonali e di cambiamenti radicali sia dal punto di vista fisico che degli equilibri interni, non è possibile escludere che contraccettivi ormonali possano avere effetti sull’umore non ancora ben esplorati. Una delle sfide che si presenta in questa situazione è legata proprio alla somministrazione del contraccettivo; è infatti necessario tenere in conto che determinate metodologie potrebbero accrescere, per il soggetto, il senso di disforia (Mancini et al., 2021).

 

La fine della coscienza? (2022) di Ciuffardi e Perissi – Recensione

La tesi sostenuta nel libro La fine della coscienza?” è che bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa dell’esperienza cosciente.

 

 Il sistema di credenze di ognuno cerca di dare significato al mondo e alle grandi questioni irrisolte che riguardano anche la coscienza.

Per affrontare questo tema gli autori di “La fine della coscienza? Dalla mente bicamerale all’intelligenza artificiale” fanno riferimento al contributo di Julian Jaynes, illustrato nel saggio “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, ripreso da autori di grande prestigio quali Zemir Zeki, Eric Kandel e Richard Dawkins.

La prospettiva con la quale Ciuffardi e Perissi affrontano il tema è fenomenologica e considera i fenomeni della coscienza come “prodotti culturali e a loro modo rappresentativi della modalità complessa e multidimensionale con la quale il cervello si fa mente e l’uomo si fa società, cultura e infine storia”.

Il modello epistemologico preso in considerazione è il costruttivismo – la distanza, però, da un costruttivismo radicale per il quale esistono solo le mappe e non il territorio è netto – che può consentire di comprendere il rapporto tra osservato e osservatore e favorire il salto di paradigma che serve per rendere conto di anomalie da studiare pensando in maniera diversa rispetto a quanto fatto sino ad ora.

Grandi intuizioni nascono, infatti, da osservazioni apparentemente banali o da curiosità attinte da discipline differenti. Studiare “cose strane e particolari” in quest’ottica può essere molto utile per far avanzare il sapere.

Il libro si apre con un capitolo dedicato alla storia della coscienza.

Il nostro cervello ha sviluppato l’emisfero sinistro a discapito dell’emisfero destro senza soppiantarlo del tutto.  La metà sinistra è deputata alla razionalità, alla spiegazione scientifica, quella destra volta alla trascendenza e alla dimensione artistica.

Prima che nascesse la coscienza intesa in senso moderno i due emisferi si parlavano alla pari, mentre oggi la focalizzazione dei processi mentali elimina tutto ciò che non è oggetto di essi, perciò non siamo più guidati da voci interiori di esseri soprannaturali e non consideriamo ogni fenomeno intenzionale e dotato di libero arbitrio.

Molti neuroscienziati considerano la coscienza moderna nient’altro che l’epifenomeno dell’attività elettrica e biochimica del cervello. Il linguaggio, pertanto, assume un ruolo dominante nel definire che cosa sia cosciente oppure no.

Ciuffardi e Perissi riportano una serie di controesempi per mettere in discussione questa tesi, e nel ripercorrere le tappe della storia del concetto di coscienza, facendo riferimento a Kandel, Fodor, Dennet, Metzinger, Damasio, concludono che “se l’intero flusso di coscienza può essere interpretato nei termini di un “presente ricordato” (Edelman, 2007), essenziale per intrecciare le varie percezioni in un’unità dotata di senso e coerenza, la mente bicamerale potrebbe essere allora intesa come l’impronta di un passato ancestrale che non muore mai, capace di far ritorno ricorsivamente nel presente sotto forma di immagini senza tempo, strane reminiscenze e percezioni extracorporee alle quali noi attribuiamo un significato paranormale, dai poteri della mente agli avvistamenti dei dischi volanti, ai fenomeni di difficile comprensione come le esperienze di premorte”.

La coscienza rimane comunque uno dei grandi misteri irrisolti poiché non sappiamo spiegare come emerga dal livello microscopico sottostante, il modo in cui si forma l’esperienza soggettiva, l’autoconsapevolezza che rende conto del libero arbitrio.

La tesi del libro è che proprio per questo bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa (qualia) dell’esperienza cosciente, inevitabilmente diversa per ciascun osservatore.

E qui, nel secondo e terzo capitolo, i riferimenti sono Maturana, Varela, Heidegger contro la prospettiva eliminativista di Dennet e contro l’emergere dell’intelligenza artificiale cui erroneamente, almeno per il momento, qualcuno attribuisce la capacità di raggiungere e persino superare le facoltà più propriamente umane.

Il quarto capitolo si apre con la domanda: In quale punto si colloca il confine tra la coscienza e la realtà “esterna”?

All’epoca della mente bicamerale il rapporto era caratterizzato da un realismo ingenuo, tutto ciò che veniva percepito era considerato come la realtà effettiva. In seguito si è fatta largo una percezione orientata da credenze e pregiudizi per lo più inconsapevoli, e da quella che Bessel definisce equazione personale.

Il fenomeno della coscienza si sviluppa proprio a partire dalla percezione più o meno distorta della realtà intorno a noi, determinando una dimensione parallela che si sovrappone al mondo fisico e, come sostiene Erwin Schrödinger, citato dagli autori, “la sola possibilità è di accettare l’esperienza immediata che la coscienza sia un singolare di cui non si conosce il plurale”.

Il processo di continua costruzione e attribuzione di significato sembra valere anche per la psichiatria e per la psicoterapia, giacché possiedono una valenza diversa a seconda della teoria o modello di riferimento.

Nel quinto capitolo s’illustrano una serie di evidenze, non ancora spiegate, che mettono in evidenza come la coscienza consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite.

 Ma la tendenza a bypassare la coscienza, presente anche in alcuni approcci psicoterapeutici manualizzati con protocolli specifici che non tengono conto della singolarità con la quale si percepisce la realtà in collegamento con l’ambiente, tanto da far avanzare l’ipotesi di una mente estesa e distribuita, non limitata al cervello umano, ma ampliata fino a diventare un tutto unico con l’ambiente circostante (Sheldrake), andrebbe a produrre un disadattamento evolutivo.

I due autori citano una serie di fatti a dimostrazione della tesi: il brusco calo nell’elaborazione degli stimoli da parte del cervello a causa dell’uso eccessivo della tecnologia; l’aumento di procedure meccanizzate e soluzioni standardizzate; l’effetto Flynn nei paesi più sviluppati; il dilagare dei disturbi dell’apprendimento; la pervasività del fenomeno della droga e di altre forme di dipendenza; l’abuso degli psicofarmaci, la demenza digitale, ecc..

D’altra parte Ciuffardi e Perissi continuano nei capitoli successivi del libro a mostrare, con una serie di esempi riguardanti lesioni del cervello che dovrebbero comportare la perdita di funzioni, ma che inopinatamente e inspiegabilmente non si verificano, quanto lo schema della profezia che si autoavvera, cioè le assunzioni che facciamo sulla nostra esperienza che in qualche misura la strutturano e la orientano verso conseguenze che lungi dall’essere inevitabili fanno leva sulla nostra spesso inconsapevole complicità, siano determinanti nella produzione di senso sia in termini negativi, sia positivi.

L’essere dotati di una coscienza, o almeno il credere di esserlo, consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite. Ma se la coscienza costituisce un tratto adattivo transitorio, il cui sviluppo è avvenuto in risposta a un ambiente mutevole, rischia di fare la fine di altri adattamenti che in natura si sono estinti perché diventati perfettamente inutili, superflui o ridondanti.

Già i resti dell’antica mente bicamerale, secondo Jaynes, è possibile intravederli tutt’intorno a noi, come se stessimo visitando un sito archeologico.

Maghi, astrologi, cultori dei fenomeni paranormali persino psichiatri e psicologi forniscono visioni del mondo strutturate per trovare esattamente ciò che cercano, operando in modo antitetico al principio di falsificazione di Popper.

Nel corso dei millenni, siamo passati dall’impossibilità che la mente bicamerale aveva nel discernere fra fatti veri e leggende, alla concezione opposta, in base alla quale verità e finzione narrativa sono due poli inconciliabili.

I misteri spesso si collocano negli occhi di chi guarda piuttosto che all’interno di quanto osservato, negando l’evidenza dei dati a disposizione, ma anche all’opposto producendo una mole infinita di dati, nella convinzione che essa esaurisca ogni discorso.

È, quindi, necessario formulare teorie e modelli in grado di essere falsificati andando alla ricerca, in maniera contro-intuitiva, non delle prove a favore, bensì di quelle sfavorevoli e contrarie.

Gli autori ritengono che attraverso un’indagine seria delle anomalie e delle cose strane che a volte si verificano nella realtà, sia possibile imparare moltissimo sulle modalità di funzionamento della mente in condizioni normali.

Questa visione ha una caduta anche sulla psicoterapia, che per gli autori consiste in un’attività artistica con basi scientifiche che, tenendo conto delle tecniche e del setting clinico, cambia ogni volta che il saper fare e il saper essere del terapeuta entrano in risonanza con ogni singolo paziente.

Il modello clinico, sviluppato a partire dalla mente bicamerale, mira proprio a incrementare il livello di coscienza delle persone, portandole a riflettere sugli eventi accaduti, anche su quelli presunti, e sul senso di sé, in modo da attivare le capacità di ragionamento critico e altre risorse interiori, affinché sia possibile trarre un significato personale da una storia anche strana.

In questo senso ci sembra che Ciuffardi e Perissi evidenzino la necessità di coniugare il rigore del metodo scientifico, gli aspetti di una coscienza bicamerale ancora presente con funzioni evolutive e adattive e volta a tener conto degli aspetti di singolarità, e una riflessività e autoconsapevolezza che non può rischiare di eclissarsi, a favore di una coscienza moderna che fa coincidere il funzionamento biochimico ed elettrico del cervello con la mente.

 

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