expand_lessAPRI WIDGET

La rivelazione della propria sieropositività può evocare vissuti di abbandono e abuso – Parte I

La comunicazione della propria sieropositività agli altri è un grande dilemma legato allo sguardo dell’altro e alla paura dello svelamento

Di Sonia Sofia

Pubblicato il 22 Nov. 2022

Aggiornato il 24 Nov. 2022 15:50

La notizia della propria sieropositività incide sull’identità, sulla rappresentazione di sé e condiziona il livello della progettualità e del futuro.

Ndr – Il presente contributo è il primo di una serie di tre articoli sull’argomento. Il secondo e il terzo contributo verrano pubblicati nei prossimi giorni

 

Negli ultimi anni, l’avvento della terapia antiretrovirale ha rivoluzionato l’esistenza delle persone sieropositive sia in termini di sopravvivenza, sia in termini di miglioramento della qualità della vita.

L’orizzonte temporale si è spostato in avanti, ma per queste persone e per coloro che ne condividono il percorso, il futuro appare spesso segnato da un forte stato di incertezza e angoscia.

La comunicazione della diagnosi di sieropositività

Uno dei momenti più drammatici nella vita delle persone sieropositive è quello in cui viene comunicata la diagnosi. L’incontro con la sieropositività può segnare l’inizio di un percorso doloroso e destabilizzante, costituito da continue rotture e ricostruzioni dell’equilibrio fisico, psicologico e socio-relazionale. La persona sieropositiva vive alcune difficoltà oltre la minaccia di morte: la percezione del proprio corpo come “nemico”, occupato da un invasore invisibile che ostacola il pieno godimento della sessualità, l’allontanamento da relazioni significative e talvolta l’isolamento sociale.

Rendere nota la propria condizione di salute può significare la perdita di reti sociali supportive.

Vi è, infatti, da superare la prova del debutto nell’ambiente esterno alla famiglia. La comunicazione della propria sieropositività agli altri è il grande dilemma che richiede la consapevolezza dello sguardo dell’altro con la relativa paura dello svelamento, timore che si allaccia al tema della vergogna. Lo sguardo dell’altro è vissuto come invasivo. Si prova vergogna per qualcosa che fa sentire diversi ed esposti allo sguardo altrui. Lo stigma è etimologicamente collegato al marchio che, impresso sul corpo rende il soggetto altro rispetto al gruppo: il paziente molto spesso si racconta come macchiato e infangato, una persona svalutata e temuta che può per questo motivo essere lasciata ai margini, esclusa dalla normale interazione sociale.

Sieropositività e stigma

A livello cognitivo lo stigma opera legando particolari attributi o condizioni ritenute indesiderabili a schemi stereotipati, immagini cristallizzate e negative che si ritiene definiscano chi è portatore di quella particolare caratteristica. Essere stigmatizzati implica sentirsi appiattire la propria individualità, essere incasellati in uno schema irrigidito.

La percezione del proprio corpo come portatore di pericolo segna fortemente la sfera relazionale. Il contatto fisico è un tema delicato che emerge in un numero significativo di pazienti.

La sieropositività, infatti, presenta una caratteristica specifica, che la differenzia dalla maggior parte delle malattie croniche, come il diabete, l’asma o la sclerosi multipla: la trasmissibilità, con un contagio che avviene soprattutto per via sessuale. Questa caratteristica mette in difficoltà le persone proprio nella relazione più coinvolgente sul piano emotivo, quale è quella amorosa e sessuale.

Le relazioni affettive e sessuali rappresentano quindi un ambito in cui la comunicazione della propria condizione di sieropositività si fa sovente molto conflittuale, in bilico tra il timore di subire un rifiuto e il desiderio di avere una normale vita affettiva e sessuale, nella consapevolezza di dover comunque tutelare l’altra persona.

Sieropositività e timore del rifiuto

Il timore del rifiuto è talmente grande che esso viene da alcuni soggettivamente anticipato, nella convinzione che esso sia la reazione più frequente e probabile nel conoscere la propria condizione di salute. In alcuni casi l’anticipazione del rifiuto, immaginato come conseguenza certa della rivelazione della propria sieropositività, è talmente forte da portare ad abbandonare i tentativi di contatto o a chiudere la relazione già in atto. Si tratta di un meccanismo di difesa che richiude la persona nella propria solitudine e le impedisce di aprirsi a possibilità di relazione e realizzazione personale, favorendo nel tempo proprio la concretizzazione dei peggiori timori.

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo al proprio stato di salute sono la paura del rifiuto o dell’abbandono (Derlega et al, 2004), la paura dell’isolamento sociale o che l’altro possa diventare violento oltre che rifiutante –soprattutto nei paesi in via di sviluppo, tra le donne che dipendono dalle famiglie, i timori principali sono di perdere il sostegno economico, subire maltrattamento e violenza, o ancora la paura di turbare, di sconvolgere i propri familiari e il timore di provocare in loro vergogna.

Ad esempio, se la comunicazione al proprio partner non viene attuata relativamente presto, può diventare sempre più difficoltoso farla mano a mano che passa il tempo e potrà essere motivo di rottura se il partner, nell’apprenderlo, sentirà di essere stato tradito o ingannato a causa del silenzio prolungato. La rottura potrebbe determinare nel paziente sentimenti di abbandono e solitudine confermando una rappresentazione di sé come “non degno di amore” e persino colpevole. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo. La capacità di rivelarsi è certamente legata al grado in cui la persona ha accettato la diagnosi (Peterson et al., 2006).

Il momento giusto per scegliere di rivelarsi costituisce un oggetto di profonda riflessione da parte delle persone positive, ed è spesso l’argomento principale ai colloqui con lo psicoterapeuta. Alcuni studi hanno rilevato che le percentuali di rivelazione della propria sieropositività crescono con l’aumentare del numero di incontri con lo psicoterapeuta su questo tema. Nello studio di Maman e colleghi (Maman et al., 2001) sono stati gli stessi intervistati a sottolineare il ruolo dello psicoterapeuta nella loro decisione di informare altre persone della propria sieropositività.

Le conseguenze positive della rivelazione sono numerose: le persone intervistate hanno citato un aumentato sostegno e una maggiore accettazione, un rafforzamento dei legami con familiari e amici, la riduzione dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché la semplificazione della vita con l’eliminazione dei sotterfugi nella frequentazione dei centri ospedalieri e nell’assunzione della terapia antiretrovirale, con conseguente maggiore aderenza terapeutica.

Contrariamente alle aspettative, si è evidenziato anche che la comunicazione non è associata alla rottura delle relazioni stabili. Tra le psicoterapie cognitive di ultima generazione, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2015) ha la caratteristica di adattare gli interventi terapeutici alle capacità metacognitive del paziente e ad una attenta formulazione degli schemi maladattivi con cui i pazienti danno senso alle relazioni interpersonali. La TMI dedica grande attenzione alla cura della relazione terapeutica, che usa come fonte di informazioni e come luogo dove sperimentare per prima le modalità adattative di relazione.

Sieropositività e Terapia metacognitiva interpersonale

La TMI, sviluppata principalmente per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche a essi associate, è già stata applicata con successo a due casi di pazienti con HIV. Nel primo caso, sono stati ottenuti ottimi risultati in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica (Dimaggio et al., 2016). Nel secondo caso, un paziente sieropositivo con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza terapeutica ai regimi prescritti, gli effetti ottenuti sono stati il raggiungimento della completa aderenza terapeutica con conseguente soppressione della carica virale e la riduzione dei criteri diagnostici del disturbo di personalità (Sofia et al., 2017).

Qui di seguito, descriviamo il suo utilizzo nel caso di un paziente sieropositivo, con storia traumatica legata ad abuso familiare, la cui diagnosi di sieropositività ha incrementato vissuti di svalutazione, vergogna e solitudine, con conseguenti difficoltà relazionali oltre che di accettazione e rivelazione del proprio stato sierologico.

La TMI, come abbiamo anticipato, si basa sull’idea che i pazienti sono guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative definite “schemi interpersonali”, delle quali molto spesso non sono consapevoli e che mettono in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani e bisogni. A causa di queste aspettative le persone soffrono ancora prima di entrare in relazione con gli altri oppure compiono azioni che da un lato impediranno loro di realizzare tali desideri, dall’altro non indurranno gli altri a rispondere in modo positivo.

Il paziente teme la critica e l’abbandono e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto e utilizza l’evitamento e il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza, nonché la costante paura della perdita.

Questa formulazione del caso in TMI è un principio di partenza per creare un piano terapeutico che abbia come scopo iniziale il miglioramento della comprensione di sé e in seguito il cambiamento dei processi cognitivo-affettivi sottostanti i problemi di personalità.

La TMI adotta una procedura formalizzata passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti e promuovere la metacognizione fino a quando cominceranno a vedere le proprie descrizioni delle relazioni interpersonali come pattern interiorizzati e non più come riflessi della realtà.

In terapia, quindi, il paziente è aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e abusato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

Il caso di Roberto

Roberto ha 37 anni ed è sieropositivo da 10. È libero professionista di successo, organizza eventi. Sul lavoro non si risparmia, possiede uno spiccato senso artistico, è instancabile e molto scrupoloso. Dal momento della diagnosi, molte cose sono cambiate nella sua vita, soprattutto dal punto di vista relazionale. Roberto è omosessuale, non frequenta nessun partner e non ha mai dichiarato a nessuno la propria sieropositività, neanche in famiglia. Quando esce dallo studio, si dedica a lunghe passeggiate solitarie sul lungomare della sua città, ogni sera cammina sotto le stelle ascoltando musica, anche per gestire l’insonnia. Poi, a notte fonda, ritorna a casa, dove vive con i genitori. Ha un padre sofferente, affetto da morbo di Parkinson, ex grande lavoratore ma severo e capace solo di lunghi silenzi e una madre con qualche acciacco, da sempre ritenuta il perno dell’intero sistema familiare, ma dipinta come invadente, un po’ opprimente, spesso critica.

Gli chiedo come mai ha deciso di farsi seguire presso il nostro ambulatorio e non nella città in cui vive. Risponde: “Non lo so, quando mi hanno comunicato che ero sieropositivo nel primo ambulatorio, sono svenuto. Sono rimasto a terra, non mi ha raccolto nessuno. Non lo so perché, ma dopo un po’ di tempo –dopo qualche anno– ho preferito cambiare ambulatorio. Dottoressa mi promette che lei non mi abbandonerà mai?”.

Fin dai primi colloqui Roberto è estremamente educato, riferisce di essersi sentito stigmatizzato e discriminato presso l’ambulatorio della sua città d’origine, ma non riporta l’episodio o le parole incriminate. Semplicemente ricorda di essere svenuto alla notizia senza fare cenno all’emozione provata, ricorda qualche sguardo invadente, nessuno che lo raccoglie da terra.

In seduta è esageratamente gentile, chiede sempre scusa per dei ritardi che non ha mai commesso, ringrazia per il tempo concesso e l’attenzione.

Il processo di Assessment rivela un disturbo di personalità evitante e dipendente e sotto soglia i tratti passivo aggressivo e depressivo. È alessitimico al test TAS-20, e mostra una lieve inibizione emotiva alla Emotional Inhibition Scale (solo la scala della timidezza risulta patologica). La DERS (Difficulties in Emotion Regulation Scale) mostra anche disregolazione emotiva. Infine sono emersi numerosi schemi cognitivi disfunzionali allo Young Schema Questionnaire: abbandono, deprivazione affettiva, invischiamento relazionale, sottomissione, autosacrificio. I test su ansia e depressione sono nella norma.

Non affronta l’argomento della sieropositività, o perlomeno la sua richiesta di aiuto non è apparentemente centrata su questo tema: “Sono venuto per parlare di una relazione. Mi frequento con un ragazzo da un po’. È il primo dopo tanto tempo… In realtà non ci frequentiamo esattamente, ci siamo conosciuti su una chat”.

Il problema di Roberto è l’eccessivo controllo della chat. Invaghito di questo ragazzo, che non ha mai incontrato, ma con cui intrattiene lunghe conversazioni e scambi di foto su whatsapp, nell’ultimo periodo ha accusato a suo dire un eccessivo bisogno di controllarlo online, di controllare che non sia connesso se non con lui e che risponda immediatamente a ogni suo messaggio, anche banale. Ha sofferto per delle risposte non ricevute (online), questo lo ha portato a manifestare una certa ossessività nell’utilizzo del cellulare, con ripercussioni sulla sua attività lavorativa e con perdita di serenità.

Gli chiedo se desidera incontrarlo. Nonostante le distanze, se davvero sono coinvolti, si può decidere di iniziare a frequentarsi. Sarebbe il caso di vedersi e capire se si piacciono, non solo virtualmente. Racconta di non essere interessato a una reale relazione, che in questo momento della sua vita, per scelta, preferisce vivere l’incontro con l’altro solo attraverso la chat. Certo sì, desidera conoscerlo davvero, ma in realtà immagina il loro incontro come un momento fugace in cui vedersi per poi rimanere esclusivamente in contatto online.

È chiaro che Roberto nasconde in questo momento le sue reali paure a vivere la relazione desiderata, e probabilmente non intende parlarne ancora in seduta. Tuttavia, è ben visibile il desiderio di incontrare questa persona. Ciò lo smuove anche fisicamente, lo attiva visibilmente nonostante le sue caratteristiche: immobilità fisica e particolare lentezza. Proprio in questi giorni, la nave da crociera in cui lavora il ragazzo fa approdo al porto di Bari. Ne approfitto per proporgli un esercizio comportamentale precoce per interrompere l’evitamento e il rimuginio (Dimaggio et al., 2019) e lo invito a conoscere il ragazzo e capire cosa succede (sempre se lui è d’accordo). Potrebbero incontrarsi lì, la nave da crociera dovrebbe infatti fermarsi alcuni giorni. Il tempo di conoscersi e capire se davvero ne vale la pena di soffrire per lui, per i messaggi a cui non risponde.

Mi spiega di non avere particolari problemi a conoscerlo, anzi di averne curiosità e poi ribadisce che nella sua vita non ci sono grandi cose da risolvere, a eccezione dell’eccessivo controllo delle chat. “Per il resto tutto risolto. Sì, tutto risolto… La storia dell’omosessualità e della sieropositività sono risolte. Il mio psicoanalista (ci sono andato per 2 anni dopo la notizia della sieropositività), ha detto che non ne devo parlare più, che io sono nato omosessuale e che non c’è niente da capire… che non devo più parlare di quella storia di mio fratello…  poi la sieropositività è venuta dopo, è stata con il mio primo ragazzo. Mi ha detto di togliere il preservativo e io l’ho fatto… e ora mi trovo così”.

Difficile rispettare il divieto di accesso di Roberto, di non parlare più della storia di suo fratello: “Me l’ha detto lo psicoanalista precedente. Non c’è più bisogno di parlarne”.

L’esperimento comportamentale di incontrare il ragazzo della nave da crociera si rivela utile. Roberto prenota un B&B a Bari la sera prima dell’arrivo della nave, porta con sé dei dolci e la mattina seguente se la dà a gambe levate. Decide, preso dal panico, di far arrivare a bordo solo i dolci, pagando una persona estranea, e di scappare prima di conoscere il ragazzo. È un episodio che ci permetterà molte riflessioni e servirà a rivelare uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

“Dottoressa, ma come potevo presentarmi? Mi vede??? Sono goffo, tozzo, grasso, più imbranato di Paperino… e poi? Mi piace, mettiamo che lui è completamente cieco e mi vuole… iniziamo a frequentarci seriamente e poi… ah scusa dimenticavo, sono sieropositivo. Per te è un problema?

Gli ho fatto pervenire i dolci, così almeno avrà un buon ricordo di me… e finiamo qui questa stupida storia. Per me è impossibile credere ancora in una relazione normale, sono un marchiato”.

Si parla di:
Categorie
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G., (2015), Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità, Milano, Cortina Editore.
  • Dimaggio, G., Conti, C., Lysaker, P.H., Popolo, R., Salvatore, G., Sofia, S.A., (2016), Reauthoring one’s own life in the face of being HIV+, Promoting healthier narratives with Metacognitive Interpersonal Therapy, Journal of Constructivist Psychology.
  • Sofia, S. A., Lysaker, P.H., Dimaggio, G., (2017), Metacognitive Interpersonal Therapy Improves Adherence to Antiretroviral Therapies in a Man with a Severe Personality Disorder: A Case Report, J Contemp Psychother, DOI 10.1007/s10879-017-9363-x.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G., (2019), Corpo, Immaginazione e cambiamento. Terapia Metacognitiva Interpersonale, Raffaello Cortina.
  • Peterson, S.H., DiClemente, R., Wingood, G., Lang, D., (2006), The Relational context of non-disclosure in HIV positive women, 16th World AIDS Conference, Toronto, Canada.
  • Derlega, V.J., Winstead, B.A.,Green, K., Serovich, J., Elwood, W.N., (2004), Reasons for HIV disclosure/non-disclosure to relationship partners: a contextual analysis”, Journal of Social and Clinical Psychology, 23(6): 747-67.
  • Maman, S., Mbwambo, J., Hogan, N.M., Kilonzo, G.P., Sweat, M., (2001), Women’s barriers ro HIV-1 testing and disclosure: challenge for HIV-1 voluntary testing and counselling, AIDS Care, 13(5): 599-603.
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Sieropositività: l'importanza della psicoterapia e dell'associazionismo
Viversi la sieropositività, l’importanza della psicoterapia e dell’associazionismo. La storia di Lorenzo

Lorenzo è un ragazzo che scopre la sua sieropositività e questo comporta un vissuto depressivo che viene rielaborato in psicoterapia.

ARTICOLI CORRELATI
L’utilizzo della CBT per la riduzione del dolore da fibromialgia

Lee e colleghi (2023) hanno indagato gli effetti della CBT nella riduzione del dolore su un campione di donne affette da fibromialgia

U=U. Per chi ha l’HIV il vero problema sei tu

La condivisione dell’equazione U=U, Undetectable=Untrasmittable, cioè Non rilevabile=Non trasmissibile, aiuta a ridurre lo stigma sull'HIV

WordPress Ads
cancel