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Vedere la mente, il cervello in cento immagini (2022) di Stanislas Dehaene – Recensione

In questo meraviglioso libro, “Vedere la mente, il cervello in cento immagini”, edito dalla casa editrice Raffaello Cortina, non incontreremo semplici descrizioni di anatomia e fisiologia, bensì attraverso le sue pagine il lettore si sentirà accompagnato all’interno di una di una galleria fotografica ricca di strani dipinti, in grado di restituirgli la sostanza di cui egli stesso è costituito.

 

Un viaggio difficile da dimenticare e ricco di colori

Benvenuti nell’intimità del vostro cervello, se afferrate lo specchio che vi viene porto, scoprirete, nel più profondo di voi stessi, i meccanismi del vostro pensiero (Dehaene, 2022, p. 11).

Un invito con il quale l’autore di questa enciclopedia fotografica, storica e artistica al tempo stesso, sembra voler promettere una discesa vera e propria nei meandri di quanto più ci caratterizza dalla notte dei tempi. Eppure un ulteriore monito sembra accompagnare quello precedente, ossia quello di non farsi travolgere da quella strana e complessa bellezza che per secoli (e ancor più millenni) ha piano piano preso vita dentro di noi.

Una bellezza quasi sconosciuta che, a nostra insaputa e in maniera alchemica, ha trasformato le strutture del nostro cervello legittimando la sua unicità, ancora oggi spesso inafferrabile, proprio perché in continuo mutamento.

Favoloso è l’incredibile progresso delle tecniche di esplorazione del cervello e gli sviluppi folgoranti che hanno permesso di comprendere il legame tra il corpo e la mente (Dehaene, 2022, p. 11).

Perché quest’organo non è una semplice parte costituente del nostro intero organismo, ma al contrario il riflesso di una fioritura in grado di custodire radici lontane nel tempo e capaci di svelare una propria storia evolutiva. Una propria evoluzione che a partire dalla preistoria giunge sino ai giorni nostri.

Un salto nel passato per comprendere il presente

La preistoria ci ha lasciato in eredità innumerevoli tracce di interventi riusciti, quale prova che alcuni uomini avevano compreso che il soffio della mente attraversa il cervello (Dehaene, 2022, p. 13).

Se la passione è il motore principale per una buona pratica di qualsivoglia disciplina, la curiosità al contempo risulta essenziale per scoprire qualcosa di nuovo. In un salto lontano nel tempo l’autore, sin dalle prime pagine, porta il lettore in un mondo rispetto al quale la scoperta e i tentativi di studio del cervello erano caratterizzati da un arricchimento costante di conoscenze e da un passaggio di testimone vero e proprio, dove quanto si scopriva veniva tramandato nel tempo e gradualmente “riciclato” a favore di nuove scoperte basate sui dati acquisiti. Senza esserne consapevoli, infatti, i medici di quel tempo davano vita ai concetti di apprendimento.

Le strutture del cervello servono ad una cosa sola: a pensare (Dehaene, 2022, p. 13).

Eppure questa attività cognitiva che oggigiorno sappiamo essere il riflesso di più parti coinvolte all’unisono, in passato portava con sé un alone di mistero, fatto di incertezze, ma sempre connotato da un comune denominatore: l’amore per la scoperta.

L’autore inoltre sembra voler condurre il lettore ad una visione del cervello quale vero e proprio connubio tra passato e presente e tra storia ed arte. Perché se è vero da un lato che la scienza ha progredito per tentativi ed errori, quanto viene valorizzato è la forte presenza dell’immaginazione quale chiave descrittiva e percettiva, che ha sempre guidato l’uomo nelle sue scoperte e nella sua capacità di rappresentarsi un mondo che ancora non conosceva, e che aspettava semplicemente di essere scoperto, dipinto e tramandato.

I neuroni quali Farfalle dell’Anima

Come le tappe evolutive sono necessarie per scoprire qualcosa di noi, i segni del tempo lo sono altrettanto per comprendere la capacità dello sguardo di trasformare ciò che è stato in qualcosa di nuovo. Dalla preistoria agli Egizi e dai Greci al Rinascimento “avremmo dovuto attendere il secolo delle lesioni e il secolo dell’imaging per acquisire la consapevolezza che ad ogni livello le strutture del cervello sono in grado di dirci qualcosa” (Dehaene, 2022, p. 13).

E così negli anni trenta del secolo scorso un neuroanatomista spagnolo impiegando la colorazione argentica (Stiefel, 2016), scoprì come questo strumento applicato a diverse regioni del cervello fosse in grado di svelare un’orchestra mai vista prima: l’organizzazione cellulare cerebrale. Dando inoltre inizio a quelle che oggi chiamiamo neuroscienze, conferendo a Ramòn y Cajal il premio Nobel per la fisiologia e la medicina a seguito dei lavori svolti sul sistema nervoso.

Un mondo ancora oggi in grado di sorprenderci con la sua struttura e i suoi misteri. Ricco di enigmi sempre nuovi da decifrare ma unici nel farci battere il cuore e farci volare con l’immaginazione. Scoprendo così “le farfalle dell’anima”.

 

L’impatto della quarantena sull’uso di alcool e cannabis nei giovani

L’utilizzo di cannabis è aumentato durante la pandemia poiché, soprattutto tra i giovani, veniva utilizzato come strategia per fronteggiare ansia, depressione e solitudine dovuta all’isolamento.

 

Gli effetti delle misure di isolamento durante la pandemia

L’11 marzo 2020 il direttore generale dell’OMS, Adhanom Ghebreyesus, ha pubblicamente classificato l’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19 come pandemia (OMS, 2020). Infatti il Coronavirus, fin da subito ha modificato significativamente la vita dell’intera popolazione mondiale, con un impatto devastante sia sull’economia sia sul sistema sanitario dei singoli paesi. Purtroppo, le misure di contenimento atte a limitare la diffusione del virus, come la quarantena e il distanziamento sociale, hanno avuto un impatto significativo sulla salute mentale di intere comunità, diventando a loro volta fattori di rischio (Mota, 2020). Infatti, le condizioni psicopatologiche che si sono maggiormente aggravate a causa del lockdown sono risultate il suicidio, l’autolesionismo, l’abuso di sostanze, il gioco d’azzardo e gli abusi domestici. In generale, molte persone che hanno sperimentato ansia, depressione, rabbia, insonnia, noia e solitudine erano più facilmente vulnerabili a sviluppare il disturbo da uso di sostanze.

Se paragonate con la popolazione generale, le persone che abusano di sostanze sviluppano spesso un altro disturbo in comorbilità (Widinghoff et al., 2018). In aggiunta, se consideriamo la comparsa di sintomi di astinenza nel periodo di quarantena, è facile immaginare come le persone che ne soffrissero fossero incentivate a trasgredire all’obbligo di confinamento per andare alla ricerca della propria sostanza, accrescendo il rischio di essere esposti al virus e di contrarlo conseguentemente (Mota, 2020).

Uso di alcol e cannabis durante la quarantena

Se paragonato alle sostanze illegali, meno facili da reperire, l’alcool è sicuramente molto più accessibile ed è frequentemente usato per sopprimere emozioni negative con cui non si vuole stare in contatto. Nel periodo della quarantena, l’alcool è stato usato proprio per gestire l’ansia e combattere l’insonnia, in combinazione anche con altre sostanze illegali. Nello specifico, l’abuso di sostanze in persone aventi disturbi di personalità viene utilizzato come strumento per gestire sentimenti di vuoto, abbandono, solitudine, i quali sono sicuramente stati accentuati dall’isolamento imposto durante la quarantena (Pocuca et al., 2022).

In ogni caso, anche l’utilizzo di cannabis è aumentato durante la pandemia poiché, soprattutto tra i giovani, veniva utilizzato come strategia per fronteggiare ansia, depressione e solitudine dovuta all’isolamento (Bartel et al., 2020).

Secondo un recente studio, la fascia di età denominata emerging adults, la quale è composta da giovani compresi tra i 18 e i 25 anni, risulta essere quella più sensibile all’utilizzo di alcool e cannabis durante la pandemia, se paragonata con i dati raccolti in pre-pandemia (Pocuca et al., 2022; OMS, 2018). Infatti, gli emerging adults sono risultati la categoria più colpita da problemi psicopatologici durante il COVID-19 (Watkins-Martin et al., 2021).

La letteratura ha evidenziato alcuni fattori di rischio per questo fenomeno, ovvero essere appartenenti a uno status socio economico basso, essere single, essere disoccupati, avere scarso supporto sociale, avere preoccupazioni eccessive verso la propria salute (Horigian et al., 2021).

Risulta dunque importante individuare i fattori di rischio associati ai cambiamenti del consumo di sostanze durante questo periodo di tempo, per identificare le categorie maggiormente a rischio e per delineare delle strategie di intervento efficaci, volte a ridurre il consumo di sostanze nelle categorie a rischio (Pocuca et al, 2022).

Uso di cannabis e binge drinking

Un recente studio del 2022 di Pocuca e colleghi ha analizzato la frequenza di utilizzo di alcool e cannabis prima e durante la pandemia, per valutare la presenza di cambiamenti significativi nell’abuso di queste sostanze. I risultati, sebbene non abbiamo riscontrato un aumento significativo dell’uso di cannabis, hanno evidenziato una forte presenza di binge drinking. Il binge drinking è definito dal NIAAA come il consumo di etanolo, in termini di quantità e rapidità, che porta la concentrazione di alcool nel sangue (BAC) allo 0.08%, che equivale a un quantitativo maggiore di 56 g per le donne (circa 4 drinks) e di 70 g per gli uomini (circa 5 drinks), in meno di due ore. Questo fenomeno può essere motivato dal fatto che, proprio a causa dell’isolamento e della scarsa reperibilità di altre sostanze illegali, molte persone abbiano optato per l’alcool come strumento di gestione di ansia e altre problematiche psicologiche. Infatti è importante sottolineare come il concetto di binge drinking implichi una rapida e massiccia ingestione di alcool, che riporta alla volontà di allontanare o anestetizzare tutte le sensazioni ed emozioni negative dovute all’isolamento.

I gemelli digitali con destinazione terra

Il presente lavoro si concentra su una intelligenza artificiale che si può definire “buona”: vale a dire, la creazione di un gemello digitale della Terra (Digital Twin Earth) realizzabile grazie allo stock di dati – sia quelli storici, sia quelli ottenuti in tempo reale – provenienti prevalentemente dai satelliti.

 

Introduzione

Nei molteplici ambiti dell’intelligenza artificiale si è giunti ormai a livelli di astrazione che appaiono pressoché alieni alla percezione umana.

Non solo: questa estrema complessità porta all’esacerbazione delle diseguaglianze: socio-economiche, generazionali, culturali, geografiche e di genere (digit divide). E poi, sottostanti a tanti ambiti dell’intelligenza artificiale, vi sono forme più o meno evidenti e surrettizie di potere e di controllo mediante tecnologie di sorveglianza intelligenti (ad esempio, algoritmi per la sorveglianza di massa, denominata anche sorveglianza “non targetizzata” o “in rete”). In un’epoca di datacrazia (termine coniato dal noto sociologo belga della cultura digitale de Kerckhove), la conseguenza è la forte asimmetria delle informazioni, cioè l’ampio gap tra i potenti detentori dei big data e i soggetti monitorati (tramite videosorveglianza e riconoscimento facciale). Nei paesi dove ciò accade e la cultura della sorveglianza di massa fa parte del vissuto della popolazione – in primis, la Cina con il c.d. Great Firewall – è difficile stabilire cosa prevalga all’interno della collettività: una percezione di tutela e sicurezza (infatti, obiettivo enfatizzato dal governo è quello di salvaguardare la pubblica sicurezza di fronte alla dilagante criminalità, la stabilità sociale e la salute pubblica), ovvero l’incombente sensazione di venire costantemente scandagliati con incursioni nel proprio quotidiano attraverso sistemi iper-predatori?

A quello delle autorità governative si affianca un’altra forma di potere –anch’essa sottile– che è quella del mercato. A tale proposito mutuiamo le suggestioni di de Kerckhove quando parla di “techno-fetishism” e “techno-psychology” (1998).

Se le suddette questioni sollevano tanto scetticismo, il presente lavoro si concentra invece su una intelligenza artificiale che si può definire “buona”: vale a dire, la creazione di un gemello digitale della Terra (Digital Twin Earth) realizzabile grazie allo stock di dati –sia quelli storici, sia quelli ottenuti in tempo reale– provenienti prevalentemente dai satelliti. Ad esempio, dal sistema Copernicus che rilascia uno stock ingente di dati. Tale patrimonio informativo, se in parte fino a oggi non è stato sfruttato appieno, con il gemello virtuale della Terra potrà essere valorizzato su scala più ampia. E ciò anche se si tratterà di un gemello non ancora dell’intero Globo, bensì di gemelli virtuali di ambiti circoscritti che permetteranno di scandagliare specifiche realtà settoriali, geografiche o fenomenologiche. E, questione fondamentale, tali tecnologie di avanguardia potranno aiutare a comprendere le modalità, i tempi e le interazioni attraverso cui operano i fattori del cambiamento climatico (Desiderio, 2022).

Collegato a questi argomenti, ulteriore obiettivo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza un attuale e importante triangolazione: space economy – green economy – digital twins.

Se l’utilizzo di big data e sensori spaziali si rendono indispensabili per tenere sotto controllo le variabili climatiche e predirne il corso, nonché per scandagliare l’insieme e l’interazione dei fenomeni sottostanti ai cambiamenti del clima, in modo del tutto complementare la replica virtuale del sistema Terra consentirà di esaminare, capire e predire l’impatto sul clima dell’incremento della popolazione della conseguente e crescente pressione su risorse cruciali (l’acqua, ad esempio) e sugli ecosistemi marittimi e terrestri.

Pertanto, l’integrazione fra tecnologie spaziali e quelle avanzate dell’intelligenza artificiale, finalizzata a monitorare e ad anticipare il cambiamento climatico, produrrà importanti sinergie volte soprattutto ad accrescere la qualità della condizione umana e quella di tutti gli esseri viventi.

Space economy e green economy

La space economy costituisce un tema nuovo e ancora poco conosciuto.

È che oggi lo spazio è anche economia, un’economia globale. Tornando al digital divide, i sistemi satellitari d’avanguardia avranno la capacità di portare internet ovunque, senza che alcuno sia costretto a esserne escluso. Sotto questo profilo, l’economia spaziale ha pure importanti spillovers in termini di equità e di opportunità il più possibile equidistribuite, anche questo tema fondante dell’economia e delle policy pubbliche.

Attraverso una prospettiva fortemente interdisciplinare, la space economy sintetizza, dunque, tanti filoni dell’economia e tante tematiche di policy.

Per citare ulteriori esempi, l’economia spaziale dà un forte contributo nel cercare di gestire le questioni legate al cambiamento climatico e, quindi, nel salvaguardare le condizioni ambientali attuali senza pregiudicare le esigenze delle generazioni future (una green economy sostenibile); sul tema del cibo, la tecnologia spaziale crea opportunità di frontiera per operare un tracciamento dei prodotti, individuare le diffusissime pratiche illegali, allocare in modo efficiente le risorse, sfruttare modelli predittivi per l’approvvigionamento del cibo. Strettamente collegato al tema del cibo è quello derivante dalla combinazione fra i big data satellitari e quelli climatici, destinata a produrre un enorme valore aggiunto nello sviluppo agricolo. La lista degli esempi è lunga, ma possiamo sintetizzarla con l’affermazione di Di Pippo (2021) secondo cui, in prospettiva, lo sviluppo socio-economico sulla terra è legato ai benefici dello spazio.

Inoltre, il mix tra dati terrestri e satellitari permetterà di monitorare i fenomeni di: deforestazione, innalzamento dei mari, alterazione delle correnti oceaniche, livello di emissioni nell’atmosfera, recesso dei ghiacciai polari, depauperamento della biodiversità, interruzione di catene alimentari, estinzione di specie, fenomeni geofisici come terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami; sfruttamento illecito e inquinante di terre rare (largamente utilizzate, ad esempio, nella strumentazione elettronica, per l’energia rinnovabile, nella petrolchimica), e altri drammi già in essere. Drammi che potranno essere mitigati, se non scongiurati, grazie ai benefici grandissimi connessi alla replica virtuale della Terra.

Sempre in una prospettiva economica dello spazio, è stato osservato (Di Pippo, 2021) come le barriere all’entrata nell’ambiente spaziale si stiano abbassando, superando di conseguenza il pericolo di concentrazioni monopoliste/oligopoliste nello sviluppo commerciale dello spazio. Ciò è avvenuto grazie all’accesso di nuove e maggiori fonti di finanziamento di cui hanno potuto usufruire anche i soggetti privati. Ancora sotto il profilo equitativo, l’incremento delle opportunità di accesso sta provocando ricadute redistributive, in quanto l’ambiente e le infrastrutture spaziali (tra cui i lake data, cioè spazi di archiviazione di dati) non saranno prerogativa esclusiva delle economie più ricche ma anche dei paesi emergenti e in via di sviluppo.

Si tratta pertanto di un sistema economico in rapida evoluzione, non solo sotto il profilo delle risorse disponibili, delle opportunità commerciali, del tasso elevato di innovazione delle tecnologie, dell’ingresso di nuovi attori. L’economia spaziale sarà in grado di creare nuovi mercati –determinando di conseguenza un miglioramento paretiano, poiché a una domanda crescente di tecnologie avanzate, di risorse, di infrastrutturazione, di dati corrisponderà una nuova offerta di mercato. E ciò con ricadute positive anche sul mercato del lavoro, che richiederà un’altrettanto rapida evoluzione sul lato dell’offerta di lavoro. Certo, dovranno evitarsi colli di bottiglia che rallentino o interrompano tale escalation virtuosa: per evitare tale impasse, le università dovranno adeguarsi in fretta dotandosi di strumenti necessari per formare un capitale umano nuovo, innovativo e con competenze trasversali.

Un ulteriore pericolo è quello noto come Tragedy of Commons. Esso fa riferimento alla teoria economica che descrive un sistema di risorse limitate e condivise (i beni comuni, appunto) fra più agenti economici. Spinti esclusivamente dal proprio interesse personale, anziché dal vantaggio reciproco, essi finiscono per sfruttare eccessivamente tali risorse, pregiudicandole e determinandone il conseguente degrado. In tal modo viene a determinarsi una esternalità negativa (diseconomia) di lungo periodo. Anche lo spazio costituisce un bene condiviso da un numero crescente di attori, che rilasciano detriti. Mutuando la definizione dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa, 2022): “Space debris is defined as all artificial objects including fragments and elements thereof, in Earth orbit or re-entering the atmosphere, that are non-functional”.

Oltre a costituire un pericolo aggiuntivo per i velivoli spaziali, il rapido incremento che stanno registrando i detriti orbitali causa il degrado dell’ambiente spaziale, pregiudicandone la sostenibilità di lungo periodo.

E andiamo ora a esaminare il secondo lato della triangolazione space economy – green economy – digital twins.

Per comprendere la diade economia spaziale ed economia verde, c’è da ricordare in premessa la forte connessione fra quest’ultima e l’economia circolare, definita dalla Ellen MacArthur Foundation (2016) come “un’economia pensata per potersi rigenerare da sola”. Ovvero, “come la strategia di sviluppo rigenerativo che si concentra sull’uso di rinnovabili e sull’eliminazione di sostanze tossiche nei rifiuti, conciliando obiettivi ambientali, economici e sociali” (Di Pippo, 2021). Una strategia economica pensata in questo modo è coerente con l’idea di sostenibilità ambientale su cui si fonda l’economia verde.

Qual è il collegamento fra quest’ultima e l’economia spaziale? Esso si riconduce allo stretto legame tra le tecnologie spaziali e quelle per le applicazioni circolari (un’analisi dettagliata è in Di Pippo, 2021). In premessa, c’è da dire che nelle stazioni spaziali, il riciclaggio è d’obbligo. Un caso di studio fondamentale è quello offerto dalla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) –che assolve la  funzione di laboratorio di ricerca scientifica in cui gli astronauti vivono e lavorano in un ambiente estremo– dove nessuna risorsa può essere sprecata. Infatti, così distanti dal pianeta Terra, a bordo nessuna risorsa può andare persa. Di conseguenza, gli scarti devono essere trasformati e oggetto di riuso. Dunque, l’ISS rappresenta il caso più avanzato di sistema circolare ed ecosostenibile oggi esistente.

Sul binomio economia circolare-economia spaziale, un recente studio, “Sustainable space for a sustainable Earth? Circular economy insights from the space sector” (2021), osserva che il settore spaziale è interpretabile come l’“ambiente nativo” per l’economia circolare e mostra come le lezioni apprese dall’ambiente spaziale possano essere estese e applicate alla Terra. Decisamente visionario e affascinante!

Destination Earth (DestinE)

Nella parte introduttiva, si è già richiamata la stretta connessione tra le tecnologie dello spazio e quelle più avanzate dell’intelligenza artificiale, segnatamente riguardo ai gemelli digitali.

In tema di gemellaggi digitali, di più ambizioso della replica virtuale dell’uomo c’è quella del pianeta Terra.

Tale obiettivo è fattibile grazie al programma lanciato nel 2021 dalla Commissione Ue insieme a dei partner: l’Agenzia spaziale europea (Esa), il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio (Ecmwf) e l’Organizzazione europea per lo sfruttamento dei satelliti meteorologici (EumetSat). Il nome del programma è “Destination Earth” (o “DestinationE”), che si innesta nell’alveo delle politiche europee riguardanti la transizione digitale (una ottima rassegna è in De Cosmo, 2021). “[…] obiettivo finale è di creare una gigantesca simulazione digitale del pianeta usando dati relativi a clima, meteo, attività umane e qualsiasi altro parametro misurabile utile allo scopo.” (De Cosmo, 2021, p.1). Potranno così essere monitorati e anticipati trend su scala globale, regionale e locale. Ad esempio, in caso di inondazione, il gemello digitale potrà supportare le autorità locali e regionali nelle iniziative volte a salvare vite e a ridurre i costi economici legati alla calamità naturale (Licata, 2022).

Già nel 2024 dovrebbero essere disponibili alcuni spaccati tematici della Terra per il monitoraggio e le previsioni in settori specifici collegati al cambiamento climatico. La realizzazione del gemello virtuale della Terra nella sua interezza è prevista entro il 2030.

In particolare, i primi due gemelli digitali dovrebbero essere realizzati entro il 2024, il primo con l’obiettivo di effettuare il monitoraggio e le anticipazioni di eruzioni, terremoti e altre emergenze naturali estreme; il secondo con lo scopo di effettuare sperimentazioni finalizzate a definire azioni volte all’adeguamento del cambiamento climatico (Guerrini, 2022).

Più in là nel futuro, segnatamente nel 2027, potrebbero essere simulati spaccati tematici e settori specifici, quali rispettivamente il tema della desertificazione e l’immensa regione artica.

Per poi arrivare, entro la fine del decennio, alla replica virtuale sistemica.

Next? Il gemello digitale dell’Universo. È il progetto, ancora in forma di bozza, dell’ESA: Digital Twin & Universe (De Cosmo, 2021).

Conclusioni

Chiudiamo con un esempio: il prossimo cambiamento radicale avverrà probabilmente nel 2100, con la trasformazione in savana della Foresta amazzonica. Se non abbiamo preoccupazione alcuna dell’equità intergenerazionale, si tratta di un futuro che non ci riguarda. In un’ottica di benaltrismo, servono interventi ritenuti prioritari –ora e qui– da parte delle autorità pubbliche, rispetto ai dispendiosi programmi relativi al cambiamento climatico e a quelli riguardanti la trasformazione digitale, ancillari ai primi.

Come è stato osservato (Desiderio, 2022), subentra quindi una questione psicologica: il cambiamento climatico –insieme alle relative tecnologie di avanguardia con finalità predittive e di monitoraggio– potrà essere sottovalutato (se non addirittura marginalizzato) fino a quando certi punti critici e di non ritorno non si materializzeranno. Tale atteggiamento psicologico contribuisce a rimandare e a rallentare le decisioni in questo ambito a favore di altre iniziative presenti nell’agenda dei policy-maker, considerate più urgenti e incombenti (anche in termini opportunistici, qualora abbiano maggiore appeal presso l’elettorato).

Eppure, dati i processi secolari dei cambiamenti climatici e gli avanzamenti tecnologici, che si acquisiscono tipicamente nel lungo periodo, il domani è già ieri.

Altra questione aperta: la necessità di esperti che siano in grado di utilizzare i sofisticati strumenti virtuali sottostanti ai gemelli digitali e capaci di usare, riusare, interpretare i dati e i metadati sia di input che di output: bisognerà creare una comunità scientifica nuova, con una profilazione diversa rispetto a quella più tradizionale (ad esempio, in campo ingegneristico).

In parte collegata a tale questione vi è la considerazione che sia l’economia spaziale sia i gemelli digitali per la Terra sottendono una forte interdisciplinarietà e nuove professionalità, con importanti investimenti in capitale umano: dovranno essere coinvolti data scientist, scienziati dell’ambiente, dello spazio, dell’intelligenza artificiale, ecc. La cooperazione multidisciplinare e trasversale sarà dunque dirimente per il successo.

 

Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare: le ragioni della loro compresenza

Bambini e adolescenti con Sindrome di Tourette sembrerebbero avere un rischio di sviluppare un disturbo bipolare pari al 20-30% (Kavoor et al., 2015).

 

La Sindrome di Tourette e le sue comorbilità

La Sindrome di Tourette (Tourette Sindrom [TS]) è un disturbo neuropsichiatrico cronico dell’età evolutiva, con una prevalenza mondiale dello 0,77% (Knight et al., 2012), che viene definito dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders [DSM-5]) come un disturbo da Tic caratterizzato da una combinazione di tic multipli di tipo motorio e di uno o più tic vocali (American Psychiatric Association [APA], 2014).

Si stima che i pazienti con Sindrome di Tourette mostrino comorbilità –ovvero si manifestano insieme– fino al 90% dei casi (Kavoor et al., 2015; Shim & Kwon, 2014) con il disturbo bipolare (Kavoor et al., 2015; Shim & Kwon, 2014). Bambini e adolescenti con Sindrome di Tourette sembrerebbero avere un rischio di sviluppare un disturbo bipolare pari al 20-30% (Kavoor et al., 2015). In particolare, il disturbo bipolare sembrerebbe essere più comune in soggetti di sesso maschile affetti da Sindrome di Tourette con tic lievi (Kerbeshian et al., 1995; Shim & Kwon, 2014).

Il Disturbo Bipolare nella Sindrome di Tourette

Ad oggi, il disturbo bipolare (Bipolar Disorder [BD]) in età evolutiva ha una prevalenza di circa l’1% (Kerbeshian et al., 1995). Tuttavia, questo è difficile da diagnosticare in bambini e adolescenti a causa di sbalzi d’umore incompatibili con i criteri diagnostici del DSM-5 per il Disturbo Bipolare, della difficoltà di differenziare i sintomi bipolari dai normali cambiamenti dello sviluppo e dell’incapacità dei bambini e degli adolescenti di descrivere adeguatamente i loro sintomi, non avendo ancora le competenze necessarie per farlo, dato il loro livello di sviluppo (Shim & Kwon, 2014).

Un’ulteriore sfida diagnostica di questo disturbo si presenta quando questo deve essere diagnosticato in soggetti con Sindrome di Tourette: generalmente essi presentano un andamento altalenante dei sintomi, che ricorda la ciclicità del disturbo bipolare, la cui caratteristica principale è l’alternarsi di episodi depressivi con episodi maniacali (Kerbeshian et al., 1995). Gli episodi bipolari in soggetti con Sindrome di Tourette possono assumere caratteristiche distintive: l’episodio depressivo è caratterizzato primariamente da tristezza nei bambini e da rabbia negli adolescenti; mentre l’episodio maniacale, seppur difficilmente valutabile a causa di una sovrapposizione dei suoi sintomi con quelli della Sindrome di Tourette, è caratterizzato da una maggiore irritabilità e aggressività rispetto all’euforia o alla grandiosità (Gaze et al., 2006).

Ragioni della sovra-rappresentazione del Disturbo Bipolare nella Sindrome di Tourette

Sebbene vengano riportate prove sufficienti della comorbilità tra la Sindrome di Tourette e il Disturbo Bipolare, l’eziologia della stessa rimane inspiegabile (Kavoor et al., 2015): ad oggi, infatti, risulta poco chiaro perché il Disturbo Bipolare sia sovra-rappresentato nei soggetti con Sindrome di Tourette (Shim & Kwon, 2014). In letteratura sono state diverse le aree indagate per cercare di dare una possibile spiegazione circa l’elevata comorbilità tra Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare.

Una prima area indagata è quella genetica: la Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare sembrerebbero condividere basi genetiche comuni (Comings & Comings, 1987). In particolare, i fattori che causano la Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare sembrerebbero condividere percorsi neurali influenzati da un gran numero di geni, portando di conseguenza a una maggiore probabilità di comorbilità (Kerbeshian et al., 1995).

Una seconda area indagata risulta essere quella neurofisiologica, cioè quella branca della fisiologia umana che studia il funzionamento dei neuroni e delle reti neurali: i due disturbi sembrerebbero condividere anomalie della neurotrasmissione che coinvolgono i neurotrasmettitori della noradrenalina (ormone dello stress), dopamina (ormone del piacere e della ricompensa) e serotonina (ormone del buonumore; Kavoor et al., 2015; Kerbeshian et al., 1995; Shim & Kwon, 2014).

Un’ultima area indagata è quella farmacologica: i farmaci generalmente utilizzati per il trattamento della Sindrome di Tourette, come gli stimolanti (sostanze eccitanti che stimolano le funzioni cognitive, psicologiche e comportamentali), possono porsi come fattori precipitanti, cioè come fattori che, facilitando il manifestarsi del disturbo, inducono il Disturbo Bipolare in soggetti predisposti e contribuiscono, di conseguenza, all’associazione tra Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare (Shim & Kwon, 2014). Inoltre, sembrerebbe che il litio, farmaco utilizzato nel trattamento del Disturbo Bipolare, abbia come effetto secondario la riduzione dei tic in soggetti con Sindrome di Tourette (Kerbeshian & Burd, 1989). Questo sembra supportare, come riportato sopra, la presenza di basi comuni nei due disturbi.

Conclusione

Il Disturbo Bipolare è un disturbo che si può presentare in comorbilità con la Sindrome di Tourette in età evolutiva e interagisce con quest’ultimo (Gaze et al., 2006): mentre la fase maniacale porta ad aumentare i tic, la fase depressiva porta ad una loro remissione (Kerbeshian & Burd, 1989; Shim & Kwon, 2014).

 

Love, sex, web (2022) di Dolce, Santamaria e Pilla – Recensione libro – Psicologia Digitale

Nel saggio “Love, sex, web” gli autori analizzano i cambiamenti del nostro modo di relazionarci online offrendoci una panoramica su sesso e amore nell’universo digitale.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 34) Love, sex, web – Recensione

 

 Siamo sicuri che uno smartphone sia solo uno smartphone? Solo un oggetto come un altro, come potrebbe esserlo un tavolo o un armadio? Forse, anzi, sicuramente no.

Quando quello di cui parliamo riguarda ciò che facciamo con, attraverso, grazie a tecnologie digitali non parliamo solo di oggetti e tecnologie ma di noi stessi, dei nostri comportamenti, emozioni, desideri.

Lo spazio virtuale ed il costante flusso di informazioni cui siamo sottoposti ci richiede la comprensione delle norme sociali che lo regolano, del suo funzionamento, delle sue applicazioni.

Essere connessi vuol dire essere in un rapporto reciproco tra noi, gli altri connessi, gli strumenti che intermediano la comunicazione tra le parti.

Per questo è utile un approccio interdisciplinare: grazie ai background degli autori Dolce, psicologa psicoterapeuta, Santamaria, esperta di digital, e Pilla, analysis manager, in questo saggio esploriamo il nostro stare online sotto diverse lenti. A partire dalle tipologie e varianti del sesso e delle relazioni online, viene tracciato un percorso sull’evoluzione digitale di molte abitudini e comportamenti.

Pur mantenendo uno stile leggero e divulgativo, non vengono tralasciati possibili rischi e problematiche facendoci fare però un passo più in là su cosa comporta essere – e chi siamo noi – online.

Relazioni digitali

I numeri parlano chiaro: secondo uno studio dello scorso anno dell’app di dating Inner Circle più del 90% degli italiani trascorre circa un’ora al giorno in una dating app.

Eppure è ancora radicata l’idea che siano “l’ultima spiaggia”, che le utilizzi solo chi non sa relazionarsi dal vivo o che portino solo a relazioni superficiali e poco stabili.

I pregiudizi sono duri a morire, soprattutto in Italia: sempre secondo questo studio, gli italiani dichiarano che le app di incontri sono inutili e poco romantiche.

E allora come mai sono così utilizzate?

Sempre rimanendo in tema di pregiudizi, persiste lo stigma sociale riguardo l’essere single, soprattutto sopra la trentina, quindi sicuramente una componente di questa ambivalenza risiede nella pressione sociale che porta molti a sentirsi a disagio se non si è in coppia.

Questi strumenti invece favoriscono apertura e sperimentazione, sono una sorta di “palestra di sentimenti ed esplorazione sessuale” e agevolano l’approccio: la geolocalizzazione consente di trovare qualcuno vicino a noi, le foto di farci una idea dell’altro prima dell’incontro, la connessione veloce di comunicare in tempo reale, insomma tutti aspetti che riducono il rischio di rifiuto.

Ed ecco che torniamo ai nostri device, al nostro smartphone: non oggetto, ma confidente e depositario della nostra intimità. Infatti, tramite i device possiamo approcciare online nuove persone, ma anche nuovi modi e nuove pratiche di sessualità: camming, cybersex, sexting, virtual porn, eccetera.

Cosa c’è di nuovo? Nulla che non conosciamo già: aspiriamo all’espressione di ciò che siamo, offline come online; aspiriamo alla connessione con l’altro, alla vicinanza, all’intimità, al sentirci in sintonia con l’altro.

Utilizzo consapevole ed informato

Se questi nuovi modi e pratiche di stare in relazione siano un bene o un male non dipende dai mezzi digitali in sé ma dall’utilizzo che se ne fa: essi non sono in grado di produrre ed indurre, di per sé, a comportamenti molesti, negativi, di dipendenza.

Per questo è fondamentale prevedere percorsi di formazione ed educazione digitale, sessuale e affettiva su questi temi in modo da superare i pregiudizi presistenti. L’utilizzo consapevole, informato e partecipe, contribuisce a mantenere delle sane abitudini digitali.

Le interazioni virtuali fanno parte della quotidianità, è un dato di fatto ora più che mai consolidato, ed il nostro modo di essere nelle relazioni è cambiato, cambia e cambierà; e allora cominciamo a cambiare anche prospettiva perché, sia che conosciamo il nostro partner al bar o tramite una app, dobbiamo ricordarci che siamo sempre noi in una relazione con l’altro.

 

Come definire l’aggressività nell’essere umano e nelle specie animali

Secondo la teoria sociale-comportamentale dell’aggressività, essa viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.

 

Nella vita quotidiana assistiamo a frequenti atti di aggressività come vandalismo, guerre, violenza domestica.

Come definiamo l’aggressività? In generale potremmo sostenere che si tratta di un’azione che mira ad infliggere in modo intenzionale un danno agli altri.

Tuttavia, non è possibile spiegare il significato di aggressività secondo un solo punto di vista. Pertanto, gli studi in ambito della psicologia hanno messo in evidenza due specifiche teorie: una è quella biologica e l’altra è quella sociale.

La teoria biologica dell’aggressività

La prima afferma che il comportamento aggressivo è innato, fa parte della natura umana e, con l’approccio etologico, la base istintiva dell’aggressività umana viene studiata e paragonata a quella degli animali, Bisogna sottolineare, però, che il comportamento reale aggressivo è suscitato da stimoli specifici dell’ambiente, cosiddetti “catalizzatori”.

Infatti, secondo lo studioso Konrad Lorenz, gli animali hanno un’aggressività innata che si manifesta in base al tipo di stimolo ambientale, stimolo dettato dalla necessità di sopravvivenza di un animale. Lorenz ha così osservato che, a differenza degli animali, l’essere umano è sì dotato istintivamente di aggressività, ma non ha sviluppato quei gesti di pacificazione ben riconoscibili nelle specie animali come, ad esempio, l’evitamento di un combattimento che potrebbe essere mortale, o l’atto di subordinazione, ossia quando l’animale si stende sul terreno supino come segno di pacificazione.

La teoria sociale-comportamentale dell’aggressività

L’altra teoria sull’aggressività è quella sociale-comportamentale, ossia l’aggressività viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.

Lo studioso Zimbardo verificò quanto il potere fosse la causa della deresponsabilizzazione, della disinibizione, della crudeltà e della disumanizzazione. La dimostrazione di ciò fu l’esperimento detto “Effetto Lucifero”, che consisteva nel reclutamento di ventiquattro studenti divisi in due gruppi e messi in una situazione che simulava il carcere. Alcuni di loro avrebbero ricoperto il ruolo di guardie, altri di prigionieri. L’esperimento mostrò quanto il potere nelle mani delle guardie avesse rivelato una escalation di comportamenti crudeli sui prigionieri. Uno di questi abbandonò l’esperimento per crollo psicologico, mentre la situazione degenerava così tanto che al sesto giorno l’esperimento fu sospeso.

Aggressività e mancanza di empatia

Gli studiosi Baron e Cohen nel 2011 hanno studiato il male nell’uomo, notando quanto il malfunzionamento dell’empatia (che è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni altrui), sia la causa dell’azione del male. Questo decadimento di empatia, secondo Cohen, sembra essere dovuto a predisposizione genetica, a esperienze infantili avverse, all’obbedienza all’autorità, all’ideologia e ai conflitti tra gruppi.

Tuttavia, alcuni studiosi si sono posti il problema che, se dipendesse dal grado di empatia di ciascuno di noi, l’aggressività sarebbe più controllata. Pertanto, come mai anche di fronte a segni di sofferenza, di paura della vittima, le aggressioni non si fermano?

Aggressività e neuroni specchio

Grazie alle neuroscienze e alla scoperta dei neuroni specchio negli anni Novanta, è stato confermato che gli esseri umani sono dotati di una struttura biologica capace di comprendere le intenzioni e le emozioni dell’altro mediante “il modello di rispecchiamento” imitativo. Ciò significa che l’uomo può provare empatia cognitiva ed emotiva per l’altro, ma anche può realizzare stermini di massa, scatenare guerre, non facendo alcuna distinzione tra uomini, donne, bambini, poiché in alcuni individui il sistema di rispecchiamento si attiva in modo meno spontaneo e automatico.

Come sosteneva anche Keysers, le persone malvagie hanno minori reazioni di rispecchiamento cerebrale, tuttavia anche gli individui aggressivi possono essere empatici, ma con una fondamentale differenza: la loro empatia non scatta in automatico, ma solo volontariamente.

L’apprendimento dell’aggressività

Se si guarda all’interno di alcune famiglie, il bambino apprende in un lungo processo la capacità di controllare gli impulsi aggressivi. Infatti, Albert Bandura, psicologo comportamentale, considerava fondamentale l’apprendimento dell’uomo nel contesto socio-ambientale a cui si appartiene. L’esperienza di vita è per lo studioso il fattore che fa comprendere il modo in cui si manifesta l’aggressività.

In sostanza, il bambino impara ad essere aggressivo, poiché apprende da una esperienza sociale diretta. Ad esempio, nella relazione di cura, il bambino dovrebbe trovare un ambiente di protezione, di calore e di attaccamento affettivo verso il genitore o il caregiver. Tuttavia, se il genitore/caregiver è a sua volta in condizioni di disagio o bisognoso di cure, diventa chiaro che le proteste del bambino vengono intese dall’adulto come segnali aggressivi di opposizione o di minaccia. Pertanto, l’attaccamento e l’accudimento diventano manifestazioni di tipo predatorio.

Bandura sosteneva anche che l’esposizione alla violenza e all’aggressività si manifestano maggiormente sia nei bambini che negli adulti come il risultato di un apprendimento di un modello comportamentale che diventa uno stile di vita.

 

Che relazioni ci sono tra criminalità, uso di sostanze e depressione?

Gli studi hanno dimostrato che la delinquenza e i crimini spesso si accompagnano a problemi di salute mentale e all’uso di sostanze sia nell’adolescenza che in età adulta (Abram et al., 2003; Huizinga et al., 2000; Snowden, 2001). 

 

Criminalità e disturbi psichiatrici

I tassi di dipendenza da uso di sostanze e di disturbi riguardanti la salute mentale nelle popolazioni carcerarie, sono molto più elevati rispetto a quelli della popolazione generale (The Council of State Governments, 2002; Zweig et al., 2004), andando dal 56% al 64% di detenuti nelle carceri statali e locali che soffrono di un problema di salute mentale e con un tasso del 49% di detenuti che soffrono sia di problemi mentali che di problemi di abuso di sostanze (James & Glaze, 2006); le donne detenute riportano tassi ancora più elevati (73-75%) rispetto ai maschi (55-63%). Inoltre, nel sistema di giustizia minorile, circa due terzi dei giovani presentano un disturbo mentale, con il 61% dei giovani che presentano sia disturbi mentali che disturbi da abuso di sostanze (Shufelt et al., 2007).

Relazione tra criminalità, abuso di sostanze e depressione: tre ipotesi

Lo studio condotto nel 2019 (Kim et al., 2019) ha indagato lo sviluppo delle relazioni che intercorrono tra criminalità, abuso di sostanze e comportamento internalizzante/depressione nell’adolescenza e nell’età adulta; altri studi recenti (D’Amico et al., 2008; Mason & Windle, 2002; Merrin et al., 2016) ne hanno indagato la reciproca relazione, ma i risultati si sono dimostrati essere contrastanti. Per questo motivo, lo studio condotto nel 2019 ha indagato tre ipotesi elencate di seguito.

1. Comportamenti criminali e problemi in altri ambiti di vita

La prima ipotesi sostiene la relazione tra i comportamenti criminali e una serie di problemi in altri ambiti della vita, quali l’insorgenza di sintomi depressivi, l’insuccesso scolastico, il coinvolgimento con coetanei antisociali e l’abuso di sostanze (Capaldi & Stoolmiller, 1999; Patterson & Stoolmiller, 1991). Ne sono un esempio i giovani che presentano comportamenti antisociali, per via dei quali, spesso subiscono un allontanamento dai coetanei; questo determina la ricerca di coinvolgimento da parte di gruppi di coetanei che condividono la stessa mentalità e che intraprendono comportamenti offensivi. Man mano che i giovani vengono coinvolti in comportamenti criminali non riescono a raggiungere le tappe fondamentali dello sviluppo (come il diploma) e continuano a intraprendere la strada della criminalità (Moffitt et al., 1996). I fallimenti accumulati aumentano la probabilità di commettere reati, di abusare di sostanze e aumentano il rischio di insorgenza di problemi di salute mentale. Questo studio verifica in che modo l’impegno alla delinquenza determina l’uso di sostanze e l’insorgenza di una diagnosi depressiva.

2. Sostanze e criminalità come meccanismo di automedicazione

La seconda ipotesi sostiene l’esistenza di un meccanismo di automedicazione per il quale l’uso di sostanze e i comportamenti delinquenti sono dei meccanismi per fronteggiare i problemi di salute mentale come l’ansia e la depressione (Wieder & Kaplan, 1969). Tuttavia, il supporto empirico a questa ipotesi è misto e per questo lo studio ne ha esaminato le caratteristiche.

3. Uso di sostanze e ridotto impegno in attività lavorative e sociali

La terza ipotesi indaga la relazione tra abuso di sostanze e ridotta capacità di impegnarsi in attività normative, che si esprimono come perdite a livello sociale e personale e come problemi di salute mentale (Johnson & Kaplan, 1990); ne sono un esempio la disoccupazione lavorativa, il disimpegno sociale e l’abbandono scolastico. Inoltre, conseguenze come l’isolamento sociale risultano incrementare i sintomi depressivi e i comportamenti delinquenti. Alcuni studi (Pihl & Lemarquand, 1998; Snowden, 2001) hanno infatti dimostrato una correlazione tra abuso di sostanze e aggressività, suggerendo l’ipotesi per cui chi ha un disturbo da abuso di sostanze ha maggiori probabilità di mostrare comportamenti aggressivi. Un’ulteriore ipotesi potrebbe essere rappresentata dalla necessità di delinquere per sostenere l’utilizzo di sostanze (Anglin & Perrochet, 1998). Secondo uno studio condotto nel 2006 (Dorsey et al., 2006) circa il 17/18% di detenuti riferisce di aver commesso dei reati per procurarsi denaro per la droga. In questo caso, lo studio ha esaminato se l’uso di sostanze determini un aumento di comportamenti devianti e l’insorgenza di sintomi depressivi (Johnson & Kaplan, 1990).

I primi risultati, in accordo con le ricerche precedenti (Coie et al., 1993; Institute of Medicine (U.S.) et al., 2009), confermano una forte continuità nel tempo dei problemi mentali, emozionali e comportamentali dall’adolescenza all’età adulta, sia nei maschi che nelle femmine. Inoltre, è stata riscontrata una forte correlazione tra l’uso/la dipendenza da sostanze e la criminalità, che conferma l’alta comorbidità tra questi problemi (Loeber et al., 2000).

Criminalità, uso di sostanze e depressione: differenze di genere

Sono state individuate differenze tra maschi e femmine (Kim et al., 2019). Per le donne i risultati suggeriscono che sia l’uso di sostanze, che i comportamenti delinquenti, portano a un incremento di sintomi depressivi. Di fatto, contrariamente all’ipotesi popolare per cui i problemi internalizzanti (sintomi depressivi) portano a comportamenti esternalizzanti (crimini/abuso di sostanze), sono stati riscontrati essere i comportamenti esternalizzanti la causa dell’aumento di sintomi internalizzanti. Per gli uomini, invece, l’intraprendere comportamenti criminali può predire depressione e uso di sostanze. Ancora una volta l’ipotesi dell’automedicazione non è risultata dai dati, ma piuttosto, si è rilevato che i comportamenti esternalizzanti, in particolare quelli offensivi, predicono un aumento di uso di sostanze e di sintomi depressivi.

Date le conseguenze a lungo termine dettate dal coinvolgimento in questi comportamenti problematici, la prevenzione e gli interventi psicoeducativi dovrebbero essere ottimizzati per raggiungere tutti i giovani, ancora prima che essi mostrino comportamenti problematici (Kim et al., 2019).

 

Strenghtening families program: empowerment familiare e comunicazione

Il metodo Strengthening Families Program si concentra su quei fattori che possono rafforzare i legami (in questo caso quelli familiari), che sono decisivi per la crescita e la maturazione di scelte consapevoli dell’individuo e di proporre tecniche utili per il loro mantenimento.

 

L’erronea modalità di comunicazione (o la mancanza della stessa) all’interno del nucleo familiare può comportare una serie di conseguenze negative: isolamento sociale, uso di alcol e sostanze stupefacenti già in età adolescenziale e ricerca di relazioni affettive nocive.

È per tale motivo che negli ultimi decenni sono stati sviluppati diversi modelli focalizzati sul favorire tecniche che aiutino genitori e figli a esprimere pensieri, sentimenti e bisogni senza un atteggiamento giudicante. Lo Strengthening Families Program è uno di questi.

Il metodo Kumpfer e la prevenzione per l’utilizzo di sostanze stupefacenti negli adolescenti

Il termine prevenzione fa riferimento a qualcosa che avviene prima. Pre-venire prima che si debba risolvere un qualcosa di cui non disponiamo il rimedio. Caplan (1964) suddivise la branca della prevenzione in: primaria (tesa a limitare le cause del disagio su un’intera popolazione), secondaria (individua precocemente i sintomi di un disagio) e terziaria (limita la cronicizzazione del danno) (Loss et al., 2009). Questa suddivisione ha indirizzato, così, i vari ambiti di ricerca a focalizzarsi proprio su quella primaria, in modo tale da evitare più danni possibili, in termini di salute fisica, ma anche di benessere più generico. È il caso della psicologia della prevenzione che, in particolare col metodo Strengthening Families Program, decide di concentrarsi su quei fattori che possono rafforzare i legami (in questo caso quelli familiari), che sono decisivi per la crescita e la maturazione di scelte consapevoli dell’individuo e di proporre tecniche utili per il loro mantenimento.

Strengthening Families Program: descrizione del programma e riscontri empirici

Il metodo Strengthening Families Program è stato ideato dalla ricercatrice Karol Kumpfer nel 1982 e può essere adattato a varie fasce d’età (3-5; 6-11; 10-14; 12-16). Gli obiettivi includono:

  • Stimolare negli adolescenti competenze sociali come la cooperazione e l’altruismo, per ridurre i rischi di isolamento e sviluppare fattori protettivi all’interno del contesto familiare, come un attaccamento sicuro, il senso di appartenenza, la fiducia nel genitore;
  • Potenziare le conoscenze dei genitori riguardo ai rischi dell’età adolescenziale (le prime relazioni affettive, i primi contatti con le sostanze, il bullismo) e, in ottica preventiva, attuare strategie per contrastarli;
  • Costruire famiglie unite che sappiano guidare e sostenere i giovani nella fase adolescenziale (Molgaard & Spoth, 2008). Quando si parla di “famiglia unita” si fa riferimento a una sorta di sistema che opera in modo tale che ciascuna parte che lo compone lavora in funzione dell’altro. Se si comunica, ci si ascolta e ci si mette a disposizione delle esigenze gli uni degli altri, si condividono i sentimenti che si provano e si coopera per un obiettivo comune, il sistema sarà ben oliato e, appunto, unito, in funzione del bene che li lega.

Il programma è evidence-based, ovvero fondato su prove scientifiche, e ha lo scopo di aiutare genitori e figli a costruire un ambiente familiare sereno dove la comunicazione efficace, l’empatia, la predisposizione all’ascolto la fanno da padroni e, allo stesso tempo, aiutare a prevenire quelli che sono i rischi di un’età fortemente vulnerabile quale è quella dell’adolescenza (come uso di alcool, droghe, uso spropositato di internet).

Esso consta di 14 sessioni di training familiare atte a prevenire, in questo caso specifico, l’uso di sostanze (Kumpfer et al, 2008). La durata è variabile in relazione ai fattori di rischio delle famiglie che vi partecipano e alle difficoltà che riscontrano nell’apprendimento e nella praticità degli obiettivi da portare a termine.

Applicazioni dello Strengthening Families Program

Il training è stato sperimentato in vari Stati per verificarne l’efficacia e i riscontri sono stati positivi. In una ricerca quasi-sperimentale (Kumpfer et al, 2010) è stato osservato che, dopo aver svolto le 14 sessioni di training, variabili come il comportamento criminale, la voglia di utilizzare sostanze e l’iperattività – intesa come mancanza di interesse in un’attività specifica o poca concentrazione – venivano ridotte nella fascia d’età compresa tra i 10 e i 16 anni e aumentavano invece comunicazione familiare, capacità assertive (esprimere la propria opinione senza temere il giudizio dell’altro, saper dire “no”, esprimere in maniera adeguata i propri bisogni), resilienza, riconoscimento della famiglia come sistema valoriale. Andando ancora più nello specifico, sono state considerate famiglie di etnie diverse residenti negli Stati Uniti (in particolare Ispanici, Africani, Asiatici, Nativi americani e cittadini provenienti dalle Isole del Pacifico) e i risultati hanno dimostrato l’efficacia del programma soprattutto nella fascia 10-16 (Kumpfer et al, 2008). In particolare, per quanto riguarda i genitori sono stati riscontrati un incremento della comunicazione positiva e unità familiare; aumento di abilità genitoriali positive, gestione e organizzazione familiare; miglioramento del rapporto genitore-figli e riduzione dei conflitti familiari. Nei ragazzi, invece, sono risultati: aumento delle abilità sociali grazie alla comunicazione efficace e, quindi, miglioramento della cooperazione e relazioni sociali; miglioramento delle prestazioni scolastiche; riduzione dell’aggressività e dell’ansia; riduzione drastica della volontà di utilizzo di tabacco, alcool e droghe.

Questi studi mostrano, quindi, che c’è la necessità di fermarsi e ritagliare uno spazio che genitori e figli devono dedicarsi a vicenda per ascoltarsi e capire le esigenze gli uni degli altri. E, magari, diffondere lo Streghtening Families Program, proponendolo anche come strumento domiciliare, aiuterebbe tutte quelle famiglie carenti sotto questo punto di vista, e impossibilitate a raggiungere i luoghi di svolgimento del programma, a migliorare le relazioni familiari e sociali.

 

Sull’amicizia (2022) di Eugenio Borgna – Recensione

Edito per Raffaello Cortina, Sull’amicizia è l’ultimo saggio del noto psichiatra Eugenio Borgna, che nel corso delle pagine riflette sul grande mistero dell’amicizia, una parola antica ma poco utilizzata, che rimanda all’esistenza di un legame vitale e profondo con il prossimo, un’esperienza di vita fra le più belle, nonché fondamento della cura nel rapporto tra chi soffre e chi presta aiuto.

 

Il libro è una riflessione a tutto campo sul sentimento d’amicizia, costellata da preziosi rimandi letterari a grandi filosofi (per esempio, Friedrich Nietzsche e Simone Weil), pensatori (Thomas Mann), poeti e scrittori italiani (Antonia Pozzi) e stranieri (Emily Dickinson e Rainer Maria Rilke, per citarne alcuni).

Radici etimologiche del termine amicizia

Il termine “amico” è da ricondurre direttamente al latino amicus, che ha la stessa radice di amare, per cui potrebbe essere parafrasato come “colui che si ama”.

Aristotele parla esplicitamente dell’amicizia come qualcosa di necessario, essenziale per la vita dell’uomo, filosofo o meno; secondo il suo parere, il legame d’amicizia si basa su un’affinità (tó oikeion, stessa radice della parola casa) e concordia (homónoia) che cresce con la frequentazione e si sviluppa in una particolare forma di benevolenza, che è assieme affetto e dimostrazione di fiducia reciproca (D’Avenia e Vigna, 2009).

Nel suo dialogo dedicato all’amicizia, il Liside, Platone conclude ammettendo di non essere stato capace di trovare quale sia la definizione esatta di amico (D’Avenia e Vigna, 2009).

Gettando uno sguardo sulla poesia omerica, ritroviamo l’idea dell’uomo come viaggiatore, curioso conoscitore del mondo, chiamato a “patire” per tornare a casa. In un articolo dell’Avvenire del 2/4/2015, lo scrittore Alessandro D’Avenia evidenzia come “casa” per Ulisse rimandi alla possibilità di avere salva la propria vita e al ritorno dei propri compagni (etàiroi).

Etàiros in greco indica qualcuno con cui si condivide un ideale, un fine, un obiettivo. In italiano, può essere tradotto come compagno, in spagnolo con compañero, in inglese con companion. Nelle varie lingue la radice di questa parola è composta da cum unito a panis e indica “qualcuno con cui si condivide il pane”, da cui compagno.

Trasversalmente ai pensatori, è quindi possibile ritrovare l’importanza della figura dell’amico, quale compagno di viaggio con il quale remare insieme, progettare insieme, disperarsi insieme e, infine, salvarsi insieme, nell’imprevedibile avventura chiamata vita.

L’amicizia secondo Eugenio Borgna

Nella prima parte del saggio, Borgna esplora il mistero dell’amicizia ponendosi una serie di interrogativi, volti a comprendere la natura dell’amicizia e i suoi fondamenti essenziali:

Cosa sia l’amicizia, quali ne siano le radici più profonde, quali infinite sensazioni, quali luci e quali ombre si accompagnino alla nostra vita, quali speranze siano in lei, quale aiuto ci possa dare nelle notti oscure dell’anima, quali vertiginose emozioni rinascano dalla sua presenza, quali ne siano le fragili risonanze nel nostro cuore, quali arcobaleni generi in noi, quante nostalgie inondino la nostra memoria (Borgna, 2022, p. 26).

Nella seconda parte, Borgna esamina gli aspetti tematici dell’amicizia, in particolare i modi di vivere l’amicizia nel vertiginoso scorrere del tempo (dai legami ardenti e brucianti dell’adolescenza, alle generose e sincere amicizie adulte, sino alle relazioni di sostegno e speranza che uniscono le persone anziane), le caratteristiche delle amicizie femminili e maschili, i possibili sconfinamenti dall’amicizia all’amore, che ne trasforma interamente il climax emozionale.

Nella quarta parte, Borgna si sofferma sulle amicizie che vivono in noi come correnti carsiche, anche nel silenzio e nella lontananza, sulle amicizie naufragate per sempre e su quelle finite che, tuttavia, serbano in sé le braci di un affetto passato, pronto a riaccendersi da un momento all’altro.

A tal proposito, in una delle sue opere più inebrianti e stregate, La gaia scienza (1881), il filosofo Nietzsche propone un’immagine evocativa della fine di un rapporto d’amicizia, che vale la pena rileggere:

Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era la stessa per tutti e due.

Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai – forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli ci hanno mutati! (Borgna, 2022, p. 25).

La natura contemporanea del saggio consente di volgere uno sguardo alle sfaccettature che l’amicizia ha assunto nei difficili tempi della pandemia da covid. Infatti, il tempo della pandemia, contraddistinto da un ritiro nelle proprie case, lontani dai propri affetti, è stato in parte vissuto con angoscia, soprattutto quando la solitudine forzata non si è tradotta in un silenzio interiore fonte di riflessione personale ma in un isolamento, in una stanchezza di vivere, che ha contribuito –in alcuni casi– allo sviluppo di forme di dipendenza dai social network e all’insorgere di importanti sintomi depressivi; questo rischio è stato evitato da chi ha avuto la possibilità di accompagnare ed essere accompagnato da amicizie sincere, che hanno alleviato l’angoscia e la solitudine di quei giorni difficili.

A tal proposito, Borgna (2022) scrive:

L’amicizia è memoria e speranza, e disponibilità ad accogliere subito una richiesta di aiuto; e questa (forse) è la qualità essenziale dell’amicizia: sapere di non essere soli, e di potere contare su di una vicinanza interiore, nemmeno scalfita dalla assenza e dalla lontananza (Borgna, 2022, p. 51-52).

L’amicizia come base della cura

Eugenio Borgna dedica la quinta parte del suo saggio ad esplorare il rapporto che lega i pazienti in condizioni di profonda sofferenza ai loro curanti, medici psichiatri, in contesti di cura spesso deumanizzati e indifferenti alla dimensione umana del malessere psichico.

Volgendo lo sguardo alla filosofia antica, nel De Beneficiis Seneca tratteggia l’ideale di quella che in passato veniva denominata philia iatriké: l’amicizia medica, fondata sulla benevolenza disinteressata del medico e sulla gratitudine e fiducia del paziente (D’Avenia e Acerbi, 2007).

Perché al medico e al precettore sono debitore di qualcosa in più e non estinguo il mio debito pagandoli? Perché da medico e da precettore si trasformano in amici, e noi siamo in debito verso di loro non per le loro prestazioni, che paghiamo, ma per la loro disposizione d’animo benevola e affettuosa (Seneca, 1994, p. 604).

Borgna (2022) evidenzia che Ludwig Binswanger –uno dei grandi psichiatri del secolo scorso– in uno dei suoi libri più famosi, affermava che l’amicizia è la premessa alla cura dell’angoscia e della depressione, dei deliri e delle allucinazioni, del desiderio della morte volontaria.

Sulla stessa linea, il noto psichiatra svizzero, direttore a suo tempo della clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, Manfred Bleuler, invitava i suoi colleghi a leggere in ogni forma di vita psicotica una disperata richiesta di aiuto: “Accettami, ti prego, per l’amore di Dio, così come sono” (Borgna, 2022, p. 86).

Tali parole e immagini rispecchiano le esperienze di cura di Eugenio Borgna negli anni di vita in psichiatria, come primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara.

Le parole, le domande, le più semplici e le meno invadenti, gli sguardi di attesa e di ascolto, gli orologi spenti, il mio silenzio e quello della paziente, giovane o anziana, timida o sicura di sé, la conclusione del colloquio mai programmabile: sono state le premesse alla cura alle quali ho cercato di avvicinarmi, nella coscienza dei miei limiti, ascoltando le parole del dolore. (Borgna, 2022, p. 91).

È essenziale, per il paziente, riconoscere nel curante vicinanza e partecipazione emotiva, amicizia e speranza, soprattutto quando si trova al confine estremo della vita: “una paziente, o un paziente, riesce a resistere al fascino stregato della morte, se intuisce in chi la cura una persona amica, vicina al suo dolore.” (Borgna, 2022, p. 95).

Come strutturare quella che Borgna (2022) definisce una psichiatria umana e gentile? Cercando di rivivere le esperienze vissute dagli altri, le loro ferite e la loro disperazione, le loro attese e le loro speranze, le loro disillusioni e le loro nostalgie; provando a immergerci nella nostra vita interiore, ascoltando nel silenzio del cuore la voce della solidarietà e della generosità, della tenerezza e della delicatezza; scegliendo con cura le parole da dire e con ancora più cura quelle da non dire, prestando attenzione alla voce, alla sua tonalità e ai gesti che l’accompagnano, scartando parole oscure o banali, lingue aride e opache, preferendo il linguaggio delle metafore e del silenzio, del dicibile e dell’indicibile, proponendo un lessico familiare e gentile.

L’importanza delle parole

Nel saggio, Borgna dedica ampio spazio ad esplorare la valenza simbolica ed evocativa delle parole, essenziali nella nascita e nel mantenimento di qualsiasi relazione, tra cui l’amicizia.

Difficile non citare il pensiero di Freud in merito che, ne L’Interpretazione dei sogni (1917), scriverà delle origini magiche delle parole che, ancora oggi, conservano molto del loro antico potere.

In tal senso, le parole accuratamente scelte e pronunciate, in un dialogo sincero e onesto con chi sta soffrendo e chiede il nostro aiuto, acquisiscono una grande importanza nello svolgere una funzione terapeutica; a volte ne basta soltanto una, perché il cammino della nostra vita, dissestato da buche profonde e segnato da frequenti intemperie, si illumini di una speranza che sembrava perduta e che improvvisamente rinasce.

Pertanto, Borgna evidenzia con forza l’importanza di nutrire una forte sensibilità verso la terminologia adottata, in quanto l’inclinazione a cogliere gli innumerevoli orizzonti di senso delle parole costituisce la premessa essenziale per l’instaurarsi di un buon legame con l’altro.

Non c’è cura in psichiatria, ma anche nella vita di ogni giorno, se non riflettendo continuamente sui significati, liquidi e mobilissimi, che le parole hanno (Borgna, 2022, p. 59).

Conclusioni

In conclusione, per Borgna (2022) l’amicizia rappresenta una torcia sempre accesa, della quale ogni vita, in particolare quella solcata dal dolore e dalle speranze ferite, non può fare a meno, una luce in grado di rischiarare tutte quelle esistenze indebolite dalla stanchezza e dalla disattenzione, dalla inquietudine dell’anima e dalla incostanza, dalla precarietà e dalla leggerezza, dalla ansietà e dalla angoscia.

L’amicizia costituisce il collante essenziale delle fragili comunità di cura e destino, nelle quali Borgna ha prestato servizio per una vita intera, dove il legame amicale come fondamento della cura può rappresentare davvero “una fragile zattera salvatrice” (Borgna, 2022, p.86) per chiunque sia perduto negli abissi più neri e profondi della sofferenza mentale.

 

Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e disturbi psicopatologici associati

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è definita come una alterazione endocrina del sistema riproduttivo femminile ed è uno dei disordini endocrini più diffuso nelle donne in età riproduttiva; si stima infatti che ne siano affette approssimativamente il 5-8% delle donne appartenenti a questa categoria (Rodriguez-Paris et al., 2019).

 

Questa sindrome è caratterizzata da sintomi quali flusso mestruale irregolare, amenorrea, infertilità, iperandrogenismo, il quale a sua volta comporta aumento di peso, peluria eccessiva, perdita di capelli e acne (Hasan et al., 2022; Legro et al., 2013).

L’eziopatogenesi della sindrome dell’ovaio policistico

Ad oggi l’eziopatogenesi della PCOS non è ancora chiara, infatti le cure somministrate alle pazienti aventi questa condizione sono generalmente la pillola anticoncezionale e l’invito a condurre uno stile di vita sano che comprenda una dieta equilibrata priva di alcool e ore di sonno adeguate. È evidente che la letteratura al riguardo non sia adeguatamente approfondita rispetto alla diffusione di questa sindrome, infatti le soluzioni fornite dai professionisti per migliorare questa condizione non risultano garantire, nella maggior parte dei casi, una completa guarigione.

In ogni caso, l’ipotesi più largamente diffusa è che lo sviluppo dell’ovaio policistico sia dovuto all’insulino resistenza e all’iperinsulinemia, le quali porterebbero conseguentemente all’iperandrogenismo (Farrell & Antoni, 2010). In linea generale si pensa che sia causato dalla genetica, da uno stile di vita poco sano o dalla combinazione delle due (Hasan et al, 2022).

Sindrome dell’ovaio policistico e disturbi psichiatrici

Sebbene esistano pochi studi al riguardo, è stato evidenziato come esista un’elevata prevalenza di disturbi psichiatrici tra le pazienti affette dalla sindrome dell’ovaio policistico (Jeden et al., 2010). Infatti, le donne affette dall’ovaio policistico spesso affrontano sia a livello fisico che a livello sociale esperienze spiacevoli, che vanno a ripercuotersi a livello psicologico ed emotivo sulla qualità della vita (Borghi et al., 2018).

In primo luogo, i sintomi fisici visibili, ad esempio aumento di peso, peluria eccessiva e acne, possono provocare un senso di umiliazione, inoltre la probabilità di non poter concepire figli per molte donne risulta una privazione della propria femminilità e autostima. In secondo luogo, la letteratura mostra come le donne affetta da PCOS provino meno desiderio sessuale e riescano a raggiungere l’orgasmo con maggior difficoltà, se paragonate a donne non aventi questa sindrome (Stovall et al., 2012; Mantzou et al., 2021). In ultimo, le pazienti, nel loro percorso di cura, vengono spesso ostacolate sia dalla scarsa conoscenza generale riguardo al disturbo in sé e alla sua cura, sia da atteggiamenti sminuenti degli operatori sanitari, dato che si tratta di una condizione medica ad oggi poco chiara.

Proprio a causa di tutti i fattori appena elencati, che riguardano l’ambito fisico, psicologico e sociale, è probabile che la popolazione femminile affetta da PCOS sia maggiormente predisposta a sviluppare disturbi psicopatologici come ansia, depressione, OCD, ADHD e disturbi alimentari; viceversa, è anche possibile che sia la PCOS ad aggravarne le condizioni psicologiche e la qualità della vita (Rodriguez-Paris et al., 2019).

Uno studio del 2018 di Berni e colleghi ha esaminato un campione composto da donne aventi PCOS, confrontando i risultati con donne senza questa sindrome; gli autori hanno indagato la prevalenza di ansia, depressione, disturbi alimentari e disturbo bipolare nei due gruppi sopracitati, per rilevare una eventuale presenza maggiormente significativa di questi disturbi psicologici nelle pazienti PCOS. Proprio come gli autori di questo studio avevano supposto, i risultati hanno confermato la loro ipotesi, supportando il legame tra PCOS e una forte presenza di depressione e ansia, seguiti da disturbo bipolare e disturbi alimentari. Inoltre, l’obesità è risultata frequentemente in comorbilità con ansia e depressione nelle donne affette da PCOS considerate in questo studio. A questo proposito, tuttavia, è importante sottolineare che l’obesità è di per sé correlata ad ansia e depressione, come riportato da studi precedenti (Dawes et al., 2016).

In conclusione, il rapporto tra PCOS e psicopatologie necessita di ulteriore ricerca, proprio perché così poco studiato, seppure la sindrome dell’ovaio policistico sia largamente diffusa tra le donne in età fertile. È inoltre auspicabile che la sindrome dell’ovaio policistico venga studiata più approfonditamente poiché, malgrado la sua diffusione e le nuove strumentazioni scientifiche di ultima generazione, non sono ancora noti cause e trattamenti di comprovata efficacia.

Nascondere le emozioni

Quando proviamo un’emozione può succedere che non vorremmo farla trasparire, non vorremmo che chi ci sta davanti capisse quale effetto ha su di noi una determinata situazione, per diversi motivi che possono andare dal pudore alla vergogna, all’imbarazzo, al senso di colpa, in generale a un tentativo di difendere la nostra parte più intima.

 

Paul Ekman e le micro espressioni

Paul Ekman parla di micro espressioni come di quelle espressioni emozionali del volto che hanno una brevissima durata, ovvero un quarto di secondo. Superata questa durata, sono considerate semplici espressioni di mimica facciale. Queste compaiono sul nostro volto a nostra insaputa per poi sparire rapidamente quando decidiamo di voler nascondere le nostre reali emozioni, dando spazio alla mimica di quell’emozione che invece abbiamo deciso di mostrare volontariamente.

Oltre alla mimica facciale, che caratterizza in un modo che possiamo definire inequivocabile le emozioni che fanno capolino in noi, le risposte corporee sono lo strumento per attivare un sistema di comunicazione non verbale che riguarda elementi quali per esempio voce, postura, respirazione e ritmo cardiaco.

I gesti indicatori

Francesco Albanese, psicologo clinico e psicoterapeuta, ha pubblicato un interessante libro su questo argomento che ci spiega che cosa succede quando cerchiamo di intervenire sui quei gesti ed espressioni facciali che sono indicatori dello stato affettivo che stiamo provando, ossia quei movimenti del corpo e del viso che sono associati alle emozioni primarie.

Come sappiamo, il linguaggio non verbale si basa su un insieme di segnali quali movimenti e gesti che sono involontari, quindi non mediati dalla coscienza e per questo motivo meno sottoposti a una censura e maggiormente rivelatori di quello che stiamo realmente provando.

Quando diciamo la verità, il nostro corpo in sostanza dice le stesse cose che dice la nostra bocca. Nel mentire, invece, le nostre parole affermano qualcosa e il nostro corpo dice qualcos’altro. Mettiamo quindi in atto un tentativo di dissimulazione.

Il nostro cervello gestisce i movimenti volontari del corpo e quelli involontari (incluse le espressioni) attraverso circuiti diversi: spesso i circuiti che gestiscono i movimenti volontari si attivano successivamente a quelli che gestiscono i movimenti involontari, con il risultato che le contrazioni dei muscoli facciali tipiche di un’emozione si mostrano istantaneamente e involontariamente sul volto. Se quella stampata sulla faccia di una persona che ci sta parlando è un’emozione che non ci vuole mostrare, i circuiti volontari intervengono per rimettere al loro posto tutti quei muscoli che si sono mossi “senza permesso”. Quella che abbiamo appena visto sparire dal volto di chi ci sta davanti viene chiamata “emozione soffocata”.

Nel momento in cui si prova un’emozione, l’organismo si attiva mettendo in atto una serie di reazioni fisiologiche.

L’uso della voce

La comunicazione verbale si basa naturalmente sull’utilizzo della voce, ma quando parliamo utilizziamo anche un sistema di comunicazione non verbale che consiste nel modificare alcune caratteristiche della voce quali tono, volume, ritmo, velocità e intensità. Le emozioni che proviamo sono in grado di determinare delle variazioni sull’uso della nostra voce e queste determinano cambiamenti nella comunicazione.

Il modo in cui ci esprimiamo, infatti, trasmette agli altri molto di più di quello che possiamo comunicare unicamente con l’uso della parola ed è in grado di influenzare le reazioni di chi ci ascolta attraverso l’empatia.

Per esempio, ascoltare una voce calma comunica un senso di sicurezza e aiuta a rilassarsi, viceversa l’ascolto di una voce concitata che utilizza un tono più acuto otterrà l’effetto contrario.

La postura

La postura è una forma di espressione sia somatica che comportamentale, in altre parole è il modo in cui il corpo si pone in relazione con l’ambiente ed è anch’essa il frutto delle informazioni che ci arrivano dai nostri sensi.

Anche attraverso la postura mettiamo in atto una comunicazione non verbale.

Immaginiamo una persona che cammina con le spalle curve, facilmente ci trasmetterà l’idea di essere impaurita o insicura, mentre chi si mostrerà con la schiena e le spalle diritte trasmetterà sicurezza. E così via.

Respirazione e ritmo cardiaco

Le emozioni negative possono essere caratterizzate da indici fisiologici quali, ad esempio, un ritmo cardiaco irregolare con l’effetto di rallentare o addirittura bloccare le funzioni cognitive superiori e quindi la capacità di elaborare le informazioni che ci arrivano dall’esterno.

Sappiamo bene che quando proviamo emozioni quali rabbia o paura possiamo avere grosse difficoltà nel pensare lucidamente e nel prendere decisioni adeguate. Al contrario, emozioni positive possono facilitare le capacità delle nostre funzioni cognitive.

Un ruolo importante spetta anche alla respirazione, pensiamo per esempio a quando sperimentiamo un senso di paura: la nostra respirazione sarà disregolata e questo tenderà a influenzare il metabolismo. Stati emotivi negativi hanno quindi ripercussioni anche sulla salute, arrivando a influenzare la salute fisica.

È possibile ingannare noi stessi?

A volte quando cerchiamo di nascondere un’emozione non c’è solo la volontà di “ingannare” qualcun altro su quello che stiamo realmente provando, ma è con noi stessi che non vogliamo ammettere le nostre emozioni reali e cerchiamo di giustificare la nostra condotta motivandola con una reazione inconsapevole. Ma ne siamo consapevoli o è possibile che il nostro cervello metta in atto delle strategie, a nostra insaputa, per cercare di ingannare anche noi stessi?

Io credo”, ci dice Albanese, “che per quanto spesso nelle conversazioni e negli scritti si sia portati (io per primo) a fare affermazioni del tipo ‘il cervello fa questo… il cervello fa quest’altro…’, quasi attribuendogli un’autonomia decisionale, mi verrebbe da dire ‘di livello superiore’, dicevo, credo che in realtà il cervello sia un esecutore, un meraviglioso e complesso strumento. Il cervello è perfettamente in grado di gestire alla perfezione l’intero corpo umano e le relazioni di questo col mondo, ma per tutto l’aspetto cui si fa cenno, quindi di vissuto emotivo, il cervello non è altro che il substrato fisiologico sul quale poggiano istanze (mi ripeto) ‘di livello superiore’ come la psiche e, di ancor più superiore, la coscienza. Quindi, io credo che il cervello non adotti (e che non sia interessato ad adottare) strategie di alcun tipo. Le strategie sono già un qualcosa che sta più in su. Le strategie sono ciò che mette in atto il guidatore, alla guida dell’auto. Sono ciò che mette in atto la psiche, alla guida del cervello. Poi, che la psiche sia in grado di modificare i pattern neuronali, questo è ovvio. Niente è disgiunto da tutto il resto, quindi è naturale che sia così. Per tutto questo, c’è la psicoterapia, la meditazione, l’onestà intellettuale con se stessi accompagnata dalla voglia di cambiare”.

 

Report del workshop “ACT per il trattamento della vergogna”

Report del workshop “ACT per il trattamento della vergogna” tenuto da J. B. Luoma al convegno ACT Italia 2022. 

 

Nel pomeriggio del 25 novembre 2022 ha avuto inizio il Convegno di ACT Italia dal titolo “Sviluppare contesti nutrienti, pacifici e flessibili”. Il convegno si è aperto con un lungo workshop  chiamato “ACT per il trattamento della vergogna, l’autocritica e lo sviluppo della compassione verso se stessi”, condotto dal dott. Jason B. Luoma, psicologo, psicoterapeuta e peer-reviewed ACT trainer presso il Portland Psychotherapy Clinic, Research and Training Center a Portland (OR).

I quattro sistemi emozionali

Il dott. Luoma ha subito presentato i quattro sistemi emotivi (vedi Figura 1) attivati dal sistema nervoso. Nello specifico:

  • I sistemi attivati dal sistema nervoso simpatico sono il sistema della minaccia e il sistema della ricompensa, entrambi caratterizzati da correlati fisiologici caratteristici di un corpo attivato e in allerta;
  • I sistemi attivati dal sistema nervoso parasimpatico sono il sistema di shutdown e il sistema di sicurezza a livello sociale, correlati a un corpo calmo e lento.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 1

Figura 1. Sistemi emotivi 

Dopo essere entrato nel dettaglio di ciascun sistema, il dott. Luoma ha approfondito l’emozione della vergogna, dividendola in due tipologie: la vergogna leggera e quella più intensa. La prima viene attivata dal sistema nervoso simpatico (in particolare, dal sistema della minaccia) ed è, quindi, correlata a sintomi di arousal e attivazione fisiologica. La vergogna più intensa è, invece, attivata dal sistema nervoso parasimpatico (sistema shutdown) e porta a risposte di “spegnimento”, come la paralisi.

Il ruolo adattivo delle emozioni

Le emozioni si sono evolute perché adattive, quindi non ci sono emozioni intrinsecamente buone o cattive. Dal punto di vista della Contextual Behavioral Science, le emozioni sono modi in cui gli organismi sono organizzati in un determinato momento.

Pertanto, anche la vergogna non è un’emozione negativa di per sé, ma ha un valore adattivo, in quanto si è evoluta a partire da repertori comportamentali che hanno a che fare con la negoziazione della posizione all’interno del branco.

Differenza tra vergogna e colpa

Come ha illustrato il dott. Luoma, la vergogna e la colpa si differenziano per due aspetti: le cognizioni associate e il focus dell’attenzione.

Le cognizioni che sono associate alla colpa sono valutazioni negative del comportamento o delle azioni di una persona; quelle associate alla vergogna sono, invece, valutazioni negative di se stessi. A questo punto il dott. Luoma ha citato l’attrice Brené Brown, la quale in un pezzo per teatro sulla vergogna ha recitato “In guilt I made a mistake. In shame I am a mistake” [nella colpa ho fatto un errore, nella vergogna io sono un errore].

Nella colpa l’attenzione si focalizza su un cattivo comportamento o un danno per una relazione, quindi qualcosa che si può cambiare. Mentre nella vergogna l’attenzione è orientata a un sé che è cattivo o a rischio di ostracismo, ma il sé non si può cambiare.

Gli aspetti motivazionali della vergogna

Nella vergogna ci sono due possibili aspetti motivazionali: la vergogna può spingere a proteggersi, quindi a fuggire e ritirarsi, oppure a un tentativo di riparazione, quindi a cercare un modo per essere una persona buona, rispettata e di valore. L’aspetto riparativo emerge quando la persona riesce a trovare il modo di mettere a riparo la propria immagine di sé e quando l’azione non viene percepita come estremamente difficile. Le persone che cronicamente hanno avuto esperienze in cui questo tentativo di riparazione è stato frustrato, tenderanno a spostarsi sull’altro aspetto motivazionale, quindi quello della protezione.

Il ruolo della cultura nella vergogna

La cultura ha un ruolo importante nella reazione alla vergogna: le culture più focalizzate sull’individuo trovano riparo alla vergogna attraverso la riappropriazione del proprio status sociale, mentre nelle culture più collettivistiche si pone riparo alla vergogna attraverso la rappacificazione e il tentativo di connessione.

Dal momento che è più facile rappacificarsi piuttosto che riguadagnarsi il proprio status sociale, questo fa sì che, nelle culture più focalizzate sull’indipendenza, la vergogna è vissuta con più difficoltà.

La funzione comunicativa della vergogna

Tutte le emozioni hanno una funzione comunicativa, anche la vergogna, che si caratterizza per un modo di manifestarsi abbastanza visibile. Gli indicatori non-verbali della vergogna esposti dal dott. Luoma sono: spalle e petto chiusi, toccarsi il viso, sguardo e viso rivolti verso il basso, inibizione sociale ed evitamento del contatto con gli altri (vedi Fig. 2).

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 2

Fig. 2. Manifestazione non-verbale della vergogna

Quello che viene naturale fare di fronte ai suddetti indicatori non-verbali è avvicinarsi e dare sostegno. Se la vergogna viene mostrata nei contesti giusti, può quindi ricevere come risposta il sostegno e la cooperazione. Se si manifesta, invece, in contesti non adatti, può creare problemi.

Il segnale comunicativo della vergogna è quindi quello di mostrare consapevolezza di aver danneggiato il proprio status sociale o di aver violato alcune norme importanti, con la funzione di riparare le tensioni tra ruoli sociali.

A questo punto, il dott. Luoma ha proposto un’esercitazione che consisteva nel contattare un’esperienza personale in cui si è provata vergogna, compilando un foglio di lavoro e poi discutendo in piccoli gruppi su quali sono stati, in quell’occasione, i cue che hanno attivato la vergogna, su quali impulsi, pensieri e comportamenti sono emersi, su quale sistema emotivo si è attivato (vedi Fig. 1) e sull’utilità di compilare questionari simili con pazienti bloccati nella vergogna.

Intervenire sulla vergogna in terapia

La seconda parte del workshop si è focalizzata sull’intervento diretto sulla vergogna in psicoterapia. Il dott. Luoma ha delineato le fasi dell’intervento:

  • Concettualizzazione del caso;
  • Costruzione della sicurezza a livello sociale;
  • Lavorare sull’autocritica;
  • Lavorare sulla vergogna.

Concettualizzazione del caso

Il primo passo consiste nel depotenziare la vergogna (deblaming) attraverso la psicoeducazione e la costruzione della consapevolezza della vergogna e dell’autocritica. Questo passaggio consente poi di co-costruire una concettualizzazione del caso condivisa. I quattro domini della concettualizzazione del caso sono:

  • comprendere il pattern funzionale;
  • costruire una narrativa validante;
  • identificare le risorse di sicurezza a livello sociale;
  • valutare e monitorare il cambiamento.

Costruzione della sicurezza a livello sociale

Entrando nel vivo dell’intervento, il primo aspetto da trattare è proprio l’attivazione del sistema di sicurezza a livello sociale. Per farlo, ci sono due possibili vie, descritte dal dott. Luoma:

  • attraverso gli altri: appartenenza (belongingness);
  • attraverso sé stessi: auto-compassione (self-compassion) e gentilezza orientata verso di sé.

Questi aspetti non hanno solo a che fare con delle emozioni, ma costituiscono dei veri e propri comportamenti. Dal punto di vista ACT, infatti, le emozioni sono comportamenti.

A questo proposito, la differenza tra gentilezza e compassione è che la prima è definita dal fare del bene a qualcuno, senza aspettarsi niente in cambio; la seconda costituisce la risposta alla sofferenza dell’altro e, insieme, il desiderio di aiutarlo. In un certo senso, afferma il dott. Luoma, la compassione è ciò che nasce dall’incontro della gentilezza con la sofferenza.

Lavorare sull’autocritica

Per quanto riguarda la seconda fase dell’intervento, il lavoro sull’autocritica viene svolto attraverso un dialogo, all’interno della persona, tra due interlocutori (self-to-self relating): uno che critica e l’altro che ascolta queste critiche.

In questa fase, si sviluppa la consapevolezza relativamente all’autocritica e alla vergogna nella vita quotidiana e una sensibilità ai loro effetti, utilizzando un linguaggio che facilita la perspective taking (voci, parti, conversazione, etc.). Inoltre, si promuove la defusione dal pensiero o dalla prospettiva autocritica.

Lavorare sulla vergogna

Nell’illustrare l’ultima fase dell’intervento, ossia il lavoro diretto sulla vergogna, il dott. Luoma ha riportato due citazioni toccanti: una dello psicologo Les Greenberg, fondatore dell’Emotion-Focused Therapy: “You can’t leave some place until you arrive.” [non si può lasciare un posto finché non si è arrivati]; l’altra della scrittrice A. M. Lindbergh (vedi Fig. 3) “Non credo che la pura sofferenza insegni. Se la sola sofferenza insegnasse, tutto il mondo sarebbe saggio, perché ogni persona soffre. Alla sofferenza bisogna aggiungere l’elaborazione, la comprensione, la pazienza, l’amore, l’apertura e la disponibilità a rimanere vulnerabili”.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 3

Fig. 3. Citazione sul dolore di A. M. Lindbergh

Queste riflessioni assumono significato nel contesto dell’intervento sulla vergogna dal momento che l’obiettivo è quello di aiutare i pazienti a mettersi in contatto con la vergogna, a stare con essa, allo stesso tempo portando altre prospettive per aiutarli ad apprendere nuovi modi di affrontarla. Nell’intervenire sulla vergogna, bisogna tenere in considerazione che esistono due tipi di vergogna:

  • una vergogna primaria, derivante da eventi che hanno causato vergogna;
  • una vergogna secondaria, derivante dall’autocritica e risultato del disprezzo o disgusto verso se stessi.

La tecnica del chairwork

Infine, dopo aver delineato le modalità di intervento specifiche per ciascun tipo di vergogna, il dott. Luoma ha approfondito il chairwork, quale tecnica per l’esposizione e l’assunzione di una prospettiva maggiormente flessibile (vedi Fig. 4). Tale tecnica consiste nel disporre fisicamente tre sedie nella stanza: una dedicata al sé autocritico, una al sé vulnerabile, e una a un sé osservatore e compassionevole. Il cambio “fisico” di posizione da una sedia all’altra facilita l’assunzione di una prospettiva differente da quella a cui il paziente è abituato, favorendo l’abilità di notare cosa cambia da una prospettiva all’altra.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 4

Fig. 4. La tecnica del chairwork

 

Mal di testa: qual è il ruolo della psiche?

La manifestazione del mal di testa segue un processo multifasico sequenziale in quanto già a partire dalle 24 ore antecedenti dal dolore possono manifestarsi sintomi vaghi come la stanchezza, l’irritabilità, la deflessione del tono umorale, lo sbadiglio e la perdita di appetito.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

Il mal di testa, definito in medicina con il termine cefalea, rappresenta un’esperienza genericamente condivisa da tutti. La manifestazione del dolore può interessare diverse zone della testa o la parte superiore del collo. Alle volte compare occasionalmente, ma spesso può risultare invalidante per le sue caratteristiche di persistenza, al punto da investire sfere significative della vita. La patologia è impattante sia per ciò che riguarda i costi diretti legati alle indagini e alle cure adoperate per farne fronte, sia per i costi indiretti ravvisabili nelle conseguenze della problematica stessa. A tal proposito molto spesso vengono messi in atto degli evitamenti nel contesto sociale e lavorativo che chiaramente rappresentano un aspetto piuttosto inficiante per la persona. Il mal di testa diventa invalidante quando le crisi si protraggono nel tempo trasformandolo in cronico (>15 giorni al mese da almeno 3 mesi). Infatti, ad essere coinvolti, sono anche gli aspetti legati alla sfera cognitiva, emotiva e comportamentale, che inevitabilmente impattano sulla qualità della vita. Basti pensare alla componente ansiosa legata alla possibilità che si verifichi un attacco di emicrania, che a sua volta concorre ad apportare delle modifiche psicosociali, innescando un circolo vizioso della sofferenza. In tal modo, anche le attività quotidiane routinarie vengono portate avanti con difficoltà, lasciando tracce di insoddisfazione e senso di inadeguatezza, vissuti che impoveriscono le connessioni sociali ed affettive. Dall’intrecciarsi di questi fattori scaturisce una potenziale insorgenza di disturbi ansiosi e depressivi, ulteriore aggravio nella sfera personale dell’individuo.

La WHO (World Health Organization) ha stabilito che l’emicrania, da sola, è al diciannovesimo posto tra le cause di disabilità mondiale.

Nel dettaglio, i dati dimostrano che:

  • il 90% delle persone riporta un attacco di dolore alla testa almeno una volta nella vita;
  • il 15% della popolazione presenta dolore almeno una volta al mese;
  • il 4% delle persone per circa 15 giorni al mese
  • mentre l’1-2% presenta dolore quotidianamente (Bussone, G., et al., 2017).

Vetvik e MacGregor dimostrano che nel genere femminile il dolore alla testa si presenta in forma più marcata, sia in termini di intensità sia in termini di durata.

Il dolore alla testa è un sintomo aspecifico del sistema nervoso, che può avere molte cause, al momento non del tutto note. Esso, che è definito dall’International Association for the Study of Pain come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale effettivo o potenziale; svolge una funzione importante nella protezione del nostro corpo, coinvolgendo aspetti sensoriali legati all’iperstimolazione nocicettiva.

È opportuno considerarlo come un fenomeno multidimensionale ed è senz’altro un’esperienza soggettiva per cui non tutte le persone reagiscono nello stesso modo allo stesso dolore. Alcuni rispondono intensamente anche ad una manifestazione leggera, mentre altri possono sopportare un dolore tremendo prima di dare il minimo segno di reazione. Ciò dipende non tanto da differenze nella sensibilità dei recettori dolorifici, quanto da differenze nella costituzione psichica della persona. La multidimensionalità del dolore è dettata dalla componente percettiva-quantitativa, che ne definisce la durata, l’intensità e la localizzazione; dalla componente emotiva che lo designa come un’esperienza spiacevole; dalla componente comportamentale che determina la reazione alla sofferenza; e da una componente cognitiva capace di modificare la percezione del dolore e i comportamenti conseguenti ad esso.

La manifestazione del mal di testa segue un processo multifasico sequenziale in quanto già a partire dalle 24 ore antecedenti dal dolore possono manifestarsi sintomi vaghi come la stanchezza, l’irritabilità, la deflessione del tono umorale, lo sbadiglio e la perdita di appetito. Successivamente, durante l’attacco vero e proprio, che può durare dalle 4 alle 72 ore, emerge la percezione del dolore, accompagnata da sintomi vegetativi come la nausea e il vomito. Tali manifestazioni costringono spesso il soggetto ad una ipersensibilizzazione ai rumori e alle luci, che lo costringono all’isolamento. Segue, in successione, una fase post dromica, della durata di 24-48 ore, caratterizzata da insofferenza, spossatezza e abbassamento dell’umore. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 30% dei soggetti, la fase dolorosa è preceduta dalla cosiddetta aura, cioè da un sintomo neurologico focale riconducibile a disturbi del campo visivo, alterazioni della sensibilità a un arto superiore e alla corrispondente metà del volto, difficoltà a convertire il pensiero in parole, che dura mediamente 20-30 minuti, dissolvendosi poi con la comparsa della fase dolorosa.

Nonostante rappresenti la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante del genere umano secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), appare persistere un gap culturale che tende a sottovalutare e sotto trattare tale problematica.

Con l’obiettivo di apportare maggiore chiarezza sulle tipologie, dal 1988 l’International Headache Society (IHS) ha redatto un sistema di classificazione internazionale delle cefalee (Olesen J, et al.,2013). La prima classificazione distingue due macrocategorie: le cefalee primarie e le cefalee secondarie. Le prime sono definite dalll’IHS, come una forma che si manifesta in assenza di qualsiasi altra patologia, non sono determinate da un’unica causa ma rappresentano la risultante dell’interazione tra predisposizione genetica, cause endogene, fattori scatenanti.

Cefalee primarie e secondarie

Le cefalee primarie sono molto frequenti e possono essere distinte in:

  • Emicrania (con aura o senza aura): caratterizzata da attacchi di dolore che colpiscono un emilato del capo, in particolare la regione fronto-temporo-oculare (Vgontzas A., Burch V., 2018). Tende ad esordire lentamente e ad essere di natura pulsante. Il mal di testa può anche manifestarsi ad entrambi i lati del capo e l’intensità della sua espressione può aumentare con il movimento. Alla radice di questa tipologia di mal di testa può essere presente una multifattorialità che può implicare la componente psicologica e neuropsicofisiologica. Altri fattori possono rappresentare la causa scatenante e possono riguardare l’aspetto ormonale (emicrania mestruale), le variazioni stagionali e climatiche, le improvvise esposizioni alla luce, l’assunzione di particolari sostanze alimentari o additivi. Inoltre, l’uso di contraccettivi orali, vasodilatatori e antiipertensivi può rappresentare una concausa di un attacco emicranico. Infine, la qualità dello stile di vita può essere determinante e contribuente in tal senso; ad esempio, l’insonnia, l’ipersonnia, il fumo, l’uso di sostanze, l’alimentazione inadeguata sono fattori che favoriscono lo sviluppo di un attacco emicranico.
  • Cefalea di tipo tensivo: è la forma relativamente meno dolorosa di cefalee ed è più comune in quanto la sua prevalenza è stimata al 30-70%. Il dolore, bilaterale, costrittivo e localizzato nella zona occipitale, viene descritto come “un cerchio alla testa”. Verosimilmente deriva dall’involontaria contrattura della testa in associazione ad una condizione di rigidità e tensione muscolare che ne acutizza sofferenza. Vi è una netta correlazione tra cefalea tensiva e stress, manifestazioni ansiose con umore deflesso ma rimane incerto il nesso causale. (Pérès R., Roos C.& Jouvent E., 2019). Diversamene dall’emicrania questa tipologia di sofferenza sembra inficiare meno la normale vita quotidiana del paziente. Il disturbo è solitamente più comune nel sesso femminile.
  • Cefalea a grappolo: il temine fa riferimento alle crisi che si verificano in determinati periodi dell’anno (in particolare nei cambiamenti climatici: autunno e primavera), separati da intervalli con assenza di crisi. Viene descritta dall’Istituto Superiore di Sanità come la forma meno comune, ma la più severa, in quanto è caratterizzata da un dolore lancinante di tipo trafittivo. Il mal di testa è quasi sempre unilaterale e rimane tale per tutta la durata dell’episodio, che dura dai 15 minuti alle 3 ore. I sintomi sono avvertiti perlopiù nel lato della testa colpito dal dolore e si esprimono sottoforma di arrossamento congiuntivale, lacrimazione dell’occhio, gonfiore o abbassamento della palpebra, restringimento della pupilla, rinorrea e congestione nasale. A differenza dell’emicrania, la cefalea a grappolo non si accompagna quasi mai a nausea o vomito ma ad agitazione psicomotoria a causa del dolore.

Le cefalee secondarie possono rappresentare un sintomo aspecifico in quanto derivano da altre condizioni patologiche. Risultano essere quindi una delle manifestazioni della patologia primaria di cui il paziente soffre riconducibile ad ischemia, aneurisma, meningite, emorragia cerebrale, tumori cerebrali, traumi cranici, assunzione di sostanze, infezioni virali o batteriche, etc.

Cefalea e disturbi psichiatrici

Gli aspetti psicopatologici dell’emicrania rappresentano da molto tempo un tema di grande interesse nell’ambito della ricerca scientifica. Negli anni ’50, Wolff è stato uno dei primi autori ad occuparsi della correlazione tra cefalea e personalità e ha riscontrato come rigidità, nevroticismo, perfezionismo ed ambizione fossero pattern caratteriali molto comuni nei pazienti emicranici, considerando la cefalea come una conseguenza dell’inibizione della propria aggressività.

È stata, quindi, dimostrata l’esistenza di un’associazione tra emicrania e disturbi psichiatrici, causata dall’interazione di differenti fattori genetici e ambientali.

Nella pratica clinica appare dunque rilevante definire la natura tra questo legame al fine di una più corretta identificazione diagnostica e di una maggiore comprensione relativa alla risposta al trattamento terapeutico.

La depressione e l’ansia sono fattori pisco-emotivi spesso associati alle cefalee e agiscono come fattori stressor, per cui necessitano di particolare attenzione.

A tal proposito, recenti studi epidemiologici mostrano che gli emicranici hanno un rischio da 2 a 4 volte maggiore di sviluppare depressione rispetto ai soggetti non emicranici. I sistemi serotoninergico e dopaminergico, l’asse ipotalamo ipofisi surrene, lo stress e alcuni tratti di personalità giocano un ruolo centrale nel legame esistente tra emicrania e depressione maggiore. Alcuni studi di neuroimaging hanno accertato la presenza di alterazioni strutturali e funzionali a carico di aree cerebrali deputate alla modulazione del dolore, nello specifico nell’amigdala e nella corteggia cingolata anteriore. La depressione sembrerebbe, tuttavia, essere legata alla forma di emicrania con aura rispetto a quella senza aura. Nei pazienti depressi, inoltre, i sintomi emicranici, inclusi osmofobia (maggiore sensibilità e intolleranza a certi odori durante gli attacchi di mal di testa) e allodinia (impulso doloroso sentito dalla persona in seguito a uno stimolo innocuo), sembrano essere positivamente correlati con una maggiore gravità dei sintomi depressivi. È stato inoltre dimostrato che i pazienti depressi rispondono in misura minore ai trattamenti antiemicranici.

Relativamente al disturbo bipolare, dai risultati della ricerca effettuata da Gordon-Smith K, Forty L, Chan C, et al si evince un rischio due volte più elevato di sviluppare tale disturbo per i pazienti emicranici rispetto ai pazienti non emicranici e che l’emicrania è correlata a fattori prognostici negativi quali episodi depressivi più gravi, cicli più rapidi e insorgenza precoce.

Anche per i disturbi d’ansia è stata verificata una correlazione, sembrerebbe infatti che la prevalenza del disturbo aumenti con la frequenza dell’emicrania. L’abuso di farmaci e la presenza di sintomi depressivi giocano un ruolo importante in quanto ne rafforzano la comorbilità. Infatti, di fronte alla compresenza di emicrania, depressione e ansia i pazienti presentano un’emicrania di grado più severo e rispondono in misura minore al trattamento. Ciò può scaturire un aumentato rischio di abuso di farmaci per il mal di testa.

Dal punto di vista neurobiologico, tra i disturbi d’ansia e l’emicrania, esistono meccanismi che reggono il loro rapporti e sono rintracciabili nell’alterazione dei sistemi dopaminergico e serotoninergico, nelle fluttuazioni ormonali ovariche e nei cambiamenti nel volume dell’ippocampo. Oltretutto, l’ansia potrebbe influenzare direttamente la sintomatologia emicranica attraverso l’azione sui nuclei del talamo che trasmettono il segnale di dolore.

In definitiva, il dolore coinvolge la componente affettiva attraverso i vissuti negativi di ansia e depressione, che possono rappresentare le cause psicologiche o psicosomatiche del mal di testa, ma anche elementi che contribuiscono al peggioramento dello stesso, attribuendogli un’interpretazione erronea con ulteriore preoccupazione. Anche dal punto di vista cognitivo, molti processi coinvolti nel vissuto del mal di testa, includono pensieri credenze, attribuzioni di significati che definiscono e influenzano l’atteggiamento adottato, a sua volta di fondamentale importanza perché determina il modo con cui si affronta il mal di testa  il grado di aderenza al trattamento farmacologico. Questo sistema di credenze è alla base dei comportamenti adottati che, se funzionali, sono in grado di ridurre la probabilità di ulteriore attacco emicranico.

Emicrania e stress

Una significativa percentuale di pazienti con emicrania riconosce lo stress come fattore precipitante il proprio mal di testa.

Ma cos’è lo stress?

Di fronte a compiti, difficoltà o eventi di vita considerati eccessivi o pericolosi è possibile avvertire una forte pressione mentale ed emotiva. Gli stressor possono essere rilevati negli eventi di vita sia di carattere positivo, come il matrimonio, la nascita di un figlio, un trasloco o un successo lavorativo sia di connotazione negativa, come la perdita di una persona cara, un divorzio o una malattia. Inoltre possono rappresentare potenziali fattori stressogeni i fattori ambientali come i cambiamenti climatici, le catastrofi naturali e la pandemia di Covid-19; eventi imprevisti; situazioni sociali e lavorative come un eccessivo carico di lavoro, scadenze urgenti, relazioni conflittuali; fattori biologici ravvisabili in malattie, traumi fisici o disabilità fisica. Esistono anche fattori interni, ravvisabili nelle paure (timori di fallire in un compito, di parlare in pubblico..); nelle situazioni che non possono essere sotto il nostro controllo, quindi per natura imprevedibili e, più in generale, nel personale sistema di costrutti.

Tale reazione, meglio conosciuta come “stress” è la risposta psicologica e fisiologica che il sistema nervoso autonomo mette in atto. Lo stress presuppone capacità di adattamento da parte del soggetto che lo sperimenta e può essere positivo, “eustress”, quando lo stimolo fa da sprone per affrontare le sfide favorendo l’espressione delle risorse personali, ma può essere anche negativo, “distress”, quando gli stressor  producono un deterioramento progressivo delle risorse psicofisiche.

La reazione di stress attivata è finalizzata ad avviare dei cambiamenti nell’organismo, vantaggiosi al fine di fronteggiare il pericolo in vista. Tuttavia, nonostante l’utilità nel breve periodo, la costante e ripetuta attivazione può risultare difficile per il corpo, producendo sintomi secondari indesiderati poiché favorisce un’alterazione funzionale e strutturale nelle reti cerebrali. Di conseguenza, di fronte al cosiddetto carico allostatico, il cervello è tenuto a rispondere in maniera anomala alle condizioni dettate dagli stressor interni o esterni, provocando il noto mal di testa.

Rimedi e trattamenti per il mal di testa

Essendo l’emicrania un disturbo multifattoriale, è opportuno valutare per la sua profilassi, strategie di trattamento appropriate per il singolo paziente, specie a fronte della componente psicologica soggettiva. A tal proposito, oltre ai trattamenti farmacologici, ha portato a risultati positivi l’adozione di uno stile di vita sano, che comprende l’esercizio quotidiano, l’alimentazione equilibrata e una migliore igiene del sonno. Di fronte allo stress, la risposta di rilassamento risulta essere un metodo efficace per calmare la reazione fisiologica del corpo e consiste nell’applicazione volontaria di azioni volte a regolare e gestire gli stati emotivi attivanti e alleviare la tensione, riequilibrando lo stato psicofisico. Le tecniche di rilassamento sono numerose, ma le principali e più utilizzate sono il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e il training autogeno di Schultz.

Nello specifico, per la cefalea tensiva cronica e l’emicrania, si è rivelato efficace il biofeedback, finalizzato alla riduzione dei sintomi dolorosi. Tale metodo rende possibile aumentare consapevolezza e gestire gli indici fisiologici che hanno uno stretto legame con il dolore (tensione muscolare, temperatura cutanea periferica, frequenza cardiaca..).

Dalla letteratura emerge che gli esiti ottenuti con il biofeedback rivaleggiano con gli esiti della terapia farmacologica e che combinazione del biofeedback con un’opportuna terapia farmacologica può migliorare i risultati. Nonostante l’efficacia in molti pazienti, il biofeedback non riesce a portare un sollievo significativo a un numero considerevole di pazienti con cefalea.

Questo approccio è risultato utile specificatamente per le persone che presentano intolleranze ai farmaci, per le donne in gravidanza o in allattamento o in tutte le situazioni dove si riscontra una scarsa efficacia del trattamento farmacologico.

In conclusione, al fine di gestire efficacemente lo stress correlato all’emicrania ed i fattori causali che la provocano, la terapia cognitivo comportamentale risulta efficace per identificare e modificare risposte comportamentali errate, che possono peggiorare l’attacco emicranico.

PTSD, Sonno e Performance nella realtà militare

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), il trauma da lesione cerebrale (TBI) e i disturbi del sonno sono molto diffusi nella realtà militare e nei veterani. 

 

In molti casi queste condizioni mediche sono correlate e si potrebbero sovrapporre contribuendo a una esponenziale diminuzione delle prestazioni.

In questo articolo il concetto di prestazione viene prevalentemente affrontato in un’ottica cognitiva, ma comprende anche il dominio sociale e fisico e viene messo in relazione con il Disturbo da Stress Post Traumatico.

Gli effetti della deprivazione di sonno

Numerose ricerche hanno evidenziato infatti che la capacità di discriminare un amico da un nemico, un bersaglio militare o un uomo armato è fortemente influenzata da quanto il soggetto è in uno stato di deprivazione del sonno (Shay J et al., 1998); è scientificamente provato che dopo 96 ore la lucidità dei soggetti perde attinenza con la realtà (Alhola P et al., 2007).

Un accumulo di poche ore di sonno contribuisce a un aumento immediato e duraturo dei livelli di cortisolo e porta alla cronicizzazione dello stress fisiologico e psicologico contribuendo a infiammare il tessuto cerebrale. Un alterato stato psico-fisiologico porta a una diminuzione della resilienza e della neuro-protezione, che fa crescere i livelli di insorgenza e comorbilità con PTSD e trauma da lesione cerebrale.

Le alterazioni del sonno tra i militari

Due studi svolti su larga scala hanno evidenziato che su una popolazione di soldati, il 72% e il 69% del personale dorme meno di 6 ore a notte (Mysliwiec et al., 2013); la durata del sonno risente altamente del numero di esposizioni al combattimento e delle lesioni correlate all’addestramento; infatti, i soldati riportano di dormire meno di 5 ore a notte (Luxton DD et al., 2011). In una indagine più recente, relativa alle misurazioni del sonno su una popolazione di 6118 militari, è emerso che il 57% di soldati riferisce di avere un sonno molto disturbato, che dipende anche dal tipo e dal numero di missioni in cui è coinvolto (Harrison et al., 2017). È comune dunque uno stato di privazione del sonno (TSD), una restrizione cronica del sonno (CSR), il disallineamento dei ritmi circadiani e la frammentazione del sonno (Capaldi et al., 2019).

Alcuni studi recenti riguardanti l’imaging cerebrale hanno dimostrato che la salute neuro-fisiologica si recupera in minima parte dopo la perdita di sonno, sia per quanto riguarda la privazione del sonno che per la restrizione cronica del sonno (Shokri-Kojori et al., 2018).

Conclusione

La comprensione di questo tipo di funzionamento nel settore militare può contribuire allo sviluppo di nuove strategie personalizzate ed efficaci per la gestione di questo tipo di problematiche. Sono ancora necessarie ulteriori ricerche di approfondimento che coinvolgano a pieno la performance militare.

 

Il vantaggio della curiosità (2021) di Francesca Luzzi – Recensione

Cos’è la curiosità e come funziona una mente curiosa? Ce lo spiega la Dott.ssa Francesca Luzzi, psicologa e psicoterapeuta, nel suo libro Il vantaggio della curiosità. Come funziona la mente curiosa e perché è necessario averne cura per vivere al meglio

 

L’aspetto più curioso e straordinario della parola “curiosità” è il fatto che, etimologicamente, derivi dal latino “cura”, intesa come premura, sollecitudine, riguardo. Trovo questo davvero meraviglioso: chi è curioso è quindi colui o colei che, principalmente, si prende cura di qualcosa, lo ha a cuore, custodendolo nella parte più intima di sè. La curiosità è quindi intesa come attitudine a realizzare che dietro l’esperienza e l’informazione sta il calore della conoscenza, così come dietro alla cura di ogni progetto sta l’amore (Luzzi, 2021, p. XI).

Questo è un pensiero contenuto all’interno dell’ultimo libro della collega Francesca Luzzi, psicologa e psicoterapeuta, dal titolo “l vantaggio della curiosità. Come funziona la mente curiosa e perché è così necessario averne cura per vivere al meglio che mette in risalto l’importanza di coltivare una mente curiosa nell’adulto, quanto nel bambino.

Il testo, scritto in modo chiaro e accurato, descrive e approfondisce il tema della curiosità ad ampio raggio, sia da un punto vista della funzione neurologica che psicologica per l’essere umano.

Oltre a ciò, l’autrice fornisce interessanti spunti di riflessione e suggerimenti pratici per allenare una mente curiosa. Per esempio praticare la perseveranza sia rispetto a un compito che a un obiettivo da perseguire ma anche di fronte a possibili fallimenti, porsi domande e non assumere un atteggiamento passivo nei confronti della vita, allenare la flessibilità mentale, leggere tanto e se possibile viaggiare, uscire dalla “comfort zone” e meditare.

A completamento dell’originalità del testo, a partire dal sesto capitolo intitolato Dizionario (base) di un curioso, si trova un elenco di termini distribuiti in ordine alfabetico, descritti e argomentati dall’autrice in maniera molto precisa.

Quali termini?

Perché proprio quei termini?

Qual è il senso di questa seconda parte del testo?

Possibili quesiti che potrebbero nascere al potenziale lettore del testo, ma che mi riservo volontariamente di svelare, d’altronde stiamo parlando di un testo che innalza la curiosità e spero anch’io di averla fatta nascere in riferimento al libro in questione che ritengo meritevole di attenzione sia per gli addetti ai lavori che non.

Fobia scolare: campanelli d’allarme e strategie di intervento – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo “Fobia scolare: campanelli d’allarme e strategie di intervento”.

 

Con i termini “Fobia scolare”, “Fobia scolastica” o “Rifiuto scolastico” si indica una condizione di paura ed intenso disagio caratterizzata da un atteggiamento di opposizione o resistenza nei confronti dell’ambiente scolastico da parte di un bambino o di un adolescente. La fobia scolare esordisce con maggior frequenza in concomitanza con i passaggi di ciclo scolastico: agli inizi della scuola primaria, della scuola secondaria di primo o di secondo grado, in relazione ai timori connessi all’adattamento al nuovo ambiente, ai nuovi compagni ed insegnanti ed alle crescenti richieste scolastiche. Nelle più precoci fasi dell’età evolutiva, il rifiuto scolare rappresenta una delle più comuni manifestazioni di Disturbo d’ansia di separazione. Nelle successive fasi dello sviluppo è più spesso legata alla preoccupazione relativa alla prestazione scolastica e si caratterizza per un’elevata paura di sbagliare, di ricevere voti negativi, di deludere le aspettative dei genitori e di fare una brutta figura davanti ai compagni. In alcuni casi al rifiuto scolare si associa o fa seguito un progressivo isolamento sociale, che compromette significativamente il funzionamento globale dell’adolescente, configurando un quadro clinico che richiede spesso un intervento intensivo e multidisciplinare. È evidente come la fobia scolare differisca di gran lunga dalle situazioni di assenza ingiustificata da scuola e richieda pertanto di essere tempestivamente riconosciuta e trattata.

La terapia cognitivo-comportamentale si è rivelata efficace nel ridurre l’intensità della sintomatologia ansiosa e nel favorire la graduale ripresa della frequenza scolastica. La Scuola, unitamente alla famiglia, riveste un ruolo fondamentale nel percorso di cura di bambini e adolescenti con fobia scolare.

Terapeuti al lavoro: fobia scolare

L’episodio parla di Fobia scolare sotto il profilo epidemiologico, clinico ed eziopatogenetico, con particolare riguardo alle diagnosi differenziali e/o alle eventuali comorbidità, in modo tale da apprendere come orientarsi nella fase di assessment. Sono inoltre illustrati i principiali fattori prognostici e i principali interventi terapeutici applicabili. Si parla infine dell’importanza del coinvolgimento della Scuola a livello preventivo e di prevenzione delle ricadute.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Silvia Chiaro, Medico specialista in Neuropsichiatria Infantile, abilitata all’esercizio della Psicoterapia. Allieva del Training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale di Studi Cognitivi.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Emozioni, queste sconosciute! Recensione di “Abitarsi. La psicantria delle emozioni” 

Un’esplorazione cantata dell’animo umano: così recita il sottotitolo del libro-cd “Abitarsi. La psicantria delle emozioni”, quarta opera degli “Psicantria” – al secolo Cristian Grassilli e Gaspare Palmieri, psicoterapeuti e cantautori di psicopatologia cantata, che con “quel po’ di follia” e passione da diversi anni ormai ci allietano con la loro fantasia, da sempre fedelmente accompagnati dall’arte musicale di Lorenzo Mantovani. 

 

Molto spesso le persone che abitano i nostri studi professionali arrivano analfabete da un punto di vista emotivo. Ci accorgiamo sin da subito che le emozioni non sono nominate, riconosciute, distinte, integrate; spesso sono tenute strette o al contrario saltano fuori in maniera disregolata. Il nostro lavoro spesso comincia proprio da un viaggio di esplorazione del loro mondo emotivo e il lavoro che adesso presentiamo chissà che non possa rappresentare – come gli autori stessi si propongono – uno strumento di facilitazione per affacciarsi nel mondo delle emozioni, avvicinandosi con melodie leggere, che riescono a far vibrare corde interiori profonde, capitolo dopo capitolo, traccia dopo traccia.

La Psicantria è un progetto nato nel 2010 e sin dalla sua genesi si è posto come obiettivo quello di rendere lo “psicomondo” conoscibile attraverso la musica. Sono nati così “La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata” (2011), “Psicantria della vita quotidiana. Fenomeni psicosociali cantati” (2014), “Neuropsicantria infantile” (2018), tutti lavori editi dalla casa editrice La Meridiana.

La canzone si fa ponte per condurre chi ne fruisce verso una nuova consapevolezza di sé e del proprio mondo interno; crea empatia e partecipazione, aiuta a sdrammatizzare il tabù della malattia mentale e condividere, per abbattere sospetto e diffidenza, come osservava Guccini nell’introdurre l’opera prima del progetto psico-musicale dei nostri amici. Questo l’obiettivo, ampiamente superato.

La cura si pone così tra arte e scienza, cuore e cervello, parole e note. E gli autori lo sanno fare bene, perché lo fanno con un’anima pulita, vera, con dolce ironia, alta responsabilità e un immenso rispetto umano, oltre che professionale. Con loro abbiamo dissipato dubbi e differenze tra le diverse professionalità di cura; col sorriso abbiamo riguardato quadri di personalità e addolcito le amare sofferenze dei nostri pazienti, come l’anoressia, la depressione, l’ipocondria, le tendenze suicidarie. Abbiamo sviscerato alcuni fenomeni psicosociali del nostro tempo, quali i cambiamenti familiari, l’avvento della tecnologia digitale, il bullismo, il paradossale stress da vacanze. Abbiamo colorato con la musica la sofferenza emotiva infantile e approcciato con ironia il misterioso mondo della mindfulness; con impegno è stato da loro difeso il lavoro di Franco Basaglia, a 40 anni dall’apertura di “quei cancelli” e il superamento del pregiudizio verso quel fratello un po’ “matto”. Tutto questo senza dimenticare mai di aver specialmente cura di noi.

E così siamo giunti, oggi, a questo condominio di emozioni. Le prime note ci invitano a entrare in una casa “senza scuri né pareti”, metafora riuscita della nostra dimora interiore. E come un tour, giriamo tra piani, stanze, corridoi, solchiamo pavimenti, accendiamo luci, esploriamo arredamenti. L’invito è quello di imparare ad abitarsi e ad abitare le nostre emozioni. Accomodiamoci, perché da qui in avanti ha inizio un viaggio intenso tra “paesaggi sorprendenti”, uno per ogni capitolo/traccia.

Troviamo il coraggio, “tra i versi di una canzone”; scopriamo che “ci si può vergognare, senza scomparire”, che “la paura può salvarti la vita”, che c’è una rabbia che sale, che “senti nella pancia” o che ci può essere una “rabbia sana”, o ancora che la rabbia, se ne trovi la causa, puoi disinnescarla. Dopo alcune emozioni primarie, gli autori si spostano su due grandi sentimenti, l’amore e l’odio: ci mostrano come sia possibile diventare amici di noi stessi o quanto purtroppo sia facile odiare. In punta di piedi, arriva poi la “canzone gentile”, che con “il suo ritornello può farti da ombrello” e che ci trasporta verso alcune emozioni secondarie, “più complesse e nobili”, come gli stessi autori le descrivono. Ed ecco, quindi, l’invidia, che si insinua a suon di clavicembalo; la gratitudine, che rende tutto quanto “un po’ meno scontato”. E così, nota dopo nota, con pazienza ci si avvia alla fine, “basta andare a passo di danza, finché c’è musica, c’è speranza”!

Un lavoro che scalda le case in cui risuona e i cuori di chi le abita; un lavoro potente, arricchito da diversi contributi di altrettanti autori, tutti fan degli Psicantria, che raccontano del tema a ciascuno assegnato in maniera incarnata, vissuta, sentita. Un valore aggiunto per un’opera già preziosa e di conforto, che mira a rendere piacevolmente navigabile il grande mare –sconosciuto e temuto– delle emozioni.

Gli autori tengono il timone con gentilezza, ma con fermezza. A voi lettori non resta che spiegare le pagine, premere play, respirare e tuffarvi.

Cari psicantrici, la nostra gratitudine va al vostro coraggio!

ABITARSI – Guarda il video:

 

Stress e burnout nei dottorandi in psicologia

Dalla letteratura precedente (Rummell, 2015) sembra emergere che i livelli di stress e il burnout tra i dottorandi in psicologia siano più alti che nella popolazione generale, ma è veramente così?

 

La letteratura sul burnout tra i dottorandi in psicologia

Gli studenti di dottorato in psicologia (Psychology Doctoral Students; PDS), secondo la letteratura precedente (Myers et al., 2012), sperimentano alti livelli di stress; è stato infatti riportato che il 75% di questi si percepiscono da moderatamente a molto stressati a causa delle attività di formazione (Cushway, 1992). Più recentemente, uno studio di Rummel riporta che, coerentemente con quanto affermato nella letteratura precedente, i dottorandi in psicologia tendono a sperimentare maggiori livelli di stress rispetto alla popolazione generale (Rummell, 2015). Ad oggi però, la ricerca sul burnout e i livelli di stress tra i dottorandi in psicologia è molto limitata. Infatti, in letteratura, non sono presenti studi che hanno confrontato direttamente dati sullo stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale. Per questo motivo, il seguente articolo ha lo scopo di colmare una lacuna presente nella letteratura relativa al burnout e allo stress negli studenti di dottorato in psicologia, con un duplice obiettivo: da una parte, confrontare i livelli di stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale; dall’altra, esaminare i livelli di stress e di burnout tra i dottorandi in psicologia, specificando l’anno accademico di appartenenza (Rico & Bunge, 2021).

In questo ambito è necessario sottolineare che non tutto lo stress è problematico. Infatti, è quello duraturo e non trattato che spesso può portare al burnout (Maslach et al., 2001) e interrompere il funzionamento cognitivo e fisico (Garrett, 2010). Nelson e colleghi, in uno studio precedente, riportano quelli che sono i fattori più comuni che causano stress – i cosiddetti stressor – tra gli studenti di dottorato in psicologia. Tra essi troviamo: corsi accademici, lavoro relativo alla tesi di laurea, alle finanze, al tirocinio e al lavoro con i clienti (Nelson et al., 2001). Parlando di burnout invece, ci si riferisce a una “risposta prolungata a fattori di stress emotivi e interpersonali cronici sul lavoro” (Maslach et al., 2001).

Data la letteratura precedente (Rummell, 2015), quindi, ci si aspetta che i livelli di stress dei dottorandi in psicologia siano più alti. Questo studio invece riporta risultati differenti.

Burnout e strategie di coping nei dottorandi in psicologia: studi recenti

Gli studenti che potevano partecipare alla ricerca dovevano essere iscritti a programmi di dottorato in psicologia clinica o di counseling accreditati dall’APA (programmi di dottorato e di psichiatria) negli Stati Uniti, per un totale di 303 partecipanti (204 PDS e 99 appartenenti alla popolazione generale). A questi, sono stati somministrati tramite email il Maslach Burnout Inventory-Human Services Survey (MBI-HSS; Maslach et al., 1996) e il Perceived Stress Scale (PSS; Cohen et al., 1983). In base ai punteggi ottenuti, non vi erano differenze significative nei livelli di stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale (Rico & Bunge, 2021). Secondo gli autori dell’articolo, anche questi studenti di dottorato in psicologia potrebbero aver sperimentato livelli di stress più elevati rispetto alla popolazione generale, ma potrebbero aver utilizzato le abilità di coping apprese nei loro studi (Rico & Bunge, 2021). A sostegno di ciò, almeno due studi hanno documentato un elevato uso di abilità di coping da parte degli studenti (El-Ghoroury et al., 2012; Nelson et al., 2001).

Emerge invece che i livelli di stress degli studenti del terzo e quarto anno (raggruppati insieme) erano significativamente più alti rispetto agli studenti degli altri anni. Inoltre, tra questo gruppo di studenti, il livello della sottoscala dell’esaurimento emotivo dell’MBI-HSS degli studenti del terzo e del quarto anno (raggruppati insieme) era significativamente più alto rispetto agli studenti degli altri anni.

Questi ultimi risultati evidenziano la necessità di fornire maggiori livelli di supporto agli studenti del terzo e quarto anno dei programmi di psicologia clinica (Rico & Bunge, 2021).

 

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