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La trasmissione intergenerazionale del trauma

È importante sottolineare come gli effetti traumatici dovuti alla guerra e alla prigionia non riguardano solamente i soldati stessi, ma anche i loro cari; infatti, lo stress traumatico secondario (STS) non include solamente i tipici sintomi post-traumatici ma influenza anche diversi domini della sfera interpersonale.

 

Spesso ci si chiede a quali risvolti psicologici siano esposti i bambini che si sono trovati in situazioni traumatiche, come abusi o catastrofi ambientali, mentre di rado ci si sofferma sulle conseguenze dell’essere cresciuti da genitori i quali sono stati esposti in prima persona ad eventi traumatici. 

In questo caso la prole può andare incontro a reazioni secondarie a eventi traumatici, avvenuti molto prima che loro nascessero e di cui non hanno alcuna esperienza diretta (Solomon & Zerach, 2020).

Effetti dei traumi di guerra

Uno studio condotto nel 2020 ha analizzato gli outcomes traumatici di seconda generazione riguardanti figli di prigionieri della guerra dello Yom Kippur, avvenuta nel 1973 (Solomon & Zerach, 2020). Come riferimento è stato preso un precedente studio longitudinale di quattro decenni, in cui veniva valutata la salute fisica e mentale di ex prigionieri di guerra (Solomon et al., 2012).

In generale, durante ogni guerra i prigionieri sono sottoposti a indicibili torture, abusi, umiliazioni, deprivazione di cibo e acqua, totale mancanza di igiene. Tutti questi soprusi vengono utilizzati intenzionalmente dai carcerieri come strategie per rendere maggiormente vulnerabili i prigionieri, fino a farli crollare (Solomon & Zerach, 2020).

La prigionia di guerra viene classificata tra i gruppi di traumi perpetrati dall’essere umano e, differentemente dalle catastrofi naturali, ne risultano outcomes post traumatici più gravi, tra cui vari disturbi psichiatrici, psicosociali e di compromissione delle relazioni interpersonali (Herman, 1992; Solomon et al, 2008).

Infatti, è proprio la natura interpersonale del danno subito a rendere più lento e difficoltoso il recovery. Tendenzialmente, oltre a una vasta sintomatologia ansiosa e depressiva, gli ex prigionieri di guerra mostrano chiari sintomi di PTSD (Dikel et al., 2005; Solomon et al., 2012).

È importante sottolineare come gli effetti traumatici dovuti alla guerra e alla prigionia non riguardano solamente i soldati stessi, ma anche i loro cari; infatti, lo stress traumatico secondario (STS) non include solamente i tipici sintomi post-traumatici ma influenza anche diversi domini della sfera interpersonale (Ludick & Figley, 2016; APA, 2013).

Dalla letteratura, nel corso degli anni, è emerso come i figli di veterani risultassero avere numerosi problemi comportamentali, come per esempio l’aggressività, sintomi depressivi e somatici, abuso di sostanze e sintomi PTSD veri e propri, se paragonati a figli di veterani che non soffrivano di PTSD  (Dinshtein et al., 2011). Infatti, anche il recente studio del 2020 sopracitato ha evidenziato come i figli di veterani con PTSD abbiano un alto rischio di sviluppare lo stress traumatico secondario, ma anche altre manifestazioni psicopatologiche come intrusioni mentali, evitamento, paranoia, psicosi, ansia e depressione (Solomon & Zerach, 2020).

In questo studio è emerso come il trauma primario vissuto dai padri di famiglia abbia influito non solo sulla prole, ma anche sulle mogli, nonché madri di queste famiglie, le quali presentavano una vasta sintomatologia secondaria molto simile a quella presentata dai figli (Solomon & Zerach, 2020). Questa scoperta solleva quindi un quesito interessante: qual è il rapporto causale tra PTSD paterno, stress traumatico secondario materno e risvolti psicopatologici nei figli? Il ruolo dello stress traumatico secondario nelle madri è mediatore di quello nei figli, o un aggravante? L’ ipotesi è che, se di per sé i risvolti psicopatologici dei traumi paterni hanno un effetto sia sulle madri che sui figli, lo sviluppo conseguente di una sensibilità psicopatologica nelle madri possa ulteriormente aggravare le condizioni dei figli, i quali si trovano a vivere in un ambiente in cui nemmeno i propri genitori si sentono al sicuro (Zerach et al., 2016).

Il ruolo dei genitori, infatti, è quello di soddisfare i bisogni primari della prole, fornire un ambiente sicuro sia a livello fisico che emotivo, permettendo al tempo stesso l’esplorazione dell’ambiente esterno (Bowlby, 1988). In quest’ottica, il trauma impedirebbe ai genitori di svolgere e bilanciare correttamente le proprie funzioni genitoriali, passando sia dall’assenza di cura, sensibilità ed empatia per la prole sia all’iperprotettività (Solomon & Zerach, 2020).

Personalità e trasmissione intergenerazionale del trauma

In ogni caso, è importante domandarsi quale sia il ruolo del genere e dei tratti di personalità nello sviluppo di stress traumatico secondario nei figli di veterani aventi PTSD. Per quanto riguarda il ruolo del genere, uno studio ha riportato una sintomatologia secondaria più grave nelle donne, ipotizzando che esse abbiano una maggior sensibilità e predisposizione per PTSD e stress traumatico secondario(Baum et al., 2014).

Per quanto concerne i tratti di personalità, come detto in precedenza, sembrano avere un ruolo importante nella trasmissione intergenerazionale del trauma. Lo studio di Solomon e Zerach del 2020 ha individuato, tra i Big Five, il Nevroticismo come fattore di rischio per lo sviluppo di PTSD e stress traumatico secondario (Borja et al., 2009). Questa predisposizione può essere spiegata dal fatto che le persone con alti punteggi per questo tratto, tendono a preoccuparsi eccessivamente e in maniera del tutto involontaria per possibili minacce, focalizzandosi particolarmente su elementi negativi e minacciosi presenti nell’ambiente esterno, tanto da risultare maggiormente vulnerabili a interpretazioni catastrofiche (Aidman & Kollaras-Mitsinikos, 2006). Infatti, come evidenziato dalla letteratura, questi individui sono caratterizzati da alterazioni dell’umore e cognizioni distorte ed eccessiva preoccupazione, elementi tipici del PTSD (APA, 2013).

 

Applicazioni specifiche dei modelli CBT di terza generazione – Congresso CBT-Italia

Firenze, dalla seconda giornata del Congresso CBT-Italia 2022. Applicazioni specifiche dei modelli CBT di terza generazione.

 

Il modello ACT

 Il 29° simposio, svoltosi nella seconda giornata del congresso CBT-Italia, è stato moderato dalla dott.ssa Annalisa Oppo, psicologa, psicoterapeuta e docente di Psicologia generale presso la Sigmund Freud University (SFU) di Milano.

Proprio la dott.ssa Oppo ha inaugurato il simposio parlando di due particolari processi afferenti all’Acceptance and Commitment Therapy (ACT): la fusione cognitiva e il sé concettualizzato. In particolare, la fusione cognitiva con un determinato pensiero o contenuto del sé porta ad avere un sé concettualizzato che provoca dolore e sofferenza psicologica.

Secondo Godbee e Kangas (2020), per promuovere un sé concettualizzato ci sono cinque repertori da allenare: la consapevolezza di un sé (1) distinto, (2) trascendente, (3) persistente, (4) capace di assumere una prospettiva e (5) di osservare. La dott.ssa Oppo si è poi soffermata in particolare sul primo aspetto: avere un “sé distinto” significa discriminare l’esperienza diretta così com’è dall’esperienza controllata da regole verbali, e uno strumento per allenare questo repertorio sono le tecniche di defusione.

A questo proposito, ha presentato brevemente i risultati di una meta-analisi in corso di pubblicazione, secondo cui la defusione è risultata efficace nel ridurre la credibilità e la dolorosità legata a contenuti del sé negativi. La tecnica d’elezione è risultata essere la Word Repetition (ripetizione di parole). Relativamente agli 8 studi inclusi nella meta-analisi, sono emersi alcuni problemi: tutti gli studi includevano un campione di soli studenti, solo uno studio confrontava più tecniche e solo uno studio valutava il follow-up.

Rispetto alla defusione, la dott.ssa Oppo ha poi messo in luce un problema di termini: la defusione non deve essere intesa come una tecnica, bensì come un esito perseguibile attraverso processi di base diversi (Assaz et al., 2018). Ed è da questo razionale che è nato lo studio sperimentale esposto successivamente, che riguardava l’efficacia di due differenti tecniche di defusione cognitiva (vedi Figura 1):

  • la Word Repetition: basata sul processo di estinzione rispondente;
  • il Contextual Cue: basato sulla contestualizzazione attraverso autoclitico.

Tecniche di defusione valutate nello studio di Oppo e colleghi (in corso di pubblicazione)

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 1

Entrambe le tipologie di intervento sono state condotte online e avevano come obiettivo la riduzione della credibilità, della dolorosità e del disagio associati a un pensiero autoreferenziale negativo.

I risultati dello studio hanno mostrato una riduzione significativa di tutte e tre le variabili considerate, in entrambe le condizioni di defusione, che persiste al follow-up. Non si sono rilevate differenze fra le due tecniche in termini di efficacia ma, considerando la loro durata, la Word Repetition è risultata più efficiente. Inoltre, l’utilizzo tra sessioni della stessa parola o di parole diverse appartenenti alla stessa classe non influenza il risultato.

Osservando i dati esplorativi della network analysis, si possono notare due configurazioni diverse che, afferma la dott.ssa Oppo, potrebbero indicare che le due tecniche consentono di ottenere lo stesso risultato, pur agendo attraverso processi diversi.

ACT e psicooncologia

A seguire, la dott.ssa Maria Rosita Campagna, psicologa e psicooncologa, ha argomentato le motivazioni per cui l’utilizzo di interventi basati sull’ACT è utile con pazienti oncologici. Una recente revisione sistematica condotta da Mathew et al. (2020) ha, infatti, dimostrato che il loro utilizzo comporta dei miglioramenti significativi rispetto allo stato emotivo, alla qualità della vita e alla flessibilità psicologica.

Quando il trattamento attivo e le cure non sono più possibili, la qualità della vita diventa l’obiettivo primario per i pazienti e per chi si prende cura di loro, afferma la dott.ssa Campagna. La presa in carico globale della persona sofferente, tipica dell’assistenza in hospice, si riferisce a un modello multidisciplinare in cui lo psicologo-psicoterapeuta è parte integrante dell’équipe di cura. In particolare, il focus dell’intervento psicologico-psicoterapeutico basato sull’ACT è quello di aiutare le persone a sviluppare maggiore flessibilità psicologica, abbandonando i tentativi inefficaci nel controllare, ridurre o evitare la sofferenza, per muoversi verso precisi obiettivi.

La dott.ssa Campagna ha poi presentato il caso di Mhannia, una paziente con diagnosi di tumore maligno ricoverata in hospice. Ha raccontato del primo incontro con Mhannia, durante il quale le ha domandato quali fossero le cose più importanti per lei, per poi chiederle di scegliere tra due caramelle: la caramella bianca avrebbe tolto il dolore, e con esso anche la famiglia e gli amici di Mhannia; la caramella colorata invece le avrebbe consentito di tenere le cose importanti ma anche il dolore (Figura 2). La donna ha scelto la caramella colorata.

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 2

Dopo aver descritto le fasi del trattamento, che per rispettare le condizioni di salute dei pazienti oncologici difficilmente avviene a cadenza regolare, la dott.ssa Campagna ha riportato alcuni episodi del percorso ACT svolto con Mhannia. Per esempio, un valore per la donna era la cura del proprio aspetto fisico e un’azione impegnata svolta in quella direzione è stata trascorrere una giornata per sé, all’insegna della propria bellezza, tra parrucchiera, estetista etc., con l’aiuto dell’Associazione di Volontariato “Ali Rosa”.

Infine, l’intervento si è concluso con una citazione:

Mhannia: “Rosy io ho tanta tanta paura di morire…”
Dott.ssa Campagna: “Non sappiamo ciò che accadrà, ma qualsiasi cosa accada io sarò qui con te…”

ACT e adolescenza: il programma DNA-V

Dopo di che, gli psicologi e psicoterapeuti Francesco Dell’Orco e Antonella Ferrara hanno introdotto il programma DNA-V, aprendo a una riflessione sull’adolescenza: la domanda non è come curare l’adolescenza, ma su quali processi si può lavorare in modo che un individuo che sta attraversando questa fase possa crescere in modo sano.

Il DNA-V è un modello per l’intervento psicologico in ambito educativo e clinico con adolescenti e giovani adulti, sviluppato da L. Hayes e J. Ciarrocchi (2017). Esso affonda le sue radici nella scienza contestualista-funzionale e utilizza l’ACT per trovare soluzioni ai problemi dei giovani di oggi, promuoverne la crescita e lo sviluppo anche in situazioni di difficoltà. L’acronimo DNA-V descrive tre classi funzionali di comportamento (Figura 3):

  • Esploratore (Discoverer): ampliare i nostri repertori comportamentali e riconoscere se quello che stiamo facendo funziona o no (conseguenze del nostro comportamento sul contesto);
  • Osservatore (Noticer): notare il proprio mondo interno e accoglierlo con un atteggiamento aperto e non giudicante;
  • Consulente (Advisor): prendere distanza dai propri pensieri (defusione), riconoscerli, dare loro un nome, e riconoscere se sono utili nel proprio agire.

Tutti e tre al servizio dei Valori (-V).

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 3

L’ACT nell’intervento LIBET

L’ultimo intervento è stato sostenuto dal dott. Luca Calzolari, psicologo e psicoterapeuta, il quale ha brevemente discusso dell’ACT come tecnica all’interno dell’intervento LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased beliefs, elicitation and treatment) e sull’importanza di focalizzarsi sui valori. In particolare, l’ACT è basata sull’idea che la psicopatologia sia la conseguenza di tentativi controproducenti di sopprimere o evitare stati interni, allontanando la persona dal perseguire i propri valori. Questo avviene perché ciò su cui decidiamo di focalizzarci è ciò che crescerà; pertanto, se una persona tende a focalizzarsi prevalentemente sulle proprie preoccupazioni, le alimenterà ulteriormente. Al contrario, se ci focalizziamo su ciò che per noi è importante, sui nostri valori, questi cresceranno sempre di più.

CBT di terza generazione applicazioni specifiche Congresso CBT Italia Fig 4

Il dott. Calzolari ha poi elencato le fasi della terapia LIBET-oriented:

  • formulazione e condivisione;
  • intervento sui sintomi;
  • intervento sui piani: utilità;
  • intervento sui piani: incontrollabilità;
  • intervento sui temi: condizionamento e intollerabilità;
  • costruire nuovi scopi.

Proprio nel corso dell’ultima fase viene affrontata la domanda: che tipo di persona vorresti essere se non lottassi con quel dolore? Ed è qui che ha luogo la connessione con i Valori come processo proprio dell’ACT.

Attraverso un approccio maggiormente esperienziale nell’indagine e nell’esplorazione dei valori, il dott. Calzolari ha concluso sottolineando l’importanza della costruzione di nuovi scopi di vita maggiormente flessibili.

 

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Reflect – Recensione del nuovo corto della Disney

“Reflect”, diretto da Hillary Bradfield, è il nuovo corto della Disney che in pochi minuti affronta in modo potente e diretto il tema dell’accettazione di sé, oltre i pregiudizi e l’ideale di magrezza così diffuso e interiorizzato nella nostra cultura. 

 

La protagonista è Bianca, una giovane ballerina con un corpo non conforme agli standard (irrealistici) comunemente richiesti dal mondo della danza.

Il corto si apre con la protagonista che danza da sola, è brava, ha talento e si diverte a fare quello che fa. L’incanto si rompe quando arrivano i compagni e l’insegnante. Iniziano gli esercizi alla sbarra e alle parole di ammonimento dell’insegnante “pancia in dentro e collo lungo” il riflesso di Bianca si frantuma e diventa mostruoso e angosciante. Bianca però non si lascia sopraffare, continua a danzare ed è nella danza che trova le risorse affinché il suo riflesso non sia più condizionante e determinante.

Il messaggio è potente: il valore personale non è legato al peso e alla forma del corpo ed è possibile andare oltre i pregiudizi e le richieste irrealistiche della società e accettarsi per come si è, senza giudizio.

Il corto porta quindi alla luce un tema fondamentale: le persone con corpi non conformi subiscono quotidianamente pregiudizi connotati da credenze che le dipingono come pigre, negligenti, senza volontà, senza talento. Tali stereotipi rendono queste persone vittime di atteggiamenti discriminatori da parte di insegnanti, datori di lavoro, personale medico, familiari, amici e conoscenti e ciò può portarle a interiorizzare lo stigma sul peso, potrebbero cioè finire per credere che il peso sia controllabile, che sia qualcosa di influenzabile con la volontà, con conseguenti sentimenti di colpa e svalutazione di sé e comportamenti estremi di controllo del peso e della forma del corpo.

I media sono molto influenti rispetto allo sviluppo di determinati atteggiamenti e pregiudizi e purtroppo a lungo hanno proposto una rappresentazione del corpo impregnata di stereotipi: le persone con obesità per esempio sono state spesso rappresentate come persone che mangiano cibo spazzatura e che sono pigre. Vengono invece proposte come di successo, attraenti e interessanti le persone con corpi caratterizzati dalla magrezza.

Tali rappresentazioni mediatiche rafforzano stereotipi che alimentano lo stigma del peso. È pertanto necessario un impegno per spostare la narrazione del peso e del corpo da una narrazione pervasa di pregiudizi a una equa, accurata e non stigmatizzante.

Il corto della Disney sembra essere un piccolo passo per mettere in discussione quella rappresentazione basata su modelli irraggiungibili di irrealistica perfezione che, in molte persone, continua a creare una sofferenza tale da portarle a rinunciare ai propri sogni e ai propri talenti.

 

Complessità e fragilità nelle relazioni amorose online

Nelle relazioni online assistiamo a quella che Wallace (2017) definisce “mentalità da shopping”. Il corteggiamento online è qualcosa di soddisfacente e spesso avviene con più persone contemporaneamente, appagando il bisogno di approvazione e di sentirsi desiderati.

 

Siamo naturalmente portati a instaurare legami con altre persone. Dal filosofo Aristotele nel IV sec a.C. fino ad oggi sono moltissimi gli autori e le ricerche che sottolineano questo aspetto della natura umana.

La ricerca di relazioni è da sempre parte delle nostre vite, ma le modalità con cui si creano e mantengono i legami sono cambiate notevolmente nel corso del tempo.

In questo articolo cercheremo di approfondire l’evoluzione delle relazioni amorose e le caratteristiche essenziali delle varie fasi della coppia in una società dove le tecnologie rivestono un ruolo centrale anche nella costruzione dei legami affettivi.

Negli ultimi decenni, grazie ai Social Network e alle applicazioni per incontri, è stato possibile creare e sviluppare legami in assenza di confini spaziali e temporali; di conseguenza il modo di conoscere un partner, di vivere un legame intimo e la sessualità stessa sono stati completamente stravolti.

I locali, le piazze, i bar non sembrano più essere i luoghi dedicati alle interazioni umane che si svolgono oggi all’interno di applicazioni in questo nuovo mondo “Social”.

Alcune di queste applicazioni sono pensate proprio per facilitare relazioni intime che permettano di appagare il bisogno di sentirsi riconosciuti e di percepirsi come importanti e speciali nella mente dell’altro; bisogni umani non diversi dal passato ma ricercati in una modalità completamente nuova.

Molto spesso il corteggiamento avviene tramite “like”, una modalità molto più rapida rispetto al passato, adatta anche a corteggiare un numero elevato di persone contemporaneamente.

L’assenza di uno spazio fisico infatti permette l’esplorazione di un numero potenzialmente infinito di luoghi senza limiti di distanze, di tempo e, di conseguenza, un numero infinito di persone da conoscere.

Inevitabilmente il vivere così tanto la dimensione online ci porta però a non allenare le competenze sociali interpersonali come nel passato.

Si pensi, per esempio, ad un primo incontro che non sta andando come sperato. L’altra persona ti sta annoiando, capisci che non vuoi averci a che fare e l’unico desiderio che hai è quello di essere da tutt’altra parte. Con molta probabilità, avendo un individuo di fronte, sarebbe difficile andarsene senza dire una parola, ma si cercherebbe il modo più consono e socialmente adeguato per allontanarsi. Il vedere nella realtà l’altra persona permette quindi di mettere in campo e di sviluppare preziose risorse psicologiche e sociali, contribuendo di fatto a incrementare autostima, autoefficacia e capacità di gestione emotiva (Schore, 2003). Molto spesso invece, nelle relazioni online, in una situazione di noia o in cui le cose non stanno andando come sperato, si può interrompere la conversazione, come vedremo più avanti, a volte senza nemmeno un saluto.

Riprendendo quanto detto sopra le persone hanno bisogno di sentirsi riconosciute e di percepirsi come importanti e speciali nella mente dell’altro; che effetto può avere vivere l’esperienza di qualcuno che sparisce improvvisamente durante una conversazione senza nessuna ragione apparente?

Le fasi dell’amore e della coppia

In accordo con Gambini (2007) possiamo individuare quattro fasi nella formazione dell’identità della coppia: Innamoramento, Disillusione, Negoziazione, Amore.

Questo andamento è possibile anche online ma con alcune particolari caratteristiche.

L’innamoramento

L’innamoramento è caratterizzato da una passione travolgente iniziale per lo più “egocentrata”, ma destinata a spegnersi con il tempo e a scontrarsi con la realtà.

Online: durante questa fase, regna sovrana l’idealizzazione reciproca, in cui si amplificano le somiglianze e si trascurano le differenze. L’altro viene investito di forti connotati affettivi e diviene la fonte di gratificazione dei propri bisogni emotivi, di appartenenza, di protezione e di riconoscimento, è molto facile trovare nell’altro proprio quello di cui si ha bisogno. Ci si ritrova all’interno di un patto implicito “segreto”, su una base inconscia e narcisistica (Gambini, 2007).

La disillusione

La disillusione è un processo naturale, in cui la visione di perfezione dell’altro lascia il posto alla realtà e si vede la persona per quello che è e non per quello che vorremmo fosse. Questo passaggio è fondamentale per poter porre le basi per la costruzione di un rapporto solido e stabile.

Online: nel mondo dei social media le relazioni online vivono un più rapido processo di disillusione nel momento dell’incontro di persona. In pochi istanti può crollare tutto l’immaginario autogenerato di idealizzazione dell’altro come perfetto per soddisfare i propri bisogni. Questo viene amplificato dal tempo in cui la relazione si è mantenuta esclusivamente online.

Ad esempio: se messaggiate con una persona da poco tempo e organizzate un incontro di persona, si ridurrà l’ampiezza dell’illusione che si viene a creare. Al contrario, una conoscenza virtuale che perdura per molti giorni o mesi implicherà un’idealizzazione molto forte e difficilmente affine alla realtà, facilitando così il fallimento dell’incontro di persona.

La negoziazione

La negoziazione: è la fase in cui subentrano le classiche discussioni del “tu sei cambiat*!” “tu mi hai mentito, mi dicevi che…”, “all’inizio non eri così con me” ecc…, vengono frantumate tutte le proprie fantasie proiettate sull’altro durante la fase di idealizzazione, che per forza di cose sono state deluse.

Nel decidere, quindi, le sorti della relazione ci saranno due possibilità: la chiusura della relazione o prendere atto delle differenze e costituire una nuova relazione basata sull’accettazione.

Online: la conoscenza tramite una chat facilita molto di più l’idealizzazione del partner e, come detto, è ancora più difficile accettare il “cambiamento” e passare alla visione dell’altro non più come “perfettamente adatto al soddisfacimento dei propri bisogni”. Infatti, uno dei possibili rischi è che al momento dell’incontro fisico l’ampiezza dell’immagine idealizzata, creata durante le conversazioni online, sia talmente elevata da non poter minimamente paragonarsi all’immagine reale. Di conseguenza, si creerà una delusione spropositata difficilmente tollerabile, preferendo così passare ad un’altra conoscenza stimolante, eccitante ma soprattutto meno impegnativa piuttosto che impegnarsi nella fase di negoziazione e accettazione dell’altro.

L’amore

Per quanto il concetto di amore sia davvero difficile da definire si potrebbe dire che una coppia stabile e matura si caratterizza dalla presenza di differenziazione e accettazione.

La consapevolezza dei propri sentimenti, un senso di realtà più adeguato, anche una normalizzazione dei livelli ormonali, sono caratteristiche tipiche dell’avvenuto passaggio al patto esplicito “dichiarato”, in cui una maggiore conoscenza di sé e dell’altro consente progettualità e stabilità nella relazione.

L’amore è qualcosa che si costruisce insieme gradualmente tra le diverse prove della vita quotidiana. Nell’amore sono richiesti l’impegno e la capacità di accettare le differenze l’uno dell’altro.

Per come funzionano le comunicazioni tecnomediate, la possibilità che questo processo possa avvenire in una relazione esclusivamente online sembra poco probabile, in questo caso il sentimento di amore provato potrebbe essere riferito più a se stessi e alle proprie fantasie che all’accettazione delle differenze con l’altro.

Come afferma Veneruso (2019) quando la conoscenza rimane prevalentemente sui social, allora sarà molto più difficile spostare la relazione al di fuori e si rimarrà all’interno di una bolla protettiva per il proprio sé.

Mentalità da shopping

Nelle relazioni online assistiamo a quella che Wallace (2017) definisce “mentalità da shopping”. Il corteggiamento online è qualcosa di soddisfacente e spesso avviene con più persone contemporaneamente, appagando il bisogno di approvazione e di sentirsi desiderati. Delle volte la semplice pigrizia si adatta alla vasta possibilità di alternative presenti negli ambienti online inducendo le persone a non compiere degli sforzi per conoscere meglio una persona, ma interrompendo la frequentazione laddove si sia verificato qualche piccolo attrito. Ed è così che con uno “switch” si passa a un altro utente (un po’ come quando si sceglie che serie tv guardare la sera). Questo può accadere anche nelle relazioni tradizionali, ma in quelle online il fenomeno viene amplificato notevolmente.

C’è poi una predilezione di modalità sempre meno empatiche per concludere le relazioni interpersonali. È probabile che l’assenza dell’altro davanti a sé, offerta dai social media, porti a evitare confronti e spiegazioni e legittimi la scelta improvvisa di bloccare, ignorare o cancellare dai contatti qualcuno tramite un semplice “Click”. L’aspetto negativo è che tutto questo sta diventando una pratica comune e giustificata, senza prendere in considerazione tutti gli effetti che possono riversarsi sull’altro.

Infine, è fondamentale sottolineare come Internet sia stato promotore di nuovi metodi per l’esplorazione sessuale, elevando il concetto di espressione della sessualità e dell’erotismo attraverso il cybersex. Quest’ultimo prevede un tipo di eccitazione non correlata al corpo e al contatto fisico, ma piuttosto alle immagini, al tono di voce e allo scambio di messaggi di tipo erotico (un classico esempio è il sexting). I meccanismi attivati all’interno di questa realtà virtuale sono numerosi, legati alla maggior disinibizione, alla minore ansia e agitazione, alla mancanza della corporeità dell’altro che la situazione virtuale garantisce (Cirillo e Scodeggio, 2019). Internet ha di fatto permesso di abbattere i limiti spazio-temporali anche nella sfera sessuale rispondendo alle esigenze delle coppie a distanza.

La necessità di nuove definizioni

I cambiamenti connessi alla modalità online di creare, gestire e concludere i legami hanno caratteristiche così specifiche rispetto al passato che si rende necessario l’utilizzo di nuovi termini e definizioni.

Alcuni di questi termini sono già riconosciuti e utilizzati nella letteratura scientifica altri ancora sono oggetto di studio e valutazione, i più noti sono i seguenti.

  • Ghosting, ossia divenire un fantasma: interrompere una qualsiasi relazione (intima, amicale, lavorativa) senza dare alcuna spiegazione o preavviso, ma sparendo all’improvviso. Il ghosting è attuato prevalentemente tramite chat su qualsiasi social media (Whatsapp, Facebook, Snapchat, Instragram) e in qualsiasi momento del giorno e della notte. È evidente come una scelta simile si configuri come un atteggiamento poco empatico, con importanti conseguenze sia su chi lo subisce sia su chi lo attua (Le Febvre et al., 2019; Freedman et al., 2018).
  • Zombieing è strettamente correlato al ghosting e indica il ritorno attivo del ghoster nella vita della propria vittima, attraverso messaggi e continue interazioni. Dietro a questo atteggiamento vi è la volontà di riprendere la relazione e comunicare il proprio pentimento.
  • Breadcrumbing, letteralmente “briciole di pane”: una relazione che di fatto continua senza trasformarsi in qualcosa di concreto, limitandosi a chiamate, like e chat. L’individuo viene trattenuto da una presenza ubiquitaria fatta di messaggi, visualizzazioni, commenti, rimanendo letteralmente “imbrigliato” nel legame (Navarro et al., 2020) e nutrendo la continua speranza che presto possa diventare più intimo, senza che questo possa realmente accadere.
  • Benching, “mettere in panchina”: temporeggiare con una persona in modo da prendere il tempo per valutare o garantirsi un’opzione sicura.
  • Cuffing, “ammanettare”: un atteggiamento messo in pratica quando, in periodi in cui si avverte un maggior senso di solitudine, ci si rivolge a qualcuno perché disponibile e solo per distrarsi un po’, sessualmente o per passare il tempo (Spaccarotella, 2020).
  • Orbiting, “orbitare”: tramite la ripresa di like e commenti una persona irrompe nuovamente nella vita di un ex per dire “c’è ancora attenzione per te”, pur non avendo realmente l’intenzione di impegnarsi in una relazione. L’artefice mette in atto condotte passivo-aggressivo (come ignorare i messaggi, ma lasciare un “mi piace” al post pubblicato) creando nel destinatario molta ambiguità e insicurezza. In questo modo, può avere il controllo sulla vittima e sulla situazione senza esserne invaso (Veneruso, 2019).
  • Haunting, “presenza ossessiva”: rappresenta il tentativo di mantenere una costante e indiretta presenza virtuale nei confronti di una persona con cui si ha avuto una relazione. Nei profili social l’haunting si palesa innocentemente attraverso like sotto a tutte le foto e commenti ai post pubblicati, divenendo, tuttavia, un atto continuo e sempre più massiccio. É una pratica che può celare una vera e propria ossessione e può generare confusione e timore a chi ne è bersaglio. In alcuni casi più gravi, l’haunting può essere paragonato quasi allo stalking.

Nell’ampia gamma di relazioni che si sviluppano online e non, è difficile valutare quanto i rapporti siano fragili o al contrario fortemente stabili. La preoccupazione dominante è che l’interfacciarsi con uno schermo abbia fatto in modo che si sviluppi un amore prettamente narcisistico, che si dimentica della presenza e del ruolo dell’altro.

Affidarsi, in amore, non vuol dire “sto con te perché così sto meglio”, perché questo intenderebbe solo una gratificazione dei propri bisogni narcisistici, ma è un affidarsi all’altro con naturalezza e spontaneità, attraverso il ritrovamento e rinnovamento di se stessi nell’altro (Veneruso, 2019). Oggi sembra divulgarsi, invece, la tendenza ad una tipologia di amore più improntata su di sé, sulle gratificazioni che l’altro può offrire, cercando di rifuggire alla frustrazione per un benessere immediato ed esclusivamente egocentrato. La superficialità e l’instabilità interpersonale che interessa la condizione attuale, sembrerebbe essere fortemente connaturata con la natura stessa della rete.

Bauman (2006) sottolinea come la solitudine generi tristezza, ma anche l’essere in una relazione sentimentale caratterizzata dalla netta contrapposizione tra il desiderio delle emozioni e la paura di perdere la propria libertà. Questo conflitto, nei rapporti moderni, ha portato a evitare affetti più stabili, affinché non si debbano affrontare i costi e le responsabilità che ne derivano, mantenendo sempre alta la possibilità di scelta sentimentale. Tutto questo sembra essere lontano dai bisogni da cui siamo partiti a inizio discorso, ma sembra portare a un parziale soddisfacimento di bisogni vitali, il cui mancato soddisfacimento porta l’individuo a ricercare attivamente qualche tipo di soluzione. È possibile che sia sempre più difficile assumersi responsabilità in una relazione e si rifugga dalla stabilità, vista come monotona, poco stimolante e impegnativa? Difficile dirlo con certezza, ma è impossibile non notare i cambiamenti della nostra società.

Questo articolo vuole essere una riflessione su come sono cambiate le relazioni negli ultimi anni e quali direzioni stiano prendendo. A questo punto la domanda sorge spontanea: è necessario fare qualcosa per invertire la rotta o seguiremo la via di una realtà sempre più individualista e di una sessualità tecnologicamente appagante?

 

 

L’ipermentalizzazione ed il disturbo borderline di personalità

Il lavoro condotto da McLaren et. al (2022) ha revisionato differenti studi che analizzavano l’associazione tra mentalizzazione e differenti psicopatologie, con l’obiettivo di valutare la forza dell’associazione tra ipermentalizzazione e disturbo borderline di personalità rispetto ad altri disturbi. 

 

Le caratteristiche del disturbo borderline di personalità

 Il disturbo borderline di personalità è un disturbo mentale caratterizzato da un modello di relazioni caotiche, disturbo dell’identità, impulsività e difficoltà nella regolazione emotiva.

Un altro aspetto rilevante riguarda l’alto rischio suicidario dei pazienti con diagnosi borderline, circa 50 volte superiore a quello della popolazione generale (Skodol et al., 2002).

Una delle caratteristiche principali del disturbo borderline di personalità riguarda la compromissione in ambito interpersonale; le relazioni sentimentali ed amichevoli degli individui con diagnosi di disturbo borderline di personalità, rispetto alle relazioni di individui non affetti da questo disturbo, presentano un maggior numero di relazioni interrotte, conflitti, insoddisfazione relazionale ed abusi (Clifton et al., 2007; Daley et al., 2000).

La centralità dei problemi interpersonali per le persone con questo disturbo influenza la cognizione sociale, ovvero il processo che permette di pensare ai pensieri, alle intenzioni, ai sentimenti, agli atteggiamenti e alle prospettive altrui (Sharp & Fonagy, 2008).

Tuttavia, determinati studi sul riconoscimento delle emozioni nei pazienti con il disturbo borderline di personalità non indicano un deficit nel riconoscimento delle emozioni positive o negative relative ai volti; il risultato rilevante si riscontra con l’introduzione di caratteristiche di incertezza, attraverso volti neutri o ambigui, e di caratteristiche di complessità, attraverso la fusione dei volti con caratteristiche prosodiche: in questi casi i soggetti affetti dal disturbo risultano essere meno accurati nel riconoscimento delle emozioni (Daros et al., 2013; Richman & Unoka, 2015).

Gli stessi risultati si rilevano in altri costrutti socio-cognitivi, come l’empatia e la fiducia, che risultano essere compromessi solo di fronte a compiti complicati, ambigui o carichi emotivamente (Sharp & Vanwoerden, 2015).

La compromissione socio-cognitiva caratteristica degli individui con diagnosi borderline, oltre che essere compromessa, risulta essere caratterizzata da un’eccessiva attribuzione di intenzioni e di pensieri agli altri (Sharp et al., 2011), portando gli individui ad ipotesi imprecise che non prendono in considerazione le reali evidenze (Sharp & Vanwoerden, 2015).

L’ipermentalizzazione

Per la comprensione di queste caratteristiche, Sharp e colleghi (Sharp, 2014; Sharp & Vanwoerden, 2015) hanno introdotto il costrutto dell’ipermentalizzazione. La mentalizzazione si riferisce alla capacità immaginativa di riflessione sugli stati mentali propri ed altrui ed è uno dei meccanismi alla base delle interazioni interpersonali (Allen et al., 2008); una mentalizzazione ottimale richiede un equilibrio ed una flessibilità tra differenti caratteristiche (Satpute & Lieberman, 2006): tra automatico (mentalizzazione emotiva e priva di attenzione) e controllato (mentalizzazione più lenta e che richiede intenzionalità), tra cognitivo (mentalizzazione che si basa sull’utilizzo dei pensieri) e affettivo (mentalizzazione che utilizza maggiormente le emozioni), tra sé (l’automentalizzazione, quella della propria mente) e l’altro (riferita alla mentalizzazione delle menti altrui), tra interno (mentalizzazione basata sull’esperienza interna) ed esterno (mentalizzazione basata su indizi osservabili, come per esempio le espressioni facciali).

 Il modello dell’ipermentalizzazione prevede che gli individui con diagnosi di disturbo borderline di personalità abbiano una mancanza di flessibilità e di equilibrio tra le diverse caratteristiche della mentalizzazione; in particolar modo questo deficit si amplifica in situazioni di iperattivazione emotiva e in situazioni complesse, riducendo la capacità di automonitoraggio e di mentalizzazione flessibile e mostrando una mentalizzazione non adeguata al contesto. L’ipermentalizzazione è caratterizzata da “eccessive inferenze contorte basate su indizi sociali” (Fonagy et al., 2015); un esempio potrebbe essere raffigurato dalla visione di un amico triste da parte di un individuo ipermentalizzato: l’ipermentalizzazione dell’individuo potrebbe portarlo a pensare che la causa della tristezza dell’amico sia da attribuire a sé stesso.

Queste attribuzioni mentali portano ad un aumento dell’iperattivazione emotiva che a sua volta aumenta di conseguenza l’ipermentalizzazione, creando un circolo vizioso (Bo et al., 2017; Fonagy et al., 2015).

Il lavoro condotto da McLaren et. al (2022) ha revisionato differenti studi che analizzavano l’associazione tra mentalizzazione e differenti psicopatologie, con l’obiettivo di valutare la forza dell’associazione tra ipermentalizzazione e disturbo borderline di personalità rispetto ad altri disturbi.

Dallo studio, sia la diagnosi borderline di personalità che le altre psicopatologie sono risultate associate all’ipermentalizzazione, senza però un riscontro riferito alla specificità dell’ipermentalizzazione nel disturbo borderline di personalità.

Questi risultati potrebbero essere stati influenzati dalla tipologia di test utilizzato per la misurazione della mentalizzazione, il MASC (Dziobek et al., 2006), un test che non prende in considerazione scenari di rilevanza personale per i partecipanti.

Questo potrebbe aver influito poiché, come detto in precedenza, l’ipermentalizzazione nei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità si attiva in particolari situazioni di complessità e di iperattivazione emotiva.

Nonostante ciò, i riscontri che confermano l’associazione tra psicopatologia in generale e ipermentalizzazione supportano l’utilizzo transdiagnostico di trattamenti psicoterapeutici basati sulla mentalizzazione, come MBT (Trattamento basato sulla Mentalizzazione) (McLaren et al., 2022).

 

Comportamento sessuale inappropriato nella demenza – FluIDsex

Considerando che un numero significativo di persone anziane dichiara di essere ancora sessualmente attivo, è evidente considerare e cercare di capire come una categoria specifica di persone anziane, quelle affette da demenza, possa manifestare il comportamento sessuale.

 

 Quando si parla di sessualità e di comportamento sessuale nelle persone anziane ci sono diverse visioni e convinzioni condivise dalla società che, tuttavia, risultano essere il prodotto di pregiudizi e di pensieri stereotipati. Brogan (1996) ha affermato che le persone anziane, nella convinzione sociale, sarebbero asessuate.

Drench e Losee (1996) mettono anche in luce che “l’anziano che si discosta dallo stereotipo e desidera una vita sessuale attiva potrebbe essere deriso come sciocco (definito come ‘vecchio sporcaccione’)”.

La sessualità delle persone anziane è percepita come inesistente, come fonte di umorismo o, ancora, come moralmente disgustosa (Cipriani et al., 2016; Kessel, 2001). A supportare tali visioni, Brogan (1996) chiarisce che dietro vi sia il falso presupposto che l’attrazione fisica dipenda, esclusivamente, dalla giovinezza e dalla bellezza. Si può, quindi, affermare che c’è una tendenza sociale evidente a far corrispondere la sessualità e il comportamento sessuale con l’ideale di giovinezza, di bellezza e, più in generale, di condizione di buona salute. Di conseguenza, è altrettanto evidente che l’ideale di vecchiaia lascia spazio a visioni stereotipate e pregiudizi sociali che non accolgono un’espressione appropriata della sessualità e dei suoi comportamenti. Contrariamente a quello che emerge da queste convinzioni, ricerche sulla sessualità negli anziani hanno evidenziato che il 73% delle persone nella fascia di età compresa tra i 57 e i 64 anni, il 53% di quella compresa tra i 65 e i 74 anni e il 26% di quella compresa tra i 75 e gli 85 anni hanno dichiarato di essere sessualmente attivi (Galinsky et al., 2014; Lindau et al., 2007; Waite et al., 2009).

Considerando che un numero significativo di persone anziane dichiara di essere ancora sessualmente attivo, è evidente considerare e cercare di capire come una categoria specifica di persone anziane, quelle affette da demenza, possa manifestare ogni sorta di comportamento sessuale.

Come riescono le persone anziane affette da demenza ad esprimere la propria sessualità?

Quando si parla di demenza si intende una manifestazione sintomatologica rappresentata da alcune difficoltà: memoria, comunicazione e linguaggio, problem-solving e altre abilità cognitive (tra cui la capacità a concentrarsi e a prestare attenzione, il ragionamento e il giudizio, la percezione visiva), che interferiscono con lo svolgimento delle attività quotidiane (Alzheimer’s Association, 2021; Torrisi et al., 2017).

Ci sono diverse forme demenza: la più comune è la demenza di Alzheimer (AD) che rappresenta fino al 70% dei casi), seguita dalla demenza vascolare (VaD) che conta il 25% dei casi, dalla demenza a corpi di Lewy (LBD) che si aggira intorno al 15% dei casi, e dalla demenza frontotemporale (FTD) che comprende tra il 5% e il 10% dei casi (Alzheimer’s Association, 2021; Torrisi et al., 2017).

Negli anziani affetti da demenza, il deterioramento cognitivo, il peggioramento della capacità di giudizio e le alterazioni della personalità determinano cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento sessuale tra i quali, i più comuni segnalati, sono apatia e indifferenza al sesso (De Giorgi e Series, 2016; Derouesné et al., 1996).

Tuttavia, è necessario aggiungere che, in molte forme di demenza, è stato anche riscontrato e descritto ciò che viene definito come “comportamento sessuale inappropriato” (ISB, dall’inglese “inappropriate sexual behavior”). Questo comportamento è caratterizzato da un atto verbale o fisico di natura sessuale esplicita o percepita, che è considerato inaccettabile all’interno del contesto sociale nel quale viene manifestato (Johnson et al., 2006; Tsai et al., 1999).

 La frequenza del comportamento sessuale inappropriato (ISB) nelle persone con demenza varia dal 7 al 25%, con una prevalenza più elevata nei residenti delle case di riposo e nei pazienti con un deterioramento cognitivo più grave (Burns et al., 1990; De Giorgi e Series, 2016; Szasz, 1983). Inoltre, le manifestazioni fisiche sembrano essere più frequenti nei maschi, mentre nelle femmine sembrano esserci maggiori manifestazioni verbali (De Giorgi e Series, 2016).

Il comportamento sessuale inappropriato provoca spesso sentimenti di ansia, imbarazzo o disagio nei caregiver e il risultato di ciò contribuisce ad un’interruzione della continuità dell’assistenza al paziente a casa portando, in questo modo, al confinamento a domicilio o all’inserimento in una casa di riposo (Wallace e Safer, 2009).

Comportamenti sessuali inappropriati in persone con demenza

Per comprendere meglio le rappresentazioni e le manifestazioni del comportamento sessuale inappropriato, è opportuno soffermarsi su alcune classificazioni individuate e, in particolare, Szasz (1983) suggerisce che questo comportamento include:

  • Parlare di sesso, ovvero l’utilizzo di un linguaggio scurrile non in linea con la personalità premorbosa del paziente;
  • Atti sessuali, come toccare, afferrare, esibire o masturbare, che possono manifestarsi in privato o in pubblico;
  • Atti sessuali impliciti, ovvero lettura pubblica di materiale pornografico o richiesta di cure genitali non necessarie.

Una seconda classificazione del comportamento sessuale inappropriato è fornita in relazione all’oggetto della gratificazione sessuale ed è distinta in “convenzionale” (se coinvolge interessi culturalmente e socialmente sanciti) e “non convenzionale” o “parafiliaca” (se l’oggetto sono bambini, animali e persone non consenzienti; Cipriani et al., 2016).

Emergono, da queste classificazioni, due temi importanti da tenere presenti. Il primo riguarda l’appropriatezza del comportamento sessuale, mentre il secondo riguarda il contesto nel quale esso viene esibito.

Il concetto di “appropriatezza” varia a seconda degli individui e può essere influenzato da molti elementi, come, per esempio, le credenze religiose o lo sguardo prevalente della società nei confronti delle persone anziane (De Giorgi e Series, 2016).

Lawrie e Jillings (2004) mettono in luce, inoltre, l’importanza di considerare l’appropriatezza o l’inappropriatezza di un comportamento sessuale valutandola all’interno di contesto più ampio, gestendo, in questo modo, i fattori che vi contribuiscono, come la noia, la solitudine o i gesti di comunicazione mal interpretati.

Le persone con demenza possono, infatti, sentirsi distaccate dagli altri e possono aver perso la capacità di parlare o di comunicare i propri desideri e bisogni (Higgins et al., 2004).

Comportamenti come spogliarsi in pubblico o toccarsi i genitali possono essere mal compresi quando, in realtà, possono essere il risultato di dolore, disagio, ipertermia o tentativi di liberarsi da misure di contenimento (Cipriani et al., 2016; Johnson et al., 2006).

Alla luce di quanto esposto, si osserva quanto i comportamenti sessuali inappropriati causino sofferenza nei pazienti e in chi se ne prende cura, sebbene i comportamenti sessuali inappropriati siano poco comuni rispetto ad altre problematiche comportamentali (Torrisi et al., 2017).

Non è facile prendersi cura di persone che manifestano comportamenti che provocano disagio e sofferenza, ma nei pazienti affetti da demenza, dove il deterioramento cognitivo comporta una serie difficoltà di comunicazione e, quindi, di espressione dei propri bisogni, la riflessione e la valutazione di questi comportamenti diventa fondamentale e indispensabile per la cura stessa.

 

Madri che feriscono (2019) di Anna-Laure Buffet – Recensione

“Madri che feriscono” è uno degli ultimi libri di Anna-Laure Buffet, terapeuta, consulente individuale e familiare specializzata nell’assistenza alle vittime di abuso psicologico. Fondatrice dell’Associazione CVP – Contre la Violence Psychologique.

 

 È un libro che va contro corrente, contro gli stereotipi che vogliono nell’inconscio della collettività la sottomissione alla venerazione della madre vista come una divinità a cui si deve sempre rispetto e amore incondizionati, pena senso di colpa, vergogna, stigma per aver tradito l’amore filiale.

Da queste considerazioni quindi, scaturisce la falsa credenza di essere un figlio cattivo e di conseguenza indegno e inutile.

Tema dell’opera è la violenza perpetrata sui figli da madri tossiche, non tanto violenza fisica quanto verbale ed emotiva, che è assai più subdola e, pertanto, non riconosciuta agli occhi esterni, che ha come caratteristica quella di “produrre effetti nefasti, con una forza intensa, spesso brutale e distruttiva” e che “nel breve e lungo periodo, genera blocchi, impedimenti, disabilità, sensi di colpa, dubbi, paura, vergogna, domande incessanti, difficoltà o persino impossibilità ad avere stima di sé, a sentirsi vivi, persino a sentirsi autorizzati ad agire o a pensare” (Buffet, 2019, p.18).

Lo stile narrativo è coinvolgente e accattivante, poiché interroga il lettore, lo rende spettatore dei casi descritti, permette di entrare nel problema, nel vissuto di chi come vittima ha dovuto subire le angherie e i soprusi di quella che avrebbe dovuto essere il porto sicuro: la madre.

La Buffet tiene alta l’attenzione raccontando le storie di donne e uomini che ce l’hanno fatta, di chi sta provando ad uscirne, e di chi invece, nonostante gli aiuti, non riesce ad accettare la mancanza e la violenza materna. Si cita “Desperate Housewives”, in cui si parla del prototipo della madre perfetta impersonata da Bree Van De Kamp, personaggio creato per denunciare il modello perfezionista, e nello stesso tempo colpevolizzante, per tutte quelle donne che non seguono gli stessi canoni sociali.

Nell’opera si accenna anche al rapporto con il padre che tiene, direttamente o indirettamente, il gioco alla madre e che è spesso negato o violento, assente o incestuoso.

Lo scopo del libro è dare voce ai bambini feriti e agli adulti che sono o che diventeranno, incoraggiandoli a parlare in maniera libera della madre che li ha feriti, di sé stessi e dei maltrattamenti subiti, al fine di avere l’opportunità di scoprire la propria autenticità, riuscendo a vivere finalmente la vita priva di condizionamenti, evitando così di riprodurre il modello negativo.

Propongo la lettura del libro poiché permette di entrare nel vivo delle diverse storie personali e aiuta a capire i meccanismi che determinano il maltrattamento materno.

 Nonostante a volte si riconosca la madre come maltrattante, ciò non basta per guarire, proprio perché fra madre e figlio si è instaurato e perpetuato per anni un legame tossico. Secondo l’autrice la consapevolezza arriva rompendo non solo con la madre, ma anche con quei modelli che ha trasmesso e che sono stati interiorizzati, elaborando il lutto e, infine, rimanendo nel dolore dopo la rottura.

Anna-Laure Buffet indica delle strategie per recuperare autonomia e fiducia in sé stessi, per elaborare il lutto della madre idealizzata, liberando così il proprio sé e le proprie risorse relazionali ed affettive.

Ritengo importante quest’opera perché ognuno, in base al proprio vissuto può riuscire a dare un significato, un nome alla propria sofferenza e voce al proprio urlo di dolore.

Dà inoltre diritto alla persona di potersi liberare dalle emozion di colpa, vergogna, rabbia e dà la spinta per potersi realizzare in tutte le sfere della vita in base al contesto in cui vive, le persone che frequenta, la propria personalità, le proprie ambizioni e i propri mezzi e risorse. Ognuno darà la risposta che potrà e, in ogni caso, trarrà giovamento: alcuni in campo professionale, altri in ambito sociale, altri ancora famigliare o in quelle attività che permetteranno di vedersi restituito ciò che non è stato ricevuto.

È un libro da leggere e da riprendere al bisogno, potrebbe essere utile in tutti quei momenti in cui ci si sente insicuri, frustrati e si ha bisogno di condividere queste fragilità con qualcuno da cui ci si sente compresi.

 

Bulbi e bitcoin: storie passate e presenti di fiori e denari

Il presente articolo affronta la tematica delle criptovalute e intende illustrare come –al di là dei tempi, del contesto, degli eventi– al centro di ogni bolla speculativa ci sia sempre la psicologia dell’individuo.

 

Introduzione

 Fiducia e ottimismo vengono valutati generalmente come nobili sentimenti, ma molto meno spesso nella finanza, soprattutto in quelle plaghe dove si annida l’avventura speculativa. Tali stati emotivi possono infatti scadere in euforia. E con questa in una deriva con tonfo finale.

La bolla speculativa – cioè una generalizzata e significativa deviazione del prezzo di un’attività (sia essa reale o finanziaria) dal suo valore fondamentale – rappresenta la sintesi narrativa di tale dinamica.

L’ampia portata delle bolle è da ricondursi a una molteplicità di fattori, quali il gran numero di attori-stakeholder coinvolti; la rapidità del contagio, anche sotto il profilo geografico; la pervasività economica, derivante dall’intreccio fra fenomeni reali, finanziari e valutari; l’esistenza di alcune zone “grigie” della regolamentazione; gli effetti psicologici di massa.

Se la “tecnologia” delle bolle –o, equivalentemente, delle crisi– si evolve nel tempo (a motivo della sofisticatezza degli strumenti, velocità delle informazioni, integrazione dei mercati, ecc.), il fattore umano –vero protagonista della formazione e dello scoppio delle bolle– resta immutato. Come fatto stilizzato, infatti, le bolle originano dalla primigenia pulsione dello speculatore: un impasto di ingredienti quali avidità; eccitazione derivante dall’azzardo; bramosia di omologazione nella massa (a sua volta, frutto di invidia, paura della diversità e della conseguente esclusione sociale); timore della perdita di controllo sugli eventi, con il correlato panico per la rovina e con la successiva fuga verso allocazioni ritenute meno aleatorie delle proprie risorse economiche (flight to quality).

Così, all’euforia (o “esuberanza irrazionale”), prima o poi fa seguito un’intensità emotiva di segno opposto. Entrambi gli affanni emotivi producono un impatto rilevante sul sistema economico-finanziario interno e, per contagio (che è una forma di esternalità), a livello globale.

Il presente articolo intende illustrare come –al di là dei tempi, del contesto, degli eventi– al centro di ogni bolla speculativa ci sia sempre la psicologia dell’individuo.

Corsa di andata e ritorno

La bolla dei tulipani

La prima bolla speculativa di cui si ha testimonianza è quella dei bulbi dei tulipani olandesi, verificatasi nel 1634-37 (un’ottima analisi è in Galimberti, 2002; si veda anche l’importante studio del Nobel per l’economia Krugman, 1995).

La domanda di questi nuovi fiori fashion e di tendenza (provenienti dalla Turchia e di cui l’Olanda si fece immediatamente promotore nella diffusione in tutta Europa) superò ben presto la loro offerta, a causa del loro lento ciclo riproduttivo, cosicché i prezzi delle specie più ricercate di tulipani subirono delle continue spinte al rialzo.

La bolla è riconducibile alla concezione del bulbo come un ottimo asset, cioè un vantaggioso bene di investimento. E poiché esso era interrato, e quindi l’oggetto di scambio era un bene futuro, emergeva in modo embrionale il primo mercato dei futures documentato nella storia. L’asset-bulbo comprendeva sia il valore capitale (che sottendeva il know-how nella riproduzione del bene; la conoscenza delle regole commerciali e delle rotte; il capitale umano impiegato; il valore dello stock di capitale fisico, come le imbarcazioni, ecc.), sia le aspettative di guadagni futuri da parte degli investitori.

Gli acquisti –tramite una caparra iniziale– con consegna futura del bulbo erano effettuati al solo scopo di partecipare al gioco al rialzo dei prezzi, così da potere lucrare, attraverso la vendita successiva, sull’incremento dei prezzi indotto dalla domanda. Non tanto le genuine preferenze botaniche, quanto le aspettative di facile guadagno alimentarono progressivamente la crescita dei prezzi.

Da qui i “semi” della bolla: il fatto che un semplice acconto garantisse la titolarità del bene futuro generava una corsa agli scambi sul mercato dei bulbi di tulipano. Intensità di scambi che progressivamente scollavano l’asset dal suo valore effettivo (in Francia si arrivò a cedere un mulino in cambio di un bulbo). E come succede prima o poi in ogni bluff, si ritorna alla dura realtà con il fragore della bolla che scoppia: fu sufficiente che ad Haarlem un’asta di bulbi andasse deserta per provocare un panic selling incontrollato e per far cadere i prezzi di mercato in tutto il paese. La febbre dei tulipani si tramutò all’improvviso in panico per i tulipani.

“L’economia è anche psicologia, e la psicologia indica questi stati [gli umori ondivaghi degli speculatori] come possibili e probabili, quando le circostanze si affollano in certi tempi e in certi modi” (Galimberti, 2002, pp. 60-61).

Tali argomenti inducono a esaminare lo scenario che stimola tali pulsioni. Se le preferenze a favore del gioco d’azzardo associato all’episodio dei bulbi di tulipano sono spiegabili, almeno in parte, con il tentativo di esorcizzare la paura della morte (la peste nera che in quel periodo colpì l’Olanda, esiziale quanto un esercito invasore), più complessa e articolata è l’analisi del contesto che oggi ripropone le medesime pulsioni nel settore delle criptovalute.

La bolla delle criptovalute

Con un balzo di qualche secolo, passiamo dall’asset-bulbo all’asset-digitale, come viene appunto definita la criptovaluta.

Per apprezzare il fenomeno della bolla nel settore delle valute virtuali, appare opportuno in premessa richiamare alcune connotazioni.

Alcune caratteristiche delle criptovalute

Le monete virtuali non hanno corso legale. Fanno eccezione alcuni paesi, come Argentina e Venezuela dove, evidentemente, la forte volatilità del prezzo delle crypto fa meno paura dell’iperinflazione. In favore dell’Ucraina si è mosso un gran numero di soggetti appartenenti al panorama delle crypto: destinatari delle donazioni i relief fund del governo ucraino. Due testimonianze –quella dell’America latina e quella dell’Ucraina– in cui le crypto mostrano un ruolo rilevante nell’emergenza.

Non avendo corso legale, l’accettazione della moneta virtuale come mezzo di pagamento è solo su base volontaria. Qualora sussista tale consenso, la moneta viene scambiata in modalità peer-to-peer –cioè direttamente tra due dispositivi, senza l’intermediazione di terze parti istituzionali– per acquistare beni e servizi effettivi ovvero Nft (Not fungible token).

 Pertanto, le monete virtuali non sono regolate da soggetti istituzionali governativi, bensì controllate dall’ente emittente che formula proprie regole, accettate dai partecipanti alla comunità di riferimento. Una volta emesse, le valute virtuali possono essere acquistate o vendute utilizzando denaro a corso legale su piattaforme online di scambio; presso queste ultime vengono custoditi i portafogli digitali degli utenti. A differenza degli intermediari autorizzati, le piattaforme di scambio non sono tenute ad alcuna garanzia deontologica di trasparenza (strumenti ottimali, dunque, per riciclaggio, frodi, terrorismo e per il cybercrime in generale), né devono rispettare requisiti patrimoniali o procedure di controllo interno e gestione dei rischi. Questa assenza di regolamentazione pregiudica la possibilità di tutelare efficacemente gli operatori, esposti quindi a condotte fraudolente, al fallimento, alla cessazione dell’attività o alla scomparsa delle piattaforme di scambio (e, con loro, i portafogli digitali in custodia).

Ancora, il numero di unità di criptovalute che può essere prodotto (tramite il c.d. mining) è limitato, la produzione richiede tempo e avviene a costi crescenti.

Costi di non poco momento perché si tratta, tra l’altro, di una produzione energivora, quindi con forti esternalità negative sull’ambiente. Ma, allora, in un mondo in cui si professa l’eco-sostenibilità, quale spazio hanno in prospettiva le criptovalute (il bitcoin e l’ethereum in particolare, le monete virtuali per eccellenza)? Quanti e quali trade-off vanno bilanciati (uno per tutti, efficienza nelle transazioni vs salvaguardia dell’ambiente)?

Le criptovalute strette fra due bolle

Perché il mondo delle criptovalute mostra attualmente segni di sofferenza? La ragione è ascrivibile allo scoppio di due bolle da considerarsi in qualche modo “gemelle”, in quanto una sviluppatasi nel mondo della finanza tradizionale, l’altra in quello della finanza decentralizzata (DeFi).

Nell’ambito della prima, le sorti delle criptovalute risentono in special modo dei destini dei titoli tecnologici a cui esse sono oggi fortemente collegate. Tanto da essere considerate esse stesse titoli “super-tecnologici”.

Si sa, il sentiero di crescita dei titoli hi-tech è minato dal fragore dello scoppio di bolle speculative (una buona sintesi è in Pontrelli, 2022). Le quotazioni dei titoli tecnologici negli ultimi anni avevano raggiunto livelli non giustificabili dai modelli di valutazione finanziaria. Gli speculatori –come in una sorta di coazione a ripetere nel desiderio di diventare ricchi in breve tempo e con il minimo sforzo– sembrano non aver imparato granché dalla storia: come nella bolla dei tulipani e in quelle successive –antiche e moderne– per i titoli tecnologici è prevalsa ancora una volta la “Teoria dello sciocco maggiore” (Pontrelli, 2022). Essa argomenta che il prezzo di un titolo aumenta solo se chi lo possiede è in grado di rivenderlo a qualcuno più “sciocco” di lui/lei, indipendentemente dalla circostanza che il titolo sia sopravvalutato o meno (la bolla si forma e si espande). Quando non si trova nessuno di più “sciocco” a cui rivenderlo, allora il prezzo cade, talvolta rumorosamente (la bolla scoppia).

Perché attualmente non si trovano altri “sciocchi” a cui passare il cerino?

La spiegazione in parte risiede nella natura stessa dei titoli tecnologici: sono titoli “growth” (cioè ad alto potenziale di crescita), tipicamente molto indebitati e di conseguenza fortemente esposti al costo del denaro. Nell’attuale scenario di politiche monetarie restrittive –inedite da lungo tempo– unite al forte rallentamento delle economie e ai tempi di guerra, le incertezze e i timori degli investitori della finanza tradizionale concorrono all’arretramento dei titoli hi-tech.

Parallelamente, a seguito delle massicce vendite, il crollo delle criptovalute (“Cryptonight”), verosimilmente è prodromico dello scoppio della bolla.

Passando alla finanza decentralizzata, essa è un ecosistema che sfrutta diversi tipi di criptovalute e che consente transazioni digitali tra le parti. Il suo nome deriva dal fatto che gli utenti sono in grado di effettuare transazioni finanziarie direttamente tra loro, senza il coinvolgimento di un’autorità centrale, di banche o di altre istituzioni finanziarie tradizionali (si tratta di un caso di democratizzazione della finanza). Soprattutto a partire dall’estate del 2020 sono nati numerosi cripto-progetti che offrono i servizi tipici della finanza tradizionale ma in un ambiente deregolamentato. Ed è proprio questo il nodo più debole di tale contesto. La promessa di guadagni elevati –con il favore dell’opacità– ha richiamato molti investitori-speculatori, le cui aspettative tuttavia hanno fatto loro da boomerang. Gli episodi che narrano delle loro scelte miopi stanno determinando un effetto-contagio e una fuga da questi nuovi e incerti mercati. Se, dunque, la democratizzazione della finanza è un fenomeno positivo, altrettanto necessario è che essa si accompagni ad adeguate garanzie e tutele affinchè il piccolo investitore non sia lasciato da solo a confrontarsi con un mondo a lui/lei sconosciuto e – come l’esperienza continua a dimostrare – pieno di insidie.

Conclusioni: il ruolo degli aspetti psicologici

In comune con i tulipani, le criptovalute si basano su un processo produttivo che richiede tempo e, pertanto, in epoca di “crypto-mania” –esattamente come ai tempi della “tulip-mania”– è la “mania” stessa a creare un eccesso di domanda di mercato rispetto all’offerta, determinando una conseguente lievitazione del prezzo del bene. Il secondo elemento che accomuna bulbi e criptovalute è la circostanza che essi vengono considerati asset, nel secondo caso asset-digitali (Bianco, 2022).

Ma il filo rosso che attraversa i tempi, il contesto di riferimento e il tipo di asset, è il fattore umano. L’impatto sull’andamento dei mercati di umori, percezioni e preferenze degli agenti economici trovano riconoscimenti autorevoli già con Smith e Keynes; più tardi con Katona (1951) e, in contesti decisionali in condizioni di incertezza, primi fra tutti con Von Neumann e Morgenstern.

I modelli à la Krugman (1998) insistono sul ruolo dei fattori psicologici nella spiegazione delle crisi economico-finanziarie e delle bolle speculative.

Il soggetto, quando è immerso nella folla, è contemporaneamente immerso nella follia. La suggestione collettiva è quindi alla base dei movimenti di qualsiasi natura, da quelli fondamentalisti del terrorismo a quelli speculativi.

 

Wired to Connect: dal 1° Congresso CBT-Italia di Firenze un approccio polivagale alla vita

Firenze, dalla seconda giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Report dal workshop a cura della Dott.ssa Antonella Montano, creatrice del modello, e della Dott.ssa Roberta Rubbino, del programma teorico esperienziale di gruppo sviluppato sulla base del lavoro di Stephen Porges e Deb Dana. 

 

Il programma Wired to Connect è strutturato secondo un modello perfettamente bilanciato tra psicoeducazione, in merito ai contributi teorici che ne hanno costituito le fondamenta, e attività pratiche. In questo workshop, la Dott.ssa Montano e la Dott.ssa Rubbino ci accompagnano in una vera e propria esperienza in vivo del programma, strutturato generalmente in un percorso di 12 settimane, rivolto sia agli adulti, di cui ha parlato la prima, sia all’età evolutiva, di cui sentiamo la spiegazione dalla seconda. Da quello che emerge, per la Dott.ssa Montano è fondamentale che il programma venga seguito in modo costante, quanto meno nella presenza agli incontri: questo perché è un modello per il quale ogni sessione è in modo imprescindibile legata alla precedente.

Il background paradigmatico che guida questo programma conta il contributo essenziale della Teoria Polivagale sviluppata da Stephen Porges e Deb Dana. Come sappiamo la Teoria Polivagale ha avuto una ricaduta fondamentale, unica e nuova sia sulla pratica clinica sia in ambito sperimentale. Tuttavia, la Dott.ssa Montano, che si occupa del training per gli adulti, spiega che è fondamentale considerare la neurocezione non soltanto da un punto di vista teorico e di applicazione alla ricerca, bensì come elemento fondamentale per la costruzione concreta e reale di un “assetto integrato mente-corpo” che sia consapevole, giornalmente, dello stato autonomico dell’individuo che abita quella mente e quel corpo.

La neurocezione è un costrutto che indica il processo attraverso il quale il sistema nervoso scansiona il nostro corpo  –tutto il nostro corpo, quindi tutto ciò che contiene, viscere, emozioni, organi, pensieri– ed è un’esperienza sottocorticale, ben al di sotto del pensiero consapevole, perciò non include alcuna attività cerebrale. La neurocezione è presente in ogni cellula del nostro corpo; si occupa di rilevare l’ambiente in cui siamo inseriti, le persone con cui stiamo interagendo, le emozioni che proviamo, ed è il modo in cui il nostro intero organismo si mette in moto al fine di cercare segnali di sicurezza o di minaccia di vita. Come dice Montanopuò funzionare bene, può funzionare male. Una persona davanti allo specchio può regolare la propria neurocezione oppure no, pensando che aumentare di un etto sia un grave pericolo”. Nel loro programma, questo riconoscimento del proprio dialogo mente-corpo e del proprio livello di arousal affettivo e corporeo viene definito “Scala Autonomica” attraverso la quale –ci spiegano le dottoresse–, in modo sia visivo che immaginativo, possiamo comprendere come ai diversi stati affettivi e cognitivi corrispondano tre diversi stati di attivazione.

Durante il Workshop proviamo noi stessi a compilare la mappa del nostro profilo personale, facendo un’esperienza immaginativa e mnemonica di eventi recenti o passati che ci conducono in questi tre gradini della scala. All’ultimo gradino, il più basso, troviamo il sistema dorso-vagale, che corrisponde alle risposte di freezing e di schiacciamento, di congelamento emotivo e di distaccamento dalla realtà a seguito di eventi traumatici complessi; il secondo gradino, quello intermedio, corrisponde al sistema simpatico, il quale ci ricorda momenti di forte ansia o agitazione corporea; il terzo e più alto gradino di questa scala ci chiede, invece, di ricordarci un momento in cui ci siamo sentiti sereni, trovando così nel sistema ventro-vagale. In questo esercizio ci viene chiesto di immaginare visivamente il ricordo e collegarlo a una sensazione precisa di come ci siamo sentiti, descrivendolo con una parola soltanto e con un colore e una sfumatura di più colori (che andranno riportati sulla scala schematica riprodotta sul foglio che abbiamo ricevuto). Infine, grazie alle condivisioni di alcuni partecipanti, emerge un dato molto interessante: esiste una comunanza reale e palpabile tra di noi per quanto riguarda l’associazione dei tre stati di attivazione fisiologica (dorso-vagale, simpatica e ventro-vagale) e i relativi correlati affettivi.

Il programma è ascritto inoltre alla teoria secondo la quale la co-regolazione sia fondamentale per lo sviluppo sano dell’individuo, a partire dall’infanzia per tutto il ciclo di vita. Noi offriamo opportunità di co-regolazione agli altri, e gli altri le offrono a noi, in un continuo scambio che ben si allinea con l’idea secondo la quale vi sia un continuo dialogo tra i nostri sistemi, tra sistema simpatico e parasimpatico come afferma Porges, e i sistemi degli altri individui.

Il programma Wired to Connect dispone di un percorso mirato a sviluppare queste abilità di “riconoscimento autonomico” nei suoi partecipanti. La Teoria Polivagale sfonda il muro del dicotomico, proponendo un nuovo modo di comprendere le interazioni tra mente e corpo: una visione innovativa secondo la quale il sistema simpatico e quello parasimpatico non si attiverebbero in modalità concorrente a seconda dello stimolo endogeno o esogeno, bensì esisterebbe un’interazione continua tra tre livelli progressivi che si attivano a seconda della gravità percepita. In questo sistema a tre, i traumi sarebbero i responsabili dell’elicitazione anomala dei sistemi primitivi, mentre la consapevolezza, come anche la psicoterapia e il supporto co-regolativo delle interazioni sociali sane, favorirebbero l’attivazione dei sistemi più evoluti.

Bambini e co-regolazione

Anche nei bambini è fondamentale supportare l’apprendimento di queste abilità di co-regolazione e di auto-monitoraggio del proprio stato autonomico. Come ci mostra la Dott.ssa Rubbino, la co-regolazione è un bisogno biologico che nasce con noi e si estende per tutto il corso della vita. È un elemento che garantisce la sopravvivenza dell’individuo: per questo l’isolamento è pericoloso per l’individuo, allorché emerge la necessità di favorire nel bambino il suo sistema di ingaggio sociale.

Come nelle teorie attaccamentiste, anche in termini polivagali si parla di cerchio della sicurezza (Circle of Security; Cooper et al., 2020), per il quale lo stato ventro-vagale dei caregiver entra in risonanza con quello del bambino, che si sentirà sicuro, attivando così a sua volta sia il proprio sistema di ingaggio sociale sia il sistema di sicurezza, in un complesso di elementi che costituiscono la base per lo sviluppo di uno stile di attaccamento sicuro. L’interazione attiva con caregiver sicuri darà le basi per l’autoregolazione, perdurando fino alla vita adulta. Come preventivamente e provocatoriamente fa notare la Dott.ssa Rubbino, è impossibile, tuttavia, attivare in modo sistematico i sistemi di regolazione polivagale nella relazione adulto-bambino se prima i caregiver non abbiano saputo riconoscere e gestire la propria scala autonomica.

In questo Workshop, come auditori ci viene offerta non soltanto l’opportunità di esercitarci sulla nostra scala autonomica, ovverosia sulla nostra mappa personale degli stati di attivazione: la Dott.ssa Montano ci esorta a provare con lei anche esercizi di respirazione, quali quello chiamato “Il respiro dell’ape” che aiuta ad allenare l’espirazione, che deve essere più lunga dell’inspirazione al fine di tornare a uno stato ventro-vagale di calma psico-fisiologica, insieme a un altro esercizio di respirazione per il quale durante l’espirazione si emette il suono “VU” che ha la stessa funzione del primo.

A fine Workshop, l’augurio delle Dott.sse per noi partecipanti è quello di riconoscere e restare nel nostro stato ventro-vagale per il resto della giornata: e così ci salutiamo, in un clima di calma e profonda comunanza, dove l’attenzione condivisa e la co-regolazione hanno portato i loro benefici, anche se per un tempo limitato.

 

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Nutrire il corpo e la mente con la mindful eating

Mindful eating significa incorporare la mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, prestando dunque attenzione al cibo e dedicandogli il giusto tempo

 

Mindfulness e alimentazione

 La mindfulness indica l’essere consapevoli e pienamente presenti in ciò che sta accadendo. Sebbene il termine mindfulness possa evocare una sfera esclusivamente circoscritta alla mente, uno dei capisaldi è invece il corpo.

Difatti, nonostante familiarizzare con i nostri meccanismi mentali sia parte integrante del percorso, la mindfulness ha lo scopo di spostare l’attenzione dai singoli processi cognitivi al corpo nella sua integrità, allenandoci a percepirlo dall’interno, a riconoscere i suoi segnali e ad ascoltare quello che vuole comunicare.

In questo senso anche l’alimentazione è un tema estremamente affine.

Sempre più spesso, infatti, la nutrizione affianca il concetto di consapevolezza e assume nuove prospettive.

In questo senso, mangiare in modo mindful significa incorporare la Mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, prestando dunque attenzione al cibo e dedicandogli il giusto tempo.

Questo consente di:

  • favorire il senso di appagamento del cibo che si sta assumendo
  • scoprire pienamente il senso di fame e sazietà
  • comprendere l’origine della fame
  • essere più consapevoli del proprio corpo
  • riscoprire e assaporare pienamente ciò che si mangia

Se quindi la Mindful eating permette di nutrire il corpo e la mente, l’obiettivo non è perdere peso o limitare l’assunzione di cibo, ma assumere un comportamento in cui le reazioni impulsive sono minimizzate e in cui si insegue un’esperienza di vita piena, nel momento presente.

La vita sempre più frenetica a cui siamo sottoposti, infatti, induce non solo ad abitudini alimentari spesso sbagliate ma ad un’attività sbrigativa, in cui la maggior parte delle persone durante i pasti è connessa altrove.

Mangiare non è più un momento di condivisione e di piacere ma una necessità che si realizza in pochi minuti.

Inoltre, specialmente in condizioni di perdita di peso, molte persone avviano una dolorosa battaglia con le calorie in cui ogni pasto viene vissuto come un successo o un fallimento.

Ogni occasione diventa una minaccia alla propria autostima e alla propria autoefficacia, alimentata da pensieri e giudizi negativi sul proprio corpo e sul valore di sé.

Altre volte, invece, un’altra reazione comune che si mette in atto, è quella di ricorrere all’assunzione di cibo in maniera incontrollata e impulsiva pur di attenuare il senso di colpa o di vergogna, ed altre emozioni negative.

Tali comportamenti, pertanto, se cronicizzati, possano assumere il volto di veri e propri disturbi alimentari.

Mangiare in modo mindful esprime, invece, un rapporto equilibrato e positivo con il cibo e con se stessi, in cui il giudizio è sostituito da un atteggiamento di comprensione e gentilezza.

La mente non è più distratta e ogni emozione è accettata e accolta in quanto tale; un’opportunità in grado di interrompere un’alimentazione scorretta e dei pensieri disfunzionali che la sostengono, a favore di un’esperienza di benessere e salute.

(Non a caso, anche nell’ambito dei Disturbi alimentari la Mindfulness sta trovando ampia applicazione attraverso protocolli di dimostrata efficacia).

Si impara, innanzitutto a scegliere, preparare e successivamente a consumare con consapevolezza quello che si dovrà mangiare.

Ma in cosa consiste la mindful eating?

Di seguito alcuni consigli pratici.

 Mangiare consapevolmente è un processo che inizia nel momento della spesa, al supermercato, e nella cura dei prodotti che si scelgono. A tal proposito è bene selezionare cibi, non sulla base delle loro calorie o sulla base della loro immediata disponibilità, ma per esempio alla luce dei loro ingredienti, o dell’uso che ne faremo. Anche le quantità, in questo senso, sono molto importanti.

Altri suggerimenti per avviarsi alla pratica della mindful eating consistono, inoltre nell’osservazione della fame. È importante comprendere la motivazione che spinge a mangiare, cercando di discriminare il reale senso di fame da altri stati emotivi quali la noia, l’ansia, etc.

Prima di iniziare il pasto è utile cercare di eliminare tutte le fonti di distrazione per prestare veramente attenzione al cibo. È auspicabile quindi silenziare o spegnere il cellulare e/o la televisione.

Fondamentale è la fase di osservazione: l’aspetto, la superficie, i colori, la forma e la disposizione del piatto di quello che si sta per consumare.

Mangiare consapevolmente implica masticare lentamente, prestare attenzione, sentendo il gusto nel suo insieme e nelle sue diverse sfumature di sapore.

Quando si porta nuovamente cibo alla bocca (solo quando è completamente ingerito il precedente boccone), bisogna fare attenzione anche alla sensazione di sazietà e se inizia sopraggiungere o se si percepisce il bisogno di cambiare gusto.

Come si può notare la mindful eating non prescrive cosa mangiare e cosa non mangiare, ma insegna come mangiare.

Un’educazione, in questo senso, alla cura del proprio corpo e della propria mente attraverso l’ascolto delle proprie emozioni e dei propri bisogni.

Wolfgang Blankenburg e la perdita dell’evidenza naturale: la descrizione delle psicosi subapofaniche

Con “La perdita dell’evidenza naturale”, Wolfgang Blankenburg ha aperto un nuovo corso all’interno della psicopatologia fenomenologica, concentrandosi sul nucleo basale dell’esperienza schizofrenica.

 

 Le schizofrenie subapofaniche sono quelle patologie della sfera psicotica caratterizzate dall’avere una spiccata componente negativa e disorganizzata, senza però presentare le caratteristiche di quelle che Conrad chiamava “apofanie”. Si tratta di un’entità clinica non facilmente riconoscibile al suo esordio, non essendo caratterizzata spesso dalla sintomatologia produttiva. Esse hanno molte analogie con il modello dei sintomi di base, che è stato per lungo tempo oggetto di studio ad opera di diversi gruppi nel Nord Europa. Lo psicopatologo che più di altri ha analizzato le schizofrenie subapofaniche è lo psichiatra tedesco Wolfgang Blankenburg (1928-2002), andando a ricercare la schizofrenia dove “non c’è o sembra non esserci” (Di Petta, 2012) e aprendo un nuovo corso all’interno della storia della psicopatologia.

I sintomi di base sono codificati dalla BSABS (Bonn Scale Assessment of Basic Symptoms, Vollmer-Larsen et al., 2007): si tratta di alterazioni di natura elementare, aspecifica e acaratteristica di pensiero, linguaggio e caratteristiche confinate alla sfera soggettiva, talvolta difficilmente verbalizzabili. Ballerini osserva che i gruppi di studio che hanno analizzato i sintomi di base, principalmente quelli di Bonn e Copenaghen, sono riusciti a raccordare nella propria metodologia il piano biologico con quello fenomenologico, articolando la nozione di sintomo di base come indicatore “di vulnerabilità endofenotipica” (Ballerini, Rossi Monti, 1992). Nel modello dinamico proposto da Huber, allievo di Schneider, i sintomi di base non sono sufficienti a formulare una diagnosi di schizofrenia; è necessaria la co-incidenza di molte altre variabili (personologiche, antropologiche e ambientali) affinché si sviluppi un processo psicotico (Gross, Huber, 2010). Klosterkötter propone invece un approccio volto alla rilevazione di sintomi e fattori di rischio prima della fase di esordio psicopatologico. Secondo questo modello i soggetti, nelle fasi precoci di malattia, rispondono ai criteri dell’ultra-high-risk (UHR), con manifestazioni cliniche aspecifiche, spesso associate ad un generico declino funzionale. A questa fase fa seguito la early initial prodromal state (EIPS) in cui clinicamente si ha la presenza esclusivamente di sintomi di base; solo successivamente questi soggetti iniziano a sviluppare “sintomi psicotici attenuati” o “sintomi psicotici intermittenti brevi” che determinano l’entrata nella late initial prodromal state (LIPS), seguita dall’esordio psicotico (Klosterkötter et al., 2010).

Ciò che appare interessante è l’idea di un modello dinamico di continuum delle psicosi, secondo il quale i diversi individui possono progredire (temporaneamente o per un lungo periodo) oppure fermarsi in una specifica posizione, dando così vita a possibili traiettorie di percorsi psicotici che possono andare da manifestazioni sub-cliniche alle floride espressioni schizofreniche (D’Offizi, Saullo, Pascolo-Fabrici, 2018).

In linea generale, la difficoltà diagnostica relativa all’inquadramento delle psicosi subapofaniche ricorda molto il riconoscimento dei “prodromi schizofrenici”.

Bleuler lega la schizofrenia ad un concetto di dissociazione (Spaltung) in linea con Janet e il gruppo francese. Già egli, con le sue quattro “A” (autismo, anaffettività, ambivalenza e allentamento dei nessi associativi) aveva descritto in parte la negatività dei fenomeni psicotici. Minkowski, invece, considerava la “perdita dello slancio vitale” alla base della schizofrenia. Andreasen parlava di schizofrenia di tipo “2” per definire quelle patologie a prevalenza di sintomi negativi (Andreasen et al., 1995), Lorenzi e Pazzagli parlavano di “psicosi bianche”(Lorenzi, Pazzagli, 2006), Federn descriveva delle “psicosi latenti” (Federn, 1947).

Schneider analizza invece ciò che è “visibile” e descrivibile, nelle schizofrenie caratterizzate dai sintomi positivi, delineandone i sintomi di primo rango.

Nel 1958 Conrad pubblica, nel suo libro “Die beginnende Schizophrenie”, studi su soldati della Wehrmacht colti nel momento dell’esordio psicotico, descrivendo quindi anche egli processi clamorosi e conclamati. Egli delineò essenzialmente tre fasi nel processo psicotico: il “Trema”, ovvero il terremoto, lo stadio prodromico in cui l’intera psiche appare come circondata da barriere invalicabili e la libertà viene sempre più compressa e limitata; l’”apofania”, intesa come una “immotivata visione di connessioni”, con una “anormale significatività”, che dà comunque luogo a una riorganizzazione del senso; infine, l’“anastrophé”, intimamente connessa all’apofania, caratterizzata da una sorta di inversione – o trasgressione – dell’ordine o delle proporzioni delle cose e dei fatti che accadono (Conrad, 1958).

Prima di Wolfgang Blankenburg, Wyrsch, nel 1971 parlava di quadri clinici simili, descrivendo “Non si può nemmeno dire che i malati non ci riescono, semplicemente non accade nulla. Essi sembrano come usciti dal mondo a tal punto che l’osservatore riconosce d’intuito il male di cui soffrono” (Wyrsch, 1971).

Wolfgang Blankenburg: cenni biografici e la “perdita dell’evidenza naturale”

L’autore ha una formazione filosofica e psicologica portata avanti all’università di Friburgo fra il 1947 e il 1950. Fra i suoi docenti ci furono Eugen Fink, a sua volta allievo di Hussel e Heidegger, e Szilasi, che collaborò con Binswanger. Seguì anche alcune lezioni di Martin Heidegger, il quale in quel periodo era stato forzatamente messo a riposo per le compromissioni con la linea politica nazionalsocialista. Wolfgang Blankenburg si forma quindi nell’immediato dopoguerra, in una Germania condizionata dagli orrori del conflitto mondiale, dall’elaborazione collettiva del senso di colpa e dei processi di denazificazione (Molaro, Stanghellini, 2020).

Nel 1950 decide di studiare Medicina, dove elabora una tesi su uno studio daseinanalitico di un caso di schizofrenia paranoide, che lo porta ad avere i primi contatti con Binswanger.

Blankenburg nel 1971 inaugura un nuovo corso della fenomenologia, descrivendo dei processi meno visibili ma altrettanto patologici: le schizofrenie subapofaniche (rifacendosi al concetto che Conrad definì “apofania”). Si tratta di un termine coniato da Blankenburg stesso, che sta a definire tutte quelle forme di schizofrenia caratterizzate dalla mancata rivelazione di senso: prive cioè di una sintomatologia positiva, delirante, dispercettiva ed ebefrenica e che restano quindi ad un livello sub-sindromico. In questi quadri, secondo l’autore, può essere colto il nucleo basale dell’esperienza schizofrenica, perché non sommerso dalla produzione delirante-allucinatoria delle forme paranoidi (Blankenburg, 1971).

L’autore porta il caso di Anna Rau, una sua paziente, che afferma che “la realtà le sfugge” e ne “perde l’ovvietà”. Si tratta di una ventenne che arriva alla clinica di Friburgo nell’ottobre 1964, a seguito di un tentato suicidio compiuto assumendo 70 compresse di sonnifero. Viene descritta come una ragazza con uno sviluppo tardivo, i cui genitori hanno un rapporto conflittuale che sta sfociando in un divorzio all’epoca del tentato suicidio. Da adolescente, Anne è una ragazzina timida e chiusa, con un buon rendimento scolastico. Tuttavia, come spesso ripete, non si sente “umanamente all’altezza” e le sue difficoltà aumentano nel passaggio al mondo lavorativo, mostrando incapacità ad adattarsi nei contesti in cui si sperimenta.

Ad Anne, dal punto di vista clinico, viene diagnosticata una “schizofrenia paucisintomatica” o “schizofrenia simplex”, nel complesso di una organizzazione anancastica della personalità, con pensieri forzati che la fanno sentire continuamente esposta a situazioni in cui non si sente adeguata.

 Dagli incontri con questa sua paziente nacque infatti il titolo del suo libro: ella, durante un colloquio, afferma, nel tentativo di esprimere l’assenza e il vuoto che la tormentavano: “È senza dubbio l’evidenza naturale che mi manca”. Racconta che “Manca qualche cosa. Qualche cosa di piccolo, di strano, qualche cosa d’importante, d’indispensabile per vivere. Nella vita umanamente non ci sono. Non sono all’altezza. Mi limito a stare lì, sto semplicemente in quel posto, senza essere presente”. Ella perde quindi la capacità di “costituire la realtà” e di “sintonizzarsi con l’altro”; lo si legge bene nelle sue parole: “mi sono mancate le basi. Ciò che precisamente mi manca è poter sapere in maniera evidente quello che so…nei rapporti con altri esseri umani. È proprio questo che non mi riesce”.

Il caso di Anne Rau mostra come le alterazioni basali emergano in primo piano grazie alla capacità della paziente di autodescriversi, indipendentemente da ogni tipo di intervento personale e riuscendo così ad estrarre i momenti strutturali essenziali a partire dagli enunciati del paziente stesso.

La perdita dell’evidenza naturale (natürlichen Selbstverständlichkeit), per Wolfgang Blankenburg, non è un sintomo specifico (come invece lo possono essere un delirio o un’allucinazione), ma si tratta di uno dei “fili conduttori” della metamorfosi schizofrenica. Pertanto, le essenze dei fenomeni patologici, non sono fatti né sintomi, ma strutture che indicano il modo di darsi e di costituirsi del fenomeno stesso. Inoltre, la polarità tra evidenza naturale e non-evidenza, non è da intendersi in senso dicotomico, come “sano” o “malato”, ma in senso dialettico: “la non evidenza non è meno costitutiva dell’evidenza per l’essere-nel mondo umano, semplicemente lo è in modo diverso”.

In qualche modo, l’”epochè” operata del fenomenologo, ovvero la capacità di abbandonare categorie e nozioni diagnostiche accostandosi al malato, assume analogie con la perdita dell’evidenza naturale del paziente schizofrenico: la prima, serve a cogliere che cosa accade quando si verifica la seconda. Secondo Blankenburg, la differenza fra “epochè” fenomenologica e schizofrenica sta nel fatto che il fenomenologo dispone di un filo conduttore (una “bretella elastica”) che gli permette di allontanarsi momentaneamente dal senso comune, per poi ritornare ad esso.

Nelle psicosi subapofaniche viene perso il senso comune, definito come la facoltà di relazionarsi immediatamente e intuitivamente con gli altri, sulla base di schemi psico-motori socialmente appresi, di cui già faceva cenno Kant nella “Critica del giudizio”.

La crisi del senso comune è una crisi della situatività, dell’essere emotivamente situato nel mondo. Si tratta di un concetto pre-riflessivo e pre-verbale che ha il suo fulcro nella corporeità, concetto che va in linea con l’interpretazione fenomenologica della schizofrenia come forma di disembodiment (Stanghellini 2001a,2001b, Fuchs, 2005).

Secondo Blankenburg, è necessario essere consapevoli del fatto che qualunque posizione assunta dal clinico ha influenza sulla storia del malato: la fenomenologia, che significa innanzitutto “orientamento dello sguardo” e “disposizione ad osservare i fenomeni”, deve quindi essere orientamento alla prassi clinica, osservazione partecipativa e partecipazione osservativa.

Wolfgang Blankenburg si interroga su dove sia il disturbo fondamentale alla base del processo schizofrenico, quello che Minkowski chiamava il “disturbo generatore”, dei pazienti “senza delirio e senza mondo” (Di Petta, 2012).

Per Blankenburg il termine “basale” non ha valenza neurobiologica, ma trascendentale: si discosta in questo senso dal lavoro di Huber in merito ai sintomi di base, in cui in riferimento al nucleo basale della schizofrenia veniva anche data una caratterizzazione neurobiologica. Le persone affette da schizofrenia perdono la possibilità di “costituire” la realtà e di “costituire” l’altro. I pazienti, così, in termini preriflessivi sono privi di “attunement” (Ballerini, 2012) con la realtà, sono incapaci di sintonizzarsi con l’altro. I soggetti schizofrenici sono continuamente impegnati a costruire in modo empirico quel substrato, “già fornito” nel soggetto sano, in cui attuare le esigenze della vita concreta. In questa costituzione intersoggettiva dell’evidenza naturale il soggetto schizofrenico, per poter vivere l’esperienza dell’incontro con la realtà, deve sempre, in primo luogo, produrre i presupposti per poter-incontrare.

Questo tipo di processi, essendo tendenti ad essere meno “evidenti” dei fenomeni psicotici produttivi, corrono il rischio di non essere riconosciuti, come anche sottolinea Ballerini nel suo libro che analizza questo tema (“Delia, Marta e Filippo. Schizofrenia e sindromi sub-apofaniche: fenomenologia e psicopatologia”), e pertanto non adeguatamente curati.

È necessaria pertanto un’attenzione particolare verso questi quadri, che non sono solamente successivi ai sintomi positivi, come per primo Kraepelin ha teorizzato, ma anche prodromici e caratterizzanti l’intero decorso della patologia schizofrenica. Questo si può fare coltivando quello che Minkowski chiamava “sentimento di schizofrenicità” o “diagnosi per penetrazione”, ovvero quella sensazione, data dalla formazione didattica e dall’esperienza clinica, che il terapeuta possiede al cospetto del paziente affetto da psicosi, che permette di andare oltre la semplice presenza della sintomatologia delirante e allucinatoria, più facilmente riconoscibile e che gli psichiatri sono più facilmente formati a riconoscere e trattare.

 

Le emozioni a valenza negativa: a cosa servono e come non esserne sopraffatti

Alcune emozioni vengono percepite in modo più forte, risultando più invadenti e capaci di influenzarci. Quando questo accade in seguito ad emozioni a valenza negativa la conseguenza può essere paura immotivata e ansia eccessiva.

 

Le emozioni negative: a cosa servono e come non esserne sopraffatti

 Possiamo pensare alle emozioni come a dei campanelli d’allarme che ci segnalano quando sta accadendo qualcosa che può avere delle conseguenze, positive o negative, su di noi.

In genere si tratta di stati transitori ma possono diventare qualcosa di molto più duraturo, a volte possono essere causa di sofferenze, per questo motivo è importante conoscerle e imparare dar loro il giusto peso.

È possibile rimuovere un pensiero?

Dopo quanto abbiamo detto, la domanda è inevitabile: è possibile imporsi di rimuovere un pensiero? E la risposta è altrettanto inevitabile: no.

A questo proposito citiamo un esempio. George Lakoff, linguista e neuroscienziato, pronuncia questa frase: “Ora per un minuto proviamo a non pensare ad un elefante rosa”.

Proviamoci anche noi.

Assurdo, non è vero? A nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente di pensare ad un elefante rosa eppure ora non riusciamo ad allontanare quell’immagine dalla nostra mente. Ci è impossibile seguire quello che ci è stato chiesto di fare.

La nostra mente sfugge al nostro controllo e ci porta a compiere una disobbedienza involontaria. Si innesca infatti un processo curioso seguendo il quale una parte del nostro cervello cercherà effettivamente di allontanare il pensiero, ma un’altra parte continuerà a controllare che non ci torni in mente e, così facendo, continuerà a rievocarlo tenendolo vivo.

Quindi il tentativo di sopprimere un pensiero finisce col produrre l’effetto paradossale di rendere quello stesso pensiero un’ossessione.

Proviamo ora ad aggiungere un passaggio a questo esperimento. Mentre cerchiamo di allontanare dalla nostra mente l’immagine dell’elefante rosa, ci viene chiesto di non pensare nemmeno alle scimmie blu. Soffici scimmie che ci dondolano intorno sulle loro liane, mangiando banane e sorridendoci amichevolmente… A questo punto che cosa ne è stato dell’elefante rosa? Con ogni probabilità l’avremo almeno in parte accantonato per far posto a questo nuovo “non-pensiero”.

Possiamo quindi concludere che il modo per scacciare un pensiero ingombrante sia quello di sostituirlo con un nuovo pensiero. E se consideriamo che nella nostra mente c’è spazio solo per un certo numero di pensieri, ci è facile capire come, se saremo capaci di riempire questo spazio con molti pensieri positivi, ne resterà molto di meno per quelli negativi.

La chiave è riuscire a “dialogare” con la nostra parte interiore facendo spazio a quello che ha l’effetto di incoraggiarci e farci sentire più forti.

La consapevolezza delle emozioni a valenza negativa

Alcune emozioni vengono percepite in modo più forte, risultando più invadenti e capaci di influenzarci. Quando questo accade in seguito ad emozioni a valenza negativa la conseguenza può essere paura immotivata e ansia eccessiva. Se consideriamo le emozioni come delle sentinelle che ci allertano su quello che sta accadendo per prepararci a rispondere nel modo più adeguato, è facile capire come alla nostra sopravvivenza sia più utile essere consapevoli di situazioni potenzialmente pericolose piuttosto che di situazioni che ci possono rendere felici.

Il problema non sta tanto nel provare emozioni a valenza negativa ma in quello che queste emozioni possono provocare.

 Possiamo notare anche come spesso ci si senta più attratti dalle notizie negative rispetto a quelle positive. Questo risulta evidente anche dallo spazio maggiore che i media riservano alle notizie negative come evidente risposta alle richieste e alle esigenze del pubblico. Secondo uno studio condotto dallo psicologo americano John Cacioppo, che conferma quanto accennato poco fa, si tratterebbe dell’effetto negatività spiegato con ragioni evolutive legate alla nostra sopravvivenza, per le quali ignorare un’informazione negativa sarebbe molto più rischioso che ignorarne una positiva. Ignorare l’arrivo di un ciclone può essere in effetti molto più pericoloso che ignorare una storia a lieto fine. Nonostante questo, la maggior parte delle persone sostiene di preferire le buone notizie alle cattive e afferma che preferirebbe ascoltare un maggior numero di notizie a lieto fine.

Si può anche notare come spesso la nostra cultura ci porti a cercare di evitare la tristezza, a relegarla in un angolo, nasconderla o mascherarla perché ritenuta negativa, un segno di debolezza. Sperimentare la tristezza è invece l’unico modo per imparare a gestirla. Il primo passo necessario è di ammettere a noi stessi e agli altri che siamo vulnerabili. Una delle funzioni principali della tristezza è di far capire a chi ci sta vicino che abbiamo bisogno di lui, del suo sostegno e del suo conforto nei momenti difficili. Inoltre ci aiuta a riflettere e analizzare in modo profondo quello che ci succede per trovare un senso al nostro stato d’animo. Aiuta quindi ad elaborare gli eventi spiacevoli e agisce da sprone nel sollecitare un cambiamento.

L’esempio in un film

“Inside Out” è un film di animazione prodotto dalla Disney e uscito nel 2015. Il tema centrale sono proprio le emozioni, il modo in cui si manifestano, interagiscono fra loro e ci influenzano.

Ne vengono prese in considerazione cinque, che si avvicendano nella vita della piccola protagonista: gioia, rabbia, disgusto, paura e tristezza. La loro utilità risulta da subito ben chiara. Su tutte spicca la gioia, sicuramente presentata come l’emozione dominante, che ha lo scopo di assicurare la felicità alla protagonista. Se la rabbia serve a combattere le ingiustizie, paura e disgusto hanno entrambe un compito di tutela della bimba: la paura serve a metterla al riparo dai possibili pericoli mentre il disgusto la preserva dalle contaminazioni. Risulta invece più difficile, almeno all’inizio, dare una spiegazione della funzione della tristezza.

Nella vita della bambina, sino ad un certo momento, i ricordi sono tutti felici finché un giorno, improvvisamente, la situazione cambia e irrompe improvvisamente un’emozione nuova: la tristezza.

A questo punto le altre emozioni entrano in subbuglio, disorientate da questa nuova presenza, e cercano di ristabilire la situazione preesistente cercando di negare e soffocare la tristezza, ma è un tentativo destinato a fallire.

Conclusioni

Sarà solo nel momento in cui la bimba riuscirà ad accettare la sua tristezza che sarà capace di piangere e questo aprirà gli occhi ai genitori, finora ignari del suo malessere. Da loro arriverà il conforto che riporterà la serenità e l’accettazione della tristezza darà luogo a nuovi ricordi e alla consapevolezza (necessaria a ciascuno di noi) che la vita è fatta anche di frustrazioni, più o meno grandi, che vanno superate per non restarne intrappolati ed essere capaci di indirizzare le proprie energie verso nuovi traguardi.

 

La seconda giornata del congresso CBT-Italia

Raccolgo impressioni sparse della seconda giornata del congresso CBT-Italia, dopo la descrizione più rigorosa che ho fornito della prima.

 

Ho seguito in mattinata il workshop di Antonella Montano “Approccio polivagale alla vita”, un modello e un metodo di gestione degli stati emotivi problematici impostato in esercizi esperienziali che agiscono sull’attivazione orto- e para-simpatica. Non si tratta solo di esercizi ma anche di condivisone con il paziente di nozioni, sia pure semplificate, di neurologia che lo rendono consapevole del suo livello di attivazione neurobiologica, del rapporto tra questa attivazione e una eventuale sofferenza emotiva e di come agire su di esso attraverso gli esercizi. Insomma, si tratta ancora una volta di una formulazione condivisa del caso di un razionale di trattamento che regola l’attivazione emotiva attraverso esperienze corporee invece che attraverso l’elaborazione concettuale. E tuttavia rimane salda in Antonella Montano la radice cognitivo-comportamentale, dato che il malessere emotivo, pur trattato per via esperienziale, rimane definito usando le classiche variabili beckiane delle credenze su di sé, gli altri e il mondo. Molto coinvolgenti le esperienze proposte dal workshop, con una aderenza ancora più forte che in altri casi a esercizi yoga come il respiro dell’ape o quello del fuoco.

Nel pomeriggio ho seguito alcuni simposi dedicati ai disturbi di personalità. Tra i relatori spiccavano, come controparti dialettiche, i colleghi Nino Carcione e Michele Procacci, ospiti benvenuti del congresso CBT-Italia. Ho seguito con particolare attenzione il simposio in cui Carcione, in veste di discussant, dibatteva con Ambra Malentacchi dell’applicazione della Schema Therapy (da questo momento ST) ai disturbi di personalità. Dopo aver apprezzato gli aspetti positivi della ST, un modello che comincia ad avere forti prove di fatto della sua efficacia, Carcione ha espresso qualche dubbio su un eccesso di accoglienza che rischierebbe di caratterizzare la ST, eccesso dovuto all’atteggiamento di reparenting raccomandato al terapista ST, ossia di rigenitorializzazione riparatrice. Naturalmente ha avuto facile giuoco la collega Malentacchi a rispondere che è semplicistico ridurre la rigenitorializzazione al momento dell’accoglienza, dato che il modello ST prevede che in essa ci sia anche la definizione dei limiti, una funzione frustrante e non accogliente. E tuttavia, al di là dell’intrigante e istruttiva dialettica tra Carcione e Malentacchi, mentre ascoltavo non potevo fare a meno di pensare come qualunque modello che attribuisca una funzione chiave alla relazione terapeutica si esponga sempre all’accusa che in esso la gestione della relazione privilegi soprattutto il lato accogliente mentre rischi di trascurare il momento confrontativo e frustrante. Il fenomeno mi sembrava emergere in maniera particolarmente significativa durante il dibattito tra Carcione e Malentacchi perché l’obiezione non veniva emessa da un pulpito anti-relazionale: il modello seguito da Nino Carcione, la terapia metacognitiva-interpersonale, conferisce a sua volta grande importanza terapeutica all’aspetto relazionale.

Forse, piuttosto che accusarsi a vicenda di concepire la relazione in maniera sbilanciata, accusa a cui poi è fin troppo facile controbattere rielaborando il concetto di relazione in maniera più sofisticata (ad esempio, ridefinendo l’accoglienza in termini di cooperazione paritaria contrapposta all’accudimento infantilizzante) occorrerebbe invece che gli studiosi della relazione terapeutica ammettessero la possibilità di questo rischio sia insita nei loro stessi modelli relazionali soprattutto nelle declinazioni più semplicistiche, assumendo quanto sia necessario uno sforzo culturale comune di riconoscimento, che è responsabilità di tutti noi terapeuti, che la relazione non sia ridotta al momento accogliente. Insomma, che la relazione sia solo calore ed empatia e non anche confronto e frustrazione è un pregiudizio che spesso usiamo in maniera strumentale, pregiudizio che poi, a pensarci bene, si trascina dietro il suo gemello speculare: che tutte i modelli che privilegiano il momento intrapsichico rischierebbero di impostare relazioni terapeutiche tendenzialmente frustranti e distanzianti.

Una sorta di pregiudizio cattivistico somministrato a chi non lavora esplicitamente sulla relazione, parallelo al pregiudizio buonista che investe chi invece ci lavora esplicitamente.

Il congresso si è concluso nella serata di sabato con la premiazione dei poster e una commossa cerimonia di chiusura di un evento a lungo desiderato e spesso rimandato dai tanti guai e contrattempi di questi anni difficili. Ci si reincontra tra due anni in una delle tre sedi in lizza: Modena, Palermo o Rimini.

 

CBT-Italia 2022: La seconda giornata

 

Il trattamento del trauma con la DBT-PE (Prolonged Exposure) – Report dalla Relazione Magistrale del Prof. Maffei

Firenze, dalla prima giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Il 4 novembre in occasione del primo congresso nazionale CBT Italia si è tenuta la lezione magistrale “Il trattamento del trauma con la DBT-PE (Prolonged Exposure)” del Professore Emerito in Psicologia Clinica dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, Dr. Cesare Maffei

 

Per chi tratta i pazienti con disturbo borderline di personalità è noto che spesso presentano una storia traumatica e un PTSD, così come i pazienti che soffrono di PTSD presentano grave disregolazione emozionale e comportamentale con rischio suicidario.

La Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) è la terapia di elezione per i gravi pazienti borderline con comportamenti suicidari e parasuicidari, ma nel protocollo non ci sono strategie specifiche per l’intervento sul PTSD.

La DBT combinata con la Terapia di Esposizione Prolungata (DBT-PE)

Per questi motivi Melanie Harned, ricercatrice e collaboratrice di Linehan a Seattle, ha strutturato un intervento che combina la DBT standard per il Disturbo Borderline di Personalità (Linehan, 1993, 2015) con una versione adattata della Terapia di Esposizione Prolungata (PE) per il PTSD (Foa et al., 2019).

Il primo trial randomizzato controllato che compara la DBT standard con la DBT-PE è stato pubblicato nel 2014 da Harned e colleghi a cui sono seguite altre ricerche che hanno portato alla pubblicazione del manuale.

La terapia dialettica prevede differenti stadi del trattamento definiti secondo il livello di gravità della psicopatologia che implica 5 dimensioni: pericolo imminente, disabilità, gravità, pervasività e complessità.

Nello stadio 1 vengono trattati i pazienti con grave disregolazione emozionale e autolesionismo, grave disabilità e pervasività.

Nello stadio 2 viene trattata la sofferenza emozionale che non implica rischi per la vita imminente ma disabilità e pervasività presenti con intensità variabile.

Nella DBT standard l’intervento sul PTSD è previsto durante lo stadio 2. Il problema clinico che ha determinato la necessità di un adattamento è che molto spesso lo stadio 1, per pazienti molto gravi, richiedeva più dei 12 mesi di trattamento previsti da protocollo. Da questo la necessità di anticipare l’intervento sui sintomi del PTSD nella prima fase.

Il protocollo DBT-PE

Il protocollo proposto dalla Harned permette di anticipare l’intervento sugli aspetti traumatici. Il protocollo prevede tre stadi:

  • lo stadio 1 (20 settimane terapia individuale e skill training) che ha come obiettivo il controllo comportamentale e un quadro più stabile;
  • lo stadio 2 (13 sedute di DBT-PE di 90-120 minuti + continuazione DBT stadio 1) che prevede 3 fasi di trattamento:
    • pre- esposizione (2/3 sedute)
    • esposizione immaginativa, in vivo, e elaborazione dei ricordi traumatici (numero flessibile di sedute)
    • consolidamento e prevenzione delle ricadute (1/2 sedute);
  • lo stadio 3: eventuale prosecuzione della DBT per eventuali problemi irrisolti.

Il razionale su cui si basa l’intervento è quello che vede l’evitamento come il comportamento principale di mantenimento del PTSD che clinicamente si manifesta nel cercare di allontanare ricordi, pensieri ed emozioni riguardanti il trauma ed evitare situazioni, persone e oggetti che lo ricordano.

 

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La sintomatologia internalizzante nel contesto scolastico: il ruolo preventivo di metacognizione, insegnamento efficace e programmi evidence-based

Firenze, dalla prima giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Nel pomeriggio della prima giornata di Congresso ha avuto luogo uno dei Simposi dedicati all’età evolutiva, ovvero “La sintomatologia internalizzante nel contesto scolastico: il ruolo preventivo di metacognizione, insegnamento efficace e programmi evidence-based”

 

Nel pomeriggio della prima giornata di Congresso ha avuto luogo uno dei Simposi dedicati all’età evolutiva. Il Simposio, condotto dalla Dott.ssa Clarice Mezzaluna, psicologa psicoterapeuta e Responsabile della scuola di specializzazione di Studi Cognitivi per la sede di San Benedetto del Tronto, ha focalizzato l’attenzione dell’uditorio sulla scuola. Il contesto scolastico è qui inteso come contesto che promuove lo sviluppo socio-emotivo del bambino, in quanto primo ambiente extra-familiare nel quale può mettersi alla prova nelle relazioni sociali con i pari e con gli adulti.

Il benessere degli studenti e degli insegnanti determina il clima in classe che è fondamentale per lo sviluppo adeguato e armonioso del bambino. Perciò, tutelare e promuovere la salute psicologica di bambini e insegnanti attraverso specifici programmi di intervento erogabili proprio nelle scuole ha un importante valore sociale.

Il ruolo degli insegnanti

La Dott.ssa Lucia Candria ci racconta che proprio l’intervento con gli insegnanti è l’oggetto dello studio condotto insieme al gruppo di ricerca. Dato che gli insegnanti possono riscontrare varie difficoltà nel gestire le molteplici sfide quotidiane associate alla loro professione e questo può generare frustrazione, stress e burnout che ha effetti negativi sul clima in classe, è stato proposto un programma di formazione finalizzato a migliorare la comprensione dei comportamenti problematici messi in atto degli alunni, acquisire nuove modalità e strategie di gestione della classe e promuovere una maggiore comprensione e consapevolezza delle difficoltà personali emotive che l’insegnante può incontrare nel proprio lavoro. La Dott.ssa Candria spiega che il progetto formativo ha permesso agli insegnanti di spostare l’attenzione sul riconoscimento precoce delle problematiche e le modalità per affrontarle, sulla gestione proattiva della classe, l’apprendimento cooperativo, l’uso del problem solving e la comunicazione efficace.

Funzioni esecutive, metacognizione e ansia in studenti con e senza DSA

Nell’ottica di esplorare la sintomatologia che interferisce con lo sviluppo adeguato e armonico dell’individuo, la Dott.ssa Marika Ferri introduce lo studio che ha esplorato la relazione tra funzioni esecutive (FE), metacognizione e disturbi d’ansia, in bambini e preadolescenti con e senza DSA. La Dott.ssa Ferri ha riportato che dalle analisi è emerso che la fragilità nelle FE può rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di difficoltà emotive legate all’ansia e che le metacredenze positive possono incidere sulle FE e sull’ansia sperimentata dal bambino. Inoltre sottolinea che la relazione tra FE, metacognizione e disturbi d’ansia è un’importante area di intervento clinica per la comprensione delle vulnerabilità emotive e cognitive nel caso di ragazzi con DSA.

Gli interventi di prevenzione

Infine, degli interventi di prevenzione rispetto a sintomi psicopatologici nel contesto scolastico ci parla la Prof.ssa Simona Scaini, che discute i risultati di un suo recente studio sull’utilizzo del Cool Kids Program proposto in alcune scuole come programma universale per la prevenzione dell’ansia infantile. La Prof.ssa Scaini ci aiuta a capire che per universale si intende un programma di prevenzione offerto alla popolazione generale e senza screening clinico, quindi non a una specifica popolazione subclinica. Poi prosegue illustrando lo studio e o risultati, i quali mostrano che a seguito del programma i ragazzi (10-13 anni) hanno mostrato una significativa diminuzione dei sintomi ansiosi, soprattutto riguardo all’ansia totale, somatica, generalizzata, da separazione, sociale e fobia scolare; inoltre, anche i sintomi depressivi sono diminuiti dopo il trattamento. La Prof.ssa Scaini evidenzia la necessità di replicare lo studio discusso, sebbene esso contribuisca a validare il Cool Kids come programma universale evidence-based per la prevenzione dell’ansia infantile nel contesto scolastico.

Per concludere, la Dott.ssa Ludovica Giani, in qualità di Discussant, pone degli interessanti quesiti ai relatori riguardo al ruolo, quale fattore di rischio o protezione, dell’esperienza degli insegnanti nel riuscire a creare un adeguato clima in classe, riguardo alla gestione della comorbilità tra DSA e ADHD e riguardo al rischio di non lavorare in parallelo con i genitori per la gestione dei sintomi internalizzanti in un programma come il Cool Kids Program. Le domande sono di così ampio respiro che fungono da spunti di riflessione da cui poter partire per progettare nuovi studi oppure –perchè no– un congresso specifico!

 

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Coltivare la flessibilità psicologica: interventi basati sull’ACT e RFT con le persone con Autismo e Disabilità Intellettiva

Firenze, dalla prima giornata del Congresso CBT-Italia 2022.

Il settimo simposio della prima giornata di congresso CBT-Italia ha come argomento gli interventi basati sull’ACT e RFT con le persone con Autismo e Disabilità Intellettiva 

 

Il settimo simposio della prima giornata di congresso CBT-Italia è stato condotto da Roberto Cavagnola, psicologo e psicoterapeuta, dirigente sanitario della Fondazione Istituto Ospedaliero di Sospiro – Onlus (CR). Il dott. Cavagnola ha introdotto gli interventi sottolineando come la Relational Frame Theory (RFT) e l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), in continuità con i principi dell’analisi del comportamento, possano offrire soluzioni efficaci per affrontare difficoltà specifiche delle persone con Disturbo dello spettro autistico (ASD), che potrebbero essere collegate alla rigidità e all’inflessibilità psicologica.

Relational Frame Theory, apprendimento e comportamento

Il primo relatore, lo psicologo e psicoterapeuta Simone Napolitano, ha iniziato con una metafora legata all’ex pilota di Formula 1 Niki Lauda: il terapeuta è come un pilota, non serve conoscere la componente ingegneristica del motore per essere un pilota. Ciò nonostante, una conoscenza approfondita del funzionamento meccanico ha permesso a Niki Lauda di essere un buon pilota, un pilota efficace e flessibile.

Il dott. Napolitano ha poi brevemente introdotto la Relational Frame Theory (RFT), come teoria che spiega come gli esseri umani siano in grado di mettere in relazione stimoli ed esperienze in modo arbitrario, al di là delle loro caratteristiche fisiche. Le relazioni simboliche che creiamo tra stimoli a partire dall’esperienza diretta entrano a far parte della nostra storia di apprendimento. In questo modo il comportamento comincia a essere regolato da regole verbali, le quali ci anestetizzano rispetto alle contingenze dell’ambiente presenti nel qui ed ora, irrigidendoci e allontanandoci dall’esperienza diretta. Il linguaggio è in grado di restringere il nostro repertorio comportamentale e quindi portarci all’evitamento esperienziale.

Per questo motivo, il linguaggio e la cognizione sono coinvolti nel mantenimento di alcuni comportamenti verbali complessi legati al Disturbo dello spettro autistico. Ciò è particolarmente vero per coloro che hanno un funzionamento verbale più alto, i quali presentano più frequentemente forme complesse di regole e un’osservanza disadattiva di esse.

La Relational Frame Theory aiuta a portare i pazienti dal lato opposto: sviluppando nuovi repertori e rendendoli maggiormente sensibili alle contingenze contestuali. Per farlo, il dott. Napolitano ha illustrato i tre processi principali su cui lavorare in terapia, affiancandoli con dei video esemplificativi:

  1. sensibilità alle contingenze contestuali: naming (framing di coordinamento), distinction (di distinzione), tracking (temporali, condizionali, di paragone);
  2. perspective taking (framing deittici): evocare prospettive differenti, situazioni e momenti di vita, favorire un atteggiamento di apertura;
  3. promuovere un senso gerarchico del sé: training di distinzione e training gerarchico.

Ha poi richiamato l’attenzione sui fattori contestuali che governano alcuni comportamenti verbali complessi legati al Disturbo dello spettro autistico e su come questi possano essere modificati in ambito clinico per aiutare le persone a interpretare la realtà.

Infine, il dott. Napolitano ha concluso l’intervento riportando le parole di un paziente “Vorrei vivere un solo giorno senza imprevedibilità, senza casualità. Vorrei sapere esattamente cosa penseranno, immagineranno e faranno le persone intorno a me…“.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

ACT RFT AUTISMO immagine 1 - Report da congresso CBT-ITALIA
Imm. 1 – Le parole di un paziente

Autismo e flessibilità psicologica

A seguire, il dott. Davide Carnevali, psicologo e psicoterapeuta presso l’Istituto Ospedaliero di Sospiro, ha messo nuovamente in luce l’importanza di coltivare la flessibilità psicologica con le persone con Disturbo dello spettro autistico e/o Disabilità Intellettiva (DI) e di avere una buona teoria alla base delle tecniche applicative. Richiamando un recente studio di Steve C. Hayes (2022), ha posto il focus proprio sulla flessibilità psicologica, risultata essere il principale agente di cambiamento nel campo della salute mentale. La flessibilità psicologica risulta essere al centro dei processi di funzionamento del modello ACT e la sua compromissione contribuisce notevolmente a rendere tali processi da fisiologici a patologici (vedi Figura 2) e, quindi, a sviluppare forme psicopatologiche.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

RFT ACT AUTISMO - Imm. 2 - CONGRESSO CBT-ITALIA
Imm. 2 – I processi di flessibilità psicologica: dal fisiologico al patologico

In seguito, citando nuovamente Hayes e il suo recente libro A Liberated Mind: How to Pivot Toward What Matters (2020), ha esposto quelli che sono i bisogni innati sottostanti ai processi della flessibilità psicologica:

  • appartenenza e interdipendenza (sé come contesto);
  • coerenza e comprensione (defusione cognitiva);
  • orientamento (contatto con il momento presente);
  • sentire (accettazione);
  • competenza (azione impegnata);
  • senso e direzione [desiderio di auto-affermazione] (valori).

In particolare, uno dei focus degli interventi con le persone con Disturbi del neurosviluppo (DNS) potrebbe essere la mindfulness, in quanto essa consente di lavorare sul contatto col momento presente e, quindi, di rispondere al naturale bisogno di orientamento al contesto.

A questo proposito, il dott. Carnevali ha presentato uno studio pilota che consisteva nell’applicazione di un intervento basato sulla mindfulness con un gruppo di giovani adulti con DNS, dal titolo “Un piccolo viaggio consapevole”. L’intervento è stato suddiviso in 10 incontri a cadenza settimanale, durante i quali sono stati affrontati tutti i processi dell’ACT. Ogni incontro era così organizzato:

  1. ritrovo;
  2. saluto;
  3. storia contenente una metafora che riguardava il processo affrontato;
  4. 1 o 2 esercizi di mindfulness condotti dall’operatore;
  5. discussione e condivisione;
  6. 1 esercizio di mindfulness condotto da un partecipante;
  7. discussione e condivisione;
  8. merenda finale.

Lo studio ha mostrato risultati promettenti relativamente ai processi dell’ACT, avvalorando l’ipotesi che esercizi di mindfulness modificati e riadattati possono mantenere la loro salienza ed efficacia anche quando proposti a persone con ASD o DI.

Dopo di che, il dott. Carnevali ha proseguito il suo intervento focalizzandosi sul “dare valore” come comportamento e sul colloquio sui valori per le persone con DNS. Ha quindi spiegato qual è il rapporto tra preferenze e valori: si tratta di due aspetti che appartengono a uno stesso continuum. L’analisi sottostante ha a che vedere col fatto che le preferenze non hanno alcun ponte verbale e sono definite dalle semplici proprietà fisiche (rinforzanti) degli stimoli. Tra le preferenze e i valori ci sono gli obiettivi e i desideri, i quali prevedono già un’elaborazione verbale (“cosa desidero ottenere adesso”). Infine, i valori rappresentano una proiezione dell’elaborazione verbale nel tempo.

Disturbo dello Spettro Autistico e Valori

A questo punto, è stato mostrato un contributo online da parte del dott. Giovanni Miselli (psicologo, psicoterapeuta e peer reviewed ACT trainer), il quale ha condotto un Colloquio sui valori con una donna con Disturbo dello Spettro Autistico. Tale procedura comincia con una fase di modeling, durante la quale il terapeuta sceglie le carte rappresentanti i valori più importanti per lui in quel momento e suggerendo al paziente le domande da fargli. Il terapeuta poi posiziona le carte selezionate sul “podio” classificandole in tre ordini di importanza e sceglie una sola carta, raccontando perché è importante. Dopo di che, i ruoli si invertono e il terapeuta guida il paziente nell’esplorazione dei propri valori attraverso le carte, per poi concludere con la scelta di una piccola azione impegnata che vada in direzione del valore scelto.

Il Colloquio sui valori illustrato dal dott. Miselli è uno strumento utile per indagare i valori di una persona, utilizzando il supporto visivo delle carte, e di metterli in gerarchia.

Per concludere, il prof. Paolo Moderato ha ripreso la metafora di Niki Lauda: “Non possiamo aggiustare il motore di una persona ma possiamo far sì che in certi contesti quel motore funzioni meglio”. Ha poi invitato a riflettere sulla differenza tra costrutti, processi e repertori, mettendo in guardia dal rischio di reificare i processi.

 

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Cognizioni e rabbia in un campione di adolescenti italiani: la validazione della Anger Cognition Scale – Revised

L’articolo di Scaini e collaboratori recentemente pubblicato (2021) presenta i dati di validazione della versione italiana del questionario Angry Cognition Scale-Revised (ACS-R; Soto and DiGiuseppe , 2016), testato su un campione italiano di 180 adolescenti di età compresa tra gli 11 e i 18 anni.

 

La rabbia disfunzionale e la Angry Cognition Scale

Le problematiche in merito alla regolazione della rabbia e ai comportamenti aggressivi nei bambini e negli adolescenti sono tra le motivazioni più frequenti alla base delle richieste di aiuto rivolte ai professionisti della salute mentale (Sukhodolsky et al., 2016). Le teorie cognitive-comportamentali della rabbia (si vedano ad esempio, Beck, 1999; Defenbacher, 1996; Dryden, 1990; Ellis, 1977) hanno sottolineato il ruolo chiave di bias cognitivi nei processi di elaborazione dell’informazione e una modalità di pensiero rigida tra gli individui che presentano difficoltà nella regolazione della rabbia. Sia Ellis (1994) che Beck (1999) ipotizzano che via siano pensieri eccessivamente negativi, credenze irrazionali e atteggiamenti disfunzionali che co-occorrono con un’emozione di rabbia disfunzionale e maladattiva.

La Angry Cognitions Scale (ACS; Martin & Dahlen, 2007) è un primo strumento self-report che è stato messo a punto in ambito statunitense per esaminare i costrutti cognitivi e le credenze correlate alla rabbia. La scala ACS richiede al soggetto di leggere e di immedesimarsi in nove diversi scenari emotigeni -possibilmente attivanti l’emozione di rabbia. Al termine della lettura di ogni scenario, al soggetto viene richiesto di dare un punteggio ad alcuni items che rappresentano le categorie dei pensieri che si potrebbero attivare nell’esperire quella situazione.

A partire dalla ACS, Soto and DiGiuseppe (2016) hanno rivisto lo strumento in questione, ampliando le categorie dei pensieri che si potrebbero attivare nella persona che si trovi a vivere le diverse situazioni proposte. In particolare, dopo avere letto uno scenario vengono proposti al soggetto 7 items che rappresentano sette tipologie di credenze negative: 1) “Doverizzazione” – che la situazione non avrebbe dovuto verificarsi: “Le persone avrebbero dovuto farmi passare e devono imparare a guidare!”; 2) “Catastrofizzazione della situazione”: “È terribile essere trattato cosi da uno sconosciuto”; 3) “Attribuzioni ostili”: “si comporta così solo per farmi arrabbiare”; 4) “Intolleranza della frustrazione”: “Non sopporto di dovermene occupare”; 5) “Appellativo-etichettamento offensivo” della persona le cui azioni avrebbero causato il problema: “Quello stupido sciatto!”; 6) “Ipergeneralizzazione”: “Non rispettano mai le mie indicazioni, questo posto è completamente inutile”; 7) “Conseguenze negative della rabbia”: “Arrabbiarsi non è di aiuto alla nostra relazione”.  In seguito, le risposte date agli item che rappresentano le 7 categorie di pensiero vengono sommate per i nove scenari proposti, in modo da avere un totale per una subscala relativa a ciascuna categoria di pensieri.

Questa versione della scala rivista e modificata da Soto e Di Giuseppe (2016) è denominata Angry Cognition Scale-Revised (ACS-R; Soto and DiGiuseppe , 2016). Tale versione rivisitata mira a rappresentare in maniera più completa ed esaustiva la teoria delle idee irrazionali di Ellis e delle credenze correlate all’emozione della rabbia.

La validazione italiana della Angry Cognition Scale-Revised

L’articolo di Scaini e collaboratori recentemente pubblicato (2021) presenta i dati di validazione della versione italiana del questionario Angry Cognition Scale-Revised (ACS-R; Soto and DiGiuseppe , 2016), testato su un campione italiano di 180 adolescenti di età compresa tra gli 11 e i 18 anni. Il campione è ben bilanciato per il genere e bambini e ragazzi affetti da gravi disabilità intellettuali o disturbi del neurosviluppo sono stati esclusi dallo studio. Inoltre, il 50.6% dei soggetti frequentava la scuola secondaria di primo grado e il 49.4% la scuola secondaria di secondo grado.

Lo studio ha avuto l’obiettivo di verificare la struttura fattoriale della Angry Cognition Scale-Revised (ACS-R, versione per adolescenti), di approfondire le caratteristiche psicometriche relative alla coerenza interna dello strumento e l’affidabilità test-retest nella cultura italiana. Infine, è stata verificata anche la validità convergente con altri questionari e la validità predittiva della ACS-R (versione per adolescenti). La validità predittiva è stata valutata testando la correlazione tra i punteggi della ACS-R e i punteggi ottenuti da strumenti self-report somministrati ai partecipanti dello studio e riguardanti problemi esternalizzanti (ad esempio, problemi di condotta, di self-control, di devianza dalle regole e comportamenti aggressivi).

Dai risultati è emerso che la struttura fattoriale della ACS-R, per come proposta dallo studio di Soto and DiGiuseppe (2016) nel campione americano, non è pienamente confermato nel campione italiano.

L’analisi fattoriale sul campione italiano supporta un modello multidimensionale, anche se la distribuzione degli items si differenzia rispetto al modello originale.

In particolare, dall’analisi fattoriale sui dati italiani è emerso come significativo un modello a tre fattori (e non a sette).

Pertanto, in relazione ai dati di validazione sul campione italiano, Scaini e colleghi (2021) hanno nominato i tre fattori del modello come segue: Fattore 1, definito come “Ostilità verbale e attribuzioni cognitive catastrofiche”, Fattore 2 definito come “Pensieri adattivi sulle conseguenze negative della rabbia” e Fattore 3 “Doverizzazione e ipergeneralizzazione”. La coerenza interna è apparsa ottimale per tutti e tre i fattori sopra definiti, e in generale le analisi hanno dimostrato una buona affidabilità test-rest e una buona validità convergente della scala.

Infine, è stata riscontrata una buona validità predittiva: la scala appare essere uno strumento valido e affidabile per rilevare pensieri e credenze relative alla rabbia, e quindi un utile supporto per identificare adolescenti a rischio di sviluppare sintomi esternalizzanti, problemi nella disregolazione della rabbia e comportamenti aggressivi.

Lo strumento consente un’indagine più specifica delle credenze che possono predisporre a comportamenti aggressivi e a emozioni di rabbia disfunzionale, offrendo anche la possibilità di disputare in terapia le credenze irrazionali con maggiore specificità.

In conclusione, la validazione della scala ACS- R (Soto & Di Giuseppe, 2016) e le analisi delle caratteristiche psicometriche in un campione di popolazione di adolescenti italiani si configura come un passo importante per la ricerca e per l’assessment in ambito clinico degli aspetti cognitivi e delle credenze relative alla rabbia.

 

Quando sarò grande (2021) di Maria Dek – Recensione

“Quando sarò grande” è un libro importante in questi tempi, un racconto da leggere e rileggere per nutrire i sogni e la speranza attraverso il gioco e la bellezza.

 

 Maria Dek è un’autrice e illustratrice polacca, che lavora a Bilowieza, la foresta più antica d’Europa. Nei suoi libri invita i bambini nel suo posto preferito, nella natura. Ogni libro è un’immersione in una foresta, nel verde, nel bosco.

Ha conseguito due lauree presso l’Accademia di Belle Arti di Varsavia e l’Università delle Arti di Londra. Il suo primo libro è stato “Camminando nel bosco”, pubblicato in Italia con Animamundi nel 2021; sempre nello stesso anno è uscito in Italia, con 24 Ore Cultura 2021, “Quando sarò grande”.

Maria Dek con “Quando sarò grande” accompagna i bambini a dar voce ai loro pensieri. Tutti i piccoli aspirano a diventare grandi, a sentirsi grandi e quando lo sognano si sentono immensi, e così anche i loro sogni diventano enormi, fuori misura.

“Quando sarò grande farò 7 mestieri diversi per ogni giorno della settimana”, e questo è solo uno dei pensieri “stravaganti” dei bambini che non conoscono il senso della misura, ma che non hanno paura di inseguire i propri sogni anche se sono più di uno.

Un racconto semplice, ma avvolgente, si serve dei numeri per “misurare” la  grandezza dei sogni dei bimbi.

Ogni bambino, d’altronde, sogna di diventare grande, e pensa che raggiungere questa meta significhi poter realizzare tutte le cose “impossibili”, tutte quelle cose che desidera e non riesce a realizzare. Sognare è questo per i bambini: sperare nell’impossibile.

Un racconto incalzante, fluido, scorrevole, accompagnato da immagini semplici ma evocative.

I colori tenui trasmettono la calma, i tratti quasi “ingenui” dei disegni trasmettono purezza e le parole, come una dolce melodia, accompagnano questa storia che si legge con la voglia di vedere cosa c’è di più grande ad ogni pagina.

 Un libro importante in questi tempi: coltivare nei bambini il seme che tutto ciò che si sogna possa in qualche modo diventare la propria realtà. Un racconto da leggere e rileggere per nutrire i sogni, la speranza attraverso il gioco e la bellezza.

Gli adulti lo leggeranno con un sorriso sulle labbra e un gran senso di tenerezza, ricordando quando loro hanno pensato quelle stesse cose da bambini. I piccoli lo leggeranno con gli occhi spalancati e la bocca aperta, meravigliati che qualcuno abbia saputo dire quello che loro a volte hanno pensato.

E quando si giunge all’ultima pagina, adulto e bambino penseranno di aver camminato in una foresta con alberi enormi, ma tanto grande da poter contenere tutti i loro pensieri, e li lascerà con una domanda “E tu cosa farai quando sarai grande?”.

 

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