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I luminari della prima impressione

Una raccolta dei pensieri dei grandi psicoanalisti del passato come Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson, che hanno dato un contributo unico e straordinario alla comprensione e all’uso clinico delle capacità intuitive.

(NdA) Questo articolo lo vorrei dedicare al Dott. Giorgio Ferri, Medico Psichiatra, Primario di Psichiatria di Imola, purtroppo recentemente scomparso. Principale Maestro tra i miei Maestri.  

 

Riassunto

Nei miei ultimi due articoli (Theodor Reik e la comprensione psicoanaliticaIl paziente espressivo e il terapeuta curioso), pubblicati entrambi sulla Rivista online State of Mind, ho cercato di avvicinarmi sempre di più al concetto di intuizione (alquanto sfuggente e complesso) e al suo utilizzo clinico (soprattutto durante il primo incontro col paziente), attraverso una riflessione personale sul pensiero geniale dello psicologo psicoanalista Theodor Reik, allievo e pupillo di Sigmund Freud, su tale facoltà del terapeuta.

Nel presente lavoro tento di approssimarmi ulteriormente all’essenza di tale facoltà umana e clinica, ‘reclutando’ i pensieri di altri grandi psicoanalisti del passato come Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson, che hanno dato, a mio parere, un contributo unico e straordinario alla comprensione e all’uso clinico delle capacità intuitive.

Introduzione

Il titolo del presente lavoro non è ‘farina del mio sacco’, ma della prima interazione clinica che ho avuto, durante la primavera del 2022, con una Signora anziana, di un certo livello culturale, inviatami da un Collega Specialista per una depressione cronica con colon irritabile, nell’ambito di un disturbo di personalità. Con questa paziente mi sono confrontato apertamente sull’importanza della prima visita (che può ovviamente, come spesso accade, anche essere l’ultima) per la comprensione e la cura del caso clinico, segnalandole anche l’estrema importanza dell’uso immediato delle abilità intuitive del terapeuta, oltre che, ovviamente, di quelle logico–analitiche, delle sue esperienze precedenti, conoscenze e competenze. La Signora mi ha ascoltato e poi, improvvisamente, mi ha detto: “Ma allora, Lei è un ‘luminare della prima impressione’!”. Sono rimasto profondamente colpito da questa sua definizione creativa e ironica di me stesso! Ho visto questa paziente 3 volte in tutto e due volte l’ho sentita telefonicamente.

Dal 2007 a tutt’oggi mi sto occupando della prima visita psichiatrica, di terapia a seduta singola, da me successivamente fatta evolvere in consultazione terapeutica bi–sistemica singola, bi-sistemica data appunto l’importanza da me data all’uso ed all’integrazione immediata delle abilità intuitive e logico–analitiche del terapeuta. Non vi dico quanti libri, quanti lavori scientifici ho reperito nel corso di questi anni, materiali che ho studiato e selezionato per scrivere svariati miei contributi sull’argomento, che ritroverete tutti citati nella bibliografia dei due miei articoli già precedentemente pubblicati sulla presente Rivista, incentrati sul pensiero di Theodor Reik (Gherardi, 2019, 2020).

La definizione di ‘luminare della prima impressione’, ricevuta improvvisamente da questa paziente, più che farmi pensare, ad esempio, a Sigmund Freud (grandissimo genio intuitivo, ma che ha scritto molto poco su tale abilità), più che farmi ricordare Carl Gustav Jung (che ha posto l’intuizione al centro della sua psicologia analitica), ha invece stimolato e indirizzato il mio pensiero verso quel profondo e fecondo periodo storico-scientifico, tra gli anni ’30 e ’60 del secolo scorso, e, in modo particolare, agli illuminanti contributi non solo di Theodor Reik, ma anche di Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson.

Theodor Reik

L’Autore dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua “response” globale al paziente (Reik, 1936, 1948). A mio parere, l’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso clinico (Gherardi, 2019).

La naturale tendenza del paziente all’espressività e la spontanea controtendenza del terapeuta alla curiosità clinica (Reik, 1933, 1967) catalizzano un’accelerazione interattiva del processo comprensivo e terapeutico già durante il primo incontro. Il paziente tende spontaneamente ad aprirsi, confidarsi, confessarsi, auto-tradirsi col terapeuta che, a sua volta, ha una sana curiosità (né narcisistica, né epistemofilica) a recepire l’essenza dell’interlocutore. Da questa base scaturisce una dinamica interattiva a vari livelli (conscio, preconscio ed inconscio). In modo particolare, l’intersoggettività inconscia primaria può portare ad una profonda comprensione e cura del caso anche già dal primo incontro (Gherardi, 2020).

Erik Berne

Berne (1992) dà dell’intuizione una definizione pragmatica basata sulla sua esperienza clinica. “L’intuizione è la conoscenza basata sull’esperienza acquisita attraverso il contatto sensoriale con il soggetto, senza che ‘chi intuisce’ riesca a spiegare esattamente a se stesso o agli altri come è pervenuto alle sue conclusioni. Oppure, in termini psicologici, è la conoscenza basata sull’esperienza e acquisita mediante funzioni inconsce o preconsce preverbali attraverso il contatto sensoriale con il soggetto”. Tale funzione è favorita notevolmente da un atteggiamento mentale che l’Autore definisce come ‘disposizione intuitiva’.

Nel sottomettere le forze dell’Es, l’uomo spesso imprigiona molte cose che gli potrebbero essere utili e benefiche. Molti potrebbero coltivare le facoltà intuitive senza danneggiare la loro personalità e l’esame di realtà.

La diagnosi è un processo configurativo. I processi diagnostici preliminari nei clinici esperti si basano sull’analisi di configurazioni al di sotto del livello di coscienza e non, come nei principianti, sulla sintesi consapevole (aggiuntiva) di mosaici di osservazioni. Un’intuizione è un genere speciale di diagnosi derivante da processi arcaici subconsci (inconsci e/o preconsci). Le intuizioni, in quanto percepite coscientemente, sono derivati di giudizi primari, che sono basati su immagini primarie attivate da comunicazioni latenti. I giudizi primari nella pratica clinica hanno maggiore efficacia durante il primo colloquio. Ciò concorda con l’esperienza che riguarda l’intuizione. Si è rilevato che, in generale, la conoscenza del terapeuta rappresenta un ostacolo al processo diagnostico intuitivo. La precisione intuitiva tende a diminuire non appena alla prima impressione del terapeuta si sovrappongono il materiale clinico e le reazioni provocate dalle difese e dalle operazioni di protezione da entrambe le parti, cioè quello che è il processo di coinvolgimento tra il paziente e lo psichiatra. Ciò può essere evitato solamente se la relazione terapeutica viene mantenuta analiticamente pura e incontaminata. I giudizi primari effettivamente appartengono ai primi 10 minuti, un periodo decisivo e importante dello sviluppo di qualsiasi relazione interpersonale.

L’empatia ha una connotazione di identificazione. L’intuizione non ha essenzialmente niente a che fare con tali forme adulte di identificazione. Ha a che fare con l’elaborazione automatica delle percezioni sensoriali. Alcune persone mostrano resistenza, ansia nei confronti dell’intuizione, per cui l’Autore afferma: “Dev’esserci qualcosa di potenzialmente pericoloso in questa facoltà”. Diagnosi e paranoia derivano analogamente entrambe da giudizi primari.

Il clinico intuitivo può essere descritto come un individuo curioso, mentalmente vigile, interessato e pronto a ricevere comunicazioni latenti e manifeste dai suoi pazienti. Dal punto di vista genetico, questi atteggiamenti sono derivati ben sublimati di scopofilia, vigilanza (paranoia)  e recettività orale. Sebbene l’intuizione sia per natura un processo arcaico, rivelando i suoi prodotti più facilmente quando le facoltà neo-psichiche sono inattive, non può essere definita una manifestazione dell’Es, ma una facoltà dell’Io arcaico. È un fenomeno archeo-psichico. Quelle che per l’archeo-psiche sono conclusioni diventano per la neo-psiche dati da elaborare.

Richard Board

La sintesi intuitiva del materiale associativo scaturisce dall’inconscio creativo dello psicoanalista. Il ragionamento scientifico non richiede una consapevolezza delle regole logiche, per cui ciò non può essere considerata una differenza primaria tra la concettualizzazione scientifica e quella intuitiva. L’intuizione spesso appare all’improvviso nella coscienza, ma differisce dall’induzione e dalla deduzione lineare, che richiede un ordine metodologico di simboli e di osservazioni empiriche accurate. L’intuizione è un metodo per formulare ipotesi, che vanno successivamente validate. Lo studio dei processi inconsci in psicoanalisi è probabile che sia facilitato da una modalità di formazione dei concetti da parte dell’intuizione, di cui alcune componenti empiriche sono osservazioni inconsce (Board, 1958).

Ralph R. Greenson

Secondo Greenson, l’empatia e l’intuizione sono correlate. Entrambe sono metodi speciali per una rapida e profonda comprensione del paziente. L’empatia serve per raggiungere i sentimenti; l’intuizione per avere idee. L’empatia è per gli affetti e gli impulsi ciò che l’intuizione è per il pensiero. L’empatia conduce spesso all’intuizione. La reazione ‘aha’ è intuita. Arrivi ai sentimenti e alle immagini attraverso l’empatia, ma è l’intuizione che dà il segnale nell’Io analitico che tu hai veramente compreso il paziente. L’intuizione coglie gli indizi che l’empatia raccoglie. L’empatia è essenzialmente una funzione dell’Io esperienziale, mentre l’intuizione deriva dall’Io analizzante. Ci possono essere antitesi tra le due. Gli empatici non sono sempre degli intuitivi e gli intuitivi sono spesso degli empatici inaffidabili.

Sia l’intuizione che l’empatia danno a una persona un talento per la psicoterapia; i terapisti migliori sembrano possederle entrambe. L’empatia è un requisito di base; l’intuizione è un “extra bonus” (Greenson, 1960).

Conclusioni

Arrivo direttamente alle conclusioni di questo mio contributo: Ritengo che questi Autori, nei lontani anni ’30, ’40, ’50 e ’60 del secolo scorso abbiano toccato vette di pensiero così alte da non essere ancora stati superati nel XXI secolo, nonostante gli innumerevoli e variegati contributi scientifici successivi (psicologici, psicoanalitici e delle neuroscienze). Per questo motivo, cerco di attirare l’attenzione del lettore su queste lontane e rare eccellenze. La Signora da me citata nell’introduzione, quella che, involontariamente, mi ha dato l’idea di scrivere questo articolo, definendomi creativamente ed ironicamente un “luminare della prima impressione”, mi ha anche detto di se stessa: “Mi annoio a parlare di me, a raccontarmi”. Ebbene, io non mi annoio a parlare di me, ma il mio obiettivo è solo quello di trasmettere al lettore la passione che, dal 2007 ad oggi, mi ha preso nel cercare di sviscerare e di tentare di raggiungere l’essenza di tale facoltà intuitiva subconscia che, come l’intelligenza (probabile sua derivata evolutiva conscia), ha ancora larghi margini di sfuggevolezza alla nostra piena comprensione e al suo utilizzo massiccio e fecondo. Tale nostra facoltà è sempre fondamentale nella relazione col paziente ed, in modo particolare, durante il primo incontro con lui, facendo risultare la prima visita spesso immediatamente terapeutica. Tutti gli esseri umani, tutti gli operatori, possiedono questa capacità a diversi livelli quali-quantitativi e tutti, se lo vogliono, la possono approfondire e coltivare nel corso della loro esperienza umana e professionale, facendo anche dei corsi di formazione ad hoc, per divenire sempre più velocemente comprensivi e terapeutici.

 

Lasciamole andare. Spunti e appunti di una dipendente affettiva (2021) – Recensione

La dipendenza affettiva, spiega l’autrice in “Lasciamole andare. Spunti e appunti di una dipendente affettiva”, comporta la graduale elaborazione di una percezione distorta del proprio valore e del partner, in grado di regolare e confermare la valenza dei nostri stati emotivi.

 

Quando la testimonianza è il seme in grado di far fiorire una maggiore consapevolezza

Non sempre è facile dar voce a quanto di più insito e profondo si cela al proprio interno e non sempre le emozioni si lasciano accompagnare da un nome in grado di dar loro un significato, legittimandone la presenza. Perché, se da un lato riconoscere qualcosa di estraneo sembra porre una distanza tra noi e gli altri, al contempo accoglierlo consapevolmente può essere la chiave di svolta. Scriverlo e tramandarlo richiede coraggio, determinazione, ma ancor più una nuova lente tramite la quale guardare quelle nuove compagne di viaggio che tra le pagine di questo libro si avrà il piacere di conoscere grazie alle testimonianze che l’autrice, M. Carmen Vitali, vuole donare a chiunque desideri leggerla.

Quale riflesso di un’esperienza vissuta in prima persona, il libro esplora le tematiche e i numerosi substrati di una delle condizioni del nostro tempo che difficilmente si riconosce e dalla quale a volte sembra impossibile sfuggire: quella della dipendenza affettiva.

Una modalità relazionale patologica in grado di compromettere in modo significativo e progressivo la qualità della vita di chi ne è affetto. Essa infatti risulta essere una condizione in grado di riflettere e confermare una dinamica relazionale/affettiva rispetto alla quale la propria vita e i propri bisogni vengono messi al servizio di un Altro all’infuori di noi. Nella vita di coppia pertanto la nostra persona acquista valore esclusivamente in funzione di un riconoscimento esterno, in questo caso di un partner dal quale difficilmente siamo in grado di prendere le distanze.

In funzione di chi vivo?

Attraverso questa condizione si assiste ad uno sbilanciamento vero e proprio rispetto al quale uno dei due attori della relazione erge l’altra persona ad una posizione che automaticamente innesca una distanza che ci si impone di raggiungere e dinanzi alla quale il proprio valore cede il posto alla disistima.

La relazione patologica che si instaura principalmente con noi stessi, comporta la graduale elaborazione di una percezione distorta del proprio valore e della persona all’infuori di noi, in grado regolare e confermare la valenza dei nostri stati emotivi.

Questi ultimi nondimeno risentono di un investimento energetico rivolto non tanto alla propria persona, quanto piuttosto verso il partner percepito quale regolatore esterno; l’unico in grado di dare una direzione alla nostra vita, ormai connotata da una serie di ingredienti, che altro non fanno se non renderci più schiavi di quello che ritenevamo essere un amore sano.

Tra questi (ingredienti) l’autrice annovera:

  • Paura ossessiva dell’abbandono
  • Difficoltà a dire di no
  • Bisogno di approvazione da parte del partner
  • Difficoltà a porre dei confini

Isolamento dalle relazioni sociali per essere sempre disponibili

Una panoramica preliminare dietro la quale si cela un mondo e un modo di vivere le relazioni con sé stessi e gli altri in grado di riportarci indietro nel tempo.

Se da un lato infatti i primi stili di attaccamento e le prime esperienze infantili riflettono un valido spunto di riflessione da cui partire, dall’altro la consapevolezza e la riscoperta di una propria autonomia lo sono ancor di più.

La dipendenza quale nuova opportunità

Attraverso le testimonianze dell’autrice e di altre donne che come lei hanno vissuto le numerose sfumature di questa condizione, il libro offre una nuova lente attraverso la quale riappropriarsi della propria vita e ancor più della propria indipendenza, valorizzando oltremodo quello che la dipendenza affettiva sembra portare con sé, ossia una nuova opportunità. Spesso infatti non sempre siamo in grado di scorgere il doppio volto di una situazione che ci troviamo a vivere e rispetto alla quale cerchiamo di dare numerose spiegazioni pur di non perderla, eppure lasciare andare qualcosa significa imparare a creare il giusto distacco da quello che più ci faceva soffrire e in funzione del quale valorizzavamo la nostra vita e i nostri desideri. Significa anche correre il rischio di scoprire una felicità rinnovata capace di farci sentire pienamente completi. In sintonia con i nostri bisogni e pronta a farci conoscere una nuova forma d’amore: quella per sé stessi.

 

La stimolazione vagale nel trattamento di disturbi alimentari, obesità e depressione

Un gruppo di ricercatori, appartenenti alle università di Bonn e di Tubinga, ha pubblicato recentemente su Brain Stimulation una ricerca i cui risultati dimostrano che è possibile, tramite la stimolazione non invasiva del nervo vago a livello auricolare, intervenire rapidamente nella comunicazione stomaco-cervello.

 

Da tempo è noto che esiste una rete neuronale che permette che stomaco e cervello possano essere in comunicazione (Folgueira C. Seoane L.M. Casanueva F.F. 2014).

Il nervo vago, che appartiene ai nervi cranici, è la struttura anatomica che collega il cervello allo stomaco, oltre che ad altri organi (Holtmann G. Talley N.J. 2014; Powley T.L.  Spaulding R.A. Haglof S.A 2011). Dal punto di vista neurotrasmettitoriale questa comunicazione avviene grazie all’azione della serotonina (Berger M, Gray JA, Roth BL. 2009). Questa molecola ha, al di là di un importante ruolo a livello cerebrale – tanto che il suo deficit è collegato alla comparsa di depressione (Delgado P. et al. G.1990) -, anche un’azione sulla motilità gastrica; infatti, la serotonina è coinvolta molto spesso nella genesi della dispepsia funzionale (Talley NJ. 2008). Oltre a modulare la cinetica gastrica, il nervo vago è mediatore nella ricerca selettiva dei cibi e permette che questa si sintonizzi con il sistema cerebrale di ricompensa (Rebollo I. Devauchelle A.D. Beranger B. Tallon-Baudry C.  2018; Bandera, 2018).

Lo studio tedesco (Muller JS., Tenckntrup V., Rebollo I., Hallschmid M., Kroemer NB., 2022) ha utilizzato un campione composto da 31 soggetti in cura presso l’istituto di nutrizione umana di Postdam ed il centro per la ricerca sul diabete.

I ricercatori hanno effettuato, simultaneamente alla stimolazione vagale all’interno dell’orecchio dei soggetti, un elettrogastrogramma ed una risonanza magnetica funzionale.

L’elettrogastrogramma è un esame che permette di registrare i segnali elettrici che attraversano i muscoli responsabili dei movimenti gastrici. Il team ha potuto così osservare, come ha dichiarato il prof. Kroemer, riferendosi alla stimolazione vagale auricolare, che questa “rafforza l’accoppiamento tra i segnali provenienti dallo stomaco e dal cervello”; i ricercatori hanno raggiunto questo rafforzamento in pochi minuti. In particolare, la regione cerebrale maggiormente interessata nell’accoppiamento dei segnali è quella mesencefalica, ma sono coinvolte anche altre regioni cerebrali connesse alla funzionalità gastrica.

Come evidenziato dal comunicato dell’università di Tubinga (Stimulation of the vagus nerve strengthens the communication between the stomach and the brain), i risultati ottenuti con questa ricerca potrebbero in futuro essere utili per sviluppare nuovi trattamenti per l’obesità, i disturbi alimentari ed i disturbi dell’appetito e del peso correlati alla depressione.

Facial emotion recognition in bambini adottati

Uno studio del 2021 di Paine e colleghi ha analizzato alcuni aspetti del riconoscimento delle emozioni in bambini adottati, sottoponendoli a discriminazione di diverse espressioni facciali e bias di risposta.

 

Tutti i bambini presenti nel sistema di adozioni hanno avuto esperienza di separazione dai genitori biologici e quindi di una situazione di instabilità generale; sebbene il concetto di adozione implichi creare un ambiente stabile e sicuro, le prime esperienze infantili di avversità hanno comunque delle gravi conseguenze sullo sviluppo emotivo e comportamentale del bambino adottato (McEwen et al., 2015).

Riconoscere le emozioni

Il riconoscimento delle emozioni è uno strumento fondamentale per lo sviluppo psicologico e delle relazioni sociali. Soprattutto nei bambini, essendo ancora in fase di sviluppo, il riconoscimento delle espressioni facciali e delle emozioni ad esse associate è di fondamentale importanza per un adeguato sviluppo di capacità di interazione sociale e di sopravvivenza (Blair, 2005).

Quando si parla di precisione nel distinguere le emozioni, ci si riferisce alla capacità di identificare correttamente le emozioni di un individuo con cui ci si sta relazionando tramite l’osservazione delle espressioni e microespressioni facciali, avendo determinati indizi derivanti dalla situazione in cui ci si trova; un’alta precisione nel riconoscimento è spesso associata a buone competenze sociali e a un alto grado di accettazione da parte del gruppo di appartenenza (Denham, 2014).

Riconoscimento delle emozioni nei bambini adottati

Uno studio del 2021 di Paine e colleghi ha analizzato alcuni aspetti del riconoscimento delle emozioni in bambini adottati, sottoponendoli a discriminazione di diverse espressioni facciali e bias di risposta. I risultati ottenuti dai bambini che hanno partecipato a questo studio, provenienti dalla Gran Bretagna e compresi tra i 4 e gli 8 anni sono stati confrontati con un campione di bambini non adottati, per poter evincere eventuali differenze. I risultati hanno mostrato differenze significative tra i due gruppi, in quanto nei bambini adottati si è riscontrata una minore precisione nella distinzione delle espressioni facciali delle emozioni di tristezza e paura, rispetto ai bambini non adottati. La scarsa precisione nell’identificare le emozioni di tristezza e paura nei bambini è risultata maggiore per i bambini i cui genitori avevano a loro volta problemi comportamentali, precedentemente determinati tramite lo Strength and Difficulties Questionnaire; inoltre, la scarsa capacità di identificare tristezza e paura è risultata correlare con la presenza di problemi di gestione delle emozioni. Al contrario di quanto previsto dagli autori, i bambini che avevano affrontato situazioni di avversità prima dell’adozione sono risultati più abili nell’identificare emozioni negative. In ultimo, dallo studio è emerso che uno stile genitoriale affettuoso e calmo comportava nei bambini minori problemi comportamentali ed emozionali, e, inoltre, una più alta percentuale di corretta identificazione delle espressioni facciali.

In questo contesto, sviluppare la conoscenza dei fattori che potrebbero influire sullo sviluppo cognitivo e affettivo dei bambini adottati può fornire un valido punto di partenza per la strutturazione di interventi efficaci al miglioramento della qualità di vita, sostenendo l’adattamento dei bambini adottati e delle loro famiglie.

Prof. David Clark on improving public access to effective psychological therapies – The Journal Club –

In questo episodio SPECIALE del podcast The Journal Club, presentiamo un intervento del Prof. David Clark dal titolo “Improving public access to effective psychological therapies: lessons from the English IAPT programme

 

Il podcast The Journal Club è nato con l’intento di approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei più noti esperti in materia. 

In questo episodio SPECIALE del podcast The Journal Club, presentiamo un intervento del Prof. David Clark in cui viene illustrato lo IAPT programme, ovvero il servizio attuato in Inghilterra per promuovere l’accesso alla psicoterapia evidence-based per ansia e depressione.

La lezione è in lingua inglese ed è stata registrata durante il congresso online di Ricerca in Psicoterapia delle Scuole della rete nazionale di Studi Cognitivi – Formazione.

Ascolta l’episodio:

L’episodio è disponibile sulle seguenti piattaforme:

 

Strategie cognitivo comportamentali nella cura alle patologie del sonno nel bambino

La valutazione delle problematiche del sonno in età evolutiva è una delle prime cause per cui i genitori si recano dal pediatra, rappresentando un problema comune a molte famiglie.

 

I disturbi del sonno in età evolutiva

Il sonno è fondamentale per la salute mentale soprattutto nei primi anni di vita, in cui i pattern si stabilizzano sia per maturazione fisiologica cerebrale, che attraverso l’interazione del bambino con le figure di riferimento e in relazione al contesto di crescita.

La base eziopatogenetica dei disturbi del sonno, è rappresentata da interazioni di variabili fisiologiche, genetiche e comportamentali.

Solo in meno del 20% dei casi di insonnia infantile si riconosce una causa organica, mentre la restante percentuale dei casi, identifica la causa nell’interazione tra bambino e genitori; nello specifico i circuiti neuronali del bambino che regolano il sonno interagiscono con i circuiti neuronali che regolano le emozioni, che a loro volta dipendono dall’interazione con i caregivers.

Secondo l’ultima classificazione internazionale disturbi del sonno (valida per bambini e adulti) l’insonnia in età pediatrica può essere descritta da uno dei seguenti sintomi:

  • Difficoltà a iniziare il sonno
  • Difficoltà a mantenere il sonno
  • Risveglio prima del voluto
  • Resistenza ad andare a letto negli orari appropriati previsti
  • Difficoltà a dormire senza l’intervento del caregiver

Punti 4 e 5 determinanti per la diagnosi.

Il paziente riferisce o il genitore osserva inoltre, uno o + sintomi associati alla difficoltà di sonno notturno:

  • Sonno / Malessere
  • Difficoltà di attenzione, concentrazione e memoria
  • Difficoltà in ambito sociale, familiare e nella prestazione scolastica
  • Disturbi di umore e irritabilità
  • Sonnolenza diurna
  • Problemi comportamentali (es. iperattività, aggressività)
  • Riduzione di motivazione / energia / spirito d’iniziativa

Le conseguenze di studi di ricerca longitudinali, mostrano che la privazione del sonno nel bambino, ha conseguenze su variabili psico – fisiologiche nell’immediato e nel futuro, in quanto predice disturbi comportamentali e un rischio di 4,2 volte maggiore di divenire obesi, oltre che aumentare in adolescenza la percentuale di abuso di sostanze stupefacenti e alcool, con conseguente aumento del rischio di incorrere in patologie depressive.

Le patologie del sonno nel bambino sono da definirsi un problema familiare, perché oltre a colpire come visto il bambino stesso, rendono scarsa la salute genitoriale psicofisica, con un’alta correlazione con depressione materna e pensieri aggressivi che preoccupano i genitori.

I bambini sono classificabili in due categorie:

  • bambini autoconsolatori, rappresentano il 65% circa dei bambini di un anno e sono caratterizzati dalla capacità di riaddormentarsi autonomamente dopo un risveglio notturno, in breve tempo.
  • bambini segnalatori, sviluppano una dipendenza da specifiche situazioni stimolo, oggetti o setting che rendono molto complesso l’addormentamento o il riaddormentamento dopo un risveglio notturno, senza la presenza di un genitore.
    Questa categoria ha maggior probabilità di riscontrare problemi del sonno in età adulta.

L’obiettivo del training sonno è rendere il bambino autoconsolatorio, quindi in grado di addormentarsi da solo dopo un risveglio notturno, senza andare a chiedere aiuto ai genitori.

Interventi clinici

Ad oggi gli interventi clinici proposti e con maggiore evidenza empirica sono quelli a orientamento cognitivo-comportamentale che affrontano i comportamenti, i pensieri e le emozioni associati al problema del sonno.

Il trattamento cognitivo-comportamentale per i problemi del sonno nella prima infanzia ha incluso diverse strategie (più o meno) funzionali di seguito esplicate.

Estinzione standard

Il metodo richiede al genitore la rimozione di ogni risposta ai richiami del bambino una volta che è stato messo a letto dopo aver scelto una finestra oraria in cui lascia a se stesso il minore, senza intervenire in alcun modo.

Viene considerato un metodo efficace, ma estremamente stressante per bambini e genitori (bassa tollerabilità) che fa conseguire una bassa aderenza ad applicare il metodo con sistematicità.

Estinzione graduale

Limitazione graduale della presenza del genitore in fase di addormentamento con risposte brevi e minimali alle richieste del bambino (metodo del minimal checks).

I genitori offrono rassicurazioni con brevi visite al bambino a intervalli predefiniti e progressivamente prolungabili. Questo trattamento prevede lunghi tempi di applicazione (anche 10 notti insonni per vedere i risultati), tuttavia viene accolto con maggiore aderenza da parte dei genitori rispetto all’estinzione standard, in quanto giudicato meno estremo. Il bambino piange per del tempo mai eccessivo, in quanto il genitore può svolgere il suo compito in maniera sistematica preservando efficacia del metodo e sicurezza del bambino e del genitore.

Apprendimento discriminativo/addormentamento ritardato

Nota anche come tecnica dei rituali preaddormentamento (pre-bed routines). Consiste nella definizione di alcuni rituali da eseguire sistematicamente tutte le sere prima di andare a letto (es cambiarsi il pannolino, lavarsi i denti, leggere un libro coi genitori…). È un metodo di facile aderenza da parte dei genitori, ma con tempi di applicazione molto lunghi.

Risvegli programmati

È una tecnica poco utilizzata e consiste nello svegliare sistematicamente il bambino durante la notte sempre alla stessa ora. È consigliato svegliarlo 15 minuti prima dal solito orario, per poi incoraggiarlo a riaddormentarsi aiutando il bambino, tramite il risveglio anticipato, ad apprendere lentamente a non svegliarsi più nella fascia oraria prevista. Ha il limite di riscontrare difficile applicabilità da parte dei genitori per via dell’insonnia che caratterizzerebbe la messa in pratica di questo metodo.

Rinforzi positivi

Patteggiare un premio quando il bambino mette in atto un comportamento desiderato, come per esempio non raggiungere il letto dei genitori durante la notte.

Questo metodo funziona principalmente con bambini dai 3 anni in su, mentre prima è meno efficace in quanto per patteggiare serve che il bambino abbia acquisito determinate capacità riscontrabili dall’entrata nell’età prescolare. Ha facile aderenza da parte dei genitori ma tempi di applicazione lunghi.

Componente cognitivo/educativa

I problemi del sonno capitano spesso perché vi è molta disinformazione a riguardo.

Molti genitori non sanno che un bambino dai 4 ai 5 mesi dovrebbe essere messo a letto tra le 8 e le 8:30, mentre spesso la messa a letto viene ritardata perché si pensa che così facendo si ritardi l’orario del suo risveglio al mattino dopo, contravvenendo alla regola fondamentale di non far mai addormentare i bambini quando sono troppo stanchi.

Il metodo consiste quindi nel fornire informazioni sul funzionamento e sullo sviluppo del sonno in età infantile e nell’uso della ristrutturazione cognitiva per discutere e modificare credenze disfunzionali per il sonno del bambino.

Alcuni genitori mostrano delle resistenze soprattutto in merito ad alcune abitudini funzionali al genitore stesso come il co-sleeping (alcuni care-givers, per filosofia di vita, preferiscono dormire insieme ai propri figli nonostante questo comporti un sonno di cattiva qualità).

Secondo la corrente cognitivo comportamentale, tramite la messa in pratica di una o più strategie sopra specificate, è possibile rendere in breve tempo il bambino da segnalatore ad autoconsolatorio, andando a migliorare il suo futuro e la qualità di vita nell’immediato presente dei genitori.

 

Diabete e Disturbi Alimentari: una ricerca sulla “Diabulimia”

La Diabulimia è un Disturbo Alimentare vissuto dalle persone con diabete mellito di Tipo 1 (T1DM; Type 1 diabetes mellitus).

 

Insulina e aumento del peso

All’interno della letteratura c’è accordo sul fatto che i Disturbi Alimentari siano prevalenti nelle persone con T1DM, in particolare nelle donne (Conviser et al., 2018; Jones et al., 2000). Colpiscono circa il 20% delle donne con diabete e hanno il doppio della probabilità di verificarsi nelle ragazze adolescenti con T1DM che in quelle senza (Gagnon et al., 2017; Philpot, 2013).

A causa del trattamento con l’insulina, gli adolescenti con T1DM vedono spesso il loro peso aumentare notevolmente tra l’adolescenza e la prima età adulta. Ciò può far nascere nel soggetto l’insoddisfazione del proprio corpo e portare allo sviluppo di condotte alimentari disturbate (DEB; disturbed eating behaviours) (Gagnon et al., 2017). Inoltre, le persone con T1DM possono sentirsi sopraffatte dalla costante attenzione alla nutrizione e ai farmaci (Gagnon et al., 2017). Quindi, l’emergere di condotte alimentari disturbate può essere un tentativo di riguadagnare il controllo sul cibo e sul peso, portando così allo sviluppo di un Disturbo Alimentare. Si può quindi affermare che la Diabulimia è un Disturbo Alimentare caratterizzato dalla deliberata restrizione dell’insulina, con il fine di provocare una perdita di peso (Davidson, 2014).

Diversi studi hanno riportato che la paura dell’aumento di peso è una componente fondamentale nell’emergere della cattiva gestione dell’insulina (Balfe et al., 2013; Falcão & Francisco, 2017; Goebel-Fabbri et al., 2011; Olmsted et al., 2008). Inoltre, in uno studio qualitativo i partecipanti che hanno omesso l’insulina hanno continuato a farlo a causa della rapida perdita di peso e dei successivi commenti positivi che hanno ricevuto (Balfe et al., 2013).

Ad oggi, sebbene il termine “Diabulimia” non sia ancora stato riconosciuto, è stata inclusa una guida su come trattare al meglio coloro che limitano l’insulina (Allan, 2017). Infatti, le persone che manipolano l’insulina in modo disfunzionale subiscono gravi conseguenze per la loro salute. Ciò include la chetoacidosi diabetica (DKA; diabetic ketoacidosis), una complicanza pericolosa e acuta di diabete che si verifica quando il corpo ha ridotto l’insulina (Philpot, 2013). Ci sono anche gravi complicanze micro e macro vascolari a lungo termine associate alla Diabulimia, tra cui retinopatia (perdita della vista) e nefropatia (danno renale) (Goebel-Fabbri et al., 2011; Nielsen, 2002). Nel corso di uno studio longitudinale durato undici anni, è stato riscontrato che la restrizione insulinica ha aumentato il rischio di morte di 3,2 volte (Goebel-Fabbri et al., 2011). Sebbene sia una condizione comune e pericolosa per la vita, c’è però una mancanza di ricerca su questa patologia, in particolare sul modo migliore per prevenire, rilevare e trattare la condizione (Coleman & Caswell, 2020).

Comprendere la Diabulimia

Lo scopo di questo studio è quello di condurre un’analisi esplorativa dei punti di vista e delle esperienze delle persone con esperienza di Diabulimia (Coleman & Caswell, 2020). Si auspica così che i temi individuati aiutino a orientare la ricerca futura. Inoltre, lo scopo è stato anche quello di aumentare la consapevolezza e la comprensione della Diabulimia dal momento che sta giustamente guadagnando attenzione all’interno delle comunità mediche e psichiatriche.

Nel seguente studio è stato quindi chiesto ai partecipanti perché limitassero l’insulina. Attraverso un’analisi tematica, sono stati identificati tre temi principali: perdita di peso, odio per il diabete e autolesionismo. Inoltre, i partecipanti hanno riportato una varietà di fattori che hanno contribuito al loro abuso di insulina. I temi principali riportati erano: traumi, comorbilità di disturbi della salute mentale e sensazione di mancanza di supporto. I partecipanti hanno descritto abuso emotivo, fisico e sessuale, separazione dei genitori, disgregazioni familiari e bullismo. Le più comuni difficoltà di salute mentale in comorbilità discusse sono state: altri disturbi alimentari, depressione e stress. I partecipanti hanno spesso descritto di non avere nessuno con cui parlare, a causa di sentimenti di vergogna e mancanza di comprensione da parte degli altri. Inoltre, hanno riportato la necessità di una maggiore consapevolezza e comprensione della Diabulimia, sia per i professionisti che per le persone con diabete. Infine, tutti i partecipanti hanno ritenuto che la Diabulimia fosse vista negativamente, descrivendo lo stigma e la mancanza di comprensione. I risultati di questo studio suggeriscono che un trattamento psicologico efficace dovrebbe affiancarsi all’educazione sul diabete.

 

La terapia del disturbo d’ansia sociale

Il paziente con disturbo d’ansia sociale presenta una serie di comportamenti difensivi, volti a prevenire un giudizio negativo, in particolare teme che gli altri lo deridano in quanto goffo, in ansia o in imbarazzo nello svolgere semplici attività (la più comune è quella di mangiare).

 

L’obiettivo psicoterapico nel caso del disturbo d’ansia sociale sarà quello di ridurre l’ansia sociale e la tendenza a metavergognarsi (vergogna di farsi vedere mentre si prova vergogna). La prima fase è l’assessment fatto tramite colloqui e test specifici per reperire informazioni dal paziente e ricostruire il profilo interno ed esterno del disturbo. In una seconda fase si tenta di normalizzare la sintomatologia condividendo con il paziente il modello di funzionamento del disturbo che gli permette di capire cosa gli stia accadendo. Un aspetto principale del funzionamento della persona con ansia sociale è quello di avere un’idea della socialità connotata negativamente, dove le relazioni sono pericolose.

La terapia fornirà al paziente una nuova prospettiva sulla socialità dove, come insegna l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), potrà perseguire i valori della sua personalità e soddisfare i propri bisogni. A ciò si aggiunge l’acquisizione di una maggiore resistenza alla frustrazione: il paziente sarà guidato a ridurre il peso che dà abitualmente alle brutte figure nella socialità, così da riuscire ad esporsi maggiormente e a godere dei benefici e dell’arricchimento delle relazioni sociali. Quindi si prosegue con la riduzione dell’ansia sociale, si aumentano le abilità sociali e il loro utilizzo nei contesti naturali, si vanno a ridurre i fattori di vulnerabilità e si fa prevenzione delle ricadute.

Nella fase centrale della terapia, riduzione dell’ansia sociale, si utilizza la tecnica dell’osservazione; il paziente verrà videoregistrato in momenti di socializzazione che lo porteranno a provare vergogna e, prima di rivedere tali video, gli verrà chiesto di dire come s’immagina nella registrazione indicando il livello di vergogna. Dopo l’esposizione del video il terapeuta porterà il paziente a ridurre il peso della vergogna che inizialmente il paziente aveva dato alle sue azioni videoregistrate, basandosi sull’effettivo carico di vergogna che si può osservare senza avere il carico del paziente. Lo stesso metodo si applica per la metavergogna, cioè il provare vergogna per il fatto che si provi vergogna e il giudizio negativo e di scherno per il fatto di ritenere la persona debole o ridicola, credenza tipica del DAS.

Ultima, sebbene non per importanza, fase dell’intervento psicoterapeutico del paziente con disturbo d’ansia sociale, è quella volta a ridurre il peso degli elementi che hanno contribuito a rendere il soggetto vulnerabile allo sviluppo del disturbo e a strutturare un piano per fortificare il paziente, fornendogli delle strategie per prevenire ed eventualmente fronteggiare delle ricadute qualora si ripresentassero i sintomi. Arrivati a questo punto della terapia grazie alla ristrutturazione cognitiva, l’accettazione e l’esposizione, il clinico dovrà consolidare il cambiamento ottenuto. Bisogna fornire standard di performance più realistici e interiorizzati, costruendo un nuovo modello di “Sé ideale”. Alla fine di questo processo il paziente dovrà strutturare un’autostima derivante da un confronto realistico tra sé ideale e sé percepito, che include anche le caratteristiche che un tempo lo definivano come “inetto” ai propri occhi e a quelli altrui. È bene alla fine del trattamento di informare il paziente della possibilità di ricadute, insegnandogli a capire i segni prodromici dei sintomi così da non catastrofizzare e pianificare di chiamare il terapeuta per delle sedute di rafforzamento con l’utilizzo di tecniche già imparate in precedenza durante la terapia.

 

Psicoterapia online: State of Mind intervista Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis – VIDEO

State of Mind ha intervistato Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis, per comprendere come è nata l’idea e tanti altri aspetti di questa piattaforma di psicoterapia online

 

Negli ultimi anni uno degli aspetti della psicoterapia è decisamente cambiato: complice anche la recente pandemia, il setting terapeutico ha esteso i suoi confini, oltrepassando le pareti degli studi di terapia, per farsi strada nel mondo online e rendersi più accessibile e più adattabile alle necessità dei pazienti.

Un cambiamento che risulta ben più evidente se cerchiamo sul web dei servizi di psicoterapia online: diverse piattaforme sono state create con l’intento di offrire agli utenti percorsi psicoterapeutici o di supporto psicologico su misura. Tra le piattaforme che più di altre si sono fatte strada nel mondo della psicoterapia online, troviamo Serenis, una startup tecnologica che offre percorsi di terapia online in videochiamata, con oltre 400 professionisti specializzati, afferenti ai principali orientamenti terapeutici (cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale e psicoanalitico).

State of Mind ha intervistato Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis, per comprendere come è nata l’idea, quali aspetti la differenziano dalle altre piattaforme e cosa dovrebbe aspettarsi un paziente che decide di affidarsi a Serenis per iniziare un percorso di psicoterapia online.

 

Intervista a D. Francescon, co-fondatore di Serenis
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ASCOLTA L’INTERVISTA SU SPREAKER:

Le idee disfunzionali di Albert Ellis

Ellis individuò varie organizzazioni cognitive, tacite filosofie, ideologie o convinzioni disfunzionali di pensiero che ricorrono nella maggior parte dei problemi psicologici che chiamò idee irrazionali.

 

La Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT)

Albert Ellis è considerato uno dei padri della Terapia Cognitivo Comportamentale grazie allo sviluppo della REBT che rappresenta probabilmente il primo modello formale di intervento psicoterapeutico CBT. Ispirandosi dichiaratamente alla terapia dei costrutti personali di Kelly (personal construct therapy, PCT) che ritiene come gli essere umani si siano evoluti grazie alla loro capacità di fare ordine nel mondo caotico sviluppando schemi previsionali che consentano di affrontarlo efficacemente e di sopravvivere alle sue insidie, Ellis e Beck sostenevano che le credenze – tra cui quelle da loro definite inizialmente irrazionali -, i pensieri automatici e gli atteggiamenti disfunzionali, dipendessero dagli schemi che ci formiamo per comprendere gli eventi significativi della nostra vita.

Più di ogni altra forma di psicoterapia, la REBT presenta solide basi filosofiche che orientano attivamente l’intervento del terapeuta che si ispira all’idea dei filosofi stoici secondo cui sono le persone a scegliere se venire turbate dagli eventi o per dirla come Epitteto: “non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”.

Le cose in realtà si sono dimostrate ben più complesse, in quanto nella determinazione degli schemi cognitivi utilizzati dall’individuo, un ruolo importante viene svolto sia dagli “strumenti” concettuali a disposizione per elaborare i dati sensoriali, i bias mentali, sia dalle metacognizioni, dalle regole cioè prevalentemente inconsapevoli che definiscono “sincreticamente” una vasta gamma di significati. Tuttavia, uno dei primi e più importanti principi della REBT, che afferma che i pensieri sono tra i più importanti fattori che determinano le reazioni emotive, resta di grande attualità scientifica. In altri termini noi “sentiamo” ciò che pensiamo.

L’accettazione di questo paradigma opera una grande rivoluzione interpretativa rispetto al sentire comune, in quanto non sono le situazioni o gli eventi che ci accadono a provocare in noi le reazioni emotive, quanto piuttosto le nostre percezioni degli eventi e le conseguenti attribuzioni e valutazioni, prevalentemente soggettive, che operiamo su di essi.

Ammettendo quindi che molto spesso sono i processi di pensiero che determinano e definiscono le emozioni e che la maggior parte dei pensieri viene rappresentato tramite l’uso di parole o frasi, se ne può dedurre che la maggior parte delle emozioni si producono e si mantengono in strettissima relazione con i processi del dialogo interno o con le asserzioni ripetitive che si svolgono più o meno consapevolmente nel sistema cognitivo dell’individuo.

Le idee disfunzionali o idee irrazionali

La gamma di concetti, idee e pensieri di natura irrazionale, illogica, superstiziosa o magica, utilizzata dagli esseri umani, risulta estremamente vasta ed in questa estrema varietà Ellis individuò varie organizzazioni cognitive, tacite filosofie, ideologie o convinzioni disfunzionali di pensiero che ricorrono nella maggior parte dei problemi psicologici.

Chiamò questi schemi cognitivi “idee irrazionali”, riscontrando la ricorrenza di quattro categorie generali nelle quali ricondurle:

  • affermazioni di dovere, implicanti esigenze e pretese irrealistiche ed assolutistiche sugli eventi, le situazioni e gli individui. I doveri vengono vissuti come obblighi imprescindibili, non modulabili, imposti dogmaticamente agli altri ed a noi stessi, obblighi sui quali si è perduta la capacità di analisi e valutazione non solo riguardo alla loro convenienza ma talvolta sulla loro stessa realizzabilità;
  • affermazioni di “terribilizzazione”, che esagerano e colorano emotivamente le conseguenze negative di una data situazione, anticipando inconsapevolmente i peggiori esiti immaginabili che ne impediscono una valutazione oggettiva e proporzionata;
  • affermazioni di “bisogno”, caratterizzate da esigenze arbitrarie credute necessarie o addirittura indispensabili all’individuo per sopravvivere o per poter vivere una vita adeguata;
  • affermazioni di “valore” che implicano la valutazione globale della personalità propria o altrui subordinando il valore individuale alla presenza o meno di alcune condizioni. L’errore fondamentale, così determinato, consiste nel trasferire alla natura intrinseca di un essere umano (ciò che sono), valutazioni o giudizi che invece riguardano esclusivamente le prestazioni intrinseche (ciò che faccio).

Nell’analisi della struttura concettuale delle idee irrazionali, il primo livello che incontriamo è quello inferenziale, la tendenza cioè ad attribuire arbitrariamente un significato non riconducibile al fatto in premessa; inferire deriva dal latino e significa esattamente portare dentro, e rappresenta un processo psicologico che ci induce ad assumere automaticamente alcune implicazioni che non sono necessariamente ricomprese nel significato oggettivo.

Il secondo sono gli obblighi o le pretese che rappresentano pensieri tassativi su come dovrebbe essere la realtà, una sorta di visione rigida e assoluta che tende ad asservire la realtà alle nostre convinzioni personali; tali assunzioni sono rigide, dogmatiche ed assumono la caratteristica del pensiero unico e ritengono che esista una sola visione della realtà, della verità, del bene ecc.

Il terzo e più importante processo attuato sono le valutazioni, o per dirla meglio le assunzioni di valore che vengono applicate a tutte le situazioni, secondo una scala personale e soggettiva che determina l’importanza percepita del singolo accadimento. Il processo di valutazione coinvolge indifferentemente le implicazioni relative alla qualità della propria vita, alle altre persone ed anche a noi stessi e, come abbiamo visto, la tendenza è quella di applicarlo al proprio valore personale, determinando il modo in cui la persona considera se stessa, ponendosi di fatto come fondamento del concetto di autostima.

In questi termini la sequenza presentata si discosta da quella indicata inizialmente da Ellis perché ritiene che l’elemento nucleare determinante sia proprio il processo valutativo associato alla mancata soddisfazione della pretesa deontica. In realtà il dibattito riguardo alla priorità delle preposizioni deontiche (che postulano doveri), rispetto a quelle assiomatiche (che postulano valori) aveva già interessato sia Ellis sia De Silvestri e, sebbene al riguardo siano state assunte posizioni diverse, quello che appare chiaro è che tanto le preposizioni deontiche quanto quelle assiomatiche sono capaci di determinare disturbi e sofferenza se, e solo se, assolutizzano valori e doveri.

In effetti il nucleo patogeno sembra basarsi proprio sull’assolutizzazione del principio rappresentato; tutti noi crediamo e ci avvaliamo di regole che ci guidano nei nostri orientamenti e nelle nostre scelte, essere onesti, leali ecc. sono principi ai quali cerchiamo di adeguarci. I problemi insorgono quando una di queste convinzioni diviene imperativa ed imprescindibile e comporta quindi un adeguamento impellente e incondizionato; prendiamo l’esempio del rubare: siamo concordi nel ritenere che sia un’azione riprovevole, ma se io rubassi del cibo per salvare la vita ad una persona questo comportamento sarebbe ugualmente biasimevole? O al contrario apparirebbe come una azione nobile?

Cercare di essere competenti nel proprio lavoro è certamente positivo, ma assumere di doverlo essere sempre, in ogni situazione indipendentemente dalle specifiche circostanze, condanna la persona ad un’ansia costante perché, data l’ambizione irrealistica del proposito, gli obiettivi fissati, che sono assoluti, non potranno essere realizzati, determinando conseguentemente un perdurante e radicato senso di inadeguatezza e di disvalore personale.

Le idee disfunzionali sono tali perché impongono all’individuo una visione estremizzata della realtà, in genere refrattaria ad ogni considerazione alternativa, determinando schemi comportamentali poco efficaci, spesso non riconducibili agli obiettivi desiderati o ritenuti utili dall’individuo, e definendo valutazioni cognitive dannose. Infatti l’attivazione emotiva deriva fondamentalmente dalle valutazioni primarie che definiscono quanto sia rilevante l’esperienza al fine del raggiungimento dei propri obiettivi determinando quale emozione proveremo e se questa risulterà funzionale o meno.

Va chiarito che, sebbene Ellis abbia precisato che la sua definizione di razionale era riferita alla tendenza di pensare, sentire e comportarsi in modo essenzialmente funzionale rispetto agli obiettivi della nostra vita, tendenza che deve aiutarci a scegliere valori e scopi utili al mantenimento della nostra sopravvivenza ed al raggiungimento del nostro benessere, si è poi ritenuto opportuno (De Silvestri) adottare il termine meno equivoco di “funzionale”, che esemplifica più chiaramente l’adozione di una visione più relativa ed utilitaristica, che adotta schemi basati sulla loro aderenza a tre principi: la corrispondenza alla realtà percepibile e dimostrabile; l’efficacia nell’affrontare e risolvere le difficoltà riscontrate nel vivere quotidiano; la determinazione di correlazioni emotive adeguate.

L’origine delle idee disfunzionali

Ma come si generano le Idee Irrazionali? Ebbene esse nascono quali strumenti utili per definire il proprio mondo, come regole generali che ci aiutano ad anticipare gli eventi avendo a disposizione un modello concettuale che ci dica come è utile comportarci; si pensi ad esempio all’utilità di essere accolti e considerati dal proprio gruppo di appartenenza, oggi sembra essere soltanto una questione di accettazione sociale, ma quando ci muovevamo in piccoli clan di 50/60 individui l’accoglienza da parte del gruppo era veramente fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo.

Ogni essere umano si forma delle idee di come va o di come dovrebbe andare il mondo, il problema è che queste aspettative o desideri si possono trasformare in pretese e in assunti deontici riflettendo aspettative irrealistiche su eventi o persone spesso riconducibili alle locuzioni devo – devi— è indispensabile.

La formazione di questi schemi si sviluppa sin dai primi anni, prosegue per tutta la vita e si concretizza nell’utilizzo di modelli interpretativi e valutativi finalizzati a spiegare e gestire gli eventi significativi. Poiché essi vengono sviluppati in un’età nella quale non si dispone di sufficienti elementi discriminativi, questi vengono assunti come implicitamente veri e quindi interiorizzati non come ipotesi concettuali ma come una esatta definizione della realtà.

Questo determina due ulteriori significative conseguenze, la prima è che per concettualizzare queste regole utilizziamo strumenti cognitivi molto grossolani, fortemente condizionati dai vari bias e dai vari processi distorsivi, come gli assunti illogici, le deduzioni falsate, le nozioni dogmatiche o assolutistiche, il pensiero dicotomico, le generalizzazioni ecc.; la  seconda è che, rappresentando apparentemente la realtà, questi schemi saranno considerati veri a prescindere e quindi saranno automatizzati a tal punto nel loro uso operativo da renderli di fatto inconsapevoli.

Ne consegue l’adozione di forme di pensiero estremamente rigide, che portano le persone ad utilizzare una serie limitata di strategie, spesso obsolete perché incapaci di cambiare e di adeguarsi al mutamento delle situazioni.

La rigidità cognitiva di una persona si manifesta nell’incapacità di costruire nuove e più appropriate rappresentazioni del mondo ma anche di se stesso e degli altri, mantenendo una pervicace aderenza alle vecchie idee saldamente fissate nella mente.

Quando si crea una discrepanza fra le nostre aspettative e la realtà percepita si genera uno stato di attivazione emotiva che può essere risolta, secondo Piaget, mediante assimilazione o accomodamento. La creazione di un nuovo schema interpretativo è una forma di accomodamento, si cercano nuovi modelli, nuove informazioni, ipotesi alternative, sviluppando il pensiero divergente e creativo; di contro l’assimilazione consiste invece nel mantenere immodificato lo schema interpretativo, tralasciando i dati discordanti e adeguando ad esso la propria percezione della realtà, ignorando semplicemente la falsificazione dell’aspettativa.

In genere noi tutti propendiamo per questa seconda modalità dato che l’accettazione di questi schemi fissi, delle regole assolute, degli stereotipi, dei cliché, risponde ad una precisa esigenza di risparmio psichico, ci consente cioè di disporre di rapide risposte automatiche senza che sia necessario impegnare la sfera cosciente in continue ed estenuanti analisi; sebbene quindi, apparentemente, essa sembri risultare una modalità rapida ed efficace per affrontare la realtà nel medio e lungo periodo rappresenta in realtà una grave difficoltà nel processo di autosviluppo individuale perché impedisce il formarsi di una visione personale indipendente, centrata sui reali bisogni e necessità della persona, che, sarà così portata inconsapevolmente ad utilizzare sempre più frequentemente i modelli già pronti, senza assumersi l’onere di sviluppare regole più articolate e complesse per adeguarsi di volta in volta alle situazioni di vita.

Un esempio classico lo troviamo nel pensiero magico che, secondo la psicologia dello sviluppo di Jean Piaget, sarebbe una forma arcaica di pensiero, tipico della fase magico-animistica attraversata dal bambino nella fascia di età dai due ai cinque anni, detta dell’«egocentrismo». In seguito si attraverserebbero altre tappe, l’ultima delle quali consiste nell’acquisizione delle capacità cognitive proprie della logica ipotetico – deduttiva.

Il pensiero magico dunque per Piaget scomparirebbe del tutto nella persona adulta, venendo sostituito da un approccio più razionale e concreto alla realtà. Questa concezione ha portato a identificare la logica come la forma di pensiero più elevata, come se la razionalità ipotetico – deduttiva propria dello scienziato fosse quella più idonea a definire la natura del pensiero umano.

Più recentemente, però, gli studi effettuati sui bias mentali hanno evidenziato come anche gli adulti, ordinariamente, ricorrono al pensiero magico, dimostrando come questa forma di pensiero continui a persistere nella psiche continuando ad assolvere a tre principali funzioni, ovvero quella difensiva, propiziatoria e conoscitiva.

Di conseguenza il pensiero magico e il pensiero razionale si configurano come due strutture mentali compresenti nell’adulto, due forme di pensiero sostanzialmente diverse ma in costante interazione nella definizione della realtà e, diversamente da quanto prospettato dal grande psicologo svizzero, non esiste una vera e propria maturazione lineare da un pensiero infantile a un pensiero pre-logico e logico formale nell’adulto.

Nell’adulto, ritroviamo infatti le stesse strategie cognitive e le scorciatoie intuitive che registriamo nel bambino, cosa che del resto non dovrebbe stupirci visto che molti processi distorsivi rappresentano gli strumenti iniziali con i quali costruiamo gradualmente le nostre rappresentazioni mentali più complesse.

Le Idee Disfunzionali sono quindi dei modelli rigidi e stereotipati che, interpretando automaticamente la realtà, cercano costantemente di assimilarla alle convinzioni sostenute, sottraendosi al principio di verifica e di adattamento; invertendo l’ordine dei fattori, anziché essere l’individuo ad adattarsi alla realtà, si cerca di piegare questa alle proprie aspettative, determinando risposte emotive sempre dannose, proprio in ragione di questa continua inaccettabilità delle situazioni percepite.

L’intervento sulle idee disfunzionali

Se dunque i disturbi psichici sono considerati in gran parte (sebbene non completamente) in funzione delle percezioni, delle rappresentazioni e delle valutazioni che ci formiamo in merito agli avvenimenti che ci accadono, ne consegue che gli stati emotivi patologici o disfunzionali sono, in larga parte, il risultato di processi disfunzionali del pensiero. Quindi uno dei modi in cui si potrebbe migliorare il senso di benessere personale sarebbe quello di controllare le emozioni spiacevoli o dannose potenziando le nostre capacità di descrivere e rappresentare la realtà percepita, modificando gli schemi di pensiero e le idee che li determinano e li sostengono.

In tal senso l’adozione del metodo scientifico viene proposto come un modello interpretativo alternativo e più adatto a sviluppare il benessere psicologico. L’individuo si adatta meglio alla realtà quando è in grado di sottoporre a verifica le proprie premesse, esamina la validità e utilità delle proprie convinzioni ed è disposto a prendere in considerazione idee alternative.

In quanto esseri umani non possiamo evitare di generare ipotesi influenzate dai nostri desideri e dalle nostre aspettative e di tendere spontaneamente verso i dati che si accordano con esse; è questo che rende impossibile l’adozione di un ragionamento obiettivo e razionale che sia del tutto estraneo alla soggettività del senziente.

Possiamo però cercare di avvicinarci a considerazioni più oggettivabili assumendo diverse linee guida: se accetto che quello che penso non è necessariamente vero, mi sarà più facile adottare pratiche regole di verifica; se sviluppo il metodo costruttivista, tenderò ad approfondire la visione del mondo attraverso l’analisi della sua complessità rifuggendo da semplicistiche scorciatoie.

La visione relativistica proposta ci porta quindi a formulare una posizione apparentemente molto forte e cioè che molte delle nostre convinzioni, schemi, percezioni e verità in cui crediamo potrebbero essere erronee o inadeguate. L’idea di mettere in discussione il nostro sistema di convinzioni più radicato ci risulta particolarmente ostica in quanto confligge con una delle distorsioni più significative, quella definita epistemologia narcisistica ovvero: dato che lo penso è vero.

È intuibile che l’analisi critica dell’insieme di concetti, principi, idee e pensieri che risultano collegati tra loro in modo tale da influenzarsi e rinforzarsi reciprocamente, non necessariamente in modo coerente o logico, ma sicuramente in modo assertivo, richiede un onere rilevante che trova la sua giustificazione nell’obiettivo fissato dalla psicoterapia che, come ha detto Kelly:

…deve concentrarsi sulla creazione di nuove ipotesi e previsioni che costituiscano un livello più elevato verso l’invenzione di un nuovo sistema di significati, piuttosto che cercare di riparare o rattoppare i guasti del sistema corrente.

I problemi psicologici non sono necessariamente il prodotto di forze misteriose o impenetrabili, ma spesso derivano da procedimenti più ovvi, come un apprendimento sbagliato, deduzioni ed informazioni errate, confusione tra immaginazione e realtà, accettazione acritica di processi distorsivi; ne consegue che possono essere padroneggiati affinando le capacità discriminatorie, correggendo i concetti errati e imparando modalità di pensiero più adattative.

Questo richiede un grande impegno, così come a ben guardare lo richiede la normale vita quotidiana che ci impone un adattamento ad una realtà che è divenuta così complessa, così interconnessa con migliaia di fattori assolutamente imprevedibili da apparire il più delle volte assolutamente ingestibile.

L’uomo moderno è continuamente costretto a prendere decisioni più o meni rilevanti rispetto alla propria vita, come guidare un’automobile, fare degli investimenti finanziari, cambiare lavoro o luogo di residenza, trovandosi a dover distinguere tra situazioni che sono realmente pericolose e quelle che semplicemente sembrano pericolose, dovendo analizzare e confrontare migliaia e migliaia di dati disponendo di strumenti cognitivi che non sono adeguati a tale compito.

Questo contrasta con l’idea di molti psicologi che sognano di descrivere la mente e i suoi processi in modo tanto economico da rendere la psicologia semplice e precisa; ma questo non tiene conto del fatto che il funzionamento della nostra mente non dipende da poche e semplici regole perché, durante il lungo periodo dell’evoluzione, il nostro cervello ha accumulato molti meccanismi, che hanno dovuto rispondere a esigenze diverse e talvolta antitetiche nel continuo confronto con la mutevolezza della realtà vissuta.

Per questo l’alternativa proposta dalle scienze cognitive va nella direzione opposta alla semplificazione imperante e promuove la complessità suggerendo che l’unica risposta possibile per un buon adattamento è l’adozione di teorie interpretative adeguatamente complesse, tali da poter affrontare con successo la complessità della realtà che siamo chiamati a vivere.

Ma il cammino non sembra semplice perché, come sosteneva Diderot, il maggior filosofo dell’illuminismo francese:

L’intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l’immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme, forse, transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci pone dal di fuori, disponiamo solo di un’esperienza lenta e di una ragione limitata.

Affermando come la sua concezione di ragione non assomigliava affatto a quella caricatura della “ragione illuministica” di cui possiamo leggere purtroppo ancora troppo spesso anche in alcuni manuali di psicologia.

Manuale delle tecniche psicologiche (2022) di Bernardo Paoli ed Enrico Parpaglione – Recensione

Il volume “Manuale delle tecniche psicologiche” di Paoli e Parpaglione ha l’intento di andare oltre un unico paradigma di riferimento, presentando svariate tecniche utilizzabili dal professionista.

 

“Manuale delle tecniche psicologiche”, un eccellente testo nato ad opera di Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta, ideatore del modello di Terapia Breve delle Esperienze di Equilibrio, co-fondatore dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche, docente di Terapia Breve presso scuole di specializzazione in psicoterapia, consulente e formatore, autore di diversi saggi, ed Enrico Parpaglione, psicologo e psicoterapeuta, trainer e supervisore in Schema Therapy, co-fondatore dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche, Direttore di Training Internazionale Certificato in Schema Therapy. Un validissimo testo all’interno del quale hanno collaborato diversi professionisti di differenti formazioni, orientamenti e specializzazioni.

Un testo che raccoglie numerose tecniche psicologiche tra le più utilizzate, descritte, schedate ed approfondite in modo preciso e chiaro.

Le tecniche psicologiche contenute in questo manuale possono essere definite con nomi alternativi come: esercizi, homework, indicazioni, suggerimenti, suggestioni, prescrizioni, feedback, rimandi, compiti. Ma credo che la parola che si addice resti “esperienze” (Paoli e Parpaglione, p. X).

Tantissime le tecniche raccolte e descritte, distribuite in ordine alfabetico all’interno del suddetto manuale come ABC, Aforismi, Autoipnosi, Body scan, Come peggiorare, Come se, Congiura del silenzio, Controrituale, Defusione, Desensibilizzazione, Dialogo socratico, Dilazione della risposta, Esposizione, Fototerapia, Genogramma, Grounding, Lettere, Mindfulness informale, Prescrizione del sintomo, Pulpito delle lamentele, Respirazione diaframmatica aiutata, Rilassamento Muscolare Progressivo, Sedia vuota, Stop del pensiero, Token Economy, Vantaggi e svantaggi, Zaino.

Il lettore esperto, potrà già notare come l’intento degli autori del manuale è stato quello di andare oltre un unico paradigma di riferimento, offrendo al professionista una raccolta di strumenti validi che possano divenire significativi all’interno e fuori dal proprio studio e facilitare la comunicazione tra i professionisti.

Ogni tecnica viene schedata e descritta in modo preciso, mettendo in risalto le situazioni per le quali è più indicata, obiettivi ed effetti attesi, cosa viene detto e viene fatto, presupposti teorici all’utilizzo della tecnica, testi che ne fanno menzione e tabelle/schemi/allegati.

Ritengo che il Manuale delle tecniche psicologiche” sia veramente uno risorsa preziosa da inserire nella propria libreria, dal forte valore formativo, utile sia al professionista che allo/a psicologa/o in formazione.

 

I disturbi dell’alimentazione, l’ansia, l’autostima e il perfezionismo nello sport

I Disturbi dell’Alimentazione sono associati a conseguenze fisiche e psicologiche che possono portare ripercussioni sia a breve che a lungo termine e che influiscono sulla vita e sulla prestazione sportiva di un atleta.

 

Disturbi alimentari nello sport

In questo studio è stato selezionato un campione che prevede ginnaste e calciatrici che riportano problematiche relative alla gestione alimentare e donne non atlete (Vardar et al., 2006). La porzione di campione femminile con problematiche legate a disturbi alimentari presenta inoltre maggiori livelli di ansia, bassa autostima e perfezionismo (Sundgot-Borgen et al., 2013).

I risultati di questo studio mostrano che le atlete sono maggiormente a rischio di insorgenza di un disturbo alimentare a causa della pressione ambientale, che richiede di raggiungere una composizione corporea ottimale per una prestazione migliore della concorrenza (Cook et al., 2008). Tuttavia, questo studio dimostra anche che nella popolazione femminile di “non atlete” sono presenti comportamenti attinenti al disturbo dell’alimentazione, poiché non sono presenti un’educazione allo sport e un’educazione alimentare corrette.

Per quanto riguarda le componenti psicologiche, è emersa una correlazione positiva e statisticamente rilevante tra l’ansia (comprende sia l’ansia di tratto che quella di stato) e i comportamenti alimentari problematici, che sono stati analizzati tramite il test EAT-40 (Coelho et al., 2013). Un’altra ricerca ha riportato che livelli più alti di ansia innescata dallo sport correlano positivamente con l’insorgenza di una sintomatologia bulimica; inoltre, vi è una maggiore propensione alla magrezza generale (Holm-Denoma et al., 2009).

Perfezionismo e autostima nello sport

Quando si usa il termine perfezionismo si fa riferimento a una caratteristica di personalità che comporta la creazione di standard eccessivamente elevati che vengono accompagnati da una valutazione autocritica molto severa (Frost et al., 1990). L’analisi di regressione condotta nello studio ha mostrato come il perfezionismo e i livelli di ansia siano in una relazione di dipendenza molto forte (Petisco-Rodriguez et al., 2020).

I risultati dello studio selezionato riportano una correlazione positiva tra ansia e perfezionismo, in particolare risulta una interdipendenza con la prima sottoscala, ovvero quella del perfezionismo orientato verso sé stessi e una correlazione negativa con la seconda, che riguarda il perfezionismo legato alla sfera sociale (Koivula et al., 2002).

Lo sport, l’allenamento e il dover mantenere un corpo in forze consente agli atleti di prendersi cura del proprio corpo; tuttavia, se un’atleta si trova in una condizione di voler ottenere maggior controllo, a causa del contesto socioculturale, è più propensa a ricadere in strategie restrittive, per cercare di perdere peso, senza pensare a preservare uno stile di vita sano. L’autostima è stata infatti identificata in molti studi come il fattore principale per la prevenzione di un disturbo dell’alimentazione (Petisco-Rodriguez et al., 2020).

Lo studio selezionato getta le basi per futuri approfondimenti relativi all’autostima e alla prevenzione di possibili comportamenti alimentari che possono rivelarsi dannosi per le atlete.

I tratti di personalità e lo stile di attaccamento come predittori della Gelosia Romantica

La gelosia è intrinseca nella storia dell’uomo e caratterizza tutti gli stadi evolutivi, sia in un contesto familiare che in un contesto socio-culturale e sentimentale (Hart e Legerstee, 2010).

 

White, nel 1981, ha provato a dare una definizione di gelosia romantica, che sembra essere la forma più diffusa per quanto riguarda l’età adulta. Viene descritta come “complesso di pensieri, sentimenti e azioni che segue le minacce all’esistenza o alla qualità della relazione, quando queste minacce sono generate dalla percezione di un’attrazione reale o potenziale tra il proprio partner e un rivale (magari immaginario)” (p. 130). È un fenomeno che, seppur spiacevole, risulta essere adattivo e sottintende un desiderio di mantenere la relazione con il partner duratura nel tempo. (Harris, 2003).

Gelosia e nevroticismo

Un recente articolo di Richter et al. (2022) mette a confronto le dimensioni della personalità analizzando i tratti elencati nella teorizzazione dei Big Five e le dimensioni relative all’attaccamento adulto, considerandoli come predittori della gelosia romantica. Le analisi di regressione che sono state svolte su un campione di 847 soggetti, hanno evidenziato che i Big Five e le dimensioni di vicinanza, di dipendenza e di ansia riguardanti l’attaccamento adulto hanno predetto le differenze individuali della gelosia romantica. È emerso inoltre che livelli più alti di nevroticismo correlano positivamente con la gelosia sia indirettamente che direttamente attraverso le dimensioni dipendenza e ansia dell’attaccamento adulto. Il nevroticismo è caratterizzato da una notevole mancanza di fiducia verso il partner e alti livelli di paura relativi ad una bassa consapevolezza di sé stessi e alla sensazione di essere vulnerabili e sempre sotto minaccia, che potrebbe sfociare in attacchi di rabbia e impulsività. (Costa e MCrae, 2012). I soggetti che presentano maggiori livelli di attivazione rabbiosa e impulsiva manifestano più intense reazioni comportamentali nei confronti del partner (Harris e Darby, 2010).

Gelosia e bassa gradevolezza

Il secondo tratto dei Big Five che è collegato ad una maggiore insorgenza di gelosia è la bassa gradevolezza di sé stessi e dell’altro, considerato come rivale, mentre il terzo predittore relativo alla personalità che correla positivamente con la gelosia è la bassa apertura all’esperienza (Wade e Walsh, 2008). I soggetti che sviluppano una maggiore apertura all’esperienza riportano maggiori livelli di flessibilità verso l’interpretazione dei comportamenti ambigui del partner e una migliore gestione della possibile minaccia (Schmitt e Buss, 2001).

Gelosia ed esperienze pregresse

Inoltre, è emerso che il genere, lo status della relazione e le esperienze di infedeltà che hanno coinvolto precedentemente i soggetti hanno influenza positiva per quanto riguarda l’associazione e le differenze personologiche della gelosia romantica.

È uno studio che getta le basi per una buona comprensione delle modalità relazionali di coppia e potrebbe aprire molte porte per quanto riguarda la gestione di problematiche relative al rapporto con il partner e nel funzionamento sociale più generale.

 

Perché mi vengono gli attacchi di panico? – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Perché mi vengono gli attacchi di panico? Comprendere la paura della paura”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri di divulgazione rivolti al pubblico. Nell’episodio di cui oggi vi proponiamo l’ascolto si parlerà di Attacchi di Panico.

Quando l’ansia diventa un limite per la vita e il benessere dell’individuo, è importante affrontarla con trattamenti adeguati. La terapia cognitivo comportamentale è un intervento scientificamente validato e riconosciuto a livello internazionale per il trattamento del Panico.

In questo episodio del podcast sono fornite indicazioni per comprendere il circolo vizioso dell’attacco di panico come primo passo verso la risoluzione della sintomatologia. Uno sguardo per capire cosa succede quando sviluppiamo la paura della paura e cosa possiamo fare per gestire al meglio i momenti problematici.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Emozioni e sentimenti: sovrapposizioni e differenze

Emozioni e sentimenti sono oggetto di ampio dibattito in campo psicologico e talvolta questi due termini vengono equivocati. Sebbene condividano aspetti simili, vi è una marcata differenza di essi.

Arianna Moroni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Le emozioni

Nel corso del tempo sono stati condotti molti studi su emozioni e sentimenti. Una delle ricerche più note è quella portata avanti dagli psicologi statunitensi Paul Ekman e Wallace Friesen, nella tribù dei Fori in Papua Nuova Guinea all’inizio degli anni ’70. Dai risultati di questa indagine oggi sappiamo che esistono sei emozioni di base universali, cioè emozioni che tutti gli esseri umani possono provare, nello specifico: felicità, rabbia, tristezza, paura, disgusto, sorpresa (Ekman, 1999).

In parallelo, le sempre più accurate tecniche sperimentali hanno permesso di chiarire il funzionamento delle emozioni. In questo campo Antonio Damasio ha certamente offerto il suo prezioso contributo. L’autore sostiene che le emozioni e i sentimenti siano essenziali soprattutto per prendere decisioni e organizzare il tempo e le proprie relazioni interpersonali. Inoltre, aggiunge Damasio, dal punto di vista neurobiologico, un’emozione è un insieme di risposte chimiche e neurali prodotto dal cervello quando viene rilevata la presenza di uno stimolo emotivamente saliente: un oggetto o una situazione, per esempio. L’elaborazione dello stimolo è possibile che avvenga in modo consapevole. Tuttavia, non è necessario che lo sia, dato che le risposte emotive vengono generate automaticamente. Il cervello, infatti, è evolutivamente predisposto a rispondere a determinate classi di oggetti ed eventi con determinati repertori di azioni.

Da quanto emerge da ulteriori indagini, l’amigdala, una minuscola struttura a forma di mandorla, parte del sistema limbico e collegata a stati motivazionali come la fame e la sete, svolge un ruolo importante nella memoria e nelle emozioni ed in particolare nella paura (Pessoa, 2010).

Sono state appunto utilizzate tecniche di imaging cerebrale per mezzo delle quali si è scoperto che quando ad un soggetto vengono mostrate immagini minacciose, l’amigdala si attiva. È stato inoltre osservato che un danno all’amigdala è implicato nell’esordio e mantenimento della paura (Ressler, 2010).

In linea con questi risultati, Damasio in “Fundamental Feelings” (2001) sottolinea che varie strutture, come l’amigdala e la corteccia prefrontale ventromediale, assumono il ruolo di mediatori tra l’elaborazione di stimoli emotivamente salienti e le risposte emotive. Viene specificato però che i veri elaboratori delle emozioni sono le strutture dell’ipotalamo, del proencefalo basale e del tronco encefalico. Queste strutture trasmettono segnali al corpo e al cervello andando così ad originare un’emozione. I target principali delle risposte emotive sono quindi il corpo, gli organi interni, il sistema muscolo-scheletrico ed il cervello stesso, ad esempio, i nuclei monoaminergici nel tegmento, parte del tronco encefalico.

Ad ogni emozione sono associate modificazioni fisiologiche, cognitive e/o motorie. Infatti, quando il cervello rileva stimoli emotivamente salienti (Damasio, 2005), invia segnali specifici al sistema endocrino, che è responsabile del rilascio e della regolazione degli ormoni nel sangue, al sistema nervoso autonomo, che agisce sull’omeostasi, sul sistema cardiovascolare, sugli organi interni e sul sistema muscolo-scheletrico, che è responsabile di alcune risposte tipicamente emotive, come il freezing, la fuga o le espressioni facciali legate alle emozioni. Molte risposte fisiologiche che sperimentiamo quando proviamo un’emozione, come i palmi delle mani sudati o il battito cardiaco accelerato, sono regolate dal Sistema nervoso simpatico, un ramo del Sistema nervoso autonomo (McCorry, 2007). Il sistema nervoso autonomo controlla le risposte involontarie, come la pressione arteriosa e la digestione (Lazarus et al, 1984), il sistema nervoso simpatico è incaricato di controllare le reazioni di lotta o fuga. Quando affrontiamo una minaccia, queste risposte preparano automaticamente il nostro corpo a fuggire dal pericolo o ad affrontare la minaccia (Kozlowska et al, 2015).

Scherer (2005) identifica cinque componenti delle emozioni in base al sistema coinvolto e alla sua funzione:

  • la componente cognitiva, collegata all’elaborazione delle informazioni e al sistema nervoso centrale. La sua funzione fondamentale è la valutazione di oggetti o situazioni presentati all’organismo;
  • la componente neurofisiologica, che svolge un ruolo nella regolazione del funzionamento degli organi interni, a seconda del segnale prodotto dal sistema nervoso centrale, dal sistema nervoso autonomo e dal sistema neuroendocrino;
  • la componente motivazionale, che prepara e mette in moto azioni;
  • la componente motoria, connessa all’attività del sistema nervoso somatico, che svolge la funzione di comunicare la reazione comportamentale e le intenzioni motorie;
  • la componente soggettiva, che ha origine nel sistema nervoso centrale e serve per monitorare lo stato interno dell’organismo e l’interazione che quest’ultimo ha avuto con l’ambiente (Scherer, 2005).

I sentimenti

Anolli (2002) definisce i sentimenti come disposizioni affettive rivolte in maniera relativamente stabile verso specifici oggetti, prodotti sulla base di esperienze precedenti e dell’apprendimento sociale. Coinvolgono processi consapevoli che generano aspettative, desideri, atteggiamenti e comportamenti verso l’oggetto (Anolli, 2002). I sentimenti, pertanto, sono influenzati da esperienze personali, convinzioni e ricordi. I sentimenti sono dunque disposizioni d’animo relativamente stabili, mentre le emozioni possono essere temporalmente circoscritte (Anolli, 2002).

Secondo Le Doux (2012), originati nelle regioni neocorticali del cervello, contrariamente alle emozioni, i sentimenti sorgono dalle emozioni e sono modulati da esperienze personali, credenze, ricordi e pensieri legati ad una particolare emozione.

Damasio (2001) descrive i sentimenti come “rappresentazioni mentali dei cambiamenti fisiologici che caratterizzano le emozioni”. I sentimenti infatti amplificano l’impatto di una determinata situazione, rafforzano l’apprendimento e aumentano la probabilità che situazioni simili a quelle sperimentate vengano anticipate.

Secondo la prospettiva di Damasio (2013), i sentimenti sono connessi alla regolazione omeostatica, che va dai processi di base, come il metabolismo, alle più complesse emozioni sociali. Una caratteristica cruciale dei sentimenti è la loro valenza, positiva o negativa e questa, insieme all’intensità dei cambiamenti omeostatici, aiuta a spiegare perché l’organismo segua l’orientamento dato da un sentimento (Damasio e Carvalho, 2013).

Emozioni primarie ed emozioni secondarie

Antonio Damasio divide il regno delle emozioni in due gruppi: emozioni primarie e secondarie. Le emozioni primarie sono definite come “innate”, “risposte preorganizzate”, a caratteristiche dello stimolo come dimensione, tipo di movimento e tipo di suono. Ad esempio, la reazione del pulcino di nascondere la testa alla vista di ali larghe che volano sopra di lui ad una certa velocità è una tipica emozione primaria. Tutto ciò che serve per suscitare un’emozione primaria è un rilevamento approssimativo e rapido e la coscienza non è richiesta. Le emozioni primarie sono generate nel sistema limbico, e da lì si espandono al corpo (tramite il sistema nervoso ed endocrino) e ad altre parti del cervello (Schreiber, 1995).

Le emozioni secondarie, invece, nella definizione di Damasio (1995), “hanno luogo quando iniziamo a provare sentimenti e a formare connessioni sistematiche tra categorie di oggetti e situazioni, da un lato, ed emozioni primarie, dall’altro”. Ad esempio, se immaginiamo di incontrare un vecchio amico, potremmo subire dei cambiamenti corporei tipici delle emozioni primarie (la pelle potrebbe arrossire, il battito cardiaco accelerare, ecc.), ma in questo caso la reazione corporea sarebbe innescata da quella che Damasio chiama “immagine mentale” – cioè sarebbe innescata “off-line”, non direttamente dalla percezione di uno stimolo, ma piuttosto attraverso i pensieri. Il sistema limbico non è sufficiente per le emozioni secondarie, perché non è in grado di supportare “categorie di oggetti e situazioni”. Il circuito cerebrale legato alle emozioni secondarie deve quindi essere più ampio e, ipotizza Damasio, deve includere meccanismi legati alle emozioni primarie oltre a parti della corteccia responsabili dell’elaborazione di stimoli complessi (come valutazioni e aspettative). Sembrerebbe infatti più economico in natura formare nuove emozioni da vecchi meccanismi, piuttosto che aggiungerne di nuove (Damasio, 1995).

Damasio, con riferimento a questo concetto, ad esempio, sostiene che il disprezzo, che da alcuni studiosi è considerato una tipica emozione secondaria, condivida molti tratti, e in particolare le espressioni facciali, con il disgusto, emozione primaria che, dal punto di vista evolutivo, è connessa all’evitamento di cibi potenzialmente pericolosi (Damasio 2004).

Le emozioni sono anche caratterizzate da una componente fisica somatica, e provocano immediatamente reazioni corporee qualora ci troviamo in presenza di minacce o ricompense. Gran parte delle risposte emotive sono quindi direttamente osservabili per mezzo di misurazioni psicofisiologiche e neurofisiologiche e test endocrini. Le reazioni corporee attivate dalle emozioni possono ad esempio essere quantificate misurando la dilatazione pupillare (per mezzo dell’eye tracking), la conduttanza cutanea (EDA/GSR), l’attività cerebrale (EEG, fMRI), la frequenza cardiaca (ECG) e osservando le espressioni facciali.

Per quanto riguarda i sentimenti, essi sono misurabili utilizzando strumenti di autovalutazione come interviste, sondaggi e questionari costituiti da scale di valutazione e di autovalutazione.

Le emozioni e i sentimenti, quindi, hanno un impatto significativo sul comportamento, sono interdipendenti tra loro, possono essere copresenti e possono influenzare il modo in cui interagiamo con gli altri.

 

Che relazione esiste tra ansia sociale e pratiche genitoriali?

Uno studio condotto nel 2019 (Gómez-Ortiz et al., 2019) ha indagato le possibili relazioni dirette ed indirette tra pratiche educative materne e paterne ed ansia sociale negli adolescenti, considerando l’influenza dei fattori di mediazione come la bassa autostima e la soppressione emotiva. 

 

Il disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale) è caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione che si attiva in risposta a situazioni sociali in cui le persone hanno paura di essere giudicate e valutate negativamente dagli altri (American Psychiatric Association, 2014).

È uno dei disturbi più comuni tra gli adolescenti e le implicazioni che comporta non si limitano al disagio che provoca, ma anche ai limiti che si hanno nell’adattamento sociale dei giovani alle situazioni e alle interazioni sociali (Knappe et al., 2012).

Indagare e conoscere i fattori eziologici associati alla comparsa del disturbo è necessario per stabilire come prevenire il disturbo. Buona parte delle ricerche riguardanti la diagnosi di fobia sociale si sono concentrate sullo studio dell’associazione tra ansia sociale e pratiche educative genitoriali; i risultati hanno identificato il ruolo rilevante di determinati fattori quali l’iperprotezione, l’eccessivo criticismo, il rifiuto e la mancanza di affetto genitoriale (Garcia-Lopez et al., 2014).

Ansia sociale, iperprotezione e criticismo genitoriale

Analizzando questi fattori singolarmente, l’iperprotezione materna (Knappe et al., 2012; Rork & Morris, 2009; Xu et al., 2017) ed il criticismo costante (Rork & Morris, 2009) sono risultati essere due dei fattori più impattanti sullo sviluppo di ansia sociale (Knappe et al., 2012; Rork & Morris, 2009; Xu et al., 2017); di fatto è stato rilevato che comunemente, i genitori dei figli con fobia sociale si concentrano su ribadire loro cosa non fare piuttosto che sul spiegargli i comportamenti socialmente appropriati da utilizzare (Gulley et al., 2014).

Il criticismo inoltre, è spesso accompagnato da modelli di comunicazione carente o negativa (Hummel & Gross, 2001) e da un minore calore affettivo (soprattutto paterno) (Knappe et al., 2012; Xu et al., 2017).

Controllo genitoriale e ansia sociale: il ruolo di autostima e regolazione emozionale

Un articolo pubblicato nel 2016,(Gómez-Ortiz & Casas, 2016) si è concentrato sullo studio del controllo psicologico e comportamentale genitoriale e sulle pratiche di disciplina; il primo si riferisce all’uso di strategie manipolative ed intrusive che innescano il senso di colpa o il ritiro dell’affetto per controllare il bambino, mentre il secondo si riferisce all’utilizzo di alcune domande dirette per ottenere informazioni dal bambino. Queste pratiche sono descritte come fattori di rischio per l’insorgenza di ansia sociale. Sebbene le evidenze teoriche suggeriscano un ruolo determinante della famiglia per lo sviluppo di ansia sociale, studi che ne hanno ricercato la relazione diretta non hanno riportato dati significativi. Una delle motivazioni potrebbe essere la presenza di una relazione indiretta (e non diretta) tra le pratiche genitoriali e l’ansia sociale, mediata dalle qualità individuali quali abilità di regolazione emozionale o autostima; questi fattori hanno rilevato una stretta relazione sia con l’ansia sociale (Gómez-Ortiz et al., 2018; Jazaieri et al., 2015; Kivity & Huppert, 2018; Vicente E. Caballo, Isabel C. Salazar, and CISO-A Research Team Spain & University of Granada, 2018) che con gli stili educativi genitoriali (García et al., 2018; Turpyn et al., 2015) poiché sembrano mediare vari problemi di adattamento (come depressione, aggressività, ansia ) nei bambini e negli adolescenti (Bozicevic et al., 2016; Wouters et al., 2018). Tuttavia, il ruolo di mediazione giocato da questi fattori non è stato ancora studiato.

Per questo, uno studio condotto nel 2019 (Gómez-Ortiz et al., 2019) ha indagato le possibili relazioni dirette ed indirette tra pratiche educative materne e paterne ed ansia sociale negli adolescenti, considerando l’influenza dei fattori di mediazione come la bassa autostima e la soppressione emotiva.

I risultati, in linea con gli studi precedenti (Gómez-Ortiz & Casas, 2016; Knappe et al., 2012), rilevano una relazione diretta, sebbene lieve, tra le pratiche educative genitoriali e l’ansia sociale. La dimensione del controllo psicologico, sia materno che paterno, è risultata essere la variabile maggiormente associata all’ansia sociale; questo sembra suggerire un legame tra la bassa autostima e le procedure intrusive e manipolative genitoriali (Barber & Xia, 2013).

I dati inoltre hanno rilevato la relazione indiretta, mediata dalla bassa autostima e dalla soppressione emotiva, tra pratiche genitoriali e ansia sociale; la mancanza di affetto e di comunicazione, la promozione limitata dell’autonomia, la mancanza di umorismo ed il controllo psicologico, sono le pratiche genitoriali che sembrano avere un impatto maggiore sull’ansia sociale dei giovani; tra tutte, la variabile che è risultata essere più associata all’ansia sociale è quella relativa alla bassa autostima. Questo, fa pensare che il problema principale di questo disturbo sia la mancanza di fiducia in se stessi e la conseguente costante messa in discussione del proprio valore, che porta alla creazione di interferenze cognitive (come la paura della valutazione negativa da parte degli altri) che sembrano essere il punto di partenze per lo sviluppo di ansia sociale  (American Psychiatric Association, 2014; van Tuijl et al., 2014).

Conclusione

In conclusione, i risultati della ricerca condotta nel 2019 hanno confermato il ruolo perno del contesto, dello stile e delle pratiche genitoriali adottate per lo sviluppo infantile della socializzazione. La famiglia, dovrebbe essere prima di tutto una fonte di affetto ed i genitori dovrebbero sia supervisionare, che accompagnare il bambino ad un sano grado di autonomia, che permetta di interiorizzare il proprio senso di valore e che permetta di gestire le proprie emozioni, ricorrendo a procedure efficaci.

 

Metacredenze, ruminazione e rimuginio nei disturbi di personalità

La prevalenza dei disturbi di personalità nella popolazione generale negli USA e in Europa si aggira attorno a un range del 6–13% (Sansone & Sansone, 2011). Vi è una significativa comorbidità tra i disturbi di personalità e altri disturbi della sfera emotiva (Lenzenweger et al., 2007; Goodwin et al., 2005).

 

Il costrutto di Repetitive Negative Thinking

Partendo da tali premesse, risulta importante approfondire i meccanismi che possono essere affrontati in terapia con i disturbi di personalità, per favorirne gli outcome e i cambiamenti terapeutici. Uno di questi meccanismi, che può essere significativo anche in riferimento alla comorbidità tra disturbi affettivi e disturbi di personalità è il costrutto del Repetitive Negative Thinking.

In letteratura il termine Repetitive Negative Thinking (RNT) fa riferimento a un processo cognitivo caratterizzato da una forma di pensiero ripetitivo, frequente e focalizzato sul sé, che include sia il rimuginio che la ruminazione (Watkins, 2008)

Il rimugino è definito come una catena di pensieri e immagini incontrollabili (Borkoveck et al., 1983). È un tentativo di problem solving a livello mentale relativamente a problemi il cui esito è sconosciuto, ma include la possibilità che possa essere negativo.

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi, dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

La ruminazione è definita come pensieri che focalizzano ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991). La ruminazione è quindi un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo, che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative. La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo.

Il rimugino è solitamente focalizzato sulla risoluzione dei problemi ed è più orientato al futuro, mentre la ruminazione in genere si concentra sui problemi passati.

Il Repetitive Negative Thinking (RNT), che include sia la ruminazione che il rimuginio, è considerato un processo patologico transdiagnostico, che aumenta la vulnerabilità ai disturbi d’ansia e dell’umore e alla loro comorbidità (McEvoy et al., 2013). Pertanto, considerando l’elevata comorbidità tra disturbi di personalità e disturbi d’ansia e dell’umore, è ragionevole ipotizzare che il Repetitive Negative Thinking possa essere maggiormente prevalente anche tra i pazienti con diagnosi di disturbo di personalità.

Parimenti, le metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994) i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti. A volte capita che queste metacredenze, di natura positiva o negativa, portino gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali.

Le metacredenze di natura positiva riguardano l’impatto percepito come positivo delle strategie di coping sui processi cognitivi, come ad esempio “Ruminare mi aiuta a dare un senso ai miei pensieri”, mentre le metacredenze di natura negativa riguardano ad esempio l’incontrollabilità e la pericolosità dei pensieri e processi cognitivi, come ad esempio “Non posso controllare la mia mente”. Tali metacredenze vengono generalmente valutate attraverso il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30; Wells, and Cartwright-Hatton, 2004).

Repetitive Negative Thinking (RNT) e metacredenze nei disturbi di personalità

A fronte della scarsità di ricerche sul tema del Repetitive Negative Thinking (RNT) e delle metacredenze nei disturbi di personalità, lo studio di Spada e colleghi (2021), pubblicato recentemente su Journal of Affective Disorder, ha voluto approfondire il tema delle credenze metacognitive e del Repetitive Negative Thinking proprio in questa tipologia di disturbi. In particolare, l’obiettivo dello studio era quello di verificare se vi fossero differenze significative nelle credenze metacognitive e nel RNT tra i pazienti con diagnosi di disturbo di personalità e pazienti che non avevano un disturbo di personalità.

Nello studio di Spada e colleghi (2021) un campione di 558 pazienti è stato valutato in termini di presenza di diagnosi di disturbo di personalità; a tutti i partecipanti sono stati somministrati diversi questionari self-report: il Penn-State Worry Questionnaire per la valutazione del rimuginio, la Ruminative Response Scale, per la valutazione della ruminazione, il Metacognitions Questionnaire -30 per l’assessment delle metacredenze, e infine il Beck Anxiety Inventory e il Beck Depression Inventory per la misurazione dei sintomi ansiosi e depressivi.

I risultati delle analisi statistiche dimostrano che i pazienti classificati con diagnosi di disturbo di personalità, se confrontati con pazienti che non presentano tale diagnosi, hanno punteggi più elevati nelle scale che misurano la ruminazione e il rimuginio (processi che fanno riferimento al Repetitive Negative Thinking), così come nelle scale dell’ansia e della depressione.

Questi risultati sono coerenti con gli esiti di precedenti ricerche che evidenziano come la gravità della sintomatologia nei pazienti con disturbo di borderline di personalità fosse correlata a maggiori punteggi nelle scale di valutazione della ruminazione e del rimuginio (Peters et al., 2017; Titus, and DeShong, 2020).

Inoltre, in tre scale su cinque del questionario MCQ-30 i pazienti con disturbo di personalità risultavano avere punteggi significativamente più elevati, e in particolare nelle sottoscale “Metacredenze positive riguardo al rimuginio”, “Metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e al pericolo delle preoccupazioni” e “Credenze riguardo il bisogno di controllo dei pensieri”.

In secondo luogo, i risultati delle analisi di regressione hanno evidenziato che nei pazienti con una diagnosi di disturbo di personalità le metacredenze positive riguardo al rimuginio e le metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e alla pericolosità delle preoccupazioni erano predittori del rimuginio; similmente, le metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e alla pericolosità delle preoccupazioni erano predittori indipendenti della ruminazione, insieme al fattore dell’autoconsapevolezza cognitiva.

I risultati dello studio sono in linea con il modello S-REF (Wells, and Matthews, 1994; 1996) che vede le metacredenze come fattori correlati all’attivazione e al mantenimento di strategie di coping disfunzionali, che possono a loro volta portare a un’escalation del distress psicologico e della sintomatologia ansioso-depressiva.

Conclusioni

In generale, quindi, lo studio dimostra che i pazienti con disturbo di personalità riferiscono maggiori livelli di metacredenze e di Repetitive Negative Thinking se comparati con altri pazienti che presentano disturbi emotivi ma che non hanno diagnosi di disturbo di personalità.

In conclusione, il Repetitive Negative Thinking e le metacredenze sembrano essere fattori che possono giocare un ruolo significativo nel mantenimento della gravità del distress psicologico esperito da pazienti con disturbi di personalità. In tal senso, se tali risultati verranno replicati ed approfonditi da ulteriori ricerche, si potrebbe fare strada all’integrazione di nuove prospettive per il trattamento dei pazienti con disturbi di personalità, avendo come target specifico le metacredenze e il Repetitive Negative Thinking attraverso la terapia metacognitiva (MCT), già dimostratasi efficace nel trattamento di un ampio range di disturbi psichici (Normann and Morina, 2018).

Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive – Recensione

“Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive” va da capitoli in cui l’autore ripercorre ricerche ed esperienze sul campo fatte durante i lunghi anni di carriera accademica e di ricerca (in particolare con la sindrome di Down), a capitoli più teorici sul tema della disabilità intellettiva, ad altri più pratici, con esempi e indicazioni utili.

 

Il tema dell’inclusione della diversità è sempre attuale nelle nostre società, che diventano sempre più frenetiche, multiculturali e complesse. È inoltre molto sentito in Italia, paese – almeno a livello scolastico – tra i più inclusivi del mondo, in quanto da decenni non prevede più le scuole speciali per bambini con un qualche tipo di disabilità. Il fatto però che di inclusione si parli da molto tempo, che la si attui quotidianamente nelle scuole e in altri ambienti della società non significa che ciò poi avvenga nel modo più opportuno, né che le persone e le istituzioni che la mettono in pratica lo facciano con adeguata cognizione di causa. Per acquisire maggiori conoscenze in proposito, sia da un punto di vista psicopedagogico che didattico, può essere allora molto utile la lettura di un libro come “Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive” di Renzo Vianello (Erickson, 2012).

L’autore non ha bisogno di presentazioni. Vianello, professore emerito all’Università di Padova, è uno dei massimi esperti a livello italiano ed europeo di disabilità intellettive, ambito di cui si occupa attivamente tuttora e sul quale ha scritto tantissimo durante la sua lunga carriera di accademico e ricercatore. Il libro di cui qui si parla è una pubblicazione abbastanza sintetica che raccoglie, sistematizzandoli e integrandoli, interventi fatti a corsi di formazione e convegni sul tema, rivolti in modo particolare a educatori e insegnanti; contributi che, proprio per questo, mantengono un chiaro taglio operativo.

Si va da capitoli in cui l’autore ripercorre ricerche ed esperienze sul campo fatte durante i lunghi anni di carriera accademica e di ricerca (in particolare con la sindrome di Down), a capitoli più di tipo teorico sul tema della disabilità intellettiva, ad altri (e sono la maggior parte) di tipo più pratico, con esempi e indicazioni molto utili, non solo per far comprendere cosa significhi da un punto di vista cognitivo il concetto di disabilità, ma anche come intervenire, specialmente in ambito scolastico.

Di grande rilievo un concetto che ancora mi sembra abbastanza sottovalutato, ossia l’importanza di impostare la pratica educativa e didattica a scuola sulla base dell’effettiva età mentale del bambino/adolescente con disabilità intellettiva, età mentale che non coincide, né è direttamente estrapolabile, con il punteggio di QI che danno i vari test di intelligenza usati per la diagnosi e che, almeno dal punto di vista didattico, risulta un concetto molto più utile ed esplicativo del QI in quanto permette, a chi si occupa quotidianamente dell’alunno, di farsi un’idea più chiara della condizione dell’alunno e, conseguentemente, di impegnarlo in compiti e attività adeguate al suo livello mentale e per lui quindi effettivamente affrontabili e utili. Bisogna infatti tenere presente l’importanza di dare al bambino/adolescente con disabilità, sia a casa che a scuola, dei compiti per lui affrontabili, in modo da evitare vissuti di frustrazione e conseguente senso di incapacità che, se protratti nel tempo, possono determinare stati di demotivazione difficilmente superabili.

Solo così la pratica didattica può concretizzarsi in attività non solo adeguate alle capacità del ragazzo ma anche effettivamente utili a rafforzare le sue capacità di base comunque presenti, evitando di ridurre l’insegnamento alla ripetizione dei programmi e degli argomenti trattati in classe proposti in modo molto più semplificato.

Grande importanza infine è data dall’autore all’inclusione relazionale in classe dell’alunno con disabilità, attraverso un suo coinvolgimento nelle attività della classe e nel rapporto coi compagni, attività in cui si trova a svolgere un ruolo di mediatore fondamentale il docente di sostegno, la cui figura esce notevolmente rafforzata e valorizzata da un libro come questo, responsabilizzandolo maggiormente assieme al resto del team docente. Tutto ciò ovviamente senza idealizzazioni di sorta da parte dell’autore, ma sempre mostrando un grande spirito pragmatico, riconoscendo apertamente tutte le difficoltà che attuare un’adeguata inclusione crea ai docenti della nostra scuola, già così provata dai progressivi tagli di risorse degli ultimi decenni.

Per questo la lettura di questo saggio (e, per i lettori più curiosi e interessati al tema, anche di diversi altri dell’autore indicati puntualmente in bibliografia), grazie anche alla chiarezza espositiva e al taglio pratico che lo caratterizza, costituisce a mio avviso un’azione necessaria per chi si occupa da vicino di disabilità intellettive, sia che si tratti di un docente di sostegno, per riuscire ad approntare attività didattiche più adeguate all’alunno, sia che si tratti di un educatore, sia infine che si tratti di uno psicologo clinico, soprattutto per la possibilità di trovare spunti e approfondire ulteriori possibilità, certamente meno battute nella pratica clinica delle istituzioni sanitarie pubbliche, relative alla valutazione cognitiva del bambino/adolescente con disabilità intellettiva.

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