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Affrontare i temi dolorosi con la Detached Mindfulness (DM) – PARTECIPA ALLA RICERCA

Nella concettualizzazione LIBET sono centrali le credenze metacognitive di intollerabilità e condizionabilità del tema doloroso. Un approccio che tipicamente tratta le metacredenze cognitive è la terapia metacognitiva (MCT), che propone interventi misti comportamentali/esperienziali che sono previsti anche nella cornice del modello clinico LIBET.

 

Il modello di concettualizzazione clinica dei disturbi emotivi Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET) è uno strumento che si basa su due concetti fondamentali: i Temi Dolorosi e i Piani Semi-adattivi. In particolare, i Temi Dolorosi sono definiti come stati mentali percepiti come intollerabili dalle persone e rappresentati nella coscienza come core beliefs (es. Io incapace/non amabile/debole), ovvero come descrittori di sé e della propria storia (self-knowledge e self-beliefs) (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016;  Sassaroli et al. 2021). A differenza dei modelli CBT e costruttivisti, che concettualizzavano i self beliefs come variabili di partenza del processo psicopatologico, il modello LIBET assume che il concetto clinico di “tema doloroso” sia un esito di processi metacognitivi disfunzionali che inducono il soggetto a mantenere fissa l’attenzione su stimoli a cui è vulnerabile e poi ad utilizzarli per creare o rinforzare rappresentazioni di se stesso e della propria storia personale, che cronicizzano ulteriormente la sua vulnerabilità a certi stimoli e rafforzano le sue strategie tipiche di pensiero e comportamento (Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016). Ad esempio una persona con genitori criticanti di fronte all’errore, potrebbe crearsi un’idea di sé come “incapace” (tema doloroso), vissuta come intollerabile e fortemente condizionante, e pertanto sviluppare una particolare sensibilità a tutte le situazioni e gli stimoli che potrebbero esporlo all’errore e farlo venire a contatto con il dolore della sua vulnerabilità. Per proteggersi da questo è possibile che tenda ad evitare tali situazioni o rimuginare su possibili scenari per controllarli/ prevenirli (piano).

Sono quindi centrali nella LIBET le credenze metacognitive di intollerabilità e condizionabilità del tema. Un approccio che tipicamente tratta le metacredenze cognitive è la terapia metacognitiva (MCT), la quale propone interventi misti comportamentali/esperienziali che sono previsti anche nella cornice del modello clinico LIBET (Ruggiero e Sassaroli, 2013)

Secondo l’approccio metacognitivo, alcune persone rimangono imprigionate nel vortice della loro sofferenza emotiva in quanto la loro metacognizione di fronte a determinate esperienze interiori, dà vita ad un particolare modello di risposte che contribuisce a mantenere e a rinforzare la sofferenza. In altre parole, la sofferenza psicologica sarebbe legata all’attivazione di un pattern disfunzionale di cognizione (Cognitive Attentional Syndrome, CAS), che consiste nell’attenzione focalizzata su di sé, stili perseveranti di pensiero (rimuginio/ruminazione), strategie attentive di monitoraggio della minaccia e comportamenti di coping che non riescono a modificare le credenze erronee.

In tale cornice teorica, il trattamento mira a modificare il CAS attraverso il cambiamento dello stile cognitivo (Wells, 2005). Una strategia per raggiungere questo obiettivo è la detached mindfulness (DM), o consapevolezza distaccata, la quale indica uno stato di consapevolezza dei pensieri e il distacco da questi in assenza di elaborazione concettuale. La detached mindfulness condivide alcuni elementi caratteristici delle forme di meditazione mindfulness ma si differenzia per alcune caratteristiche: non prevede alcun ancoraggio corporeo come il respiro, non si concentra sulla consapevolezza del momento presente né sull’assenza di giudizio nei confronti di sé, non richiede una pratica continua ed estensiva. La consapevolezza distaccata risulta quindi focalizzata in modo specifico sull’acquisizione di consapevolezza metacognitiva, sulla separazione del senso di sé dai fenomeni cognitivi e sull’abbandono di risposte rimuginative (Caselli, Ruggiero e Sassaroli, 2017). La detached mindfulness mira quindi a modificare il modo in cui le persone si relazionano alle proprie cognizioni e soprattutto uno degli obiettivi è proprio quello di impedire che i pensieri influenzino il concetto di sè (Wells, 2009). A tale scopo la detached mindfulness propone diverse tecniche ed esercizi esperienziali, tra i quali le libere associazioni (Free Association Task) e la ripetizione verbale (Verbal Loop).

Nello specifico, la tecnica delle libere associazioni prevede che il terapeuta chieda al paziente di sedersi in silenzio ad osservare il fluire dei propri pensieri o ricordi, che emergono spontaneamente durante l’ascolto di stimoli verbali. L’obiettivo non è quello di rievocare altri ricordi o di pensare attivamente a qualche argomento ma di osservare ciò che accade, o non accade, nella propria mente.

La tecnica della ripetizione verbale invece consiste nel presentare ripetutamente al paziente i suoi pensieri, avvalendosi o meno di uno strumento di registrazione, per farne decrescere la salienza e il significato. Questo avviene perché i pensieri cominciano ad essere percepiti più come dei suoni che come qualcosa che trasmette informazioni interne (Wells, 2009).

Attualmente la letteratura in merito all’impatto e all’efficacia delle tecniche di detached mindfulness è piuttosto limitata. In particolare, non sono presenti studi che confrontino l’efficacia di due tecniche di Detached Mindfullness sulla diminuzione delle credenze negative sul sè e sull’intollerabilità e condizionabilità del tema, tuttavia è presente uno studio (Gkika, S., & Wells, A., 2015) in cui è stato sottolineato come le associazioni libere abbiano una influenza significativa sulla diminuzione dei pensieri negativi, compresi quelli su se stessi.

Alla luce del quadro teorico sopra esposto, Studi Cognitivi sta attualmente conducendo una ricerca con lo scopo di valutare l’impatto e verificare eventuali differenze tra due esercizi proposti dall’MCT nel promuovere la consapevolezza distaccata dai temi personali indagati con il modello LIBET.

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Relazioni sociali in assenza di gravità: astronauti in orbita

Una nave spaziale multiposto prevede che gli astronauti siano legati, non solo alla propria navicella, ma anche gli uni agli altri e formino con la nave spaziale quello che può essere definito “sistema uomo-uomomacchina”.

 

Gli eroi della solitudine

 È evidente che gli occupanti di un’astronave dovranno restare in permanenza al posto centrale di pilotaggio, mantenersi in contatto radio con la Terra, fare il punto, dedicarsi ad esperimenti e ad osservazioni scientifiche, vegliare sul buon funzionamento dei diversi sistemi e apparecchi di bordo e se necessario ripararli. Quando alla fine saranno giunti alla meta, gli astronauti non avranno quasi il tempo di riposarsi. Solo specialisti altamente qualificati potranno venire a capo di impegni tanto complicati. Più numerosi saranno gli uomini a bordo, meglio sarà per la missione. Ma le possibilità delle astronavi sono limitate, bisognerà quindi economizzare al massimo sul peso e, cosa altrettanto importante, limitare al minimo indispensabile le riserve di sostanze che permettono di produrre aria e cibo. Una delle soluzioni più opportune consiste nel curare al massimo la formazione degli astronauti, che dovrà essere il più possibile completa (Emurian & Brady, 2007, pp. 113-114).

La secolare esperienza degli uomini di mare attesta che l’assegnazione di più compiti è perfettamente realizzabile. L’equipaggio delle prime astronavi interplanetarie potrà consistere soltanto in quattro o sei uomini che si ripartiranno razionalmente diversi compiti da svolgere. Il grado di comandante verrà attribuito ad un cosmonauta esperto, al tempo stesso pilota e ingegnere, altamente competente in navigazione cosmica e apparecchiature radio, che conosca a fondo il funzionamento dei principali sistemi di bordo e l’astronave nel suo insieme. Egli piloterà l’astronave nelle fasi essenziali del volo (il decollo, l’atterraggio, il passaggio delle fasi pericolose) e comanderà il resto dell’equipaggio.

Non si potrà fare a meno di un pilota competente in cosmologia (la branca dell’astronomia che si occupa della struttura dell’universo) e ovviamente pratico di navigazione cosmica. Egli avrà l’incarico di stabilire le traiettorie ottimali di volo e di elaborare il modo migliore di dirigere l’astronave secondo queste traiettorie. Simili voli avranno come punto di partenza e di arrivo non soltanto la Terra, ma anche altri pianeti. Passando in prossimità dei corpi celesti, e dunque nei loro campi di attrazione, le traiettorie del volo dipenderanno dalle caratteristiche fisiche di questi corpi e soprattutto dalla loro massa. Il pilota prenderà in considerazione anche la direzione dei flussi meteoritici al fine di evitarli in tempo. Egli dovrà conoscere con precisione non solo la parte di Spazio attraversata dalla sua astronave, ma anche il pianeta di destinazione, con particolare riferimento all’accelerazione di gravità sulla sua superficie, lo stato di quest’ultima, la composizione dell’eventuale atmosfera, la struttura del suolo, eccetera. È possibile che, una volta giunti a destinazione, egli debba anche svolgere funzioni di meteorologo, di geodeta e di sismologo, dovendo inoltre essere pronto a sostituire il comandante di bordo in qualsiasi momento (A. D. Kelly & Kanas, 1992, pp. 721-722).

È indispensabile che l’equipaggio di un’astronave comprenda un tecnico operatore radio, il cui lavoro consisterà non solo nell’assicurare il contatto con la Terra, ma anche nell’individuare tramite il radar un eventuale flusso di meteoriti e nel determinare la distanza esatta che separa l’astronave dal pianeta sul quale dovrà atterrare. Le sue competenze dovranno anche comprendere la valutazione dell’intensità delle radiazioni nello Spazio cosmico durante il volo e sul pianeta di arrivo, nonché lo studio di diversi fenomeni fisici e tutti gli esperimenti previsti.

Occorreranno anche i servizi di uno/due meccanici, che avranno il compito di mantenere in buono stato di funzionamento i sistemi dell’astronave. Naturalmente l’equipaggio comprenderà anche un medico (Andersen & Tewfik, 2009, pp. 1029).

Il primo medico- cosmonauta fu Boris Egorov. Nel corso del volo egli misurò la propria pressione e quella dei suoi compagni, analizzò il sangue e l’aria espirata dagli occupanti del veicolo, studiò la sensibilità del sistema vestibolare nello Spazio, il modo in cui l’occhio percepisce i colori in condizioni di volo, i cambiamenti funzionali che intervengono nell’organismo, l’effetto dell’assenza di peso sulla capacità di lavoro e sullo stato psichico (Gagarin & Lebedev, 2016, pp. 138).

I medici-astronauti chiamati a partecipare a voli di lunga durata seguono una preparazione speciale, perché devono possedere conoscenze molto estese dovendo vegliare sulla salute dei membri dell’equipaggio e controllare il funzionamento dei sistemi di sopravvivenza. Giunti sul pianeta di destinazione avranno compiti da zoologi, botanici, microbiologi, geologi, eccetera. Se il caso lo richiede, il medico-cosmonauta deve essere pronto ad effettuare interventi chirurgici. Come a bordo dei sottomarini, per esempio, egli avrà per assistenti alcuni membri dell’equipaggio (T. H. Kelly, Hienz, Zarcone, Wurster & Brady, 2005, pp. 228).

In generale i membri dell’equipaggio dovranno assolvere a parecchie funzioni, tra queste anche la posizione ai posti di pilotaggio. In alcuni casi saranno tutti occupati nello stesso momento: in corso di decollo, durante lo stivaggio, l’atterraggio, l’attraversamento di zone particolarmente pericolose e naturalmente in caso di avaria (Doorn, Gardoni & Murphy, 2019, pp. 125).

Psicologia di gruppo in missione

 Una nave spaziale monoposto costituisce quello che viene definito “sistema uomomacchina”. Una nave spaziale multiposto è evidentemente molto più complessa: in questo caso i suoi occupanti sono legati non solo alla propria navicella, ma anche gli uni agli altri e formano con la nave spaziale quello che può essere definito “sistema uomo-uomomacchina”. Se da un lato una specializzazione maggiormente settoriale e una separazione piuttosto netta delle diverse funzioni di pilotaggio, di stivaggio e di collegamento assicurano una gestione più efficace che nel caso di una nave spaziale monoposto (in cui tutte le funzioni sono compiute da un uomo solo), questa separazione dei compiti esige un coordinamento molto preciso, una profonda comprensione reciproca e l’attitudine a sostituirsi l’uno con l’altro. Soltanto sulla base di queste condizioni l’equipaggio sarà in grado di condurre a buon fine i compiti estremamente difficili che gli verranno affidati (Pagel & Chouker, 2016, pp. 1449). Questa coesione nel lavoro riveste un’importanza particolare quando è necessario prendere decisioni urgenti e non c’è tempo per riflettere. Questo problema è familiare già negli aviatori. Quando il tempo stringe, non basta che tutti conoscano perfettamente le loro mansioni e che siano competenti: occorre anche che si formi una buona squadra, il che esige la compatibilità psicologica di tutti i membri dell’equipaggio. In caso contrario anche se il comandante, il pilota, il meccanico e il tecnico radio fossero tutti all’altezza del loro compito, i risultati sarebbero deludenti. Infatti, dove la competenza professionale e la disciplina di tutti i membri dell’equipaggio si alleano allo spirito di solidarietà e di collaborazione, il successo è assicurato. Il pilota, il tecnico radio, il meccanico e il comandante devono conoscere perfettamente il loro compito; ognuno di essi deve sapere in cosa consistono le mansioni dei propri compagni ed essere pronto, se le circostanze lo esigono, ad essere loro d’aiuto. Nelle criticità la solidità e l’omogeneità di un equipaggio vengono realmente messe alla prova. In tali casi chi si preoccupa unicamente di se stesso, rimettendosi per il resto al solo comandante di bordo, rappresenta un grave pericolo per la squadra (N. A. Kanas et al., 2006, pp. 414-415). Sembra che la mancanza di coesione di un equipaggio risulti dall’assenza di legami di amicizia e di rispetto reciproci ed eventualmente dall’esistenza di sentimenti di inimicizia. Di fatto l’assenza di unità e gli inconvenienti che ne derivano si spiegano soprattutto con la mancanza di contatti e di reciproca comprensione sul piano professionale (Xu, Li & Jiang, 2013, pp. 54). La ricerca in campo psico-sociale evidenzia come la coesione, ovvero quella serie di legami che si creano all’interno di un gruppo, sia legata a un senso di connessione che porta a vedere il gruppo come un tutt’uno: questo senso di connessione aumenta il livello di cooperazione all’interno del gruppo e ne rafforza l’identità. Le dinamiche di natura sociale che conducono un equipaggio verso la coesione passano attraverso tre fasi: la prima corrisponde all’apertura verso le interazioni e la ricerca di interessi comuni; nella seconda si possono formare dei sottogruppi sulla base di affinità comuni, di interessi, di tendenze politiche ed ideologiche; nella terza fase avviene la fusione del gruppo attorno a norme comuni e ad un interesse sociale comune. È chiaro che qualcuno potrà non riconoscervisi, ad esempio per differenze culturali, e che possano verificarsi momenti di tensione o addirittura conflitti più importanti. Naturalmente, le caratteristiche delle personalità individuali giocano un ruolo fondamentale per la creazione di un gruppo coeso. I dati evidenziano come un alto livello di identificazione con la missione sia associato a un più alto livello di condivisione degli obiettivi, di comportamento prosociale e di motivazione (Thompson, 2012, pp. 199- 200). Pur conoscendo bene le particolarità di ognuno dei membri di un gruppo, è impossibile prevedere quale sarà il comportamento del gruppo nel suo insieme, quali rapporti si instaureranno e in che modo le azioni individuali influenzeranno l’attività collettiva. Lungi dall’essere una semplice somma aritmetica di individui, un gruppo costituisce un organismo unico che possiede caratteristiche proprie (Miller et al., 2014, pp. 74). In aviazione la coesione di un equipaggio si crea dopo numerosi voli effettuati insieme, ma evidentemente non è possibile operare nello stesso modo nel caso degli astronauti: gli istruttori e gli psicologi hanno l’arduo compito di formare equipaggi omogenei e coesi prima delle spedizioni spaziali.

 

Autismo e disturbi mentali: la questione della doppia diagnosi

Gli studi di prevalenza sulla doppia diagnosi sono fortemente influenzati dalle variazioni che hanno subìto nel tempo sia il disturbo dello spettro autistico che i disturbi psichiatrici a livello di classificazione e definizione diagnostica, nonché dal fatto che spesso vengono utilizzati dei campioni di pazienti istituzionalizzati.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 5) Autismo e disturbi mentali: la questione della doppia diagnosi

 

“L’eclissi diagnostica” dei disturbi psichiatrici nella popolazione con autismo

Per molto tempo si è ritenuto che le persone con disturbo dello spettro autistico (ASD) o disabilità intellettiva (DI) non potessero avere dei disturbi psichiatrici e questa negazione (o ignoranza) è stata definita con l’espressione “eclissi diagnostica”. Tale mancanza era dovuta a varie ragioni, tra cui l’idea che le persone con disabilità intellettiva fossero troppo compromesse da rendere impossibile la concomitanza con dei disturbi emozionali (Wieseler e Hanson, 1999/2005). Altre ragioni erano la mancanza di psichiatri appositamente formati per la cura di soggetti con disturbo dello spettro autistico o disabilità intellettiva e l’assenza di consenso all’interno della comunità scientifica in merito a quali precise difficoltà dovessero essere considerate dei problemi di salute mentale all’interno di questa popolazione (Lehotkay et al., 2009).

La questione della doppia diagnosi

La letteratura scientifica degli ultimi anni dimostra, invece, il contrario: le persone con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva sono soggette a una vulnerabilità allo sviluppo di disturbi psichiatrici (DP) significativamente maggiore rispetto alla popolazione a sviluppo tipico, soprattutto i casi che presentano sia disturbo dello spettro autistico che disabilità intellettiva (Cooper et al., 2007; Francescutti et al., 2016).

L’espressione “doppia diagnosi”, in questo senso, si riferisce alla coesistenza di un disturbo del neurosviluppo (ASD o DI) alla base e un disturbo psichiatrico. La doppia diagnosi non è, però, una questione semplice dal momento che la presenza di un disturbo psichiatrico può compromettere la valutazione del Quoziente Intellettivo e, viceversa, una compromissione cognitiva può mascherare la presenza di un disturbo psichiatrico (Lehotkay et al., 2009).

La prevalenza dei disturbi psichiatrici nella popolazione con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva

In ogni caso, in letteratura è riportata una prevalenza di disturbi psichiatrici quattro volte maggiore nella popolazione con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva rispetto a quella senza tali diagnosi e questo può essere legato a molteplici cause: biologiche, psicologiche e socio-ambientali (Francescutti et al., 2016). Le stime variano molto in base agli studi (dal 10% all’80%) e questa disomogeneità dipende da vari fattori, tra questi: l’eterogeneità dei quadri clinici intrinseca alle condizioni legate alla neurodiversità, aspetti metodologici legati al campionamento e alle tipologie di studio, e ultimo, ma non meno importante, gli strumenti utilizzati per la diagnosi dei disturbi psichiatrici nella popolazione con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva (Di Sarro et al., 2020). Gli studi di prevalenza sulla doppia diagnosi sono, inoltre, fortemente influenzati dalle variazioni che hanno subìto nel tempo sia il disturbo dello spettro autistico che i disturbi psichiatrici a livello di classificazione e definizione diagnostica, nonché dal fatto che spesso vengono utilizzati dei campioni di pazienti istituzionalizzati, quindi con una maggiore probabilità di avere una doppia diagnosi rispetto alla popolazione generale con disturbo dello spettro autistico, portando dunque a una sovrastima dei risultati (Holland e Koot, 1998).

Le difficoltà del processo diagnostico

In particolare, le difficoltà legate al percorso di diagnosi di disturbi psichiatrici nelle persone con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva possono essere connesse a delle peculiarità nel funzionamento cognitivo, comunicativo e/o sociale; alla carenza di motivazione e collaborazione nei confronti della valutazione psichiatrica; a una diversa manifestazione sintomatologica dei disturbi rispetto alla popolazione a sviluppo tipico; alla limitatezza di esperienze e opportunità di vita; all’incongruenza tra i risultati ottenuti da una valutazione diretta (con la persona con disabilità) rispetto a quelli ottenuti da una indiretta (tramite caregiver); alla sovra-ombratura diagnostica (Sovner, 1986), ossia la difficoltà nel discriminare i sintomi psichiatrici da quelli propri del disfunzionamento cognitivo alla base del disturbo del neurosviluppo; e a molte altre cause (Bertelli, 2019). Inoltre, l’inappropriatezza evolutiva e le difficoltà legate alla comunicazione e all’introspezione non consentono di applicare i criteri diagnostici riferiti ai vari disturbi psichiatrici così come descritti nei classici manuali diagnostici come il DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, edito dall’American Psychological Association [APA]) e l’ICD (International Classification of Disease, edito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS]). Nella popolazione con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva, i sintomi relativi al vissuto soggettivo si manifestano, più spesso, attraverso alterazioni comportamentali. Di conseguenza, la valutazione del disagio psicologico in tale popolazione deve concentrarsi su una valutazione funzionale e sistematica dei comportamenti nei contesti di vita quotidiani (Bertelli, 2019). Inoltre, spesso nei servizi di salute mentale non esistono figure specializzate per la diagnosi e il trattamento degli adulti con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva, soprattutto nel nostro Paese dove, al compimento dei 18 anni, non è previsto un medico che sostituisca il neuropsichiatra infantile, lasciando quindi tali persone prive di un riferimento specialistico (Francescutti et al., 2016).

I disturbi psichiatrici più diffusi nella popolazione con disturbo dello spettro autistico e/o disabilità intellettiva

Secondo una rassegna condotta da Bertelli (2019) sugli studi di prevalenza dei principali disturbi psichiatrici nella popolazione con disturbi psichiatrici, i cui risultati sono sintetizzati nella Figura 1, i disturbi mentali che mediamente mostrano una maggiore prevalenza sono i disturbi di personalità (23.6%), il disturbo da stress post-traumatico (16%; seppur molto variabile tra i diversi studi) e i disturbi dell’umore (9.2%). Nello specifico, la depressione è stimata intorno al 3.8%, mentre il disturbo bipolare intorno all’1.9%. I disturbi psicotici e quelli d’ansia mostrano delle medie di prevalenza più contenute, rispettivamente del 3.9% e 3.5%. Per quanto riguarda i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, la rassegna mostra una prevalenza media del 4,9% nella popolazione con disabilità intellettiva; tuttavia, alcuni studi affermano che questi problemi riguardano fino a un terzo delle persone con disabilità intellettiva e fino all’80% di quelle con disabilità intellettiva più grave. Anche il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) raggiunge in certi casi stime che si avvicinano a un terzo della popolazione con disabilità intellettiva; ciononostante, la media di prevalenza risultante dai diversi studi è 5,2%. I disturbi di personalità mostrano un range di stime molto vasto, ma tendenzialmente maggiore nei contesti ospedalieri rispetto a quelli comunitari, con una media del 23.6%. Di questi, le manifestazioni più frequenti sono il disturbo di personalità non altrimenti specificato (19.1%), seguito da quello borderline (8.7%) e, in generale, dal cluster B o drammatico (24%). Infine, la demenza colpisce circa il 3-4% delle varie sindromi che includono disabilità intellettiva, con un picco del 17-24% per quanto concerne sindrome di Down (Bertelli, 2019).

Autismo e disturbi psichiatrici un focus sulla doppia diagnosi Fig 1

Figura 1. Tassi di prevalenza media dei disturbi psichiatrici principali nella popolazione con disabilità intellettiva (adattata da Bertelli, 2019)

Ulteriori studi epidemiologici mostrano delle stime di prevalenza del 21-35% di disturbi psichiatrici nelle persone con disabilità intellettiva, confermando una maggiore frequenza dei disturbi depressivi, d’ansia e dello spettro della schizofrenia (Bowring et al., 2017).

Per quanto riguarda il disturbo dello spettro autistico, i disturbi concorrenti più frequenti risultano essere i disturbi dell’umore, quelli d’ansia e l’ADHD (Bertelli, 2019). Nello specifico, in una recente meta-analisi (Hollocks et al., 2019) è riportata una prevalenza del 27% per quanto riguarda i disturbi d’ansia e del 23% per quelli depressivi. Per quanto concerne, invece, le stime del disturbo ossessivo-compulsivo e dei disturbi psicotici, esse variano dal 7% al 24% nel primo caso, e dal 12% al 17% nel secondo.

 

La psicosi post-partum e gli effetti sul partner ed il bambino

La causa della psicosi post-partum è stata riscontrata essere il brusco calo di ormoni (estrogeni, progesterone, cortisolo) che avviene subito dopo il parto e, nonostante la gravità di questo disturbo, la prognosi per il decorso è buona, poiché la maggior parte dei casi risponde bene ai farmaci.

 

Cos’è la psicosi post-partum?

La psicosi post-partum è un disturbo mentale che insorge durante il periodo post-parto. L’incidenza della psicosi post-partum è stata dimostrata variare a seconda della popolazione e del paese di riferimento, andando dal 0.89 al 2.6 per ogni 1000 nascite (VanderKruik et al., 2017).

La manifestazione della psicosi post-partum può avvenire come episodio primario o come recidiva di una malattia preesistente, come nei casi del disturbo bipolare (Raza & Raza, 2022) o depressivo (Mighton et al., 2016).

L’insorgenza della psicopatologia è prevalentemente immediata, quindi subito dopo il parto: molti studi infatti confermano la presenza dei sintomi entro la prima o la seconda settimana, dai primi giorni a 3 mesi dopo il parto ed entro le 3 o 6 settimane dal parto. (Raza & Raza, 2022).

Oltre ai sintomi di depressione ed ansia possono presentarsi mania, irritabilità, insonnia, comportamento disorientato, disturbi della coscienza, catatonia, iperattività, allucinazioni (visive e uditive), delirio di persecuzione, suicidio ed infanticidi (Kamperman et al., 2017; Osborne, 2018).

La causa della psicosi post-partum è stata riscontrata essere il brusco calo di ormoni (estrogeni, progesterone, cortisolo) che avviene subito dopo il parto (Holford et al., 2018); gli studi che hanno cercato la relazione tra psicosi, fattori ostetrici, psicologici e sociali hanno stimato che una donna su cinque con disturbo bipolare ha probabilità di sviluppare una psicosi post-partum (Perry et al., 2021).

Per le donne che sviluppano una psicosi post-partum solo nel periodo post parto il rischio di sviluppare successivi episodi è del 69% (Osborne, 2018).

Nonostante la gravità di questo disturbo, la prognosi per il decorso è buona poiché la maggior parte dei casi risponde bene ai farmaci che includono stabilizzatori dell’umore, antipsicotici e spesso antiepilettici (Antoniou et al., 2021; Osborne, 2018; Raza & Raza, 2022).

L’improvvisa insorgenza della malattia e l’intensità dei sintomi, come i pensieri caotici e le percezioni distorte, spesso non permettono alle donne di rendersi conto di ciò che sta succedendo e portano a sviluppare fobie che creano sfiducia verso gli altri e se stesse (Forde et al., 2020).

Uno dei fattori aggravanti riguarda la mancanza di consulenza sulla malattia per le donne ad alto rischio e le loro famiglie; molte volte la mancanza di informazione preventiva crea un sentimento di vergogna che può impedire ai familiari di cercare aiuto (Forde et al., 2019).

Nella fase acuta le pazienti sperimentano un senso di perdita dell’identità e del senso di sé; l’avvenimento è aggravato dalle loro aspettative sulla maternità che vengono smentite, provano un senso di abbandono profondo che le porta a temere per il futuro (Wyatt et al., 2015).

Per questi motivi il sostegno da parte della famiglia sia durante che dopo il ricovero è considerato fondamentale (Forde et al., 2019).

Nonostante una percentuale alta di pazienti (88%), passati 9 mesi dal ricovero, ritorni al lavoro, rispetto alla popolazione generale, esse riportano più frequentemente ansia e disagio con casi di recidiva che influiscono in altre aree (Burgerhout et al., 2017).

Per questo le donne hanno spesso bisogno di ulteriore supporto psichiatrico, che viene fornito coinvolgendo la famiglia, per reintegrarsi dopo il ricovero e per elaborare mentalmente ed emotivamente l’esperienza traumatica.

Gli effetti della psicosi post-partum sul partner

La psicosi post-partum risulta avere effetti significativi anche sui partner delle neomamme, che si ritrovano in una situazione di frustrazione e smarrimento a cui spesso non sanno come reagire. La poca comprensione nei confronti della malattia della compagna, la separazione e la vergogna spesso provata a causa dello stigma della malattia mentale, porta alcune coppie alla rottura della relazione (Engqvist & Nilsson, 2011, 2011).

In altri casi il cambiamento di ruolo del partner da figura di sostegno a figura di protettore e caregiver, porta ad una comunicazione diseguale e paternalistica della coppia (Holford et al., 2018). Altro aspetto rilevante riguarda la vita sessuale delle coppie, che risulta compromessa per via dei problemi di espressione di tenerezza e di interesse femminile verso il partner (Degnan et al., 2021; Ruffell et al., 2019).

Nonostante ciò, una grande percentuale di coppie riferisce cambiamenti positivi a lungo termine grazie ad un aumento di comprensione e di sostegno per il partner (Boddy et al., 2017).

Gli effetti della psicosi post partum sul bambino

Riguardo agli effetti della psicosi post-partum materna sul bambino, sebbene una minoranza di soggetti abbia mostrato problematiche di sviluppo, si riporta uno sviluppo del legame madre-bambino adeguato e positivo se la patologia viene  riconosciuta e trattata.

Un aspetto aggravante riguarda la separazione del neonato dalla madre, poiché è stato riscontrato avere effetti sullo sviluppo dell’intimità e del legame madre-neonato; per questo il ricovero in unità mamma-bambino (mother-baby unit) che permettono la permanenza del neonato e di conseguenza lo sviluppo continuo del legame tra i due risultano essere più idonei (Hill et al., 2019).

Le possibilità che le madri, durante il ricovero, facciano del male ai figli sono minime in base ad uno studio condotto nel 2018 (Ramsauer & Achtergarde, 2018); tuttavia, le madri che presentavano allucinazioni gravi riguardo al figlio e alla sua pericolosità, avevano maggiori probabilità di comportamenti abusivi sul bambino. Anche dopo il trattamento, durante le osservazioni di interazioni madre-bambino attraverso il gioco, i neonati si mostravano meno cooperativi, con comportamenti più negativi e con una paura maggiore verso gli estranei, suggerendo la difficoltà di ripristinare il rapporto una volta compromesso (Chandra et al., 2006).

Conclusioni

In conclusione, una delle problematiche principali riscontrate risulta essere la disinformazione riguardo alle malattie perinatali. Una proposta potrebbe essere quella di incoraggiare la familiarizzazione con i problemi di salute mentale perinatale e con ciò che comportano. È necessaria anche una attenzione alla coppia che vive queste situazioni con un supporto psicologico costante per la madre e per la famiglia (Christiana Arampatzi et al., 2022).

 

Nasce la collana “Psicoterapia Efficace” di Giunti Editore

La collana “Psicoterapia Efficace” dell’editore Giunti e curata da Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli propone la pubblicazione di testi dedicati alla descrizione di modelli d’intervento clinico in psicoterapia la cui efficacia sia basata su prove di fatto, in inglese evidence based.

L’accento sull’efficacia è da tempo un obbligo scientifico per la psicoterapia, la quale è una scienza applicata che pertanto deve armonizzare l’intuito della buona pratica con le prove di fatto empiriche. Su questa doppia esigenza non si insisterà mai abbastanza. Anzi, è lo stesso successo delle pratiche di provata efficacia che ne ha determinato una parziale crisi, crisi che, a sua volta, richiede un rilancio. L’emergere di studi alternativi che hanno cercato di approfondire l’aspetto contestuale e relazionale e non solo quello medico e scientifico è benvenuto e serve a rendere la scienza più applicabile nella pratica clinica ma, al tempo stesso, rischia di creare un abbassamento della guardia nell’aderenza alle procedure più efficaci, il cosiddetto deterioramento o “drift” della pratica clinica (per un approfondimento, vedi: “Waller, G. (2009). Evidence-based treatment and therapist drift. Behaviour research and therapy, 47(2), 119-127”)

La collana è nata nel 2022 e inaugura le sue attività pubblicando tre volumi, tutti collegati alla diffusione della conoscenza della psicoterapia di provata efficacia.

Il potere della terapia psicologica

Il potere della terapia psicologica - CopertinaIl primo libro che pubblicato è “Il potere della terapia psicologica“, di Richard Layard e David M. Clark, traduzione di Thrive: The Power of Psychological Therapy, un lavoro che descrive l’applicazione nel sistema di assistenza sanitaria pubblica britannica di servizi di psicoterapia per ansia e depressione, il cosiddetto programma IAPT (Adult Improving Access to Psychological Therapies programme). La maggior parte di chi soffre di problemi emotivi e psicologici non viene curata, oppure riceve cure insufficienti. Nel libro un economista e uno psicologo uniscono le forze per descrivere come le moderne terapie psicologiche, oltre ad essere altamente efficaci, sono economicamente convenienti per la società.

Gli autori sono Richard Layard, specializzato in economia del lavoro, membro della House of Lords, è professore emerito presso la London School of Economics e David M. Clark, psicologo e docente di Psicologia sperimentale presso l’Università di Oxford dove dirige il Centre for Anxiety Disorders and Trauma.

Il metodo socratico in psicoterapia

Il metodo socratico in psicoterapia - CopertinaLa seconda opera pubblicata è “Il metodo socratico in psicoterapia” che espone il metodo del principale intervento in uso nella psicoterapia cognitivo comportamentale, che a sua volta è la terapia di più solida efficacia empirica. Malgrado la sua impostazione tecnica, il libro è anche ricco di intuizioni cliniche. Il metodo socratico è esposto non solo nei suoi aspetti procedurali e pratici, ma anche aderendo al suo spirito in termini più esistenziali e filosofici, valorizzando la flessibilità e la creatività che sono alla base di sedute di psicoterapia efficaci, quando guidate dal metodo socratico come approccio innovativo all’esplorazione di sé.

L’autore è James Overholser, professore di psicologia presso la Case Western Reserve University, di Cleveland, Ohio. Il suo approccio al trattamento si basa principalmente su strategie cognitivo-comportamentali con un’attenzione particolare al metodo socratico.

La terapia dialettico comportamentale

Terapia dialettico comportamentale - CopertinaIl terzo libro è un manuale di psicoterapia ma sufficientemente comprensibile da poter essere usato anche dai pazienti come testo di auto-aiuto. La soluzione migliore è che il paziente lo usi sotto la guida del terapeuta, discutendolo in seduta. Il volume è intitolato “La terapia dialettico comportamentale”. Questa terapia (in inglese Dialectical Behavior Therapy, da questo momento DBT) è estremamente efficace a sviluppare le abilità necessarie per raggiungere un equilibrio emotivo duraturo. Il libro illustra gli esercizi per acquisire le abilità DBT fondamentali: la tolleranza del disagio, la consapevolezza (mindfulness), la regolazione delle emozioni e l’efficacia interpersonale.

Gli autori sono Matthew McKay, professore al Wright Institute di Berkeley, Jeffrey C. Wood, specialista in trattamenti di terapia breve per la depressione, l’ansia e i traumi e Jeffrey Brantley consulente associato presso il Dipartimento di Psichiatria della Duke University.

 

Consulta le copertine dei tre volumi:

Il potere della terapia psicologica

Il metodo socratico in psicoterapia

La terapia dialettico comportamentale

 

 

Vulvodinia: tra causa e trattamento – FluIDsex

La vulvodinia è una patologia caratterizzata da dolore o fastidio cronico nella regione della vulva per la durata di almeno tre mesi, senza che sia riscontrata alcuna causa eziologica.         

 

Come si manifesta la vulvodinia?

I sintomi possono essere descritti come una sensazione di prurito, bruciore, puntura, irritazione o trafittura, e possono coinvolgere l’intera vulva (vulvodinia generalizzata) o essere localizzati in alcune porzioni dei genitali come il clitoride (clitorodinia) o il vestibolo della vagina (vestibolodinia).

Allo stesso modo, a seconda che vi sia o meno un fattore scatenante, la vulvodinia può essere provocata (ad esempio dal posizionamento di un tampone, o da un rapporto sessuale), non provocata o mista.

Sulla base della sua insorgenza si divide in primaria (se causata dallo sfioramento o dal contatto con uno stimolo) o secondaria (se insorge spontaneamente), e può anche essere classificata in: intermittente, persistente, costante, immediata o ritardata, dipendentemente dalla frequenza con cui si presenta (Vasileva et al., 2020).

Si tratta di una patologia diffusa, con stime che vanno dal 10% al 28% nelle donne in età riproduttiva della popolazione generale. Secondo uno studio pubblicato di recente (Harlow et al., 2014), l’8% delle donne di età compresa tra i 18 e i 40 anni ha riferito una storia di dolore vulvare che persiste da più di 3 mesi, e che ha come conseguenza rapporti sessuali dolorosi (dispareunia). I ricercatori hanno anche rilevato che presentano una maggiore probabilità di svilupparne i sintomi le donne caucasiche (principalmente quelle di origine ispanica) rispetto a quelle di altre etnie (Pukall et al., 2016).

Il segno cardinale per effettuare la diagnosi di vulvodinia è una significativa sofferenza esperita a seguito del test di pressione puntuale apportato con un bastoncino di cotone in uno schema circonferenziale intorno al vestibolo vulvare. Questo inoltre aiuta a mappare la localizzazione e la gravità del dolore vestibolare, che, le pazienti, proveranno in maniera sproporzionata una volta esercitata la pressione attraverso il tocco del tampone (Harrison, 2017).

Sono numerosi i fattori connessi a questa patologia, e comprendono molti sintomi diversi e frequenti comorbidità nell’area pelvica, come le sindromi dolorose urologiche o coloproctologiche, la sindrome dolorosa associata all’endometriosi e la sindrome dell’intestino irritabile. Queste si espandono anche ad aree meno limitrofe, lontane dai genitali, come nel caso del dolore orofacciale e della fibromialgia, un dolore muscolo-scheletrico diffuso che comporta affaticamento. La loro associazione suggerisce che la vulvodinia sia l’espressione di processi fisiopatologici sottostanti simili (Torres-Cueco e Nohales-Alfonso, 2021).

Vulvodinia e psicopatologia

Nelle donne vittime di questa condizione è stata inoltre riscontrata un’ampia gamma di disturbi psicologici, tra cui somatizzazione, disturbi ossessivo-compulsivi, depressione, ansia e sintomi fobici, con conseguenti sensibilità interpersonali, ostilità, paranoia e un peggioramento generale della qualità di vita.

Non è chiaro se questi disturbi siano la causa o la conseguenza della patologia (Tribó et al., 2020), ciò che risulta però evidente, è il profondo disagio psicologico esperito da chi ne soffre.

Le pazienti riferiscono infatti di provare bassa autostima, paura, frustrazione, un’immagine di sé alterata, senso di inadeguatezza, senso di colpa, vergogna e depressione (la quale varia dal basso umore fino a raggiungere livelli clinici che richiedono l’assunzione di psicofarmaci; Buchan et al., 2007). Tuttavia, queste difficoltà non sono determinate esclusivamente dall’esperienza del dolore o dall’incapacità di avere rapporti sessuali in sé, ma piuttosto sono il risultato di narrazioni e ideologie sociali che contribuiscono in larga misura alle esperienze psicologiche negative delle donne con vulvodinia. Per esempio, Marriott e Thompson (2008) hanno affermato che le pazienti provano vergogna a causa dello stigma sociale, delle valutazioni che fanno parenti, amici e partner circa la malattia, così come a causa del fatto che percepiscono di essere giudicate come anormali, o “diverse” (Shallcross et al., 2018).

Le teorie sulla comparsa di questa condizione sono molteplici e l’eziologia è ancora sconosciuta, sebbene sia riconosciuta come multifattoriale.

Eziologia della vulvodinia

Analizzando la patologia da un punto di vista organico, è innanzitutto possibile, a livello locale, parlare di un fattore scatenante primario che provoca un’infiammazione, o un trauma diretto della vulva. Ciò comporta la stimolazione dei recettori del dolore ed eventualmente un’alterazione degli stessi o dei nervi connessi.

Traumi diretti della vulva (ad esempio, a seguito di una episiotomia), traumi diretti/indiretti del fondo pelvico (ad esempio, a seguito di un parto vaginale operativo) possono essere indicati come fattori scatenanti.

Tra le altre cause annoverabili, l’insorgenza dei sintomi può essere legata all’avvio ormonale (assunzione della pillola anticoncezionale, menopausa e parto), ad una lesione o infiammazione dei nervi che trasmettono il dolore dalla vulva alla colonna vertebrale, all’aumento del numero e della sensibilità delle terminazioni nervose nella vulva, all’aumento dei livelli di sostanze infiammatorie nella vulva, alla predisposizione genetica, alla debolezza dei muscoli del fondo pelvico, oppure può anche essere il riflesso di un dolore proveniente da altre parti del corpo, come la schiena o i fianchi, per cui è necessario prendere in considerazione una valutazione muscolo-scheletrica (Vasileva et al., 2020).

Per quanto concerne le cause di matrice psicosociale, la vulvodinia può rappresentare una reazione anomala a fattori ambientali. È emerso che le donne affette dalla patologia, presentino una probabilità circa tre volte maggiore di aver subìto gravi abusi (psicologici, fisici e sessuali) nell’infanzia e di aver vissuto nella paura e nella percezione di pericolo circa subire ulteriori vessazioni di varia natura (Khandker et al., 2014).

A proposito di ciò, è stato dimostrato che gli eventi traumatici disregolano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e i sistemi immunitari, che svolgono un ruolo significativo nell’adattamento dell’organismo allo stress. Quando questi sistemi sono sovraccaricati o gestiti in modo inefficace, i processi fisiopatologici possono portare all’infiammazione in varie parti del corpo. Diversi studiosi hanno ipotizzato che la vulvodinia possa essere il risultato di un’alterata risposta immunoinfiammatoria (Plante e Kamm, 2008).

Giungendo agli studi che hanno valutato le pratiche igieniche in relazione alla vulvodinia, è emersa un’associazione tra la patologia e: sensibilità a saponi, cosmetici e materiali abrasivi, infezioni ginecologiche pregresse, cattive abitudini di toilette, in particolare la pulizia dalla parte posteriore a quella anteriore, e l’uso di indumenti aderenti come i jeans. Questi, infatti, possono intrappolare l’umidità nella zona vulvare e creare un ambiente favorevole alle infezioni, in particolare i lieviti, che sono stati trovati correlati alla malattia (Klann et al., 2019).

Il trattamento della vulvodinia

La vulvodinia e i disturbi correlati al dolore sono problematiche poco comprese, poco riconosciute e poco trattate (Ault, 2014) e le donne che ne sono affette spesso sono molto angosciate dal fatto di non riuscire a identificarne una “causa”. In aggiunta, come aggravante, alleviarne la sintomatologia può risultare una sfida perché nessun trattamento funziona per tutte. Risulta dunque necessario lavorare a stretto contatto con gli operatori della salute mentale per trovare, in un range di opzioni, quella migliore per ciascuna paziente.

Secondo la letteratura, gli interventi maggiormente efficaci e di prima linea risultano essere: la riabilitazione muscolare del pavimento pelvico (o terapia fisica del pavimento pelvico con bio-feedback) condotta attraverso esercizi fisici mirati, la farmacoterapia topica (ad esempio: Lidocaina, Ketoprofene o Baclofene) e orale (ad esempio: Pelvilen o antidepressivi triclici), il blocco anestetico dei centri nervosi direttamente coinvolti nella ricezione del dolore e, in caso di fallimento dei precedenti, si può fare ricorso alla chirurgia (anche detta vestibolectomia; Harrison, 2017).

È infine importante coadiuvare i sopracitati trattamenti con un percorso psicoterapeutico, dove i miglioramenti più sostanziali sono stati osservati attraverso: il training autogeno, che favorisce il rilassamento dei muscoli e degli organi interni procurando una sensazione di benessere; la psicoterapia ipnotica, che aiuta la riduzione della sensibilità agli stimoli dolorosi e la gestione delle emozioni ad essi correlati; e la terapia EMDR, la quale permette di elaborare i vissuti traumatici che possono essere legati alla vulvodinia (aborti, maltrattamenti, violenze e abusi sessuali subìti; Onnis, 2019).

 

Strategie e Tecniche per leggere ad alta voce a scuola (2022) di Batini, Giusti – Recensione

“Leggere forte!” è un progetto attentamente studiato, negli obiettivi, nei contenuti, nelle modalità operative, e la sua realizzazione è stata preceduta da un lavoro di indagine specifica, che ha coinvolto un variegato panel di esperti, a testimonianza della multidirezionalità del progetto.

 

I benefici di un approccio precoce alla lettura, da attuare già prima dell’accesso scolastico, risultano numerosi e validati. Un’introduzione tempestiva in questo senso, oltre a stimolare specifiche competenze coinvolte nella funzione di conversione grafema-fonema, estende i propri effetti potenzianti in una prospettiva variegata e multidimensionale. In particolare, dal punto di vista cognitivo, i benefici di una lettura precoce comportano il rafforzamento dell’intelligenza astratta, del pensiero analitico, delle capacità di critica e problem solving. Ma anche l’aspetto socio-emotivo risulta ampiamente giovato da un’alfabetizzazione anticipata, soprattutto nel consolidamento di dimensioni quali regolazione emotiva, empatia, prosocialità, consapevolezza del Sé e del Sé con l’altro, mentalizzazione.

Gli istituti scolastici si stanno attivando da tempo per rendere questo obiettivo raggiungibile, sostenibile e in grado di consentire risultati consolidabili sul lungo termine. E La Regione Toscana ha raccolto tra le prime la sfida, mettendo in atto un progetto attraverso il quale istituire l’ora quotidiana di lettura, un esercizio creativo organizzato all’interno del contesto e dell’orario scolastico con frequenza giornaliera.

Addentriamoci nel progetto: leggere forte!

Il testo costituisce la prosecuzione di una prima parte –pubblicata da Franco Angeli nel 2021– che proponeva 27 suggerimenti di lettura ad alta voce rivolti ad insegnanti della scuola frequentata da bambini da 0 a 6 anni. In questo caso i destinatari sono invece i docenti delle scuole di primo e secondo ciclo, frequentate da ragazzi dai 6 ai 19 anni.

“Leggere forte!” è il titolo evocativo dato al progetto, per evidenziarne esplicitamente lo scopo: favorire la diffusione della lettura a voce alta, una tecnica in grado di coniugare le potenzialità creative e rielaborative della lettura, con la costruzione di un pensiero collettivo generato all’interno di un contesto gruppale-collaborativo.

Il modello operativo si distingue per linearità: l’insegnante dà lettura di un testo ritenuto idoneo per stile e contenuto, e dopo averlo esposto ad un gruppo di allievi ascoltatori, lo rende oggetto di discussioni critico-rielaborative. Ma a fronte di questa apparente semplicità organizzativa, fa da riscontro un grado di strutturazione assolutamente solido e dettagliato.

“Leggere forte!” è un progetto attentamente studiato, negli obiettivi, nei contenuti, nelle modalità operative, e la sua realizzazione è stata preceduta da un lavoro di indagine specifica, che ha coinvolto un variegato panel di esperti, a testimonianza della multidirezionalità del progetto: da quello clinico a quello didattico, da quello pedagogico a quello sociale. Non da ultimo, quello politico burocratico, dato come la presentazione del progetto sia stata affidata al Presidente della Regione, Eugenio Giani, che ne sancisce formalmente l’utilità e l’efficacia, auspicandone la diffusione.

La struttura del progetto

Il testo privilegia la descrizione sistematica del progetto, scegliendo di suddividerne gli aspetti teorico-pratici in tre domini fondamentali, differenti per contenuti, protagonisti ed obiettivi:

  • il primo, denominato “Preparazione”, vede il ruolo centrale e pressoché esclusivo del docente, ed è finalizzato alla scelta e alla preparazione del testo da leggere in classe (6 suggerimenti);
  • il secondo, dal nome “Azione!” Descrive le fasi della lettura e l’ascolto attivo degli ascoltatori, che qui entrano in scena per la prima volta (8 suggerimenti);
  • l’ultima parte, intitolata “Dopo la lettura”, vede la posizione del docente farsi più periferica, per lasciare spazio a quello che costituisce uno dei principali obiettivi del progetto: rendere la lettura non soltanto un esercizio di conversione grafema-fonema automatizzabile, ma uno stimolo direzionante in grado di creare le fila di un pensiero collettivo che coniuga teoria e pratica, fantasia e realismo, esercizio e divertimento (2 suggerimento).

Preparazione

La scelta del testo

Il docente deve prestare attenzione alle caratteristiche della classe che farà da pubblico, valutandone le possibilità e le risorse cognitive, ma anche le propensioni e gli interessi individuali. Il fine principale è quello di scegliere un testo che si mostri coerente con entrambi questi aspetti, in modo da non violare le rispettive zone prossimali degli allievi (ad esempio con un testo troppo complicato) e da non suscitare cadute attentive o motivazionali degli stessi (ad esempio con un testo poco coinvolgente o non in linea con le preferenze della classe).

La lettura e l’interpretazione

Per evitare la neutralizzazione degli spunti motivazionali inseriti all’interno del testo, la lettura del docente non può affidarsi a uno stile frettoloso e superficiale. Non a caso il progetto fa riferimento a una regia del testo, nel tentativo esplicito di equiparare la lettura alla drammatizzazione di un copione teatrale. E in un certo senso è di questo che si tratta, dato come il docente viene esortato a curare la lettura non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche sotto l’aspetto stilistico-prosodico, nella consapevolezza di quanto quest’ultimo possa mostrarsi in grado di attivare e gestire il panorama emotivo dell’ascoltatore.

Sarà dunque necessario  gestire sapientemente pause, punteggiature, intonazioni, modulazioni vocali che potranno agevolare l’identificazione dei nodi narrativi salienti dei personaggi principali, dei nessi associativi, delle frasi alle quali è necessario dare maggior risalto.

Il lettore deve allenarsi all’ascolto della propria voce, comprendendone le caratteristiche, le inflessioni, gli aspetti di ritmo e intonazione, per enfatizzarne il ruolo di canale comunicativo e relazionale. Per questo si consiglia, nel progetto, la registrazione preventiva della lettura attraverso l’utilizzo di nastri magnetici o informatici che ne consentano la riproduzione successiva, in una prospettiva autocritica e correttiva. Per aggiustare il tiro, insomma, validando i punti di forza ed eliminando le criticità. Come ogni bravo regista prima del ciak. Con questi piccoli accorgimenti la lettura diverrà un evento carico di emotività palpitante, e il testo, da un insieme di strutture sintattiche poste le une accanto alle altre, si trasformerà in un oggetto vivificato, una materia pulsante e autentica con la quale identificarsi empaticamente.

Azione!

E finalmente giungiamo al ciak, si gira. Dopo tanta preparazione la lettura ha inizio.

8 consigli pratici, dettati al fine specifico di costruire un contesto di ascolto interattivo e dinamico, in cui gli ascoltatori non siano ricettori passivi di contenuti altrettanto statici, ma co-costruttori di un significato che emerge gradualmente dal testo, parola dopo parola, e viene ogni volta deciso, rimodellato, vissuto sulla base delle intenzionalità comuni.

Neppure il lettore deve limitare il proprio ruolo a quello di referente di dati semantici: l’affascinante concetto di lettura dialogica lascia presagire la costruzione di un contesto in cui lettore e pubblico interagiscono continuamente, creando un flusso emotivo reciprocante che, dalle pagine del testo, penetra le rispettive profondità emotive per venirne preziosamente arricchito.

Il modello di lettura dialogata ha l’ulteriore merito di abolire le gerarchie di ruolo, per ammettere soltanto spazi condivisi: dunque l’insegnante, per quanto conduttore della sessione di lettura, non avrà il monopolio assoluto e insindacabile della stessa.

In conformità al concetto di un ascolto empatico egli dovrà interagire continuamente con il pubblico, cercandone e stimolandone i feedback, impliciti o espliciti, lasciando spazio a domande, commenti e critiche. Ben venga se queste giungono da sole, come frutto di un ascolto partecipante e propositivo. Ma nel caso in cui l’interazione degli ascoltatori si mostri più titubante, l’insegnante dovrà comunque elicitarne la presenza attraverso proposte, appelli, spunti, incentivi salienti e tuttavia mai saturi, al fine di non coartare la capacità immaginativa e di impedirne lo spunto creativo.

Prendendo spunto dall’intreccio narrativo il docente potrà chiedere agli allievi di costruire connessioni con testi già letti, favorendo l’identificazione di punti chiave e divergenze nella trattazione dei temi. E perché no, si può scandagliare il contenuto esperienziale di ciascuno, chiedendo agli ascoltatori se prima di allora si erano mai trovati in una situazione simile a quella riferita dal testo. Una self disclosure favorirà l’enfatizzazione del vissuto empatico, eserciterà la memoria autobiografica e favorirà il processo di identificazione, indispensabile alla creazione di un pensiero collettivo.

Dopo la lettura

Siamo arrivati al termine: dopo la fase della lettura dialogata e dell’ascolto attivo, la presenza del lettore sfuma gradatamente, per lasciare il posto a quella degli ascoltatori, i cui rispettivi spazi creativi possono iniziare a muoversi liberamente, sulla base delle linee guida fornite dal testo. Al docente resta il compito di mantenere una buona rotta, per impedire il sopraggiungere di una creatività fuorviante o inadeguata rispetto al nucleo tematico principale. Via dunque a discussioni e tavole rotonde condotti sulla base delle tematiche e degli spunti narrativi indicati dal testo, che ciascuno degli allievi è chiamato ad interiorizzare in una prospettiva trasformativo-produttiva.

Il progetto ricorda come la discussione finale non debba essere svolta soltanto attraverso il linguaggio verbale, essendo al contrario preferibile il ricorso ad attività da condurre in contesti gruppali, ad esempio laboratori artistici, scrittura creativa, narrazione esperienziale, disegno. La lettura va dunque agita, oltre che verbalizzata. E si costruisce con il fare, l’operare insieme nel rispetto dell’altro.

Per questo è necessario favorire la lettura di più testi, magari focalizzati sul medesimo argomento, al fine di incoraggiare il consolidamento di un pensiero divergente, capace di costruire un’ampia varietà di punti di vista, la formazione di un framing di giudizio integrativo, e dunque sempre pronto all’accoglienza assimilativa di contenuti divergenti dal proprio.

Sfruttare la potenzialità polisemica della lettura consente di creare un contesto percettivo differenziato, in cui il fattore emotivo-immaginativo svolge un ruolo attivante e continuamente rinnovabile proprio perché mai predeterminato, ma costruito sulla base delle singole individualità. Al contempo, inserire un aspetto empatico nell’ascolto aiuta a potenziare lo sviluppo di capacità mentalizzanti, trasmettendo agli ascoltatori uno spunto motivazionale che muove e pro-muove processi di accoglimento del Sé e del Sé con l’altro.

A tal proposito, il progetto di lettura ad alta voce sostiene la biodiversità, intesa come la capacità di stimolare nell’allievo un pensiero collaborante e collaborativo, costruito in un contesto scolastico altrettanto democratico, tramite l’assimilazione integrata di punti di vista, storie di vita, contenuti esperienziali diversi dal proprio e il continuo confronto con il nuovo, lo sconosciuto, il non-noto.

Questa propensione alla conoscenza integrativa del diverso da Sé potrà avvenire attraverso una spinta motivazionale alla ricerca che va sempre stimolata, nell’allievo, anche attraverso la creazione di vere e proprie biblioteche di classe, in cui far convergere i testi più vari e variegati, per contenuti e prospettive. Le aule devono trasformarsi in laboratori di pensiero, flessibile e adattivo, “Cantieri aperti in cui è possibile esprimere opinioni che, confrontate con quelle degli altri e del docente, divengono opinioni cittadine di cittadini democratici” (p. 119).

Il senso del progetto

“Leggere: forte!” è un progetto che trascende le caratteristiche più canoniche della lettura a voce alta. Ciò che sembra emergere dalla presentazione è invece un obiettivo cre-attivo, in cui ogni singola risorsa dell’ascoltatore viene posta al servizio di un intento trasformativo, capace di creare un vissuto emotivo reciprocante da interiorizzare e condividere.

Il progetto tradisce una natura fascinosamente poietica, ove con questo termine si intende la possibilità di creare con il fare e nel fare, lasciando che sia il contenuto delle singole attività collaborative a stabilire di volta in volta gli obiettivi da raggiungere.

Demiurghi di questo avventuroso processo sono da una parte gli allievi, con il loro ascolto partecipativo empatico e dialogante, e dall’altra il docente, che nel suo ruolo di guida direzionante riesce a creare un contesto percettivo, saturo di emozioni non saturate, in cui la creatività è l’unica certezza.

Tra i molteplici messaggi che il progetto si incarica di trasmettere, l’importanza di dar vita a un contesto scolastico in cui la lettura non sia soltanto un obiettivo didattico si mostra il principale.

L’auspicio è che il progetto incontri una diffusione attuativa sempre maggiore. In Toscana, come nel resto del territorio nazionale.

Un consiglio, una promessa, una sfida. Leggere ad alta voce, è un progetto promosso a pieni voti.

Non lavorare stanca. Il cambiamento del concetto di lavoro dall’antichità a oggi

Come è cambiata la concezione del lavoro all’interno dalla società dall’antichità al mondo contemporaneo? Ripercorriamone le trasformazioni.

 

Il concetto del lavoro nell’antichità

Nell’antica Grecia il lavoro era considerato un impedimento allo sviluppo delle facoltà superiori. Nell’Economico, un dialogo di Senofonte, ascoltiamo Socrate sostenere che il lavoro manuale priva gli uomini della possibilità di avere cura degli amici e della città, cosicché chi vi si dedica è considerato un pessimo amico e pessimo difensore della patria.

Anche Platone e Aristotele consideravano negativamente le attività manuali, definendole appannaggio degli istinti bruti. La ragione principale del disprezzo era da riscontrare nel fatto che la società greca si basava sul lavoro degli schiavi, mentre l’uomo libero, quando non era impegnato in battaglia, conosceva unicamente gli esercizi ginnici, la filosofia, i giochi di intelligenza.

Aristotele afferma che lo schiavo è soltanto un esecutore di ordini, un mero strumento di lavoro, incapace di essere creativo e apportare idee e miglioramenti alle sue attività. L’opinione diffusa era che, in un mondo ideale, l’uomo non dovesse lavorare, ma gli dèi, per loro espressa volontà, lo avevano privato dei mezzi di sussistenza, facendolo decadere dalla mitica età dell’oro ad una condizione di regresso e dolore.

Nel mondo classico romano, esisteva un dualismo tra otium e labor, dove l’otium era da preferire in quanto volontario uso delle proprie forze da parte di uomini che si ritenevano liberi dal bisogno di faticare per procurarsi il cibo. Il termine latino labor significava pena, fatica, sofferenza. Laborare voleva dire essere alle prese con un’attività difficoltosa e per nulla gratificante.

Intorno all’anno 1000, il francese travail, con cui oggi si designa il lavoro, era usato per indicare uno strumento di tortura, il tripalium, costituito da tre paletti al quale si legavano i condannati. Travailler voleva dire torturare e il boia era chiamato travailleur. Stessa derivazione in spagnolo, dove vorrei far notare che trabajo, oltre che lavoro, significa ancora oggi mettere al mondo, partorire. La mente vola al passo della Genesi in cui Dio dice alla donna colpevole di avere mangiato dall’albero della conoscenza: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, e con dolore partorirai i tuoi figli”. Il trabajo come esercizio punitivo della divinità.

Il discorso si farebbe assai lungo se volessimo indagare i dialetti. In Sicilia e in Sardegna il lavoro viene definito travagliu e traballu, alla maniera francese e spagnola. Nel vocabolario dei napoletani non esiste la parola lavoro, al suo posto c’è fatica.

Il disprezzo per il lavoro manuale si mantenne per tutto il Medioevo, alimentato dalla contrapposizione tra lo stato contemplativo, inteso come un dono che Dio concede agli ecclesiastici, e la condizione di sofferenza di chi è costretto a procurarsi il pane con il sudore del suo volto. Unica eccezione, la Regola di San Benedetto, ora et labora, letteralmente “prega e fai fatica”, che poneva l’accento sulla necessità di quella parte dell’esistenza che ancora oggi i benedettini dedicano alla conduzione del convento, dei giardini, dell’amministrazione e della foresteria.

Con il protestantesimo di Lutero e Calvino si realizzò una rivoluzione concettuale: il lavoro smise di essere un castigo divino e diventò un modo per trasformare in meglio ciò che Dio ha donato agli uomini. Scrive infatti Lutero: “Quelli che non difendono e non mantengono nessuno, ma consumano, oziano e impoltroniscono soltanto, il principe non dovrebbe tollerarli nel suo paese, ma cacciarli o costringerli a lavorare: come fanno le api, che cacciano via i fuchi che non lavorano e mangiano il miele delle altre api”.

Per Calvino, solo alcuni uomini sono predestinati ad essere salvati dalla Grazia di Dio, indipendentemente dai loro meriti o colpe, e ciò implica una negazione del libero arbitrio. Chi volesse conoscere in anticipo l’identità dei salvati dovrebbe guardare ai loro stili di vita. Per l’etica calvinista, un uomo laborioso che accresce onestamente la propria ricchezza dimostra di essere benedetto da Dio ed è perciò una bestemmia disapprovarne l’attitudine al lavoro.

Il concetto di lavoro nel mondo moderno

Nel mondo moderno la realizzazione sociale dell’individuo cominciò ad essere vista come indissolubilmente legata alle funzioni lavorative.

Liberarsi del lavoro divenne un’idea da pazzi, irrealizzabile nella nascente società industriale. Anche agli occhi di Marx, il lavoro è potenzialmente una manifestazione di libertà e realizzazione, e il limite dei sistemi politici sta nel non essere riusciti a trasformarlo in qualcosa di attraente che costituisca l’autorealizzazione dell’individuo. Non è dunque il lavoro che va demonizzato, ma i suoi aspetti schiavistici.

Rimasero inascoltate alcune voci contrarie. Nietzsche scrisse che il lavoro è una sorta di polizia di Stato che controlla i cittadini e li rende mansueti, poiché “chi lavora è innocuo, nel lavoro consuma la maggior parte della sua energia nervosa che viene sottratta alla riflessione, al sogno, all’amore o all’odio e soprattutto a ogni seria forma di progettualità”. Paul Lafargue, scrittore e genero di Marx, pubblicò nel 1887 un polemico pamphlet intitolato Le droit à la paresse (Il diritto alla pigrizia) nel quale deplora la follia che si era impadronita di uomini e donne della società capitalista: l’amore per il lavoro.

A queste riflessioni nessuno bada più. Oggi la disoccupazione viene fuggita come la peste. Le donne e gli uomini occupano gran parte del loro tempo a lavorare e amano definirsi attraverso i consumi, le vacanze, i viaggi.

Il lavoro non garantisce solamente un salario, ma anche una rispettabilità sociale, la possibilità di creare relazioni, un senso di autostima. Provate a conoscere gente nuova e la prima domanda che vi sentirete rivolgere è: “Cosa fai nella vita?”, come se lavoro e identità personale fossero inscindibili. Un chirurgo che incontra una persona non avrà difficoltà a rispondere, ma pensiamo a un disoccupato: egli proverà vergogna nel definirsi tale. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che la disoccupazione incide sul benessere generale degli individui, provocando ansia, stress e depressione.

Difficile pensare a un tempo futuro in cui l’otium torni ad essere più importante del negotium.

Alessitimia: i possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento

Una ricerca da poco condotta (Sangalli, 2022) si è interrogata sui possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento dell’alessitimia proponendo un modello esplicativo potenzialmente utile nell’orientare gli interventi psicoterapeutici con soggetti alessitimici.

 

Cos’è l’alessitimia?

La capacità di essere consapevole, riconoscere ed elaborare il proprio mondo interno fatto di pensieri ed emozioni è una prerogativa tipicamente umana. Questa abilità introspettiva è andata affinandosi grazie allo sviluppo delle aree neocorticali del cervello e ha permesso all’essere umano un grande vantaggio in termini evolutivi. Tuttavia, per alcune persone più di altre, riuscire a identificare e descrivere le proprie emozioni non è poi così semplice.

Il termine alessitimia indica esattamente questo, ovvero una difficoltà nell’identificare i propri sentimenti, nel comunicarli agli altri e nel discriminarli da sensazioni più prettamente fisiologiche, insieme a uno stile di pensiero orientato all’esterno (ovvero pragmatico e concreto, caratterizzato da un’attenzione focalizzata sulla realtà esterna piuttosto che sull’introspezione; Taylor et al., 1997). Caratteristiche intrapersonali che spesso si accompagnano a stili relazionali freddi, distaccati, distanzianti e superficiali (Vanheule et al., 2007).

L’origine del termine risale agli anni ’70 del secolo scorso quando Sifneos (1973) coniò il termine “alexithymic” per riferirsi a una “mancanza di parola per l’emozione”. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, la ricerca empirica sull’alessitimia si è progressivamente ampliata inserendosi nel complesso panorama della regolazione emotiva e affettiva (Gaggero et al., 2020). Oggi, parlare di alessitimia significa parlare di un tratto di personalità multidimensionale relativamente stabile, normalmente distribuito in popolazione generale, che riflette un deficit nella capacità di elaborare cognitivamente le proprie emozioni (Luminet et al., 2018). Tale modalità di funzionamento non rappresenta necessariamente un problema in sé ma può trasformarsi in una questione clinicamente rilevante per via delle conseguenze che frequentemente vi si associano.

L’alessitimia può infatti essere concepita alla stregua di una vulnerabilità, associandosi trasversalmente a psicopatologie come i disturbi depressivi, i disturbi ansiosi, i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze, ma anche a fenomeni quali l’autolesionismo o il suicidio, e a malattie come i disturbi gastrointestinali, i disturbi cardiovascolari, le dermatiti, il diabete, il cancro o il dolore cronico (Luminet et al., 2018). Alcune evidenze suggeriscono che alti livelli alessitimici possono condurre a un’esacerbazione sintomatologica e/o della patologia stessa. Inoltre, non è raro riscontrare difficoltà di trattamento con questo tipo di pazienti (Ogrodniczuk et al., 2018). Ecco, quindi, che la presenza di alessitimia è spesso indice di prognosi sfavorevole caratterizzata da persistenza di sintomi anche al termine del trattamento e più frequenti ricadute (Pinna et al., 2020).

Come spiegare l’alessitimia?

Nonostante il ruolo di costrutto periferico, le teorie e i modelli proposti per tentare di spiegare l’alessitimia sono differenti e numerosi. I fattori di rischio attualmente individuati spaziano dall’eredità genetica (es. Picardi et al., 2011), all’influenza di specifici elementi ambientali quali il maltrattamento emotivo in infanzia (es. Aust et al., 2013), fino a variabili più propriamente psicologiche come i pattern di personalità (es. Taylor & Bagby, 2013) o la preferenza per specifiche strategie di autoregolazione (vedi: Sangalli & Caselli, 2022). Di fatto, a distanza di mezzo secolo dalla sua prima concettualizzazione, il termine “alessitimia” continua a farsi portavoce di controversie e dibattiti, faticando nel guadagnarsi una posizione condivisa all’interno del panorama scientifico.

Una ricerca da poco condotta (Sangalli, 2022) [NdR: Tesi di laurea magistrale di una studentessa della Sigmund Freud University] si è interrogata sui possibili elementi implicati nella genesi e nel mantenimento dell’alessitimia proponendo un modello esplicativo (ovvero un modello che si occupa di spiegare un certo fenomeno anziché descriverlo) potenzialmente utile nell’orientare gli interventi psicoterapeutici con soggetti alessitimici. Grazie all’utilizzo di questionari autosomministrati sono state raccolte e analizzate variabili ambientali e psicologiche con lo scopo di comprendere quali, tra queste, fosse più saldamente connessa all’alessitimia. Dai risultati è emerso che gli aspetti contestuali del funzionamento psicologico sembrano essere i principali fattori responsabili delle differenze interindividuali nei livelli di alessitimia dell’adulto. La necessità di controllare i propri pensieri, il tratto di personalità del neuroticismo e il ricorso alla soppressione espressiva come strategia di autoregolazione sono risultate direttamente e indirettamente associate a forti tratti alessitimici. In accordo con il modello proposto nello studio, la convinzione che i propri pensieri debbano essere tenuti sotto controllo, insieme alla tendenza a provare affetti negativi (possibile definizione del neuroticismo), incoraggerebbero l’utilizzo di strategie soppressive nei confronti dei propri stati interni. A sua volta, questo silenziamento di pensieri ed emozioni accrescerebbe i livelli di alessitimia e le difficoltà diffuse di identificazione, discriminazione e comunicazione dei propri sentimenti.

Il modello eziopatologico proposto dall’autore si inserisce quindi tra i modelli funzionalisti della mente che cercano di spiegare la sofferenza psicologica in termini di processi disfunzionali piuttosto che di deficit strutturali. Ciò comporta delle implicazioni teoriche nell’affinamento del costrutto alessitimico ma soprattutto delle implicazioni cliniche, offrendo nuovi target di intervento sui quali ragionare in un’ottica di intervento psicoterapeutico.

È ormai noto che la terapia psicologica può adoperarsi solo marginalmente su deficit strutturalmente dettati dalla genetica o dall’inserimento in contesti precoci avversi caratterizzati da maltrattamento. Al contrario, possiede un’estesa possibilità di intervento sulle modalità disadattive che l’individuo adopera, più o meno consapevolmente, nel qui ed ora. Queste ultime vengono generalmente apprese all’interno di ambienti specifici e successivamente perpetuate sulla spinta di rinforzi o convinzioni personali, ma finiscono spesso con il rivelarsi inefficaci, controproducenti o insostenibili nel lungo termine. Il delinearsi di un modello eziopatologico dell’alessitimia che vede nelle strategie di autoregolazione e nelle credenze metacognitive il cuore nevralgico del problema apre quindi alla possibilità effettiva di ottenere un cambiamento nei livelli alessitimici.

Le psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione sono i trattamenti che più di tutti consentono una presa diretta sulle modalità con cui la persona si rapporta e gestisce gli avvenimenti esterni così come il proprio mondo interno fatto di affetti e cognizioni. Per questo motivo potrebbero mostrarsi estremamente efficaci nel ridurre le difficoltà alessitimiche nel qui ed ora e nello scongiurare, preventivamente, futuri esordi psicopatologici ben più gravi.

Il lavoro di esposizione e accettazione dei propri stati interni, anche dolorosi, potrebbe in questo senso assecondare una minore urgenza di agire strategie controllanti e soppressive nei confronti dei propri pensieri e delle proprie emozioni (Sangalli, 2022). Parallelamente, lo sviluppo di nuove forme di autoregolazione adattive e flessibili potrebbe garantire al soggetto una maggiore efficacia nel gestire futuri momenti di sofferenza. In questo modo, attraverso l’apertura e l’esplorazione del proprio mondo interno, i livelli di alessitimia si ridurrebbero permettendo così all’individuo di fare nuovamente affidamento sulle proprie emozioni per comprendere le situazioni e guidare il comportamento.

 

Terapia cognitivo-comportamentale di terza onda: l’extended evolutionary meta-model

L’extended evolutionary meta-model applica i concetti evolutivi di variazione, selezione e ritenzione adeguati al contesto (quali forza motrice dietro il cambiamento evolutivo), focalizzati sulle dimensioni e sui livelli biopsicosociali chiave relativi alla sofferenza umana, ai problemi e al funzionamento positivo.

 

Per oltre mezzo secolo, il paradigma dominante nella ricerca in psicoterapia è stato quello di sviluppare protocolli di trattamento specifici per sindromi ipotizzate, definite dai sistemi nosologici psichiatrici. Obiettivo di tale approccio è stato quello di provare a fornire un linguaggio comune per i disturbi di salute mentale, cercando di raggiungere un obiettivo di utilità concettuale e di trattamento. Il “modello sindromico” ha guidato la nosologia psichiatrica. Tale strategia ha portato a considerare gli insiemi empirici di segni osservabili e di sintomi dichiarati, come elementi indispensabili per la scoperta di cause sottostanti alla patologia: quando una sindrome ha un’eziologia nota, un corso meccanicistico e una risposta al trattamento, secondo tale prospettiva, la stessa dovrebbe presentarsi come una malattia. Identificare le specifiche malattie latenti, che si presume siano alla base dei disturbi psichiatrici, è sempre stato il fine ultimo pratico e scientifico delle attuali forme di nosologia psichiatrica (Hayes et al., 2020). Pur essendo plausibile, non sembrerebbe che questa strategia abbia condotto, nell’ambito della salute mentale e comportamentale, verso un pieno successo in tal senso. È molto ampio, allo stato attuale, un accordo sul fatto che l’utilità clinica delle categorie del DSM-5 è estremamente limitata (Maj, 2018).

“Quando è diventato evidente che dopo decenni di ricerca e studi clinici, il DSM-5 offriva ben poco di nuovo rispetto ai suoi predecessori, l’iniziativa del National Institute of Mental Health (NIMH) Research Domain Criteria (RDoC; Insel et al., 2010) è emersa come un tentativo di far progredire il campo della psichiatria virando in una direzione di processo più basilare. L’obiettivo era quello di creare un’agenda di ricerca che potesse produrre un sistema di classificazione che integrasse i dati biologici e comportamentali, piuttosto che basarsi esclusivamente sulle caratteristiche topografiche del problema, derivate dalle impressioni cliniche e dalla segnalazione soggettiva dei sintomi” (Hayes et al., 2020). Come sostengono Hofmann e Hayes, nell’articolo del 2019, “The Future of Intervention Science: Process-Based Therapy”, la scienza clinica sembra aver raggiunto un punto di svolta. Sembra che stia cominciando a emergere un nuovo paradigma che mette in discussione la validità e l’utilità del modello di malattia medica, che presuppone che le entità della malattia latente siano prese di mira con protocolli terapeutici specifici. Secondo gli autori, i ricercatori vengono maggiormente motivati verso un’identificazione di processi funzionali importanti e fondamentali per la persistenza delle patologie ed un cambiamento possibile. Ciò lascia intendere il valore di un approccio basato sui processi, che può condurre ad una maggiore attenzione sulla natura dinamica, idiografica, multidimensionale e multilivello del funzionamento umano (Hofmann e Hayes, 2019).

Il tradizionale approccio DSM alla diagnosi sembrerebbe quindi non essere totalmente valido e particolarmente utile per i professionisti (Hayes et al., 2020). Ad esempio, avendo come riferimento il DSM, si potrebbe dire che a due soggetti può essere diagnosticato lo stesso disturbo, se registrano 7 sintomi su 10 di ansia generalizzata. Il problema con questo approccio è che i due soggetti clinicamente ansiosi potrebbero esserlo in modi totalmente differenti e richiedere trattamenti radicalmente diversi.

L’efficacia di un approccio basato sui processi consiste nel fornire agli individui interventi differenti nonostante una stessa classificazione nosografica (Ciarrochi et al., 2022).

“La terapia basata sul processo (PBT) offre un approccio alternativo alla comprensione e al trattamento dei problemi psicologici e alla promozione del benessere umano. La PBT si rivolge a processi biopsicosociali di cambiamento empiricamente stabiliti, che i ricercatori hanno dimostrato essere funzionalmente importanti per obiettivi e risultati a lungo termine” (Hayes et al., 2020).

I processi di cambiamento possono essere definiti come quei meccanismi di cambiamento basati sulla teoria, dinamici, progressivi, legati al contesto, modificabili e multilivello, che si verificano in sequenze prevedibili, empiricamente stabilite e orientate verso risultati desiderabili: basati sulla teoria, nel senso che vengono associati ad una chiara dichiarazione scientifica delle relazioni tra gli eventi che portano a previsioni verificabili; dinamici, perché possono implicare cicli di feedback e cambiamenti non lineari; progressivi, perché possono essere organizzati in particolari sequenze per raggiungere l’obiettivo del trattamento; legati al contesto e modificabili, in modo da suggerire direttamente cambiamenti pratici o azioni di intervento alla portata degli operatori; e multilivello, perché alcuni processi sostituiscono o sono annidati in altri (Hayes et al., 2020; Hofmann e Hayes, 2019).

È fondamentale, per ciascun terapeuta, che i processi vengano organizzati con modelli che siano completi, internamente coerenti e funzionali, e che forniscano un’ampia guida a professionisti e ricercatori (Hayes et al., 2020). Come sostenuto da Hayes, Hofmann e Ciarrochi, l’approccio più adatto a fare ciò è un approccio evolutivo esteso multidimensionale e multilivello: Extended Evolutionary Meta-Model (EEMM).

“L’EEMM è un meta-modello di approcci diagnostici e di intervento che può accogliere qualsiasi insieme di processi di cambiamento basati sull’evidenza, indipendentemente dall’orientamento specifico della terapia” (Hayes et al., 2020).

La teoria evolutiva è fondamentale nella ricerca di conoscenza e di comprensione dei sistemi complessi nelle scienze della vita. “Un immunologo a cui viene chiesto come è nato il sistema immunitario risponderà quasi certamente con una risposta evolutiva; così come un cardiologo a cui viene chiesto della sua area, o un ortopedico a cui viene chiesto della sua” (Hayes et al., 2020). Se in tutte le scienze della vita è possibile procedere ad una visione dei sistemi attraverso un filtro di una sintesi evolutiva estesa, è ragionevole pensare di applicare il pensiero evolutivo anche all’organizzazione dei processi di cambiamento, nell’ambito del lavoro psicologico.

“È possibile applicare i principi delle moderne scienze evolutive non solo ai geni, ma anche all’epigenetica, all’apprendimento comportamentale e al pensiero simbolico (Jablonka e Lamb, 2006). L’evoluzione si applica all’individuo e ai gruppi; si applica attraverso le discipline e le culture. È adatta a servire come base per promuovere un cambiamento comportamentale e culturale positivo. È importante notare che i moderni principi evolutivi multidimensionali e multilivello possono essere usati in un modo prosociale. I principi evolutivi possono essere facilmente collegati al contesto e all’obiettivo e sono utilizzati allo scopo di promuovere l’uguaglianza, la riconciliazione, la pace, il comportamento prosociale e una vita significativa (Wilson et al., 2017)” (Ciarrochi, 2022).

L’EEMM applica i concetti evolutivi di variazione, selezione e ritenzione adeguati al contesto (quali forza motrice dietro il cambiamento evolutivo), focalizzati sulle dimensioni e sui livelli biopsicosociali chiave relativi alla sofferenza umana, ai problemi e al funzionamento positivo.

Come sostenuto da Hayes, Hofmann e Ciarrochi, senza variazione, il cambiamento è impossibile, e non è un caso che la psicopatologia sia caratterizzata dalla rigidità rispetto alla flessibilità; approcci come l’Acceptance and Commitment Therapy cercano intenzionalmente di aumentare l’attivazione e l’esplorazione comportamentale basata sui valori, anche in presenza di disagio (Hayes, 2019).

Gli ambienti difficili tendono ad aumentare la variazione, sia che si tratti di tassi di mutazione o di riparazione del DNA (Galhardo et al., 2007) da un lato, o di estinzione (Catania, 1992) dall’altro. Essere in grado di rimanere flessibili è una caratteristica chiave della “sopravvivenza dei più evoluti” (Wagner e Draghi, 2010), ma i processi patogeni interferiscono con una variazione sana. La selezione può essere intesa come l’obiettivo di un intervento terapeutico o come un comportamento desiderato. È ciò che risulta essere funzionale per il cliente in uno specifico contesto. La ritenzione consiste nel modo in cui viene mantenuto un comportamento adattivo. È la chiave per qualsiasi cambiamento prosociale, e la psicoterapia può essere usata, in tal senso, sotto forma di mantenimento al follow up, con l’uso di compiti a casa, il rinforzo della pratica delle abilità, o lo sviluppo di buone prassi. Il contesto è la chiave per la diagnosi e il trattamento; è necessario vedere la modifica di un comportamento nel contesto della situazione attuale del cliente, della sua storia, della sua cultura e del suo obiettivo.

In Hayes, Hofmann e Ciarrochi (2020) e in Ciarrochi, Hayes, Oades e Hofmann (2022) è possibile osservare uno schema rappresentante il modello EEMM, con l’identificazione dei concetti evolutivi chiave di variation, selection, retention, context, insieme alle sei dimensioni psicologiche affetto, cognizione, attenzione, sè, motivazione, comportamento manifesto; oltre al livello psicologico, i processi di cambiamento possono avvenire a livello di analisi socioculturale o a livello biofisiologico; inoltre, i processi possono essere empiricamente dimostrati come adattivi o disadattivi.

Nei processi di diagnosi e di trattamento, è possibile esaminare le sei dimensioni e i due livelli applicandoli a questioni di funzione, meccanismo, sviluppo e storia. Ad esempio, il terapeuta può esaminare in che modo lo stato di salute o di patologia di un cliente si sia sviluppato nel corso della sua vita; quali sono gli specifici processi fisici e psicologici che caratterizzano questi eventi; e qual è la loro storia evolutiva nel lungo tempo. Il modello mette in correlazione domande come queste sia a condizioni di disadattamento che di adattamento. È indispensabile valutare sia i processi adattivi che quelli disadattavi, poiché lo stato di salute è molto più che una mera assenza di patologia. Ogni intervento deve essere focalizzato sulla promozione del benessere psicologico e non solo sull’eliminazione della patologia. Ad esempio, per ridurre un processo disadattivo come la soppressione del pensiero, potrebbe essere più efficace promuovere processi positivi come la flessibilità psicologica e l’attenzione consapevole.

Ciascun terapeuta può utilizzare l’EEMM per promuovere quei processi attivi di cambiamento identificati sia nella ricerca clinica che nella psicologia positiva. Un intervento personalizzato potrebbe essere avviato con la concettualizzazione del caso, con la quale poter identificare i processi fondamentali che applicabili a un particolare cliente. Durante il percorso, attraverso la ricezione di feedback da parte del cliente su ciò che funziona e ciò che non funziona, diventa possibile riadattare, progressivamente, la concettualizzazione del caso e, di conseguenza, l’intervento intrapreso. In questo modo, è possibile implementare diversi processi basati sull’evidenza, selezionando quelli che contribuiscono al benessere del cliente e poi, attraverso la pratica ed il consolidamento di buone prassi, supportare il cliente nel mantenimento delle abilità.

In questa ottica, l’EEMM può essere applicato a tutti i processi di cambiamento di interventi e trattamenti conosciuti, basati su teorie validate ed empiricamente supportate (Ciarrochi et al., 2022).

Io e il mio gemello digitale

Il “gemello digitale” (digital twin) costituisce un sofisticato modello gestionale di un processo, di un prodotto, ovvero di un servizio (Zanotti, 2022).

 

Introduzione

Ideatore della nozione di digital twin è Michael Grieves, Chief Scientist for Advanced Manufacturing presso il Florida Institute of Technology (si veda, ad esempio, Zanotti, 2022): all’inizio del 2002, in occasione di un corso –tenuto presso l’Università del Michigan– sul Product Lifecycle Management, Grieves definiva il digital twin quale replica di un asset fisico ottenuto in forma virtuale (una ottima rassegna sull’argomento è in Barricelli et al., 2019).

Spiegano Michael Grieves e John Vickers (2017) circa l’origine della nozione di gemello digitale: “The concept of the Digital Twin dates back to a University of Michigan presentation to industry in 2002 for the formation of a Product Lifecycle Management (PLM) center”. Gli autori ne chiariscono il concetto: “[…] the basic concept of the Digital Twin model has remained fairly stable from its inception in 2002. It is based on the idea that a digital informational construct about a physical system could be created as an entity on its own. This digital information would be a ‘twin’ of the information that was embedded within the physical system itself and be linked with that physical system through the entire lifecycle of the system”.

Non esclusivamente il metaverso, dunque, ma anche il gemello digitale viene utilizzato in vari campi. Uno fra tutti nella sanità. Diventa sempre più urgente formulare una accurata diagnosi e/o decidere un trattamento ad hoc delle patologie di un paziente. Infatti, in prospettiva, ciò determinerà un doppio dividendo a livello sia micro che macro: (i) la prevenzione di malattie e la maggiore efficacia nel trattamento di queste (ad esempio, minore probabilità di errore che comporterà, tra l’altro, minori esigenze di sperimentazione –anche farmacologiche– sugli esseri viventi); (ii) una più efficiente allocazione delle risorse (umane e non, materiali e immateriali) e, quindi, una riduzione dei costi per il sistema sanitario nel suo complesso.

Benchè sia ancora prematuro ottenere un gemello digitale “sistemico” del corpo umano, cioè nella sua interezza – anche a motivo delle tante correlazioni e interdipendenze fra le parti all’interno di esso– sono stati raggiunti importanti progressi nel “gemellaggio” digitale di alcuni organi (come il cuore e i reni; per un approfondimento sul tema, si rinvia a Maglio, 2019 e Porro, 2022).

Oltre che in medicina, oggi esistono gemelli digitali in vari settori (ambiti di applicazione sono, ad esempio, l’industria –come quella automobilistica per la guida autonoma–, il commercio al dettaglio, le utility, la moda): attraverso modelli predittivi di intelligenza artificiale, la replica virtuale di un oggetto fisico (appunto il suo gemello digitale) elabora in tempo reale la sua fotografia –o, se vogliamo, la sua immagine virtualmente specchiata (“mirroring”)– così da prevederne in modo accurato le prestazioni future e di sperimentarne eventuali miglioramenti senza doverli verificare direttamente sull’oggetto stesso. Il gemello digitale incorpora quindi funzionalità di simulazione, IoT (Internet of Things), big data e machine learning: l’obiettivo è quello di generare un modello che si aggiorni in tempo reale in modo da riflettere con esattezza i cambiamenti della controparte fisica a cui è connesso per mezzo di un sistema di sensori –cioè di dispositivi che registrano e reagiscono all’evoluzione dell’ambiente. Si tratta, pertanto, di sistema a circuito chiuso volto a confrontare automaticamente e costantemente l’output desiderato con l’input effettivo. Questo continuo processo circolare di informazioni tra input e output viene conseguito, come appena ricordato, tramite sensori (Artigiani, 2021).

Ad esempio, in campo ingegneristico, un modello che rispecchia in forma virtuale e in tempo reale un sistema complesso –cioè la sua controparte fisica– consente di realizzare le simulazioni relative alla performance del sistema stesso; ciò allo scopo, da un lato di anticipare e intervenire sulle sue possibili variazioni/disfunzioni (Zanotti, 2022), dall’altro di allocare in modo ottimale le risorse e, naturalmente, aumentare i gradi di sicurezza del sistema stesso. Un caso iconico, una storia di successo (pur originata da un incidente), nonché un interessante caso di studio, è offerto dalla General Electric, quando si verificò un cattivo funzionamento di una turbina di un motore. La lezione appresa è che, attualmente, per ciascuna turbina prodotta viene realizzato un suo gemello digitale dalle capacità predittive e di monitoraggio del prodotto fisico (Artigiani, 2021).

Creando un digital twin –e, quindi, ottimizzando le operazioni– si ha anche il vantaggio di ridurre notevolmente il “debito tecnico”, vale a dire il costo dell’accumularsi di complessità non necessaria in un progetto digitale senza aumentarne parallelamente i benefici.

Come è stato osservato, “i Gemelli Digitali stanno diventando un aspetto chiave dei Sistemi Simbiotici Autonomi poiché permettono una simbiosi che abbraccia tutto il mondo degli atomi e del cyber-mondo. La simbiosi può essere stabilita tra un oggetto reale, compreso un essere umano, e il suo Gemello Digitale per far leva su quest’ultimo nel mondo cibernetico”. (Mason Dambrot et al., 2018).

Ritornando a un settore tanto delicato come la sanità: “Diverse aziende stanno sviluppando modelli digitali gemelli di organi umani, in particolare quello del cuore, che è tanto diverso per ogni persona quanto la sua impronta digitale, e ogni differenza conta per aiutare a prevenire l’arresto cardiaco” (De Kerckhove, 2021). Il diffondersi della salute digitale si accompagna alla creazione di molti sensori per il corpo umano. “I sensori indossabili, ambientali e a contatto/integrati (in quest’ordine) forniranno un monitoraggio continuo dei parametri fisiologici del nostro corpo e questi saranno abbinati, nel nostro gemello digitale, a quelli previsti (tenendo conto della situazione, del tipo di attività che stiamo svolgendo, dell’umore e naturalmente del nostro genoma). Qualsiasi deviazione farà scattare un’analisi per determinare la causa probabile e ulteriori test potranno essere attivati attraverso sensori già esistenti o attraverso procedure specifiche” (De Kerckhove, 2021).

Non solamente per mezzo del metaverso, inteso come una nuova ecologia digitale immersiva destinata a rivoluzionare i meccanismi cognitivi e ciò che gli individui percepiscono come realtà (Carciofi, 2022), ma più in generale tutte le nuove architetture tecnologiche di frontiera influenzano le nostre modalità di pensiero e percezione.

Una implicazione forte è che, in qualche modo, con l’avanzare della tecnologia, la mente umana rinasce continuamente, in un divenire che potremmo suggerire “osmotico” con la tecnologia stessa.

Nel presente lavoro ci concentreremo proprio sul nostro futuro doppio digitale.

… E duplicabile sia!

Che ci fa costui qui? Cosa?… Il mio gemello!

Secondo le previsioni di Rob Enderle, noto analista tecnologico statunitense e consulente della migliore imprenditoria della Silicon Valley, gli sviluppi tecnologici condurranno tra appena un decennio il nostro “contenuto” –con il nostro portato, con la nostra identità e con il senso che abbiamo di noi stessi– dentro la macchina, plasmando così il nostro gemello digitale. I nostri atomi (intesi come unità indivisibili) sono così destinati a tradursi in meri bits.

Non solo i nostri, ma anche quelli di amici, colleghi, di persone scomparse con cui poter interagire in modalità virtuale (Crisantemi, 2021). Quest’ultima circostanza, peraltro, non è nuova: si richiama il caso della mamma sudcoreana che nel 2020 incontrava, nello spazio virtuale, la sua bambina – o, più precisamente, il suo ologramma– venuta a mancare a sette anni per una malattia. La bambina va verso la mamma, le parla, le porge un fiore, le offre una fetta di torta (l’incontro venne infatti previsto in occasione del compleanno della bambina).

Come mia copia, il mio gemello digitale dovrebbe, idealmente, prendere le mie stesse decisioni se le venisse presentato il medesimo contesto, afferma Schoenherr (2022), assistente alla cattedra di psicologia presso la Concordia University (Canada).

Dunque, la mia gemella sarà plasmata su di me: sui miei atteggiamenti, ragionamenti, sui miei dati volontariamente diffusi o involontariamente rilasciati, perfino facendo entrare in campo il mio inconscio digitale (non bastava il tanto lavoro già svolto su quello “tradizionale”!).

Per la definizione di inconscio digitale si rimanda a De Kerckhove (2015). Afferma il sociologo canadese che l’inconscio digitale contiene dati, informazioni e saperi di cui si alimenta in continuazione online. È un inconscio che ha acquisito la capacità di definire la realtà quotidiana delle persone che abitano con assiduità la Rete, sia quella individuale sia quella sociale e con alcune differenze rispetto all’inconscio personale. L’esistenza e la forza del nuovo inconscio sono tali da mutare i comportamenti delle persone e la loro etica comportamentale sia individuale sia sociale. A determinare la diversità sono sia la componente emozionale sia il bisogno impellente della condivisione, senza alcun tipo di remora, ma piuttosto seguendo semplici pulsioni, desideri, frustrazioni, esigenze.

E, quindi, gli attuali social media se possono essere considerati una sorta di gemello digitale in forma ancora molto grezza, ma già in grado di intercettare in formato digitale aspetti del mio quotidiano, di quanto dico, penso, faccio, delle mie preferenze e priorità, in prospettiva (una decina di anni) una mia gemella digitale sarà la mia copia perfetta. Sarà generata a partire da un enorme volume di dati provenienti da una grande molteplicità di fonti (big data). Dei nostri comportamenti, infatti, lasciamo tantissime tracce digitali. In particolare, viene chiamato “data lake” un archivio centralizzato di informazioni raccolte, in questo caso sui nostri atteggiamenti e preferenze palesi, nonché sulle tracce comportamentali che ci lasciamo alle spalle.

I metodi di apprendimento automatico per mezzo di tutti questi nostri dati possono operare inferenze su di noi (che noi stessi a volte non conosciamo), sui nostri comportamenti (anche inconsci), sul nostro decision-making (talora anche inconsapevole). Solo per citare un campo di applicazione di tutto questo, le diaboliche trovate del marketing volte a intercettare e coinvolgere clienti nella loro customer journey potranno spingere sempre più avanti le frontiere di opportunità.

Essere equipaggiati di un gemello fondato su database e machine learning verosimilmente arricchirà ciascuno di noi di potenzialità cognitive enormemente aumentate. Tuttavia, più ricorreremo a tali abilità, meno ci avvarremo delle nostre “dotazioni” interiori –pensare, immaginare, pianificare, progettare, giudicare, scegliere, decidere, sognare, creare– fino a depauperare tali preziose risorse.

Il nostro doppio digitale sarà una narrazione attraverso i dati della nostra vita (e con il nostro portato). Richiederà pertanto un livello di fedeltà, e quindi di affidabilità, altissimo: deve tenere conto anche di stereotipi, condizionamenti sociali e pregiudizi di cui soffriamo, del contesto (familiare e socio-economico) in cui ci siamo formati e quello in cui viviamo, nonchè allinearsi in tempo reale a ciò che ci accade nella nostra vita reale. Negli studi di simulazione, la “fedeltà” si riferisce a quanto una copia, o un modello, corrisponde al suo obiettivo. La fedeltà del simulatore si riferisce al grado di realismo di una simulazione rispetto ai riferimenti del mondo reale. Un esempio largamente citato in letteratura sul grado di fedeltà richiesto per il nostro mirroring virtuale è il seguente: “In questo momento piove e la pioggia incide su cosa decideremo di fare nelle prossime ore? Deve piovere anche sul nostro gemello elettronico” (Mantovani, 2022).

Come affermano nel loro recente volume Rossignaud e De Kerckhove (2020), Oltre Orwell. Il gemello digitale”, la “relazione simbiotica” –così la definiscono gli autori– tra noi e le possibilità tecnologiche produce un forte impatto psicologico su noi stessi. Pur perdendone consapevolezza –e anche un proprio coinvolgimento–, le nostre esperienze saranno infatti progressivamente condizionate da procedure di natura statistica, specificatamente da sistemi algoritmici.

Senza dubbio questo è il preludio a un nuovo modo di vivere.

Con il gemello digitale deriva una percezione mutata del proprio Sé e della realtà. Ma non si tratta esclusivamente della percezione della realtà, ma anche di una nuova realtà costituita da agenti digitali che concorrono a modellare il mondo nel futuro (Redazione SoloTablet, 2017).

Tutto ciò richiederà un grande aiuto dalla psicologia digitale (o cyberpsicologia). Ma anche questa non sarà sufficiente: saranno necessari approcci interdisciplinari, interculturali, intergenerazionali. Insomma, occorrerà un pensiero out-of-the-box.

Il rischio, afferma Roberto Saracco –curatore del volume “Oltre Orwell. Il gemello digitale”“è perdere le tracce dell’evoluzione e trovarsi ancor prima di rendersene conto con un Gemello Digitale che decide per noi università, cibo, palestra e perché no anche il compagno. Tutto ciò potrebbe diventare possibile perché già oggi il nostro stato fisico è monitorato, tenendo traccia del numero dei passi che facciamo, del ritmo cardiaco, delle calorie che assumiamo e di quelle che spendiamo, dell’ossigenazione del sangue, ecc. dal nostro inseparabile amico: lo smartphone. Ma lo smartphone registra anche quello che leggiamo e guardiamo su Internet così come i nostri acquisti, e potrebbe, quindi, rispondere per noi a molte domande o addirittura anticipare le nostre scelte. Siamo di fronte a un processo lento e quasi impercettibile attraverso il quale aspetti e porzioni sempre più ampie di noi stessi sono riflesse in una rappresentazione digitale sempre più accurata”.

Realizzare un modello così fine e granulare richiede –come appena ricordato– una mole enorme di informazioni, nonché una quantità enorme di sensori che possano raccoglierle. Ma l’enorme stock di dati accumulati non può non dare adito a dubbi sul piano della tutela dei dati personali e su quello etico (Mantovani, 2022).

In che modo vengono raccolte tutte queste informazioni? Come vengono processate? Chi garantisce che non siano sfruttate in modo illecito e/o manipolatorio? Come viene garantita la (cyber-)sicurezza?

Come per il metaverso, i gemelli digitali rendono urgente standard elevati nella regolamentazione da parte di attori del settore pubblico nazionale, a livello europeo e, su più ampia scala, sul piano internazionale.

Spostandoci verso una prospettiva –suggeriremmo– altamente distopica, si richiama il lavoro di Hiroshi Ishiguro, docente dell’Università di Kyoto, che ha già creato un proprio gemello digitale. E fin qui…! In un’intervista rilasciata nel 2019 (“Sentient love”), egli ha dichiarato di aver intenzione di “cambiare il mondo con la creazione di robot interattivi”. Al quesito postogli se “tra mille anni gli uomini potranno essere robot”, egli rispondeva in modo ottimistico arrivando all’ipotesi di poter sostituire interamente il corpo umano esattamente come oggi si ricorre alla pratica di protesi applicate alle persone diversamente abili (Chiappalone, 2022).

Il fine che lo scienziato adduce, che è quello di colmare il vuoto demografico nipponico, è lodevole: “La nostra popolazione sta diminuendo […] Quindi abbiamo bisogno di avere più robot”. Ineccepibile!

Conclusioni (cyberpunk)

Ma attenzione in un prossimo futuro a non scambiare un clone per un fratello gemello o un fratello gemello per un clone. In entrambi i casi, un esercizio di realtà –ancorché molto utile, anzi necessario– sarebbe altrettanto duro.

Tra genitorialità e attaccamento

Diventare genitori comporta anche un processo definito il “lavoro del lutto” che implica la rinuncia al ruolo di bambino che si ricopriva con i propri genitori e il doversi identificare con questi ultimi per poter svolgere la funzione genitoriale.

 

Il vissuto della genitorialità

La relazione genitore-bambino è una componente fondamentale per lo sviluppo di quest’ultimo in quanto costituisce il suo mondo affettivo e sociale, determina la struttura delle sue difese e porta alla formazione di rappresentazioni riguardanti le aspettative rivolte alle relazioni con gli altri. La famiglia si presenta come nucleo all’interno della quale si intrecciano fattori di rischio e fattori protettivi che influenzano lo sviluppo dell’infante e risulta quindi di primaria importanza analizzare le molteplici situazioni che si pongono come l’origine di numerosi disturbi, tra cui la depressione (Candelori, Mancone, 2001).

In tale analisi è importante considerare diverse dinamiche che determinano la molteplicità di situazioni che il bambino si trova a vivere, dinamiche che sono presenti ancor prima che il bambino arrivi nel nucleo familiare, come il vissuto della genitorialità (Candelori, Mancone, 2001).

La genitorialità non coincide con la nascita di un figlio, ma anzi è il risultato di un lungo processo di elaborazione e riorganizzazione delle proprie esperienze di vita e dei propri vissuti, che determina l’alterazione degli equilibri dell’individuo e della coppia, fino a poter giungere al crollo psicologico (Zappa, 2013; Candelori, Mancone, 2001).

Diventare genitori comporta anche un processo definito il “lavoro del lutto” che implica la rinuncia al ruolo di bambino che si ricopriva con i propri genitori e il doversi identificare con questi ultimi per poter svolgere la funzione genitoriale. Al bambino, il genitore delega una parte dei suoi desideri e bisogni infantili attraverso meccanismi di identificazione proiettiva, non necessariamente patologici, ma che, anzi, solitamente permettono lo stabilirsi dell’empatia e favoriscono lo sviluppo psichico del bambino. Le identificazioni genitoriali preconsce iniziano già durante l’infanzia, organizzano la struttura intrapsichica e si rafforzano con l’arrivo del bambino, scatenando spesso la “depressività” insita nella genitorialità. Tale depressività deriva dalle identificazioni con i propri genitori ai quali, durante l’infanzia e l’adolescenza, si sono rivolti rimproveri e accuse, che, nel momento dell’arrivo di un figlio, possono rivolgersi anche contro se stessi (Palacio Espasa, 2004).

Il “lutto dello sviluppo” implicato nella genitorialità reca in sé la possibilità, quindi, di generare depressività, determinando lo sviluppo di una conflittualità genitoriale che dipende dall’elaborazione dei lutti della propria infanzia, cioè quelli riguardanti un oggetto realmente perduto e quelli che implicano invece un oggetto fantasmatico (Palacio Espasa, 2004).

Le dinamiche genitoriali

I vissuti legati alla genitorialità sono molto complessi e possono portare all’insorgere di diverse problematiche, infatti, Palacio Espasa (2004) descrive quattro tipi di dinamiche genitoriali, tra cui si evidenziano in particolare due tipologie patologiche: la genitorialità masochistica e la genitorialità narcisistico-dissociata.

La genitorialità masochistica è caratterizzata da lutti basati sul senso di colpa e prevede due tipologie di casi: nel primo caso i neo genitori hanno avuto a loro volta dei genitori con forti tendenze depressive e sono stati vissuti come figli “difficili”; nel secondo caso i genitori hanno vissuto i propri genitori come indegni, abbandonici e tendono ad essere molto protettivi nei confronti del proprio figlio. Allo stesso tempo si identificano con il genitore indegno, a cui hanno rivolto le proprie accuse in passato, sottomettendosi al bambino, all’aggressività che proiettano su di lui, mossi dal bisogno di espiazione masochistica. Tali genitori possono favorire l’insorgere, nel proprio figlio, di alcuni fenomeni patologici come disturbi dell’autostima, causati dall’atteggiamento sottomesso che assumono nei confronti dei genitori, determinando una trasmissione intergenerazionale della depressività. Inizialmente il bambino presenta vissuti di grandiosità veicolati dalle identificazioni proiettive del genitore, portando a comportamenti molto difficili e tirannici, ma tale grandiosità lascia poi spazio alle immagini svalorizzanti che si rafforzano negli scambi con i genitori “vittime”. La grandiosità infatti espande l’Io e rafforza il Super-Io, per poi determinare la presenza di sensi di colpa e porre così le basi per lo sviluppo di un disturbo depressivo.

Le identificazioni proiettive su cui si basano i conflitti della genitorialità narcisistica- dissociata sono unidirezionali e deformanti rispetto all’immagine del bambino e sono caratterizzate dalla proiezione di immagini negative di se stessi, che assumono per il bambino il carattere di persecutorietà. La conflittualità genitoriale viene negata e coperta da immagini parentali positive, non conflittuali, assumendo così un narcisismo di base di tipo distruttivo e generando nel bambino disturbi dell’attaccamento. Tali genitori, con le loro identificazioni proiettive patologiche, deformano l’immagine del figlio e lo sommergono di immagini negative del loro passato. L’interazione tra madre e figlio, in particolare, diventa molto problematica a causa dell’atteggiamento materno rifiutante e distanziante, generando vissuti di frustrazione e pericolo nel bambino, che tenderà a difendersi da ciò tramite meccanismi tipici dell’Io narcisistico primario. Il bambino si identificherà con l’immagine di rifiuto, trasmessa dalla madre, e tale immagine diventa il nucleo fondante della sua struttura psichica, generando profonde difficoltà nell’attaccamento tra madre e bambino. Inevitabilmente gli scambi fisici tra madre e bambino, fondamentali per lo sviluppo emotivo, non riescono ad essere piacevoli e a dare il via a tutte le funzioni fondamentali per un corretto funzionamento psichico, determinando l’insorgenza dei disturbi dell’umore (Palacio Espasa, 2004).

Il bambino, inoltre, come sostiene John Bowlby, nasce biologicamente predisposto ad entrare in contatto con il mondo esterno e a stabilire legami significativi, definiti “relazioni di attaccamento”, che non sono legate al soddisfacimento delle pulsioni, come sosteneva Freud, ma mirano a garantire sicurezza e protezione (Baldoni, 2005).

Il sistema di attaccamento

L’attaccamento è un sistema motivazionale innato e biologicamente adattivo, caratterizzato da tre elementi fondamentali: la ricerca di vicinanza al caregiver, l’effetto “base sicura” (il legame che permette al bambino di sentirsi capace di esplorare l’ambiente e di trovare conforto nei momenti di ansia) e la protesta per la separazione (Candelori, 2006).

Il sistema di attaccamento, da un punto di vista evoluzionistico, permettendo di mantenere e sollecitare la prossimità alla figura di riferimento, aumenta le probabilità di sopravvivenza del bambino, data la sua scarsa autonomia e le sue capacità limitate.

Il sistema di attaccamento del bambino, tuttavia, si intreccia con quello del genitore, predisponendo quest’ultimo a determinate risposte e dinamiche nell’accudimento; la qualità di tali risposte determinerà la formazione nel bambino di quelli che Bowlby chiama Modelli Operativi Interni (Bowlby, 1969). Questi ultimi sono delle mappe rappresentazionali che si costruiscono attraverso le interazioni tra bambino e caregivers; in base alle risposte di questi ultimi, si creeranno nel bambino una serie di aspettative, immagini di sé e assunti che guideranno le relazioni. Il bambino, in questo modo, diviene capace di usare questo sistema rappresentazionale per predire il proprio e altrui comportamento e quindi gli stili di interazione e regolazione degli affetti che si consolidano nel corso dello sviluppo; saranno dei prototipi per i successivi processi di mediazione che consentiranno di instaurare relazioni sociali e di mantenere un senso di sicurezza nelle situazioni stressanti (Benvenuti, 2007).

Mary Ainsworth ha proseguito gli studi di Bowlby e ha introdotto una metodologia per la valutazione degli stili di attaccamento nei bambini di uno-due anni, la Strange Situation, che consiste in una procedura videoregistrata, della durata di circa venti minuti, in cui il bambino e il caregiver vengono osservati in una stanza ed esposti a momenti di separazione e riavvicinamento in presenza di un estraneo. Grazie a tale procedura sono emersi tre tipi di pattern di attaccamento infantile:

  • attaccamento sicuro, il bambino ha stabilito un legame affettivo molto forte con la madre che riesce a rassicurarlo nei momenti di difficoltà.
  • insicuro-evitante, la separazione dalla madre non comporta nel bambino angoscia o disagio, in presenza di un estraneo è tranquillo e durante il ricongiungimento alla madre, il bambino la evita e non ricerca contatto fisico.
  • insicuro-ambivalente, il bambino si mostra a disagio durante tutta la sperimentazione, esibisce comportamenti ambivalenti e tende ad essere irritabile e difficilmente consolabile (Shaffer, 1998).

A questi tre pattern, Mary Main ne ha aggiunto un quarto, insicuro- disorganizzato/disorientato: il bambino con tale legame mostra comportamenti contradditori e confusionari nel ricongiungimento alla madre, non volge lo sguardo al caregiver e, nei momenti di contatto con lei, spesso manifesta una postura rigida (freezing) e risulta impaurito (Main, Solomon, 1986).

Al di là dei sogni, una trama ricca di colori – Recensione del film

Il regista di “Al di là dei sogni” (Vincent Ward) offre allo spettatore un valido spunto di riflessione, dando vita ad un turbinio di emozioni e colpi di scena in grado di rimettere in discussione ciò che più ritenevamo veritiero, assoluto e definitivo.

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

 

Quando il dolore permette una nuova ed imprevedibile fioritura

Per chi l’abbia già visto, non si può fare a meno di rivederlo, e per chi lo guarda per la prima volta, l’invito è quello di prepararsi ad un viaggio capace di trasportare lo spettatore al di là delle semplici tecniche cinematografiche.

Perché in questo bellissimo film, uscito sul finire degli anni 90 e interpretato da un magistrale Robin Williams, non assistiamo ad una trama scontata, leggera e facilmente digeribile, ma al contrario ad uno scenario fantascientifico in grado di farci prendere le distanze dai soliti confini spazio temporali.

Perché se da un lato ciò che viene descritto sembra lontano anni luce, è pur vero che le capacità immaginifiche non fanno altro che rendere reale quello che più di tutto è custodito dentro di noi; ossia sognare ad occhi aperti.

Il regista (Vincent Ward) offre infatti allo spettatore un valido spunto di riflessione, rispetto al quale lontananza e vicinanza, reale e fantasioso, ancestrale e contemporaneo danzano all’unisono, dando vita ad un turbinio di emozioni e colpi di scena in grado di rimettere in discussione ciò che più ritenevamo veritiero, assoluto e definitivo.

In una trama ben architettata la scena si apre in un lago, in cui l’elemento più antico del mondo, l’acqua, sembra voler dare alla luce due vite, ignare di quanto le attende. Perché se la vita la si considera un viaggio, i mezzi che spesso e volentieri essa ci dona, sono fatti di colore, chiaroscuri, emozioni e tanta tenacia pronta a far sbocciare un comune denominatore: l’amore.

Quest’ultimo difatti guida, sin dalle prime scene del film, i due protagonisti, Chris e Carin, due anime gemelle provenienti da due mondi differenti, ma accomunati dall’amore per la vita e per quella dei figli, Marie e Ian.

Eppure in quella che sembra essere una trama scorrevole e priva di intralci, un ulteriore elemento fondamentale sembra insinuarsi nelle loro vite.

L’ingresso della morte infatti, priva di qualsiasi remore e di qualsivoglia ragionamento, non tarda a creare una falla profonda nell’animo dei due protagonisti, i quali si sentiranno catapultati in una dimensione del tutto nuova, priva di confini e ricca di un dolore all’apparenza irrisolvibile.

Perché se da un lato accogliere la morte di un genitore rientra nell’ordine biologico del nostro tempo, la perdita dei figli riflette qualcosa di innaturale, controcorrente e dolorosamente priva di un significato. Tuttavia, in un crescendo sempre più intenso, il cortometraggio sembra voler dispiegare un qualcosa che la mente di oggi, così razionale ed unilaterale, proprio non riuscirebbe a concepire. Ossia la capacità di affidarsi al mistero per farsi guidare da un qualcosa di sconosciuto, che il più delle volte sembra saperla più della ragione.

Tuttavia questa “nera Signora” sembra non dare pace al rapporto coniugale dei due protagonisti, i quali dopo la perdita di Marie e Ian (i figli) dovranno fare i conti con una delle più acerrime nemiche del panorama contemporaneo: la “Solitudine”. Una condizione che la moglie, Carin, si troverà a vivere a seguito della morte del marito avvenuto sulla strada per il ritorno di casa. Uno stato d’animo inflitto e dinanzi al quale non sembra esservi rimedio alcuno se non quello del suicidio.

Se non vi è morte non può esservi rinascita

Spesso entrambe le condizioni sopra introdotte rispecchiano condizioni esistenziali, che non sempre siamo disposti ad accogliere.

Lo psicoanalista James Hillman le avrebbe definite tappe evolutive, nondimeno, mai come in questa trama il contributo del noto autore americano risulta più appropriato per scoprire i doppi volti di quanto tutti i giorni ci troviamo a vivere.

Nel cortometraggio infatti assistiamo a tante sfumature che valorizzano il contenuto alchemico e trasformativo del Dolore e di quella capacità insita in ognuno di noi che è l’Immaginazione.

Sareste in grado di trovare la felicità nella tristezza? Di immaginare uno scenario alternativo in grado di riflettere il forte legame tra due anime nonostante l’inferno arrecato dalla sofferenza?

Sono due domande rispetto alle quali il regista sembra voler porre una sfida e tramite le quali Hillman vuole invitare ciascuno di noi a riflettere sull’uso delle parole e sul valore che ad esse attribuiamo.

Perché spesso e volentieri in maniera definitiva tendiamo ad autoinfliggerci sentenze prive di alternative e di sentieri che solo l’immaginazione sarebbe in grado di farci percorrere.

Quest’ultima infatti è una delle chiavi principali grazie alla quale Chris, una volta deceduto, avrà l’opportunità di scavare dentro di Sé, affrontando un viaggio che lo aiuterà a scoprire nuove parti di sé e a rivedere quegli schemi di pensiero che altro non facevano se non limitarlo nel cuore e nella mente. Attraverso una guida (interpretata da Cuba Gooding Jr) affronterà una vera e propria discesa verso quanto il suo subconscio è in grado di custodire. Quello che pian piano scoprirà è una ricchezza interiore, in cui le tracce dei forti legami lo avvicineranno sempre più a dimensioni spazio temporali imprevedibili.

Nondimeno quello che più affascina è il gioco di proiezioni operate sia dal protagonista che dai suoi stessi compagni di viaggio. All’unisono ciascuno di loro porta con sé una figura guida che vede riflessa nel volto di un nuovo incontro e gli scenari di quelle medesime tappe del viaggio saranno lo specchio dei ricordi partoriti da una mente capace di serbare il lato più antico ed intimo.

Una discesa verso il buio e verso le tenebre che richiamano un po’ il mondo di Dante, ma che sotto una nuova chiave di lettura insegnano ad acquisire nuovi occhi per promuovere quello che la morte porta con sé: una nuova rinascita.

 

All’interno del flusso ventrale esistono neuroni specifici che reagiscono alla vista del cibo

A livello cerebrale emerge una risposta di attivazione neurale sia alla visione del cibo, sia a disegni che in modo stilizzato rappresentano cibo, sia al nome del cibo stesso.

 

I neuroni del flusso ventrale

Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive umane ha rivelato, negli ultimi 10 anni, l’organizzazione funzionale della corteccia in modo estremamente dettagliato.

Lo studio coordinato da Nancy Kanwisher (2022), pubblicato sulla rivista Current Biology, ha indagato come la vista del cibo attivi in maniera selettiva i neuroni all’interno del cosiddetto flusso ventrale, ovvero una serie di fibre nervose che originano dalla corteccia visiva primaria del lobo occipitale e decorrono fino al lobo temporale inferiore dell’encefalo. Tra i suoi compiti ha quello dell’analisi della struttura fisica di un oggetto (forma e colore) e quindi consente il riconoscimento percettivo degli oggetti (Meenakshi Khosla et al., 2022). L’altro flusso, quello dorsale, è orientato verso il lobo parietale e serve soprattutto alla localizzazione spaziale dell’oggetto.

Questa organizzazione presenta un insieme di regioni che sono selettivamente impegnate in singoli processi mentali, dalla percezione di volti, scene o musica, alla comprensione del significato di una frase, alla deduzione del contenuto dei pensieri di un’altra persona. È interessante notare che questo tipo di mappa mentale è tesa a favorire le interazioni sociali tipiche dell’essere umano. Il fatto che questa organizzazione selettiva sia presente anche per il cibo può far pensare che sia un mezzo per favorire la sopravvivenza o un residuo del pensiero istintuale arcaico.

I neuroni selettivi al cibo

Dallo studio (Meenakshi Khosla et al., 2022) è stato osservato un nuovo componente che sembra rispondere in modo altamente selettivo al cibo, nello specifico alle immagini che raffigurano il cibo. Questa selettività alimentare è evidente sia nella correlazione del profilo di risposta del componente con la salienza nominale del cibo, sia nelle immagini che hanno prodotto la risposta più alta nei singoli soggetti. I soggetti hanno mostrato risposte di attivazione sia alla visione del cibo, sia a disegni che in modo stilizzato rappresentano cibo, sia al nome del cibo stesso (ovvero la salienza nominale), infatti si è avuta la stessa risposta sia alla visione di una foto di fetta di pizza che alla scritta pizza. Sebbene la maggior parte delle immagini in cima alla classifica riguardino cibi preparati (ad es. una fetta di pizza), anche il cibo non preparato (ad es. broccoli, carote, banana, ecc.) ha prodotto forti risposte in questo componente.

Questi risultati mostrano che le risposte neurali dominanti del percorso visivo ventrale includono non solo le selettività per volti, scene, corpi e parole, ma anche la categoria visivamente eterogenea del cibo, disconfermando così i precedenti studi che ipotizzavano che queste vie di trasmissione privilegiata fossero relative solo alle interazioni sociali e frutto della specializzazione funzionale che sorge nella corteccia.

 

L’apprendimento secondo Feuerstein: il modello S-H-O-H-R e il mediatore

Nella spiegazione di come avviene il processo di apprendimento, Feuerstein aggiunse allo schema S-O-R un nuovo elemento: “H”, cioè l’essere umano, chiamato mediatore, ponendolo sia tra lo stimolo (S) e l’organismo (O), sia tra l’organismo (O) e la risposta (R), ampliando lo schema del modello S-H-O-H-R.

 

Comportamentismo: dal modello S-R al modello S-O-R

Nel corso degli anni, diversi approcci psicologici hanno formulato diverse ipotesi per spiegare come avviene l’apprendimento.

Le prime teorie provengono dal comportamentismo secondo cui l’apprendimento avviene mediante uno schema S-R, dove S è lo stimolo ambientale e R è la risposta corrispondente messa in atto dall’individuo. L’apprendimento, dunque, è frutto dell’associazione tra certi stimoli ambientali inizialmente “neutri” (ovvero incapaci di provocare alcuna risposta) e le risposte emesse dell’individuo.

Tra gli esperimenti realizzati sul condizionamento animale, quelli condotti dal fisiologo russo Pavlov sono quelli che hanno avuto maggior incidenza nel confermare tale modello. Egli, infatti, mise in evidenza come risposte automatiche già presenti nel repertorio comportamentale di un organismo possano essere generalizzate e attivate da stimoli neutri. Uno dei suoi esperimenti più noti è quello condotto sui cani nel 1927, in cui dopo ripetute prove nelle quali veniva suonato un campanello (stimolo neutro) prima della comparsa del cibo (stimolo incondizionato), il cane era in grado di stabilire un’associazione tra i due producendo una risposta comportamentale conseguente (salivazione). Inoltre, tale risposta era presente anche quando veniva fatto udire il suono del campanello senza però poi somministrare successivamente il cibo. È stato osservato, dunque, che la sola presentazione del suono bastava per evocare la risposta di salivazione.

In altre parole, un comportamento che normalmente viene emesso in risposta alla presenza del cibo viene manifestato anche in assenza di esso in quella particolare condizione, a dimostrazione che uno stimolo inizialmente incapace di evocare una risposta, se presentato ripetutamente secondo le regole della contiguità temporale assieme a uno stimolo incondizionato, viene associato a questo diventando, così, capace di generare la medesima risposta comportamentale.
Questo approccio, tuttavia, non fornisce spiegazioni di come un soggetto sia in grado di acquisire risposte nuove e di come soggetti diversi possano manifestare differenti reazioni di fronte al medesimo stimolo.

In tal senso, un importante cambiamento nello studio dell’apprendimento fu il crescente interesse verso il ruolo esercitato dai fattori cognitivi coinvolti in tale processo. Si passò, dunque, da uno schema S-R a uno schema S-O-R, dove O rappresenta l’organismo, a indicare che di fronte a uno stesso stimolo l’individuo risponderà in modo diverso a seconda delle proprie caratteristiche. Assumono, pertanto, un ruolo rilevante le differenze individuali e le particolarità dei singoli individui.

Feuerstein: modello S-H-O-H-R

Un’ulteriore modifica nella spiegazione di come avviene il processo di apprendimento venne da Feuerstein, il quale aggiunse allo schema S-O-R un nuovo elemento: “H”, cioè l’essere umano, chiamato mediatore, ponendolo sia tra lo stimolo (S) e l’organismo (O), sia tra l’organismo (O) e la risposta (R), ampliando lo schema del modello S-H-O-H-R.

Nello specifico, l’obiettivo del mediatore è ampliare le capacità dell’individuo, sostenendone il processo di apprendimento, trasformando ogni evento ed esperienza in un’opportunità di cambiamento. Pertanto, seleziona gli stimoli, in base agli obiettivi e alle peculiarità del singolo, e ordina la realtà rendendola più comprensibile al soggetto promuovendo l’acquisizione di una maggior consapevolezza dei fenomeni e del sistema di leggi che li governano.

Un ulteriore compito del mediatore è guidare l’individuo a fornire la risposta adeguata, favorendone la modulazione e rimandando feedback al fine di stimolare una riflessione sul processo messo in atto per giungere a tale conclusione.

Il modello S-H-O-H-R rappresenta la cosiddetta Teoria dell’Esperienza di Apprendimento Mediato (E.A.M), in cui viene messo in risalto non solo l’importanza del ruolo del mediatore nel facilitare il processo di apprendimento adeguandolo alle peculiarità del singolo individuo, ma anche l’importanza della relazione che si instaura tra i due. Secondo Feuerstein, infatti, a parità di condizioni, è il mediatore che fa la differenza: due individui potranno modificarsi e cambiare in misura diversa a seconda delle esperienze di mediazione che hanno vissuto.

 

Qual è il prezzo da pagare per arrivare alla medaglia?

Ndr – La Dott.ssa Rosaria Nocita, Psicoterapeuta presso la Clinica Disturbi Alimentari Milano, commenta in questo articolo i recenti fatti di cronaca relativi alle restrizioni alimentari imposte alle giovani ginnaste.

In alcune discipline sportive e artistiche, come la ginnastica e la danza, è presente un’enfatizzazione dell’ideale di magrezza che può condurre una persona più vulnerabile a tale ideale a interiorizzarlo in modo assoluto, al punto da condizionare la propria autostima e sviluppare un vero e proprio Disturbo Alimentare.

 

L’incitazione alla rinuncia di cibi cosiddetti ‘vietati’, come strategia per tenere sotto controllo il peso e la forma del corpo, rappresenta una pressione psicologica che può minare l’equilibrio psicofisico della persona. Inoltre, il controllo da parte degli insegnanti, volto a verificare che le rinunce alimentari siano seguite con rigore, può rinforzare ulteriormente l’adesione a regole dietetiche non salutari.

È noto che in alcune discipline sportive e artistiche, come la ginnastica e la danza, è tipicamente condiviso lo standard del basso peso corporeo come garante di un’elevata performance sportiva o artistica. Nelle suddette discipline, infatti, è presente un’enfatizzazione dell’ideale di magrezza che può condurre una persona più vulnerabile a tale ideale a interiorizzarlo in modo assoluto, al punto da condizionare la propria autostima e sviluppare un vero e proprio Disturbo Alimentare.

I clinici esperti in Disturbi Alimentari non possono non possono non far sentire la propria voce, anzi è doveroso che si facciano promotori della diffusione di conoscenze scientificamente valide. Per questa ragione ci sentiamo di riportare che gli studi scientifici dimostrano come lunghi periodi di restrizione dietetica esercitano conseguenze negative sulla crescita, sulla funzionalità cognitiva, sulla prestazione fisica (diversamente da quanto si creda!).

Inoltre, ci preme sottolineare che tra i principali fattori di rischio per i Disturbi Alimentari ci sono: l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza, l’adozione di una dieta ferrea, l’eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione per valutare se stessi come persone degne di valore e atleti promessi campioni. La pressione a perdere peso che induce a restringere l’alimentazione, nonché l’impatto del comportamento di controllo degli allenatori possono rappresentare, quindi, fattori di rischio per l’esordio di un Disturbo Alimentare.

Diviene fondamentale, quindi, che allenatori, genitori e atleti stessi approfondiscano la conoscenza dei Disturbi Alimentari e dei falsi miti che ruotano attorno a questo tema, così da poter rilevare eventuali i campanelli di allarme ed attivare interventi tempestivi ed efficaci.

 

“Non c’è due senza tre?” La coppia di fronte all’infertilità

La ricerca sugli aspetti emotivi legati all’infertilità si è spesso concentrata esclusivamente sulle donne, sebbene vi sia un crescente interesse per quanto riguarda le conseguenze psicologiche sull’uomo e sulla relazione di coppia.

 

Introduzione

Abstract: il concepimento è una tappa fondamentale del ciclo di vita della coppia e, quando questa possibilità viene a mancare, non solo può essere compromesso il benessere individuale e relazionale, ma anche la stabilità e la qualità del legame stesso di coppia.

L’infertilità è una difficoltà di coppia molto sentita dagli uomini fin dall’antichità dei tempi; infatti, le prime documentazioni per la sua cura sono state rintracciate in reperti egiziani, babilonesi, nell’Antico Testamento e negli scritti dell’Antica Medicina Indiana (Riccio, 2017). Il concepimento è una tappa fondamentale nella vita umana (Cotoloni, 2021) e, quando questa possibilità viene a mancare, possono esserci delle conseguenze dirette sul funzionamento della coppia e sui progetti di vita a breve e lungo termine (Asha Patel & Sharma, 2018). Nel ciclo di vita della coppia e della famiglia, l’infertilità è una “variabile imprevista” nel percorso di transizione verso la genitorialità (Vignati, 2002); infatti, affrontare lo stato di infertilità può essere molto complesso a causa dell’inaspettata interruzione nella progettualità familiare e della mancanza di riconoscimento della sofferenza della coppia (Mosconi, Crescioli, Vannacci & Ravaldi, 2021). La perdita a cui vanno incontro queste coppie non riguarda solo la perdita del bambino immaginato, bensì anche la perdita del proprio stato di salute e della famiglia ideale (Swanson & Mechanick Braverman, 2021).

Cosa si intende con infertilità

Nel panorama internazionale, esistono diverse definizioni di infertilità e di sterilità di coppia; tuttavia, in Italia si definisce sterile una coppia per cui non è possibile il concepimento per una condizione medica (Riccio, 2017); mentre, si definisce come infertile una coppia per cui non è stato possibile instaurare una gestazione dopo 24 mesi di rapporti sessuali regolari e non protetti tra i partner. In Italia, si stima che l’infertilità riguardi il 15% delle coppie (Ministero della Salute, 2021), mentre, a livello internazionale, si è visto che abbia un’incidenza tra circa l’8-12 % (Szkodziak, Krzyzanowski & Szkodziak, 2020).

La ricerca sugli aspetti emotivi legati all’infertilità si è spesso concentrata esclusivamente sulle donne, sebbene vi sia un crescente interesse per quanto riguarda le conseguenze psicologiche sull’uomo e sulla relazione di coppia. Per molte malattie, c’è un partner ‘malato’ e un altro che è di supporto e ‘custode’; diversamente, nell’infertilità i membri della coppia sono considerati ambedue come pazienti e la valutazione e il trattamento riguarda entrambi (Swanson & Mechanick Braverman, 2021; trad. propria, p. 71). Sperimentare l’infertilità sia fisicamente sia psicologicamente è stato avvertito dalle coppie come uno degli eventi più critici del ciclo di vita e in grado di mettere in crisi i partner (Casu, Zaia, do Carmo Fernandes Martins, Parente Barbosa & Gremigni, 2019). L’infertilità di coppia può avere come conseguenza l’emergere di depressione, un senso di isolamento, il manifestarsi di disturbi psicosomatici e, infine, ripercussioni nella sfera della sessualità (Righetti, Galluzzi, Maggino, Baffoni & Azzena, 2009).

Quando una coppia non riesce a concepire può essere soggetta a ‘un ottovolante di emozioni’ (Swanson & Mechanick Braverman, 2021; trad. propria p. 68): i partner sperano che sia il mese ‘buono’ e provano ansia per l’attesa, fino a quando, invece, l’arrivo delle mestruazioni lascia il campo a delusione e sentimenti di segno depressivo (Righetti et al., 2009).

La diagnosi di infertilità

La diagnosi di infertilità può comportare rabbia, tristezza, sentimenti di perdita e di lutto e il non sentirsi compresi e accolti dall’ambiente circostante; questi vissuti possono diventare a tal punto totalizzanti da compromettere la sfera dell’intimità di coppia e il funzionamento sociale e lavorativo (Cotoloni, 2021). Questo ripiegamento su se stessi, da una parte è connesso al sentimento dell’invidia, che gioca un ruolo fondamentale nella psiche delle coppie sterili che sono così indotte ad evitare le coppie con figli e le situazioni sociali in cui avvertono pressioni da parte di familiari e amici; dall’altra al fatto che si tratta di un lutto che non viene considerato e riconosciuto dal contesto circostante (Righetti et al., 2009), dal momento che ad essere pianto è un bambino che non è mai nato e non può essere seppellito (Riccio, 2017). Il dolore che le coppie si trovano a sperimentare è così forte che si è osservata una tendenza ad inibire le componenti affettive e canalizzare l’attenzione sul corpo, che viene vissuto come vuoto (Cotoloni, 2021), ma anche difettoso e danneggiato (Righetti e colleghi, 2009). Infine, è stato osservato che l’infertilità va a impattare negativamente la sfera della sessualità e dell’intimità di coppia, che cambia significato e passa dall’essere ‘un’esperienza romantica’ a un ‘lavoro stressante’; inoltre, il sesso viene associato al continuo fallimento e a sentimenti di ansia e depressione (Swanson & Mechanick Braverman, 2021), ma anche di vergogna, di stress e minore autostima (Righetti & Luisi, 2007).

All’interno della coppia, si è visto che i partner sperimentano ed esprimono il proprio dolore in maniera differente: da una parte, la propria sofferenza può essere così grande da non consentire di vedere quella dell’altro (Meyers et al., 1998): dall’altra, quando percepita, può emergere un senso di impotenza e una difficoltà nel comprendere come essere di supporto (Righetti & Luisi, 2007). Nelle coppie infertili, si è osservato come i partner si proteggano reciprocamente non rivelando all’altro i propri conflitti e le proprie angosce per la paura di ferire o di mettere in pericolo la coppia (Meyers et al., 1998); tuttavia, si è osservato che, questi aspetti difensivi, anziché proteggere la coppia, possono portarla lontano dall’affrontare il problema, chiedere aiuto e, infine, incrementare gli aspetti fusionali (Scabini & Cigoli, 1999). La letteratura mette in luce come l’infertilità sia un problema di coppia e attivi l’utilizzo di strategie di coping sia sul piano individuale, sia coniugale; infatti, il sostegno del partner si è visto in grado di alleviare lo stress interno alla coppia causato dalla condizione di infertilità, sia negli uomini, sia nelle donne. Tuttavia, si è anche osservato che le donne individualmente tendondo a ricercare sostegno anche nei blog online, nel contesto amicale e nella famiglia; viceversa, gli uomini siano più restii nel condividere le proprie difficoltà, aspetto che è stato attribuito alle aspettative sociali e agli stereotipi culturali di mascolinità che la società si aspetta che l’uomo soddisfi (Casu, Zaia, do Carmo Fernandes Martins, Parente Barbosa & Gremigni, 2019).

Gli interventi sulla coppia

L’intervento dello psicologo deve avere come focus “la coppia” (Visigalli, 2015), e accompagnarla nel: riconoscere la perdita, elaborarne il dolore e integrarla nella propria vita (Swanson & Mechanick Braverman, 2021); aumentare le strategie di coping dei partner e la capacità di chiedere aiuto anche nel contesto esterno alla coppia (Righetti & Luisi, 2007); qualora la coppia decidesse di intraprendere un percorso di PMA, aiutarla a essere consapevole di tale decisione (Riccio, 2017), e sostenerla attraverso le diverse fasi e i possibili fallimenti dei trattamenti e, infine, aiutarla a vedere altre possibili forme di genitorialità, come l’affido oppure l’adozione (Cotoloni, 2021).

L’infertilità è un’esperienza del ciclo di vita della coppia che può mettere a dura prova il legame e, infatti, risulta molto comune che le coppie ‘scoppino’ dopo una diagnosi di infertilità o durante la prassi dei trattamenti, piuttosto che rimanere unite. Si sa che sia più facile affrontare il dolore in due anziché da soli: infatti, la coppia deve impegnarsi congiuntamente nella ricerca di una nuova progettualità su cui investire, che vada anche al di là dell’arrivo di un figlio e le consenta di definirsi non solo come “una vicinanza di individui, ma proficua e continua condivisione di identità” (Scabini & Cigoli, 2000).

 

Io esco da solo: come guarire da agorafobia e attacchi di panico (2022) – Recensione

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo “Io esco da solo” si fa portatore. 

 

Non si può guidare un aereo senza guardare i comandi, ignorando che la benzina stia per terminare. Lo schianto sarebbe inevitabile.

La dr.ssa Scilla Chiesa, autrice dell’introduzione al testo di Marco Fava, utilizza questa efficace metafora per indicare la necessità di gestire le nostre emozioni, per evitare di frantumarci letteralmente contro di esse. La conseguenza ben poco augurabile sarebbe la perdita della coscienza e del dominio di Sé.

Una regolazione emotiva disfunzionale può rivelarsi matrice di disagi potenzialmente lesivi dell’omeostasi e del benessere psicofisico, tanto da esitare, nei casi più gravi, in una dimensione patologica. Il testo lo spiega chiaramente identificando come il panico, oggetto centrale della trattazione, costituisca una degenerazione della paura, e nello specifico un’estremizzazione dell’intento autoconservativo insito in essa.

Questa scarica di angoscia incontrollabile che colpisce all’improvviso e priva del controllo di sé, ha infatti ben poco a che vedere con lo scopo principale della paura, identificabile nella volontà di difendersi da uno stimolo minaccioso in grado di mettere in pericolo la sopravvivenza; piuttosto si mostra un elemento annichilente, indomabile ma terribilmente dominante, di fronte al quale l’individuo può arrivare a perdere la percezione del proprio corpo e persino della realtà.

Il panico depotenzia, limita, paralizza. Carica di valenza traumatica ogni contesto cui viene associato.

Dopo il primo terribile attacco, ogni istanza reattiva o motivazionale viene meno: la sola priorità diviene quella di evitarne il riproporsi, per sfuggire alle sensazioni terrifiche ancora vivide nella memoria. Da qui le strategie di evitamento, confortanti quanto deleterie: ci rinchiudiamo in casa, ci rifiutiamo di viaggiare da soli, ci costruiamo una confort zone in grado di difendere da quegli stessi pericoli di cui non si conosce neppure l’identità.

Tramutandosi in una sorta di prigione, la volontà di difendersi crea una sintomatologia egodistonica che, oltre a causare stati affettivi disforici e cadute di autostima, comporta un elevato costo esistenziale. In poche parole, il prezzo da pagare è molto alto: colui che soffre di attacchi di panico o di agorafobia è costretto in un recinto, psichico prima ancora che territoriale. È ostaggio di un’angoscia avida e invadente che non si accontenta delle limitazioni. Non giunge al compromesso, ma vuole sempre di più. Fino a che, dopo limitazioni sempre più restrittive, non ci si sente più sicuri neppure a casa. Il circolo vizioso ha ormai preso il sopravvento. Ed è a questo punto che la convivenza con il panico si fa impossibile.

Si tocca il fondo. Sembra arrivata la fine. Ma paradossalmente è proprio questo il momento in cui prospettare una possibile svolta. Un processo decisionale che costringe a fare i conti con questa terribile paura della paura. Provando a capire cosa si può fare per tornare indietro.

È quanto vuole dirci l’autore del testo, che, sulle righe di un racconto onesto ed empatico, espone la sua esperienza di vita senza porsi un intento clinico o scientifico. Non si trova, in queste pagine, nessun tecnicismo o divulgazione o disquisizione scientifica relativa al panico e ai suoi correlati. Nessun modello teorico, nessuna ricerca sperimentale. Né è ad un pubblico di professionisti che l’autore si rivolge: la narrazione, colma di riferimenti dal sapore personale, empatico e dolorosamente “vissuto”, è piuttosto diretta a quelli che, come lui, combattono da anni contro la prigionia del panico, confrontandosi ogni giorno con le sue perfide intransigenze, le sue proibizioni, le sue ostinazioni: fino a rendersi schiavi del suo gioco mortifero.

I messaggi del testo

La paura è una dimensione soggettiva. Non si può standardizzare né dare niente per scontato. Ognuno ha le proprie possibilità e risorse alle quali fa riferimento, per lottare, migliorare e provare a fronteggiarla. Purché ci si convinca di questo: guarire è possibile. Ed è questo il primo messaggio di cui il testo si fa portatore.

L’inganno del panico è quello di millantare se stesso come un’entità invincibile e insopprimibile. Non è così. Tutti coloro che ne soffrono possono riuscire a liberarsene. A guarire. Laddove con guarigione non si intende una miracolistica remissione del sintomo, ma soprattutto una gestione funzionale e consapevole dello stesso, finalizzata a depotenziarne gli effetti e le conseguenze. Terribili quanto erronee, fallaci, ingannevoli. Il bluff della mente, come lo chiama l’autore, è quello di entrare in un circolo vizioso in cui la potenza annichilente del panico alimenta interpretazioni falsate, deficit di conoscenze realistiche sulle malattie e sul loro decorso, credenze erronee ma così cogenti da rendersi impermeabili a qualsiasi interpretazione alternativa.

È necessario smascherare questo inganno, perpetrato da sterili meccanismi di mantenimento, prigionie travestite da difese che danneggiano e impoveriscono. E lo si può fare imparando a ragionare consapevolmente sulla paura, anziché lasciarsi travolgere. Rielaborare le cause, gli effetti, le origini e le direzioni, tramite una rieducazione del pensiero, che per raggiungere questo importante risultato richiede la mobilitazione di tutte le risorse psicofisiche di cui possiamo disporre.

E qui veniamo al secondo messaggio: nessuno può guarire da solo. È necessario affidarsi a una terapia che sia in grado di attivare le capacità cognitive utili a rapportarci al panico in una percezione più reattiva e consapevole, al fine di smantellarne letteralmente le fondamenta. Un sostegno che aiuterà a metterci alla guida di quel famoso aereo delle emozioni con doti di consapevolezza, controllo, agency.

È impensabile credere di poter uscire dal panico senza il supporto di un setting terapeutico adeguato: troppi sarebbero i rischi di ricaduta, di inefficacia, o addirittura di peggioramento. Via dunque ai pregiudizi circa un possibile percorso terapeutico. Per quanto questo comporterà sacrifici economici, fallimenti, talvolta passi falsi e ricadute. È il caso di cominciare il prima possibile, senza ripensamenti.

E la direzione è una e una soltanto: la psicoterapia cognitivo comportamentale. La sola in grado di costruire un impianto razionale contro l’irrazionalità del panico, un antidoto logico e pensante contro i suoi inganni, le sue assurdità, le sue infondatezze.

È grazie al modello cognitivo comportamentale se l’autore è riuscito a costruire un progetto di gestione consapevole delle proprie fobie. L’esercizio al ragionamento realistico cui la psicoterapia lo ha iniziato ha contribuito a restituire una struttura raziocinante ad un pensiero cui il panico aveva tolto competenze astrattive, riflessive, deduttive, rendendolo un mero gregario al servizio della sua fasulla onnipotenza. Ed è questo, forse, il terzo obiettivo del testo: omaggiare un modello terapeutico che tanto lo ha aiutato nel disegno del suo difficoltoso, e ormai insperato, percorso di guarigione.

Passo dopo passo: il percorso di guarigione

Per mettere fine allo strapotere del panico, l’autore identifica un percorso sintetizzabile nei seguenti punti chiave.

  • Obiettivi concreti e realistici. Il panico fa leva su una totale assenza di definizioni, di certezze, di conoscenze: non sappiamo da dove si origina, quanto potrà durare, a cosa ci porterà. Lo sentiamo soltanto arrivare nelle situazioni più inattese, e non possiamo che asservirci al suo crudele dominio. Tutto questo deve finire. L’autore lo spiega bene, evidenziando come sia necessario darsi degli obiettivi, senza pretendere troppo da noi stessi. Iniziando a piccoli passi, accontentandoci del poco che riusciamo a fare, e prendendolo come incentivo per fare meglio e di più la prossima volta. Se non riusciamo ad uscire neppure di casa è inutile imporci di fare improvvisamente un viaggio intorno al mondo. L’inevitabile fallimento cui andremmo incontro servirebbe solo da deterrente per qualsiasi progetto di crescita personale. Al contrario, i compiti devono essere scomposti in tante piccole fasi, i sotto obiettivi così tanto cari alla psicologia cognitivo comportamentale che, sul lungo termine, possono aiutarci a raggiungere grandi distanze.
  • Fare chiarezza e usare la ragione. Conoscere i propri sintomi, cosa li provoca, chiarine gli effetti. Iniziare a ragionare con la mente e non con la paura, ad esempio, servirà a comprendere che non si può morire di panico. Che una palpitazione non preannuncia necessariamente un infarto, e che una dispnea non corrisponde ad un principio di soffocamento. Le malattie hanno un’eziologia, un decorso, un’identità. Non è il caso di estremizzare, né di impiegare sugli stessi un’attenzione dispercettiva. È più opportuno lavorare per raggiungere una preziosa competenza di agency,  che consentirà una gestione più adeguata e consapevole dei propri sintomi.
  • Evitare l’evitamento. Una delle strategie più subdole del panico è quella di spingerci ad evitare i luoghi nei quali si è verificato la prima volta, nella speranza di riuscire a scongiurarne il temuto ripresentarsi. Il rinforzo negativo apportato dalle strategie di evitamento ci spinge a considerarle la via d’elezione per contrastare l’avvento della crisi. All’inizio può sembrare giusto. Ma alla fine questo rimedio illusorio diventa una trappola che impedisce la vita stessa, perché il panico è avido e intransigente. E impone restrizioni sempre più limitanti. Tanto che alla fine nessun posto –neppure la casa– sarà in grado di rassicurarci sufficientemente.
  • Distrarsi. Dobbiamo cercare di distrarre l’attenzione dal pensiero del panico. Trovando dei diversivi in grado di depotenziare la focalizzazione sullo stato di malessere innescato dal sintomo somatico e da lì l’ansia parossistica. Possiamo affidarci alle disponibilità contingenti o alle nostre naturali preferenze, per trovare attività in grado di ispirarci sentimenti positivi: scrivere, parlare con qualcuno, mettersi al computer. Fare una telefonata, se possibile, persino giocare con lo smartphone –non è sempre il caso di demonizzare la tecnologia!–, ma anche semplicemente mettersi a contare, fare associazioni di numeri e lettere. Utile anche l’utilizzo dei canali sensoriali, attraverso i quali stornare adattivamente lo stress suscitato da una sensazione sgradevole o minacciosa, e costruire un più intimo contatto col Sé. Un contatto viscerale che sia in grado di evocare sensazioni piacevoli e contenitive, e che, soprattutto, ci restituisca un’immagine del corpo più affidabile e meno distruttibile. Siamo più forti di quanto il panico ci spinga a credere.
  • Restare sul confine. Non dobbiamo illuderci. Il panico tornerà di nuovo e ci imporrà di tornare indietro, per rifugiarci in quella confort zone che tanto ci protegge. Ma non sarebbe onesto assumere un comportamento di ritirata, all’interno di un percorso di cambiamento concretamente meditato. È invece necessario accettare gli attacchi, quando si presenteranno. E anziché arrenderci alla loro intensità distruttiva, fissare l’attenzione sul sintomo che sono riusciti a suscitare in noi, scomponendone razionalmente le caratteristiche. Iniziamo ad esempio a chiederci: di cosa ho paura? Cosa mi fa male? Per quale motivo? Da quando è iniziato questo sintomo, e oggettivamente, a cosa potrà condurmi? Intraprendiamo un’analisi funzionale del panico, al fine di comprenderne l’origine, la durata e l’intensità. È necessario smascherare l’impostore, per impedirgli di averla vinta ancora una volta. Dobbiamo stare fermi sul confine, senza tornare indietro, e vedere quanto riusciamo a resistere.
  • Normalizzare i fallimenti. Non è il caso di lasciarsi prendere dallo sconforto, di fronte ad un fallimento. Consideriamolo piuttosto un incidente di percorso sul quale non è il caso di drammatizzare. Lo stesso autore riporta i passi falsi, gli errori, le ricadute che hanno costellato il suo percorso di guarigione e che, proprio grazie alla guida direzionante della psicoterapia, è riuscito ad inserire in un contesto di normalizzazione, senza lasciarsi scoraggiare in una prospettiva demotivante.
  • Pensiero positivo. Lasciare spazio all’ottimismo, non in senso irrealistico, e neppure in una modalità di negazione onnipotente. Ma soltanto per permettere l’instaurarsi di quelle strategie di coping che sottraggono all’impotenza, alla passività senza risoluzione, spingendo ad un confronto reattivo con il Sé e con la propria paura. Pensare in positivo vuol dire credere nel miglioramento, motivare il percorso terapeutico, lasciarsi andare a speranze e progettazioni. Una rieducazione di pensiero in grado di renderci un terreno meno fertile per l’insorgenza del panico e delle sue terrifiche conseguenze.
  • Cercare la paura. Alla fine non basta evitare il panico. Dobbiamo letteralmente stanarlo, sfidarlo, affrontando le stesse situazioni che ne causano l’insorgenza. Fino a provocarle volontariamente. Anche se può apparire impossibile. È l’unico modo per tenergli finalmente testa.
  • Voglio capire che paura sei. Da questa frase possiamo carpire il senso più profondo del testo, che non risiede tanto in un miracoloso passaggio dalla paura alla non paura, bensì nel raggiungimento di una gestione consapevole e tollerante dell’ansia distruttiva, quando si insedierà di nuovo nei nostri pensieri.

Uno dei meriti principali del testo di Fava è quello di trattare con semplicità di stile e di linguaggio- argomenti di grande intensità psichica. Esponendo senza sensazionalismi la sua esperienza personale, l’autore è riuscito a lanciare un messaggio diretto e leale, creando una sinergia empatica che si percepisce nell’intero corpo del testo.

Il messaggio è più volte ribadito: realizzare una breccia nella prigione costruita dal panico è possibile. E la narrazione della sua esperienza personale si pone l’obiettivo di mostrare il modo in cui riuscirci a tutti coloro che come lui sono incatenati da questo oscuro carceriere.

Fronteggiare la paura, accettare di penetrarne le profondità, chiamarla per nome. Sono questi, i capisaldi della guarigione, dai quali tutti possono trarre un’ispirazione motivante. Un punto di partenza per iniziare il percorso di liberazione dalla melma ottenebrante del panico, che può prendere vita solo dalla volontà individuale.

Il testo si pone come un prezioso appello alla mobilitazione delle proprie risorse personali –quelle stesse che il panico spinge a reputare inesistenti– per porle al servizio di uno scopo ben più costruttivo e proficuo: raggiungere il benessere e la padronanza di sé. Usare la ragione contro l’irrazionalità, la consapevolezza contro l’ignoto, per togliere potere al panico. Gestire la vita in base alle nostre e non alle sue esigenze.

Tutti ce la possono fare. Quindi è meglio cominciare il prima possibile. Il panico ci ha già portato via troppo tempo.

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