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Come la psicologia può aiutarti nella ricerca di un lavoro

La ricerca di un nuovo lavoro può spaventare e creare ansia, ma è anche vero che grazie ad alcune semplici conoscenze di psicologia umana può diventare meno ostica, e soprattutto può portare a ottimi risultati in termini di assunzione e seria presa in considerazione.

 

Vediamo alcuni consigli di cui fare tesoro quando si cerca un lavoro in Italia o all’estero, direttamente dal mondo della psicologia.

Empatia: informarsi bene riguardo all’azienda

L’empatia è forse la chiave di volta più importante assieme alle competenze. Quando si parla di empatia riguardo ad un’azienda, significa informarsi su ciò che questa vuole rappresentare nel suo settore. Leggere la sua storia, la sua vision e mission, assicurandosi di cercare su diverse piattaforme e non solo sul sito web, per vedere anche i diversi approcci e toni di voce (LinkedIn, Instagram, Twitter, etc).

Si deve cercare di comprendere i loro obiettivi e aspirazioni, così da poter dimostrare di essere il miglior candidato per la loro realtà. Anche ascoltare attentamente ogni domanda e ogni cosa che dirà l’intervistatore durante il colloquio è importante, così da dimostrare di essere connessi e presenti, di saper gestire la realtà del momento con precisione e attenzione.

Focalizzarsi sui propri punti di forza

Il nostro sabotatore interiore non vede l’ora di uscire allo scoperto quando si tratta di essere messi alla prova e doversi proporre per un lavoro mostrando il meglio di sé e delle proprie abilità. Per questo si può giocare d’anticipo evitando di farlo uscire. Il modo migliore, in questo caso, è focalizzarsi sui propri punti di forza.

Quali sono i principali traguardi raggiunti? Qual è stata quella volta in cui ci saremmo complimentati con noi stessi per l’ottimo lavoro svolto o per aver avuto un’idea geniale? Queste e altre cose di questo tipo possono aiutare ad alzare l’autostima e a partire con il piede giusto. Senza credere in se stessi in prima persona sarà difficile convincere qualcun altro, del resto.

Preparare una storia dietro a ogni risposta

Per quanto le competenze personali possano essere radicate, per distinguersi davvero dagli altri candidati la differenza la potrà fare la propria storia unica. Ciò significa che all’interno di ogni risposta – o della maggior parte – è bene cercare di inserire qualcosa che si riferisca unicamente alla propria esperienza. Questo non riguarda solamente le esperienze nell’ambito lavorativo, ma di vita vera e propria che può rientrare nella vision del lavoro in questione.

Un episodio d’infanzia, un insegnamento recente, una skills acquisita in maniera bizzarra, e così via. Per non farsi trovare troppo impreparati, al di là della spontaneità è bene prepararsi già delle risposte di questo tipo.

Parlare con un tono di voce calmo e non acuto

A livello psicologico anche la voce è importante: un tono di voce calmo e non troppo alto contribuirà a condurre un’intervista lavorativa con una marcia in più, fornendo già un’impressione positiva all’intervistatore. L’ansia si insinua facilmente tra le parole, per questo ci si può allenare a casa facendo attenzione anche al proprio tono di voce e alla cadenza.

Cercare di non velocizzare troppo la narrazione, prendere respiro sufficiente tra una frase e l’altra, evitare risposte squillanti e concitate aiuterà a creare un clima ideale e favorevole.

Stabilire obiettivi e scadenze

A volte una ricerca di lavoro può sembrare interminabile quando non c’è un traguardo. Stabilire obiettivi e scadenze anche per quanto riguarda la ricerca di lavoro è un’ottima abitudine per imparare a orientarsi verso obiettivi più gestibili lungo il percorso.

Si possono stabilire obiettivi sia a lungo termine, per esempio annuali, che a breve termine, ovvero giornalieri, settimanali e del mese corrente. Tutto questo comprende l’aggiornamento delle competenze, del proprio curriculum e della lettera di presentazione.

Comprendere i limiti del sistema

Spesso non sarà mai chiaro quanti candidati si sono proposti per lo stesso lavoro, e in fin dei conti non importa. Prima di farsi prendere dal senso di ingiustizia delle cose, è bene prendere consapevolezza del fatto che il sistema della ricerca di lavoro è in buona parte non controllabile. Ci saranno sempre parti che non hanno senso o sembrano ingiuste.

Non si potrà sapere con certezza se riguardo a quell’offerta hanno aperto la nostra e-mail, se non ci hanno scelti perché non siamo abbastanza validi per la posizione o perché c’era un candidato raccomandato, e così via. Fattori casuali intervengono continuamente, dal figlio del capo che ottiene un lavoro di prima qualità all’annullamento di un posto di lavoro a causa di un’emergenza fiscale.

Concentrandosi sul quadro più ampio, l’importante è continuare a candidarsi tenendo il dovuto distacco dalle possibili ipotesi che stanno dietro al silenzio o al rifiuto, consapevoli del proprio valore.

Per concludere

La psicologia non è un’utopia, e può essere davvero utile anche nella ricerca di un nuovo lavoro. Mettendo sempre più in pratica questi consigli e facendoli diventare abitudini, sarà di volta in volta tutto più semplice.

 

Ogni ricordo merita rispetto. EMDR la terapia per guarire dal trauma (2022) – Recensione

Ogni ricordo merita rispetto è un libro interessante che ha la particolarità di una doppia narrazione: da parte del paziente che ha effettuato un percorso di terapia EMDR e ci racconta la sua storia nonché il processo di guarigione, e da parte della psicoterapeuta, l’autrice Deborah Korn, che offre spunti di riflessione teorici e indicazioni tecniche. 

 

 Per quanto riguarda gli aspetti teorici ritroviamo alcune nozioni fondamentali per poter lavorare con pazienti che hanno vissuto traumi “con la t minuscola e con la T maiuscola”. Per iniziare, ci chiarifica cos’è un trauma, definendolo come “qualunque esperienza che sia percepita come soverchiante, che scateni emozioni negative forti o che implichi un senso di impotenza e intensa vulnerabilità”: da ciò deriva che non è traumatico solo ciò che mina alla nostra vita o alla nostra sicurezza fisica, ma anche rifiuti, umiliazioni, fallimenti, abbandoni. L’autrice prosegue spiegandoci cosa avviene nella mente, nel corpo e nel comportamento dopo un evento traumatico o altamente stressante; cos’è il trauma interpersonale complesso e il concetto di finestra di tolleranza. Viene spiegato accuratamente anche il meccanismo di azione e le varie fasi del trattamento EMDR.

 La Korn riporta tante situazioni di reazioni disfunzionali, come il non riuscire a prendersi cura di sé, a porre dei confini, a riconoscere la propria paura, spiegandone sia il meccanismo di funzionamento che facendo degli esempi tratti dalle storie dei suoi pazienti.

Il libro ci porta, passo passo, a comprendere le grandi potenzialità dell’EMDR, che non permette solo di lasciare andare i momenti difficili –o terribili– del passato, ma altresì di affrontare meglio il presente e poter guardare al futuro con nuove progettualità e slancio vitale.

È un testo utile per le persone che vorrebbero iniziare un percorso di elaborazione dei traumi vissuti, per sentirsi meno soli e comprendere che ci possono essere buone possibilità di sanare le proprie cicatrici e riappropriarsi della propria vita. Utile altresì per i terapeuti che vogliono avvicinarsi al modello della terapia EMDR e per chi conosce già questo approccio e vuole approfondire gli elementi neurofisiologici e procedurali.

Chi è Mercoledì Addams? Analisi psicologica della protagonista della nuova serie tv Netflix

La nuova serie tv Netflix nasconde, nelle sue vicende magiche e oscure, importanti spunti di riflessione sulla psicologia della sua protagonista. Ma chi è davvero Mercoledì Addams? Cerchiamo di capirlo insieme, ripercorrendo alcune delle sue peculiarità emotivo-relazionali e di personalità.

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler!

La trama

 Il famoso personaggio di Mercoledì Addams, originariamente ideato da Charles Addams (1912-1988), prende nuova vita nella recente serie tv “Wednesday”, targata Netflix e coprodotta da Tim Burton. Mercoledì Addams, una giovane sedicenne figlia di Morticia e Gomez, è la solitaria e problematica protagonista che, dopo un incidente scolastico, viene costretta dai genitori a trasferirsi nell’ennesima scuola: la Nevermore Academy, un istituto superiore ideato per i “reietti” cioè coloro che hanno difficoltà ad integrarsi nella società a causa delle loro peculiarità. Nella scuola sono infatti presenti licantropi, sirene, gorgoni e personaggi dotati di poteri magici. È proprio qui che la giovane Mercoledì dovrà affrontare il difficile inserimento scolastico e in parallelo, una serie di vicende misteriose legate ad omicidi che avvengono nella zona.

Questa trama fornisce perlopiù il contesto chiave in cui viene presentato il vero cuore della serie e cioè seguire il viaggio psicologico della protagonista. Infatti, Mercoledì, seppur nella sua peculiarità, mostra alcune delle complesse ma tipiche sfide di sviluppo dell’età adolescenziale: l’ambivalenza tra il desiderio di indipendenza e il bisogno di protezione dei suoi genitori, i conflitti familiari e la difficoltà nell’accettazione di sé e nell’essere accettata dai coetanei nella sua diversità. La giovane Addams sembrerebbe incarnare in sé la lotta interiore di molti adolescenti, alla costante ricerca del proprio posto nel mondo.

Conosciamo meglio Mercoledì Addams: com’è questa giovane adolescente?

Mercoledì Addams appartiene ad un nucleo familiare che presenta certamente le sue peculiarità e che ben si allontana da una “tipica” o “sana” educazione familiare. I suoi genitori appaiono bizzarri, tetri, con un aspetto gotico e con un interesse particolare per le arti oscure e la morte. Avendo questi modelli con cui confrontarsi, forse è più facile comprendere alcune delle caratteristiche distintive della ragazza.

Mercoledì appare come una ragazza fredda, seria, malinconica, a tratti inquietante, dotata di grande intelligenza. È un’adolescente con gusti e interessi strani e macabri (come fare autopsie su animali morti) ed è molto appassionata di letteratura (scrive libri) e di musica (suona il violoncello). Con il suo modo di essere e di apparire in bianco e nero, è il simbolo della diversità e dell’auto-accettazione sincera: traspare sempre un forte messaggio di accettazione di sé stessi per come si è realmente. Molto evidente è la sua anti-convenzionalità: è fuori dagli schemi e lotta, ribellandosi, contro il sistema per difendere la propria idea di società, con l’obiettivo di apportare migliorie a quest’ultima. Questa anti-convenzionalità è anche caratterizzante del contesto scolastico in cui è inserita la protagonista, ma con lei è ancora più spiccata: anche se posta in un gruppo di coetanei bizzarri e anticonvenzionali, la Addams è la strana tra gli strani, un’emarginata tra gli emarginati, tanto che anche la sua divisa ha un colore diverso rispetto a quella dei compagni. Il suo essere “anormale” in un contesto “anormale”, veicola un sottile ma importante messaggio, cioè quello di non demordere nell’essere sé stessi, anche se ci si può sentire soli e incompresi poiché diversi dagli altri.

La salute mentale di Mercoledì: un tema prevalente

Il tema della salute mentale risulta centrale nel personaggio di Mercoledì Addams. Come anticipato nell’introduzione, il filo conduttore della storia è proprio il viaggio psicologico della protagonista che non può, quindi, non essere preso in considerazione. Un particolare focus viene posto sull’aspetto emotivo-relazionale in cui, partendo dalla forte devianza di Mercoledì nei confronti di chi le sta intorno, si attiva un processo di normalizzazione che passa da incontri con una psicologa (anche se contro la volontà della ragazza), a influenze del contesto in cui è inserita (ad esempio, le diverse attività a cui deve obbligatoriamente partecipare la portano, in qualche misura, a rapportarsi con gli altri). Sta di fatto che Mercoledì appare una ragazza chiusa ad ogni contatto sociale e ad ogni emozione: ma è davvero così? O meglio, è davvero così estremizzato come vuol far credere agli altri?

Come appare Mercoledì sul piano emotivo?

Sul piano emotivo Mercoledì Addams appare senza emozioni mostrandosi fredda e distante, con uno sguardo serioso e occhi sbarrati. Tuttavia, si può notare che Mercoledì non è affatto priva di emozioni: tutto dipende da quello che vuole o meno mostrare, attribuendo a tutte le emozioni un’accezione negativa. La giovane sembrerebbe mostrare scarse capacità empatiche. In tal senso è emblematica la sua frase in risposta al fratellino durante il primo episodio che, invece di consolarlo, esordisce con “le emozioni sono una debolezza”. Ancora, è possibile notare una scarsa capacità dell’adolescente di riconoscere e chiamare con il proprio nome le sue emozioni, come la tristezza, che descrive alla psicologa con questa frase: “le emozioni hanno conseguenze negative, portano ai sentimenti che fanno lacrimare”.

 Durante il susseguirsi degli episodi, tuttavia, è evidente un sottile ma chiaro cambiamento della ragazza sul piano emotivo: quanto più Mercoledì si sente compresa, capita e amata dalle persone che la circondano, tanto più abbandona parte della sua corazza emotiva, arrivando a piangere con evidente tristezza e preoccupazione quando Mano sembra in fin di vita e a manifestare felicità con un sorriso quando si riprende, abbandonandosi addirittura ad un breve ma affettuoso abbraccio con la sua compagna di stanza Enid, durante una delle scene finali.

Come appare, invece, sul piano relazionale?

Il personaggio di Mercoledì incarna chiaramente l’egocentrismo tipico adolescenziale e questo viene ben rappresentato da una sua frase: “ogni giorno è dedicato a me”. La ragazza è molto presa da sé stessa, dai suoi interessi e dalla sua routine. Questo si accompagna ad un atteggiamento di volontaria esclusione dagli altri: è respingente, dedita alla solitudine ma molto sicura di sé e pienamente consapevole della sua distanza psico-emotiva dagli altri. Mercoledì è sola ma è anche disinteressata ad integrarsi: non desidera sentirsi parte del gruppo, preferisce preservare la sua identità mettendo sé stessa al primo posto.

Oltre alla mancanza di desiderio di rapportarsi con qualcosa di diverso da sé stessa (“la socialità non mi piace molto; l’inferno sono le persone”), durante le occasioni in cui Mercoledì si trova costretta dalle circostanze a relazionarsi con gli altri, risulta evidente la sua difficoltà nel fare ciò. È ostile, scontrosa e sospettosa (anche in modo infondato, a volte), con vere e proprie mancanze sul piano relazionale: non sa come comportarsi, cosa dire e come farlo.

Ovviamente, non mancano incongruenze: apparentemente disprezza la sua famiglia tanto da voler scappare lontano da loro ma poi, difende in ogni occasione di bullismo il fratellino, aiuta a nascondere e ricerca la vicinanza dello Zio Fester. E ancora, arriva addirittura a condividere diverse esperienze con il giovane barista, che poi arriva quasi a diventare il fidanzatino dell’adolescente. Ambivalenze adolescenziali o semplice maschera che Mercoledì cerca di propinare alle persone? La questione rimane in sospeso.

Certo è che, come sul piano emotivo, durante il susseguirsi delle vicende, il muro che pone tra sé e gli altri sembra, piano piano, cedere. Mercoledì passa infatti da una posizione di outsider assoluta, ad una posizione di apertura verso alcune persone vicino a lei: si fa aiutare da alcuni compagni “reietti” per cercare di incastrare il giovane barista e offre sostegno alla compagna di stanza Enid (anche se a modo suo): “se ti spezza il cuore userò una sparachiodi”, dice riferendosi al ragazzo per cui “l’amica” ha una cotta.

Oltre le apparenze: la personalità “Mastermind” di Mercoledì

Ma Mercoledì è davvero come appare? Cerchiamo di far luce su questo punto, analizzando la sua personalità. Prendendo in considerazione i 16 tipi di personalità identificati da K. Briggs e I. Myers (Myers, 1998), Mercoledì sembrerebbe rientrare nell’1% delle donne con una personalità INTJ (Introversion, Intuition, Thinking, Judgment), anche detti “mastermind ” per il loro modo di pensare strategico e logico, i cui tratti distintivi sono l’essere introversi, intuitivi, pensatori e giudicanti. Lei stessa sembrerebbe descriversi così dicendo, in uno dei primi episodi “so di essere testarda, determinata e ossessiva; ma sono tutte caratteristiche dei grandi scrittori e dei serial killer”, frase che descrive bene non solo sé stessa, ma anche gli INTJ in generale.

Questo tipo di personalità conferma quanto riportato sopra sul piano emotivo-relazionale: spirito indipendente ed ego-centrato, la Addams non è certamente una persona calorosa o particolarmente socievole, proprio come gli INTJ: non sono a loro agio con le altre persone e con le loro emozioni a causa della loro imprevedibilità anche se, essendo sicuri della propria intelligenza, mostrano un atteggiamento sicuro con gli altri. Gli INTJ, infatti, sono riservati, seri e caratterizzati da una forte selettività nelle loro relazioni, preferendo frequentare persone che trovano intellettualmente stimolanti (Myers, 1998).

Ancora, Mercoledì è una mente acuta, una pensatrice ed una grande stratega: ama attenersi alle proprie idee e piani e non demorde finché non riesce a raggiungere gli obiettivi che si prefigge. Proprio come gli INTJ, che amano risolvere problemi analitici e complessi con il ragionamento logico e la loro spiccata inventiva (Myers, 1998).

Conclusioni

In definitiva, questo personaggio offre da un lato un importante spunto di riflessione sulla psicologia dei giovani adolescenti, sul loro percorso di ricerca di indipendenza e di accettazione di sé; dall’altro consente di mettere a fuoco il concetto di “diversità”, pregiudizi e apparenze.

 

I serious game nel trattamento dei disturbi alimentari – Psicologia Digitale

Una interessante review pubblicata lo scorso anno (Tang et al., 2022) ha indagato l’efficacia dei serious game nel trattamento dei disordini alimentari.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 36) I serious game nel trattamento dei disturbi alimentari

 

 Comportamenti e pensieri disfunzionali nei disturbi alimentari possono avere conseguenze severe dal punto di vista psicologico e fisico.

Attualmente la terapia cognitivo comportamentale (CBT) è considerata l’approccio d’elezione ma non senza ostacoli. Infatti, la terapia si scontra con diverse sfide: alleanza terapeutica, motivazione e compliance sono punti critici. Si tratta di pazienti che hanno ideali egosintonici irrealistici rispetto a se stessi e al proprio corpo, difficoltà nella regolazione delle emozioni, sentimenti di vergogna, adottano strategie nocive per il controllo del peso come restrizioni, abbuffate, purghe o altri comportamenti compensatori.

Con un quadro così complesso, non stupisce che spesso i pazienti abbandonino la terapia o che il tasso di remissione completa sia basso. Per questo è necessario un approccio multidisciplinare che non solo combini trattamenti medici e psicoterapici ma che si affianchi a nuove opzioni.

Una definizione di serious games

I serious games (da “serious videogames”, SVG) sono videogiochi progettati per scopi terapeutici.

Al giocatore possono essere proposte diverse attività a seconda che si vogliano migliorare le prestazioni fisiche o cognitive. Non si tratta solo di cosa far fare ma anche di come farlo fare. È importante tenere in considerazione l’esperienza dell’utente che deve sentirsi a proprio agio in un ambiente realistico e stimolante.

Il gioco può avvenire attraverso interfacce tradizionali come tastiera o mouse oppure interfacce intelligenti e sensori che monitorano sguardo, attività cerebrale, dati biologici come la frequenza del battito cardiaco. Il tipo di interazione varia a seconda che l’ambiente di gioco sia bidimensionale (2D), tridimensionale (3D), o una combinazione dei due.

Il gioco può svolgersi interamente online o in presenza e può essere singolo o multigiocatore; quest’ultimo aspetto è un importante criterio da prendere in considerazione: creare gruppi di lavoro in cui i pazienti possano confrontarsi fra loro può renderli più motivati e coinvolti.

Le combinazioni di queste caratteristiche possono dare forma a moltissime opzioni di gioco, variabili a seconda dei soggetti e delle abilità su cui si vuole lavorare.

I serious game sono sempre più utilizzati come supporto nel trattamento di molti disturbi e patologie come depressione e dipendenze (Laamarti et al., 2014).

Serious games e disturbi alimentari

Una interessante review pubblicata lo scorso anno (Tang et al., 2022) ha indagato l’efficacia dei serious game nel trattamento dei disordini alimentari. L’analisi di centinaia di studi evidenzia effetti positivi sulla stabilizzazione del peso, nelle abitudini alimentari e un generale miglioramento dei sintomi, dell’autoregolazione e dell’espressione salutare delle proprie emozioni.

Un altro aspetto positivo è che i serious game possono essere svolti sia da soli che in compagnia. In questo modo il paziente può mettersi alla prova in autonomia e senza vergogna ma anche sperimentare connessione e reciprocità quando gioca con altri, online come in presenza.

I serious game vengono definiti così perché hanno scopi terapeutici, ma rimangono pur sempre dei giochi: la componente ludica ha il vantaggio di aumentare la motivazione e la compliance, spostando sul piano del gioco compiti e ristrutturazione cognitiva, alleggerendo il carico di lavoro del paziente.

L’unico limite sembra essere l’assenza di evidenze sul lungo termine. Nello studio durato di più la fase sperimentale è stata di sole 8 settimane (Keeleret et al., 2022).

Analizzare l’impatto dei serious game nel lungo termine serve non solo a capire come utilizzarli nei trattamenti, ma anche per indagare il loro potenziale nella prevenzione su persone a rischio o senza una diagnosi.

Ci sono poi altri aspetti da chiarire, soprattutto riguardo alle dinamiche di gioco. Per esempio, gli indicatori di performance (come i punteggi) potrebbero indurre ansia e stress o essere fonti di ricompensa esterne, che quindi non agiscono da motivazioni intrinseche e profonde alla base di un migliorando a lungo termine.

Alcuni autori vedono un’associazione tra dipendenza da gioco e alcuni tratti tipici di questi pazienti, come la disregolazione. Sicuramente l’utilizzo dei serious game, come ogni pratica clinica, deve essere supervisionato dal terapeuta (Tang et al., 2022).

Nel prossimo futuro sarà quindi interessante capire come si evolverà la ricerca; per il momento i serious game sembrano uno strumento valido da affiancare alle pratiche esistenti.

 

Dimmi come sei stato amato e ti dirò come ami

Secondo la psicologa canadese Mary Ainsworth in base al pattern di attaccamento che la nostra figura di riferimento principale è riuscita a costruire (funzionale o disfunzionale), avremo differenti tipologie di attaccamento. Ed è proprio in base a come siamo stati amati che amiamo in modalità differenti.

 

La relazione di attaccamento

 Differentemente da quanto avviene nel mondo animale, dove il comportamento sessuale è solamente un atto istintivo e legato a cicli biologici, nell’uomo i fattori ambientali e psicologici hanno maggiore importanza. Attraverso, dunque, un approccio olistico del soggetto, potremmo considerare la sessualità, non solo con la sua finalità di riproduzione, ma anche come un format biologico pensato a favorire la costruzione e il mantenimento dei legami di coppia.

La relazione di attaccamento infatti è caratteristica dell’uomo, il quale la sperimenta per tutto il corso della sua vita, specialmente la relazione “madre-bambino” o “caregiver-bambino” (Bowlby, 1996).

Grazie alla sessualità, come sostenuto anche da Freud, il bambino instaura il rapporto di assoluta dipendenza con la madre, in particolar modo nella fase orale, con la suzione durante l’allattamento, sin dalla nascita.

Viene chiamata “relazione di attaccamento” ed è tipica negli umani, condizionerà per di più, come studiato dalla psicoanalisi e dalle teorie dell’attaccamento, lo sviluppo psicosessuale di un individuo. Gran parte della nostra vita emotiva, infatti, gira intorno alla sessualità, sin dai primi anni di vita, andando a pregiudicare il nostro orientamento sessuale (Bowlby, 1996). In psicologia il sesso è un modo di relazionarsi con un’altra persona.

Secondo le teoria dell’attaccamento, con a capo John Bowlby e Mary Ainsworth, le interpretazioni che noi diamo al comportamento degli altri, che siano amici, partner o colleghi, sono condizionate dai nostri Modelli Operativi Interni (rappresentazioni mentali), costruiti sin dall’infanzia. Da adulti, perciò, ci muoviamo nel mondo attraverso la suggestione data da queste rappresentazioni mentali originate nei legami affettivi infantili (Bowlby, 1996).

Secondo la psicologa canadese Mary Ainsworth in base al pattern di attaccamento che la nostra figura di riferimento principale è riuscita a costruire (funzionale o disfunzionale), avremo differenti tipologie di attaccamento che la studiosa classifica come: attaccamento sicuro, attaccamento insicuro-ansioso evitante, attaccamento insicuro ansioso-ambivalente, attaccamento insicuro disorganizzato (Bowlby, 1996). Ed è proprio in base a come siamo stati amati che amiamo in modalità differenti.

Attaccamento sicuro

L’attaccamento viene definito “sicuro” se i bambini hanno ricevuto la giusta dose d’amore dai genitori o almeno dalla figura materna, rispettando sia i bisogni di dipendenza e rassicurazione che quelli di crescita e autonomia. È così che il bambino riesce ad interiorizzare un’immagine positiva sia di sé stesso che delle future relazioni con gli altri, mostrandosi sicuro di sé e riponendo fiducia nell’altro. Questo tipo di attaccamento sviluppa nel soggetto una buona intelligenza emotiva, la consapevolezza dei propri bisogni e la capacità di mediare le esigenze personali e quelle del partner.

Lo sviluppo di questo tipo di attaccamento è sempre più difficile (Main, 1995).

Attaccamento insicuro

L’attaccamento insicuro si costruisce quando il bambino sperimenta una ferita nel rapporto con il suo caregiver, la quale non permette al soggetto di sviluppare fiducia in se stessi e negli altri. Il Modello Operativo Interno delle persone con attaccamento insicuro, sarà caratterizzato da un’idea negativa delle relazioni che saranno viste come potenzialmente deludenti.

Ci possono essere svariati motivi per i quali i genitori dei bambini con attaccamento insicuro non sono stati in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni dei loro figli, come ad esempio problemi economici o l’insorgenza di malattie, ecc.

L’attaccamento insicuro a sua volta si distingue in tre tipologie: l’insicuro ansioso-ambivalente, insicuro ansioso-evitante, insicuro disorganizzato (Main, 1995).

L’attaccamento insicuro-ansioso ambivalente

Il soggetto con questo tipo di pattern di attaccamento sperimenta la sensazione di non aver ricevuto abbastanza amore dai loro genitori.

I genitori sono stati incostanti nel soddisfacimento dei bisogni dei bambino: a volte presenti ed amorevoli, altre volte algidi e indifferenti ai bisogni dei loro figli, i quali hanno poi appreso ad attirare l’attenzione con pianti, crisi di rabbia e capricci, quindi un’incapacità di regolare le proprie emozioni che rimarrà anche da adulti.

In futuro si aspetteranno molto dal partner e avranno la continua necessità di ricevere conferme. Hanno l’estremo bisogno di “riscattare” l’assenza di affetto che hanno subito.

L’estremo bisogno di ricevere amore farà sì che ciò che hanno non sarà mai abbastanza, motivo per cui ogni disattenzione del partner è sentita come devastante, andando a compromettere l’equilibrio della coppia (Main, 1995).

 Le persone con questo tipo di attaccamento vivono costantemente la paura di essere traditi o abbandonati risultando così al partner possessivi e gelosi. Non riescono a fidarsi, hanno così il bisogno di mettere alla prova l’altro per cercare conferme, senza però mai convincersi di essere amati. Altra caratteristica dell’ambivalente è la tendenza alla dipendenza affettiva, una nuova forma di dipendenza comportamentale dove si mettono in funzione dei comportamenti coattivi sulla persona a cui si è legati affettivamente e grazie alla quale il soggetto che ne è dipendente ne ricava una quiete psicologica.

Queste dinamiche comportamentali del soggetto attivano quella che in psicologia viene definita “profezia che si auto-avvera”, ovvero il loro comportamento farà sì che, l’abbandono tanto temuto, avvenga, infatti le persone con questo attaccamento vengono solitamente lasciate (Main, 1995).

L’attaccamento insicuro-ansioso evitante

I genitori dei bambini con tale attaccamento sono stati poco presenti e poco affettuosi spingendo il figlio a crescere in fretta, diventando presto indipendenti e autonomi, crescendo con la sensazione di poter contare solo su loro stessi.

Tali soggetti hanno difficoltà ad instaurare un legame di coppia poiché, abituati a “cavarsela da soli”, vivranno la relazione come una limitazione, sentendosi costretti, mantenendo però comunque il desiderio di amare.

Lamentano spesso di non riuscire ad innamorarsi e che, una volta bypassato l’amore iniziale, tendono col tempo a stancarsi facilmente e sostenendo di non avere bisogno dell’altro (Main e Solomon, 1990).

Nel caso in cui costruiscono una relazione, le persone con attaccamento evitante vivono come single in coppia, concentrandosi molto sulle proprie esigenze, risultando poco disponibili ai bisogni del partner.

Tutti questi comportamenti fanno sì che la persona non abbia storie molto lunghe, o perché le interrompe lui stesso prima che diventino importanti o perché il partner, stufo, interrompe la relazione (Main, 1995).

L’attaccamento disorganizzato

Questa tipologia si presenta correlata a gravi sofferenze psicologiche. Questo legame si crea se i bambini hanno vissuto situazioni familiari molto difficili con episodi di maltrattamento, abuso o trascuratezza eccessiva. Il bambino vedrà il suo caregiver come un nemico piuttosto che una sicurezza.

In futuro presenteranno difficoltà a legarsi a qualcuno, avranno un comportamento caratterizzato da sbalzi d’umore e aggressività, che si presenta soprattutto quando il partner dimostra vicinanza emotiva (Liotti, 2004).

Alcuni studi mostrano la correlazione tra forme di attaccamento insicuro e rigidità emotiva, difficoltà a relazionarsi e nelle capacità di attenzione e di empatia. Inoltre, dimostrano che tale attaccamento aumenti la probabilità d’insorgenza di disturbi psicologici soprattutto in adolescenza, come la depressione, l’ansia, i disturbi alimentari o, nei casi estremi, disturbi psicotici, e per lo stile disorganizzato, sintomi dissociativi e predisposizione al disturbo da stress post-traumatico (Liotti, 2004).

Considerazione conclusive

Come appena illustrato, i Modelli Operativi Interni che si strutturano dalla nascita permangono per tutta la nostra vita futura, anche se nel tempo le esperienze relazionali possono influire modificando alcune nostre credenze e comportamenti.

È importante avere la consapevolezza del nostro tipo di attaccamento e quello del nostro partner anche tramite un percorso di psicoterapia, per poter vivere serenamente la relazione e saper costruire rapporti che durino nel tempo (Powell et al., 2014).

 

Perché i disturbi d’ansia tendono ad essere persistenti nel corso della vita?

La revisione di Hovenkamp-Hermelink e colleghi (2021) è la prima a fornire una panoramica completa dei fattori che predicono il decorso persistente dei disturbi d’ansia lungo il ciclo di vita. Vista la notevole prevalenza dei disturbi d’ansia nella popolazione, conoscere i predittori della loro persistenza è essenziale per ottimizzare le strategie di prevenzione e cura di tali disturbi.

 

I disturbi d’ansia

 I disturbi d’ansia sono tra i disturbi psichici più diffusi nella popolazione mondiale, al punto che le ricerche ne stimano la prevalenza lifetime fra il 16-34% e al 20% alla fine dell’adolescenza (Bandelow e Michaelis, 2015; Somers et al., 2006; Rutter et al., 2011). Essi comportano oneri significativi per le persone che ne soffrono, per i loro parenti e per la società (Senaratne et al., 2010; Wittchen et al., 2010; Lèpine, 2002; Baxter et al., 2010), dal momento in cui tendono a causare una compromissione nel funzionamento quotidiano, relazionale, scolastico e lavorativo, anche per tutta la vita (Craske et al., 2017). Il corso naturale di questi disturbi è tipicamente pluriennale, anche se eterogeneo rispetto alle sue traiettorie evolutive: se alcuni pazienti possono manifestare anche un solo episodio ansioso senza recidiva nell’intera esistenza, molti altri tendono a sviluppare un decorso persistente, sia esso cronico o intermittente con ripetute remissioni e ricadute.

Date queste premesse, l’identificazione tempestiva dei pazienti con prognosi più grave risulta molto importante per attenuare il carico e la disabilità che i disturbi d’ansia portano con sé tramite l’ottimizzazione delle strategie di prevenzione e di cura (Hovenkamp-Hermelink, 2021). In questa direzione, conoscere i predittori della persistenza di tali disturbi, e sapere se essi variano fra l’infanzia e l’età adulta, è fondamentale a garantire il suddetto obiettivo.

La revisione sistematica di Hovenkamp-Hermelink e colleghi (2021)

Gli unici studi sull’argomento si sono limitati a considerare solo una o poche variabili predittive contemporaneamente, giungendo a risultati inconcludenti e difficili da comparare. Se ciò ha portato ad avere scarsa comprensione del tipo di fattori che permettono di predire un decorso persistente nei disturbi d’ansia (anche da parte degli stessi professionisti della salute mentale), e quindi a ostacolare le teorie e i processi sottostanti le strategie di prevenzione e cura, la revisione di Hovenkamp-Kermelink e colleghi (2021) è il tentativo più comprensivo per sintetizzare in maniera sistematica tali variabili.

Dopo aver incrociato i dati di 48 studi compiuti tra il 1980 e il 2019 su circa 30 mila pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia (senza distinzione fra le specifiche categorie diagnostiche), i risultati ottenuti hanno rivelato un’ampia gamma di fattori in grado di prevedere la persistenza lifespan dei disturbi ansiosi. Quelli dimostratisi più forti sono le caratteristiche psicologiche e cliniche dell’individuo, facilmente comparabili nelle diverse fasi del ciclo di vita.

 Precisamente, le prime includono bassa estroversione, alta sensibilità all’ansia, alta inibizione comportamentale e alto evitamento, associate positivamente alla persistenza della sintomatologia ansiosa lungo in corso della vita. Questo primo corpo di risultati indica che le vulnerabilità psicologiche hanno un ruolo fondamentale nel mantenimento dei disturbi ansiosi, come del resto in tutti i disturbi psichici; esse, infatti, dovrebbero essere considerate degli elementi transdiagnostici altamente informativi per la comprensione e il trattamento della psicopatologia ansiosa (Jeronimus et al., 2016; Vreeke e Muris, 2012; Kotov et al., 2017).

Le seconde, invece, rivelano risultati inconcludenti per quanto concerne l’associazione della persistenza sintomatologica con la gravità dei sintomi ansiosi e la comorbidità con altri disturbi d’ansia, così come esiti contraddittori in merito alla comorbidità con i disturbi depressivi e con la loro gravità. Fra le variabili cliniche che, al contrario, si sono dimostrate fortemente associate alla persistenza dei disturbi ansiosi vi sono la comorbidità con i disturbi di personalità (specialmente con il disturbo borderline di personalità), aver sperimentato molti attacchi di panico nel corso della vita, aver ricercato nell’ultimo anno un percorso d’aiuto psicologico e avere avuto una scarsa risposta al trattamento.

Sorprendentemente, non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa fra le caratteristiche sociodemografiche (come lo status socio-economico, il livello di scolarizzazione, il genere e l’età) e la persistenza lifespan dei disturbi d’ansia, anche se esse sono tipicamente associate all’esordio e alla prevalenza dei disturbi ansiosi (Kessler et al., 1994; Moreno-Peral et al., 2014). Anche le associazioni con i fattori biologici non hanno dato risultati definiti: nonostante la vulnerabilità su base biologica sia una delle categorie più coinvolte nello sviluppo dei disturbi d’ansia (Barlow, 2000), il loro ruolo nel predire la persistenza di questi ultimi si è rivelato solo poco significativo.

Alla luce di quanto concluso, le considerazioni che si possono trarre dai risultati di questa revisione fanno riferimento a una serie di predittori psicologici e clinici che, presentandosi in maniera stabile nel corso delle fasi evolutive, possono essere d’aiuto nell’identificare preventivamente i pazienti ansiosi a rischio di prognosi persistente e nell’implementare strategie di cura più informate ed efficaci a livello clinico.

 

Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale? – Lettera aperta di Antonio Semerari e risposta di Giovanni M. Ruggiero

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la lettera aperta di Antonio Semerari che si interroga sull’esistenza di tre società di psicoterapia cognitivo comportamentale in Italia. Si tratta di uno stimolo appunto aperto e State of Mind sarà lieta di pubblicare risposte e commenti alla lettera di Semerari e anche di descrivere in articoli dedicati il dibattito che potrebbe sorgere in altre sedi, dato che Semerari pubblica la sua lettera anche altrove, comprese i forum di discussione delle tre società in oggetto.

 

Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale? Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia.

di Antonio SemerariTerzo Centro di Psicoterapia Cognitiva, Roma

 Alcuni mesi fa, quando si venne sapere che diversi autorevoli membri della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) erano in procinto di fondare, insieme con altri colleghi provenienti dall’AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento), una nuova società di terapia cognitivo-comportamentale, denominata CBT-Italia, vi fu una breve fiammata di discussione dove i toni polemici, temo, finirono col rendere poco comprensibili le ragioni della scelta.

A questa fiammata di polemica sembra essere succeduta una sorta di bella indifferenza, simile a quella che i classici descrivevano avere i pazienti isterici nei confronti dei loro arti paralizzati.

Ora è passato un po’ di tempo, la CBT-Italia si è costituita e ha tenuto con successo il suo primo congresso mentre la SITCC si appresta a celebrare il suo nuovo congresso finalmente libero dalle restrizioni legate alla pandemia. Forse è il tempo di cercare di capire prima di giudicare.

In fondo, cosa può chiedersi un giovane collega che pensa di accostarsi al cognitivismo se non: perché ci sono in Italia tre società di terapia cognitivo-comportamentale? Non sono più tanto giovane, ma la domanda me la pongo anch’io, accompagnandola con l’altra: cosa ha fatto sì che molti colleghi trovassero insufficiente il grande contenitore della SITCC?

Per carità! Non chiedo le ragioni di questo o di quel malessere personale, altrimenti la discussione rischierebbe di avvitarsi in uno psicodramma senza costrutto dove, dopo che ce le siamo dette di santa ragione, tutto finisce lì. Sono sinceramente curioso e desideroso di conoscere e poter discutere le ragioni scientifiche, teoriche, di indirizzo culturale che renderebbero necessario o anche solo utile stare in società diverse.

Perché in Italia c’erano l’AIAMC e la SITCC è una domanda cui è facile rispondere. Il motivo è nella storica discussione che contrappose comportamentismo e cognitivismo. La questione fu magistralmente riassunta da Skinner quando, in polemica con il cognitivismo, affermò che nulla di quanto avviene “all’interno” dell’individuo può mai spiegare il comportamento. Al contrario per i cognitivisti era proprio quello che succede nella mente dell’individuo, credenze, scopi, schemi, significati personali e così via. quello che veramente contava. Quella storia molti di voi l’hanno vissuta in prima persona e non mi ci dilungo. Tuttavia molta acqua è passata sotto i ponti e il cognitivismo è esploso in una miriade di indirizzi in cui è difficile districare il filo rosso che li lega. Per questo dobbiamo discutere con franchezza e serenità su come si vanno aggregando e disgregando le diverse anime della terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale. Per capire che cosa sta succedendo e dove stiamo andando. Attenzione! Non si tratta di un fenomeno solo italiano che può essere ascritto alla tradizione nazionale di dividersi tra Guelfi e Ghibellini e poi tra sottofazioni di questi. Per quel che ne so in diversi paesi si assiste ad un fenomeno di formazione di nuove società cognitivo-comportamentali. La terapia cognitiva si sta disarticolando definitivamente? Ci sono valide ragioni perché questo debba succedere? Forse è il caso di cominciare a porci queste domande.

Solo una nota finale. Da qualche breve colloquio avuto con i colleghi della CBT-Italia mi è parso di capire che la questione andrebbe inserita, invece, nel “Grande Dibattito” sulla psicoterapia delineato da Bruce Wampold e Zac Imel nel libro “The great psychotherapy debate: The evidence for what makes psychotherapy work (2nd ed.)” pubblicato nel 2015 per Routledge/Taylor & Francis Group, dibattito che oppone un modello contestuale-relazionale a un modello medico-tecnologico degli studi di efficacia controllati e randomizzati. Secondo queste versioni la SITCC sarebbe ormai troppo schiacciata sul modello contestuale-relazionale e i colleghi critici con questo modello sentirebbero il bisogno di riunirsi in una società coerentemente orientata nell’altra direzione. Se fosse così il dibattito potrebbe davvero diventare molto interessante e potrebbe permettere a ciascuno di comprendere come si colloca rispetto a questioni che riguardano non soltanto la psicoterapia cognitiva ma tutto l’ambito della psicoterapia.

Però, dato che io non mi riconosco in nessuno dei due modelli, vorrei avere l’occasione di discutere e anche di spiegare ai colleghi che abbracciano l’uno o l’altro dove, secondo il mio modesto parere, sbagliano. Spero che i colleghi che hanno costituito la CBT-Italia vorranno accettare questa mia amichevole provocazione in modo che possiamo iniziare a prenderci a cervellate.

Un caro saluto a tutti.
Antonio Semerari

Risposta alla lettera aperta di Antonio Semerari

Giovanni M. Ruggiero – State of Mind, Studi Cognitivi, Sigmund Freud University

Dato che sono socio fondatore di CBT-Italia e anche socio didatta della SITCC inizio io a rispondere alla lettera di Antonio Semerari, risposta che ha valore personale e non rappresenta l’eventuale posizione di una delle società di cui faccio parte. La nascita di CBT-Italia è, a mio parere, il frutto di un dibattito ormai pluridecennale che ha ormai esaurito il suo compito storico e che era quello di definire posizioni diverse e apparse ormai incompatibili dopo aver tentato di conciliarle. Per questo temo, a differenza di quel che spera Semerari, che non dirò nulla di nuovo o diverso rispetto a quel che hanno già detto altri meglio di me altrove e che non ne nascerà uno scambio particolarmente innovativo; però credo che ne possa scaturire una utile riproposizione dei risultati.

Ci sono tre società e anzi molte altre di psicoterapia più o meno cognitiva sia in Italia che all’estero perché il dibattito, proprio perché esaurito, ha prodotto la nascita di interessi e direzioni distinte che, dopo essersi confrontate, non sono nemmeno più in conflitto tra loro proprio perché non condividono più linguaggio e interessi. E per questo si esprimono in società diverse. Il silenzio che è seguito la nascita di CBT-Italia non è una bella indifferenza isterica di fronte a un problema che non si vuole affrontare ma la pace che segue la civile presa d’atto di una divergenza reciproca di obiettivi e percorsi. Ritengo che l’esistenza di diverse società consenta di coltivare con più rigore e coerenza percorsi scientifici ed esperienze cliniche che non si escludono a vicenda ma nemmeno riescono a contaminarsi, come dimostra del resto la mia appartenenza sia a CBT-Italia come socio fondatore che alla SITCC come socio didatta. Una doppia appartenenza che si giustifica proprio con l’esigenza di conoscere due tradizioni divergenti senza illudersi di integrarle.

Le ragioni storiche e scientifiche dell’esistenza distinta di CBT-Italia e della SITCC sono molteplici e sono riconducibili all’argomentazione che il cognitivismo clinico, lungi dall’essere omogeneo, è stato in realtà sempre un ombrello fin troppo ampio ed elastico che ha accolto tradizioni cliniche e scientifiche tra loro poco compatibili o forse non compatibili, producendo spesso frizioni più o meno manifeste. Tra queste frizioni storiche e scientifiche una in particolare spiega bene l’esistenza distinta di CBT-Italia e della SITCC. Essa consiste nel fatto che, a mio parere, la SITCC è stata fin dalla sua nascita una società con una identità ben definita che storicamente rappresenta uno dei maggiori sviluppi clinici possibili del cognitivismo clinico. Questa peculiarità, proprio per la sua forza e originalità, non può rendere la SITCC una società generalista atta ad accogliere tutti i tipi possibili di psicoterapia cognitivo comportamentale. Lo sviluppo storico, scientifico e teorico peculiare della SITCC è, a mio parere, quello del costruttivismo fin dai suoi inizi, soprattutto da quell’anno sabbatico che Michael Mahoney trascorse a Roma sul finire degli anni ’70 dove si incontrò e discusse con Vittorio Guidano e Gianni Liotti. Michael Mahoney fu uno studioso e clinico comportamentista oggi in parte dimenticato ma che ebbe un ruolo fondamentale nella nascita della cognitive therapy tagliando i ponti con il comportamentismo dall’interno. Egli però fu anche l’iniziatore di quella forma sofisticata di cognitive therapy detta costruttivismo e che mostrava un interesse verso una definizione della cognizione come significato personale e come evento complesso e irriducibile a ogni descrizione dichiarativa di contenuto. Mahoney come costruttivista fu estraneo a ogni possibilità di delineare procedure terapeutiche ragionevolmente controllabili (i famigerati protocolli) a favore di un intuizionismo della verità clinica che divenne poi così individuale da essere irriproducibile e incomunicabile perché “autopoietico” in Guidano oppure condivisibile e comunicabile solo in una lunga e laboriosa intuizione esperienziale e relazionale di tipo ”cooperativo” in Liotti. Questi modelli clinici di Guidano e Liotti finivano -a mio parere- per svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche. Questo modello è -a mio parere- sovrapponibile al paradigma contestuale-relazionale delineato da Wampold e Imel nel libro “The great psychotherapy debate: The evidence for what makes psychotherapy work (2nd ed.)” pubblicato nel 2015.

D’altro canto, la neonata CBT-Italia si ricollega invece a un altro sviluppo, altrettanto peculiare e distinto da quello del costruttivismo di Mahoney, Guidano e Liotti e che porta il famigerato nome di standard cognitive behavioural therapy ovvero standard CBT, ovvero quella forma di psicoterapia cognitiva che ha ricevuto una conferma empirica di maggiore efficacia specifica per alcuni disturbi d’ansia e depressivi e che sostiene di essere eseguibile secondo procedure riproducibili e controllabili. Malgrado il suo significativo successo negli anni ’80 e ’90, la standard CBT non è naturalmente l’unica e possibile forma di psicoterapia cognitiva ma è un altrettanto particolare sviluppo storico e scientifico di quella stessa cognitive therapy che abbiamo già incontrato e che così era stata battezzata dal suo fondatore, quello stesso già citato Michael Mahoney oggi semidimenticato e che qundi è alla radice sia del costruttivismo SITCC che della standard CBT della società CBT-Italia. È curioso apprendere che Mahoney aveva intenzione di fondare quella sua cognitive therapy da una parte su una procedura clinica di provata efficacia grazie a Beck e dall’altra su un sapere clinico che molto sarebbe stato in debito con quelle organizzazioni strutturali di personalità delineate nel libro del 1983 di Guidano e Liotti, quel “Cognitive Processes and Emotional Disorders” che lo stesso Mahoney provvide a far pubblicare in inglese.

Infatti Mahoney, in quegli stessi anni del suo sabbatico a Roma, aveva anche interagito con uno psichiatra e psicoanalista, tale Aaron T. Beck, che per tutti gli anni ‘70 aveva provveduto a definire in termini riproducibili e controllabili una sua procedura clinica di (psico)analisi annafreudiana delle difese dell’Io che traduceva gli strati meno profondi e più coscienti delle difese dell’Io della psicoanalisi in definizioni verbali catastrofiche sul Sé (ecco le credenze sul sé), il Mondo e il Futuro. Queste definizioni (o credenze, beliefs) erano a basso livello di inferenza e quindi ragionevolmente accertabili in base a quanto diceva esplicitamente il paziente e focalizzate su semplici e ovvi stati ansiosi e depressivi e potevano essere trattate con un intervento questo effettivamente (e solo questo) chiamato cognitive (un intervento cognitive in una psicoanalisi? Ebbene si) d’invito alla messa in discussione di quelle credenze sul sé senza passare per l’interpretazione profonda. Il vero punto di svolta fu che questa (psico)analisi semplificata e resa accertabile e riproducibile fosse compatibile con uno studio randomizzato e controllabile di efficacia di una psicoterapia per la depressione e che fu pubblicato nel 1977 sul numero inaugurale di Cognitive Therapy and Research, la rivista fondata da Michael Mahoney che sanciva il distacco del cognitivismo dal comportamentismo. L’articolo era: Rush, A. J., Beck, A. T., Kovacs, M., & Hollon, S. D. (1977). Comparative efficacy of cognitive therapy and pharmacotherapy in the treatment of depressed outpatients. Cognitive Therapy and Research, 1, 7-37.

È curioso notare come il tal modo la cognitive therapy di Mahoney divenne in pochi anni la cognitive therapy di Beck nonostante il fatto che fosse Mahoney e non Beck il fondatore nonché il teorico (con Guidano e Liotti) della complessità cognitiva mentre Beck si limitava a pochi concetti clinici così semplici da essere adattabili a molteplici orientamenti psicoterapeutici: Beck aveva tentato di proporli per la psicoanalisi! Mahoney aveva bisogno di quella conferma empirica di efficacia senza la quale la sua cognitive therapy avrebbe rischiato di essere una sofisticata psicoterapia esistenziale che proclamava di essere scientifica ma che poi non si capiva se davvero funzionasse più delle altre. A che serviva tanta scientificità se poi la contemporanea ricerca del verdetto di Dodo del 1975 (Luborsky, L., Singer, B., & Luborsky, L. (1975). Comparative studies of psychotherapy: Is it true that ‘everyone has won and all must have prizes?’ Archives of General Psychiatry, 32, 995–1008) suggeriva che tutte le terapie erano altrettanto efficaci? Ci pensò Beck a conferire alla cognitive therapy la fama di superiore efficacia che diede credibilità alla proclamata scientificità, credibilità che fu poi definitivamente rassodata in seguito all’adozione della cognitive therapy da parte del gruppo di quei comportamentisti di Oxford capitanati da David Clark e Paul Salkovskis che trasformarono (recuperando un po’ di comportamentismo) la cognitive therapy in standard CBT, ovvero cognitive behavioural therapy.

Questa frizione iniziale non è mai stata davvero discussa e tantomeno risolta, finendo essa sì per essere gestita da sempre con la bella indifferenza più o meno isterica temuta da Antonio Semerari, indifferenza che i freddi e distaccati clinici CBT standard mostravano con continuità quando trascuravano di ammettere che gli aspetti più sofisticati e clinicamente ricchi della tassonomia delle credenze sul sé fossero almeno in parte debitori delle riflessioni cliniche del costruttivismo mentre questa stessa indifferenza nei costruttivisti -un po’ più emotivi- a tratti si rompeva temporaneamente in brevi crisi di eccitazione psicomotoria quando questi, sia in Italia che altrove, criticavano la semplicità operativa della standard CBT tuttavia continuando a godere, un po’ surrettiziamente, della sua fama di superiore efficacia. Vi sono stati anche momenti di incontro, esiste perfino un libro curato nel 1995 da Mahoney denominato “Cognitive and Constructive Psychotherapies: Theory, Research and Practice” in cui, in un tentativo di composizione, Beck ed Ellis si proclamarono costruttivisti mentre Mahoney si gloriava dell’efficacia della cognitive therapy dimostrata da Beck ma la verità è che i due modelli non si sono mai davvero integrati.

A questa frizione moltissime altre se ne potrebbero aggiungere, a cui accennerò rapidamente per non tediare ulteriormente il lettore già provato dalla cavalcata storica. Tra queste cito come seconda frizione la considerazione che -a mio parere- la complessità del comportamentismo non è stata sempre apprezzata in ambiente SITCC. Il comportamentismo non si può ridurre -come fa Semerari- all’argomentazione riduttiva della scatola nera ma va capito nella sua ben più articolata concezione del pensiero come evento non sopraordinato ma parallelo all’azione. In questo senso va interpretata la concezione skinneriana contenuta nel volume “Verbal Behavior” del 1957 che il pensiero non ha significati ma solo effetti, concezione che a mio parere è compatibile con quello di svolta corporeo – esperienziale di Dimaggio (“Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale”, 2019) o di conoscenza incarnata di Bara (“Il terapeuta relazionale”, 2018) che -a mio parere- è diventata dominante nella SITCC. Compatibilità che però non è stata elaborata per nulla diventando un ulteriore segnale della scarsa consapevolezza sia interna reciproca che regna nelle e tra le varie forme storiche di cognitivismo clinico e che impedisce un vero confronto. Meglio allora approfondire separatamente le proprie radici piuttosto che inseguire superficiali eccletismi.

La terza frizione è riconducibile alle sottovalutazione che -sempre a mio parere- avviene in ambiente SITCC della svolta processuale o CBT di “terza onda” che ripropone in forma avanzata la concezione comportamentista, sottovalutazione che a mio parere avviene per numerose ragioni molte delle quali culturali e che coinvolgono una crisi significativa del pensiero europeo la cui complessità sarebbe impossibile tratteggiare qui e che -a mio parere- mi pare molto affligga Semerari, forse per questo rendendogli culturalmente poco gradita la “terza onda”. Se è così, è una reazione comprensibile e posso immaginare di condividerla: in fondo, rielaborando una vecchia battuta di Totò, sono in parte europeo e in parte-nopeo. Per altri versi, essendo in parte napoletano mi identifico invece nel pragmatismo poco europeo della svolta processuale di “terza onda”. Vi sono semmai altre ragioni più scientifiche su cui riflettere e tra queste ragioni ne propongo una più semplice che, se corretta (e non do per scontato che lo sia), potrebbe essere rivelatoria nella sua paradossalità: il fatto che il modello del 1983 di Guidano e Liotti, malgrado tutte le sue differenze con quello di Beck, condividesse con la CBT standard la centralità conferita ai contenuti cognitivi, denominati credenze sul sé da Beck e organizzazioni di personalità in Guidano e Liotti. È l’influenza di questa centralità cognitiva del sé che, malgrado tutte le sofisticazioni costruttiviste, perdurando non facilita la comprensione della svolta processuale e del suo superamento dei limiti del cognitivismo dei contenuti e che induce i maggiori teorici della SITCC a rivolgersi altrove per superare questi limiti, un altrove che consiste nella svolta relazionale o nella svolta corporeo-esperienziale che vigoreggiano in SITCC. Con questo non intendo dire che queste svolte siano errate o illegittime, ma osservo che esse sono una direzione divergente rispetto agli interessi che si coltivano in CBT-Italia.

Inoltre, osservo che non solo vi sono incompatibilità di paradigma tra società diverse malgrado la comune etichetta “cognitiva” che le accompagna ma altre ancora già crescono al loro interno. La stessa CBT-Italia accoglie al suo interno almeno due tradizioni in parziale tensione reciproca: la componente CBT standard focalizzata sui contenuti cognitivi e quella processuale e di “terza onda” con i suoi correlati neo-comportamentali. La continuità tra CBT standard e CBT di “terza onda” è più storica che scientifico-teorica. È proprio questa considerazione che suggerisce che al momento, per ottenere un incremento della conoscenza, sia più conveniente perseguire un approfondimento scientifico delle singole direzioni -accettando il rischio di una moltiplicazione del numero di società scientifiche- piuttosto che inseguire un dialogo eclettico tra tradizioni che si stanno allontanando tra loro.

Infine, osservo che la posizione intermedia coltivata da Semerari e dei suoi collaboratori tra modello medico-scientifico e relazionale-contestuale può essere, a mio parere, spesso clinicamente stimolante ma forse alla lunga non facilmente sostenibile in una logica scientifica in cui i paradigmi sono in competizione tra loro e non si fondono. Prima o poi Semerari dovrà decidere qual è l’elemento risolutivo nel suo modello metacognitivo-interpersonale: quello metacognitivo, e quindi processuale e che lo avvicina a CBT-Italia o quello interpersonale che lo avvicina alla SITCC. Decidersi tuttavia non gli impedirà di partecipare ai congressi delle due società e perfino di iscriversi a entrambe, confrontandosi in una con colleghi presumibilmente più in grado di stimolarlo sul versante metacognitivo e processuale e nell’altra con colleghi più interessati al versante relazionale ed esperienziale. Come del resto già faccio io.

Ringrazio chi ha avuto la pazienza di arrivare qui in fondo e lo informo che queste righe, pur prolisse, sono una piccola parte di mie elucubrazioni personali sullo sviluppo del cognitivismo italiano e internazionale ancora più logorroiche nella loro estensione completa. Chi volesse consultarle nella loro interezza può trovarle in due miei libri che segnalo: La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale del 2021 eLa parola, il corpo e la macchina nella letteratura psicoterapeutica del 2022.

Un caro saluto a tutte e tutti
Giovanni Maria Ruggiero

Neuroplasticità e riconsolidamento della memoria: la ricodifica degli apprendimenti emozionali in terapia

Le più recenti ricerche sulla memoria (Ecker, 2018) hanno identificato un particolare tipo di neuroplasticità innata del cervello, nota come riconsolidamento della memoria, che permette la modifica o la sostituzione di risposte emotive disfunzionali con altre più funzionali. 

 

 Con “apprendimento emozionale” si fa riferimento al modo in cui una persona ha appreso a reagire emotivamente alle situazioni attivanti di ogni giorno. Le risposte emotive disfunzionali, considerate oggetto di disagio dal paziente, sono dovute infatti ad apprendimenti emozionali codificati dal sistema nervoso per mezzo della sua capacità neuroplastica (Price & Duman, 2020).

Le ricerche sul riconsolidamento della memoria hanno dimostrato che la psicoterapia, stimolando il paziente a reagire emotivamente in modi più adattivi e funzionali, induce una vera e propria modifica strutturale del sistema nervoso (Ecker, 2018).

Neuroplasticità e riconsolidamento della memoria

La capacità neuroplastica del cervello permette al sistema nervoso di riorganizzare la sua struttura, la sua funzione e le sue connessioni in risposta agli stimoli ambientali (Cramer et al., 2011). Tale plasticità ci permette di apprendere dall’esperienza, ed è pertanto altresì responsabile della registrazione a lungo termine di quegli apprendimenti emozionali che sono causa di disagio in gran parte dei disturbi mentali.

Lo stress cronico e i comportamenti di tipo depressivo nella ricerca neuroscientifica di base sono stati associati a compromissioni funzionali della neuroplasticità: se da un lato i pazienti con disturbi d’ansia presentano un’eccessiva reattività neurale nel sistema limbico, che gioca un ruolo fondamentale nelle reazioni emotive, d’altro canto la depressione è caratterizzata da un vero e proprio fallimento della neuroplasticità, con atrofia neuronale e depressione sinaptica nella corteccia prefrontale mediale e nell’ippocampo (Price & Duman, 2020).

Le più recenti ricerche sulla memoria (Ecker, 2018) hanno identificato un particolare tipo di neuroplasticità innata del cervello, nota come riconsolidamento della memoria, che permette la modifica o sostituzione di risposte emotive disfunzionali con altre più funzionali.

Il riconsolidamento della memoria è un meccanismo innato del cervello per cui nuove esperienze apprese modificano o sostituiscono direttamente i contenuti della memoria acquisiti in un apprendimento precedente. Questo aggiornamento dei contenuti della memoria determina un cambiamento sia a livello soggettivo che di codifica neurale: si tratta di un processo di cambiamento neurologico guidato dall’esperienza (Ecker & Bridges, 2020).

La psicoterapia come strumento di ricodifica neurale

Per anni si è pensato che non fosse possibile modificare le tracce di apprendimenti pregressi che si trovano nella memoria implicita, al di fuori della consapevolezza cosciente.

Definire la ricodifica degli apprendimenti emotivi disfunzionali come obiettivo della psicoterapia è un’affermazione che nessun neuroscienziato si sarebbe azzardato a fare prima della scoperta del riconsolidamento della memoria; ora, invece, è un obiettivo riconosciuto come una possibilità fondata sulla ricerca empirica (Ecker, 2018).

 La rilevanza dei risultati della ricerca sul riconsolidamento per la psicoterapia è potenzialmente molto grande, perché i sintomi clinici sono mantenuti da apprendimenti emotivi conservati nella memoria implicita, in un’ampia gamma di patologie. Tra queste troviamo la maggior parte dei casi di attaccamento insicuro, la sintomatologia post-traumatica, il comportamento compulsivo, la dipendenza, la depressione, l’ansia, la bassa autostima e il perfezionismo, oltre a molti altri sintomi (Ecker & Bridges, 2020).

Come cambia l’attività cerebrale prima e dopo la psicoterapia

Negli studi condotti (Ecker, 2018; Ecker & Bridges, 2020), sono stati confrontati i livelli di attività cerebrale nei pazienti prima e dopo la terapia, tramite la risonanza magnetica funzionale (fMRI), e ne sono state osservate le differenze. Questo approccio è stato utilizzato principalmente nei casi di depressione, e ha identificato dei cambiamenti localizzati in specifiche aree frontali, cingolate e limbiche; nello specifico, si è osservata una diminuzione dell’attività dell’amigdala, la quale gioca un ruolo chiave nell’attribuzione di significati emotivi ai ricordi, e un aumento dell’attività della corteccia prefrontale dorsolaterale, responsabile della pianificazione e della regolazione del comportamento. Cambiamenti simili sono stati evidenziati anche nei casi di ansia, disturbi alimentari e sindrome dell’intestino irritabile (Collerton, 2013).

Questi risultati ci suggeriscono che i cambiamenti che avvengono a livello cosciente in seguito alla psicoterapia influiscono sulle variazioni di attività cerebrali nelle zone sopraindicate: se da un lato vi è una diminuzione dell’attivazione emotiva (minore attività limbica), dall’altro vi è un aumento della riflessività (maggiore attività frontale).

Gli operatori della salute mentale mirano ad aiutare i loro pazienti a modificare in modo efficace comportamenti, emozioni e pensieri disfunzionali. I vari sistemi di psicoterapia spesso producono cambiamenti profondi e duraturi, ma i loro resoconti su come e perché tali cambiamenti avvengano differiscono notevolmente, così come i loro metodi. La ricerca sul riconsolidamento della memoria ha dunque aperto la strada a un nuovo terreno comune tra neuroscienziati e clinici, che da decenni tentano di arrivare ad una comprensione chiara e sicura del meccanismo e del processo fondamentale del cambiamento trasformazionale (Ecker & Bridges, 2020).

Entrando in contatto con le funzioni più coscienti del paziente, sottoposte al controllo esecutivo e volontario, un percorso di psicoterapia può indurre una vera e propria modifica strutturale del sistema nervoso. Le risposte emotive disfunzionali che originano dai centri cerebrali emotivi sottocorticali (aree limbiche) possono essere regolate terapeuticamente attraverso la creazione di apprendimenti e risposte preferenziali in altre regioni del cervello (aree prefrontali) che inviano connessioni neurali di regolazione alle regioni sottocorticali (Price & Duman, 2020).

A fronte di questi risultati si può pensare al riconsolidamento della memoria come un modello generale di cambiamento per un suo utilizzo nella pratica clinica. Sebbene gran parte degli studi abbiano preso in esame la Terapia Cognitivo-Comportamentale, la rilevanza dei risultati ottenuti è applicabile anche ad altre psicoterapie in grado di promuovere un cambiamento in modo stabile (Collerton, 2013).

 

A tavola senza battaglie (2022) di Ileana Gervasi – Recensione

Nel suo libro “A tavola senza battaglie” l’autrice mette in luce come il compito del genitore sia quello di offrire delle opportunità, grazie alle quali il bambino può allenarsi a imparare come costruire nel tempo un buon rapporto con il cibo.

 

 Non è la prima volta che mi trovo tra le mani un libro la cui finalità è guidare i bambini a mangiar bene e sano. Libri senz’altro utili poiché sono molti i genitori di quei bambini che non mangiano tutto, che assumono solo pochi cibi, o al contrario che mangiano un po’ troppo e talvolta le cose sbagliate. E anche stavolta mi aspettavo di leggere il classico libro che consigliasse come insegnare ai propri figli a mangiar bene.

Sono rimasta invece colpita dal fatto che l’autrice del libro espone una serie di consigli partendo da una propria esperienza personale, tra l’altro ben descritta. Ileana Gervasi è una dietista, con un rapporto con il cibo che proprio tranquillo non è stato. Ella infatti si descrive come una bambina che mangiava pochissime cose, la classica nipotina che costringeva la nonna a inventarsi giochi durante il pranzo, purché mangiasse qualcosa. Nella sua adolescenza le cose non sono migliorate in quanto, essendo alla ricerca di un ideale di perfezione, era solita a mangiare quasi nulla, vivendo il suo rapporto con il cibo molto male. Quando l’autrice è divenuta una dietista le cose sono migliorate, per poi stabilizzarsi definitivamente con la nascita del suo primo figlio. Infatti, proprio relazionandosi con il suo bambino ha capito quanto sia importante seguire una corretta alimentazione, ma soprattutto quanto sia fondamentale che suo figlio, e lei stessa come madre, abbiano un rapporto con il cibo sereno e privo di tensioni.

E infatti lo scopo del libro è proprio questo: condividere un approccio sereno con l’alimentazione del bambino, perché una vita senza battaglie durante l’ora dei pasti è davvero possibile!

Ovviamente non può mancare un po’ di teoria in merito: l’autrice illustra la piramide alimentare e altri schemi di vitale importanza, inoltre pone un accento anche sulla situazione attuale in cui sono inseriti i bambini di adesso; molti di loro sono in una condizione di sovrappeso o obesità infantile, situazione che con il lockdown da Covid19 è peggiorata.

Innanzitutto, è opportuno che il genitore si focalizzi dapprima su se stesso, chiedendosi cosa davvero voglia dall’alimentazione del proprio figlio.

Vi sono infatti una serie di interrogativi, alcuni dei quali sono i seguenti:

  • “Desidero che il mio bambino non lasci avanzi nel piatto o che mangi a sufficienza imparando a rispettare i suoi livelli di sazietà?”;
  • “Come voglio che mio figlio mangi quando sarà più grande?

Chiedersi semplicemente cosa cucinare la sera per cena non basta, nutrendo i bambini si crea con loro una relazione, basata sulle interazioni reciproche intorno al cibo.

Per affrontare al meglio qualsiasi tipo di educazione alimentare è opportuno conoscere i concetti di fame e di sazietà.

La fame è quella sensazione piuttosto sgradevole che il nostro corpo ci fa percepire quando ha bisogno di nuova energia. Dietro alla sensazione di fame, si nasconde in realtà un sistema molto complesso. Siccome la sensazione di fame è fastidiosa, il nostro desiderio è quello di placarla.

 Ben altra cosa è la sazietà: si tratta del pieno appagamento del desiderio e del bisogno di cibo e di nutrimento. Il senso di sazietà ci fa quindi capire quando smettere di mangiare.

Il genitore è sempre pronto a rispondere ai segnali di fame e sazietà del proprio figlio, anche se spesso e volentieri egli si troverà in difficoltà, in quanto il bambino talvolta smetterà di mangiare dopo pochi bocconi, altre volte invece chiederà il bis o il tris.

Per stabilire una corretta relazione tra il cibo e il proprio figlio sarebbe opportuno coinvolgere sempre il bambino nella scelta delle pietanze da mangiare, dando a lui la giusta fiducia, in quanto egli è in grado di percepire bene la fame e la sazietà.

L’autrice mette in luce come il compito del genitore sia quello di offrire delle opportunità, grazie alle quali il bambino può allenarsi a imparare come costruire nel tempo un buon rapporto con il cibo.

Per permettere ciò, la Gervasi espone nel dettaglio tre utili comportamenti:

  • instaurare una routine alimentare definita;
  • esporre alla varietà alimentare, senza pressioni o forzature;
  • concedere la possibilità di manifestare il rifiuto.

Perché anche i “No” dei bambini hanno la loro importanza. I bambini hanno il diritto di non mangiare ciò che proponiamo loro, e l’autrice espone anche una serie di preziosi consigli per gestire al meglio i “Non mi piace” e i “Non lo voglio” del proprio figlio.

Vi è un capitolo molto interessante dedicato a come parlare del cibo in famiglia. Spesso è una cosa che si tende a trascurare, ma è molto influente il modo in si cui parla di cibo non solo durante i pasti, ma anche in altri momenti, come per esempio dopo la scuola, quando è più probabile che il bambino chieda certe tipologie di alimenti.

Concludendo, si tratta quindi di un libro che non guida semplicemente genitori e figli verso una corretta alimentazione, ma l’autrice accompagna il genitore verso una relazione tra bambino e cibo che possa definirsi serena, priva di attriti e soprattutto senza battaglie. Il libro è senz’altro utile anche nel mantenere una corretta atmosfera a tavola in famiglia. Perché il cibo è qualcosa che unisce, che rende allegri, che crea convivialità. Per tale motivo sarebbe molto piacevole che qualsiasi pasto fosse accompagnato dalla giusta dose di armonia e tranquillità.

 

L’effetto dell’abuso sessuale e della dissociazione sul tentativo di suicidio

Il suicidio è responsabile di più di 700.000 morti all’anno in tutto il mondo (WHO, 2021). I fattori di rischio tradizionali, come la depressione, la mancanza di speranza, i disturbi psichiatrici e l’impulsività possono predire l’ideazione suicidaria, ma tali fattori non sono in grado di prevedere i tentativi di suicidio tra gli ideatori di suicidio (Klonsky et al., 2017).

 

Introduzione

 I fattori di rischio tradizionali, come la depressione, la mancanza di speranza, i disturbi psichiatrici e l’impulsività possono predire l’ideazione suicidaria, ma tali fattori non sono in grado di prevedere i tentativi di suicidio tra gli ideatori di suicidio (Klonsky et al., 2017). Le persone che sono state esposte a eventi traumatici precoci sono a maggior rischio di tentare il suicidio rispetto alla popolazione generale (Jakubczyk et al., 2014). L’abuso sessuale, soprattutto nell’infanzia, è stato costantemente associato al comportamento suicidario (Lopez-Castroman et al., 2013). Anche recenti meta-analisi hanno confermato che l’abuso sessuale infantile è un importante fattore di rischio per i tentativi di suicidio (Ng et al., 2018; Zatti et al., 2017). Un ampio numero di ricerche ha anche identificato una relazione tra eventi potenzialmente traumatizzanti e sintomi dissociativi (Dorahy & van der Hart, 2007). La dissociazione può includere una disconnessione dal corpo che può ridurre la paura e il dolore associati al “danneggiamento” del corpo che può rendere possibile il tentativo di suicidio (Pachkowski et al., 2021). Diversi studi hanno rilevato che la dissociazione è un fattore predittivo di tentativi di suicidio (Bertule et al., 2021; Foote et al., 2008). Le ricerche dimostrano che livelli più elevati di dissociazione possono essere un importante fattore di mediazione, indipendentemente dai disturbi psichiatrici, nello sviluppo dell’autolesionismo e del tentativo di suicidio (Kılıç et al., 2017).

Tentativi di suicidio e abuso sessuale

Una revisione sistematica della letteratura conferma l’esistenza di una solida evidenza del ruolo mediazionale della dissociazione nel trauma e nell’autolesionismo non suicidario, ma la letteratura manca di prove sul ruolo di mediazione della dissociazione nell’ideazione del suicidio e nei suicidi completati (Rossi et al., 2019). In questo studio di Brokke e colleghi (2022), i pazienti psichiatrici acuti a rischio di suicidio che avevano subito abusi sessuali sono stati confrontati con pazienti a rischio di suicidio che non avevano subito abusi sessuali (Brokke et al., 2022). È stato analizzato il ruolo della dissociazione nell’associazione tra abuso sessuale e tentativi di suicidio: questo ha il potenziale di colmare una lacuna presente in letteratura.

Nel seguente studio la dissociazione ha mediato una parte sostanziale della relazione tra abuso sessuale e numero di tentativi di suicidio (Brokke et al., 2022). Come previsto dagli autori dell’articolo, i pazienti psichiatrici che hanno subito un abuso sessuale hanno maggiori probabilità di essere autolesionisti e di tentare il suicidio rispetto ai pazienti che non hanno subito abusi sessuali. Inoltre, i pazienti nel gruppo degli abusati sessuali hanno riportato una dissociazione più patologica e con livelli più elevati. La dissociazione è stata anche identificata come essere un importante fattore di mediazione dal valore predittivo dell’abuso sessuale nell’identificazione di pazienti con più di quattro tentativi di suicidio e un effetto di mediazione quasi significativo per i pazienti con più di 2 tentativi. Un meccanismo può essere rappresentato dal fatto che la dissociazione aumenta la vulnerabilità allo stress e questa disposizione può essere un facilitatore di impotenza, disperazione, stress intollerabile e comportamenti suicidari (Orbach, 1994).

La teoria interpersonale del suicidio

 La teoria interpersonale del suicidio (Van Orden et al., 2010) spiega che il comportamento suicidario consiste sia nel desiderio di morire che nella capacità di farlo. Il desiderio di morire può derivare da una percezione di pesantezza e da sentimenti di disperazione (Chu et al., 2017). La capacità di mettere in atto un comportamento suicida emerge attraverso processi di assuefazione e di opposizione dopo l’esposizione ripetuta al dolore fisico o a esperienze che inducono paura (Van Orden et al., 2010). Nel presente studio, l’abuso sessuale può essere inteso come un’esposizione a situazioni psicologiche dolorose, provocatorie o che inducono paura, che potrebbero contribuire al desiderio di morire (Brokke et al., 2022). La dissociazione, con la disconnessione fisica dal proprio corpo, potrebbe essere intesa come un facilitatore dell’assuefazione alla paura che crea il coraggio o l’impavidità che costruisce la capacità al suicidio. L’autolesionismo e il tentativo di suicidio (e i tentativi multipli di suicidio) potrebbero essere elementi costitutivi della capacità di suicidio attraverso l’assuefazione al dolore (Smith & Cukrowicz, 2010).

Conclusione

In conclusione, quindi, la dissociazione sembra mediare una parte sostanziale della relazione tra abuso sessuale e numero di tentativi di suicidio. I risultati di questo studio illustrano l’importanza della valutazione e del trattamento dell’abuso sessuale e dei sintomi correlati al trauma (come la dissociazione) nella prevenzione del suicidio. La dissociazione, infatti, potrebbe essere il motivo per cui alcune persone agiscono i loro pensieri suicidi (Brokke et al., 2022).

La disinformazione in ambito sanitario e la vulnerabilità alle fake news

Lo sviluppo del web e dei social media ha ampliato la possibilità di mantenere stabili contatti e facilitato lo scambio di informazioni, ivi incluse le fake news o le notizie che possono incutere paura e preoccupazione.

Disinformazione e fake news

 Il tema della disinformazione è da tempo oggetto di attenzione in ambito politico-militare poiché è noto che l’opinione pubblica possa essere manipolata (Nelson et Taneja, 2018), al fine di promuovere confusione, panico e indurre comportamenti incontrollabili. Negli ultimi anni il proliferare di notizie false ha riguardato anche il settore sanitario con particolare riferimento a tematiche importanti come ad esempio il cancro (Chen et al, 2018), i virus Zika (Lyons et al, 2019) ed Ebola (Sell et al, 2020) nonché la sicurezza alimentare e dei vaccini antinfluenzali (Oh et Lee, 2019 – Bode et Vraga, 2018) o di quello morbillo-parotite-rosolia (Carrieri et al, 2019). Tale scenario ai nostri giorni ha, inevitabilmente, un forte impatto sullo stato di salute e di benessere psicofisico (Pan et al, 2021 – Lazer et al, 2018) poiché in particolari condizioni le credenze false limitano l’accesso alle cure, la sopravvivenza (ANSA (a.), 2021) e la capacità di gestione dei fattori di stress (Kwong et al, 2020 – Taquet et al, 2020 – Huang et al, 2021), rendono più inclini ad avere una percezione negativa del futuro (Trzebiński et al, 2020) e inducono a scegliere strategie di coping meno adattive (Sharif et al, 2022 – Schäfer et al, 2020), causando un progressivo logoramento della resilienza (Hao et al, 2021) e l’incremento delle diagnosi di alcuni disturbi psichiatrici (Gutentag et Asterhan, 2022  – Celmece et Menekay, 2020 – Nenov-Matt et al, 2020 – Liu et al, 2020 – Taylor et al, 2020) fra cui l’ansia (Pappa et al, 2020 – Rossi et al, 2020).

Il termine fake news ha accresciuto la propria notorietà a livello mondiale nel corso della pandemia di COVID 19. Si tratta, infatti, di un periodo storico in cui le persone hanno dovuto imparare a convivere ed a affrontare un nemico nuovo e imprevedibile (Cohen-Louck et Levy, 2021), hanno subito lunghe esperienze di isolamento (Wilder-Smith et Freedman, 2020 – Druss, 2020 – Smith et Lim, 2020), hanno sofferto la solitudine (Lim et al, 2022 – Peplau et Perlman, 1982) ed hanno vissuto una condizione di precarietà socio economica (The New England Journal of Medicine, 2020 – Shechory Bitton et Laufer, 2021). Tale complessa situazione, coniugata ad un scenario caratterizzato da una grande incertezza (Reizer et al, 2020), ha generato un terremoto di forte magnitudo a cui è seguito uno tsunami che ha inondato il pianeta con una quantità eccessiva di notizie di cui molto spesso non è stato possibile rintracciare e vagliare con accuratezza la fonte (WHO, 2022). Ad esempio, è stato verificato che in Italia nei primi mesi del 2020 gli articoli contenenti informazioni non veritiere sono stati condivisi 2.352.585 volte (Moscardelli et al, 2020) e che gli “infodemic monikers” (informazioni errate che possono dare origine a errori interpretativi) hanno avuto una diffusione capillare su tutto territorio nazionale (Rovetta et Bhagavathula, 2020). La pandemia è stata, quindi, affiancata da una infodemia (Zarocostas, 2020 – Hua et Shaw, 2020) che ha permesso la diffusione di idee o credenze che hanno indotto una parte della popolazione a diffidare dei vaccini (Biasio et al, 2021) ed a manifestare reazioni emotive di sfiducia nei confronti dei provvedimenti adottati per far fronte all’emergenza sanitaria (Biasio et al, 2018 – ANSA (b.), 2021 – ANSA (c.), 2021).

Le fake news hanno una particolare capacità di diffusione poiché risultano facilmente credibili. Tali notizie, infatti, sono costruite in modo tale da intercettare e mantenere una coerenza con un bacino di dati scientifici reali e sono alimentate dalla paura di morire oltre che dalla necessità di ricercare chiarezza, coerenza e soluzioni che consentano di superare situazioni di crisi o di pericolo anche potenziale. In tali circostanze, la preoccupazione, una delle componenti tipiche dell’ansia, facilita la concatenazione di pensieri persistenti e ripetitivi che spingono l’individuo a cercare rassicurazioni, nuove informazioni o distrazioni che impediscono il normale processo di autocontrollo (Luo et al, 2021) e continuano ad alimentare la paura, il panico o il senso di incertezza, favorendo la formazione di convincimenti o comportamenti irrazionali (Fernández-Luque et Bau, 2015).

La paura è essa stessa uno stato emotivo “contagioso”. La necessità di sopravvivere ha permesso di sviluppare nel corso dell’evoluzione un complesso circuito neuronale che permette alla corteccia cingolata anteriore di trasferire all’amigdala basolaterale gli stati emotivi colti durante le interazioni sociali (Smth et al, 2021) e consente la trasmissione di segnali di pericolo da una persona all’altra. Lo sviluppo del web e dei social media ha ampliato la possibilità di mantenere stabili contatti e facilitato lo scambio di informazioni (ivi incluse quelle false o che possono incutere paura o preoccupazione) al punto che internet è, ormai, considerato una delle fonti primarie di conoscenza oltre che una comunità globale che offre libero accesso ad informazioni o consigli anche su problematiche attinenti alla salute (Monzani et al, 2021 – Zhang et al, 2020). Si pensi, ad esempio, che in Cina nell’ultimo trimestre del 2020 l’applicazione WeChat ha raccolto 1,2 miliardi utenti attivi al mese e che altre applicazioni hanno riportato giornalmente 224 milioni di presenze (Statista, 2020) mentre in Europa un cittadino su due di età compresa fra i 16 ed i 74 anni cerca online informazioni relative alla salute (Eurostat, 2020).

La ricerca su internet è, tuttavia, resa possibile attraverso algoritmi in grado di rilanciare informazioni pubblicizzate e/o di riproporre argomenti affini a quelli precedentemente richiesti, fornendo un output quantitativo importante di cui è difficile verificare la qualità. In questo mare magnum è possibile che gli utenti possano essere indotti a credere a informazioni errate a causa del “bias di conferma” (Kahneman, 2011) e del “bias di negatività” (Rozin et Royzman, 2001). Il primo è definito come la tendenza a visualizzare in modo preferenziale informazioni coerenti con le proprie opinioni o pregresse conoscenze mentre il secondo descrive la propensione ad accettare notizie coerenti con la propria situazione emotiva.

Il ricorso alle tecniche di neuroimaging consente di comprendere meglio il ruolo della paura nella diffusione delle fake news. Al riguardo, è stato verificato (VanElzakker et al, 2018) che, durante la rievocazione di situazioni di pericolo, l’amigdala può risultare iperattiva e causare un comportamento stimolo risposta anomalo, le strutture della corteccia prefrontale, che normalmente antagonizzano l’amigdala, possono risultare poco reattive e quindi incapaci di reprimere lo stimolo della paura, l’ippocampo può avere un funzionamento anormale e causare fenomeni di ipermnesia (Desmedt et al, 2015) ovvero di un abnorme aumento della capacità di rievocare scenari potenzialmente negativi e di amnesia contestuale (Al Abed et al, 2020). Ciò riduce la capacità di identificare contesti sicuri e di ricondurre la paura alla causa che l’ha ingenerata, rendendo frequente la scelta di ricorrere a stili di coping maladattivi. Inoltre, in situazioni ritenute di pericolo o di emergenza i network cerebrali preposti ad attività cognitive di ordine superiore risultano depotenziati (Vartanian et al, 2020), al fine di garantire la vigilanza e la reattività comportamentale necessarie alla sopravvivenza (Hermans et al, 2014).

In sintesi, la congruenza emotiva (Na et al, 2018) e informativa di una fake news coniugate all’anomalo funzionamento di alcuni network cerebrali hanno un impatto significativo sul processo decisionale di un individuo poiché in situazioni di pericolo (anche potenziale) limitano le risorse impiegabili per la valutazione della veridicità delle informazioni (Zou et Tang, 2020) e per la gestione delle emozioni da esse generate. Ciò predispone ad una sorta di “solidarietà cibernetica” che, seppur rivolta ad accrescere le possibilità di difesa dalla minaccia, facilita la diffusione delle fake news nel web (Williams, 2020) e la loro condivisione da più fonti (“l’effetto dell’esposizione ripetuta”) aumentando il senso di familiarità (Pennycook et al, 2019) e l’attendibilità loro attribuita (Shen et al, 2019).

Il ruolo della paura nella diffusione di fake news

Nel periodo marzo-maggio 2022 l’autore del presente articolo ha predisposto un questionario online utilizzando la piattaforma Google.it che è stato proposto per la compilazione in modo del tutto anonima e su base volontaria attraverso i social media (principalmente Facebook e LinkedInd). A tale iniziativa hanno aderito 174 persone. Dai dati raccolti, pur dovendo tenere conto di alcune limitazioni (ad esempio la dimensione del campione, un eventuale “bis di selezione”, ecc.) è emerso che il 49,4% dei partecipanti ha segnalato di essere preoccupato per la propria salute (il 32% associa questo timore al periodo storico in atto) mentre il 51,1% ritiene probabile che possa ammalarsi nel corso del prossimo anno. La paura di ammalarsi è confermata indirettamente dal giudizio espresso sul sistema sanitario Italiano, ritenuto in prevalenza non efficiente o non attagliato alle necessità (con particolare riferimento alle aree del centro sud ed in quelle insulari del Paese). Il COVID 19 (30,5%), le difficoltà economiche o lavorative (24,7%), la carenza di sonno o l’alimentazione (12%) e la crisi fra Ucraina e Russia (4%) sono stati indicati come i principali fattori di rischio per la salute.

La preoccupazione per la propria salute e per quella dei propri familiari (51,1%), il bisogno di supporto, aiuto o informazioni  (19,5%) e la necessità di ritrovare serenità (12,1%) rappresentano le principali motivazioni che inducono a ricercare informazioni sanitarie. Il 77,6% dei partecipanti riesce sempre a trovare notizie sulla salute che confermano le proprie idee o che giustificano il proprio stato d’animo (bias di conferma e negatività). Tali informazioni sono attinte attraverso il ricorso ad internet o ai mass media (36,2%), il consulto di un medico (16,1%) e il ricorso al supporto del nucleo familiare o al parere di un sanitario (43,7%), ricercando, tuttavia, conferme su internet, libri e mass media. Il 41,4% dei partecipanti si sofferma sulle notizie che ritiene di poter comprendere o che siano più adatte alle propria condizione, il 16,7% esamina quelle più popolari mentre il 34,5% dichiara di prendere in esame solo quelle accreditate. Coloro che focalizzano la propria attenzione sulle informazioni più popolari sono inclusi nella fascia d’età 18-40 anni ed hanno prevalentemente un livello d’istruzione medio basso (scuola secondaria di primo o secondo grado). Diversamente, le persone interessate alle notizie accreditate hanno in gran parte un livello d’istruzione di rango universitario o post universitario ed una fascia d’età compresa fra i 30 ed i 60 anni.

L’85,6% dei partecipati pensa che sia giusto condividere una informazione sanitaria, in particolare modo se sono giudicate utili per gli altri (47,7%). La notizia appresa viene messa in pratica e condivisa sui social media dal 42% dei partecipanti, la restante parte del campione ne parla con persone di fiducia (36%), mentre una parte residuale (20%) si limita a metterle in pratica.

 I risultati esposti confermano che anche in Italia la preoccupazione e la paura sono associate ad una maggiore vulnerabilità alle fake news e ad una maggiore propensione alla condivisione delle informazioni sanitarie. Al riguardo, è interessante evidenziare che le minacce a cui un individuo può essere sottoposto ai nostri giorni sono sempre più complesse poiché multidimensionali e multideterminate. L’esperienza del COVID 19, ad esempio, ha insegnato che la paura causata dalla percezione di un rischio risente anche di variabili sociodemografiche (istruzione, situazione finanziaria, lavoro, ecc.), che le persone rispondono in modo diverso ad una situazione pericolosa (Pyszczynski, et al, 2021) e che un coping inefficace può causare reazioni non controllabili, limitare il benessere psicosociale (Guo et al, 2020 – Song et al, 2020) oltre che aumentare la percezione della paura nella comunità (Tzur Bitan et al, 2020). In un simile scenario è stato rilevato che la scelta di condividere pubblicamente i numerosi dibattiti nell’ambito della comunità medica, il rincorrere una maggiore popolarità, il tentativo di affermarsi pubblicamente e la continua ricerca di scoop da parte dei media sono fattori che hanno probabilmente contribuito a disorientare il pubblico, ad accrescerne il senso d’insicurezza (ANSA (d.), 2022) e la diffidenza nei confronti dei provvedimenti governativi introdotti per limitare la diffusione del virus, facilitando la disinformazione e l’assunzione di atteggiamenti pericolosi per la salute pubblica (Tagliabue et al, 2020).

In una situazione di pericolo sanitario è, dunque, estremamente importante riuscire a identificarne la dimensione sociale e i possibili fattori di rischio, onde poter avviare iniziative che, attraverso interventi integrati e multilivello, rendano più agevole l’individuazione di gruppi potenzialmente problematici e il rinforzo delle capacità necessarie al mantenimento di un adeguato livello di benessere biopsicosociale anche in situazioni di forte stress e minacce improvvise. Pertanto, la scelta di strategie che consentano di sostenere la fiducia nelle istituzioni, l’ottimismo e la resilienza individuale, di migliorare le modalità con cui i mass media gestiscono le informazioni sullo stato di salute pubblica e di accrescere la qualità dell’educazione digitale possono risultare determinanti per limitare la vulnerabilità dei cittadini e depotenziare l’efficacia delle fake news.

In particolare, concreti interventi di social support finalizzati a tutelare il livello di occupazione e la condizione socio-economica, ad ampliare la conoscenza delle reti territoriali in grado di fornire supporto in situazioni particolari (es. isolamento sociale) e a rendere più agevole l’accesso ai servizi sanitari sono utili a sostenere le persone nei momenti di difficoltà e a rinforzare i fattori di protezione necessari ad antagonizzare i meccanismi d’azione della preoccupazione legata al proprio stato di salute. In tale quadro, risultano auspicabili iniziative che consentano di abbattere pregiudizi e di diffondere il convincimento che la salute psicologica è un diritto da salvaguardare attraverso il tempestivo avvio degli interventi e delle attività di follow up di volta in volta ritenuti necessari. Ad esempio, è stato rilevato che il ricorso alla mindfulness (Světlák et al, 2021) e alle tecniche di scrittura positiva (Reiter et Wilz, 2016) sono risultati utili ad un campione di studenti per comprendere come cogliere le emozioni positive (Iovino et al, 2021) correlate agli eventi della vita e come rivolgere l’attenzione consapevole alle proprie sensazioni, accettandole per quelle che sono. Ciò facilita la rivalutazione cognitiva positiva delle esperienze vissute, aumentando la gratitudine, il benessere biopsicosociale e la capacità di affrontare nuove sfide (Işık et Ergüner-Tekinalp, 2017). In tale prospettiva, anche la capacità di utilizzare meccanismi di coping adattivi in situazioni ambientali difficili risultano utili per promuovere l’ottimismo (Santos et al, 2022) oltre che per migliorare la percezione che si ha del futuro ed il convincimento di poter continuare a perseguire gli obiettivi prefissati o di poter realizzare i propri desideri nonostante permangano condizioni di incertezza.

È certamente auspicabile l’avvio di strategie condivise in ambito internazionale che consentano di migliorare la gestione delle informazioni durante eventi critici, al fine di prevenire e ridurre il contagio emotivo che, nell’era della globalizzazione, può indurre una persona ad assumere comportamenti pericolosi per la salute. In questa prospettiva, è opportuno pensare a programmi di formazione per giornalisti e professionisti della salute mentale che consentano di ampliare le occasioni di collaborazione (D’Urso, 2022) e di valorizzarne il loro ruolo di “attori della salute pubblica” (Notredame et al, 2015).

Il ricorso a strategie basate sul prebunking sono risultate, invece, efficaci per aumentare la capacità di riconoscere le informazioni false (van der Linden et al, 2020) e per ridurre l’influenza che esse esercitano sull’opinione pubblica (Ecker et al, 2011). Ciò richiede preventivi avvertimenti che consentano di mettere in guardia i cittadini sui rischi correlati a possibili campagne di disinformazione e interventi che, attraverso la confutazione, consentano di ridurre la credibilità delle informazioni false.

Infine, il controllo del dominio cyber e una solida educazione digitale (Nguyen et al, 2020) che insegni ai giovani a ragionare in modo analitico rappresentano un serio investimento per limitare la diffusione di fake news e smantellare la falsa narrazione della realtà sulla quale si fondano la disinformazione e la paura, rendendo più agevole la gestione di problematiche di salute pubblica.

In conclusione, i risultati confermano che anche in Italia la preoccupazione e la paura sono associate ad una maggiore vulnerabilità alle fake news e ad una maggiore propensione alla condivisione delle informazioni sanitarie. Per questo motivo, è auspicabile la definizione di interventi integrati e multilivello che consentano di sostenere la fiducia nelle istituzioni, l’ottimismo e la resilienza individuale, di migliorare le modalità con cui i mass media gestiscono le informazioni sullo stato di salute pubblica e di accrescere la qualità dell’educazione digitale, al fine di limitare la vulnerabilità dei cittadini, di antagonizzare i meccanismi d’azione della preoccupazione e di depotenziare l’efficacia delle fake news.

La commare secca va in vacanza (2022) di Lara Luciano – Recensione

“La commare secca va in vacanza”, edita da Gambini nel 2022, è l’opera prima di Lara Luciano, redattrice free lance e addetta stampa di origini trentine. 

 

 Questo romanzo può essere definito come il diario di una malattia, all’interno del quale si possono rintracciare alcune note che riguardano la vita e l’esperienza personale dell’autrice.

Il romanzo narra la storia di una giovane donna che soffre di anoressia che, dopo aver tentato il suicidio, viene ricoverata in un reparto psichiatrico.

Questa esperienza dolorosa, questa difficoltà, si trasforma per la protagonista in un’opportunità. L’autrice considera questo ricovero un lungo periodo di “ferie”.

Durante questo periodo la giovane osserva le storie e le sofferenze delle altre persone ricoverate e riflette sulla propria condizione e sulla propria malattia. Giunge a comprendere il significato simbolico del corpo e come il suo corpo sia l’espressione dei conflitti interiori che ella vive: “nei luoghi della malattia si fanno incontri inopportuni e insani che si aggirano come miracoli sporchi e infetti. Tanti giudizi universali in attesa di compiersi. Tante catastrofi in corso. In questi posti la gente, mentre cerca la salvezza con tutti i mezzi, la insegna in modo gratuito e inconsapevole”. Conflitti che riguardano il rapporto con sé stessa e con gli altri, la vita e la morte. Conflitti che riguardano l’amore e la religione, la protagonista ama una donna con cui convive nonostante la sua esperienza di fede.

 La descrizione minuziosa di tutto quello che avviene durante il ricovero, le regole della struttura, il comportamento degli OSS, i permessi per andare a mangiare a casa e le terapie effettuate, rendono quest’opera un diario. Così come la trasparenza dei pensieri della protagonista e lo stile di narrazione caratterizzato da una sorta di spezzettatura.

L’autrice affronta il tema della malattia, dell’anoressia e del suicidio con grande realismo e lucidità, ma anche con una certa ironia che compare a tratti nel romanzo. Lara Luciano ha una scrittura bella che è arricchita dalla capacità di evocare immagini. Il romanzo è una testimonianza corredata da pensieri auto analitici. Chi legge il libro percorre insieme all’autrice i corridoi del reparto psichiatrico.

 

Beni di lusso: motivazioni e conseguenze d’acquisto

Il desiderio di acquistare beni di lusso deriva in gran parte dal bisogno di status, cioè di “rispetto, ammirazione e deferenza volontaria da parte degli altri” (Anderson et al., 2015). Questo bisogno guida il modo in cui i consumatori selezionano, utilizzano e decodificano i segnali associati allo status elevato sul mercato, siano essi oggetti materiali, esperienze o conoscenze (Dubois, 2020).

I beni di lusso

 Il consumo di lusso è tradizionalmente studiato attraverso l’acquisto e l’esibizione di articoli altamente osservabili di noti marchi di lusso (Veblen, 2007). Tuttavia, con la proliferazione del lusso in diversi mercati, il consumo di lusso ha assunto forme diverse.

I consumatori mostrano una preferenza per i prodotti di lusso in modi che riflettono ciò che il consumo di lusso significa per il singolo acquirente. Ad esempio, i consumatori con minore esperienza nel settore del lusso, tipicamente appartenenti a fasce socioeconomiche più basse, preferiscono prodotti di lusso “rumorosi” con identificatori di marca più evidenti (ad esempio, i loghi). Al contrario, coloro che hanno una maggiore esperienza preferiscono prodotti di lusso “silenziosi” con identificatori meno evidenti (o assenti) (Han et al., 2010). Questo perché i non esperti cercano di affiliarsi a gruppi più ricchi ed esperti, mentre gli esperti cercano di dissociarsi da ciò che viene considerato mainstream.

Il consumo di lusso si manifesta anche nell’acquisto di prodotti iconici (che fanno parte delle collezioni dei marchi di lusso da decenni) o effimeri (che cambiano a ogni stagione). Mentre sia i prodotti di lusso iconici che quelli effimeri segnalano uno status elevato, questi ultimi creano una maggiore percezione del fatto che l’acquirente si è guadagnato il proprio status con lo sforzo (piuttosto che ereditarlo da un background privilegiato), il che, a sua volta, aumenta il riconoscimento conferito al consumatore dagli altri. Anche gli oggetti vintage possono creare significati e vantaggi distinti: rafforzando la connessione mentale tra passato, presente e futuro, aiutano a mitigare le minacce esistenziali come i ricordi di morte (Sarial-Abi et al., 2017).

Il significato del consumo di lusso

Con l’ampliarsi dell’ambito dei comportamenti di consumo del lusso – all’interno e all’esterno delle categorie tradizionali del lusso – le persone hanno iniziato a guardare al di là dell’ambito del consumo per ricercare il significato e i benefici del lusso. I consumatori investono sempre di più in ambiti come la genitorialità, l’istruzione e la salute per acquisire capitale culturale e riconoscimento di status che tradizionalmente si ottenevano attraverso il lusso. I genitori sono sempre più costretti a mandare i figli in scuole d’élite, a iscriverli ad attività extrascolastiche e a curare il loro sviluppo culturale a casa per ottenere status sociale e rispetto all’interno di determinati circoli. Allo stesso modo, mangiare e vivere in modo sano e adottare comportamenti rispettosi dell’ambiente sono diventati simbolo di status elevato. Fare la spesa in negozi di alimentari specializzati, pagare per attrezzature e corsi di fitness e utilizzare energia e materiali sostenibili sono sempre più associati a privilegi e status (Griskevicius et al., 2010).

 Il consumo di lusso produce molteplici benefici per l’individuo. Indossare un marchio di lusso può aumentare la propria competenza percepita, così come il riconoscimento sociale, la conformità e le ricompense economiche da parte degli altri. Il solo pensiero di possedere un prodotto di lusso può proteggere l’individuo dal pungolo psicologico di un feedback negativo. Al contrario, uno studio recente ha messo in luce le conseguenze potenzialmente negative del consumo e dell’esibizione di beni di lusso, riposizionando il lusso come un vantaggio e una rovina (Sivanathan & Pettit, 2010). Questo lato oscuro del lusso emerge a livello psicologico, sociale ed economico.

Il lato oscuro del consumo di lusso

A livello psicologico, Goor e colleghi (2020) hanno scoperto che il consumo di lusso fa sentire i consumatori inautentici, come se il consumo fosse un privilegio indebito. Tale effetto emerge tra le persone di varie fasce di reddito, e la sensazione di inautenticità spinge i consumatori di lusso a comportarsi con minore sicurezza. Inoltre, possedere un prodotto di lusso può scatenare sia sentimenti di orgoglio e arroganza e sia emozioni come la vergogna e il senso di colpa.

A livello sociale, chi indossa prodotti di lusso viene percepito come meno caloroso, meno socievole e come se tentasse di controllare l’impressione che lascia negli altri. Di conseguenza, risulta meno attraente nel momento in cui l’altro desidera instaurare un contatto interpersonale, sia nei contesti sociali sia in quelli lavorativi. I consumatori di lusso sono inoltre visti come materialisti e persino immorali da chi si oppone alla valorizzazione di sé (Goenka & Thomas, 2020).

Da un punto di vista economico, alcuni tipi di consumo di lusso danneggiano ironicamente gli stessi marchi di lusso che vengono consumati. Ad esempio, l’uso vistoso di un marchio di lusso può diluire il marchio stesso. Anche assistere a un consumo di lusso non meritato può produrre una reazione negativa nei confronti del marchio da parte di osservatori che apprezzano l’equità. In un esperimento, i partecipanti attenti all’equità hanno valutato meno favorevolmente Louis Vuitton dopo aver appreso che un consumatore aveva acquistato un articolo del marchio utilizzando il denaro dei genitori (anziché il proprio, guadagnato con fatica) (Lee et al., 2017).

Conclusioni

Nel complesso, se da un lato il consumo di lusso può fornire un cuscinetto psicologico contro le minacce che provengono da se stessi, dall’altro può creare una nuova minaccia sotto forma di sentimenti di inautenticità. Gli individui possono essere percepiti positivamente per alcuni aspetti, ma negativamente per altri. L’acquisto dei beni di lusso implica dunque un compromesso intrinseco costi-benefici per il consumatore.

La misofonia – Editoriale di Cognitivismo Clinico

Questo numero di Cognitivismo clinico (2022, 19, 1/2, 3-4) presenta una prima parte, curata da Giuseppe Romano e Monica Mercuriu, interamente dedicata al tema della misofonia, una forma di sofferenza psicologica, riconosciuta in tempi molto recenti e che solo negli ultimi anni ha interessato anche l’ambito clinico.

Editoriale a cura di Giuseppe Romano, Monica Mercuriu, Antonino Carcione

 

 È probabile che tale condizione di disagio sia stata identificata, per la prima volta, verso la fine degli anni ’90 sulla base degli studi di un’audiologa, Marsha Johnson, come “Sindrome della sensibilità selettiva ai suoni” (Selective Sound Sensitivity Syndrome – 4S), indicando una particolare sensibilità di alcuni individui a suoni specifici.

Seppure, a oggi, questa condizione clinica non compaia all’interno dei principali sistemi di classificazione diagnostica, sono molti i soggetti che riportano una forte avversione nei confronti di suoni quotidiani, spesso ripetuti, che solitamente sono generati da esseri umani, ma che possono essere prodotti anche da animali o provenire dall’ambiente (Scrodher et al., 2013).

Nel 2002 Jastreboff e Jastreboff propongono il termine misofonia, che racchiude anche l’esperienza emotiva associata all’esposizione allo stimolo uditivo. In realtà, nella quasi totalità dei casi, non si tratta di “odio” per i suoni, ma di una reazione di forte avversione nei confronti della fonte da cui essi hanno origine.

L’emozione di rabbia non è l’unica ad accompagnare questa esperienza; alcuni soggetti, infatti, possono sperimentare ansia anticipatoria (Jager et al., 2020) o anche disgusto e tristezza. Anche la risposta comportamentale è di notevole interesse per il clinico: i soggetti “misofonici”, infatti, possono reagire evitando l’esposizione al suono, sperimentando una sensazione di perdita di controllo e, in diversi casi, anche aggredendo verbalmente o fisicamente la fonte sonora.

Come inquadrare la misofonia

La presenza di una così ampia varietà di esperienze emotive e comportamentali lascia presupporre che il suono funga da trigger e che la risposta sul piano emotivo sia legata alla valutazione soggettiva, in seguito ad un’attribuzione di significato, condizionata da scopi e credenze del soggetto.

Tuttavia, non esistendo una definizione univoca del problema, che anche in ambito clinico viene descritto talvolta come sindrome (Brout, 2018) talvolta come disturbo (Schrodher et al., 2013), è importante fare chiarezza attorno al fenomeno e inquadrarlo dal punto di vista clinico.

In questo numero della rivista si cerca di perseguire proprio tale scopo.

 Il primo articolo di Imbesi e colleghi si propone di definire la misofonia distinguendola da altre forme di “insofferenza” nei confronti dei suoni o di dolore sperimentato in presenza di un suono, individuare i criteri con cui provare a porre diagnosi e descrivere l’eziologia del disturbo (se tale condizione può essere così definita), specificando anche i correlati psicologici e comportamentali utili a circoscrivere il fenomeno.

Il secondo contributo, di Fazi e colleghi, propone una revisione sistematica della letteratura relativa agli strumenti di misurazione e valutazione della misofonia.

Spesso, in ambito clinico, il disturbo è presente in concomitanza con altri quadri psicopatologici, pertanto, nel terzo articolo, redatto da Amato e colleghi, gli autori hanno approfondito gli studi pubblicati negli ultimi anni, giungendo a una sintesi dei principali disturbi in comorbilità.

Uvelli e colleghi, infine, chiudono il numero della rivista, descrivendo i principali protocolli di intervento e le procedure cliniche di maggiore efficacia per il trattamento della misofonia.

Trattare la misofonia

Dopo la parte monografica dedicata alla misofonia, il numero è completato da due articoli su temi rilevanti per la psicoterapia. Il primo, di Foglia e Calluso, tratta il perfezionismo come dimensione trans-diagnostica presente nei disturbi di personalità, che può presentarsi in varie forme nei differenti disturbi. Una variabile psicopatologica che deve essere valutata nel quadro clinico, che può complicare il trattamento e che pertanto deve essere oggetto d’attenzione dall’assessment alla pianificazione dell’intervento. Le autrici presentano una rassegna dei principali modelli esistenti in letteratura che definiscono il costrutto, che possono essere uni- o multi-dimensionali e che descrivono il perfezionismo nei suoi aspetti sia intrapersonali, sia interpersonali. Infine, a partire dalla descrizione delle difficoltà che tale variabile psicopatologica pone nella costruzione di una salda e stabile alleanza terapeutica, vengono presentati i vari trattamenti che forniscono prove efficaci o che sembrano promettenti, come la terapia cognitivo-comportamentale, la mindfulness e l’ACT e altri interventi della cosiddetta terza onda, e la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

Il secondo articolo, di Toso, riguarda un argomento tradizionalmente noto e trattato nelle terapie comportamentali, ovvero la terapia d’esposizione per il trattamento della paura. L’articolo propone un approccio moderno partendo dalla constatazione dei limiti di tale intervento e alla luce dei risultati emergenti da recenti ricerche. Un punto debole è certamente legato alla comparsa di recidive e questo sembra all’autore principalmente dovuto a due variabili, ovvero la dipendenza dal contesto e le differenti modalità di risposta dei vari pazienti. Le recenti ricerche mettono in evidenza che l’efficacia della terapia di esposizione per l’estinzione della paura non sarebbe dovuta, come si riteneva in passato, alla cancellazione dei ricordi eccitatori, bensì alla formazione di nuove memorie inibitorie. Dunque, per migliorare i risultati, già considerevoli, la dipendenza dal contesto e le diverse risposte dei pazienti al trattamento, ovvero i punti deboli sopra esposti, appare necessario e opportuno modificare l’idea di un protocollo del tutto identico per tutti i pazienti, ma, come è ragionevole pensare, pianificare un trattamento applicato in considerazione delle differenze individuali emergenti. Proprio a questo riguardo l’articolo offre ai lettori importanti suggerimenti e riflessioni per strutturare, come afferma l’autore stesso, “una terapia di esposizione sempre più personalizzata ed efficace”.

 

Quando le emozioni prendono il sopravvento. La disregolazione emotiva – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Quando le emozioni prendono il sopravvento. La disregolazione emotiva”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri online gratuiti di divulgazione rivolti al pubblico.

Quando parliamo di disregolazione emotiva e comportamentale ci riferiamo ad una condizione in cui viene meno la capacità di regolare le emozioni e organizzare risposte comportamentali efficaci; le emozioni vengono vissute in modo eccessivo e i comportamenti sfociano in agiti impulsivi. È una condizione di sempre maggiore interesse per le diverse modalità in cui si può manifestare e che può interessare tutte le fasce di età.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Come diventare indistraibili (2020) di Nir Eyal con Julkie Li – Recensione

Il volume “Come diventare indistraibili” fornisce indicazioni sulla distrazione e strategie per allenare la capacità di restare focalizzati nel qui e ora.

 

 Quante volte è capitato di distrarci durante una conversazione poco interessante pensando a ciò che avremmo dovuto fare ore più tardi?

Quante volte abbiamo aperto Facebook o Linkedin “scrollando” il feed dei social, non riuscendo più a restare concentrati sui nostri tasks lavorativi e personali?

Sebbene le distrazioni esistano da sempre, da prima dell’introduzione dell’attuale tecnologia, la quantità e la velocità di stimoli esterni a cui siamo costantemente esposti è oggettivamente maggiore, rendendo così più difficile la selezione delle informazioni.

Il libro di Nir Eyal e Julkie Li apre una riflessione su come mantenere focalizzata la propria attenzione, assumendo una prospettiva differente rispetto allo stimolo distraente, che può essere rappresentato da un trigger esterno come la notifica dello smartphone o un trigger interno quale la percezione che il compito sia noioso.

 Infatti, eliminare il trigger non è sufficiente, è necessario imparare a esserne consapevoli e re-immaginare il trigger, come una strategia che utilizziamo per non affrontare un compito, o per gestire i nostri impulsi ed emozioni. Riconoscere il dolore e il disagio e prenderne consapevolezza, permette di comprendere la causa prima della distrazione e imparare a gestirla.

Anche re-immaginare un compito da portare a termine e la nostra capacità di controllo su di esso, può aiutare a orientare la nostra attenzione.

Il libro inoltre fornisce strumenti pratici per essere consapevoli delle emozioni che anticipano e susseguono i momenti di distrazioni, così da esserne più consapevoli e allenare la nostra capacità di restare focalizzati nel qui e ora.

Dopo una prima introduzione generale Nir Eyal e Julkie Li analizzano ciò che viene considerata la più grande distrazione del nostro secolo: la tecnologia. Gli autori approfondiscono gli effetti della stessa su ogni contesto con cui ci relazioniamo, da quello lavorativo, a quello familiare, fino a quello sociale, sottolineando ancora una volta come dare la colpa ai dispositivi e attribuire la causa principale della distrazione alla tecnologia è una risposta superficiale a qualcosa di più profondo, come la difficoltà nello stare nel qui e ora, nel portare a termine un compito scolastico o lavorativo, nell’affrontare le proprie emozioni.

I comportamenti di sicurezza negli individui con disturbo d’ansia sociale

Lo studi di Dabas e colleghi (2022) si è posto l’obiettivo di esaminare l’impatto differenziale dei sottotipi dei comportamenti protettivi sulla simpatia e sulla percezione di autenticità (auto ed etero-valutata) nei soggetti con e senza fobia sociale.

 

Il disturbo d’ansia sociale

 Quali sono gli specifici comportamenti di sicurezza maggiormente responsabili di conseguenze negative a livello interpersonale?

Con disturbo d’ansia sociale il DSM-5 (2013) fa riferimento a un eccessivo timore di essere valutati negativamente nelle situazioni sociali dove si potrebbe essere esposti al giudizio degli altri. Come spiegato nel Modello Cognitivo di Clark e Wells (1995), per affrontare le situazioni sociali sfidanti, i pazienti con questo disturbo tendono ad adottare comportamenti protettivi che hanno l’obiettivo di prevenire le catastrofiche conseguenze sociali previste, fra cui la valutazione negativa, il rifiuto e intensi stati d’ansia (Salkovskis, 1991). Tali comportamenti sono innumerevoli e diversificati fra loro, ma recenti studi hanno provato a fornire una classificazione che li distingua in tre principali categorie (Cuming et al., 2009).

I comportamenti di sicurezza

  • Comportamenti attivi, volti a migliorare la performance sociale e a controllare la percezione che l’altro potrebbe avere di sé (ad esempio, ripetere in mente cosa dire in una conversazione, prepararsi in anticipo le domande da fare)
  • Comportamenti inibiti/restrittivi, volti a evitare la minaccia sociale e a ridurre al minimo il proprio coinvolgimento nella situazione (ad esempio, non tenere il contatto oculare, parlare a bassa voce, non attirare l’attenzione altrui)
  • Gestione dei sintomi, volta a nascondere i correlati fisiologici dell’ansia (ad esempio, mettere un vestito che assicuri di nascondere la sudorazione, truccarsi in modo da coprire l’arrossamento del viso)

Ciascuno di questi sottotipi concorre a mantenere la sintomatologia ansiosa nelle situazioni sociali in diversi modi (Clark e Wells, 1995): prevengono dall’esposizione alla possibile disconferma dei propri timori sociali; aumentano l’auto-monitoraggio e, così, lo stato d’ansia; richiedono numerose risorse attenzionali, che possono far apparire assorti nei propri pensieri e distanti dalla situazione presente. Insieme, questi meccanismi farebbero sì che tali strategie preventive finiscano per accrescere la probabilità di performance sociali negative (Rapee e Heimberg, 1997).

Diversi studi empirici hanno comprovato questa considerazione, dimostrando come gli individui con fobia sociale tendano a esperire maggiori feedback sociali negativi rispetto ai soggetti senza il disturbo (ad esempio, venendo giudicati come meno gradevoli o calorosi da parte dei pari) (Alden e Taylor, 2004; Alden e Wallace, 1995; Creed e Funder, 1998). Tuttavia, se molteplici sono gli studi che si sono dedicati a mostrare l’associazione fra i comportamenti di sicurezza, in generale, e le conseguenze negative a livello interpersonale, poche sono le ricerche che hanno approfondito il potere di specifici comportamenti protettivi nel predire risultati sociali negativi nei soggetti con disturbo d’ansia sociale.

Lo studio di Dabas e colleghi (2022)

Uno di questi è quello di Dabas e colleghi (2022) che, sulla base della tripartizione teorica prima introdotta, si è posto l’obiettivo di esaminare l’impatto differenziale dei sottotipi dei comportamenti protettivi sulla simpatia e sulla percezione di autenticità (auto ed etero-valutata) nei soggetti con e senza fobia sociale.

Dopo che i partecipanti allo studio sono stati coinvolti in un’interazione sociale semi-strutturata, sulla quale venivano poi intervistati, i risultati hanno rivelato che in generale, rispetto ai soggetti senza fobia sociale, quelli con il disturbo sono giudicati come meno simpatici e autentici dai loro interlocutori e, in prima persona, essi si percepiscono come meno autentici durante le interazioni. Queste considerazioni sono ampiamente coerenti con la letteratura precedente, che ha dimostrato un legame significativo fra disturbo d’ansia sociale ed esiti sociali negativi, simpatia e autenticità comprese.

 In particolare, è emerso che è l’uso di alcuni tipi di comportamenti di sicurezza nelle interazioni sociali a mediare il collegamento fra fobia sociale e risultati interpersonali negativi. Nello specifico:

  • i comportamenti inibiti/restrittivi sarebbero responsabili della scarsa simpatia percepita poiché, inavvertitamente, gli individui col disturbo apparirebbero distaccati e disinteressati all’interazione;
  • i comportamenti attivi spiegherebbero la poca autenticità percepita dagli interlocutori, dal momento in cui i soggetti imbastirebbero una conversazione “di facciata”, trasmettendo una sensazione di falsità e non trasparenza nell’interazione;
  • i comportamenti di gestione dei sintomi non sarebbero decisivi nel determinare gli esiti interpersonali negativi, in termini di simpatia e autenticità.

In questa direzione, tali risultati suggeriscono che i comportamenti di sicurezza attivi e inibiti/restrittivi possono svolgere un ruolo cruciale negli esiti sociali negativi vissuti dalle persone con fobia sociale, in maniera differenziale a seconda di come vengono misurate queste conseguenze interpersonali negative. In ogni caso, entrambi possono essere annoverati fra le strategie di auto-occultamento utilizzate per celare aspetti di sé alla valutazione altrui, anche se questo nascondersi impossibiliterebbe lo stabilirsi di connessioni autentiche con l’altro e alimenterebbe il meccanismo disfunzionale dell’ansia sociale (Moscovitch, 2009).

Conclusioni

Sulla base di questi risultati, è possibile concludere l’importanza di affinare il trattamento della fobia sociale attraverso la cura delle variabili interpersonali, nella comprensione della patologia e nella definizione della terapia. I comportamenti protettivi attivi e inibiti/restrittivi, se assunti come target, possono svolgere un ruolo cruciale nel raggiungimento di positivi risultati interpersonali e terapeutici. In particolare, i clinici dovrebbero prestare attenzione alla riduzione dei primi, se lo scopo è quello di ottenere una percezione interna ed esterna di maggiore autenticità nelle relazioni sociali, oppure monitorare i secondi, se l’obiettivo dell’esposizione è quello di raggiungere una connessione con l’altro. Concentrarsi su entrambi, infine, massimizzerebbe la possibilità di esiti sociali positivi e di maggiori gratificazioni a livello interpersonale, riducendo i cronici sentimenti di ansia e isolamento sociale (Dabas et al., 2022).

Adolescenti oggi tra pandemia e social network: complessità delle relazioni e suicidio giovanile

La mancanza di punti di riferimento alimenta negli adolescenti una solitudine che scava radici profonde, amplificando vissuti di sofferenza e innescando una difficoltà relazionale che li spinge a ricercare legami nei social media, percepiti come più facilmente accessibili e nei quali ci si sente meno esposti.

 

 L’adolescenza è una fase del ciclo vitale particolarmente delicata, caratterizzata da innumerevoli trasformazioni fisiche e psicologiche con le quali bisogna fare i conti per giungere alla definizione di sé, un Sé in continua evoluzione che necessita di basi solide su cui poggiare e che spesso sfocia in un lavorìo interiore, difficile da sostenere se vissuto in solitudine.

La ricerca della propria identità è la prerogativa di ogni adolescente. Il ‘chi sono?’ è prioritario e si accompagna ad una continua ricerca di conferme che possano annullare quel senso di vuoto annichilente, che sconvolge a tal punto da far emergere tutte le fragilità.

Un viaggio alla scoperta di sé che necessita di una presenza attenta, accogliente, rassicurante ma discreta, che accompagni il giovane alla ricerca di un’identità in divenire, senza fargli però sperimentare la frustrazione di non essere in grado di farcela da solo, alimentando così stati di dipendenza non fisiologica, ma che sia in grado di trasmettere la fiducia e restituisca il senso della propria unicità.

Lo sviluppo dell’identità è un processo graduale, che favorisce l’integrazione di parti di sé apparentemente contrastanti, polarità che vanno riconosciute e integrate, ma soprattutto è un processo relazionale che promuove la definizione di sé attraverso le esperienze verbali e corporee che hanno caratterizzato la relazione con le figure significative, assimilate nel tempo e che andranno a definire la percezione di sé.

La dimensione corporea in questa fase del ciclo vitale è predominante: l’adolescente è impegnato a delineare i propri confini corporei e a ridefinire l’immagine di sé attraverso il passaggio dall’avere un corpo, come qualcosa che si possiede al di fuori dal proprio Sé, che in questa fase è connotato da una cura eccessiva, dall’essere un corpo, sentito e vissuto, dentro la propria pelle. Questo processo ovviamente non è così immediato e scontato, ma richiede una maturazione che conduce alla consapevolezza che il corpo agente e senziente non è qualcosa di differente e al di fuori della stessa persona che lo osserva.

Ma la corporeità richiama anche molte problematiche legate ai cambiamenti fisiologici che si accompagnano a sensazioni nuove, a volte sgradevoli perché vissute come imprevedibili e, soprattutto, ‘subite’, verso le quali non si ha alcun potere. E proprio il senso del potere è una delle tematiche ricorrenti dell’adolescenza che innesca spesso un’alta conflittualità con la quale gli adulti devono fare i conti.

I nuovi adolescenti tra pandemia e relazioni virtuali

Le turbolenze adolescenziali spesso preoccupano gli adulti che devono districarsi tra problematiche inedite non sempre di facile gestione e soprattutto di immediata comprensione.

L’accesa conflittualità innescata dalla ricerca dell’autonomia che spesso caratterizza i rapporti con le figure genitoriali sottende il grande bisogno di ridefinire la relazione, di ritrovarsi in un mondo inedito in cui gli adolescenti possano sentirsi protagonisti, senza però essere lasciati allo sbaraglio, privi di punti fermi e di certezze, che plachino il bisogno di un’età spesso definita burrascosa, transitoria e della quale si evidenziano solo i tratti negativi, svalutando invece le potenzialità di un periodo d’oro.

La difficoltà ad accettare il senso del limite tipicamente adolescenziale impatta con le regole del sistema familiare, in primis, e del contesto sociale, successivamente, rendendo ancora più complesso il già difficile ruolo educativo. L’energia dirompente che l’adolescente avverte, infatti, gli fa sperimentare una forza nuova trasmettendogli un senso di potere che comunque necessita di essere canalizzato.

La distanza generazionale non è l’unico spartiacque che rende difficile avvicinarsi ad un mondo in continuo tumulto: la costante evoluzione tecnologica rende più complessa la possibilità di accostarsi a una dimensione poliedrica e comprendere appieno le esigenze di chi ancora non ne ha piena consapevolezza, senza cadere nell’errore di stigmatizzare bisogni che possono apparire superficiali o di facile risoluzione.

Il divario che spesso possiamo constatare richiama l’esigenza di trovare nuovi agganci per riuscire a interloquire, senza il rischio dell’incomprensione che vada ad alimentare distanze che con il tempo possono diventare insormontabili.

La mancanza di punti di riferimento alimenta nei giovani una solitudine che scava radici profonde, amplificando vissuti di sofferenza e innescando una difficoltà relazionale che li spinge a ricercare legami nei social media, percepiti come più facilmente accessibili e nei quali ci si sente meno esposti. Disorientati, ricercano un ‘luogo’ in cui ognuno si sente libero di esprimersi per come è, o magari, per come vorrebbe essere, dove si possono riversare le proprie frustrazioni o cercare di appagare i propri bisogni, dove poter sfuggire al logorìo interiore, ricercare amicizie che possano disconfermare la propria insicurezza e introversione giocando il ruolo del protagonista, dove poter vivere spazi di immaginaria realtà.

La vulnerabilità squisitamente adolescenziale sembra essere ancora più marcata in questa fase storica connotata dall’incertezza per il futuro e dall’instabilità dei legami. La pandemia non ha fatto altro che slatentizzare uno sfondo sociale che era già abbastanza precario, evidenziandone le criticità, disagi e malessere che dallo sfondo premevano per emergere.

In particolare, la nostra società è caratterizzata da molta instabilità e precarietà sia a livello socio-economico che relazionale, infatti vede frantumarsi i legami, diventati sempre più fragili ed inconsistenti, in cui tutto si dissolve in una sorta di liquidità, come ha ben evidenziato Bauman (2011). Siamo sempre più connessi, ma sempre meno in relazione. Le relazioni vis-à-vis sono state rimpiazzate dai legami virtuali, privi di quel contatto fisico e di quella presenza calda e rassicurante, che placa e consola, rendendo sempre più inafferrabile quell’immediatezza corporea insostituibile. Anche l’adulto è immerso in un mondo troppo complesso da gestire dovendosi spesso districare tra compiti evolutivi di non semplice risoluzione e reinventarsi ogni giorno per svolgere al meglio il proprio ruolo educativo.

La società contemporanea vede il moltiplicarsi delle appartenenze e questo rende ancora più difficile il processo di identificazione. Spogliati della propria individualità, si tende a emulare modelli di perfezione e di felicità fittizi, rincorrendo a modelli di riferimento che influenzano le scelte quotidiane oltre che lo stile personale, pronti a sgretolarsi al minimo scuotimento.

La complessità delle nostre relazioni si riflette inevitabilmente nella struttura familiare, chiamata continuamente a rinnovarsi e ad adattarsi a sistemi culturali in continua evoluzione, sempre più eterogenei e interculturali. Negli ultimi decenni si è rivalutata l’importanza del dialogo e della relazione in seno al sistema familiare approdando a un modello educativo di tipo paritario, delusi da un autoritarismo troppo soffocante, oltre che emotivamente freddo, incline a una distanza insostenibile tra genitori e figli, lontana pertanto dal bisogno emergente di vicinanza e di calore.

Nella società post-moderna, infatti, si appiattiscono le distanze, si annientano le differenze, nella speranza di trovare la via che apra il dialogo tra due mondi spesso percepiti distanti, contrapposti. La linea generazionale può apparire confusa per i figli e questo non agevola la comunicazione e soprattutto non placa il bisogno di chiarezza. Un sistema educativo di tipo paritario è già destinato al fallimento perché non rispondente al reale bisogno evolutivo di sana dipendenza di chi necessita di un ground (letteralmente ‘terra’, ‘terreno duro’, in senso figurato base solida costituita dall’insieme di sistema valoriale ed emozionale e di tutti quegli apprendimeni trasmessi nell’ambito di una relazione significativa) stabile dal quale differenziarsi.

La perdita di senso nell’adolescenza: autolesionismo e suicidio giovanile

In questi anni di pandemia sono cresciuti malessere e disagio giovanile: la sofferenza si è radicata a tal punto da inficiare la capacità di intrattenere relazioni sociali che non siano prettamente virtuali. Con la difficoltà relazionale è subentrata l’angoscia e il lockdown non ha fatto altro che amplificare stati di malessere, come ansia e depressione che si sono diffusi in maniera esponenziale tra i giovanissimi, sfociando in alcuni casi in condotte autolesive e tentativi di suicidio. Le statistiche rivelano, infatti, un alto tasso di suicidi consapevole o accidentale (Fondazione Umberto Veronesi, 2022). I social, senza volerli condannare, hanno giocato un ruolo fondamentale contribuendo alla diffusione di fenomeni di violenza e di condotte antisociali sfociando nel cyberbullismo (Ministero della Salute, 2021).

 L’isolamento che ha caratterizzato quest’ultimo periodo ha favorito una maggiore dipendenza da internet dove i ragazzi hanno trascorso molte ore per supplire alla carenza relazionale extrafamiliare (Lavorini, 2021), evidenziando di contro l’insaziabile e imprescindibile bisogno di relazioni reali e di sentirsi parte di una rete sociale. I social sono diventati così i nuovi luoghi dell’incontro sostituendo il gruppo dei pari che ha da sempre avuto un ruolo fondamentale nella prima socializzazione, importante per una crescita sana, fungendo da supporto e contenitore delle emozioni, favorendo inoltre la canalizzazione dell’energia.

Mentre ci si sente al sicuro tra le proprie mura domestiche, crescono paradossalmente le insidie in un mondo dove tutti sono costantemente raggiungibili, dove le distanze si annullano, i confini non esistono e le parole possono scorrere senza freni ed inibizioni. Qui le ‘vittime’ non trovano angoli nei quali rifugiarsi, ma vengono messi a nudo nella ‘piazza’ di tutto il mondo, spogliati della loro dignità. Il profondo senso di vergogna e la frustrazione che ne derivano spesso per loro non sono dicibili, troppo doloroso sentirsi sconfitti nella partita della vita.

La perdita di senso favorisce la perdita di desideri e di prospettive; calando la progettualità futura subentra l’indifferenza nei confronti della vita, ma anche della morte. Tutto si appiattisce, sbiadisce… cresce il bisogno di sentirsi e per ricercare sensazioni ci si rivolge al proprio corpo con atti di autolesionismo. Ma la mortificazione del corpo può avvenire in vari modi di cui il tagliarsi ed il procurarsi ferite rappresentano forse i modi più eclatanti di denunciare un rapporto ambiguo con un corpo non vissuto, fonte di disagio e di malessere e che difatti denota una sofferenza ancora più profonda, una ferita relazionale che chiama alla presenza.

Ed ecco che la morte diventa il modo in cui mettere a tacere il proprio corpo, un corpo vissuto come separato dal sé, del quale disfarsi per placare tutte le tensioni che procurano angoscia e spegnere quel dolore che devasta per raggiungere poi quella pace tanto desiderata.

Nello smarrimento di sé muta l’ordine degli elementi che compongono la vita: tutto si ribalta, si mescola, si confonde. Qui è insita la matrice della ‘crisi’ che sconvolge l’adolescente, ma che comunque deve essere attraversata per poter approdare alla propria individuazione.

Il vuoto relazionale non può essere colmato con presenze fittizie, virtuali, ma solo con figure significative presenti, in grado di prendersi cura delle ferite e di insegnare a dialogare con le proprie fragilità per poterle integrare nella propria personalità.

La ricerca continua di conferme sottende il bisogno di essere riconosciuti e non può esaurirsi con un “like” che non placa l’intimo bisogno di essere visti e accolti per come realmente si è. Solo chi è stato visto pienamente in una relazione sana potrà sostenere la frustrazione derivante da un rifiuto o da un giudizio: l’essere riconosciuti dall’altro favorisce la possibilità di riconoscersi in un’appartenenza sana che conferma la propria presenza nel mondo. Solo così l’altro non potrà frantumare l’Io perché poggia su basi solide costruite nell’ambito di una relazione significativa.

Figli di una società narcisistica, vittime di un meccanismo incline al fare piuttosto che all’essere, i giovani di oggi, schiacciati dall’insostenibile peso delle loro fragilità che spesso non riescono ad accogliere, tendono a riempire il tempo con cose da fare per non sentire il vuoto dentro, che altrimenti risulterebbe intollerabile. La noia è vissuta come qualcosa da rifuggire e non come spazio fertile dal quale possono emergere opportunità e risorse.

Il contatto con i propri vissuti è troppo intenso se non è sostenuto dalle figure di riferimento che aiutano a dare senso e significato a ciò che stanno sperimentando. Questo favorirà nei figli il processo di consapevolizzazione e di rielaborazione dei vissuti emotivi talvolta sperimentati come incomprensibili ed intollerabili, solo così l’adolescente potrà approdare ad un sano ascolto di sé.

La frenesia e le aspettative degli adulti innescano la paura di deludere, di non essere all’altezza, rischiando di diventare un boomerang controproducente che restituisce paura e smarrimento, sfociando in alcuni casi nella disperazione, rendendoli così vulnerabili, incapaci di sopportare anche le più semplici sconfitte della vita.

La solitudine che ne consegue tende a ramificarsi, a insidiarsi in ogni angolo della vita, innescando pensieri negativi, a volte ossessivi, tendenti all’autocommiserazione e all’autosvalutazione, pronti ad autoalimentarsi se questo processo non viene interrotto agli albori.

La fatica di crescere in questo tempo complesso è forse racchiusa tutta qui, in questo sottile e delicato equilibrio tra l’esserci e l’esserci-con, presenze che non siano solo corpi, ma corpi in relazione, che sentono, vibrano nel contatto con l’altro. Non più, dunque, corpi anestetizzati, desensibilizzati, che hanno bisogno di emozioni forti per sentire che ci sono, ma corpi vivi e abitati.

Ricontattare la propria parte adolescente, con i suoi bisogni e le sue mancanze aiuterà l’adulto nella ricerca di spiragli di comunicazione favorendo il dialogo intergenerazionale e la possibilità di accostarsi a questi giovani spesso percepiti inafferrabili, irraggiungibili, e scoprirli invece desiderosi di sapere e soprattutto di Essere, pronti a spiccare il volo se solo se ne offre loro la possibilità. “Le parti adolescenti sopravvivono in ogni adulto non come residui irrisolti di crescite mal digerite, ma come risorse utili ad ogni presente” (Fabbrini e Melucci, 2011).

La nuova sfida è proprio questa, ricucire le solitudini attraverso una rete di appartenenze dalle quali poter trarre nutrimento, che offrono un grounding (termine introdotto da Alexander Lowen nell’ambito della terapia bioenergetica che letteralmente significa ‘radicamento’, intendendo con esso uno stato psicofisico di integrato benessere derivante appunto dal sentirsi ben radicato nella realtà, in contatto con il proprio corpo e consapevole delle proprie emozioni) stabile per favorire una sana differenziazione, maturata nella spontaneità di chi ha assimilato un’esperienza relazionale nutriente, un’autonomia vera, dunque, frutto di un sano processo di individuazione e non sfida verso il mondo adulto dal quale ci si sente oppressi e imbrigliati.

Per risanare le fragilità della modernità liquida occorre ripartire dall’essenziale, che si contrappone alla logica del consumismo e dell’insaziabilità dell’apparenza, che colmi i vuoti esistenziali con appartenenze feconde aprendo nuovi sentieri di crescita capaci di generare figli sani e indipendenti, liberi di fiorire nella propria unicità.

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