Da una parte c’è il paziente che arriva in terapia con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento; dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!); ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.
Questo lavoro ha lo scopo di chiarire come la naturale tendenza del paziente all’espressività e la spontanea controtendenza del terapeuta alla curiosità clinica catalizzino un’accelerazione interattiva del processo comprensivo e terapeutico già durante il primo incontro. Mi sono prevalentemente ispirato, a tal fine, al pensiero dello psicologo psicoanalista Theodor Reik. Il presente articolo fa seguito ad uno precedente in cui avevo affrontato, in un’ottica ancora prevalentemente centrata sul terapeuta, il suo processo mentale duale di congettura e comprensione (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola, prendendo spunto sempre da Reik. Il paziente tende spontaneamente ad aprirsi, confidarsi, confessarsi, auto-tradirsi col terapeuta che, a sua volta, ha una sana curiosità (né narcisistica né epistemofilica) a recepire l’essenza dell’interlocutore. Da questa base scaturisce una dinamica interattiva a vari livelli (conscio, preconscio ed inconscio). In modo particolare, l’intersoggettività inconscia primaria può portare ad una profonda comprensione e cura del caso anche al primo incontro.
Introduzione
Nel corso degli ultimi anni, partendo da una riflessione sulla prima visita psichiatrica e psicoterapica, sono arrivato a concepire e a praticare clinicamente una consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS) (Gherardi, 2019). I pazienti vengono spesso da noi una o due volte in tutto e quindi, la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione, perché è finalizzata anche a stimolare l’auto-analisi e le risorse auto-terapeutiche del paziente. E’ bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, è sistematico-analitica ed intuitiva nelle modalità d’indagine e di cura. Come sosteneva Reik (1933, 1936, 1948), l’essenza della tecnica psicoanalitica è il raggiungimento e la chiarificazione della verità interiore del paziente. L’intersoggettività primaria inconscia tra paziente e terapeuta ci permette di riuscire, in meno tempo e più facilmente, a cogliere l’essenza del primo, a formulare e ad adottare terapeuticamente un’ipotesi esplicativa profonda anche nel primo e spesso unico incontro. Nel mio precedente articolo (2019) mi sono maggiormente focalizzato sul lavoro congetturale e comprensivo del terapeuta, sul suo “ascoltare col terzo orecchio” (Reik, 1948). Nel presente lavoro vorrei porre più l’accento sul carattere interattivo della relazione terapeutica, dando più spazio alla soggettività ed alle motivazioni del paziente. Nel mio piccolo, in realtà, ho fatto il contrario di ciò che ha fatto Reik. Negli anni ’20, si è occupato prevalentemente dell’espressività del paziente, della formazione dei sintomi e della tendenza impulsiva a confessarsi (1967). Poi, negli anni ’30 e ’40, si è maggiormente dedicato a riflettere sull’ascolto e sulla comprensione del terapeuta (1933, 1936, 1948). Purtroppo, non ha mai integrato la sua teoria dell’illuminazione reciproca con il suo precedente lavoro sullo sviluppo dell’espressione e della compulsione a confessare, come già evidenziato da Kyle Arnold (2006). Quindi, da una parte c’è il paziente che arriva da te con la sua espressività, apertura, confidenza, confessione ed auto-tradimento. Dall’altra si trova il terapeuta, aperto, disponibile, con una sana curiosità (e non un narcisismo epistemofilico!). Espressività e curiosità si attraggono reciprocamente. Ed in mezzo ci sta l’interazione primaria creativa tra i loro inconsci comunicanti.
Il paziente espressivo
Il Super-io gioca un ruolo decisivo nel determinare come e se un particolare pensiero sarà espresso (Reik, 1967). Il Super-io induce l’Io a rigettare le espressioni dell’Es e lo fa producendo colpa. Colpa intesa come ansietà sociale internalizzata, inseparabile dalle relazioni interpersonali. Reik, a differenza di Freud, collega la rimozione al Super-io, sottolineando il ruolo della colpa nel motivare la rimozione. Quindi, il Super-io è il “sine qua non” della rimozione stessa. L’Autore offre così una teoria che sottolinea la relazione tra la rimozione e le risposte internalizzate dei caregivers. Per Reik, come per Freud, i sintomi iniziano con un impulso vietato. Ma mentre per Freud l’impulso proibito è una spinta mono-personale per la scarica sessuale o aggressiva, per Reik l’impulso proibito è un bisogno bi-personale di comunicare. Per entrambi, l’impulso proibito è bloccato dalla rimozione. Per Reik, la rimozione avviene quando il Super-io produce colpa per le comunicazioni proibite, inducendo l’Io a censurare queste comunicazioni. Ma la rimozione delle espressioni rinforza il bisogno di esprimersi. La “conoscenza segreta” strepita per essere rivelata. Siccome il bisogno rimosso di esprimersi rimane attivo nonostante la proibizione del Super-io, è modificato dalla colpa e dal bisogno di punizione. La colpa inibisce la libera espressione e motiva anche la compulsione a confessare. La colpa inconscia porta con sé il bisogno di punizione. Il bisogno di alleviare la colpa provocando la punizione da parte degli altri aggiunge una qualità compulsiva alla confessione. I sintomi nevrotici ed altri tipi di confessione sono compositi del bisogno di punizione e del rinforzato impulso ad esprimersi. Reik definisce la compulsione a confessare come la tendenza inconscia verso l’espressione degli impulsi rimossi istintuali che è modificata dall’influenza del bisogno di punizione. I sintomi prendono la forma di compositi tra l’auto-espressione e l’auto-punizione perché tali compositi forniscono la massima gratificazione attraverso il rinforzo reattivo. Il fine di ogni confessione non è solo l’espressione e l’auto-punizione, ma anche il perdono. La “riconquista” dell’oggetto è una delle funzioni essenziali della confessione che tende a riguadagnare l’amore dell’altro.
Il terapeuta curioso
Il terapeuta curioso deve esercitare l’arte della maieutica, l’arte della levatrice alla quale Socrate paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi. La maieutica è quindi una ricerca della verità, consistente nella sollecitazione del soggetto pensante a ritrovarla in se stesso e a tirarla fuori in modo attivo e partecipe. Come faccio, durante la CTBS, a favorire l’espressività, l’apertura, la confidenza, la confessione e l’auto-tradimento del paziente nel breve arco temporale a mia disposizione? Lo posso certamente stimolare con domande sistematiche (strumenti tipici della curiosità), sempre più mirate. Ma ci vuole anche una mia massima espressività, apertura, disponibilità all’ascolto ed alla comprensione. Devo essere “pronto all’introiezione” del paziente (Reik, 1948), senza un atteggiamento critico o pregiudiziale da parte soprattutto del mio Super-io. Ci vuole una sana curiosità, né narcisistica, né epistemofilica. La curiosità è infatti il desiderio di rendersi conto di qualcosa, in modo sollecito, attento e diligente. Deriva dal latino “curiosus”, che significa cura, premura, sollecitudine. E, come dice Reik (1948), ci vuole un grande “coraggio morale” per scoprire e fronteggiare la veracità interna del paziente e la propria.
La comprensione terapeutica
Per una visione generale sull’argomento rimando il Lettore al mio precedente lavoro (2019). In questa sede mi soffermo sugli aspetti interattivi dell’espressività. Ci viene ricordato da Freud che i mortali non sono fatti per trattenere i segreti e che quindi, l’auto-tradimento schizza fuori da tutti i nostri pori. Noi reagiamo all’inconscio altrui con tutti i nostri organi, con tutti i nostri vari strumenti di ricezione e comprensione. Ogni mia espressione presuppone una forma di identificazione primaria per comunicare efficacemente con l’altro. Io devo cogliere qualche parte della sua vita mentale. La ricezione delle espressioni che mi vengono date dall’altro diventa decisiva per il loro successivo sviluppo. Tali espressioni portano il segno della loro ricezione da parte dell’altro, internalizzate con l’identificazione primaria. La visione di Reik della relazione tra espressione ed identificazione primaria ha un’influenza considerevole sulla sua concettualizzazione del Super-io. Il Super-io origina dalle risposte del mondo sociale del bambino, che sono perpetuate nell’istituzione del Super-io. Ogni espressione ha quindi un nocciolo di identificazione primaria. Io non posso comunicare con successo con un’altra persona senza afferrare, cogliere il suo stato mentale così che io possa anticipare la sua risposta. Il tipo di identificazione primaria nella comunicazione è una identificazione con la ricezione dell’altro della nostra espressione. Io non posso parlare con un’altra persona senza prenderlo dentro di me. Reik intende l’identificazione primaria come un’illuminazione reciproca tra le due menti. Con l’aiuto del concetto di Freud di identificazione primaria, Reik colloca quindi lo sviluppo del Super-io e la rimozione in un contesto interpersonale.
Conclusioni
Spesso noi non riusciamo nemmeno a confessarci internamente attraverso il nostro dialogo interiore. Come ci riusciamo allora a farlo con un estraneo, in questo caso il terapeuta, e soprattutto nell’arco di una prima e forse ultima seduta? Il paziente ed il terapeuta si attraggono perché sono motivati da forze che confluiscono nello stesso scopo. Il dialogo interiore del paziente deve essere rapidamente facilitato dal terapeuta a diventare un dialogo interiore a voce alta, un dialogo esteriore. Come se il terapeuta non ci fosse, grazie all’eclissi temporanea del suo Io e soprattutto del suo Super-io ed al suo trasformarsi immediatamente in specchio. Così anche il Super-io del paziente può scomparire temporaneamente e permettergli una notevole e precoce apertura. E’ come se il paziente, da “solo”, nel setting terapeutico, si confessasse a se stesso ad alta voce davanti ad uno specchio. Io sono per un attimo l’altro e l’altro è me stesso. C’è un rispecchiamento, una riflessione reciproca ricorrente, un’identificazione inconscia primaria. Solo indirettamente è possibile conoscere la nostra mente e quella altrui. Noi vediamo noi stessi attraverso il riflesso nell’altro e viceversa. Come dice Reik (1948), ci illuminiamo reciprocamente con la nostra soggettività. Il terapeuta è come uno specchio che fa domande al paziente, l’esatto contrario dello specchio a cui vengono fatte domande narcisistiche da parte della strega della favola di Biancaneve e i sette nani. E’ come se la “response” del terapeuta ci fosse prima dello stimolo del paziente, il controtransfert avvenisse prima del transfert, con una sorta di “anticipazione” (Reik, 1948): se riesco ad anticipare e a guidare opportunamente la mia “response” al paziente, favorisco fin dall’inizio la sua confessione esterna. Il segreto interiore viene mantenuto come segreto esteriore, perché è come se lo confidassi a me stesso e il cosìddetto “rispetto del segreto professionale” influenza ben poco tale dinamica interpersonale. Se l’inconscio del paziente non si fida di quello del terapeuta, con cui comunica in maniera diretta ed inconsapevole, non si confesserà mai a quel terapeuta. Il paziente poi, prima di giungere in rapporto con noi, ha praticato spesso un’auto-analisi, ma, nonostante ciò, ha sentito il bisogno di farsi aiutare da una figura terapeutica esterna e neutrale. Ma l’auto-analisi non è altro che una forma di dialogo interiore, che comprende anche l’auto-confidenza dei propri segreti, e che viene successivamente esternalizzata in etero-analisi? Nonostante tutto ciò, paziente e terapeuta continuano spesso a sorprendersi dei livelli di confidenza raggiunti tra estranei in così poco tempo.