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Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) di Woods e Rockman – Recensione

Il volume “Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR). Il protocollo, le attività e le competenze per insegnare il programma” offre una descrizione precisa del protocollo, che può essere utile soprattutto per gli istruttori che iniziano i primi percorsi di gruppo, ma anche per chi è più esperto, per valutare la propria aderenza al protocollo.

 

La ricerca scientifica ci dice che le persone sono più felici quando riescono a vivere nel momento presente. Negli ultimi anni, e ancora maggiormente dopo la pandemia di COVID, le pratiche della mindfulness hanno avuto una diffusione fortissima in ambito sanitario ed extrasanitario. Il percorso di riduzione dello stress basato sulla mindfulness (MBSR), messo a punto da Jon Kabat- Zinn alla fine degli anni 70 e ideato per lenire il disagio di pazienti affetti da dolore cronico, rappresenta ancora oggi la porta di accesso alla mindfulness per tantissime persone. Possiamo trovare gruppi MBSR in palestre di yoga, ospedali, scuole, luoghi di lavoro, carceri, etc. Questo prezioso percorso non è mai stato realmente manualizzato, anche se il testo di riferimento di Kabat-Zinn “Vivere momento per momento” descrive ampliamente le pratiche che vengono proposte. Probabilmente nelle intenzioni di Kabat-Zinn c’era in questo modo la possibilità di lasciare una certa flessibilità agli istruttori di personalizzare e adattare un po’ il percorso alle situazioni, senza irrigidirsi troppo su una procedura standard.

Il libro di Woods e Rockman si propone di supplire alla mancanza di manualizzazione dell’MBSR, descrivendo nel dettaglio ognuno degli otto incontri del percorso e comprendendo anche il mini-ritiro che solitamente si svolge tra il sesto e il settimo incontro. Vengono forniti interessanti e utili consigli anche per la presentazione del percorso, momento importante di conoscenza tra l’istruttore e i potenziali partecipanti. Avere una descrizione precisa del protocollo può essere utile soprattutto per gli istruttori che iniziano i primi percorsi di gruppo, ma anche per chi è più esperto per valutare la propria aderenza al protocollo. La questione dell’aderenza può essere abbastanza interessante al giorno d’oggi, anche perché non essendoci ancora un sistema di monitoraggio degli istruttori di mindfulness (tipo albo riconosciuto), non è infrequente trovare un percorso MBSR dove in realtà vengono proposte pratiche diverse da quelle che hanno ricevuto diverse validazioni da studi di evidenza.

Ci sono diversi esempi di enquiry (il dialogo contemplativo tra insegnante e partecipante che supporta l’indagine dell’esperienza derivante dalla pratica della mindfulness), che a tratti ho trovato però un po’ semplicistiche, forse in uno stile troppo pragmatico americano.

Il libro non si limita alla descrizione dettagliata dell’MBSR, ma tratta anche altri concetti fondamentali per gli istruttori di mindfulness, come quello di “embodiement” (cioè l’incarnare l’attitudine della mindfulness), secondo il quale il principale strumento per trasmettere agli altri l’essenza della mindfulness è il proprio impegno attivo a praticarla.

Viene anche presentato il “TRIAP”, uno strumento di autovalutazione ideato da Woods che consente di decostruire e studiare ogni seduta secondo alcuni parametri (Tema, Razionale, Intenzione, Abilità Pratiche).

Il libro può rappresentare un’ottima integrazione ai libri di Kabat-Zinn per migliorare le competenze degli istruttori di mindfulness.

L’autosabotaggio nelle relazioni sentimentali

Autosabotaggio è un termine che si riferisce alle azioni che gli individui mettono in atto per impedire il proprio successo, per sottrarsi allo sforzo o per giustificare un fallimento. 

 

Autostima e autosabotaggio

L’autosabotaggio è una strategia cognitiva che ha come obiettivo generale l’autoprotezione per salvaguardare la propria autostima e l’immagine di sé (Berglas & Jones, 1978; Rhodewalt, 1990; Smith et al., 1982).

Nel 1978 (Berglas & Jones, 1978) è stato mostrato per la prima volta da due studiosi che, quando un individuo si trova a fronteggiare una situazione che rappresenta una minaccia per il concetto di sé, può agire manipolando l’esito degli eventi al fine di garantire l’autoprotezione. Evidenze recenti (Arndt et al., 2002; Ferradás et al., 2018; Schwinger et al., 2014) suggeriscono che gli individui inclini all’autoprotezione attraverso l’autosabotaggio mostrano tratti come una bassa autostima, oltre a un elevato senso difensivo e di impotenza.

L’autostima è un concetto di sé che dipende fortemente dalla validazione sociale; questo sembra essere particolarmente vero in associazione con le pratiche di autosabotaggio. In generale, sia gli individui con bassa autostima che quelli con alta autostima possono sperimentare la necessità di autosabotarsi e questo è dovuto dal rinforzo immediato e momentaneo dato dalle tecniche di autosabotaggio (Rhodewalt, 2008). Nonostante ciò gli individui che mettono in atto l’autosabotaggio rispetto a quelli che non lo fanno (Feick & Rhodewalt, 1997) sperimentano un minore declino dell’autostima quando sono esposti al fallimento e un aumento dell’autostima quando sono esposti al successo.

Un altro concetto fortemente influenzato dalle interazioni sociali è rappresentato dalla modalità di presentazione del sé. Nel 2003 (Hewitt et al., 2003), si è rilevato che gli individui che mostrano un approccio perfezionistico durante la presentazione di sé hanno maggiori probabilità di essere socialmente ansiosi e di autosabotarsi. Infatti, la tendenza all’autosabotaggio sembra verificarsi principalmente a causa della preoccupazione per la valutazione altrui, fortemente correlata alla bassa autostima e alle considerazioni del sé negative (Strube, 1986). Pertanto, l’autopromozione perfezionistica e la mancata esibizione dell’imperfezione sono strategie difensive che possono portare a comportamenti autolesionistici.

Autosabotaggio e attaccamento

Post nel 1988 (Post, 1988) ha proposto l’utilizzo del termine “autosabotaggio” per spiegare le espressioni comportamentali di individui che affrontano lotte intrapersonali e interpersonali che sono il risultato di uno stile di attaccamento insicuro e di obiettivi conflittuali. Nell’ambito delle relazioni, l’attaccamento si esprime come un compito orientato all’obiettivo di attrarre la prossimità e di evitare la separazione con un altro individuo significativo  (Bowlby, 1969, 1980; Davis, 1973). Gli individui che non presentano un attaccamento sicuro non riescono a fidarsi dell’altro e conseguentemente sono mossi dalla necessità di mettere in atto strategie di autoprotezione. Rusk e Rothbaum nel 2010 hanno unito i quadri dell’attaccamento e dell’orientamento agli obiettivi per spiegare teoricamente come i modelli di attaccamento insicuro e le visioni insicure delle relazioni possono innescare strategie difensive negli individui e conseguentemente portare a relazioni disfunzionali (Rusk & Rothbaum, 2010). I momenti stressanti presenti nelle relazioni attivano il sistema di attaccamento dell’individuo, che a sua volta determina il modo di rispondere alle situazioni e di fissare obiettivi. L’attaccamento insicuro può portare a rispondere in maniera maladattiva fissando obiettivi di autovalidazione supportati dalle strategie difensive: un esempio di obiettivo di autovalidazione potrebbe essere quello di evitare nuove relazioni per prevenire di essere feriti. In altre parole, le strategie difensive possono diventare autosabotanti e di conseguenza ostacolare le possibilità di successo di una relazione.

L’obiettivo dello studio condotto nel 2019 da Peel e colleghi (2019) è stato quello di definire il fenomeno dell’autosabotaggio e di identificare i principali problemi che contribuiscono all’autosabotaggio nelle relazioni romantiche, individuando i comportamenti autosabotanti rappresentativi.

Autosabotaggio nelle relazioni

Un primo dato riguarda la motivazione degli individui a utilizzare l’autosabotaggio come tecnica di autoprotezione; si tratta di un dato atteso, basato sulle evidenze delle teorie dell’autoprotezione e dell’attaccamento. Sembra infatti che gli individui con attaccamento insicuro siano più motivati ad autoproteggersi piuttosto che a formare legami affettivi stretti. Specificatamente, l’attaccamento insicuro può predire obiettivi autodifensivi per evitare l’intimità e raggiungere autocontrollo, fiducia in sé stessi e distanza dagli altri (Mikulincer et al., 1998; Rom & Mikulincer, 2003). Questo dato è complicato dal fatto che queste tecniche possono portare gli individui a formare pattern di comportamenti maladattivi da utilizzare nelle relazioni (Rusk & Rothbaum, 2010), che risultano essere difficili da eliminare. Le evidenze, comparando i risultati degli individui con attaccamento insicuro e sicuro, hanno rilevato che gli individui con attaccamento insicuro sono più propensi a percepire i comportamenti dei partners in maniera negativa; questo sembra essere dovuto agli schemi di pensieri maladattivi e ai risultanti comportamenti che ne derivano, che possono di fatto sabotare le possibilità di un individuo di intraprendere o mantenere una relazione a lungo termine (Descutner & Thelen, 1991; Downey & Feldman, 1996; Feeney & Noller, 1990; Wei & Ku, 2007). Gli schemi di pensiero maladattivi forniscono una spiegazione riguardo al come e al perché gli individui fissano obiettivi per le loro attuali e successive relazioni. Le aspettative, infatti, sembrano influenzare il modo in cui gli individui si comportano in una relazione. Una meta analisi condotta nel 2010 (Le et al., 2010) conferma che sia i fattori individuali, come l’attaccamento insicuro, che i fattori relazionali, come i problemi di impegno, l’insoddisfazione, il conflitto e la mancanza di fiducia possono contribuire allo scioglimento delle relazioni. Altri due ostacoli nel mantenimento delle relazioni riguardano la capacità di regolazione del rischio e la mancanza di equilibrio tra i fattori di stress nelle relazioni (Le et al., 2010).

Complessivamente, si potrebbe sostenere che gli individui che utilizzano l’autosabotaggio hanno una visione insicura delle relazioni e, per quanto possano fare di tutto per mantenerle (Ayduk, Downey, & Kim, 2001), il fallimento è un risultato atteso (Rusk & Rothbaum, 2010); questo, conseguentemente, porta gli individui a garantirsi una vittoria se la relazione sopravvive nonostante le strategie difensive, ma a una conferma riguardo alle convinzioni e alle credenze negative sulle relazioni se la relazione fallisce.

La rivelazione della propria sieropositività può evocare vissuti di abbandono e abuso – Parte III

Roberto è un giovane uomo sieropositivo e solitario, incapace di intraprendere relazioni sentimentali. La sua richiesta di aiuto è inizialmente incentrata su questa incapacità relazionale.

Ndr – Il presente contributo è il terzo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo contributo è stato introdotto il caso clinico di Roberto, il secondo contributo ha illustrato il lavoro sulle memorie traumatiche del paziente

 

La storia di Roberto

In seduta Roberto racconta che fin dalla scuola media, periodo in cui percepisce la propria personale sessualità, subisce atti di bullismo, di essersi sentito indegno anche per caratteristiche fisiche di sovrappeso, di essere stato un bambino timido, pieno di vergogna, spesso compiacente per paura dell’abbandono dell’altro o di una sua critica. Emerge un sé non amabile, debole, con aspettative di abbandono o rifiuto che lo portano a nascondere aspetti ritenuti negativi e incomunicabili per non recare mai disturbo agli altri. In questo quadro arriva poi la notizia della sieropositività che contribuisce sempre più a elicitare in lui schemi disfunzionali di lettura della realtà solo in termini di perdita, rifiuto e paura dell’abbandono, confermando una rappresentazione di sé come non degno di amore.

Lo schema interpersonale del paziente è il seguente: Roberto desidera essere visto, amato ed accettato. Cova però una immagine nucleare di sé come indegno e difettoso. Come risposta dell’altro teme la critica e l’abbandono e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto. Le sue reazioni emotive alla risposta dell’altro sono principalmente tristezza e vergogna ed utilizza l’evitamento ed il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma. Si rende conto che i sentimenti di indegnità che lo hanno accompagnato per tutta la vita hanno molto a che vedere con episodi traumatici legati alla figura del fratello maggiore durante l’infanzia.

Attraverso l’utilizzo dell’imagery e con interventi di rescripting riusciamo ad affrontare l’abuso, uno degli eventi cardine della sua sofferenza psichica.

Intanto, la vita preme, durante la visita infettivologica ordinaria mensile a cui Roberto si sottopone insieme al ritiro della terapia antiretrovirale, in seguito a una nuova sintomatologia riscontrata, agli esami ematochimici risulta affetto da gonorrea e presenta anche una positività pregressa (nei mesi precedenti) per sifilide.

Lo seguo anche come infettivologa, e l’evento mi destabilizza. So che Roberto è attentissimo all’assunzione della terapia antiretrovirale, possiede una carica virale non rilevabile nel sangue e si trova in un buon compenso viroimmunologico, tuttavia continua ad avere rapporti sessuali non protetti (il che non è molto preoccupante ai fini della contagiosità degli altri, poiché una persona costantemente soppressa dal punto di vista virologico, non è infettante) e non ne aveva mai parlato in seduta, anzi riferiva di non avere contatti dai tempi del suo contagio. Riesco a contenere un certo senso di frustrazione mentre sono in ospedale e naturalmente gli prescrivo le terapie adeguate e risolutive rassicurandolo sulla curabilità di queste patologie. In realtà, non riesco a mantenere lo stesso distacco quando lo vedo in seduta nel ruolo di psicoterapeuta e riconosco di essere un po’ risentita. Mi accorgo di essere visibilmente più fredda, come se aspettassi delle spiegazioni che non chiedo e non arrivano.

Sono profondamente delusa da me. Cerco di seguirlo attentamente sia come terapeuta che come infettivologa, ma sento come se questo doppio “sforzo” non valga per essere “all’altezza di ricevere” le sue confessioni e le sue verità. Sento un senso profondo di inadeguatezza che riconosco appartenere ai miei schemi. Roberto, dopo mesi di terapia, mi nasconde la sua reale vita sessuale, che è un po’ il fulcro del nostro lavoro e inoltre non mi ero accorta della sifilide dei mesi precedenti. Ricordo che Roberto aveva fatto cenno a un prurito generalizzato e io l’avevo preso con superficialità, etichettandolo come disturbo d’ansia esasperato da un po’ di ipocondria.

In seduta, e in genere tutte le volte che sono assalita dall’inadeguatezza, è come se fossi un po’ distante, chiusa in me stessa, e aspetto che sia lui a chiarire le cose. Roberto intende dedicare molto tempo a un episodio che per me apparentemente è solo una perdita di tempo per distrarci dai veri temi. Roberto parla della festa di compleanno di sua madre, che compie 70 anni e pretende da suo figlio un’organizzazione pazzesca, con numerosissimi invitati, tutto curato nel minimo dettaglio, chiaramente ignorando la fatica di suo figlio e gli sforzi che compie, dato che Roberto si occupa di questo evento familiare solo la sera, dopo aver terminato le consegne ai reali clienti con cui ha delle scadenze da rispettare.

Roberto dichiara di sentirsi spento, di non poter mostrare la sua stanchezza e per l’ennesima volta di non poter affermare i suoi reali desideri di fronte a questa figura femminile, che avverte assolutamente dominante. In realtà, probabilmente anche questo episodio riporta alla nostra relazione.

Ne parlo in supervisione e decido di affrontare l’argomento con Roberto, di chiedere io delle chiarificazioni su quanto è successo, su come mai in tutti questi mesi non abbia parlato delle sue storie sessuali dato che ha contratto due patologie a trasmissione sessuale.

Proprio nelle ultime tre sedute, inoltre, Roberto esaspera con me degli atteggiamenti già avuti in precedenza, porta quantità di dolci imbarazzanti, di tutti i tipi, volta per volta. Stavolta ne approfitto per chiedergli come mai sente il bisogno di portarmi tutti questi dolci. Roberto risponde: “per allietarla, deve essere molto difficile avere a che fare con uno come me, la vedo un po’ indurita”. A questo punto, svelo il mio vissuto, gli dico che non sono affatto fredda con lui, ma che mi rimprovero di non essere stata abbastanza attenta da diagnosticare la sifilide al momento giusto, né tanto meno abbastanza valida da ottenere le sue confessioni riguardo alle sue storie sessuali. È evidente che in questi mesi abbia avuto dei rapporti ma non ha mai sentito di potermene parlare. Roberto dichiara di aver, con il nuovo gruppo di amici, frequentato dei club con saune predisposte per rapporti occasionali e di aver desiderato molto l’intimità nell’arco di questi mesi, ma di essersi limitato esclusivamente a rapporti orali, pensando di poter ridurre qualsiasi danno. Stare con questi amici, gli ha restituito un senso di calore e gli ha risvegliato dei desideri sessuali che non ha mai avuto il coraggio di dichiararmi, per paura di essere da me criticato o giudicato come perverso.

In realtà, in determinati ambienti, mi spiega Roberto, quando chiedi di utilizzare il preservativo anche nei rapporti orali, l’altro si insospettisce e ti chiede subito se c’è qualcosa che non va, se sei sieropositivo. Per evitare la fatidica domanda, Roberto non ha utilizzato il preservativo esponendosi ad altre infezioni.

“Alla fine, Dottoressa, di infezioni me ne sono beccato altre due, sempre tutto a mie spese”.

Comunico subito di essere soddisfatta di “aver meritato le sue confessioni”, e che non lo avrei mai giudicato, anzi che sono felice che abbia finalmente condiviso con me i suoi desideri sessuali. Solamente gli chiarisco che è bene indossare il preservativo, poiché esistono numerose infezioni che si possono trasmettere durante i rapporti oro-genitali, quindi fa bene ad ascoltare i propri desideri sessuali, ma senza mai perdere il rispetto di sé e dell’altro e pretendendo di indossare il preservativo. Questo episodio, però, ci permette di riflettere ancora sulla struttura del suo schema interpersonale. Roberto, è una persona attenta, conosce benissimo i rischi che si corrono nei rapporti non protetti, ma ancora una volta decide di accontentare l’altro. Valutiamo insieme che pretendere di utilizzare il preservativo lo avrebbe esposto, nelle sue aspettative, a un probabile rifiuto o disprezzo, a un sospetto di essere già infetto. Compiacere l’altro anche sapendo di sottoporsi a dei rischi è il suo modo di difendersi da sentimenti di vergogna e indegnità. Quanto ancora vuole utilizzare questo meccanismo di difesa? Gli chiedo quanto, ancora, utilizzando le sue stesse parole, “vuole pagare tutto a sue spese”?.

La comunicazione della sieropositività ai familiari

Roberto è commosso, mi riferisce di essersi sentito accettato come persona e accudito, che per la prima volta ha parlato dei suoi desideri sessuali senza provare vergogna, senza nessuno che lo giudicasse. Sente che vuole uscire allo scoperto, sente che la sua sieropositività potrebbe essere condivisa, ma che prima di comunicarla a qualsiasi estraneo, desidera tanto poterla dichiarare alla madre, che riconosce essere come un faro nella sua vita: “Mio padre è malato, mia sorella troppo apprensiva, è mia madre che merita che io le parli veramente di me”.

Riflettiamo su cosa fare, scegliamo di dare questa comunicazione dopo il compleanno della mamma. Decidiamo, però, di utilizzare prima in seduta un role playing in cui Roberto è sé stesso mentre io, la terapeuta, interpreto il ruolo della madre.

Durante il role playing, Roberto è fiducioso e motivato, riferisce una certa energia a livello corporeo ed è preso da nuovo entusiasmo, riuscendo a comunicare con sicurezza la propria sieropositività: “Per tutto l’amore che provo per te e per la riconoscenza per come mi hai cresciuto, sento da molto tempo di volerti comunicare un qualcosa che ormai da tempo è diventato un tratto del mio carattere, sono sieropositivo da qualche anno. È stata una storia d’amore, l’unica che ho avuto e non sono pentito. Vorrei anche rassicurarti sullo stato di salute, sono in terapia stabile e non rischio nulla. Le persone come me che prendono la terapia stabilmente sono fuori pericolo, sono esattamente uguali agli altri”.

A questo punto interpretando la madre, tento una critica severa: “Ma come hai fatto così stupidamente a metterti nei guai…?” ma Roberto riesce a imporsi con gentilezza: “Capisco che sei preoccupata per me e reagisci con rabbia ma ti prego di lasciarti rassicurare e di permettermi di spiegarti come è andata, per troppo tempo mi sono sentito sbagliato e un figlio indegno, adesso che ho trovato il coraggio di parlarti, ti prego ascoltami”.

A fine role playing, Roberto è davvero colto da un nuovo entusiasmo, e si apre a nuovi orizzonti e prospettive. Mi conferma di sentirsi meglio fisicamente, più energico e più leggero.

Affrontato il tema della sieropositività in famiglia, vorrebbe tanto condividere con i suoi il bisogno di andare a vivere da solo. Nella sua casa potrebbe avere finalmente più spazi, portare gli amici e non essere costretto a passeggiate notturne quando vuole restare da solo.

La comunicazione di sieropositività in effetti ha esiti positivi, Roberto non riceve critiche né tantomeno disprezzo dalla famiglia. Desidera l’autonomia, ed emergono nuovi schemi che sono attualmente oggetto di terapia.

Alla valutazione diagnostica effettuata dopo due anni di trattamento, i parametri sono notevolmente migliorati. Il paziente ha ottenuto dei valori nella norma per quanto riguarda il test TAS-20, una riduzione degli schemi disfunzionali allo Young Schema Questionnaire (ancora patologici gli schemi autosacrificio ed invischiamento relazionale). Riguardo al disturbo di personalità si è ridotto in modo significativo il numero di criteri e adesso non soddisfa la diagnosi per alcun disturbo di personalità.

 

Identità adottiva: tra presente e passato

Se il ragazzo in adolescenza cerca di rispondere alla domanda “Chi sono?”, nel caso di adozione la domanda si connota di altri elementi, per esempio “Qual è la mia identità biologica e da chi ho ricevuto questo corpo?”

 

Adozione e compiti di sviluppo in adolescenza

L’adolescenza è una fase del ciclo di vita, compresa tra la pubertà e la maturità, in cui gli individui sono chiamati a risolvere specifici compiti di sviluppo in particolari contesti sociali e culturali (Havinghurst, 1953).

Tale fase si contraddistingue per numerose trasformazioni che comportano dei mutamenti a diversi livelli: fisico, cognitivo e sociale. Durante la fase dell’adolescenza tutti i soggetti devono affrontare dei compiti di sviluppo che si definiscono nel rapporto fra l’individuo e l’ambiente in cui è inserito, tali compiti possono essere fonte di frustrazione o essere superati senza alcuna difficoltà (Palmonari, 1993).

Il ragazzo adottato, per superare i compiti di sviluppo adolescenziali, dovrà esplorare la propria storia personale con la fragilità emotiva tipica di questa fase (Vadilonga, 2010). Se l’adolescente in questa fase cerca di rispondere alla domanda “Chi sono?”, nel caso dell’adolescente che è stato adottato la domanda si connota di altri elementi, per esempio “Qual è la mia identità biologica e da chi ho ricevuto questo corpo?”. La difficile reperibilità di risposte a queste domand e l’eventuale mancanza di risposte rischiano di produrre un vuoto nel ragazzo adottato, che può riflettersi sulla costruzione dell’identità e sulle dinamiche familiari (Marocco Muttini, 1995).

La specificità del percorso adottivo propone un equilibrio dinamico fra identità e differenze. Il ragazzo, per sviluppare un senso di coerenza interna, deve sviluppare un pensiero dialettico che, accogliendo le opposizioni, le integra scoprendo nuove modalità di dare senso a sé e agli eventi (Gius e Salvini, 1986).

La formazione dell’identità diviene infatti una continua ricerca di connessione tra le istanze del passato e del presente, tra ciò che è conosciuto e non, nel tentativo di creare sempre nuovi equilibri. La strutturazione di un’adeguata identità nell’adolescente adottato avviene se non si rifiuta il passato, ma parlandone lo si integra nella vita, le origini dovrebbero assumere la stessa valenza di altre esperienze significative della vita. Se il ragazzo riesce in questo intento, grazie all’aiuto dei genitori adottivi, riuscirà ad affrontare la realtà e parlare serenamente della propria storia, poiché avrà accettato tutte le sue esperienze (Marocco Muttini, 1995).

Adolescenti e genitori adottivi

Ogni storia di figli adottati si compone di due parti: quella precedente all’adozione e quella successiva (Chistolini, 2010). Nel costruire la propria identità, l’adolescente adottato dovrà inevitabilmente confrontarsi e interrogarsi sul suo passato e sulla sua famiglia biologica, l’immagine di sé che il ragazzo va costruendo, infatti, non può essere disgiunta dalla percezione che egli ha del nucleo d’origine, percezione che viene dedotta per lo più dalle informazioni fornite dai genitori adottivi (Dell’Antonino, 1980).

Alcuni ragazzi intraprendono una ricerca informale riguardo alle informazioni sulle loro origini e sull’identità dei genitori biologici attraverso modalità non rintracciabili, per esempio attraverso i social network. Il problema connesso a questa ricerca individuale è la difficoltà di riuscire a gestire le informazioni raccolte (Colacicco e Rosnati, 2014). Inoltre, non sempre i ragazzi adottati e i loro genitori hanno informazioni riguardo il loro passato, per la difficile reperibilità di informazioni a seguito di veti normativi o per lo stato d’abbandono (Chistolini, 2010). La richiesta di informazioni riguardo ai propri genitori naturali non costituisce una delegittimazione della genitorialità adottiva, ma rappresenta un bisogno di comprendere una parte di se stessi. Il ragazzo dovrebbe infatti sentire di appartenere contemporaneamente a due contesti familiari.

È bene sottolineare che, sebbene il compito di sviluppo dell’identità risulta più complesso per gli adolescenti adottati, questo non implica nulla di patologico, l’importanza e la significatività di tale compito infatti è soggetta alle differenze individuali. Mentre alcuni ragazzi riflettono intensamente sul loro stato di ragazzi adottati e sul significato della loro identità, altri dedicano poco tempo a tali riflessioni. Queste variazioni individuali possono essere inserite in un continuum sulla rilevanza dell’adozione (Grotevant, 2000). Oltre alla centralità del proprio status adottivo, gli individui differiscono in base alle emozioni, positive o negative, a esso collegate e alla sua integrazione nel processo identitario (da qui il concetto di continuum). Alcuni dei fattori responsabili di queste differenze sono il genere e l’apertura dell’adozione; le curiosità attorno alle proprie origini, e quindi la propensione a riflettere sul tema dell’adozione, sarebbero legate alle informazioni in possesso.

Una narrazione emotiva e reale del vissuto adottivo è quindi possibile e necessaria per la costruzione dell’identità in questa fase di vita.

 

Alessitimia e disturbi correlati

L’alessitimia è definita da Sifneos (1973) come un disturbo affettivo-cognitivo che comporta una estrema difficoltà nell’identificare, esprimere ed interpretare le emozioni proprie ed altrui.

 

Alessitimia e disturbi psicosomatici

Il legame tra il costrutto dell’alessitimia e l’insorgenza di disturbi psicosomatici è stato ipotizzato da Nemiah e colleghi (1976) e da allora numerosi studi hanno confermato questo legame.

Fra le caratteristiche cliniche dei pazienti psicosomatici, si possono annoverare: significativa difficoltà a identificare, descrivere e interpretare le emozioni; marcata inconsapevolezza nel distinguere il proprio stato emotivo rispetto alle percezioni fisiologiche; limitata capacità nell’individuare le cause delle proprie emozioni; forte preoccupazione riguardante aspetti concreti del proprio corpo e dell’ambiente esterno; stile di pensiero cristallizzato su stimoli esterni; scarsa capacità di elaborazione emotiva; incapacità di usare il linguaggio come veicolo delle proprie emozioni; tendenza ad agire fisicamente piuttosto che tramite il dialogo (Taylor, 1992; Taylor et al.,1997).

Nell’elaborazione scientifica il rapporto tra alessitimia e disturbi psicosomatici è stato interpretato come un malfunzionamento dei processi corporei, influenzati negativamente dagli stati di emotional arousal non adeguatamente modulati, che sono dovuti a un deficit nella capacità di rappresentare le emozioni (MacLean, 1949).

Secondo il modello biopsicosociale (Engels, 1977), la salute generale e lo sviluppo di una patologia o malattia sono influenzati dall’interazione tra fattori biologici, psicologici e socio-culturali. Partendo da questo modello teorico, l’approccio psicosomatico riconosce che salute e malattia possono essere condizionate da molteplici fattori fisiologici, psicologici, comportamentali e sociali, e che lo stato di malattia genera una serie di comportamenti tipici della condizione di “malato”, che comprendono l’esperienza soggettiva dei sintomi fisici e l’espressione comportamentale del dolore e delle limitazioni fisiche dovute alla propria condizione di disabilità (Luminet et al., 2018).

Per esempio: l’alessitimia può contribuire alla comparsa di sintomi somatici attraverso l’attivazione di uno stato di arousal fisiologico prolungato, che può portare a un’alterazione generale del funzionamento fisiologico e persino, come accennato in precedenza, a cambiamenti tissutali. Differentemente, l’alessitimia come esito di un trauma infantile può comportare deficit nello sviluppo affettivo e l’adozione di comportamenti non salutari lungo il corso della vita, come il fumo, l’abuso di alcol o droghe e la sovralimentazione, che gli individui alessitimici traumatizzati spesso utilizzano per regolare gli stati emotivi  angoscianti, senza essere consapevoli della loro origine (Luminet et al., 2018). Infatti, è emerso come essere stati vittime di un trauma precoce abbia diverse conseguenze biologiche tra cui: svariate alterazioni funzionali e/o strutturali nelle aree cerebrali tra cui l’ippocampo e l’amigdala, disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), l’aumento dei marcatori infiammatori in età adulta e modifiche epigenetiche (Nemeroff & Seligman, 2013). Un’altra possibile spiegazione è la tendenza di molti soggetti alessitimici a focalizzarsi eccessivamente, e quindi amplificare conseguentemente, le sensazioni corporee associate all’emotional arousal; questo comporta che gli individui alessitimici interpretino queste sensazioni corporee erroneamente come sintomi di malattia, così da sentire come necessario un consulto medico (Maunder et al., 2017).

Alcuni autori hanno evidenziato come lo stile di risposta alessitimica presenti un blocco fisiologico in situazioni affettive intense, ma che queste persone possono comunque riferire alti livelli di affetti negativi. Questo quadro si traduce nella constatazione, relativamente coerente, di un mancato allineamento tra i sistemi di risposta alle emozioni, che potrebbe essere associato alla loro tendenza a confondere le sensazioni fisiche con i segni di malattia (Christos & Panayiotou, 2018).

Alessitimia e depressione

Inoltre, è stata dimostrata la presenza di un legame significativo tra alessitimia e depressione (Foran & O’Leary, 2013; Picardi et al., 2011). L’ipotesi è che gli individui con alti livelli di alessitimia abbiano appreso la tendenza a evitare sistematicamente esperienze interne, ad alto contenuto emotivo, poiché altamente disturbanti e attivanti. Secondo gli autori la scarsa capacità di identificazione e interpretazione delle emozioni nel costrutto alessitimico è di fatto uno sforzo fisiologico atto a evitare un’esperienza emotiva disturbante e proprio questa tendenza, in ultimo, favorisce lo sviluppo di patologie fisiche e mentali (Panayiotou et al., 2015).

Un recente studio del 2021 di Liu e colleghi ha indagato il rapporto tra gravi sintomi depressivi, evitamento e alessitimia: i risultati di questo studio hanno evidenziato un legame significativo tra i fattori appena citati. Partendo dal presupposto che il campione indagato era composto da giovani universitari, poco meno di un quarto del campione ha affermato di aver subito abusi in infanzia. È importante sottolineare come proprio questa fetta di campione abbia totalizzato i punteggi più significativi per quanto riguarda i costrutti indagati in questo studio, ovvero, alessitimia, evitamento, ideazione suicidaria, autolesionismo. Inoltre, l’effetto dell’alessitimia in relazione a sintomi depressivi gravi, quali ideazione suicidaria e autolesionismo, è risultato significativo; allo stesso modo anche l’evitamento è risultato un fattore intermediario importante nel rapporto tra alessitimia e sintomi depressivi.

In sintesi, si può affermare che, posta un’esperienza traumatica infantile come fattore di vulnerabilità per lo sviluppo di sintomatologia depressiva, anche un non adeguato riconoscimento e la ridotta capacità di regolazione emotiva sono risultati fattori importanti, sebbene siano necessari ulteriori studi per confermare la direzionalità di questo rapporto; inoltre, l’evitamento potrebbe essere, conseguentemente, un fattore aggravante.

La rivelazione della propria sieropositività può evocare vissuti di abbandono e abuso – Parte II

Roberto, giovane uomo sieropositivo, non frequenta nessun partner e non ha mai dichiarato la propria sieropositività. Estremamente educato e gentile, in seduta riferisce di sentirsi stigmatizzato e discriminato persino durante le visite mediche.

Ndr – Il presente contributo è il secondo di una serie di tre articoli sull’argomento. Nel primo contributo è stato introdotto il caso clinico di Roberto, il terzo contributo verrà pubblicato nei prossimi giorni

 

La sua richiesta di aiuto in psicoterapia sembra apparentemente centrata sulla difficoltà ad incontrare un ragazzo che corteggia su whatsapp, ma che non ha mai conosciuto. Per interrompere l’evitamento ed il rimuginio gli propongo di andare a conoscere il ragazzo mentre per lavoro si trova vicino alla sua città. Roberto si dichiara curioso e desideroso ma al mattino dell’incontro si dà alla fuga.

“Dottoressa, ma come potevo presentarmi? Mi vede??? Sono goffo, tozzo, grasso, più imbranato di Paperino… e poi? Mi piace, mettiamo che lui è completamente cieco e mi vuole… iniziamo a frequentarci seriamente e poi… ah scusa dimenticavo, sono sieropositivo. Per te è un problema?

Gli ho fatto pervenire i dolci, così almeno avrà un buon ricordo di me… e finiamo qui questa stupida storia. Per me è impossibile credere ancora in una relazione normale, sono un marchiato”.

In seguito a questo episodio, Roberto rivela di non sentirsi quel ragazzo appagato che aveva dichiarato di essere, ma profondamente solo, frustrato e inquieto. Dichiara che i suoi successi riguardano principalmente la sua attività lavorativa e il modo in cui si sente quando “realizza contest” per gli eventi. Ma, non solo, Roberto è una persona sensibile, affidabile e molto colta in svariati ambiti ed emerge che anche in ambito familiare, nonostante la presenza costante della sorella, sia lui il reale punto di riferimento dei genitori ai quali programma le visite ospedaliere anche al nord Italia, intrattenendo i rapporti con i medici.

Sessualità, sieropositività e timore del rifiuto

Roberto riporta in seduta numerosi episodi in cui dichiara di essersi sentito allontanato, rifiutato, sentimenti di solitudine che hanno radici lontane. Fin dalla scuola media, periodo in cui Roberto percepisce la propria personale sessualità, dichiara di aver subito atti di bullismo, di essere stato etichettato come “checca”, di essersi sentito indegno anche per caratteristiche fisiche di sovrappeso, di essere stato un bambino timido, pieno di vergogna, spesso compiacente per paura dell’abbandono dell’altro o della critica, di essersi sentito costantemente fuori dai gruppi, escluso, profondamente triste e solo. Emerge un sé non amabile, debole, con aspettative di abbandono o rifiuto che lo portano a nascondere aspetti ritenuti negativi e incomunicabili per non recare mai disturbo agli altri. Anche nel lavoro, in realtà, cerca sempre di accontentare i clienti anche nelle richieste più improbabili e assurde che gli costano sacrificio e fatica, esponendolo a stanchezza e dolorose cefalee. In questo quadro arriva poi la notizia della sieropositività che contribuisce sempre più a elicitare in lui schemi disfunzionali di lettura della realtà solo in termini di perdita, rifiuto e paura dell’abbandono, confermando una rappresentazione di sé come non degno di amore.

Grazie a questi episodi è ora possibile formulare in modo congiunto il seguente schema interpersonale: Roberto desidera essere visto, amato ed accettato. Cova però una immagine nucleare di sé come indegno e difettoso. Come risposta dell’altro teme la critica e l’abbandono e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto. Le sue reazioni emotive alla risposta dell’altro sono principalmente tristezza e vergogna ed utilizza l’evitamento ed il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza, nonché la costante paura della reazione dell’altro. In terapia, il paziente è aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e criticato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

Nel corso di questi anni, Roberto si è sentito troppo spesso sbagliato e ha reagito agli eventi della vita, evitando di mostrarsi davvero per come è. Molte volte, nelle relazioni, ha compiaciuto gli altri per paura della critica, altre volte è scappato via, ma la sua speranza di essere accettato e amato è viva ed è presente in terapia. L’obiettivo concordato è, quindi, di esporsi a nuove esperienze per riflettere sulle consapevolezze raggiunte. Decidiamo di ridurre le passeggiate in solitudine e di iniziare a coltivare le amicizie, è possibile ricavare dei piccoli spazi magari limitando il sovraccarico di lavoro e sottraendosi alle faccende di casa durante il week-end.

Roberto si apre a nuove esperienze: si iscrive in palestra, conosce nuove persone, parte in viaggio in Sardegna con un nuovo gruppo di amici, esperisce sentimenti di appartenenza al gruppo e in alcuni momenti si sente sostenuto e aiutato. Riesce a dire dei no ad alcuni clienti estremamente esigenti senza per questo sentirsi un fallito. Tuttavia, Roberto non intende esporsi a situazioni più critiche, continua (nel corso del tempo) a non comunicare a nessuno la propria sieropositività per quanto sia un suo desiderio, né tantomeno intende iniziare relazioni affettive.

L’intervento sulla storia di abuso

Roberto dichiara: “Forse è il caso di parlare di quella storia di mio fratello: quando non c’erano i miei, mio fratello più grande veniva nel mio letto e mi chiedeva dei rapporti… io gli dicevo sempre sì. Quando sono diventato più grande, fino a 13 anni, lui mi cercava ancora e per me era diventata un’abitudine, era tutto quello che avevo, anche perché a scuola ero grassoccio, mi piacevano già i maschi ma tutti mi allontanavano. Poi una notte lo cercai io, era il giorno prima della mia comunione, mi ricordo che mi disse: ”Basta, che schifo, adesso ti devono piacere le ragazze, non lo vedi che io ho una fidanzata? Cercati una fidanzata anche tu!’ Non posso dirle come mi sono sentito… È qualcosa di inenarrabile, mi sentivo sporco, sbagliato… ho provato un senso di disgusto per me stesso angosciante e implacabile”.

Roberto ha paura del dolore ma vuole rivivere quelle scene nucleari, mi chiede di ritornare in quei luoghi. Lo facciamo attraverso tecniche immaginative, ci torniamo più volte, s’interrompe spesso per via del pianto. Spesso mi chiede di fermarci. Dedichiamo varie sedute a questo episodio. Dapprima rievocandolo, poi pianificando un intervento con rescripting e cercando di rifletterci.

Si rende conto che quei sentimenti di indegnità che lo hanno accompagnato per tutta la vita hanno molto a che vedere con quell’episodio. Attraverso l’uso dell’imagery, il paziente riesce a visualizzare “il piccolo Roberto”, vede sé stesso con un fiocco azzurro al collo che ricollega al suo stesso pigiama pieno di fiocchetti azzurri, e con una grande lacrima nel viso, immobile mentre viene rifiutato e disprezzato (tra gli episodi relativi all’abuso, vuole parlare solo dell’ultimo in cui è stato rifiutato e che riferisce essere il più doloroso).

L’impatto dell’imagery determina un senso di nausea in lui, dolori addominali e incremento della frequenza cardiaca, emozioni di tristezza, vergogna e disgusto per sé stesso emergono in maniera tumultuosa. Mentre si visualizza, riporta dolore, disperazione e accede alla parte di sé sottostante lo schema: “sono un bambino solo, impotente, incapace di esprimere i suoi reali desideri”.

Gli chiedo se possiamo fare entrare qualcuno nella scena che lo aiuti a non sentirsi così disperato. Roberto decide di far entrare sé stesso adulto, non chiede niente, solo essere abbracciato e accarezzato. Non vuole sentire nient’altro, soltanto il senso di protezione e calore dell’abbraccio che lo allontana dalla solitudine e dall’umiliazione.

La volta successiva mi dirà che quell’episodio accaduto nel primo ambulatorio qualche anno prima, non era esattamente come lo aveva riportato. La verità era che non aveva mai realmente subito episodi di discriminazione in ospedale, semplicemente una volta saputa la notizia della propria sieropositività è caduto a terra e avrebbe tanto voluto un abbraccio rassicurante, qualcuno che lo raccogliesse con affetto, ma i medici non erano stati così accudenti. In realtà, nella sua storia non aveva mai subito atti di discriminazione e questo rinforza che le sue idee non dipendessero dal trauma delle prime relazioni una volta conosciuta la diagnosi, ma da schemi pre-esistenti, rinforzati dalla scoperta della malattia.

 

Serious games? Capiamo insieme di cosa si tratta

I serious games sono videogiochi progettati con uno scopo preciso oltre all’intrattenimento, volti ad esempio a voler implementare le competenze di un giocatore.

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Videogames e serious games

È stato dimostrato che i videogame sono un “luogo sicuro” in cui i videogiocatori possono affrontare le richieste poste dalla realtà sotto-forma di simulata, oltre ad essere luogo di gratificazione di bisogni (Janz, 2005) e luogo in cui vivere esperienze emotive (Frome, 2007).

I videogames possono appartenere a due grandi macro-categorie: videogames per l’intrattenimento e serious games. I serious games sono giochi interattivi che permettono ai giocatori di mettere in pratica abilità specifiche e raggiungere obiettivi, andando oltre al semplice divertimento e intrattenimento.

I serious games permettono di rendere più divertente una sessione di riabilitazione, oppure più divertente e meno rischioso l’apprendimento di tecniche lavorative (es. come costruire un motore, o come operare chirurgicamente un paziente), così come più divertente e meno monotono l’esercizio fisico.

“Games for health” è il termine usato per definire quei serious games il cui scopo è apportare benessere e benefici per la salute delle persone, usati cioè in ambito sanitario allo scopo di fare diagnosi e riabilitazione, oppure per informare i pazienti sulla propria malattia e sul trattamento proposto. L’uso dei serious games può rendere meno faticoso lo svolgimento di alcune attività, ad esempio, può aumentare la motivazione delle persone nel mettere in atto esercizi di riabilitazione ripetitivi. Questi giochi possono essere fruiti attraverso l’utilizzo di diversi dispositivi: smartphone, tablet, computer, console, realtà virtuale e realtà aumentata. Inoltre, la tecnologia ha permesso l’utilizzo di controller (telecomandi) e altri strumenti che rilevano il movimento del giocatore (es. videocamere) senza che questo sia dotato di alcun controller.

Nel caso della riabilitazione, gli esercizi sono nascosti nel videogame ed i pazienti eseguono movimenti specifici ed adattati alle esigenze del paziente per proseguire nel gioco. I pazienti che hanno utilizzato questi strumenti sono risultati più propensi a continuare ad eseguire gli esercizi a casa (Bonnechère, 2018; Amengual Alcover, et al., 2018).

Glossario base

  • Giochi commerciali: videogiochi commerciali venduti a scopo di intrattenimento. È utile sapere che ogni videogioco ha una sua classificazione che può guidare nell’acquisto del prodotto, il cui nome è “PEGI” (Pan European Game Information). PEGI è caratterizzata da una serie di descrittori: violenza, linguaggio scurrile, paura, gioco d’azzardo, sesso, droghe, discriminazione, acquisti in game. Questi descrittori vanno anche a determinare l’età in cui il videogame può essere fruito: 3, 7, 12, 16 e 18 anni. I videogame classificati con la cifra “18” si applicano quando la violenza inserita è grave (es. omicidi), quando sono presenti utilizzo di droghe illegali e contenuti sessuali espliciti.
  • Serious games: videogiochi progettati con uno scopo preciso oltre all’intrattenimento, volti ad esempio a voler implementare le competenze di un giocatore.
  • Gamification: processo che prevede l’applicazione di elementi di gioco in contesti non ludici, al fine di conferire, ad esempio, ad una lezione una sensazione di gioco.
  • Game base learning: metodologia di apprendimento che coinvolge l’utilizzo di videogiochi.

Le componenti dei serious games

I serious games si basano su alcune componenti chiave del videogioco:

  • Flow, ovvero il flusso mentale attraverso cui si svolge un’attività completamente immersi in essa, attraverso quelli che Csikszentmihalyi (1990) individua come fattori di flusso (la concentrazione sul presente, senso di agenzia nel controllare le azioni del proprio personaggio sull’ambiente virtuale, alterazione dell’esperienza soggettiva del tempo, esperienza dell’attività come intrinsecamente gratificante). Il flusso mentale è stato individuato come la componente principale che porta i giocatori al gioco, e viene ritenuto che il flow si crei grazie all’equilibrio esistente tra abilità e sfida che il gioco pone, che spinge il giocatore a voler andare sempre oltre.
  • Immersione: consiste nel realismo percepibile nei videogiochi, in cui il giocatore viene assorbito dalla narrazione, dai personaggi, dalle componenti audio-visive e dalla coerenza tra azione del giocatore sul joystick/tastiera e azione del proprio personaggio nel videogioco stesso. Attraverso il videogame, il giocatore si trova in un ambiente psichicamente reale, e capace di vivere le emozioni che il videogioco nel presente elicita in esso.

Oltre a queste componenti che accomunano sia i videogiochi commerciali sia i serious games, si possono tracciare delle caratteristiche tipiche dei serious games:

  • Avere uno scopo specifico e serio (es. apprendimento, terapeutico, riabilitativo, e così via);
  • Utilizzo di tecniche di gamification volte a rendere lo storytelling del gioco aderente alla teoria di riferimento scelta per il gioco. La o le teorie di riferimento presenti nei giochi sono teorie validate da esperti del settore attraverso i propri studi (ad esempio: un serious games si può basare sulla teoria di Bandura dell’apprendimento sociale. Si rimanda alla lettura di questo articolo per approfondimento). Le tecniche di gamification permettono inoltre di mantenere alta la motivazione di compiere un’azione all’interno del gioco, interagendo con il sistema, così che possa ricevere un feedback sulla propria azione (il feedback se positivo motiverà ulteriormente il giocatore a proseguire con la stessa strategia di gioco, qualora fosse negativo lo porterà invece a cambiare strategia, apprendendo quindi i comportamenti da riprodurre e quelli da abbandonare).

I serious game possono inoltre avere potenzialità simili a quelle dei videogiochi commerciali, i quali anche se non sono stati creati con lo scopo di migliorare le competenze dei giocatori in termini di memoria, attenzione, concentrazione, coordinamento, riescono a farlo. Tra le funzioni che i videogiochi commerciali, ed i serious games in modo intenzionale, riescono a migliorare ritroviamo le seguenti, illustrate ampiamente nel volume “Psicologia dei videogiochi. Come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento” di Triberti e Argenton (2019):

  • Le relazioni: nel videogioco l’elemento socio-relazione presente tra i personaggi, soprattutto nei giochi in cui gli altri personaggi sono giocatori reali, permette di sviluppare relazioni significative, sperimentando quelli che sono gli obblighi ed i doveri della dimensione relazionale, svolgendo i compiti che competono al proprio ruolo, in sinergia con gli alleati del proprio team;
  • Le funzioni ricettive (percezione, attenzione): nel videogame il giocatore percepisce l’ambientazione in cui è inserito e sviluppa l’attenzione, focalizzandosi sugli stimoli percepiti. Queste funzioni sono le stesse che vengono usate per i compiti quotidiani nella nostra vita esterna al videogame, e ciò che viene potenziato nel videogame può essere trasposto nella realtà. La stessa attenzione che può essere posta in un videogame su un oggetto situato nell’ambientazione, potrà essere posta nella realtà non virtuale quando saremo alle prese con un oggetto nuovo e dovremo imparare ad utilizzarlo, ad esempio. Inoltre, nel videogioco si impara a rimanere concentrati su un oggetto preciso, nonostante possibili interferenze esterne.
  • Il pensiero: nel videogioco i giocatori sono impegnati a trovare soluzioni, esaminando le risorse a propria disposizione sono portati a compiere ragionamenti induttivi e deduttivi. I problemi presentati nei videogiochi sono per lo più graduali, portando il giocatore ad avvicinarsi sempre più alla soluzione finale, e motivandolo partendo da livelli più semplici, adeguati alle proprie competenze iniziali; talvolta esistono anche videogiochi basati sulla soluzione di problemi tramite insight, ovvero una sorta di illuminazione ottenuta grazie al mettere insieme tutti gli elementi presenti nello scenario.
  • La memoria: la memoria viene costantemente allenata nel videogioco, in cui la richiesta è spesso quella di tenere a mente più elementi e, tramite allenamento, un giocatore può arrivare ad espandere il numero di elementi memorizzati nella propria mente.
  • Il coordinamento oculo-manuale: nel videogioco il giocatore impara sempre più a svolgere i propri movimenti senza guardare il controller o la tastiera, così come guidando si impara a non guardare più il cambio manuale.

I serious games più utilizzati

Oltre alle componenti chiave sopra illustrate, i serious games sono contraddistinti dallo scopo diagnostico, terapeutico, riabilitativo, educativo, e/o formativo. Di seguito verranno presentati alcuni dei serious games più famosi per permettere al lettore di comprendere meglio la natura, la potenzialità e gli attuali limiti di questi strumenti, attraverso alcuni esempi.

  • “SuperBetter” è un serious game per la salute mentale, creato per affrontare al meglio i momenti di stress e cambiamento, consolidando le proprie abilità psicologiche. Ciò che viene appreso nel gioco può essere trasposto nella vita di tutti i giorni. I punti cardine del gioco sono dunque migliorare i fattori protettivi dello stress (es. aumentare l’ottimismo, percepire il supporto sociale e dunque la connessione sociale, migliorare l’auto-efficacia e migliorare la soddisfazione di vita), abbassando contemporaneamente gli ostacoli alla resilienza (es. diminuire l’ansia, la tristezza e l’assenza di speranza).
  • “Sparx” un serious game per la salute mentale di cui avevamo già parlato in questo articolo.
  • “Sea Hero Quest” è un gioco su smartphone sviluppato dalla Deutsche Telekom Alzheimer’s Research UK e da Glitchers allo scopo di raccogliere dati su larga scala relativi ai sintomi dell’Alzheimer, che attualmente presenta anche una versione usufruibile in realtà virtuale. Lo scopo di questo serious game viene raggiunto ponendo gli utenti in un gioco in cui navigano su una barca attraverso canali più o meno insidiosi, in quanto quella della navigazione è una delle prime abilità colpite dalla demenza.
  • “Ludwing” è un gioco dedicato ai bambini maggiori di 10 anni, sviluppato da Ovos, insieme a insegnanti e bambini, il cui scopo è quello di implementare le conoscenze degli utenti sull’energia sostenibile. È un serious game dedicato all’apprendimento in cui, attraverso la libertà di imparare per prove ed errori, di sperimentare e impegnarsi, il bambino guiderà Ludwing, un piccolo robot, attraverso il mondo della combustione, il mondo dell’acqua, il mondo del sole ed il mondo del vento. Il gioco è stato studiato per aumentare di difficoltà strada facendo, senza divenire mai frustrante, mantenendo così un livello di divertimento che, insieme alla modalità “mondo aperto” e alla trama intrigante mantiene l’interesse dei bambini alto.
  • “gNats island”: un gioco basato sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale che permette agli psicologi di entrare in contatto con i propri pazienti e viceversa attraverso il gioco. Il target principale del gioco sono gli adolescenti, che altrimenti potrebbero faticare ad andare in psicoterapia, e potrebbero rivolgersi più facilmente ad uno psicologo attraverso un videogioco. Il protagonista è su un’isola tropicale dove si ritrova a fronteggiare i propri “pensieri automatici negativi”, rappresentati ad esempio da piccole mosche che pungono. Nel gioco sono previste azioni metaforiche che permettono al protagonista di combattere i propri pensieri negativi, ad esempio schiacciando queste mosche. I terapeuti affiancano il giocatore durante il gioco, parlandogli come partner nell’esplorazione del mondo virtuale.

Conclusioni

Attualmente il mondo dei serious game non è scevro da limiti, infatti è difficile trovare ad esempio dei serious game per la salute mentale adatti ad ogni sintomatologia o persona, essendoci ancora pochi titoli sul mercato. Per questo motivo potrebbe essere opportuno creare dei serious game “open”, ovvero adattabili in base alle esigenze dell’utenza. Inoltre, attualmente i serious game sono utilizzabili in ambienti strutturati (es. dal terapeuta, a scuola, in ospedale) e raramente utilizzabili a casa in autonomia per evitare un uso scorretto del gioco. Ad oggi la maggior parte dei serious game sono realizzati per computer, ma sarebbe più motivante spostarli sullo smartphone per renderli fruibili a più persone. Infine, sarebbe opportuno introdurre nella fase di progettazione sviluppatori, professionisti sanitari/pedagogisti, ed il pubblico di riferimento, con lo scopo di creare dei giochi sempre più attraenti e coinvolgenti. (Schoneveld et al., 2020).

E tu? Se potessi aiutare a creare un serious game, con quale scopo lo progetteresti?

Il trattamento integrato per le dipendenze patologiche (2022) di Nava e Sanavio – Recensione

Il volume di Felice Alfonso Nava e Francesco Sanavio (2022), “Il trattamento integrato per le dipendenze patologiche”, propone una disamina completa delle dipendenze patologiche, dandone una definizione neurobiologica e un inquadramento diagnostico accurato, per poi delineare i principali interventi psicoterapeutici evidence-based e le maggiori cure farmacologiche.

 

Definizione di dipendenza patologica

La dipendenza patologica è una malattia cronica ad andamento recidivante caratterizzata dal craving (cioè dal desiderio irrefrenabile di utilizzare la sostanza), dall’uso compulsivo e dalla perdita di controllo sull’assunzione delle sostanze (Nava e Sanavio, 2022).

Determinanti essenziali della vulnerabilità per lo sviluppo della dipendenza patologica sono l’impatto delle sostanze a livello neurobiologico, l’assetto genetico individuale e il contesto ambientale di appartenenza.

Nella prefazione al testo (Nava e Sanavio, 2022), Cesare Maffei definisce le dipendenze patologiche come una variante disadattiva di una tendenza, o meglio di una necessità, insita nella natura umana: la dipendenza da ciò che ci fornisce protezione, soddisfazione, piacere, e la fuga da ciò che ci minaccia, delude e ferisce.

Il problema di fondo è quanto diventiamo schiavi della necessità rispetto a quanto, pur nella sua ineluttabile presenza, sappiamo compiere delle scelte che ci affrancano, per quanto possibile, dalla necessità e che ci consentono di dare una direzione alla nostra vita nella quale troviamo un significato, un valore (p.11, Nava e Sanavio, 2022)

Neurobiologia delle dipendenze patologiche

Nel primo capitolo Nava e Sanavio (2022) delineano le basi neurobiologiche delle dipendenze patologiche, secondo le teorie più accreditate:

  • la teoria della sensitizzazione incentiva, per cui l’uso continuativo della sostanza nel tempo porterà a una riduzione della “sensibilità” gratificante indotta dagli stimoli correlati all’uso della sostanza e quindi a un incremento nell’utilizzo;
  • la teoria della “regolazione edonica” o “opponente”, secondo cui l’euforia iniziale determinerà sempre una risposta opposta, con un effetto contrastante che può anche mascherare gli aspetti edonici e gratificanti iniziali (Nava e Sanavio, 2022);
  • la teoria dell’aberrant learning behaviour, che considera l’addiction una forma di apprendimento disfunzionale in quanto la ricerca della sostanza si basa su processi cognitivi complessi come la memoria e l’aspettativa della ricompensa;
  • la teoria dell’anti-reward, basata sul concetto che i meccanismi neurobiologici dell’addiction sono una risposta adattativa all’iperstimolazione del sistema della gratificazione indotta dalle sostanze (Elman, Borsook, 2016); secondo questa teoria, lo sviluppo dei processi di dipendenza è caratterizzato dalla perdita dell’equilibrio omeostatico fra l’attivazione del sistema della gratificazione (reward system) e l’attivazione del sistema di compenso della gratificazione (anti-reward system, responsabile dell’attivazione dell’asse dello stress, della disforia e del craving (Koob, 2008).

In un prossimo futuro, saranno gli studi di neuroimaging a permetterci di identificare i meccanismi neurobiologici e predire eventuali ricadute, in base al funzionamento delle varie aree cerebrali coinvolte nell’addiction (Moeller, Paulus, 2018).

Aspetti nosografici e di valutazione

Di particolare rilievo è la proposta di una prospettiva multidimensionale sulla valutazione dei fenomeni di interesse clinico quali la dipendenza patologica.

Nel volume, la “diagnosi” non è intesa quale mera descrizione statica e classificatoria, ma come processo che consente di individuare le caratteristiche del singolo, intrinsecamente connessa con la progettazione di un intervento terapeutico personalizzato (Nava e Sanavio, 2022).

Il secondo capitolo è dedicato ad illustrare aspetti nosografici e di valutazione, nel tentativo di definire il nucleo centrale dell’assessment psicodiagnostico: l’individuazione dei livelli di disfunzionalità, a partire da quelli riferibili ad automatismi a fondamento biologico per poi arrivare, attraverso un’analisi del ruolo dell’apprendimento, all’analisi dei livelli decisionali (Nava e Sanavio, 2022).

Nava e Sanavio (2022) propongono un’approfondita presentazione dell’analisi funzionale, quale elemento essenziale per la definizione del funzionamento comportamentale e cognitivo della persona e la scelta appropriata del trattamento; obiettivo dell’analisi funzionale è individuare i meccanismi di funzionamento dei comportamenti di dipendenza in relazione alle diverse forme di apprendimento che sono legate allo sviluppo e al mantenimento dell’addiction; la conoscenza e la padronanza che la singola persona ha delle life skills; la valutazione del profilo motivazionale del singolo in riferimento agli obiettivi del trattamento.

Secondo Maffei (2022), l’analisi funzionale costituisce il perno che consente l’articolazione del passaggio dalla valutazione psicodiagnostica al trattamento terapeutico, in quanto garantisce l’acquisizione, da parte del clinico, degli elementi necessari per definire, in accordo con il paziente, il processo di cura e riabilitazione e valutare le caratteristiche del trattamento.

Trattamenti di tipo cognitivo e comportamentale

La dipendenza patologica è una malattia multifattoriale che necessita, per il suo trattamento clinico, di un approccio multidisciplinare e spesso di un intervento farmacologico associato a un approccio psicosociale e psicoterapeutico basato sulle evidenze (Nava e Sanavio, 2022).

Il volume presenta una esauriente rassegna dei trattamenti disponibili in ambito cognitivo e comportamentale, dalle tecniche di base (di prima e seconda generazione), sino alla cosiddetta terza generazione.

La prospettiva presentata fa principalmente riferimento alle prime due generazioni come linee guida generali per la strutturazione degli interventi, in quanto racchiudono le tecniche e le terapie che hanno dimostrato la maggiore efficacia livello sperimentale (Navia e Sanavio, 2022).

Il testo termina con un’appendice dedicata alla disamina delle linee guida dell’American Psychiatric Association (APA) e del National Institute for Clinical Excellence (NICE) sulla gestione e cura dei pazienti con disturbo da uso di sostanze.

In particolare, nel terzo capitolo vengono esaminati i principi e le tecniche di modificazione del comportamento che affondano le radici in un solido corpus teorico di riferimento, il lavoro di Burrhus Skinner; successivamente, ampio spazio viene dedicato all’esame delle principali strategie dell’intervento cognitivo, come la terapia razionale emotiva secondo il modello di A. Ellis, il modello cognitivo del disturbo da uso di sostanze sviluppato da Beck e collaboratori (1933) e il modello di Marlatt per la prevenzione delle ricadute.

Strumento essenziale nel bagaglio tecnico di buona parte dei terapeuti di orientamento cognitivo e comportamentale è il colloquio motivazionale (motivational interviewing; Miller, 1983; Miller e Rollnick, 2004), al quale viene riservato un approfondimento all’interno del testo.

Si tratta di un intervento non direttivo che toglie l’enfasi dal cambiamento e punta a sviluppare una dissonanza cognitiva, favorendo la discussione delle conseguenze negative del problema, con un atteggiamento empatico del conduttore mutuato dagli insegnamenti di Carl Rogers, al fine di aggirare la resistenza del paziente e sostenere la sua autoefficacia (Nava e Sanavio, 2022).

Il quarto capitolo, invece, è incentrato sul trattamento psicoterapeutico di terza generazione (o “terza ondata”; Hayes, 1944), un insieme di terapie di matrice cognitiva e comportamentale caratterizzate da un lavoro sulla metacognizione e dalla tecnica di intervento della mindfulness, definibile come uno stato metacognitivo di consapevolezza non giudicante (Witkiewitz, Marlatt e Walker (2005), e basate sul concetto di accettazione.

Nava e Sanavio (2022) riservano ampio spazio alla prospettiva della terapia metacognitiva nell’addiction e alla pratica di intervento della mindlfulness, uno degli interventi più popolari degli ultimi anni. Inoltre, il costrutto di accettazione risulta fondamentale nel processo di raggiungimento e di mantenimento dell’astinenza in quanto è importante trasmettere l’idea di imparare ad accettare la cronicità del disturbo da uso di sostanze, assieme alle possibili ricadute. Il valore terapeutico dell’accettazione è duplice: ridurre il cosiddetto dolore sporco, cioè la sofferenza derivante dalla ruminazione mentale, da aspettative irrealistiche e dalla mancata accettazione della realtà e del dolore quale parte intrinseca della condizione umana; permettere di impegnarsi in comportamenti difficili ma costruttivi per dare senso alla propria vita (Nava e Sanavio, 2022).

Conclusioni

In conclusione, il volume di Nava e Sanavio (2022) tratta la complessità della dipendenza patologica in maniera semplice e chiara, rendendola scorrevole nella lettura e fruibile nella pratica; costituisce uno strumento importante, in grado di offrire ai lettori una conoscenza globale sulla dipendenza patologica quale disturbo multifattoriale e una chiara indicazione terapeutica secondo una prospettiva evidence-based.

 

La rivelazione della propria sieropositività può evocare vissuti di abbandono e abuso – Parte I

La notizia della propria sieropositività incide sull’identità, sulla rappresentazione di sé e condiziona il livello della progettualità e del futuro.

Ndr – Il presente contributo è il primo di una serie di tre articoli sull’argomento. Il secondo e il terzo contributo verrano pubblicati nei prossimi giorni

 

Negli ultimi anni, l’avvento della terapia antiretrovirale ha rivoluzionato l’esistenza delle persone sieropositive sia in termini di sopravvivenza, sia in termini di miglioramento della qualità della vita.

L’orizzonte temporale si è spostato in avanti, ma per queste persone e per coloro che ne condividono il percorso, il futuro appare spesso segnato da un forte stato di incertezza e angoscia.

La comunicazione della diagnosi di sieropositività

Uno dei momenti più drammatici nella vita delle persone sieropositive è quello in cui viene comunicata la diagnosi. L’incontro con la sieropositività può segnare l’inizio di un percorso doloroso e destabilizzante, costituito da continue rotture e ricostruzioni dell’equilibrio fisico, psicologico e socio-relazionale. La persona sieropositiva vive alcune difficoltà oltre la minaccia di morte: la percezione del proprio corpo come “nemico”, occupato da un invasore invisibile che ostacola il pieno godimento della sessualità, l’allontanamento da relazioni significative e talvolta l’isolamento sociale.

Rendere nota la propria condizione di salute può significare la perdita di reti sociali supportive.

Vi è, infatti, da superare la prova del debutto nell’ambiente esterno alla famiglia. La comunicazione della propria sieropositività agli altri è il grande dilemma che richiede la consapevolezza dello sguardo dell’altro con la relativa paura dello svelamento, timore che si allaccia al tema della vergogna. Lo sguardo dell’altro è vissuto come invasivo. Si prova vergogna per qualcosa che fa sentire diversi ed esposti allo sguardo altrui. Lo stigma è etimologicamente collegato al marchio che, impresso sul corpo rende il soggetto altro rispetto al gruppo: il paziente molto spesso si racconta come macchiato e infangato, una persona svalutata e temuta che può per questo motivo essere lasciata ai margini, esclusa dalla normale interazione sociale.

Sieropositività e stigma

A livello cognitivo lo stigma opera legando particolari attributi o condizioni ritenute indesiderabili a schemi stereotipati, immagini cristallizzate e negative che si ritiene definiscano chi è portatore di quella particolare caratteristica. Essere stigmatizzati implica sentirsi appiattire la propria individualità, essere incasellati in uno schema irrigidito.

La percezione del proprio corpo come portatore di pericolo segna fortemente la sfera relazionale. Il contatto fisico è un tema delicato che emerge in un numero significativo di pazienti.

La sieropositività, infatti, presenta una caratteristica specifica, che la differenzia dalla maggior parte delle malattie croniche, come il diabete, l’asma o la sclerosi multipla: la trasmissibilità, con un contagio che avviene soprattutto per via sessuale. Questa caratteristica mette in difficoltà le persone proprio nella relazione più coinvolgente sul piano emotivo, quale è quella amorosa e sessuale.

Le relazioni affettive e sessuali rappresentano quindi un ambito in cui la comunicazione della propria condizione di sieropositività si fa sovente molto conflittuale, in bilico tra il timore di subire un rifiuto e il desiderio di avere una normale vita affettiva e sessuale, nella consapevolezza di dover comunque tutelare l’altra persona.

Sieropositività e timore del rifiuto

Il timore del rifiuto è talmente grande che esso viene da alcuni soggettivamente anticipato, nella convinzione che esso sia la reazione più frequente e probabile nel conoscere la propria condizione di salute. In alcuni casi l’anticipazione del rifiuto, immaginato come conseguenza certa della rivelazione della propria sieropositività, è talmente forte da portare ad abbandonare i tentativi di contatto o a chiudere la relazione già in atto. Si tratta di un meccanismo di difesa che richiude la persona nella propria solitudine e le impedisce di aprirsi a possibilità di relazione e realizzazione personale, favorendo nel tempo proprio la concretizzazione dei peggiori timori.

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo al proprio stato di salute sono la paura del rifiuto o dell’abbandono (Derlega et al, 2004), la paura dell’isolamento sociale o che l’altro possa diventare violento oltre che rifiutante –soprattutto nei paesi in via di sviluppo, tra le donne che dipendono dalle famiglie, i timori principali sono di perdere il sostegno economico, subire maltrattamento e violenza, o ancora la paura di turbare, di sconvolgere i propri familiari e il timore di provocare in loro vergogna.

Ad esempio, se la comunicazione al proprio partner non viene attuata relativamente presto, può diventare sempre più difficoltoso farla mano a mano che passa il tempo e potrà essere motivo di rottura se il partner, nell’apprenderlo, sentirà di essere stato tradito o ingannato a causa del silenzio prolungato. La rottura potrebbe determinare nel paziente sentimenti di abbandono e solitudine confermando una rappresentazione di sé come “non degno di amore” e persino colpevole. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo. La capacità di rivelarsi è certamente legata al grado in cui la persona ha accettato la diagnosi (Peterson et al., 2006).

Il momento giusto per scegliere di rivelarsi costituisce un oggetto di profonda riflessione da parte delle persone positive, ed è spesso l’argomento principale ai colloqui con lo psicoterapeuta. Alcuni studi hanno rilevato che le percentuali di rivelazione della propria sieropositività crescono con l’aumentare del numero di incontri con lo psicoterapeuta su questo tema. Nello studio di Maman e colleghi (Maman et al., 2001) sono stati gli stessi intervistati a sottolineare il ruolo dello psicoterapeuta nella loro decisione di informare altre persone della propria sieropositività.

Le conseguenze positive della rivelazione sono numerose: le persone intervistate hanno citato un aumentato sostegno e una maggiore accettazione, un rafforzamento dei legami con familiari e amici, la riduzione dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché la semplificazione della vita con l’eliminazione dei sotterfugi nella frequentazione dei centri ospedalieri e nell’assunzione della terapia antiretrovirale, con conseguente maggiore aderenza terapeutica.

Contrariamente alle aspettative, si è evidenziato anche che la comunicazione non è associata alla rottura delle relazioni stabili. Tra le psicoterapie cognitive di ultima generazione, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2015) ha la caratteristica di adattare gli interventi terapeutici alle capacità metacognitive del paziente e ad una attenta formulazione degli schemi maladattivi con cui i pazienti danno senso alle relazioni interpersonali. La TMI dedica grande attenzione alla cura della relazione terapeutica, che usa come fonte di informazioni e come luogo dove sperimentare per prima le modalità adattative di relazione.

Sieropositività e Terapia metacognitiva interpersonale

La TMI, sviluppata principalmente per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche a essi associate, è già stata applicata con successo a due casi di pazienti con HIV. Nel primo caso, sono stati ottenuti ottimi risultati in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica (Dimaggio et al., 2016). Nel secondo caso, un paziente sieropositivo con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza terapeutica ai regimi prescritti, gli effetti ottenuti sono stati il raggiungimento della completa aderenza terapeutica con conseguente soppressione della carica virale e la riduzione dei criteri diagnostici del disturbo di personalità (Sofia et al., 2017).

Qui di seguito, descriviamo il suo utilizzo nel caso di un paziente sieropositivo, con storia traumatica legata ad abuso familiare, la cui diagnosi di sieropositività ha incrementato vissuti di svalutazione, vergogna e solitudine, con conseguenti difficoltà relazionali oltre che di accettazione e rivelazione del proprio stato sierologico.

La TMI, come abbiamo anticipato, si basa sull’idea che i pazienti sono guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative definite “schemi interpersonali”, delle quali molto spesso non sono consapevoli e che mettono in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani e bisogni. A causa di queste aspettative le persone soffrono ancora prima di entrare in relazione con gli altri oppure compiono azioni che da un lato impediranno loro di realizzare tali desideri, dall’altro non indurranno gli altri a rispondere in modo positivo.

Il paziente teme la critica e l’abbandono e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto e utilizza l’evitamento e il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza, nonché la costante paura della perdita.

Questa formulazione del caso in TMI è un principio di partenza per creare un piano terapeutico che abbia come scopo iniziale il miglioramento della comprensione di sé e in seguito il cambiamento dei processi cognitivo-affettivi sottostanti i problemi di personalità.

La TMI adotta una procedura formalizzata passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti e promuovere la metacognizione fino a quando cominceranno a vedere le proprie descrizioni delle relazioni interpersonali come pattern interiorizzati e non più come riflessi della realtà.

In terapia, quindi, il paziente è aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e abusato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

Il caso di Roberto

Roberto ha 37 anni ed è sieropositivo da 10. È libero professionista di successo, organizza eventi. Sul lavoro non si risparmia, possiede uno spiccato senso artistico, è instancabile e molto scrupoloso. Dal momento della diagnosi, molte cose sono cambiate nella sua vita, soprattutto dal punto di vista relazionale. Roberto è omosessuale, non frequenta nessun partner e non ha mai dichiarato a nessuno la propria sieropositività, neanche in famiglia. Quando esce dallo studio, si dedica a lunghe passeggiate solitarie sul lungomare della sua città, ogni sera cammina sotto le stelle ascoltando musica, anche per gestire l’insonnia. Poi, a notte fonda, ritorna a casa, dove vive con i genitori. Ha un padre sofferente, affetto da morbo di Parkinson, ex grande lavoratore ma severo e capace solo di lunghi silenzi e una madre con qualche acciacco, da sempre ritenuta il perno dell’intero sistema familiare, ma dipinta come invadente, un po’ opprimente, spesso critica.

Gli chiedo come mai ha deciso di farsi seguire presso il nostro ambulatorio e non nella città in cui vive. Risponde: “Non lo so, quando mi hanno comunicato che ero sieropositivo nel primo ambulatorio, sono svenuto. Sono rimasto a terra, non mi ha raccolto nessuno. Non lo so perché, ma dopo un po’ di tempo –dopo qualche anno– ho preferito cambiare ambulatorio. Dottoressa mi promette che lei non mi abbandonerà mai?”.

Fin dai primi colloqui Roberto è estremamente educato, riferisce di essersi sentito stigmatizzato e discriminato presso l’ambulatorio della sua città d’origine, ma non riporta l’episodio o le parole incriminate. Semplicemente ricorda di essere svenuto alla notizia senza fare cenno all’emozione provata, ricorda qualche sguardo invadente, nessuno che lo raccoglie da terra.

In seduta è esageratamente gentile, chiede sempre scusa per dei ritardi che non ha mai commesso, ringrazia per il tempo concesso e l’attenzione.

Il processo di Assessment rivela un disturbo di personalità evitante e dipendente e sotto soglia i tratti passivo aggressivo e depressivo. È alessitimico al test TAS-20, e mostra una lieve inibizione emotiva alla Emotional Inhibition Scale (solo la scala della timidezza risulta patologica). La DERS (Difficulties in Emotion Regulation Scale) mostra anche disregolazione emotiva. Infine sono emersi numerosi schemi cognitivi disfunzionali allo Young Schema Questionnaire: abbandono, deprivazione affettiva, invischiamento relazionale, sottomissione, autosacrificio. I test su ansia e depressione sono nella norma.

Non affronta l’argomento della sieropositività, o perlomeno la sua richiesta di aiuto non è apparentemente centrata su questo tema: “Sono venuto per parlare di una relazione. Mi frequento con un ragazzo da un po’. È il primo dopo tanto tempo… In realtà non ci frequentiamo esattamente, ci siamo conosciuti su una chat”.

Il problema di Roberto è l’eccessivo controllo della chat. Invaghito di questo ragazzo, che non ha mai incontrato, ma con cui intrattiene lunghe conversazioni e scambi di foto su whatsapp, nell’ultimo periodo ha accusato a suo dire un eccessivo bisogno di controllarlo online, di controllare che non sia connesso se non con lui e che risponda immediatamente a ogni suo messaggio, anche banale. Ha sofferto per delle risposte non ricevute (online), questo lo ha portato a manifestare una certa ossessività nell’utilizzo del cellulare, con ripercussioni sulla sua attività lavorativa e con perdita di serenità.

Gli chiedo se desidera incontrarlo. Nonostante le distanze, se davvero sono coinvolti, si può decidere di iniziare a frequentarsi. Sarebbe il caso di vedersi e capire se si piacciono, non solo virtualmente. Racconta di non essere interessato a una reale relazione, che in questo momento della sua vita, per scelta, preferisce vivere l’incontro con l’altro solo attraverso la chat. Certo sì, desidera conoscerlo davvero, ma in realtà immagina il loro incontro come un momento fugace in cui vedersi per poi rimanere esclusivamente in contatto online.

È chiaro che Roberto nasconde in questo momento le sue reali paure a vivere la relazione desiderata, e probabilmente non intende parlarne ancora in seduta. Tuttavia, è ben visibile il desiderio di incontrare questa persona. Ciò lo smuove anche fisicamente, lo attiva visibilmente nonostante le sue caratteristiche: immobilità fisica e particolare lentezza. Proprio in questi giorni, la nave da crociera in cui lavora il ragazzo fa approdo al porto di Bari. Ne approfitto per proporgli un esercizio comportamentale precoce per interrompere l’evitamento e il rimuginio (Dimaggio et al., 2019) e lo invito a conoscere il ragazzo e capire cosa succede (sempre se lui è d’accordo). Potrebbero incontrarsi lì, la nave da crociera dovrebbe infatti fermarsi alcuni giorni. Il tempo di conoscersi e capire se davvero ne vale la pena di soffrire per lui, per i messaggi a cui non risponde.

Mi spiega di non avere particolari problemi a conoscerlo, anzi di averne curiosità e poi ribadisce che nella sua vita non ci sono grandi cose da risolvere, a eccezione dell’eccessivo controllo delle chat. “Per il resto tutto risolto. Sì, tutto risolto… La storia dell’omosessualità e della sieropositività sono risolte. Il mio psicoanalista (ci sono andato per 2 anni dopo la notizia della sieropositività), ha detto che non ne devo parlare più, che io sono nato omosessuale e che non c’è niente da capire… che non devo più parlare di quella storia di mio fratello…  poi la sieropositività è venuta dopo, è stata con il mio primo ragazzo. Mi ha detto di togliere il preservativo e io l’ho fatto… e ora mi trovo così”.

Difficile rispettare il divieto di accesso di Roberto, di non parlare più della storia di suo fratello: “Me l’ha detto lo psicoanalista precedente. Non c’è più bisogno di parlarne”.

L’esperimento comportamentale di incontrare il ragazzo della nave da crociera si rivela utile. Roberto prenota un B&B a Bari la sera prima dell’arrivo della nave, porta con sé dei dolci e la mattina seguente se la dà a gambe levate. Decide, preso dal panico, di far arrivare a bordo solo i dolci, pagando una persona estranea, e di scappare prima di conoscere il ragazzo. È un episodio che ci permetterà molte riflessioni e servirà a rivelare uno dei principali nuclei del suo schema interpersonale.

“Dottoressa, ma come potevo presentarmi? Mi vede??? Sono goffo, tozzo, grasso, più imbranato di Paperino… e poi? Mi piace, mettiamo che lui è completamente cieco e mi vuole… iniziamo a frequentarci seriamente e poi… ah scusa dimenticavo, sono sieropositivo. Per te è un problema?

Gli ho fatto pervenire i dolci, così almeno avrà un buon ricordo di me… e finiamo qui questa stupida storia. Per me è impossibile credere ancora in una relazione normale, sono un marchiato”.

Neurotecnologie per il potenziamento delle Risorse Umane

Le neurotecnologie possono essere strumenti utili per migliorare il benessere di contesti specifici, come quello aziendale e organizzativo.

 

La Rivoluzione digitale ha modificato non solo il nostro modo di vivere, fornendoci strumenti sempre più all’avanguardia, ma questi strumenti possono essere utilizzati anche in pratiche specialistiche, come la riabilitazione neuropsicologica. Quando si parla di riabilitazione neuropsicologica (Umphred & Lazaro, 2012) si fa generalmente riferimento a terapie o interventi che mirano a favorire un recupero, parziale o totale, di funzioni cognitive compromesse (Barnes, 2003) o ad aiutare il paziente nel compensare i deficit attraverso strategie adeguate (Carr & Shepherd, 2010).

Partendo da questa definizione, il presente contributo mira a comprendere come le neurotecnologie possono essere strumenti utili anche in assenza di una compromissione ed essere dei potenti mezzi per migliorare il benessere di contesti specifici, come quello aziendale e organizzativo. Un esempio efficace di neurotecnologia sono le lenti prismatiche (Di Garbo et al., 2015), dispositivi che si fondano sull’idea di terapia digitale. Nel loro funzionamento, le lenti diventano un artefatto di mediazione per “trasportare” la persona all’interno di Serious Game, dei giochi seri che incrementano specifiche funzioni cognitive, come la memoria, il linguaggio e l’attenzione. Attraverso il gioco, quindi, procedendo per livelli, corrispondenti a degli obiettivi terapeutici, la persona impara divertendosi.

Neurotecnologie in azienda

Questo principio dell’imparare divertendosi può essere molto efficace anche in contesti in cui non si hanno necessariamente intenti riabilitativi, come quello aziendale. Proporre un intervento con neurotecnologie in azienda rientra nelle strategie di potenziamento e, di conseguenza, di miglioramento del benessere delle Risorse Umane. Nello specifico, il potenziamento delle Risorse Umane non può essere definito in termini assolutistici come “l’essere in continua evoluzione” (Arya e Tandon, 1998). Ad oggi, quando si parla di potenziamento, si fa riferimento “al conferimento o al raggiungimento di un livello notevolmente più elevato, soprattutto per quanto riguarda l’efficienza e la produttività” (Bothma, 2012).

In questo panorama, infatti, tramite le neurotecnologie, come le lenti prismatiche, si possono progettare interventi basati sull’ascolto dei bisogni dell’organizzazione e delle singole Risorse Umane, pianificando sessioni orientate a questi bisogni e fornendo follow up individuali e reportistica aziendale. L’idea di fondo, infatti, dell’unione tra neurotecnologie e contesto aziendale è che, migliorando le potenzialità e il benessere delle Risorse Umane, si migliora anche il clima organizzativo.

Interventi concreti con le neurotecnologie in azienda possono essere orientati a diversi obiettivi. Si pensi, ad esempio, agli effetti della sindrome da long-COVID (Taribagil, Creer & Tahir, 2021) sulle Risorse Umane. Affaticamento persistente, mal di testa, brevi perdite di memoria, calo dell’attenzione incidono inevitabilmente sulla performance del lavoratore, impattando, in senso più ampio, sul clima aziendale o della singola business unit. Affiancare il lavoratore in un percorso di potenziamento delle facoltà cognitive in calo a causa del long-COVID con l’impiego di neurotecnologie, in maniera divertente, può essere una strategia efficace per migliorare il benessere individuale e aziendale, ma soprattutto per prendersi cura delle Risorse Umane.

Neurotecnologie e psicologi aziendali

In quest’ottica di potenziamento delle Risorse Umane attraverso le neurotecnologie, qual è il compito del team psicologico multidisciplinare? Gli psicologi, in qualità di consulenti aziendali, hanno il ruolo di facilitare i processi di potenziamento, mediando tra le organizzazioni e le singole Risorse Umane, ascoltando attivamente i bisogni. Conclusa la fase di analisi dei bisogni, è compito del neuropsicologo fornire delle soluzioni ad hoc, prospettando all’organizzazione diverse strategie di intervento tramite le neurotecnologie. Ad esempio, nel caso delle lenti prismatiche, è possibile potenziare in modo mirato le capacità attentive e di concentrazione dei dipendenti di un’azienda che devono svolgere attività ripetitive, che richiedono l’esecuzione monotona di determinate sequenze d’azione (come chi si occupa di selezionare prodotti al nastro trasportatore). In questo caso, allenare l’attenzione con lenti prismatiche e Serious Games permetterebbe di migliorare il livello di queste funzioni cognitive e, in seguito, di trasferire tali benefici nelle attività lavorative. La pianificazione delle varie opzioni in termini di obiettivi di potenziamento e di numero di sessioni consente, in conclusione, di fornire supporto alle Risorse Umane, attraverso colloqui di follow up e rilasciando alle organizzazioni una reportistica dettagliata sugli interventi effettuati e sulle possibilità di impatto sul clima aziendale.

Il team multidisciplinare composto dal neurospicologo e dallo psicologo del lavoro diventa, infine, un punto di riferimento importante per le aziende, in quanto, con la loro esperienza, da un lato, nell’utilizzo e nell’interpretazione dei risultati delle sessioni neurotecnologiche e, dall’altro, con la conoscenza dei processi aziendali, può supportare nel potenziamento individuale e organizzativo.

 

La realizzazione di sé nella prospettiva di Carl Rogers 

Perché ad un certo punto della sua parabola vitale il processo di realizzazione di sé si arresta e il locus delle scelte e delle valutazioni si sposta dall’interno all’esterno?

 

Γένοιο οἷος εἷ.

Divieni ciò che sei.

Nell’Etica Nicomachea (I,8) Aristotele suddivise i beni della vita umana in: beni esterni, beni dell’anima e beni del corpo. Schopenhauer apportò alcune modifiche concettuali alla tripartizione aristotelica definendo queste tre macro-aree:

  • Ciò che uno è: vale a dire la personalità, nel senso più ampio del termine. Rientrano in questa categoria i seguenti beni: la salute, la forza, la bellezza, il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza e la sua educazione.
  • Ciò che uno ha: vale a dire, proprietà e possessi.
  • Ciò che uno rappresenta: questa espressione, come è noto, vuol dire «ciò che uno è nella rappresentazione altrui»; si tratta dunque, veramente, del modo in cui egli viene rappresentato dagli altri. Ciò che uno rappresenta consiste, quindi, nell’opinione che gli altri hanno di lui, e si suddivide in onore, rango e fama (A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 23).

Il filosofo di Danzica non ha alcun dubbio circa il fatto che i beni appartenenti al primo gruppo, ciò che uno è, siano i più importanti per il benessere dell’uomo:

E senza dubbio, per il benessere dell’uomo – anzi, per ogni aspetto della sua esistenza -, ciò che più conta è, evidentemente, quanto è in lui stesso o avviene entro lui; ciò determina, direttamente, il suo stato interiore di benessere o di malessere, in quanto risultante, senza altri interventi, dalle sue facoltà: sentire, volere e pensare, mentre tutto quello che è esterno non ha su quello stato, che un’influenza indiretta (ibidem). 

Per quanto siano importanti e, addirittura, imprescindibili per il benessere psicologico e la serenità interiore, i beni appartenenti al primo gruppo, che pure c’interessano così da vicino, non conseguono direttamente dal fatto stesso di esistere perché, come ha giustamente osservato il filosofo italiano S. Natoli, l’uomo deve appropriarsi della propria vita realizzandola al massimo delle sue possibilità e, per far questo, deve agire attivamente su se stesso:

La vita l’abbiamo ricevuta e la possiamo perdere, tuttavia dal momento in cui abbiamo preso a esistere siamo vita e perciò tendiamo naturalmente a conservarci e a espanderci: siamo e abbiamo potenza a esistere. D’altra parte, nulla sussisterebbe se non fosse nella condizione di conservare se stesso. Tuttavia nulla di ciò che esiste è potenza infinita. Se così fosse nessuna determinazione perirebbe. Noi uomini, in quanto entità singolari, siamo potenze finite e per valorizzare al meglio la potenza che siamo dobbiamo saperla amministrare, divenirne padroni. [Questo e non altro significa appropriarsi della propria vita]. La vita, infatti, non è un semplice fluire, ma è un fiorire di forme e di forme viventi. E noi siamo una di queste. Per questo una vita – come già insegnava Aristotele – può definirsi riuscita se realizza la propria forma. Per farlo è necessario scoprire le nostre propensioni e latenze, e attivarle: in breve dobbiamo apprendere a padroneggiare la vita e, più esattamente, a divenire padroni di noi stessi (S. Natoli, L’edificazione di sé, pp. 8-9).

Nel significativo passo appena citato, il filosofo italiano sottopone alla nostra riflessione almeno tre temi di fondamentale importanza sia sotto il profilo genuinamente filosofico, sia sotto il profilo della prassi terapeutica di matrice rogersiana:

  • La vita (quella umana soprattutto) non è potenza infinita che si autorealizza spontaneamente.
  • Per autorealizzarsi l’uomo deve faticosamente appropriarsi della sua vita.
  • Per appropriarsi della sua vita l’uomo deve imparare a conoscersi perché “quanto più guadagniamo cognizione dei processi che ci determinano, tanto più riusciamo a essere liberi” (ivi, p. 8).

Se l’uomo fosse “potenza infinita” sarebbe superfluo conoscersi e risulterebbe inutile ogni prassi psicoterapeutica perché non ci sarebbero più esistenze bloccate, disturbate e dirottate verso condizioni inessenziali ed inautentiche. Ogni uomo diventerebbe naturalmente e, quindi, spontaneamente ciò che è destinato ad essere. Ma l’uomo, non essendo “potenza infinita”, ma anzi caratterizzandosi per la sua fragilità e per le sue insicurezze deve, ad ogni piè sospinto, lottare contro una serie di condizionamenti (interni ed esterni) per realizzare la sua forma, sbloccando e superando situazioni difficili, in vista di un avvicinamento a quel Sé ideale che rappresenta la condizione di benessere per ogni uomo. Ad ogni passo, inoltre, tutti gli uomini devono conquistare maggiore consapevolezza sulla loro natura.

Carl Rogers e la realizzazione di Sé

Quasi certamente Carl Rogers avrebbe apprezzato il passo di Natoli, anche se, con ogni probabilità, avrebbe specificato che a ben vedere c’è, nella parabola evolutiva della vita umana, un periodo in cui la vita fluisce liberamente in accordo ai piaceri e ai bisogni dell’individuo e in cui le cose esterne (condizionamenti, obblighi ecc.) sono messi in secondo piano rispetto a ciò che per lui, in quel preciso momento, risulta importante: il periodo in questione è compreso tra la prima infanzia e la tarda fanciullezza.

In questo particolare periodo della vita umana, spiega Rogers, “il locus del processo di valutazione è chiaramente dentro di lui” (Carl Rogers, Da persona a persona, p. 21):

A differenza di molti di noi, egli sa ciò che gli piace e non gli piace, e l’origine di queste scelte di valori è nettamente dentro di lui. Egli è il centro del processo di valutazione; e la prova delle sue scelte gli è data dai propri sensi. Egli non è a questo punto influenzato da ciò che i genitori pensano debba preferire, o da quello che dice la Chiesa, o dall’opinione dell’ultimo ‘esperto’ del campo, o dai persuasivi pareri di un’agenzia di pubblicità. È dall’interno della propria esperienza che il suo organismo dice in termini non verbali: “Questo è buono per me”, “Questo è cattivo per me”, “Questo mi piace”, “Questo non mi piace per niente”. Egli riderebbe della nostra preoccupazione riguardo ai valori, se potesse capirla. Come può una persona non sapere ciò che le piace e ciò che non le piace, ciò che è bene per lei e ciò che non lo è? (ivi, pp. 21-22).

Ma perché, allora, ad un certo punto della sua parabola vitale il processo di realizzazione di sé si arresta e il locus delle scelte e delle valutazioni si sposta dall’interno all’esterno? In altri termini: perché ad un certo punto l’uomo rinuncia alla sua fiducia in se stesso ignorando quella “saggezza fisiologica” che il bambino assecondava spontaneamente e naturalmente?

La risposta di Carl Rogers è che ad un certo punto della sua parabola vitale il giovane comincia ad “introiettare” una serie di valori fissati da altri così poter «ricevere amore» e apprezzamenti come ricompensa di un “giusto comportamento”. Il giovane comincia a rinunciare a se stesso per adeguarsi ad un quadro assiologico (im)posto da altri e che funge da modello “oggettivo” del comportamento. Ecco un esempio:

Anche se forse non a livello consapevole, un ragazzo avverte di essere più amato e valutato dai genitori se prevede di divenire medico, piuttosto che un artista. Gradualmente egli introietterà i valori connessi all’essere un medico. Giungerà a volere soprattutto essere un medico. Poi all’università rimane sconcertato dal fatto di essere ripetutamente bocciato in chimica, materia assolutamente necessaria per divenire medico, malgrado lo psicologo scolastico lo rassicuri sulla sua capacità di superare quell’esame (ivi, p. 22). 

Quest’esempio diventa davvero emblematico se lo si ricollega alle illuminanti riflessioni di U. Galimberti che, in “Psiche e techne”, ha giustamente rilevato come nell’età della tecnica l’individuo non trova più la sua identità nella sua anima ma nella sua “professionalità” (U. Galimberti, Psiche e techne, p. 557). Se non si dà, nell’età della tecnica, “altra soggettività se non quella prodotta dall’apparato tecnico nella forma della competenza” (ivi, p. 558) è vero allora che ogni forma di “approdo umanistico” dell’esistenza umana viene messa fuori gioco e l’uomo diventa straniero a se stesso, viene, in altri termini, deidentificato (ivi, p. 563). Nel “regime della funzionalità”, spiega ancora Galimberti, le “psicologie dell’adattamento” sono diventate egemoni:

Questo spiega perché egemoni diventano nell’età della tecnica quelle psicologie dell’adattamento il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all’apparato. Non diversamente si spiega il declino della psicoanalisi come indagine sul proprio profondo, e il successo del cognitivismo e del comportamentismo. Il primo per aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie dissonanze cognitive in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il secondo per adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto “originale” della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche. Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’“autenticità”, l’“essere se stesso”, il “conoscere se stesso”, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della saluta dell’anima, diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico (ivi, p. 657-658).

Tra l’orizzonte dispiegato dalle riflessioni di Galimberti e le tematiche affrontate da Carl Rogers il passo è breve. Nel passo appena letto, il filosofo non fa altro che rilevare quella “deidentificazione” dell’uomo che Rogers, da un’altra prospettiva, comprende a partire dallo spostamento del locus di valutazione dall’interno all’esterno dell’uomo. Non è un caso, infatti, che l’illustre psicologo statunitense, nella sua lista di valori introiettati dall’uomo contemporaneo (C. Rogers, Verso un moderno approccio ai valori, pp. 23-24), citi una serie di cose riconducibili al “regime della funzionalità” a cui fa riferimento Galimberti, e che s’impongono all’uomo così intensamente da fargli dimenticare che non tanto ciò che uno ha, ma ciò che uno è (distinzione di Schopenhauer), è la causa del benessere interiore:

La maggior pare di questi valori è introiettato da altri individui o gruppi significanti per l’individuo, ma sono considerati da lui come propri. 

La fonte o locus della valutazione sulla maggior parte degli argomenti risiede al di fuori di lui. 

Il criterio attraverso il quale vengono fissati questi valori è la misura in cui faranno sì che l’individuo sia amato o accettato. 

Queste preferenze ideali o non sono affatto collegate, o non sono ben collegate al processo di esperienza dell’individuo. 

Vi è spesso un’ampia e non riconosciuta discrepanza tra i dati di realtà forniti dall’esperienza dell’individuo e questi valori ideali. […]

Se l’individuo ha assorbito dalla comunità il concetto che il denaro è il sommo bene, e dalla Chiesa il concetto che l’amore per il prossimo è il valore massimo, non ha alcun modo di scoprire quale delle due cose abbia maggior valore per lui (C. Rogers, Verso un moderno approccio ai valori, p. 25). 

“Lui”, la sua identità, la possibilità della sua realizzazione risultano interamente compromesse laddove il “valore dei soggetti viene definito dai dispositivi che li organizzano” (S. Natoli, L’edificazione di sé, p. 63). L’allontanamento da sé, l’appassimento delle proprie possibilità inespresse, “l’impersonalità della serie” che destina l’uomo alla deidentificazione costituiscono quella serie di elementi eziopatogenetici che la terapia centrata sul cliente cerca, invece, di invertire in vista di un ritorno genuino e riconciliante al Sé in quanto fulcro esistenziale e snodo principale delle forze spirituali che attendono di essere liberate per realizzarsi in un progetto compiuto di vita.

Un passo interessantissimo dell’opera di Carl Rogers che, in conclusione, riconferma dal punto di vista non più filosofico ma terapeutico quanto scritto fino a questo punto è il seguente:

[Nel corso della terapia] appare chiaro che si verifica un movimento dai sintomi al sé. L’esplorazione del cliente in un primo momento tocca svariati aspetti, ma a poco a poco viene concentrandosi sempre di più sul sé. Che tipo di persona sono? Quali sono i miei veri sentimenti? Qual è il mio vero sé? La conversazione è centrata sempre più su questi argomenti. Non soltanto c’è movimento dai sintomi al sé, ma dall’ambiente al sé e dagli altri al sé. Cioè il cliente manipola verbalmente la sua situazione, dedicando parecchio tempo all’analisi sia degli elementi diversi ed estranei al sé, sia di quelli che sono dentro lui stesso. A poco a poco egli arriva a esplorare prevalentemente se stesso fino quasi a escludere ciò che non fa parte del sé (C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, pp. 128-129).

Un consapevole “ripiegamento su di sé” finalizzato al ristabilimento del contatto dell’uomo con la sua esperienza interiore – come nell’infanzia – e il trasferimento del locus di valutazione dall’esterno all’interno dell’individuo appaiono come gli unici rimedi per ricostruire dai frammenti sparsi e, si spera, non annichilati, quell’identità perduta la cui assenza è motivo di indicibili sofferenze. In conclusione si può affermare che lo splendido verso di D. Walcott, “Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io”, coglie perfettamente il cuore della terapia rogersiana finalizzata alla restituzione dell’uomo a se stesso.

 

Credenze metacognitive e online gaming negli adolescenti: valutazioni psicometriche di una scala di valutazione su un campione di adolescenti iraniani

La scala Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS) è uno strumento self-report per l’assessment delle credenze metacognitive relative al gaming online. In un recente articolo, Akbari e colleghi (2021) hanno valutato le caratteristiche psicometriche della MOGS, la struttura fattoriale e la validità predittiva in un campione di adolescenti iraniani.

 

Gaming disorder: criteri diagnostici, outcomes e motivazioni

L’OMS ha inserito il Gaming Disorder nella bozza dell’ICD-11, nella sezione delle Dipendenze Comportamentali, mentre il DSM-5 ha introdotto nella sua terza sezione, assieme al Gioco d’Azzardo Patologico, anche la Dipendenza da videogiochi (Esposito, Serra, Guillari, Simeone, Sarracino, Continisio, Rea; 2020).

La Dipendenza da Videogioco si caratterizza per l’utilizzo eccessivo e persistente di Internet, o semplicemente di un dispositivo che non necessita la connessione Internet (personal computer, tablet, smartphone), per giocare online/offline (Feng, Ramo, Chan, Bourgeois; 2017); essendo una condizione clinica che necessita ulteriori approfondimenti, i criteri diagnostici per l’Internet Gaming Disorder sono stati formulati prendendo come riferimento quelli del Gioco d’azzardo patologico, del Disturbo da uso di sostanze e del Disturbo del controllo degli impulsi.

Secondo gli standard DSM-5, almeno 5 su 9 tra i seguenti criteri diagnostici devono essere presenti, per un periodo di 12 mesi, per porre diagnosi: Preoccupazione eccessiva riguardo al gioco su Internet; Sintomi di malessere quando non si gioca o quando si è impossibilitati a giocare (astinenza); Tolleranza, ovvero necessità di aumentare il tempo impiegato a giocare; Tentativi numerosi, vani e infruttuosi di ridurre il gioco su Internet; Perdita di interesse nello svolgimento di attività prima piacevoli; Uso eccessivo dei giochi nonostante la consapevolezza delle problematiche psicosociali che comporta; Utilizzo dell’inganno sulla quantità di tempo impiegata a giocare; Utilizzo del gioco per allontanare uno stato d’animo negativo; Mettere a rischio relazioni, lavoro e opportunità formative a causa del gioco su Internet.

Secondo una metanalisi (Fam, 2018) la prevalenza dell’Internet Gaming Disorder tra gli adolescenti è del 4%. L’Internet Gamimg Disorder negli adolescenti è correlato a esiti psicopatologici negativi e difficoltà comportamentali (Fioravanti, D`ettore, & Casale, 2012; Milani et al., 2018), tra cui depressione e ansia e problemi nel controllo degli impulsi.

Vi sono diversi fattori implicati nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza da videogiochi (Marino et al., 2020).

Ad esempio, esaminare le motivazioni di gioco appare essere uno step cruciale per capire come il videogioco (online o offline) possa trasformarsi in una dipendenza (King & Delfabbro, 2009; Moudiab & Spada, 2019). Tra le diverse motivazioni che avvicinano l’individuo al gaming online ritroviamo il bisogno di connessione sociale, il desiderio di evadere dalla realtà, la spinta competitive, l’uso del gioco come modalità di coping in relazione a emozioni negative e distress, lo sviluppo di abilità, distrazione e rilassamento (Demetrovics et al., 2012).

Online gaming e credenze metacognitive

Così come per altri disturbi psicopatologici anche in relazione al fenomeno dell’online gaming eccessivo, disfunzionale e problematico, le credenze metacognitive possono essere un fattore da prendere in considerazione connesso all’esordio e al mantenimento della sintomatologia.

Con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo; alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema; alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995). Le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994): i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti. A volte capita che queste metacredenze, sia che abbiano natura positiva che negativa, portano gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali.

Spada e Caselli (2017) hanno messo a punto uno strumento self-report per l’assessment delle metacredenze relative al gaming online: la Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS). Le analisi statistiche hanno identificato un modello a tre fattori. Un primo fattore fa riferimento alle credenze metacognitive positive riguardo il gaming online (fattore P-MOG): queste credenze esprimono i benefici percepiti dal soggetto nell’utilizzo del gioco online come strategia di coping per regolare stati cognitivo-affettivi, come ad esempio “Giocare rende le mie preoccupazioni più gestibili”. Un secondo fattore è riferito alle credenze metacognitive negative (N-MOG 1) riguardo l’incontrollabilità del gaming online, come ad esempio “Non riesco a smettere di giocare anche se penso che sarebbe meglio farlo” oppure “Non ho controllo sul tempo che impiego a giocare”.  Il terzo fattore invece è relativo credenze metacognitive sulla pericolosità del gioco online (NMOG2).

Accanto ad altri fattori predittivi sopra citati, anche la tipologia di credenze relative a una modalità di gioco online disfunzionale e disadattivo sembrano essere importanti predittori sia per l’online gaming problematico sia per il vero e proprio Internet Gaming Disorder (Moudiab & Spada, 2019; Marino & Spada, 2017).

Le credenze relative al gaming disfunzionale possono condurre il soggetto a una persistenza eccessiva e a un ipercoinvolgimento nel gaming digitale (Forrest, King, & Delfabbro, 2017; Marino & Spada, 2017). Inoltre, tali credenze possono influenzare la sovrastima delle ricompense e delle attività di gioco.

Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS)

In un recente articolo Akbari e colleghi (2021) hanno preso in considerazione la scala Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS) con l’obiettivo di valutarne le caratteristiche psicometriche e la struttura fattoriale e la validità predittiva in un campione di adolescenti iraniani.

La scala è stata somministrata a 769 adolescenti iraniani, di cui 577 di genere maschile, con un’età media di 16 anni, all’interno di un range di età compresa tra 15-19 anni. I partecipanti allo studio hanno compilato, oltre alla scala in questione, anche altri questionari tra cui il Big Five Inventory-10, e il Problematic Online Gaming Questionnaire (POGQ) e altre scale che misurano i sintomi ansioso-depressivi.

I risultati delle analisi fattoriali sul campione di adolescenti iraniani hanno confermato una struttura fattoriale a tre fattori: “Metacognizioni negative riguardanti l’incontrollabilità dell’online gaming” (N-MOGU), “Metacognizioni negative riguardanti la pericolosità dell’online gaming” (N-MOGD) e  “Metacognizioni positive sull’online gaming” (P-MOG).  Inoltre, la versione in lingua persiana della scala MOGS e testata su un campione di adolescenti iraniani ha dimostrato una buona affidabilità e un’adeguata coerenza interna per i diversi fattori e nel complesso.

Un secondo e interessante obiettivo dello studio era verificare se le credenze metacognitive sull’online gaming, per come misurate dalla scala MOGS, potessero predire il gaming online problematico. Partendo dai dati raccolti sul campione di adolescenti iraniani, un’analisi di regressione gerarchica ha dimostrato che i punteggi nella scala MOGS erano in grado di predire il 33.9% della varianza nei punteggi relativi al gaming online problematico, indipendentemente da fattori quali i tratti di personalità, sintomi ansioso-depressivi e motivazioni di gioco.

Questi risultati sono in linea con altri studi recenti che mettono in evidenza come le credenze metacognitive siano in grado di predire le modalità disfunzionali del gaming online indipendentemente dalle motivazioni che portano l’individuo a giocare (Marino et al., 2020). In generale tale risultato è leggibile all’interno del modello metocognitivo delle dipendenze (Spada et al., 2015) secondo cui sarebbe rilevante la metacredenza dell’incontrollabilità dei pensieri e del comportamento nel predire i comportamenti disfunzionali nell’ambito delle dipendenze. In tal senso, lo studio di Akbari et al. (2021) ha dimostrato che il fattore N-MOGU gioca un ruolo significativamente maggiore rispetto alle altre variabili considerate nel predire i punteggi della Problematic Online Gaming Questionnaire, ovvero la scala che valuta le modalità di gioco online problematico e disfunzionale.

In conclusione, i risultati dello studio supportano a livello empirico anche l’utilizzo della versione persiana del MOGS negli adolescenti iraniani, essendo uno strumento valido dal punto di vista psicometrico per identificare, rilevare e misurare le credenze metacognitive relative all’online gaming in un framework di prevenzione e trattamento dei suoi aspetti disfunzionali.

 

La logica e i meccanismi che guidano il ragionamento

La logica è stata oggetto di interesse di diverse discipline, dalla filosofia, alla matematica, alla psicologia. Il termine logica deriva dal greco “logos” che indica sia pensiero che parola; in italiano tuttavia non esiste una parola che metta insieme questi due significati, pertanto è necessario scegliere di volta in volta quale significato si vuole attribuire (Mosconi, 1990). 

 

Ma quali sono le regole che guidano il ragionamento ed il pensiero?

Di seguito si riportano alcuni principi fondamentali relativamente alla logica e al pensiero (Mosconi, 1990):

  • il pensiero “logico”, cioè il pensiero considerato corretto sia nel procedimento sia nella conclusione, non è oggetto di studio psicologico;
  • l’oggetto di studio psicologico è il pensiero logicamente imperfetto;
  • la ricerca psicologica sul pensiero necessita di un modello extrapsicologico “sicuro”, come la logica;
  • il campo della logica e il campo del pensiero si sovrappongono, cioè la logica copre tutto il pensiero.

Ragionamento induttivo e ragionamento deduttivo

 La psicologia del ragionamento individua due tipi fondamentali di inferenze: quelle deduttive e quelle induttive. Nelle inferenze deduttive si giunge ad una conclusione implicita e prevista nelle premesse, cioè a un’informazione che abbiamo già e che viene messa in luce dal processo deduttivo, nelle inferenze induttive, invece, la conclusione aggiunge un’informazione alle premesse.

Le inferenze si basano su due principali regole, che permettono di giungere a una conclusione valida date certe premesse, la regola del modus ponens e la regola del modus tollens, e a ciascuna di esse si lega un tipo di errore.

La regola del modus ponens indica che date certe premesse valide, si può giungere a una conclusione valida se si conferma l’antecedente; ad essa si lega la fallacia della negazione, cioè date certe premesse valide, nulla consegue dalla negazione dell’antecedente.

La regola del modus tollens, invece, indica che date certe premesse valide, si può giungere ad una conclusione valida se viene negata la conseguente. L’errore collegato è quello di fallacia dell’affermazione della conseguente, che evidenzia come, date certe premesse valide, nulla ne consegue all’affermazione della conseguente. Spesso le persone non rispettano le regole del modus ponens e del modus tollens e incorrono negli errori appena descritti (Caruso, 2020).

Logica e sillogismi

Parte della ricerca sul pensiero e sulla logica si è concentrata sull’utilizzo dei sillogismi, cioè problemi costituiti da due frasi come premesse e una come conclusione.

Un esempio di sillogismo può essere il seguente (Mosconi, 1990):

  • A è più alto di B
  • B è più alto di C
    Chi è il più alto?

Gli studi sui sillogismi prevedono di sottoporne diverse varianti ad ampi numeri di soggetti sperimentali e, tramite questa procedura, è stato possibile osservare come non sempre le persone giungano alle conclusioni esatte, cioè non sempre ragionino correttamente. Tali errori si verificano in particolare quando i sillogismi contengono del materiale rilevante a livello emotivo e sono influenzati da quanto la persona concorda o meno con la conclusione proposta: il fatto di approvare il contenuto di una conclusione induce più facilmente a giudicarla come corretta anche quando logicamente non lo sarebbe; mentre il fatto di disapprovarne il contenuto induce più facilmente a rifiutare la conclusione, anche se logicamente valida (Mosconi, 1990).

Logica e compiti di selezione

Quali sono gli schemi logici che guidano il ragionamento?

Wason e Johnson-Laird hanno studiato come le persone si muovono per riuscire a capire cosa guida il loro ragionamento.

A tal proposito è esplicativo l’esperimento utilizzato da Wason, che prende il nome di “compito di selezione”. In questo esperimento venivano presentate quattro carte ai soggetti, con la seguente regola: “Se una carta ha una vocale da una parte, allora ha un numero pari dall’altra parte”, chiedendo quali carte fosse necessario girare per poter stabilire se la regola fosse corretta o meno. Sulle carte, dal lato visibile al soggetto, erano riportati: E-K-4-7. La risposta corretta era quella di girare la prima (E) e la quarta carta (7), infatti la regola sarebbe stata dimostrata falsa solo nel caso in cui ci fosse stata una vocale da una parte della carta e un numero dispari dall’altra parte.

Quindi la strategia corretta non è ricercare conferme, ma i possibili casi che falsificano la regola. Solamente il 4% dei soggetti ha risposto correttamente, le persone tendono a preferire un tipo di ragionamento che porta alla ricerca di conferme piuttosto che alla falsificazione, cadendo così in errore (Mosconi, 1990).

Logica ed euristiche

Un altro elemento essenziale per comprendere il funzionamento della mente umana è prendere atto di come il cervello tenda a utilizzare delle scorciatoie di pensiero che rendono più rapido il ragionamento, le euristiche. La disfunzionalità di questo meccanismo risiede nella loro rigidità e inflessibilità, che possono condurre a errori.

Se tali errori di ragionamento si verificano sistematicamente, possono causare problemi, costituendo la base di pensieri e credenze disfunzionali poco realistiche che determinano sofferenza emotiva. Sull’identificazione e la messa in discussione di queste distorsioni cognitive a favore di pensieri più realistici, adattivi e funzionali al nostro benessere si basa la psicoterapia-cognitivo comportamentale (Fiore, 2015).

 

Come diventare indistraibili (2020) di Nir Eyal – Recensione

La corretta gestione del nostro tempo è oggi una priorità per raggiungere non solo obbiettivi di rilevanza personale, ma anche per allinearsi a standard produttivi di maggiore efficacia ed efficienza. Questo è il tema del testo di Nir Eyal “Come diventare indistraibili”.

 

Dobbiamo imparare come evitare le distrazioni –scrive l’autore– […] per vivere la vita che vogliamo non basta fare le cose giuste, bisogna anche non fare le cose che sappiamo rimpiangeremo di aver fatto.”

I fattori coinvolti nella capacità di mantenere la focalizzazione sul raggiungimento di un obiettivo di rilevanza personale sono molteplici: la motivazione, la passione, il metodo, la rilevanza di quell’obiettivo per noi stessi. Tutti però sembrano fortemente condizionati da un fattore che spesso appare sfuggire al controllo soggettivo: la distraibilità.

Le fonti di distrazione sono molteplici, sia interne che esterne a noi: sembra a tratti che la nostra capacità di mantenere la concentrazione sull’esecuzione di un compito (sia esso lavorativo, di studio o personale) sia costantemente minata da elementi di distrazione che depotenziano la nostra capacità produttiva. Ciò implica impiegare molto più tempo del necessario per realizzare un compito e a questo si aggiunge una fatica, a volte esasperante, nel farlo. Ne consegue spesso un senso di profonda frustrazione e il conseguente indebolimento della motivazione.

Il testo di Nir Eyal propone alcune strategie per ottimizzare il tempo che dedichiamo ad attività dove è necessaria una buona concentrazione.

L’autore definisce “trigger” le fonti di distraibilità e nello specifico ritiene che questi trigger possano essere di due tipi:

  • interni, generati cioè dai nostri processi cognitivi e dalle nostre emozioni;
  • esterni, ovvero connessi alle numerose fonti di distrazione presenti nell’ambiente in cui viviamo (telefonate, messaggi, mail, web, colleghi, etc).

Per la gestione e il controllo dei trigger esterni l’autore propone alcune strategie ispirate al modello di matrice comportamentale dell’autore B. J. Fogg, psicologo e padre della captologia, la scienza che spiega come computer e algoritmi possano essere usati per modificare abitudini e credenze nelle persone. Esistono secondo l’autore metodi pratici per manipolare la tecnologia e l’ambiente fisico in modo da eliminare i trigger esterni inutili. Alla base della metodica suggerita vi è il presupposto che la tecnologia debba essere funzionale al raggiungimento dei nostri obiettivi produttivi e non sfavorevole o di intralcio ad essi. Da qui un’ampia parte del libro è dedicata a strategie operative su come difendersi dalle interruzioni sul lavoro, dalle mail, dalle chat di gruppo, dalle riunioni, dallo smartphone, dagli articoli on line, etc.

La parte forse più suggestiva del libro riguarda l’analisi dei processi psicologici alla base della distrazione. Secondo l’autore per imparare a gestire la distrazione occorre “capire i motivi reali per cui facciamo cose che vanno contro il nostro stesso interesse”. Per meglio comprendere questo concetto l’autore immagina una linea che rappresenta il valore delle azioni che compiamo nel corso di una giornata: a destra si trovano le azioni positive per la nostra produttività, a sinistra quelle negative. Lungo questa linea, all’estremo destro si trova la trazione, ovvero la forza che ci spinge nella direzione delle azioni che vogliamo compiere. All’estremo opposto, sulla sinistra, vi è la distrazione, una forza definita come “stato del pensiero rivolto altrove” che ci impedisce di progredire verso la serie di obiettivi che riteniamo rilevanti per la nostra vita.

La trazione ci avvicina, mentre la distrazione ci allontana da essi.

Rifacendosi alla filosofia epicurea, secondo l’autore anche se pensiamo di cercare il piacere distraendoci, in realtà ciò che ci spinge a distrarci è il desiderio di liberarci dalla sofferenza. “La pulsione a ridurre il disagio è la causa ultima di tutto il nostro comportamento”.

Alla luce di questa premessa la distrazione sarebbe pertanto una strategia che la nostra mente utilizza per gestire il dolore. Ne segue che imparare a gestire la distrazione significa imparare a gestire il disagio.

Ma qual è la natura di questo disagio e della sofferenza da cui cerchiamo di liberarci distraendoci?

Quattro sono i fattori che rendono a tratti spiacevole e faticoso mantenere la concentrazione e che ci recano disagio.

  • La noia: restare fermi e concentrati senza compiere azioni fisiche e concentrarsi sullo stesso argomento per un tempo prolungato favoriscono l’insorgere della noia. Essa rappresenta uno stato d’animo, indefinito ma sgradevole, da cui la mente tenta di liberarsi compiendo azioni concrete o cercando nuove fonti, esterne al compito prefissato, su cui focalizzare l’attenzione.
  • Il bias della negatività: gli eventi negativi per la nostra mente sono più significativi di quelli positivi o neutri. Pertanto se durante una sessione di lavoro subentra la noia, essa sarà a livello cognitivo più rilevante del piacere derivato dal portare a termine il compito nel più breve tempo possibile. Ne segue che liberarsi dalla noia diventa più rilevante che “sacrificarsi” per ottenere il risultato finale.
  • La ruminazione: si tratta della tendenza a continuare a pensare alle cose spiacevoli accadute, senza possibilità di interrompere intenzionalmente questo flusso di pensiero. La ruminazione porta a rendere preponderanti i pensieri relativi agli sbagli o errori commessi nel passato. Così facendo la ruminazione depotenzia la nostra capacità di rimanere focalizzati sul qui e ora: pensieri negativi e spesso auto sabotanti monopolizzano e assorbono la nostra attenzione.
  • L’adattamento edonico: si tratta della tendenza a tornare a un livello base di soddisfazione indipendente da quello che ci succede. Ciò significa che siamo particolarmente suggestionabili di fronte a quegli eventi che promettono un benessere, anche se solo temporaneo.

Se percepiamo noia, fatica, frustrazione siamo particolarmente inclini a ricercare stimoli esterni che ci riportino a uno stato, seppur momentaneo, di piacere.

Imparare a gestire questi quattro fattori sostiene la concentrazione e promuove le azioni che ci spingono verso il raggiungimento degli obiettivi che ci siamo posti.

Nel testo l’autore propone quindi una serie ampia di strategie (diario, stabilire dei patti, etc.) utili nella gestione del disagio e del dolore che si frappongono fra noi e il raggiungimento dei risultati.

La stessa metodica viene anche estesa, nella seconda parte del libro, a contesti più ampi: l’educazione alla gestione dei fattori di distrazione nei bambini, nelle relazioni interpersonali, incluse quelle di coppia, e infine nei contesti di lavoro.

Conoscere i processi sottostanti ai fenomeni psicologici da cui ci sentiamo condizionati e che sono di ostacolo al nostro percorso consapevole di crescita è il primo passo per imparare a gestirli.

Questa gestione richiede essa stessa impegno e dedizione, tuttavia la sua pratica può rendere più fluidi e meno faticosi quei frangenti in cui la concentrazione è messa alla prova.

Avere strumenti di maggiore comprensione sul perché ci distraiamo sostiene l’acquisizione di comportamenti più adattivi e congrui con le richieste di studio e lavoro: essere parte parte attiva nel controllo dei trigger interni ed esterni ci rende più efficaci nel nutrire quella motivazione che essi, così frequentemente, minano.

 

Come scegliere l’apparecchio per l’aerosol

Avere in casa dispositivi medici adeguati è fondamentale. Tra questi, rientra la macchina per l’aerosol. Utile in caso di affezioni alle alte vie respiratorie, può essere utilizzato sia dai grandi, sia dai piccoli.

 

Quando si chiama in causa questo macchinario, è importante rammentare il fatto che, se non lo si sceglie con la giusta attenzione, il rischio è quello che il suo uso risulti poco confortevole, con tutte le conseguenze del caso per quanto riguarda il ritardo nella risoluzione del problema di salute.

Oggi come oggi, in commercio esistono diverse soluzioni da considerare quando si tratta di scegliere l’apparecchio per l’aerosol. Ci sono prodotti di diverse tipologie e dimensioni e, per chi vuole avere la garanzia di acquistare aerosol ai migliori prezzi, vi sono numerosi e-commerce specializzati e autorizzati – p.e. DrMax.it – che consentono di acquistare il macchinario senza sacrificare né la qualità, né il portafoglio.

Come orientarsi quando arriva il momento di scegliere concretamente? Scopriamolo assieme nelle prossime righe.

Le caratteristiche dell’ampolla

L’ampolla è uno dei principali componenti della macchina per l’aerosol. A seconda delle proprie esigenze, ci si può focalizzare su una tipologia di ampolla piuttosto che su un’altra. Ecco le soluzioni in commercio:

  • Ampolla classica: conosciuta anche come ampolla a effetto Venturi, è apprezzata per via della velocità di nebulizzazione che garantisce.
  • Ampolla Breath Enhanced: in questo caso, oltre alla nebulizzazione di qualità, si può apprezzare un contenimento dello spreco del farmaco.
  • Ampolla in grado di modificare le particelle, soluzione adatta nelle situazioni in cui si ha a che fare con affezioni a carico delle vie respiratorie basse.

Aerosol pneumatico: pro e contro

Quando si parla di aerosol pneumatico, si inquadra una soluzione che funziona grazie a una miscela tra aria e farmaco. Quest’ultima viene ottenuta attraverso la spinta del flusso d’aria, a seguito dell’applicazione di un’alta pressione, nell’ampolla.

Quali sono i pro e i contro di questo prodotto? Per quanto riguarda i vantaggi, ricordiamo il suo essere robusto e più economico rispetto agli altri modelli. Inoltre, è in grado di nebulizzare tutti i farmaci, dalle soluzioni fino alle sospensioni.

Cosa dire, invece, in merito agli svantaggi? Che il principale riguarda il suo essere molto lento, palesemente più lento, per esempio, dei modelli a membrana, di cui parleremo nelle prossime righe.

Aerosol a ultrasuoni e aerosol a membrana: ecco cosa sapere

Tra le varie tipologie di aerosol disponibili in commercio, è possibile includere quelli a ultrasuoni e quelli a membrana perforata. Nel primo caso, si ha a che fare con vantaggi come la velocità, la silenziosità, il peso ridotto (caratteristica che rende questa tipologia di aerosol ideale per chi ha una casa piccola). I contro dell’aerosol a ultrasuoni vendono in primo piano la facilità al guasto. Inoltre, questi aerosol non nebulizzano tutte le tipologie di farmaci, trovando particolari difficoltà soprattutto quando si utilizzano i farmaci a sospensione. Da non dimenticare è anche il costo elevato.

Cosa bisogna sapere in merito agli aerosol a membrana perforata? Vediamo prima di tutto il loro funzionamento. Tutto si basa sul percorso del liquido contenente il farmaco che, grazie a un processo di pressione generato grazie a una corrente elettrica, attraversa una membrana caratterizzata dalla presenza di piccoli fori, trasformandosi in una miscela di particelle che entrano poi a contatto con le vie respiratorie dell’utilizzatore.

I vantaggi riguardano la velocità, anche in questo caso la silenziosità e l’ingombro contenuto. Caratterizzati da un alto livello di efficienza, gli aerosol a membrana perforata costano decisamente più degli altri modelli.

Concludiamo rammentando l’importanza degli accessori, in particolare della mascherina. Quest’ultima deve essere scelta avendo cura che sia ben aderente al viso e che non ci siano via di fuga per l’aria nebulizzata. Queste peculiarità sono cruciali soprattutto quando si ha a che fare con l’utilizzo del macchinario da parte dei
bambini.

 

Il “Disegno della Famiglia” nei bambini vittime di abuso

Il Disegno della Famiglia consiste in uno strumento psicodiagnostico di facile somministrazione che consente al soggetto di esprimere pensieri e sentimenti inibiti vissuti nei confronti del sé e del gruppo familiare, di mettere in evidenza la sua collocazione all’interno del nucleo familiare, le relazioni oggettuali che ha interiorizzato e strutturato e che sono alla base dei rapporti attuali con i vari componenti della famiglia.

 

Il Test del Disegno della Famiglia

Il disegno ha una lunga storia nell’ambito della psicologia clinica e dello sviluppo in quanto rappresenta uno strumento efficace per valutare aspetti cognitivi, affettivi ed emotivi del bambino attraverso una modalità che risulta essere per lui meno minacciosa rispetto al canale verbale (Camisasca, 2003; Ionio e Procaccia, 2006).

In letteratura è stato evidenziato come il disegno possa rappresentare un valido ausilio, in ambito terapeutico o giuridico, per comprendere il mondo interno del bambino e favorire l’espressione delle esperienze vissute, soprattutto quelle caratterizzate da intense emozioni di rabbia, paura e vergogna che possono ostacolare una verbalizzazione diretta, come accade per i bambini vittime di abuso e maltrattamento, permettendogli così di muoversi in un “territorio” meno ansiogeno (Camisasca, 2003; Ionio e Procaccia, 2003). Il disegno, infatti, colorandosi di emozioni e sensazioni personali (Thomas e Silk, 1998), fornisce un’immagine grafica delle rappresentazioni mentali del bambino e permette l’emergere del suo contesto relazionale interiorizzato (Giani Gallino, 2000), inteso come costruzione di rappresentazioni interne, dove si connettono elementi reali ed elementi proiettivi (Tambelli et al., 1995).

In particolare, nei casi di maltrattamento e abuso infantile, il Test del Disegno della Famiglia può essere considerato uno strumento di indagine clinica e di ricerca particolarmente significativo (Veltman e Browne, 2002; Piperino e Di Biasi, 2005; Ionio e Procaccia, 2006).

Il Test del Disegno della Famiglia è stato introdotto negli Stati Uniti da Hulse (1951, 1952) e in Europa da Poròt con la consegna di disegnare la propria famiglia; successivamente Corman (1967), considerato l’autore di questo strumento, Shearn e Russell (1970), Castellazzi (1996), Timbelli, Zavattini e Mossi (1995) modificarono il linguaggio della consegna richiedendo la rappresentazione di “una famiglia”, al fine di superare i meccanismi di difesa del bambino e favorire l’emergere delle sue rappresentazioni interne, della famiglia interiorizzata che non necessariamente corrisponde a quella reale.

Il Disegno della Famiglia consiste in uno strumento psicodiagnostico di facile somministrazione che consente al soggetto di esprimere pensieri e sentimenti inibiti vissuti nei confronti del sé e del gruppo familiare, di mettere in evidenza la sua collocazione all’interno del nucleo familiare, le relazioni oggettuali che ha interiorizzato e strutturato e che sono alla base dei rapporti attuali con i vari componenti della famiglia, facilitando la rilevazione di conflitti familiari da parte del clinico (Ionio e Procaccia, 2003; Piperino e Di Biasi, 2005).

Il test non prevede limiti temporali stabiliti e presenta molteplici e diverse possibilità di interpretazione dei dati emersi che scaturiscono da ipotesi precise circa la relazione tra stimolo (linguaggio di consegna) e la proiezione delle dinamiche affettive.

Come interpretare il Disegno della Famiglia

Seguendo le indicazioni di Corman (1967) e Castellazzi (1996) il disegno può essere interpretato in relazione a tre livelli: grafico, delle strutture formali e di contenuto.

Il livello grafico fa riferimento alle modalità in cui i soggetti utilizzano la matita che diventano rivelatrici di tendenze pulsionali e delle qualità delle relazioni interiorizzate del soggetto con parti del sé e con i membri della famiglia.

Il livello formale, invece, fa riferimento alla collocazione, la dimensione, la staticità o il movimento delle rappresentazioni e gli stili di esecuzione, che nell’insieme, forniscono un’immagine della famiglia nella sua globalità.

Per quanto concerne il livello di contenuto il referente è la teoria psicoanalitica di riferimento. Corman propone di considerare tre dimensioni fondamentali: la composizione della famiglia, la posizione in cui si colloca il soggetto in relazione agli altri familiari, la valorizzazione o svalorizzazione dei personaggi.

Questo strumento di osservazione e codifica delle relazioni interiorizzate può essere utilizzato in ambito clinico, di ricerca e in ambito giuridico e consente di conoscere attraverso un canale privilegiato l’immagine che il bambino ha di sé, degli altri, di sé con gli altri e in particolare, in situazioni di abuso e maltrattamento, può rivelarsi uno strumento che facilita il ricordo e la verbalizzazione di esperienze traumatiche, nonché uno strumento di valutazione diagnostica.

La letteratura indica infatti la possibilità di riscontrare indicatori grafici tipici di bambini gravemente abusati, maltrattati o trascurati suggerendo però, al tempo stesso, cautela nella generalizzazione in quanto non si può basare la diagnosi di abuso esclusivamente sulla base della produzione grafica del bambino (Vetlman e Browne, 2002).

Il Disegno della famiglia nei bambini vittime di abuso

Diversi autori hanno cercato di analizzare le diverse caratteristiche del “Disegno della famiglia” nei soggetti vittime di abuso, cercando di individuare elementi strutturali che potessero essere indicativi dell’abuso subito e, in particolare, della percezione di esso da parte del bambino (Ionio e Procaccia, 2003).

Tali studi, che hanno preso in considerazione variabili grafiche, formali e di contenuto, mettono in luce, innanzitutto, che i bambini che non hanno vissuto esperienze di abuso tendono in maniera sufficientemente superiore, rispetto ai bambini vittime di abuso, a disegnare spontaneamente la propria famiglia, indice di relazioni positive con almeno uno dei genitori. Nei bambini abusati, invece, le forti disfunzioni nei legami portano spesso a ricorrere a meccanismi di difesa, quali l’evitamento e lo spostamento, che si esprimono nella maggiore tendenza a rifiutare di rappresentare graficamente la propria famiglia o a rappresentare famiglie di amici o di animali (Ionio e Procaccia, 2006).

Nei bambini vittime di violenza, oltre all’omissione frequente di sé, del genitore abusante o dell’intero nucleo familiare reale, è frequente l’introduzione di animali o elementi estranei come coetanei che potrebbero rappresentare la confusione circa i confini del nucleo familiare e il desiderio di evitamento di sentimenti dolorosi scaturiti dalla relazione familiare (Piperino e Di Biasi, 2005).

Tra le diverse caratterestiche del disegno sono state analizzate la pressione esercitata sul foglio, la tipologia di tratto e delle linee e la presenza di ombreggiature, cancellature, annerimenti, l’uso del colore, l’utilizzo dello spazio, la collocazione dell’intero gruppo familiare, le dimensioni del disegno, la direzione del gruppo familiare, la staticità e il movimento, la presenza di una linea di terra o sopra i personaggi (Ionio e Procaccia, 2006).

Dagli studi effettuati si constata che sebbene sia difficile individuare un’unica modalità di rappresentazione grafica comune a tutti i bambini vittime di abuso e maltrattamento (in quanto ogni bambino di fronte alla specificità della situazione abusante potrebbe mettere in atto strategie differenti nell’affrontare l’evento traumatico proiettato nei suoi disegni con modalità altrettanto differenti), da quanto emerso nella letteratura sul tema, è possibile individuare alcuni elementi a cui prestare particolare attenzione durante l’analisi delle rappresentazioni grafiche infantili, in quanto potrebbero costituire un “campanello d’allarme” di cui bisogna tener conto e che lo psicologo dovrebbe approfondire (Ionio e Procaccia, 2006).

È dunque possibile asserire che test grafici come il Disegno della Famiglia e l’analisi dei relativi aspetti grafici, formali e di contenuto rappresentino un valido supporto nel processo di individuazione delle problematiche emotive legate all’abuso, al maltrattamento e alla trascuratezza di minori, ma anche nell’individuazione di dinamiche relazionali particolari che possono essere patogene per lo sviluppo del bambino (Camisasca 2003).

 

Come l’aria in un abbraccio (2022) di Gallucci – Recensione del libro

“Come l’aria in un abbraccio” è un libro che fa da bussola a tutti quei genitori disorientati o impauriti dal coming out dei propri figli, in modo semplice ed onesto, grazie anche a varie testimonianze.

 

“Come l’aria in un abbraccio. Storie di genitori con figli e figlie lesbiche, gay, bisessuali, trans e queer” nasce dalla collaborazione del dottor Pier Luigi Gallucci, psicologo psicoterapeuta, e la onlus AGedO di Torino, con l’obiettivo di aiutare e accompagnare i genitori di persone LGBTQ+ lungo tutto il cammino che segue il coming out dei propri figli. Fin dalla sua nascita nel 1992, grazie alla lungimiranza della fondatrice Paola Dall’Orto, la onlus AGedO (Associazione Genitori di Omosessuali) si è posta l’obiettivo di supportare quei familiari di persone LGBTQ+ che ne avessero bisogno.

Con questo libro, l’autore cerca di rispondere proprio a domande e dubbi che la maggior parte dei genitori di persone LGBTQ+ portano.

Un libro che fa da bussola a tutti quei genitori disorientati o impauriti dal coming out dei propri figli, in modo semplice ed onesto, grazie anche a varie testimonianze, come quella di Luciana, dove emergono una serie di emozioni: il senso di colpa per non aver saputo capire il proprio figlio, il timore per le difficoltà che potrebbe incontrare, e lo scomodo disagio per ciò che conoscenti e amici avrebbero potuto dire circa l’orientamento sessuale di suo figlio. E poi la rinascita, sia dei genitori che delle relazioni familiari, grazie alla condivisione di tutte queste emozioni con gli altri componenti del gruppo AGedO di Torino.

La struttura del libro

Nel primo capitolo vengono spiegate le componenti dell’identità sessuale, anche grazie all’aiuto del Genderbread Person (qui la versione tradotta dal gruppo fluIDsex della Sigmund Freud University). I non addetti ai lavori hanno modo di imparare le caratteristiche del sesso biologico, dell’identità di genere, degli orientamenti affettivi e sessuali, e dell’espressione di genere, con varie parentesi circa l’età in cui l’identità sessuale ha maggiori cambiamenti: l’adolescenza. Oltre ai classici compiti evolutivi (es. avere maggiore autonomia), l’adolescente LGBTQ+ ha due compiti evolutivi specifici: costruire la propria autostima e identità sessuale positiva confrontandosi costantemente con un ambiente ricco di stereotipi, ed effettuare continui coming out.

Nel secondo capitolo, “La stanza dei figli. Il coming out visto dalle famiglie”, vengono illustrati i vari cambiamenti e reazioni al coming out da parte della famiglia, tramite la presentazione di modelli teorici come quello sul coming out di Vivienne Cass (1979) e il modello di Michael LaSala (2010), il quale unisce il punto di vista individuale con quello dei genitori. Viene, inoltre, dato spazio alle varie modalità in cui può avvenire il coming out (per esempio, comunicazione diretta tramite una lettera) e alle reazioni dei genitori. Viene poi illustrato come il coming out inneschi un processo simile a quello descritto da Kübler-Ross (1969) degli stadi dell’elaborazione del lutto, dato che viene meno l’immagine che il genitore aveva rispetto al/la figliӘ. E infine, il processo di coming out che i genitori stessi dovranno affrontare: i timori di eventuali reazioni negative, la vergogna, l’omobitransnegatività interiorizzata, l’aspettativa di rifiuto e molti altri processi dovuti principalmente al minority stress (ovvero lo stress cronico che le persone appartenenti a categorie sociali stigmatizzate sperimentano a causa dell’interazione con il gruppo maggioritario il quale le discrimina e vittimizza; Meyer). Come scrive il dott. Gallucci, “l’obiettivo diventa quindi lo stesso dei propri figli e figlie: riuscire ad accettarsi e a essere accettati per quello che si è, anche come famiglia”.

Successivamente, nel terzo capitolo, anche grazie alle varie testimonianze, viene dato spazio all’importanza dei gruppi come AGedO i quali forniscono un importante supporto emotivo, ed educativo, ai genitori.

“Si comincia a trovare prima il coraggio e poi la tranquillità di comunicare ad altre persone che il proprio figlio è gay o la figlia lesbica o bisessuale, trans o queer. Ci si scopre orgogliosi di loro, di come hanno saputo essere forti con se stessi e nel rivendicare il diritto al rispetto e alla felicità” (p. 96).

Infine, nel quarto capitolo, il lettore può trovare risposte alle domande che spesso i genitori di persone LGBTQ+ si pongono dopo il coming out, come: “Quali sono le cause dell’omosessualità? L’orientamento sessuale dipende dalle dinamiche famigliari?”, “In che cosa abbiamo sbagliato? È colpa nostra come genitori?”, e molte altre.

In conclusione, “Come l’aria in un abbraccio” è un libro di facile lettura che consente a genitori e familiari di persone LGBTQ+ di trovare risposte e uno spazio accogliente. il quale aiuta a validare e normalizzare eventuali timori, spesso retaggio della natura eterornomativa della società italiana.

Un libro che spiega in modo semplice e puntuale cosa voglia dire essere genitori di persone LGBTQ+, quali sono le sfide che i figli vivono e quali, invece, quelle che si vivono da genitore.

 

I contenuti fitspirational di Instagram e il rapporto con il proprio corpo

Il tipo di contenuti a cui si è esposti sui social network è uno dei fattori che può contribuire, insieme ad altri fattori di rischio, allo sviluppo di body surveillance, social comparison tendency e body dissatisfaction: infatti, gli utenti che seguono più assiduamente profili di celebrities, fitspiration e beauty sono più propensi a sviluppare outcomes disfunzionali che riguardano il rapporto con il proprio corpo e con il confronto costante con gli altri.

 

Social network e immagine corporea

Passando da blog e social network, negli anni si è arrivati allo sviluppo di social media il cui contenuto è prevalentemente audiovisivo; in quest’ottica è inevitabile che siano avvenute delle modificazioni nel pensiero comune, e negli elementi costituenti di diverse culture. Infatti, come sostiene Vittadini (2018), la costruzione di un proprio profilo all’interno di una comunità virtuale è emblema della propria esistenza, all’interno di una specifica rete virtuale di contatti. Tramite la performance, ovvero i contenuti che decidiamo di condividere con gli altri utenti, mostriamo una rappresentazione del nostro sé. In quest’ottica performativa non può che generarsi pressione sociale a ottenere sempre maggior consenso e approvazione, tramite la ri-condivisione.

I profili degli utenti sono strumenti di gestione delle impressioni su di sé nell’ambito delle relazioni sociali, tramite la messa in scena della propria identità, dell’analisi degli effetti suscitati negli interlocutori e del miglioramento della propria presentazione, al fine di ottenere il risultato desiderato (Marwick, 2005; boyd, 2008).

Questo processo di presentazione di sé è mediato dall’utilizzo di filtri e sistemi di modificazione, come per esempio Photoshop, al fine di alterare ciò che è ritenuto un difetto fisico, ed esaltare ciò che invece si reputa un pregio. Infatti, come sostiene Boyd (2008), proviamo a fornire un’immagine che sembra ricondurre alla nostra vita offline, ma in modo più controllato e mediato rispetto alla vita quotidiana. Gli utenti sono portati a mettere costantemente a confronto il proprio comportamento e stile di vita con la gamma di comportamenti socialmente condivisi sulle piattaforme social, che vengono diffusi solo in base al livello di popolarità acquisita.

Secondo Vittadini (2018) “Le piattaforme rendono misurabile l’indice di popolarità dei singoli utenti (…) premiando con una maggiore visibilità gli utenti con più followers, commenti o likes e i contenuti che sono in grado di generare reazioni immediate da parte degli utenti” (p. 86).

Social network e disturbi alimentari

Secondo Dakanalis, Clerici et al. (2012), i mass media giocano un ruolo importante nello sviluppo dei disturbi alimentari, prevalentemente nelle culture occidentali. Infatti, sono considerati uno dei più forti trasmettitori di pressione sociale alla magrezza, la quale viene considerata sinonimo di bellezza e apprezzamento. Con lo sviluppo dei nuovi social media appearance focused, come Instagram, che veicolano immagini raffiguranti prototipi di bellezza priva di imperfezioni, si sono costituiti rapidamente canoni estetici estremamente irrealistici e difficilmente raggiungibili. Secondo Fardouly et al. (2018) il tipo di contenuti a cui si è esposti è uno dei fattori che può contribuire, insieme ad altri fattori di rischio, allo sviluppo di body surveillance, social comparison tendency e body dissatisfaction: infatti, gli utenti che seguono più assiduamente profili di celebrities, fitspiration e beauty sono più propensi a sviluppare outcomes disfunzionali che riguardano il rapporto con il proprio corpo e con il confronto costante con gli altri.

In un’ottica dominata dalla desiderabilità sociale, viene automaticamente messo in atto un processo di interiorizzazione dei canoni di bellezza trasmessi dai media, con i quali si tende a confrontare il proprio livello di adeguatezza e che influisce inevitabilmente sull’idea che il soggetto ha di se stesso e della propria immagine corporea e sui suoi comportamenti alimentari (Dakanalis, Clerici et al., 2012). I canoni di bellezza estremamente stereotipati, se interiorizzati, possono diventare motore di confronto costante e ipervigilanza sul proprio corpo, i quali, a loro volta, possono mediare il rapporto con l’insoddisfazione per la propria forma fisica e la spinta alla magrezza. In sintesi, tutti questi elementi elencati possono essere considerati fattori mediatori che predispongono all’esordio di un disturbo alimentare negli individui più propensi a paragonare il proprio corpo con quello degli altri, poiché in essi potrebbe generarsi più facilmente body dissatisfaction, drive for thinness e in ultimo lo sviluppo di un disturbo alimentare (Holland & Tiggemann, 2017). Infatti, comportamenti atti a modificare drasticamente la propria forma fisica (e.g.: esercizi fisici, dieting e purging), se perpetrati in modo eccessivo, possono diventare potenzialmente dannosi.

Gli effetti della fitspiration

Uno studio del 2021 ha evidenziato come l’esposizione a contenuti di fitspiration avesse un impatto nettamente negativo sulla soddisfazione per la propria forma fisica, l’umore generale e, in un ultimo, sintomi veri e propri legati ai disturbi alimentari. In questo studio, infatti, un gruppo di studentesse universitarie è stato esposto a contenuti di fitspiration, mentre un altro gruppo è stato esposto a contenuti relativi a viaggi; ebbene, le ragazze che avevano osservato solo foto di viaggi sono risultate drasticamente meno inclini a mettere in dubbio la propria forma fisica e il proprio grado di soddisfazione rispetto ad essa. Inoltre, in questo studio è emerso come, non solo l’essere esposti, ma anche il postare in prima persona contenuti di fitspiration, fosse legato a peggiori outcome correlati a disturbi alimentari e insoddisfazione per il proprio corpo (Rounds & Stutts, 2021). In ogni caso, come numerosi studi precedenti, questo studio ha sicuramente portato alla luce l’innegabile rapporto tra contenuti di fitspiration, che promulgano ideali fisici di magrezza e tonicità estremi, e una accentuata percezione negativa di sé. È comunque importante sottolineare che, per il momento, la letteratura necessita ancora di approfondimenti relativi all’argomento, così da poter delineare in maniera più chiara la direzionalità e causalità del rapporto tra questi fattori.

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