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Stai per commettere un terribile errore (2022) di Oliver Sibony – Recensione

Nel testo “Stai per commettere un terribile errore” l’autore si focalizza sui processi decisionali all’interno dei grandi gruppi e, nello specifico, delle organizzazioni. Nella sua analisi, percorre in maniera fluida, e allo stesso tempo dettagliata, le dinamiche inerenti ai “bias cognitivi” individuali e di gruppo.

 

 Nello specifico, prende in considerazione quanto i bias siano determinanti nelle “decisioni strategiche” e come, nonostante la nostra comune tendenza a “idolatrare i leader delle aziende che hanno successo attribuendo loro caratteristiche di “infallibilità” e “onnipotenza” (teoria del grande uomo al comando), anche questi leader di successo possano commettere errori nei processi decisionali. Inoltre, sempre nell’ottica delle “fallacie cognitive”, in genere abbiamo anche la tendenza ad “attribuire” il fallimento di un’azienda o di un’organizzazione a un singolo (teoria dell’uomo cattivo, come spiega l’autore). C’è quindi la tendenza a definire i buoni e i cattivi decisori sulla base dei buoni e cattivi risultati, il che, oltre ad essere tautologico e circolare, rinforza alcuni bias descritti dall’autore. In particolare, il “bias di conferma”, “l’errore di attribuzione”, “lo storytelling”, il “bias del senno del poi”.

Sibony (2022), oltre a descrivere i vari bias (nel testo chiamate “trappole”), fa una rassegna analitica e narrativa (con esempi ed evidenze sperimentali) delle tecniche utili a regolarne l’impatto. Infatti, una delle idee centrali presentate è che per quanto il nostro “bisogno di controllo” possa risultare intenso e quindi permette di “vincere i bias”, non abbiamo bisogno di ciò. Egli scrive: “Abbiamo limitazioni cognitive che potremmo non essere in grado di superare, ma ci sono organizzazioni che possono rimediare alle nostre carenze” (Sibony, 2022, p. 56). Enfatizza quindi il ruolo della “collaborazione e del processo”, di come sia più facile che i bias vengano individuati da più persone piuttosto che da “un solo decisore” e di come sia fondamentale un buon processo per agire sulle proprie intuizioni. Il gruppo, pertanto può costituire un limite nel caso in cui “i bias sociali” ricoprano un potere prevalente, e non venga dato spazio al dialogo, all’incertezza, alla divergenza e all’accoglienza, tuttavia anche una grande risorsa.

Per questioni di brevità, prenderò in considerazione soltanto alcuni dei bias esposti e delle tecniche per gestirne l’impatto sul comportamento (l’autore fornisce un’appendice abbastanza chiara e schematica di tutti i bias).

Prima è stato fatto accenno ai bias sociali. Vediamoli nel dettaglio. Uno di questi è il “pensiero di gruppo”, dinamica in cui i singoli individui mettono a tacere i propri dubbi e si conformano all’idea prevalente, invece di dissentire. In questo, Sibony (2022) enfatizza l’importanza rivestita dal gruppo, quando abbiamo bisogno di formarci opinioni su problemi complessi e con un margine non indifferente di incertezza. C’è nondimeno il ruolo giocato dall’impressionabilità di fronte a colleghi di cui rispettiamo il punto di vista, gerarchicamente superiori, fonte di un certo “timore reverenziale” e portatori di un forte grado di sicurezza di fronte all’incertezza. In genere, quindi, alla base di questa dinamica di gruppo, vi è la “paura” di possibili ritorsioni all’interno dello stesso gruppo, e, allo stesso tempo, la paura determinata dall’incertezza e da ciò che non può essere previsto. Conformarsi al gruppo, a “un grande Altro” riconosciuto nel gruppo e nell’opinione prevalente, costituisce una modalità per compensare l’angoscia derivante da questi fattori. Detto ciò, Sibony (2022) fa inoltre riferimento a un processo cognitivo automatico che, per adeguamento razionale all’opinione della maggioranza, induce il singolo individuo a cambiare idea. L’autore spiega che, una volta rivelato il consenso di gruppo, questo, insieme alla pressione sociale all’interno di esso, porta gli ingenuamente dubbiosi ad autoconvincersi di ciò che sentono.

Associati al “pensiero di gruppo”, vi sono altri bias, che si rinforzano a vicenda, innescando spesso circoli viziosi a valanga. Tra questi vorrei prenderne in considerazione alcuni, a mio avviso strettamente intercorrelati, quali, la “polarizzazione di gruppo”, la “cascata di informazioni”, il “bias di conferma”, “storytelling”, “il bias di attribuzione” e” l’escalation dell’impegno”, “avversione alla perdita”. La “polarizzazione di gruppo”, inserita da Sibony (2022), all’interno dei “bias sociali” come il pensiero di gruppo, insieme alla “cascata di informazioni”, attivano una situazione apparentemente paradossale, in cui il gruppo risulta meno informato della somma dei suoi membri. Nello specifico, la discussione all’interno del gruppo si focalizza troppo su ciò che è condiviso e ciò che sta in superficie, trascurando invece dettagli potenzialmente importanti. Ogni persona adeguerà il proprio giudizio per tenere in considerazione le opinioni espresse prima, ciò induce i gruppi a conclusioni che sono più estreme del punto di vista medio dei suoi membri e a nutrire maggiore fiducia in esse.

All’interno della polarizzazione di gruppo, vediamo associati anche il “bias di conferma e lo storytelling”.

Si è accennato al ruolo della paura nei confronti dell’incertezza. In generale –afferma Sibony (2022)– quando qualcuno ci racconta una bella storia, la tendenza automatica è di cercare elementi che la avvalorino, piuttosto che informazioni che la smentiscano. Ciò collude con un bisogno umano, ovvero un insaziabile “bisogno di storie”. Ma le storie non sono i fatti. Possiamo avere la tendenza a confermare dei fatti in una storia coerente, specie in situazioni complesse, angoscianti e di forte pressione sociale, e quindi fondere il pensiero con la realtà, arrivando pertanto a identificarci con la storia stessa. Per esempio, Russ Harris (2010), nel libro “La trappola della felicità”, parla del “meccanismo di fusione” con i pensieri in una storia coerente, del nostro prenderli come verità assolute e del nostro crederci senza riserve. Sibony afferma: “È più facile berci una storia che rafforza le nostre opinioni, piuttosto che una storia che ci disorienta e ci mette in discussione” (Sibony, 2022, p. 34). Per esempio, una persona esposta a esperienze ripetitive di rifiuto e abbandono, sarà più facile che abbia radicato internamente credenze basate su queste esperienze e sulla concomitante percezione di sé come “non abbastanza, inadeguato/a” e che abbia sviluppato stati della mente rigidi e ripetitivi che vanno a confermare proprio l’esperienza temuta, raccontandosi pertanto una storia drammatica ma, comunque, prevedibile (in questo vediamo anche il “bias dell’esperienza” in cui l’analogia con situazioni della nostra esperienza, ci porta a ricercare conferme all’esterno e potenzialmente a riproporle) .

L’autore propone anche i cosiddetti “bias dell’inerzia” che, nei processi decisionali, spingono appunto a inerzia e status quo. L’escalation dell’impegno, per esempio, spinge le aziende a salvare “a tutti i costi” azioni fallimentari. In questo, ricoprono un ruolo specifico i costi sommersi e l’avversione alla perdita. Sentiamo una potenziale perdita e fallimento, più intensamente di un guadagno della stessa entità. Di conseguenza, ci troviamo maggiormente spinti a perseverare negli stessi schemi di pensiero, emozione e comportamento e in sterili acting-out controfobici, piuttosto che riconoscere e accettare un fallimento strategico. Sibony scrive: “Molti manager sono paralizzati dalla paura del fallimento. È molto difficile condurre un vero esperimento se non si accetta la possibilità del fallimento” (Sibony, 2022). Egli infatti incoraggia il “diritto di fallire” ma non “il diritto di commettere errori”. E dal mio punto di vista, la logica che segue Sibony (2022) fa riferimento all’accettazione e, quindi, nello specifico caso aziendale, “lasciare andare” le risorse precedentemente investite ma fallimentari e trattarle come “costi irrecuperabili”. Aumentando invece la posta in un corso di azione fallimentare, rischiamo di rimanere intrappolati nel “diritto di commettere errori”, riproponendo pertanto circoli viziosi disfunzionali e alimentando “l’escalation dell’impegno”. L’errore logico dei costi sommersi e dell’escalation dell’impegno, sta quindi nell’impegnare nuove risorse soltanto in funzione di perdite irrecuperabili. Sibony (2022), invece incoraggia a porci questa domanda: “Il risultato atteso giustifica le risorse ulteriori che impegniamo oggi?”

Come accennato all’inizio, la parte finale del testo si focalizza sulle strategie per regolare l’impatto dei bias sui processi decisionali. Viene presentato un elenco di tecniche, descritte in maniera altrettanto narrativa e fluida. In particolare, si focalizza sull’importanza della cooperazione, del dialogo, di accogliere l’incertezza, di incoraggiare i punti di “vista sfumati”, di presentare “storie alternative”. Vediamone qualcuno.

La tecnica delle “storie alternative” risulta molto utile per allentare il potere del bias di conferma, paradossalmente attraverso un altro bias che è “lo storytelling”. In particolare, fa riferimento al generare storie differenti per fatti identici. Ciò incoraggia quello che Winnicott (1979) definisce “gioco con la realtà”, e quindi la possibilità di viaggiare tra stati della mente e aprirsi pertanto a una molteplicità di prospettive. Da qui, vediamo anche la tecnica del “cambiare idea con orgoglio”, dove l’autore incoraggia la flessibilità e l’ambiguità e quindi la possibilità di andare oltre polarizzazioni del pensiero. Scrive: “È magnifico vedere un leader ammettere che una decisione è difficile e potrebbe essere necessario testarla nuovamente” (Sibony, 2022, p. 271). Viene enfatizzata l’importanza di non restare imprigionati nella propria storia e di essere pertanto aperti a narrazioni differenti. Sibony (2022), come accennato, sottolinea l’importanza del “lavoro di squadra”, ponendo però enfasi su un aspetto di fondamentale importanza per la leadership. Egli afferma che, per quanto il team sia essenziale, la decisione finale spetti comunque al leader. Deve fare appello agli altri per combattere i propri bias individuali ma, quando arriva il momento, deve prendersi la responsabilità di decidere. Quindi, è importante la connessione ma lo è altrettanto l’autonomia. In questo, Sibony (2022) suggerisce di “condividere la responsabilità” per la presa di decisioni importanti. In questo caso, viene ridotto il rischio che dominino i bias di un individuo.

Nelle conclusioni viene dedicato un interessante paragrafo alla descrizione di un possibile nuovo modello di leadership. Viene accennata l’importanza del carisma del decisore e delle concomitanti aspettative legate al suo ruolo. Tuttavia, proprio le aspettative alimentano il bias di conferma e l’ancoraggio a posizioni rigide. Sicuramente ci possono essere leader “eccessivamente fiduciosi” che incarnano lo stereotipo di un incrollabile ottimismo, ma ci può anche essere un gruppo che abbia bisogno di riporre una fede incrollabile su un “capo”. Questo però è il processo che sopprime il dissenso e scoraggia il pensiero di gruppo. Un leader che invece si prende la responsabilità della decisione finale ma, al contempo, orchestra un processo decisionale attraverso cui il team produrrà la miglior risposta possibile, abbraccia collaborazione, processo e umiltà come basi per un lavoro di gruppo. L’autore conclude con il “mito di Odisseo”, presentandolo come un possibile modello archetipico di leadership. Odisseo è abbastanza consapevole da conoscere i propri limiti e, quindi, della possibilità di non riuscire a resistere alle canzoni ammalianti delle sirene. Chiede ai suoi marinai di legarlo all’albero, riponendo quindi fiducia nel team e affidando la sua vita nelle loro mani. Dice poi ai marinai di turarsi le orecchie con la cera d’api, rinunciando a dare loro nuove istruzioni. Emerge quindi fiducia, cooperazione e consapevolezza del limite che, se accettato, diventa possibilità per la creazione di nuovi orizzonti.

L’ipotesi della dipendenza comportamentale nell’analisi del caso Jeffrey Dahmer

Per studiare la possibilità che gli omicidi seriali di Dahmer e i crimini correlati avessero una forte componente di dipendenza, sono stati confrontati gli undici criteri del DSM-5 per il disturbo da uso di sostanze (APA, 2013) con i comportamenti e le dichiarazioni note di Dahmer.

 

Il caso Jeffrey Dahmer

 La figura del serial killer ha sempre suscitato interesse nella società umana, questo è evidente dalla sua ubiquità nella letteratura e nel settore cinematografico. Avvistamenti più recenti includono Alex DeLarge in “Arancia Meccanica”, Hannibal Lecter ne “Il silenzio degli innocenti” e Jeffrey Dahmer nella popolare serie tv su Netflix, di cui ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti non è puramente casuale, ma rimanda alla vera storia del serial killer protagonista.

La personalità di Jeffrey Dahmer e la dietrologia relativa i crimini da lui commessi sono stati oggetti di studio per numerosi anni, e la recente ricerca di Lankford e Hayes (2022) si è proposta di esaminare da vicino il noto serial killer per valutare se possa essere stato essenzialmente “dipendente” dagli omicidi seriali e dalle esperienze che ne ha tratto (ad esempio, l’appagamento di parafilie sessuali, il desiderio di controllo, ecc.). Sebbene le spiegazioni di Dahmer per le sue azioni fossero incentrate sui temi dell’ossessione e della compulsione, esse potrebbero non essere state pienamente comprese all’epoca. Dahmer ha ucciso dal 1978 al 1991, è stato condannato nel 1992 ed è stato ucciso da un compagno di cella nel 1994. Da allora, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) è stato sottoposto a molteplici revisioni, tra cui il riconoscimento formale che le dipendenze comportamentali sono simili alle dipendenze da sostanze (Moran, 2013; Potenza, 2014).

Lankford e Hayes nel loro studio del 2022, con l’obiettivo di esplorare l’ipotesi di dipendenza comportamentale per spiegare il caso Dahmer, hanno anzitutto raccolto informazioni da diverse fonti per costruire una cronologia generale della vita di Dahmer, in seguito hanno valutato l’escalation della frequenza e della gravità dei suoi crimini nel tempo. Per studiare la possibilità che gli omicidi seriali di Dahmer e i crimini correlati avessero una forte componente di dipendenza, sono stati confrontati gli undici criteri del DSM-5 per il disturbo da uso di sostanze (APA, 2013) con i comportamenti e le dichiarazioni note di Dahmer.

Dopo aver ucciso la sua prima vittima, si è astenuto dall’uccidere di nuovo per nove anni (FBI, 1991) e, nel momento in cui ha ricominciato a uccidere, il suo tasso di omicidi è aumentato drasticamente fino al suo arresto, in termini di frequenza e gravità dell’atto.

Infatti, l’escalation di gravità del comportamento di Dahmer è chiaramente visibile dalla strutturazione dei suoi omicidi (dal solo omicidio alla conservazione dei corpi o parti di essi, fino al cannibalismo).

Sebbene Dahmer sia morto quasi 20 anni prima che l’American Psychiatric Association riconoscesse formalmente che le dipendenze comportamentali sono affini alle dipendenze da sostanze, ha dichiarato esplicitamente che i suoi impulsi erano “quasi una dipendenza” e ha inoltre affermato che “ha iniziato ad avere questi pensieri ossessivi quando aveva circa 15-16 anni, e sono peggiorati sempre di più” e che “ha cercato di sopprimere i pensieri, ma alla fine ha ceduto” (Inside Edition, 1993).

Gli omicidi seriali come dipendenza

 Al di là delle sue dichiarazioni, quando si utilizzano i criteri del DSM-5 per valutare il tipo estremo di dipendenza comportamentale di Dahmer, egli sembra soddisfarli tutti e undici, ed è possibile osservare una serie di tratti che si sovrappongono tra Dahmer e le persone dipendenti da sostanze (Lankford e Hayes, 2022). Ad esempio, Lankford e Hayes (2022) fanno emergere che Dahmer mentre sperimentava una varietà di comportamenti nel tentativo di appagare i suoi desideri devianti (come alcuni tossicodipendenti sperimentano diverse sostanze o quantità per trovare la loro preferita), alla fine ha scoperto l’unica “droga” che non riusciva a smettere di usare. Per i serial killer, la “droga preferita” potrebbe essere paragonata a delle preferenze specifiche per le loro vittime. La “droga” specifica di Dahmer era costituita da uomini giovani, attraenti e in forma (Gardner, 2018, Masters, 1993). Inoltre, Dahmer portava con sé almeno il cranio di una vittima da tenere nell’armadietto del lavoro (FBI, 1991), il che riecheggia il comportamento dei tossicodipendenti che hanno sintomi di astinenza così forti durante la giornata lavorativa da assumere sostanze in luoghi di lavoro o durante la pausa pranzo. Questo suggerisce anche che la compulsione e la dipendenza di Dahmer non erano necessariamente radicate nell’atto di uccidere in sé, poiché le sue ossessioni, esperienze e rituali si estendevano ben oltre e sembrano avergli procurato un piacere significativo. Ciò sarebbe coerente con l’ipotesi di Griffiths (2019) secondo cui l’omicidio seriale potrebbe essere una dipendenza comportamentale che coinvolge fantasie, “trofei” ed esperienze correlate, nonostante tali individui non uccidano ogni giorno.

Le azioni di Dahmer, secondo gli autori dello studio (Lankford e Hayes, 2022), potrebbero essere dunque coerenti con una forte dipendenza comportamentale, e in quest’ottica la loro escalation di frequenza e gravità nel tempo costituirebbe un esempio da manuale degli sforzi di un tossicodipendente di aumentare le dosi per mantenere l’effetto desiderato.

Se l’omicidio seriale e le esperienze ad esso associate possono creare dipendenza, ciò avrebbe implicazioni anche per il modo in cui comprendiamo altri crimini analoghi, e potrebbe sollevare questioni sugli standard legali attinenti la condanna e la pena di coloro che li commettono.

 

Il mondo emotivo del bambino, tra scuola e autostima – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Il mondo emotivo del bambino, tra scuola e autostima

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri di divulgazione rivolti al pubblico.

Nell’episodio di cui oggi vi proponiamo l’ascolto si parlerà di bambini ed emozioni e si approfondiranno alcuni aspetti: apprendimento, autostima, autonomia, competenze sociali. Particolare attenzione è poi posta ai campanelli di allarme che indicano malessere nei bambini.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Montessori per i genitori di bambini da 3 a 6 anni (2022) di Raffaella Rossi – Recensione

Il libro “Montessori per i genitori di bambini da 3 a 6 anni” si presenta come un manuale di educazione montessoriana per informare sui principi e le proposte educative in famiglia e nei diversi contesti educativi e sostenere i genitori nel loro ruolo

 

 Un libro che si propone come un’esperienza di scoperta e di avvicinamento ai valori dell’educazione montessoriana, permettendo ai genitori di conoscere, esplorare e comprendere il metodo di Maria Montessori in ogni suo aspetto. Il libro, infatti, accompagna nella conoscenza del modello educativo con un linguaggio chiaro e puntuale, garantendo una comprensione profonda della proposta.

La struttura del libro rimanda al triangolo montessoriano che pone in relazione l’interazione tra il bambino, l’ambiente e l’adulto di riferimento, presupponendo sempre il metodo dell’osservazione che, riprendendo il pensiero di Maria Montessori, è il processo che permette di imparare tutto sui bambini. Il filo conduttore, infatti, è da un lato il rispetto del bambino, la sua autonomia, l’attesa nell’intervento per facilitare la sua iniziativa, dall’altro il valore di una posizione osservativa per comprendere l’unicità del proprio bambino, dei suoi bisogni e della sua energia vitale.

Nel libro il bambino diventa un soggetto descritto e analizzato nelle sue caratteristiche di persona in grado di conoscere il mondo, di entrare in relazione con la natura, gli altri e le cose in un ambiente progettato sul piano educativo. Il valore dello spazio nella vita del bambino e, di conseguenza, l’importanza della progettazione dell’ambiente considerato un luogo che risponde ai bisogni del bambino. Lo stesso per la relazione adulto-genitore e bambino che è il presupposto per promuovere la libera espressione delle sue potenzialità, la collaborazione con gli altri e il superamento delle difficoltà individuali e familiari. Il libro si sofferma sulla presenza di esperienze ed esempi di comunicazione positiva che dimostrano la possibilità di gestire i diversi momenti relazionali tra adulto e bambino.

Il libro è suddiviso in cinque parti oltre l’introduzione che presenta la vita di Maria Montessori sottolineandone i principi generali e valorizzando il suo impegno totale verso i bambini. L’autrice si sofferma sul ruolo che Maria Montessori ha avuto nella sua vita e da questa riflessione analizza l’impatto che la proposta educativa montessoriana ha nella scuola e a casa. L’autrice analizza il ruolo del metodo montessoriano nella promozione del benessere emotivo e mentale del bambino con particolare riferimento allo sviluppo dell’autostima, dell’indipendenza e della creatività e alla realizzazione dell’autodisciplina. Una proposta che rappresenta un modello per l’armonia familiare e la formazione di legami di appartenenza.

Il primo capitolo presenta i principi fondamentali del metodo montessoriano e confronta l’educazione tradizionale e l’educazione montessoriana come il rapporto paritario tra adulto e bambino, la fiducia nella motivazione interna, la centratura sul singolo bambino, una visione olistica dello sviluppo, la promozione dell’indipendenza, l’incoraggiamento dello sviluppo della disciplina interna, sino alle riflessioni sulla mente del bambino, sull’ambiente preparato all’accoglienza del bambino. A questo proposito evidenzia l’importanza di essere presenti e disponibili sul piano emotivo, di offrirsi come rifugio sicuro, di prendersi cura di sé, di offrire il giusto equilibrio tra libertà e limiti.

 Il secondo capitolo è dedicato ai bisogni del bambino che sono declinati in funzione del comportamento del bambino sottolineando il valore dell’esplorazione e del movimento, dell’importanza della vita all’aperto, dell’indipendenza e del significato del rischio calcolato in educazione. Vengono toccati aspetti fondamentali del metodo montessoriano come l’apprendimento dall’esperienza, la necessità di progettare spazi e tempi per l’autonomia e l’indipendenza e per la progettazione delle attività di vita pratica che consentono di riflettere sul valore dell’ordine, delle routine. Da questa riflessione l’autrice analizza aspetti specifici dell’educazione familiare come il bilinguismo, il tempo e la concentrazione, il percorso per il controllo sfinterico.

Il terzo capitolo è interamente dedicato alla preparazione e cura dell’ambiente, che comprende sia gli aspetti legati all’osservazione dello spazio in funzione dello sviluppo del bambino, sia la progettazione di ogni stanza in funzione delle diverse routine e delle regole per mantenere l’ordine ed evitare il caos.

Il quarto capitolo si concentra sull’adulto preparato alla relazione con il figlio riprendendo i valori dell’educazione gentile, dell’empatia e del rispetto, della gestione dei limiti e delle regole, dell’importanza delle domande del bambino e delle sue risposte, di “gestire le tempeste emotive”, sino a promuovere esperienze di creatività e resilienza.

Il quinto capitolo è dedicato alle attività Montessori per i bambini dai tre ai sei anni, a cosa scegliere, a come preparare e presentare un’attività nella distinzione tra attività di vita quotidiana, attività per lo sviluppo delle abilità manipolative, attività per lo sviluppo delle abilità grosso-motorie, attività per l’educazione dei sensi, lo sviluppo del linguaggio e della matematica.

Nelle conclusioni l’autrice sottolinea l’importanza di porre il bambino al centro della vita familiare secondo il principio “i bambini prima di tutto” e ricorda a genitori e insegnanti il loro ruolo nella formazione e nel benessere del bambino. A questo proposito si riprende una frase dal libro, esemplificativa di questa importante consapevolezza:

A qualsiasi età, fin da quando sono minuscoli nelle nostre braccia, appena nati e apparentemente inermi, iniziano a comunicare i loro bisogni e la loro personale interpretazione del mondo. Attraverso le mani, il movimento, il pianto, le espressioni del viso, le loro scelte e, solo più tardi, a parole. Dall’ambiente che li circonda, senza dubbio. Quell’ambiente che loro osservano, toccano e assorbono, nel bene e nel male senza alcun filtro e che diventa il termine di paragone per ogni futura avventura nel mondo.  

Perché ci emozioniamo?

Lo psicologo americano Robert Plutchik, ha elaborato la teoria psicoevoluzionistica delle emozioni, in cui le definisce delle risposte adattive all’ambiente. Si attivano istintivamente e il loro scopo è di fornirci informazioni utili a elaborare una risposta agli stimoli che ci arrivano dall’esterno.  

 

Le emozioni in psicologia

 Secondo la psicologia, le emozioni sono la reazione psicofisiologica a uno stimolo che arriva a turbare il nostro equilibrio, creando talvolta situazioni di incertezza e/o disagio. Quando ciò avviene, la natura della nostra mente ci porta a cercare spiegazioni per quello che non conosciamo, di fronte a qualcosa di ignoto cerca quindi di trovare delle risposte e queste, secondo i cognitivisti, determinano la qualità delle emozioni che proviamo.

Le emozioni sarebbero quindi risposte complesse che, di fronte a determinati stimoli, mettono in atto una serie di reazioni sia fisiche che psichiche.

Pro e contro delle risposte istintive

Possiamo dire che le nostre emozioni sono la conseguenza di un’evoluzione che dura da secoli e che le ha programmate nei nostri geni.

La loro funzione è quella di orientare il nostro comportamento fornendoci un impulso che ci prepara all’azione. Essendo generate in modo innato, non richiedono di pensare prima di agire e questo ci consente di rispondere in modo più immediato agli stimoli ricevuti: una cosa che poteva essere utilissima in passato, pensiamo per esempio a quando ci si trovava minacciati da un animale feroce, ma che a volte, nella nostra quotidianità, può creare qualche difficoltà. Immaginiamo i casi in cui controllare l’istinto e usare un po’ di sana diplomazia potrebbero farci ottenere risultati sicuramente migliori.

Emozioni per motivare il comportamento

Le emozioni rispondono a stimoli interni (per esempio, un pensiero) ed esterni (per esempio, qualcuno che ci offende), e assolvono sia una funzione individuale che collettiva.

Individualmente rappresentano una bussola che ci orienta nei processi di ragionamento, giudizio e decisione, in altre parole ci permettono di valutare la situazione per prepararci all’azione.

Da un punto di vista collettivo, servono a soddisfare un’indispensabile funzione comunicativa. La nostra percezione, esplicitata attraverso le espressioni facciali e la postura del corpo, comunica infatti agli altri importanti informazioni su quello che sta accadendo, influenzando a sua volta le reazioni di chi ci sta intorno.

I trigger

A generare le emozioni sono impulsi ambientali detti trigger. Il trigger avvia un processo automatico che si attiva al verificarsi di un determinato evento; all’innescarsi di questo processo si scatenano reazioni di due tipi:

  • emotive (frequenza cardiaca, temperatura, espressioni, attivazione muscolare, ossigeno nel sangue);
  • fisiologiche (cambiamenti verbali, tendenza all’azione, messa in atto di comportamenti specifici, valutazione della natura dello stimolo).

All’insorgere di un’emozione l’organismo organizza quindi una serie di risposte che vanno dai comportamenti specifici collegati all’emozione che si è innescata, alla postura, alla mimica facciale.

Detto questo, è facile capire come la mente possa influenzare il funzionamento del nostro organismo. Un esempio? La paura blocca la digestione. Stimoli che arrivano dal cervello influiscono sul funzionamento del corpo senza che vi sia un apparente nesso tra i due.

La funzione sociale delle emozioni

Oltre alla funzione adattiva, le emozioni hanno un’importante funzione sociale e costituiscono uno dei principali canali di comunicazione con chi ci sta intorno.

Sono esperienze intense e passeggere che forniscono occasioni di condivisione con gli altri. Confrontarci con il prossimo ci è d’aiuto per conoscere il loro punto di vista e chiarirci le idee. Ci dà modo di guardare la nostra situazione da un’altra prospettiva e ci aiuta a migliorare la nostra capacità di giudizio. Raccontare qualcosa richiede che la si elabori in modo da mettere ordine e chiarirla in primo luogo a noi stessi, di conseguenza raccontare un’esperienza ci dà la possibilità di riflettere su di essa.

Se le persone a cui ci rivolgiamo dimostrano di condividere la nostra reazione, abbiamo una conferma di essere sulla strada giusta e ci sentiamo tranquillizzati e rafforzati nel nostro senso di identità sociale, in caso contrario saremo portati a riflettere su di noi.

 Gli esseri umani hanno bisogno delle emozioni, sia di quelle che proviamo direttamente che di quelle che osserviamo negli altri, perché sono un’occasione per permettere di conoscerci e conoscere meglio chi ci sta intorno e la conoscenza del prossimo è uno dei principali interessi del genere umano.

Inoltre, le emozioni che esprimiamo servono a mandare messaggi a chi ci sta intorno affinché intervenga in modo per noi utile. Per fare alcuni esempi, manifestare tristezza farà nascere compassione e possibili azioni di accudimento nei nostri confronti. La rabbia susciterà attenzione e probabili azioni di correzione di un comportamento che ci ha infastiditi. La paura susciterà desiderio di offrire protezione, mentre la gioia susciterà piacere, darà un senso di rassicurazione e rafforzerà il legame sociale.

La cinesica e la mimica facciale

La cinesica è una scienza che si occupa di studiare il linguaggio del corpo. Conoscere i segnali che arrivano dal corpo consente a chi ci sta di fronte di capire molto di noi, a volte molto più di quanto noi potremmo volergli comunicare intenzionalmente.

I muscoli che determinano certi movimenti, posture o espressioni si attivano infatti in modo indipendente dalla nostra volontà e sono impossibili da controllare.

Secondo lo psicologo statunitense Albert Mehrabian, la comunicazione si avvale di tre fattori fondamentali: una parte verbale, una vocale e una non verbale.

La parte verbale è data naturalmente dalle parole che utilizziamo nel discorso. La parte vocale è data da inflessioni, tono, timbro e ritmo della nostra voce. La parte non verbale è quella che ci arriva nell’osservare i movimenti corporei quali postura, gesti e mimica facciale.

Mehrabian ha condotto dei noti studi sull’incidenza che questi diversi aspetti hanno sulla comunicazione. Il risultato è stato che le parole determinano solo una piccola parte dell’efficacia di una comunicazione. In particolare, su di essa incidono questi elementi:

  • le parole, che rivestono un’importanza solo del 7%;
  • il tono di voce, che incide per il 38%;
  • la comunicazione non verbale, a cui spetta ben il 55% dell’efficacia di una comunicazione.

Va detto che queste conclusioni hanno incontrato critiche in quanto gli esperimenti citati si sono concentrati esclusivamente sulla comunicazione di sentimenti e atteggiamenti e non sarebbero pertanto applicabili a contesti più complessi e variegati.

Quello che resta è che questa ricerca ha dimostrato in modo sperimentale qualcosa che fino a quel momento si basava solo su una conoscenza teorica.

La coercizione sessuale femminile

Dalla letteratura si è evidenziato che gli uomini, rispetto alle donne, sono più propensi all’utilizzo della coercizione sessuale (Krahé et al., 2015); questo ha messo in ombra le evidenze riguardanti al tasso di donne che mettono in atto comportamenti sessualmente coercitivi.

 

La coercizione sessuale femminile

 La ricerca riguardo alle aggressioni sessuali si è concentrata principalmente sulla violenza contro le donne perpetrata dagli uomini; questo approccio riflette la pervasività della violenza sessuale maschile e la percezione della donna come sessualmente passiva (Denov, 2016; Krahé & Berger, 2013). Nonostante ciò, anche le donne possono commettere atti di aggressione sessuale contro gli uomini e questo può avvenire attraverso diverse metodologie (ad esempio attraverso molestie, abusi e coercizione; Grayston & De Luca, 1999; Ménard et al., 2003a).

Per questo, lo studio condotto nel 2020 da Hughes e colleghi ha avuto come scopo quello di indagare i fattori che potrebbero portare alla messa in atto di comportamenti sessuali coercitivi.

La coercizione sessuale è definita come “un atto che prevede l’utilizzo di pressione psicologica, alcol, droga o forza fisica per avere contatto sessuale con qualcuno contro il suo volere” (Struckman‐Johnson et al., 2003). Essa include una serie di comportamenti che possono essere divisi in quattro categorie di progressivo sfruttamento: (1) la stimolazione sessuale (per esempio baci e tocchi persistenti), (2) la manipolazione emotiva (per esempio l’utilizzo di ricatti o l’utilizzo della propria autorità), (3) l’intossicazione da droghe o da alcol (per esempio far ubriacare individui per poi approfittarsene) e (4) l’utilizzo della forza fisica (per esempio provocando lesioni fisiche).

Dalla letteratura si è evidenziato che gli uomini, rispetto alle donne, sono più propensi all’utilizzo della coercizione sessuale (Krahé et al., 2015); questo ha messo in ombra le evidenze riguardanti al tasso di donne che mettono in atto comportamenti sessualmente coercitivi. Da una revisione della letteratura (Hines, 2007) sono stati stimati tassi dal 10% al 20% per la coercizione sessuale verbale e tassi che vanno dall’1% al 3% per i rapporti sessualmente fisicamente forzati. Gli studi presenti hanno riportato che i fattori che influenzano le donne includono la pressione dei coetanei ad avere rapporti sessuali (Krahé et al., 2003), la compulsività sessuale (Schatzel-Murphy et al., 2009) e attitudini antagoniste verso le relazioni sessuali (Anderson, 1996; Christopher et al., 1998; Yost & Zurbriggen, 2006). Ulteriori studi hanno documentato anche l’influenza di una personalità ostile con uno stile interpersonale dominante (Ménard et al., 2003b), un approccio manipolativo e ludico nel formare le relazioni intime (Russell & Oswald, 2001, 2002) e l’uso della pornografia (Kernsmith & Kernsmith, 2009).

La pornografia si riferisce a materiale sessuale esplicito sviluppato per stimolare l’eccitazione sessuale, disponibile in varie forme e spesso accessibile online (Campbell & Kohut, 2017). In una revisione annuale attuata da Pornhub, un sito di pornografia internazionale, è stato riportato che solo un quarto del totale dei visitatori era di sesso femminile (Pornhub Insights, 2018). Riguardo all’associazione tra pornografia e coercizione sessuale sono presenti ricerche contrastanti. La ricerca condotta nel 2020 (Hughes et al., 2020) ha confermato gli studi che associavano l’utilizzo della pornografia da parte delle donne a comportamenti di coercizione sessuale non verbale, manipolazione emotiva e inganno (Kernsmith & Kernsmith, 2009; Wright et al., 2016); nonostante questo le motivazioni riguardanti questa associazione non sono chiare, perciò ulteriori studi dovrebbero indagare questa associazione in maniera più approfondita.

Coercizione sessuale e Cluster B di personalità

Un altro aspetto che può influenzare l’utilizzo di comportamenti sessuali coercitivi nelle donne riguarda i tratti di personalità (Krahé et al., 2003; Russell et al., 2017). L’emozionalità drammatica dei disturbi di personalità del cluster B (disturbi di personalità borderline, istrionico, narcisistico, antisociale), associata al basso controllo degli impulsi, alla scarsa regolazione emotiva e alla rabbia, possono avere un’influenza particolare sulla messa in atto di comportamenti sessuali aggressivi (Mouilso & Calhoun, 2016); tra i disturbi di personalità del cluster B rientra il disturbo narcisistico di personalità, caratterizzato da un senso di grandiosità del sé e da scarsa empatia verso gli altri (Emmons, 1984).

 Nelle donne con alti livelli di tratti narcisistici, la comunicazione relazionale risulta essere più negativa (Lamkin et al., 2017) e ci sono maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti sessuali coercitivi (Kjellgren et al., 2011). Inoltre, come per gli uomini, le donne con disturbo narcisistico tendono a reagire con tattiche sessuali coercitive dopo esser state rifiutate (Blinkhorn et al., 2015). Questi comportamenti riflettono, in parte, la tendenza degli individui con disturbo narcisistico di ricorrere al sesso per un bisogno di auto-affermazione (Gewirtz-Meydan, 2017).

Un altro disturbo caratterizzato da eccessiva emotività, impulsività, ricerca di attenzione e da comportamenti sessuali inappropriati e competitivi è il disturbo istrionico di personalità (American Psychiatric Association, 2013; Dorfman, 2010; Stone, 2005). Le donne con questo disturbo, attraverso uno studio comparativo, sono risultate essere molto più propense al tradimento, riferendo una maggior preoccupazione e noia sessuale e essendo caratterizzate da bassi livelli di assertività sessuale (Apt & Hurlbert, 1994)

Lo studio condotto da Hughes e colleghi (2020) si è concentrato sul disturbo istrionico di personalità, riscontrando un’associazione tra questo disturbo e la coercizione sessuale con l’utilizzo di alcol e droghe; questo risultato, secondo la letteratura, potrebbe essere dovuto da determinate caratteristiche tipiche degli individui che soffrono di questo disturbo come la bassa assertività sessuale, (Apt & Hurlbert, 1994), l’eccessiva emozionalità, la domanda di attenzione e l’uso di comportamenti provocatori per manipolare gli altri (AlaviHejazi et al., 2016; Dorfman, 2010; Stone, 2005).

Riguardo alle tipologie di comportamenti coercitivi sessuali utilizzati, gli studi che non avevano incluso la pornografia (Krahé et al., 2015), hanno riportato che le donne sono molto meno propense all’utilizzo della forza fisica e che invece, tendono ad utilizzare maggiormente altre forme di coercizione come la pressione verbale. In effetti, rispetto agli uomini, le donne che mettono in atto comportamenti coercitivi sono più propense a sperimentare reazioni negative e di resistenza da parte delle vittime maschili (O’Sullivan et al., 1998). Questo dato è complicato dal fatto che le ricerche che hanno incluso la pornografia come fattore associato alla coercizione sessuale, hanno riscontrato dati contrastanti riguardo alle associazioni tra pornografia e comportamenti coercitivi sessuali che includevano l’utilizzo della forza fisica (Kernsmith & Kernsmith, 2009; Wright et al., 2016).

Visti i risultati contrastanti riguardanti la pornografia, ulteriori ricerche potrebbero indagare l’associazione tra tratti di personalità, pornografia e comportamenti coercitivi sessuali che includono l’utilizzo della forza fisica nelle donne.

Alessitimia e Strategie di autoregolazione: una rassegna sistematica

L’obiettivo dello studio di Sangalli e Caselli (2022), pubblicato in lingua italiana sulla rivista “Psicoterapia cognitiva e comportamentale”, è stato quello di esplorare in maniera sistematica la letteratura esistente riguardo alla relazione esistente tra alessitimia e autoregolazione per approfondire i meccanismi sottostanti e la possibile influenza che le strategie di autoregolazione potrebbero avere sui tratti alessitimici.

 

Cos’è l’alessitimia?

 Con il termine “alessitimia” si intende un tratto di personalità relativamente stabile che riflette una difficoltà nell’elaborazione cognitiva e simbolica dell’esperienza emotiva.

La prevalenza dell’alessitimia si colloca attualmente tra il 9,9% e il 13% in popolazione generale (Honkalampi et al., 2000; Mattila et al., 2006) e può presentare diversi livelli di gravità.

L’alessitimia è un costrutto complesso e multidimensionale: si caratterizza infatti per diversi aspetti e dimensioni collegate tra loro. Tali dimensioni sono: a) una difficoltà nell’identificare le proprie emozioni; b) una difficoltà nel discriminare le emozioni da percezioni più prettamente fisiologiche; c) una difficoltà nel descrivere e comunicare i propri stati emotivi; d) uno stile di pensiero orientato all’esterno (Taylor, Bagby, & Parker, 1997).

È definibile come un costrutto transdiagnostico, è cioè una condizione che è riscontrabile in diversi disturbi: diverse ricerche dimostrano correlazioni significative tra alessitimia e sintomi depressivi e/o ansiosi (Foran & O’Leary, 2013; Pathwardan et al., 2019), disturbi alimentari (Shank et al., 2019; Westwood et al., 2017), abuso di sostanze come alcol o droghe (Lyvers et al., 2019), alcuni disturbi di personalità (Coolidge et al., 2012; Nicolò et al., 2011).

L’alessitimia può portare a conseguenze sia a livello intrapersonale che interpersonale: le persone con un tratto alessitimico elevato tendono a prediligere uno stile relazionale improntato al distacco e alla freddezza, così come una scarsa assertività (Vanheule et al., 2007).

Le basi dell’alessitimia

I fattori di rischio per l’insorgenza e il mantenimento di un tratto alessitimico elevato chiamano in gioco la complessa interazione tra la dimensione biologica e quella sociale. Studi condotti sui gemelli dimostrano come l’ereditarietà sia in grado di spiegare circa il 30-39% della varianza totale dei tratti alessitimici, mentre il restante 61-70% sarebbe riconducibile a fattori ambientali condivisi e primariamente non condivisi (Baughman et al., 2013). Pertanto a fronte di una certa quota di vulnerabilità biologica, quest’ultima va considerata in interazione con specifici contesti esperienziali: alcuni studi hanno ipotizzato che l’esposizione a traumi precoci e/o in età adulta, uno stile di attaccamento di tipo insicuro ed esperienze di neglect possano essere fattori concorrenti nello sviluppo di tratti alessitimici.

In letteratura vi sono ancora posizioni discordanti circa la natura dell’alessitimia e le dinamiche che la connettono alla psicopatologia: secondo alcuni contributi l’alessitimia sarebbe un fenomeno primario, quindi strutturale, mentre secondo altre prospettive verrebbe concettualizzata come un fenomeno periferico secondario ad altre condizioni (Messina, Beadle, & Paradiso, 2014).

Considerando nello specifico la prospettiva secondo cui un’autoregolazione disfunzionale appresa favorisce l’esordio e il mantenimento di una condizione alessitimica, l’alessitimia è definibile quindi come l’esito di un processo disfunzionale (teorie funzionaliste) in cui il soggetto non avrebbe a che fare con i propri stati interni, privilegiando un pattern di autoregolazione di tipo deattivante e/o evitante.

Recentemente alcune ricerche hanno approfondito la relazione che intercorre tra alessitimia e autoregolazione. Con il termine autoregolazione ci si riferisce a qualsiasi processo di automonitoraggio e autocorrezione volontaria del proprio funzionamento, teso al raggiungimento di uno scopo. Essa può coinvolgere diversi domini, quali la regolazione emotiva ( Gross & John, 2003), le strategie di coping (Lazarus & Folkman, 1984) e l’evitamento esperienziale (Hayes, 1994). In quest’ottica le difficoltà alessitimiche sarebbero l’esito di uno stile di autoregolazione appreso tale per cui gli individui alessitimici non avrebbero imparato a regolare i propri stati interni in modo funzionale (Panayiotou et al., 2015). In letteratura diverse ricerche dimostrano la presenza di strategie di coping e di regolazione emotiva in soggetti alessitimici.

Alessitimia e autoregolazione

L’obiettivo dello studio di Sangalli e Caselli (2022), pubblicato in lingua italiana sulla rivista “Psicoterapia cognitiva e comportamentale”, è stato quello di esplorare in maniera sistematica la letteratura esistente riguardo alla relazione esistente tra alessitimia e autoregolazione per approfondire i meccanismi sottostanti e la possibile influenza che le strategie di autoregolazione potrebbero avere sui tratti alessitimici.

Per raggiungere l’obiettivo di ricerca è stata condotta una rassegna sistematica in accordo con il prospetto PRISMA (Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses). Le parole chiave utilizzate sono state le seguenti: «Alexithymia» AND («coping» OR «coping strateg*» OR «COPE» OR «emotion regulation strateg*» OR «ERQ») NOT «psychopathology» NOT «neuroscience» — e sono state inserite nella banca dati EBSCOhost. Sulla base dei criteri di eleggibilità sono stati identificati nove articoli scientifici

 A seguito della revisione sistematica della letteratura, emerge che i soggetti alessitimici e non alessitimici differiscono nell’uso di strategie di regolazione emotiva, quantomeno a livello quantitativo. I primi sembrano infatti caratterizzarsi per un uso maggiore della soppressione espressiva e minore della rivalutazione cognitiva: sia le emozioni negative che quelle positive sembrerebbero essere inibite. Tale pattern di autoregolazione è indice di maggiori difficoltà emotive e si associa a scarsi livelli di benessere individuale (Gross & John, 2003).

In tutti gli studi correlazionali è stata dimostrata una significativa associazione positiva tra alessitimia e strategie di soppressione. Mentre, per quanto riguarda le strategie di rivalutazione cognitiva (in inglese “cognitive reappraisal”) i risultati sembrano indicare un’associazione negativa più debole e in alcuni casi incerta (Laloyaux et al., 2015; Borges e Naugle (2017).

Concettualizzare l’alessitimia come una tendenza appresa a evitare, più o meno consapevolmente, le proprie esperienze interne porterebbe il focus dell’intervento clinico verso un target specifico: agire sui processi di autoregolazione emotiva e cognitiva individuali andrebbe ad influenzare quindi una riduzione dei livelli di alessitimia.

Il principale limite degli articoli inclusi all’interno di questa rassegna sistematica consiste nella natura trasversale degli studi. Tale disegno di ricerca non permette di trarre conclusioni circa le relazioni di causa-effetto che intercorrono tra le variabili oggetto d’esame. L’utilizzo di strumenti di assessment auto-somministrati che possono essere soggetti a desiderabilità sociale rappresenta un ulteriore limite. Infine, la scarsa numerosità e l’eccessiva specificità dei campioni di soggetti utilizzati creano difficoltà nella generalizzazione dei risultati.

Considerazioni conclusive

In conclusione, possiamo affermare che l’alessitimia è da considerarsi come un costrutto complesso, multidimensionale e trans-diagnostico i cui aspetti eziologico-esplicativi risultano ad oggi ancora meritevoli di approfondimento empirico-scientifico. Sulla base di evidenze empiriche preliminari, la rassegna sistematica degli studi qui descritta identifica una correlazione tra alessitimia e strategie di autoregolazione disfunzionali (seppure non potendo affermare la direzione di causa-effetto che lega i due costrutti). Sarebbe auspicabile mettere a punto future indagini empiriche volte a verificare l’ipotesi secondo cui l’alessitimia sia un esito di un pattern di autoregolazione disfunzionale. In tal senso, nella regolazione dei  propri stati interni il soggetto alessitimico ricorrerebbe a strategie di evitamento e soppressione che terminano in un progressivo disconoscimento degli stessi (Gross & John, 2003) e in uno stato di malessere maggiore. A livello clinico, diventerebbe quindi fondamentale intervenire precocemente su tali processi autoregolatori disfunzionali interrompendo il circolo vizioso e favorendo quindi un decremento dell’alessitimia.

Le potenzialità della Gamification in ambito lavorativo ed educativo

L’uso attento e mirato degli elementi di gioco nella gamification può indurre una situazione di apprendimento caratterizzata da un alto livello di motivazione e di coinvolgimento attivo, producendo a sua volta risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali. 

 

Coniato nel 2002 da Nick Pelling, il termine “gamification” (Andrzej Marczewski, 2012), compare nella letteratura sulle tecniche e strategie d’istruzione solo nel 2008 (Deterding et al., 2011). Nel 2010, nonostante si senta parlare di gamification con maggior frequenza non sono ancora molti gli studi sull’argomento. Dall’analisi delle diverse definizioni nella letteratura internazionale (Deterding et al., op. cit.; Marczewski, op. cit.; Perrotta et al., 2013; Simões et al., 2013; de Sousa Borges et al., 2014) emerge un sostanziale accordo tra coloro che considerano la gamification un approccio che utilizza le caratteristiche del gioco: elementi, meccaniche, strutture, estetica, pensiero, metafore, in impostazioni “non di gioco”.

La gamification viene usata in relazione a molte questioni: la pervasività e l’ubiquità dei giochi per computer e dei videogiochi nella vita di tutti i giorni; la necessità di suscitare e mantenere l’interesse degli studenti per l’apprendimento – con l’obiettivo di coinvolgere gli utenti e incoraggiarli a raggiungere obiettivi più ambiziosi, seguendo regole e divertendosi. Pertanto, è consigliata per essere applicata in quegli ambiti della vita quotidiana in cui noia, ripetizione e passività sono prevalenti, al fine di stimolare il tipo di comportamento desiderato.

Gamification dell’apprendimento

In particolare, ci soffermeremo sull’applicazione della gamification nell’istruzione per migliorare motivazione e coinvolgimento e massimizzare l’apprendimento. È importante, però, chiarire che la gamification non sfrutta giochi per scopi diversi dall’intrattenimento, ma piuttosto usa l’esperienza di gioco per favorire la fidelizzazione.

Nella “gamification dell’apprendimento” vengono identificati otto elementi: (1) regole, (2) obiettivi e risultati, (3) feedback e ricompense, (4) risoluzione dei problemi, (5) storia, (6) giocatore/i, (7) ambiente sicuro, (8) senso di padronanza (Apostol et al., 2013), mentre quante e quali dovrebbero essere le funzionalità di gioco è tutt’ora un tema controverso. Tra gli esperti c’è disaccordo fra chi come Marczewich sostiene che anche una singola funzionalità può creare un’esperienza di apprendimento e chi no. In particolare, Kapp (2012) distingue tra quelle caratteristiche che possono portare unicamente ad un livello superficiale di coinvolgimento degli studenti e quelle funzionalità che inducono un coinvolgimento più profondo. Le prime derivano da fonti di motivazione estrinseca, come ricompense, punti e badge. Mentre le seconde, rappresentate dalla storia, dalla sfida, dal senso di controllo, dal processo decisionale e dal senso di padronanza, derivano da motivazioni intrinseche.

Kapp sostiene che “per rendere un gioco un’esperienza di apprendimento efficace sono necessari più elementi. È l’interazione degli elementi che rende i giochi più efficaci” (p. 50). Poiché non ci sono prove empiriche a favore o contro, Apostol et al. (2013) concludono che “il modo migliore per un designer didattico o un insegnante, di selezionare gli elementi del gioco è considerare gli obiettivi educativi e gli esiti desiderati del processo di apprendimento” (pp. 68-69).

Inoltre, Sousa Borges et al. (2014) osservano che “negli approcci di gamification, questi elementi non sono al centro del sistema, ma hanno lo scopo di motivare gli utenti a utilizzarlo” (p. 217).

Perrotta et al. (2013) associano le meccaniche di gioco ai processi coinvolti nell’esperienza di apprendimento. Credono che la “gamification dell’apprendimento” sia intrinsecamente motivante perché le regole sono input per un’ampia gamma di processi decisionali:

  • divertimento, perché gli obiettivi consentono agli studenti di vedere l’impatto diretto dei loro sforzi;
  • autenticità, perché la fantasia fornisce uno sfondo avvincente che consente agli studenti di sperimentare le abilità senza subire le conseguenze del fallimento nella vita reale;
  • fiducia in sé stessi, perché il feedback guida gli studenti a facilitare e correggere le prestazioni;
  • esperienziale, perché è riconosciuta come una delle tecnologie emergenti che consente agli studenti di condividere esperienze e costruire legami (Johnson et al., 2014).

La gamification è nuovo approccio in grado di colmare il divario generazionale fra insegnanti e studenti (Kapp, 2007; Oblinger, 2004).

Gli esperti hanno elogiato la versatilità della gamification, sia nelle lezioni in aula, come compito a casa, come esame finale, che come attività di apprendimento principale per motivare gli studenti e migliorare le loro abilità.

L’uso attento e mirato degli elementi di gioco può indurre una situazione di apprendimento caratterizzata da un alto livello di motivazione e di coinvolgimento attivo, producendo a sua volta risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali.

Altri studiosi, invece, ritengono che esistano alcuni limiti della gamification come il rischio di “banalizzare” i concetti da apprendere; sostengono che l’apprendimento non debba essere considerato un gioco e che alcuni giochi siano più adatti ad incoraggiare il discente ad operare con concetti e nozioni, piuttosto che ad assimilarli. Affermano che i giochi da soli non siano sufficienti a migliorare le prestazioni e che le difficoltà di apprendimento non possano essere superate solo attraverso i giochi. (Apostol et al., op. cit.).

Gamification e motivazione

Nonostante le ricerche sulla gamification nell’istruzione siano ancora poche, i risultati di tali studi offrono un quadro più complesso di ciò che accadde quando viene introdotta la ludicizzazione, in particolare rispetto all’influenza di motivazione e coinvolgimento sui risultati dell’apprendimento degli studenti.

Un consistente corpus di ricerche suggerisce che gli elementi del gioco possono effettivamente aumentare i livelli di motivazione intrinseca, soprattutto quando rendono interessanti compiti noiosi.

Quando aumentano i livelli di motivazione estrinseca, i livelli di motivazione intrinseca diminuiscono significativamente, con conseguente minore entusiasmo per il lavoro.

Questi risultati sono in accordo con la teoria dell’autodeterminazione (Deci et al., 1985) e la ricerca sul gioco (Caillois, 2001), secondo cui ricompense ed incentivi diminuiscono la motivazione intrinseca di una persona a svolgere un compito.

Hanus e Fox (2015), ad esempio, hanno testato la motivazione confrontando i risultati raggiunti dagli studenti di due classi. Per tutti è stato utilizzato lo stesso programma, ma in una classe sono stati introdotti elementi ludici. I risultati hanno dimostrato che gli studenti della classe ludicizzata hanno espresso livelli di motivazione più bassi e un punteggio più basso all’esame finale. I ricercatori hanno concluso che i punteggi bassi degli esami finali sono stati influenzati dai livelli di motivazione intrinseca e che gli effetti negativi sulla motivazione intrinseca sono attribuibili alla ludicizzazione. Le evidenze empiriche ottenute da questo studio longitudinale sono “allineate con la letteratura esistente sugli effetti negativi delle ricompense sulla motivazione” e suggeriscono che “dare ricompense sotto forma di badge e monete, nonché incoraggiare la concorrenza e il confronto sociale attraverso una classifica digitale, nuoce alla motivazione” (p. 159).

Le ricerche, inoltre, indicano che gli elementi sociali sono fondamentali per creare un apprendimento ludico motivante. Un esperimento condotto sugli studenti di un corso di e-learning ha mostrato gli effetti negativi del confronto sociale sulla motivazione. L’esperimento ha dimostrato che la gamification non è un fattore motivante importante per tutti, perché ad alcuni studenti non piace competere con i propri compagni di classe (Domínguez et al., 2013). Questo risultato conferma i feedback raccolti in diversi studi, secondo i quali “alcuni affordance motivazionali (che altrimenti ricevevano commenti positivi) sono stati percepiti come negativi (come quelli che incoraggiano la competizione), dando credito all’idea che diversi tipi di giocatori vivano lo stesso affordance in modo diverso” (Hamari et al., 2014, p. 3030).

A questo proposito, possiamo affermare che quando la gamification si concentra troppo sulla motivazione estrinseca, gli effetti sulla motivazione non sono uniformi per tutti gli studenti della classe. I ricercatori ritengono che sia importante utilizzare un ampio inventario di tecniche che bilancino le motivazioni estrinseche con quelle intrinseche (Dichev et al., 2014) e progettare un sistema di gamification che possa essere personalizzato e mirato per garantire che tutti gli studenti in classe possano godere dei benefici. (Hamari, 2013; Eickhoff et al., 2012; Hamari & Koivisto, 2013).

Se è vero che il coinvolgimento può essere definito come l’attenzione e la partecipazione dello studente, è anche vero che i compiti di apprendimento sono imposti dall’insegnante. Quindi tale coinvolgimento non è sempre scontato.

L’integrazione di elementi e meccanismi di gioco nelle attività di apprendimento sembrano garantire un maggiore coinvolgimento in classe perché “ha il vantaggio di introdurre ciò che conta davvero dal mondo dei videogiochi – aumentare il livello di coinvolgimento degli studenti – senza utilizzare alcun gioco specifico” (Simões et al., 2013, p. 347).

In conclusione, l’impatto degli interventi di ludicizzazione sul coinvolgimento degli studenti varia a seconda che lo studente sia motivato intrinsecamente o estrinsecamente (Buckley & Doyle, 2014; Hamari et al., 2014a). Ma, soprattutto, la ricerca ha dimostrato che la partecipazione è potenziante soprattutto quando gli studenti possono scegliere tra ludicizzazione e metodi tradizionali (Domínguez et al., 2013; Mollick & Rothbard, 2014; Cheong et al., 2013).

Alcune ricerche hanno scoperto che il coinvolgimento diminuisce nel tempo. Una volta che la novità svanisce, l’interesse degli studenti per la gamification si esaurisce (Koivisto & Ha mari, 2014; Mollick & Rothbard, op. cit.) e il coinvolgimento svanisce a un ritmo incredibile se tutti i contesti di apprendimento sono “gamificati” (Hanus & Fox, 2015). Pertanto, in questo campo diventa indispensabile indagare l’effetto novità, in una prospettiva a lungo termine (van Roy & Zaman, 2015).

Effetti positivi della gamification

Lee e Hammer (2011) individuano alcuni degli aspetti positivi della gamification. Secondo gli autori il gioco sviluppa la capacità di risoluzione dei problemi attraverso un complesso sistema di regole, incoraggiando esplorazione e scoperte attive.

  • Riconoscono il valore delle “sfide che si adattano perfettamente al livello di abilità del giocatore, aumentando la difficoltà man mano che l’abilità del giocatore progredisce”.
  • Sottolineano anche l’importanza dell’“area emotiva”, che si riferisce a tutte le potenti emozioni che si provano giocando – come orgoglio, gioia, ottimismo e curiosità – ma anche rabbia, frustrazione, tristezza.

Secondo Lee e Hammer, i giochi offrono la possibilità di “riformulare il fallimento come una parte necessaria dell’apprendimento” poiché l’errore diventa un’opportunità per mettersi alla prova e superare i propri limiti. Secondo questo punto di vista la gamificazione determina una trasformazione emotiva perché i ripetuti fallimenti permettono d’imparare qualcosa di più e di nuovo, mentre la dimensione sociale degli ambienti ludici consente agli studenti di identificarsi pubblicamente, aumentare la credibilità sociale e avere il riconoscimento di quei risultati, che altrimenti rimarrebbero invisibili.

Questi risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali dovrebbero anche garantire effetti positivi sulle prestazioni degli studenti e sui loro punteggi (Kapp, 2012; Connolly et al., 2012; Ke, 2009; Sitzmann, 2011); in particolare, Domínguez et al. (2013) indicano che un riscontro frequente, significativo e rapido può migliorare i risultati degli studenti.

Nel complesso, lo studio ha rivelato che gli effetti sono fortemente condizionati dagli utenti che lo utilizzano. Infatti, gli studenti che hanno avuto un’istruzione tradizionale hanno ottenuto lo stesso punteggio di coloro che hanno avuto gli esercizi “gamificati”.

Alcuni studi hanno dimostrato che gli studenti possono opporsi al “divertimento obbligatorio” e possono considerare vincolante il sistema di ricompensa che viene imposto (Mollick & Rothbard, 2014).

Inoltre, per quanto riguarda l’ambito aziendale:

Il coinvolgimento, la voglia di partecipare energicamente alle attività lavorative quotidiane, il desiderio di dare sempre il meglio di sé e l’entusiasmo innovativo sono caratteristiche che le imprese vorrebbero vedere in ogni collaboratore quali garanzie di performance di eccellenza. Le aziende sono costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, idee e strumenti per sviluppare l’engagement e porre le condizioni affinché le proprie risorse operino al massimo delle loro potenzialità. L’evoluzione inarrestabile dei mercati e del mondo del lavoro – nonché l’ascesa delle nuove generazioni che rispondono a logiche di engagement totalmente differenti – richiedono sforzi significativi a leader e responsabili HR nel supportare l’intera organizzazione nel trovare nuovi modi di far crescere le risorse in termini di creatività, proattività e coinvolgimento. Oggi esistono approcci innovativi, mutuati dal mondo ludico, che aiutano le aziende a stimolare elementi quali divertimento e sfida come leve per incrementare la motivazione e, di conseguenza, la produttività dei collaboratori. (…) Apprendere i principi, le tecniche e le applicazioni operative di una nuova pratica mutuata dal mondo del gioco volta ad aumentare l’engagement, l’innovazione, la felicità e la produttività in azienda. (Formazione Professionale, Formazione Aziendale, Consulenza, Coaching, 2021).

 

Il colloquio di valutazione psicosociale in gravidanza e dopo il parto – Recensione

Gli autori del libro “Il colloquio di valutazione psicosociale in gravidanza e dopo il parto” mostrano l’importanza di un’ottica bio-psico-sociale, che favorisce una comprensione globale dei numerosi aspetti della persona, collocabili sia nella dimensione biologica, sia in quella psicologica, che in quella sociale.

 

È ancora molto diffusa nel nostro contesto sociale l’idea che la gravidanza e il post partum siano dei periodi idilliaci in cui la donna e tutto il nucleo familiare sperimentano esclusivamente emozioni positive; dall’altro estremo, quando vengono messi in luce fatti di cronaca quali il suicidio nel periodo successivo al parto o l’infanticidio, questa fase di vita viene vista come particolarmente a rischio. Benché queste due esperienze esistano, molto più frequenti sono le situazioni in cui la donna si trova a sperimentare delle ambivalenze verso il bambino e/o la nuova situazione che sta vivendo, con malesseri e disagi che dovrebbero essere sempre presi in carico. Lo strumento che ci presentano gli autori, che costituisce l’inizio dell’intervento, è il colloquio di valutazione psicosociale.

Ma cosa si intende per colloquio di valutazione psicosociale? Nel volume viene definito un importante strumento per approfondire le conoscenze riguardanti la salute bio-psico sociale della donna gravida o della neomamma nelle situazioni di disagio, difficoltà e malessere prenatali. L’ottica utilizzata è appunto quella bio-psico-sociale, che favorisce una migliore comprensione sia del grado di benessere, sia dei livelli di disagio o di malessere; questo approccio favorisce infatti una comprensione globale dei numerosi aspetti della persona, collocabili sia nella dimensione biologica, sia in quella psicologica, che in quella sociale: aspetti neuroendocrini e ormonali, biochimici, immunologici, muscolo-scheletrici e viscerali, esperienza personale, storia individuale e familiare passata (anche in termini intergenerazionali) e, infine, rapporti interpersonali, legami esistenti o recenti esperienze relazionali.

Ciò che invece i professionisti talvolta tendono erroneamente a fare è rilevare esclusivamente alcuni aspetti, quelli più legati alla propria formazione, trascurandone altri che sono ugualmente fondamentali per una comprensione completa della storia della donna e del suo contesto di vita.

Molto utili per facilitare la comprensione i quadri riassuntivi, gli schemi e i casi clinici esemplificativi che si trovano lungo tutto il corso del volume.

Viene spiegato anche come trattare situazioni delicate come l’ideazione suicidiaria e il rischio di compiere atti lesivi verso il bambino, offrendo indicazioni su come avvicinarsi a tali tematiche con tatto e gradualità.

Infine viene indicato come offrire una restituzione alla donna su quanto emerso durante i colloqui e come progettare il piano di intervento.

In ogni fase, gli autori mettono in evidenza quanto sia imprescindibile offrire un ascolto empatico, non giudicante, accogliente e competente.

In definitiva, questo libro è rivolto a tutti i professionisti sanitari e sociali per intercettare i bisogni e le richieste implicite della donna durante la gravidanza e nel post-partum; è un utile ripasso per psicologi e psicoterapeuti che lavorano o vorrebbero lavorare nell’ambito perinatale, ed ancor più utile per medici, ostetriche, assistenti sociali ed altre figure che lavorano a contatto con le donne in gravidanza e nel periodo dopo il parto.

Relazioni tra disturbi di personalità e disturbi alimentari in uno studio prospettico di follow-up di 17 anni

Questo studio mira a segnalare la presenza di una diagnosi categoriale e dimensionale di disturbi di personalità negli adulti con una lunga storia di disturbi alimentari e a indagare se i cambiamenti nel disturbo di personalità sono predittivi dei cambiamenti nella sintomatologia alimentare, o viceversa.

 

Disturbi di personalità e disturbi alimentari

Diverse meta-analisi (Friborg et al., 2014; Martinussen et al., 2017; Rosenvinge et al., 2000) hanno mostrato una presenza significativamente maggiore dei Disturbi di Personalità (PD; Personality Disorders) in pazienti con Disturbi Alimentari (EDs; Eating Disorders) rispetto ai controlli sani. Questa comorbilità è associata a un aumento dei livelli di psicopatologia generale nonostante l’elevato utilizzo di trattamenti. Una recente revisione sistematica (Simpson et al., 2022) ha rivelato esiti terapeutici più sfavorevoli per i disturbi alimentari, forse perché i sintomi tendono a diventare più gravi e intrattabili quando si verificano in contemporanea a un disturbo di personalità.

Poiché la ricerca dei predittori dell’esito del trattamento dei disturbi alimentari ha fornito risultati estremamente eterogenei, è fondamentale controllare diverse variabili per evitare di giungere a conclusioni imprecise. Per esempio, l’Indice di Massa Corporea (Body Mass Index – BMI) risulta molto rilevante, poiché la malnutrizione e il sottopeso potrebbero essere correlati a sintomi come il comportamento ossessivo-compulsivo e la mentalità rigida (Friborg et al., 2014); da notare inoltre che punteggi più elevati di disturbi di personalità sono stati rilevati nei campioni di pazienti sottopeso rispetto ai campioni di pazienti con normopeso o sovrappeso (Martinussen et al., 2017).

Disturbi di personalità e disturbi alimentari: uno studio di follow up

Questo studio mira quindi a (1) segnalare la presenza di una diagnosi categoriale e dimensionale di disturbi di personalità negli adulti con una lunga storia di disturbi alimentari dopo un trattamento ospedaliero e dopo un follow-up a 1 anno, 2 anni, 5 anni e 17 anni; e (2) indagare se i cambiamenti nel disturbo di personalità sono predittivi dei cambiamenti nella sintomatologia alimentare, o viceversa (Eielsen et al., 2022).

Eielsen e colleghi hanno quindi reclutato tutti i pazienti con un’età maggiore di 18 anni con diagnosi di Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) o Disturbo dell’Alimentazione con Altra Specificazione (OSFED), che sono stati ricoverati in un reparto psichiatrico specializzato per disturbi alimentari in Norvegia, dall’agosto 1998 al giugno 2001. Tutti i pazienti, durante il ricovero, hanno partecipato a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale. Inoltre, sono stati sottoposti a vari test diagnostici quali: SCID-II (utilizzata per identificare una diagnosi sia categoriale che dimensionale del disturbo di personalità) ed EDE-17 (utilizzata per valutare e generare una diagnosi di disturbi alimentari). Entrambi sono stati somministrati durante il trattamento ospedaliero e al follow-up a 1, 2, 5 e 17 anni. Informazioni relative all’età, alla durata del trattamento e alla durata della malattia sono state raccolte in precedenti interviste. Il peso e l’altezza dei pazienti invece sono stati misurati al momento del ricovero e sono stati utilizzati per calcolare il BMI.

Dai risultati emerge una marcata riduzione sia della psicopatologia della personalità che di quella alimentare al follow-up di 17 anni. I Disturbi di Personalità Evitante, Borderline, Dipendente, Paranoide e Ossessivo-Compulsivo sono stati quelli più frequentemente rilevati nelle valutazioni. Livelli basali più elevati di Disturbo Borderline di Personalità erano particolarmente svantaggiosi per gli esiti a lungo termine del disturbo alimentare, prevedendo meno riduzione della sintomatologia. Inoltre, è emerso che i disturbi di personalità tendono a essere più elevati nei pazienti ricoverati rispetto ai pazienti ambulatoriali o residenti in comunità. Diversi studi hanno concluso che la gravità dei sintomi sembra giocare un ruolo significativo nella comorbilità di disturbi alimentari e disturbi di personalità (Rowe et al., 2009; Wonderlich et al., 1994) e il disturbo alimentare di lunga durata è correlato a sintomi sociali e psicologici che potrebbero complicare il processo di recupero.

Un altro fattore che può influire sulla presenza dei disturbi di personalità è il BMI dei pazienti, considerando che il basso peso risulta associato a una proporzione più alta di disturbi di personalità (Martinussen et al., 2017). Sebbene gli sforzi dello studio fossero quelli di ridurre il rischio di sovrastima del disturbo di personalità, un terzo del campione era ancora sottopeso al momento della dimissione; questo potrebbe avere aumentato la prevalenza di disturbi di personalità. Riguardo quindi al BMI, esso sembra non avere un impatto significativo sulla comorbilità tra disturbi alimentari e disturbi di personalità. Indipendentemente da questo, però, non si può escludere la possibilità che la presenza di un disturbo di personalità sarebbe diversa se i pazienti avessero raggiunto il normopeso.

Disturbi di personalità e disturbi alimentari: il Cluster C

Durante tutto il periodo di follow-up, c’è stato un costante calo del numero di disturbi di personalità. Ciò era particolarmente vero per il Disturbo Borderline di Personalità, risultato che è anche in linea con gli studi che concludono che quest’ultimo sembra essere dannoso per l’esito del disturbo alimentare (Hessler et al., 2019; Wonderlich et al., 1994). La prognosi sfavorevole potrebbe essere spiegata da diversi fattori. Molte caratteristiche tipiche del Disturbo Borderline di Personalità, come l’ideazione e i comportamenti suicidari, potrebbero mettere in ombra la psicopatologia del disturbo alimentare (Cassin & Vonranson, 2005; Chen et al., 2011; Pettersen et al., 2008; Wildes et al., 2011). Inoltre, il Disturbo Borderline di Personalità è generalmente correlato a difficoltà relazionali dovute alla disregolazione emotiva, il che presenta un grave ostacolo nello stabilire l’alleanza terapeutica (Hessler et al., 2019; Olofsson et al., 2020). Una tendenza contraria invece è stata verificata dalla stabilità del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità, che non mostra miglioramenti significativi alla valutazione di follow-up dopo 17 anni.

In linea con la maggior parte degli studi sui disturbi di personalità tra i pazienti con disturbi alimentari (Friborg et al., 2014; Martinussen et al., 2017), il Cluster C (Disturbi di personalità evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo) è rimasto il più frequentemente diagnosticato nel campione in tutte le valutazioni. Si ipotizza quindi che una comorbidità con una diagnosi di disturbo di personalità del Cluster C potrebbe rappresentare un ostacolo ai benefici del trattamento, oltre che nel dirigere meno attenzione clinica nel trattamento di un disturbo alimentare (Vrabel et al., 2010).

I risultati attuali sono di importanza clinica in quanto possono indicare che disturbi alimentari e disturbi di personalità “viaggiano insieme”, aspetto fondamentale da prendere in considerazione nella formulazione degli obiettivi terapeutici e del trattamento.

La chirurgia estetica è un trattamento efficace per la Dismorfofobia?

Essendo il Disturbo da Dismorfismo Corporeo caratterizzato da una tendenza a ossessionarsi e preoccuparsi in modo persistente di difetti inesistenti o minori, il trattare chirurgicamente solo una parte del corpo non migliora la gravità complessiva del disturbo.

 

La Dismorfofobia

La Dismorfofobia o Disturbo da Dismorfismo Corporeo (Body Dismorphic Disorder [BDD]) è un disturbo cronico con esordio nell’adolescenza che ha una prevalenza dell’1,7-2,4% nella popolazione generale (Lai et al., 2010). Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders [DSM-5]) definisce il Disturbo da Dismorfismo Corporeo come un disturbo caratterizzato da una preoccupazione per un difetto immaginario del proprio aspetto che causa disagio significativo o una compromissione funzionale (cioè una condizione di salute in cui una o più delle normali funzioni fisiologiche sono compromesse; American Psychiatric Association [APA], 2014). Qualsiasi parte del corpo può essere oggetto del Disturbo da Dismorfismo Corporeo, ma le preoccupazioni riguardano spesso uno o più aspetti visibili, del viso o del corpo (Mulkens & Jansen, 2006). Le persone che ne soffrono tendono a esaminare e modificare in modo ossessivo la particolare parte del corpo (Lai et al., 2010).

Il Disturbo da Dismorfismo Corporeo e i trattamenti di chirurgia estetica

La maggior parte delle persone affette da Disturbo da Dismorfismo Corporeo fatica a riconoscere il proprio disturbo come un problema di natura mentale: il problema è considerato di natura fisica e ritengono, di conseguenza, di avere una reale deformità per la quale è necessario un trattamento estetico (Crerand et al., 2010; Lai et al., 2010). Le persone con Disturbo da Dismorfismo Corporeo, infatti, tendono a cercare maggiormente trattamenti cosmetici come soluzione a quelli che percepiscono come “difetti” rispetto a interventi psichiatrici (Crerand et al., 2010).

La chirurgia estetica è diventata sempre più popolare negli ultimi 15 anni, in particolare tra gli under 30 (Mulkens & Jansen, 2006) ed è stimato che il 26-40% dei pazienti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo si è sottoposto a chirurgia estetica (Lai et al., 2010). Tuttavia, sembrerebbe che raramente i trattamenti medici migliorino i sintomi del Disturbo da Dismorfismo Corporeo sia nel breve che nel lungo termine (Crerand et al., 2010; Phillips et al., 2001). Inoltre, sembrano avere un ruolo cruciale le aspettative dei pazienti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo che si sottopongono alla chirurgia estetica: aspettative irrealistiche sembrerebbero condurre a una maggiore probabilità di insoddisfazione degli interventi medici effettuati (Castle et al., 2002), ancor più se il soggetto si è sottoposto a più interventi (Lai et al., 2010).

Le ragioni dell’inefficacia della chirurgia estetica nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo

Essendo il Disturbo da Dismorfismo Corporeo caratterizzato da una tendenza a ossessionarsi e preoccuparsi in modo persistente di difetti inesistenti o minori, il trattare chirurgicamente solo una parte del corpo non migliora la gravità complessiva del Disturbo da Dismorfismo Corporeo (Crerand et al., 2010). Sembrerebbe, invece che, dopo l’intervento chirurgico, i pazienti spostino la loro preoccupazione su una nuova area corporea: si preoccupano maggiormente di imperfezioni minori nella zona trattata o temono un suo imbruttirsi (Phillips et al., 2001). Questo potrebbe spiegare il perché un cambiamento “superficiale” come quello di chirurgia estetica non possa essere considerato una cura (Crerand et al., 2010).

Un altro elemento che sembrerebbe giocare un ruolo importante nel mantenimento del Disturbo da Dismorfismo Corporeo è riconducibile all’area neurobiologica, cioè quella branca della biologia relativa allo studio del sistema nervoso. In particolare, sono state riscontrate delle anomalie neurobiologiche in soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo: hanno una maggiore attivazione delle aree cerebrali specializzate nell’elaborazione dei dettagli piuttosto che in quella globale (Feusner et al., 2007), di conseguenza, è improbabile che tali differenze neurobiologiche e pregiudizi percettivi possano essere modificati dalla chirurgia (Crerand et al., 2010).

Interventi efficaci per il Disturbo da Dismorfismo Corporeo

Nonostante i soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo vedano la chirurgia estetica come unica soluzione, la terapia cognitivo-comportamentale è, a oggi, il trattamento evidence-based (ovvero basato su prove di efficacia) più efficace per questo disturbo, anche se un’altra opzione efficace di trattamento può essere quello farmacologico (Mulkens & Jansen, 2006). Dati questi aspetti, sarebbe importante che i chirurghi estetici prima di un intervento somministrassero strumenti di screening (come il Body Dysmorphic Disorder Questionnaire; Thanveer & Khunger, 2016) in modo da identificare i soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo, così da evitare ripetuti interventi medici che non migliorerebbero i sintomi del paziente (Crerand et al., 2010).

Conclusione

In generale, le persone ricorrono alla chirurgia estetica quando la loro autostima dipende fortemente dall’immagine corporea e quando sono molto insoddisfatte della stessa. Tuttavia, le persone con Disturbo da Dismorfismo Corporeo sembrano non avere esiti positivi da questo tipo di intervento, anzi, i sintomi tendono a permanere nel tempo e a peggiorare in caso di trattamenti di chirurgia estetica ripetuti.

 

Voci e parti dissociative (2022) di Dolores Mosquera – Recensione

Qual è la differenza tra voci e parti dissociative? Tutte le voci sono parti, ma non tutte le parti hanno voce. 

 

L’opera “Voci e parti dissociative” non è un semplice manuale teorico che illustra un modello pratico, ma un testo prezioso che accompagna il terapeuta nel lavoro con pazienti che presentano traumi complessi. Il lettore è guidato passo per passo su come affrontare le eventuali problematiche presentate dalle parti, per superare i blocchi del percorso e raggiungere gli obiettivi della terapia. Durante la lettura sembra quasi di essere presente nello studio, con la terapeuta e il paziente, e di partecipare al percorso terapeutico: “Voci e parti dissociate” è il surrogato di un tirocinio sul campo!

Dolores Mosquera è una psicologa e psicoterapeuta spagnola. Nel corso della sua carriera come clinica e ricercatrice si è specializzata nel trattamento dei Disturbi della Personalità, dei traumi complessi e della dissociazione, condivide la sua esperienza conducendo seminari, lezioni e workshop a livello internazionale che affiancano le numerose pubblicazioni di libri e articoli. È Trainer accreditata per l’EMDR Europe, formatrice in Schema Therapy e Advanced Practitioner in Sensorimotor Psychotherapy. Attualmente lavora come Direttrice dell’Institute for the Study of Trauma and Personality Disorder (INTRA-TP) di La Coruña. La dottoressa Mosquera supervisiona, inoltre, diversi programmi per il trattamento di donne vittime di violenza, di uomini violenti colpevoli di reato e di adolescenti nelle carceri minorili.

Dolores Mosquera in “Voci e parti dissociative” parte dallo spiegare prima di tutto la differenza tra la dissociazione strutturale, descritta da altri autori come Janet, van der Hart o Kathy Steele, ovvero la mancata formazione di un Sé integrato in chi è stato vittima di trauma complesso, e le parti dissociative indipendenti e autonome, considerate come non-Sé dall’individuo.

Il trattamento in questi due casi, infatti, non è equivalente, né adatto in presenza di disturbi in cui vi è una frammentazione del Sé, come nel Disturbo Borderline di Personalità.

L’intento dell’autrice non è semplicemente aumentare la consapevolezza su questi aspetti nei terapeuti che si occupano di traumi, ma soprattutto offrire un metodo per valorizzare clinicamente la presenza delle voci in modo da raggiungere l’obiettivo terapeutico.

La lettura dell’opera è scorrevole, la sua architettura alterna le parti didattiche, in cui vengono illustrati gli interventi e le strategie, con l’esempio dettagliato di casi specifici e le trascrizioni dei relativi colloqui. A facilitare ulteriormente l’assimilazione dei contenuti, vengono fornite anche delle tabelle sintetiche del lavoro terapeutico passo per passo. I vari interventi terapeutici, infine, vengono anche codificati in modo tale che sia possibile ritrovarli all’interno degli esempi clinici.

È possibile definire “Voci e parti dissociative” come una guida pratica per i terapeuti che si trovano a lavorare con pazienti che sentono le voci e hanno parti dissociative.

Il fine della presentazione delle diverse procedure non è tanto quello di promuovere una rigida applicazione di un metodo, quanto, piuttosto, offrire delle linee guida da poter utilizzare al momento opportuno in modo flessibile.

La dottoressa Mosquera non prescinde, comunque, dal fornire delle solide basi per guidare il terapeuta nel trattamento di pazienti così complessi; a partire dalla formulazione del caso, per esempio, in cui vengono elencate le aree di indagine prima del trattamento o quali sono le fondamenta per impostare un buon piano terapeutico. Un’altra parte utile è quella che guida il terapeuta su come orientarsi nella scelta dei target da selezionare per l’elaborazione EMDR, quando si presenta una persona con diverse complicazioni, infatti, non sempre è facile capire da cosa partire.

La struttura dell’opera è divisa in quattro parti:

  • Parte I. Si comincia da manuale con l’illustrare i concetti chiave dell’approccio, per esempio il termine co-coscienza che descrive l’esperienza condivisa tra il Sè e le parti dissociate, oppure il concetto di Sè-Adulto, un modello non ancora sviluppato dalle parti in grado di comprenderle e regolarle, oppure l’approfondimento dei modelli teorici che hanno influenzato il lavoro della Mosquera, uno su tutti l’approccio EMDR, che l’autrice ha contribuito a formalizzare nel corso degli anni. Questa sezione procede, poi, con la definizione delle procedure e delle tecniche utilizzate, una su tutte, quella del luogo di incontro, anche nota come “l’esercizio della sala riunioni”, in cui il paziente è invitato a chiamare le parti per lavorare sui loro bisogni, le funzioni e le relazioni tra loro.
  • Parte II. Come in altri modelli di trattamento si parte dal lavoro sul sintomo, come l’approccio EMDR insegna. La prospettiva, però, è diversa: si parte dall’approfondire il conflitto tra le parti che genera e mantiene la sintomatologia. L’intervento del terapeuta ha lo scopo di aiutare la persona a sviluppare il Sé Adulto. Questa parte include anche alcune linee guida generali, utili a impostare il trattamento.
  • Parte III. È in questa sezione che facciamo la conoscenza delle parti e delle voci che più spesso il terapeuta incontra con questo tipo di pazienti. Le parti possono essere ostili, dalla parte del perpetratore, critiche, suicidarie. È importante imparare a riconoscerle, per poter personalizzare l’intervento.
  • Parte IV. In questa sezione viene affrontato uno dei problemi principali delle parti, ovvero il loro essere bloccate nel passato del trauma e, di conseguenza, la mancata consapevolezza di essere al sicuro e protette nel presente. Il lavoro per integrarle in una narrazione coerente tra passato e presente inizia già dal primo colloquio con l’invito a raccontare la propria storia. I pazienti che hanno più difficoltà di integrazione richiederanno un lavoro specifico per favorire l’integrazione delle parti fobiche.

Ogni sezione di “Voci e Parti dissociative” è sempre accompagnata da esempi di colloqui clinici, in cui la dottoressa Mosquera illustra il suo modo di lavorare con le parti che i pazienti portano, così come anche l’ultima parte dell’opera che è dedicata all’approfondimento di alcuni casi clinici complessi che si è trovata ad affrontare.

A chi si rivolge l’opera? “Voci e parti dissociative” si rivolge a terapeuti esperti che sono formati all’approccio EMDR e che vogliono approfondire il lavoro con le parti per poter aiutare al meglio i loro pazienti con traumi complessi, permettendo di migliorare la comprensione delle parti e di poterle considerare delle risorse sia per la persona in terapia, che per il terapeuta che lavora con quella persona.

 

Il Family Based Treatment (FBT) per il Disturbo Evitante-Restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID)

Rispetto al percorso di cura per il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo, è stata utilizzata una varietà di approcci e quelli che stanno dando i migliori risultati basati sull’evidenza sono: il Family-Based Treatment (FBT; Lock & Le Grange, 2018) e gli Approcci Cognitivo-Comportamentali (CBT; Fairburn, 2018; Thomas, 2018).

 

Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID)

È frequente che alcuni bambini siano etichettati come “schizzinosi” perché appaiono poco interessati al cibo o perché restringono la varietà alimentare a poche pietanze. Nella maggior parte dei casi questa selettività non ha un impatto negativo sul loro sviluppo e si risolve spontaneamente con la crescita. In un sottogruppo di bambini, però, può pregiudicare in modo significativo la maturazione psicofisica e, a volte, soddisfare i criteri diagnostici del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID).

L’ARFID è una patologia di recente categorizzazione introdotta nel 2013 dalla quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association [APA], 2013) e rappresenta uno dei più frequenti disturbi alimentari con esordio nell’infanzia e nella preadolescenza. È definito come un Disturbo della Nutrizione e dell’Alimentazione che si manifesta con un persistente fallimento nel soddisfare l’appropriato fabbisogno nutrizionale e/o energetico associato ad una o più delle seguenti caratteristiche (APA, 2013):

  • significativa perdita di peso (o mancato raggiungimento dell’aumento ponderale previsto o crescita discontinua nei bambini);
  • significativo deficit nutrizionale;
  • dipendenza dalla nutrizione enterale oppure da supplementi nutrizionali orali;
  • marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Per porre diagnosi di ARFID, il disturbo non deve essere spiegato dalla mancanza di cibo o da una pratica culturalmente sancita, non deve manifestarsi esclusivamente durante il decorso dell’anoressia e della bulimia e non deve esserci l’evidenza che l’evitamento del cibo sia la conseguenza della paura d’ingrassare e dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Infine, il disturbo non deve essere attribuibile a una malattia medica concomitante o essere spiegato da un altro disturbo mentale. La mancata soddisfazione delle esigenze nutrizionali può portare alla comparsa di danni fisici e l’evitamento e la selettività si riflettono negativamente anche sulla vita sociale e familiare (Bryant Waugh, 2021).

A differenza di quanto succede nei pazienti con anoressia, bulimia o binge eating questi soggetti non sono guidati da preoccupazioni relative all’immagine corporea, ma piuttosto da un persistente basso appetito, sensibilità sensoriale e/o paura di conseguenze avverse dell’alimentazione (es., soffocamento). I pazienti con ARFID sono più giovani (l’età media di insorgenza è di 12.9 anni), più frequentemente maschi e presentano una durata di malattia solitamente maggiore (33.3 mesi) rispetto ad altre patologie alimentari (Fisher et al., 2014). Inoltre, il disturbo presenta una frequente comorbilità per i disturbi d’ansia e, in alcuni casi, per l’ADHD e i disturbi dello spettro autistico (Kambanism, et al., 2020; Mazzone, 2018). Ricercatori e clinici sono concordi nell’adottare un modello eziologico complesso che tenga in considerazione fattori genetici, individuali, familiari e socio-culturali (Dalla Ragione, 2018).

Il trattamento del disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID)

Rispetto al percorso di cura, è stata utilizzata una varietà di approcci per trattare l’ARFID e quelli che stanno dando i migliori risultati basati sull’evidenza sono: il Family-Based Treatment (FBT; Lock & Le Grange, 2018) e gli Approcci Cognitivo-Comportamentali (CBT; Fairburn, 2018; Thomas, 2018).

Il Family-Based Treatment (FBT) ha dimostrato efficacia con altri disturbi alimentari e recentemente è stata manualizzata una versione specifica per la cura dell’ARFID (Lock, 2021; Rosania & Lock, 2020); è un trattamento che è stato sviluppato negli anni Novanta che integra interventi dell’approccio sistemico e indicazioni del modello cognitivo-comportamentale. Il cuore di questo modello è l’attivazione genitoriale nella normalizzazione dell’alimentazione del figlio. Nel Family-Based Treatment la centralità dei genitori nel percorso di cura è imprescindibile e l’obiettivo dell’intervento è quello di individuare e mobilitare le risorse della famiglia per affrontare e superare la patologia alimentare (Gorrell et al., 2019).

Per comprendere il Family-Based Treatment per l’ARFID è utile una descrizione del modello classico adoperato per l’anoressia nervosa in età adolescenziale (Lock & Le Grange, 2018). Il Family-Based Treatment per l’anoressia nervosa (AN) sollecita i genitori ad aiutare il figlio a superare la patologia e si struttura in tre fasi. La prima si concentra sul ripristino del peso del paziente da parte dei genitori che assumono il controllo della sua alimentazione. Nella prima seduta, il terapeuta sottolinea la gravità dell’anoressia nervosa per aumentare l’urgenza e la responsabilità delle figure genitoriali. Si adotta un approccio agnostico, sottolineando che le cause dell’anoressia nervosa sono sconosciute, con lo scopo di alleviare il senso di colpa dei genitori. Il terapeuta esternalizza il disturbo alimentare, inquadrandolo come separato dal paziente e non sotto il suo controllo.

La seconda sessione della prima fase prevede un pasto in famiglia e consente al clinico di valutare e intervenire sulle dinamiche familiari che possono influenzare il ripristino del peso. La fase 2 inizia quando il paziente è tornato ad alimentarsi senza resistenza e c’è stato un costante aumento di peso. Questo secondo momento della terapia si concentra sull’aiutare i genitori a restituire al paziente il controllo dell’alimentazione in un modo che sia adeguato all’età e coerente con la loro famiglia.

La fase 3 inizia quando c’è stato il ripristino del peso, i comportamenti dell’anoressia nervosa sono scomparsi e il paziente sta gestendo da solo il cibo e l’esercizio fisico. Questa parte si concentra sull’affrontare tappe adolescenziali che l’anoressia ha bloccato.

Nel Family-Based Treatment per l’ARFID (Lock, 2021; Rosania & Lock, 2020) l’esternalizzazione della malattia e la promozione di un senso di urgenza possono essere più difficili perché le condizioni fisiche sono meno evidenti e il funzionamento psico-sociale è spesso solo parzialmente compromesso. Gli obiettivi del trattamento si concentrano sui comportamenti alimentari (es., migliorare la varietà, la flessibilità, la velocità) piuttosto che sul ripristino del peso. Il bambino può essere più motivato al trattamento e più reattivo alle ricompense rispetto ai pazienti con anoressia, che generalmente hanno poca consapevolezza di malattia e investimento nella cura. Infine, la Fase 2 e la 3 differiscono; la fase 2 si inizia quando il bambino è in grado di provare nuovi cibi in modo coerente e spesso non c’è la fase 3 dato che i pazienti con ARFID sono spesso pre-adolescenti.

Il Family-Based Treatment rivisitato per il disturbo evitante restrittivo dell’assunzione di cibo (FBT-ARFID) mantiene gli interventi chiave del FBT per anoressia  e bulimia nervosa. Nello specifico, non vi è alcuna attenzione alle cause dei comportamenti alimentari disfunzionali al fine di ridurre la colpa dei genitori e aiutare la famiglia a rimanere concentrata sull’azione (agnosticismo). In secondo luogo, i genitori sono gli agenti del cambiamento (empowerment genitoriale) e, sebbene il terapeuta spesso faciliti il processo decisionale e l’apprendimento nel sistema familiare, non è mai prescrittivo (posizione consultiva) e aiuta la famiglia a mantenere una concentrazione pragmatica. Altro elemento centrale è la separazione tra l’ARFID e il paziente (esternalizzazione), che agevola i genitori nel mantenere una posizione non colpevolizzante nei confronti del figlio. Infine, il terapeuta, soprattutto nella fase iniziale, pone l’attenzione sulla gravità della patologia per stimolare i genitori a mantenere un sufficiente senso di urgenza che mobiliti le loro risorse nel processo terapeutico.

Il Family-Based Treatment per l’ARFID mantiene i presupposti teorici delle forme originarie di FBT, ma differisce per alcuni aspetti tecnici. In alcuni casi di ARFID, come già detto, può essere difficile costruire un senso di urgenza al trattamento e una consapevolezza della severità del disturbo. A differenza delle preoccupazioni mediche acute ed evidenti dell’anoressia e della bulimia nervosa, alcuni bambini che si presentano per il trattamento di ARFID, in particolare quelli con sensibilità sensoriale, potrebbero non aver ancora sperimentato chiare conseguenze mediche o nutrizionali della malattia e il disagio e la menomazione possono essere esclusivamente nell’ambito psicosociali. Pertanto, il lavoro del terapeuta nella costruzione del senso di urgenza e della severità dovrebbe focalizzarsi sulla prevenzione dei danni che l’ARFID potrebbe causare se non si intervenisse nell’immediato (es. crescita potenziale, sviluppo puberale, problemi tra pari e familiari). Allo stesso modo, durante la Fase 1 di Family-Based Treatment per l’ARFID per il terapeuta separare la malattia dal paziente è spesso più difficile rispetto al trattamento di anoressia o bulimia. L’ARFID tende ad avere un esordio precoce, e quindi molte famiglie hanno convissuto con la patologia per la maggior parte della vita del bambino ed è percepita come una caratteristica del figlio. Ciò è in netto contrasto con l’esordio acuto di anoressia, che consente ai genitori del paziente di ricordare chiaramente la vita prima del disturbo alimentare e di vedere prontamente la possibilità di tornare alla normalità e le caratteristiche pre-morbose del figlio. Oltre a ciò, i pazienti con ARFID sono generalmente più propensi a partecipare al trattamento già nelle fasi iniziali. Chi soffre di anoressia nervosa fatica a vedere gli effetti negativi del disturbo e per questo è poco motivato alla cura. Durante la Fase 1 del FBT per anoressia è sconsigliato che l’adolescente sia coinvolto nelle decisioni sull’alimentazione e i genitori spesso devono ignorare le loro richieste. I pazienti con ARFID sono meno determinati al mantenimento della malattia e sebbene molti fatichino a partecipare al trattamento, una volta che accettano il coinvolgimento dei genitori nella gestione dei pasti, sono spesso motivati ad “avere voce in capitolo” nella definizione di obiettivi e sfide.

Conclusione

Per concludere, l’ARFID è una patologia piuttosto eterogenea e l’applicazione del Family-Based Treatment richiede degli adattamenti. Gli interventi FBT fondamentali sono mantenuti in qualsiasi processo terapeutico ma possono essere giustificate modifiche e interventi ad hoc, come sul focus del trattamento (es., aumento di peso, ampliamento della flessibilità alimentare) e sulle istruzioni specifiche fornite per il pranzo di famiglia. Non abbiamo ancora dati sull’adeguatezza di questo trattamento per popolazioni specifiche (adolescenti, giovani adulti e pazienti con comorbilità psichiatriche o mediche), ma i report preliminari suggeriscono le potenzialità del Family-Based Treatment per l’ARFID in pazienti in età pediatrica e pre-adolescenziale, confermando l’utilità dell’approccio sistemico e dell’intervento sulla famiglia nei casi di disturbi alimentari e della nutrizione.

 

Che impatto ha l’attività fisica sulle emozioni dei bambini e degli adolescenti?

La ricerca ha dimostrato che l’attività fisica attiva risposte emotive che derivano da una combinazione di fattori cognitivi (ad esempio, l’autoefficacia) e da segnali provenienti dai recettori viscerali.

 

Gli effetti positivi dell’attività fisica

Negli ultimi anni le ricerche si sono concentrate sullo studio degli effetti dell’attività fisica sulla salute. Le evidenze scientifiche suggeriscono che un’adeguata e prolungata attività fisica migliora l’umore aumentando la concentrazione di dopamina, serotonina e norepinefrine nel cervello (Voss et al., 2011). Al contrario però, un’attività fisica eccessiva può innescare la produzione di steroidi anabolizzanti androgeni che aumentano l’irritabilità e l’aggressività e potenzialmente le emozioni negative (de Graaf‐Roelfsema et al., 2007). Ad oggi, determinati risultati sembrano essere contrastanti tra loro; per questo lo studio condotto nel 2022 da Li e colleghi ha avuto come scopo quello di esplorare gli effetti dell’attività fisica, dentro e fuori dalla classe e dalla scuola, sulle emozioni positive di bambini e adolescenti, riscontrando un’associazione positiva tra queste due variabili. In letteratura attualmente considera quattro tipologie di spiegazioni differenti per questa associazione.

La prima riguarda la distrazione e suggerisce che i bambini e gli adolescenti distratti da stimoli sfavorevoli, mentre partecipano all’attività fisica, sperimentano miglioramenti significativi nelle emozioni durante e dopo l’attività (Bourke et al., 2021).

Un’altra spiegazione riguarda l’impatto sull’autoefficacia; l’attività fisica potrebbe essere vista come un’attività impegnativa e praticarla regolarmente potrebbe contribuire ad aumentare la fiducia in sé stessi migliorando le emozioni durante e dopo l’attività (Bandura, 1977).

La terza spiegazione considera l’interazione sociale; il sostegno reciproco tra gli individui coinvolti in attività fisica svolge un ruolo importante nel miglioramento delle emozioni positive (Ransford, 1982).

L’ultimo punto riguarda l’aumento di trasmissione sinaptiche delle monoammine e l’attivazione della secrezione di endorfine che avviene durante l’attività fisica (Morgan, 1985). Queste sostanze hanno un effetto inibitorio sul sistema nervoso centrale e ciò implica una riduzione del dolore ed un aumento dello stato di attivazione del cervello, con la conseguenza di un miglioramento dell’umore dopo l’attività (Yeung, 1996).

Tuttavia, dagli studi, non sono emersi dati coerenti riguardo agli effetti di causalità e, per questo, nel 2022 Li et al. hanno condotto una revisione sistematica con lo scopo di valutare gli effetti dell’attività fisica sulle emozioni positive di bambini e adolescenti; in particolare, sono stati inclusi nella ricerca 24 articoli presenti nella letteratura pubblicata, che vanno dal 2007 al 2021, condotti in 14 paesi differenti. Gli interventi di svariate tipologie di attività fisica, presenti negli studi inclusi, sono stati raggruppati e comparati con un gruppo di controllo che non presentava nessuna tipologia di intervento di stretching o di esercizio fisico. Per la valutazione degli effetti dell’esercizio sulle emozioni positive, si sono utilizzati diversi questionari basati su specifici contenuti, utili per la misura di indicatori rilevanti e registrati per ogni centro in cui sono state condotte le ricerche. L’età dei soggetti partecipanti alle ricerche variava dai 7 ai 21 anni, con 3 studi riguardanti le scuole elementari (2-6 anni), 15 studi riguardanti le scuole medie e superiori e 6 studi con partecipanti universitari.

Gli effetti dell’attività fisica: differenze per fasce di età

I primi risultati rilevano un miglioramento emotivo maggiore nel gruppo di soggetti di età superiore ai 12 anni, rispetto al gruppo di età inferiore. La ragione, come spiegato anche da una precedente revisione, potrebbe essere il graduale sviluppo della regolazione emotiva durante la crescita (Zimmermann & Iwanski, 2014), che permette di prestare maggior attenzione alle riflessioni sui propri stati emotivi interni (Zimmer-Gembeck & Skinner, 2011).

Altre analisi hanno riscontrato che il sottogruppo che praticava attività fisica, sia aerobica che anaerobica, mostrava un maggiore miglioramento nelle emozioni positive rispetto al gruppo che non praticava attività fisica. I dati, tuttavia, hanno mostrato un miglioramento maggiore in concomitanza con l’attività aerobica. La ricerca ha dimostrato che l’attività fisica attiva risposte emotive che derivano da una combinazione di fattori cognitivi (ad esempio, l’autoefficacia) e da segnali provenienti dai recettori viscerali (Ekkekakis et al., 2011). Quando l’attività fisica supera la soglia ventilatoria (VT), la percezione viscerale influisce sulle esperienze emotive riguardanti l’attività fisica. Per questo, attività aerobiche al di sotto della soglia ventilatoria potrebbero innescare esperienze emotive positive, mentre attività anaerobica, sopra la soglia ventilatoria, potrebbe contribuire ad innescare emozioni negative. Nonostante questi risultati siano confermati da un’altra ricerca che rileva l’effetto terapeutico dell’attività aerobica (Rethorst et al., 2009), un altro studio condotto nel 2018 (Oliveira et al., 2018) non ha rilevato differenze significative; questo porta alla necessità di ulteriori ricerche per la valutazione e la conferma di questi risultati.

La ricerca ha rilevato dati anche riguardanti la durata dell’esercizio fisico, riscontrando effetti sulle emozioni positive significativamente più alti nei gruppi che praticavano attività di 30-60 minuti. Un minor tempo di attività potrebbe non avere effetti di sollievo emotivo (Salmon, 2001), mentre attività che superano i 60 minuti potrebbero avere effetti sulla produzione di steroidi androgeno-anabolizzanti che aumentano l’irritabilità e l’aggressività (Kersey, 1996).

I risultati di questa ricerca, nel complesso, indicano un’associazione positiva tra attività fisica ed emozioni positive, ma ricerche future potrebbe essere utili per chiarire e confermare le controversie che si sono riscontrate riguardanti la durata, l’età e la tipologia di attività.

Quando nasce un bambino nasce anche una madre

In questo articolo l’esperienza della maternità viene esplorata nei due versanti della nascita psicologica del bambino e dei profondi cambiamenti psico-affettivi nella madre durante la gestazione e i primi anni di vita del figlio.

 

Gravidanza e maternità

L’esperienza della maternità è per sua natura totalizzante e coinvolge la madre in ogni dimensione del suo essere: fisico, cognitivo ed emotivo. Si tratta di un processo profondo e complesso che comporta grandi cambiamenti: Racamier (2010) parla di una vera e propria “crisi d’identità”, che offre alla madre nuove possibilità di trasformazione e maturazione. Si tratta di un processo  paragonabile a quello adolescenziale per intensità e profondità.

La madre infatti non solo accoglie il figlio nel suo corpo, che diventa per lui casa e contenitore nutriente, ma lo accoglie in modo profondo e invisibile dentro di sé, nei suoi pensieri e nel suo mondo interno. Racamier definisce “maternalità” “la fase di sviluppo affettivo che corrisponde alla realtà biologica della maternità” (Racamier, 2010, pag. 38). Durante la gravidanza il corpo della madre cambia per soddisfare le esigenze del bambino in crescita e contemporaneamente avvengono continui aggiustamenti psichici nella mente di lei. Tale condizione psicologica si caratterizza per l’essere costantemente protesa verso il proprio bambino e i suoi bisogni, una compartecipazione psichica ed emotiva profonda che è stata studiata nelle sue diverse sfaccettature. “Preoccupazione materna primaria” è il termine attribuito allo stato di totale assorbimento psicologico verso il bambino (Winnicott, 1956). “Pensare per due” è il dialogo interno continuo di una madre con suo figlio (Ammaniti, 2008). “Costellazione materna” è il nome dato a tutti gli atteggiamenti di attenzione e premura con cui la madre si prende spontaneamente cura del suo bambino garantendone il benessere (Stern, 2007). Queste modalità caratterizzano la gravidanza e perdurano durante il primo anno di vita del bambino, traducendosi in azioni tipiche come parlare con lui, attribuirgli un nomignolo affettuoso e nel pensare come sarà il suo viso, il suo corpo e il suo carattere quando è ancora in gestazione.

Nascita del bambino e della madre

Il momento della nascita è un evento collocabile con precisione nel tempo e nello spazio, in seguito al quale il bambino nasce fisicamente, ma è ancora psichicamente unito alla madre in modo profondo. Durante i primi anni di vita del bambino avvengono due processi paralleli e complementari, che porteranno alla nascita del bambino come soggetto separato dalla madre e contemporaneamente alla nascita di una madre. Il primo è il processo di separazione, che implica il ridimensionamento del legame simbiotico, e il secondo è quello di individuazione, che porterà il bambino a percepire se stesso come un individuo autonomo (Mahler, 1975).

In questo periodo la madre accudisce il bambino cercando di inferire i bisogni che manifesta attraverso i suoi comportamenti. Quando il neonato piange, la madre si occupa di lui con diverse azioni che spesso accompagna a parole di rassicurazione. Prova a cambiarlo, a offrirgli nutrimento, a coprirlo, a cullarlo, fino a che il pianto cesserà perché il bisogno sarà stato compreso: dalla madre e, attraverso di lei, dal bambino stesso. Infatti, grazie all’accudimento materno il bambino impara a riconoscere e distinguere la tensione della fame, il malessere provocato dal freddo, e così via. Il riconoscimento delle sensazioni corporee fonda la possibilità di percepire il proprio corpo come un’entità a sé, di sentirsi “individuo”: nasce lentamente l’identità. La prima relazione è infatti una relazione di contatto, attraverso la pelle della madre che accarezza quella del suo bambino, mentre lo sorregge, lo culla, lo accudisce (Anzieu, 1985). È attraverso l’abbraccio con cui la madre tiene, contiene, accudisce il bambino che lui può iniziare a percepirsi come un soggetto, con un proprio corpo e una propria individualità (Winnicott, 1974).

Il bambino quando nasce non esiste ancora come individuo, dato che è fuso psichicamente con la madre. Parafrasando le parole di Winnicott possiamo concludere dicendo che non c’è una madre senza un bambino e non esiste un bambino senza le cure sufficientemente buone e la presenza desiderante della madre (Winnicott, 1940).

Parlare all’Io dandosi del ‘Tu’? Autoregolazione emotiva e costruzione di significato

Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare con se stessi.

 

Introduzione

Chi non si è mai colto a parlare tra sé e sé? Se per alcuni l’esperienza passa al di sotto della consapevolezza, per altri invece è qualcosa che fa parte del proprio quotidiano, al punto che si stima che almeno il 20% della giornata sia passata in monologhi o dialoghi con sé stessi, allo scopo di spronarsi, darsi istruzioni, correggersi, commentare quanto si sta vivendo in quel momento. Ma il contesto non necessariamente è solo quello presente, ecco quindi che lo stesso fenomeno può presentarsi in riferimento a eventi nel passato o a eventi, oggetti, situazioni, di là da venire (Alderson-day & Fernyhough, 2011).

Degli esempi? Quando siamo al semaforo e pensiamo alla lista delle cose da fare quando arriveremo al lavoro o a casa; quando dobbiamo risolvere un problema difficile e ci aiutiamo con le parole, dandoci istruzioni su come proseguire; quando pensiamo con rabbia o con gioia a un incontro avvenuto in passato; quando cerchiamo di inquadrare una situazione, allo scopo di capire come ci potremo muovere la prossima volta che ci ritroveremo in essa, in relazione ai nostri obiettivi. Questi sono solo alcuni esempi della ricca fenomenologia del linguaggio interiore e molti altri ne possono venire in mente; anche partendo dalla propria esperienza personale, con po’ di introspezione.

Non è “strano” né anormale parlare tra sé e sé. Di fatto potrebbe non essere altro che l’interiorizzazione di quanto, quando eravamo bambini, le nostre figure di riferimento e l’ambiente ci comunicavano e che abbiamo successivamente imparato a dire a noi stessi, al fine di autoregolare il nostro comportamento (“Stai seduto dritto sulla sedia”), il nostro pensiero (“Concentrati su quello che stai facendo”) e le nostre emozioni (“Ora calmati”).

Per Vygotsky (1978), insigne esponente della psicologia sovietica degli inizi del Novecento, l’apprendimento del linguaggio passa, di fatto, dal processo di socializzazione nei primi anni di vita del bambino. Il codice linguistico verrebbe prima acquisito per osservazione e ascolto, nel suo uso e in relazione alle diverse situazioni, per poi essere progressivamente ripetuto, elaborato e, infine, assimilato. Il bambino inizia così a farne pratica espressiva e comunicativa orientata ad altri interlocutori (overt speech). Mano a mano che le strutture linguistiche –nelle lore regole, usi e funzioni nei diversi contesti– vengono assimilate, il linguaggio diventa strumento di autoregolazione, che si manifesta nell’uso a scopo riflessivo, con tono e volume inferiori rispetto al caso precedente, udibili solo dal proferente e da chi osserva (private speech). Al termine di questo percorso di progressiva interiorizzazione della capacità di linguaggio, sta la definitiva acquisizione della capacità di parlare tra sé e sé, senza proferire suoni (inner speech), capacità che per alcuni equivale alla capacità stessa di pensare.

Il dialogo interno

Le idee di Vygotsky sulla relazione tra linguaggio e pensiero hanno fatto scuola, e lo studio dell’inner speech –ovvero, il parlare tra sé e sé come strumento di pensiero e di autoregolazione– si è dimostrato nel tempo molto interessante in ambito clinico (ad esempio, per lo studio di allucinazioni uditive e ruminazione; cfr. Perrone-Bertolotti et al., 2014) e applicativo. In questo senso due ambiti di ricerca riguardano il miglioramento della performance dell’atleta sotto pressione e la facilitazione dell’apprendimento in ambito scolastico (cfr.  Theodorakis et al., 2012).

Nella prospettiva più generica della vita quotidiana il monologo/dialogo interno è uno degli strumenti a nostra disposizione per aiutarci a riflettere su ciò che viviamo, descrivere situazioni, fare scelte, valutare, prendere decisioni, autoregolarci emotivamente, cognitivamente e nel comportamento. Le ricadute cliniche sono piuttosto ampie, al punto che già da tempo esiste un approccio terapeutico di stampo cognitivo-comportamentale focalizzato sul suo uso sistematico  (Cognitive Behavior Modification [CBM]; Meichenbaum, 1977).

Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare a noi stessi.

Un interessante e recente articolo uscito su Science (disponibile qui) permette di apprezzare come variazioni, anche solo superficiali, nelle frasi che usiamo per raccontare e raccontarci siano connesse a effetti significativi dal punto di vista psicologico. Nello specifico, gli autori (Orvell et al., 2017) erano interessati a testare l’ipotesi che la variazione di un pronome personale – l’uso della seconda persona singolare “Tu” al posto della prima persona singolare “Io”– avesse un impatto significativo sul modo in cui le persone elaborano le esperienze negative.

Partendo dalle evidenze disponibili circa gli effetti positivi della distanza psicologica in relazione al disagio emotivo (Kross & Ayduk, 2017) e sul valore normativo che il linguaggio generico dona alle espressioni descrittive (Bolinger, 1979), gli autori hanno utilizzato diversi compiti di scrittura espressiva, dimostrando che il “Tu” generico è utilizzato per descrivere situazioni nelle quali si percepisce la presenza di una norma generale (leggi o aspettative su come dovrebbero essere le cose; per esempio, “Non si passa con il rosso” vs “Non passare con il rosso”); le persone lo utilizzano per riflettere sulle proprie esperienze negative (“L’orgoglio è qualcosa che può ostacolarti nella ricerca della felicità”), poiché permette di assumere una maggiore distanza psicologica dai vissuti in corso di elaborazione (Liberman et al., 2007); e che infine tale distanza facilita la costruzione di senso quando si riflette su un’esperienza nella quale si sono vissute emozioni negative anche molto intense.

Quali ripercussioni per le persone?

Nella clinica la validazione e la normalizzazione dell’esperienza del paziente (ricondurre alla norma, a qualcosa che in genere è possibile e ci si può aspettare che accada nella realtà) sono strumenti necessari per soddisfarne i bisogni relazionali di base (Erskine, & Trautmann, 1996). In questo modo il paziente comprende che i propri vissuti sono condivisibili, sono reali anche per un altro – il terapeuta, di cui si fida – le cui opinioni sono per lui valide e il quale può eventualmente rimandare al paziente che, nelle medesime circostanze, chiunque avrebbe potuto reagire nello stesso modo.

Su questa linea di pensiero possiamo cogliere i benefici del parlare a noi stessi utilizzando il “Tu” generico anche quando riflettiamo da soli sulle nostre esperienze.

Utilizzare delle espressioni linguistiche generali e normalizzanti può infatti permetterci di giudicare le situazioni nelle quali siamo coinvolti, soprattutto quando sperimentiamo emozioni negative intense, da una posizione più distaccata, per guardare con maggiore obiettività quanto è accaduto, per trovarne le cause e chiarire a noi stessi le ragioni della nostra reazione, quasi come fossimo un osservatore esterno e quindi meno coinvolto, promuovendo in questo modo un migliore adattamento alle situazioni stressanti o emotivamente cariche (Ayduk & Kross, 2010).

Uso delle contenzioni nelle RSA: tra legislazione ed etica professionale

I mezzi di contenzione fisica sono dispositivi che limitano la libertà dei movimenti volontari della persona e che possono essere più o meno invasivi a seconda del grado di costrizione provocato.

 

In nessun ospedale dove i malati sono legati credo che nessuna terapia, di nessun tipo, possa dare giovamento (F. Basaglia, 1968)

Il rispetto dell’autonomia e della dignità della persona è alla base di una buona relazione terapeutica ed è condizione necessaria per ottenere l’efficacia di un trattamento. Nonostante ciò, l’utilizzo dei mezzi di contenzione è ancora molto diffuso e tale pratica, spesso aggravata dallo stato di fragilità della persona a cui viene applicata, affonda le radici in una cultura assistenziale poco attenta agli aspetti appena citati.

La contenzione fisica

La contenzione è un atto sanitario-assistenziale di natura eccezionale, da prendere in considerazione solo quando tutte le altre misure alternative si sono dimostrate inefficaci (Cester & Gumirato, 1997). L’utilizzo di tale pratica è un tema molto dibattuto, sia dal punto di vista etico che normativo, per la scarsa efficacia clinica dimostrata e per le implicazioni derivanti dalla limitazione della libertà dell’individuo.

I mezzi di contenzione fisica sono, infatti, dispositivi che limitano la libertà dei movimenti volontari della persona e che possono essere più o meno invasivi a seconda del grado di costrizione provocato. Essi, in base alla situazione, possono essere applicati al corpo, a una parte di esso o allo spazio circostante. Esempi di contenzione fisica sono le sponde a letto, il tavolino avvolgente la carrozzina, i divaricatori, le cinture addominali, pelviche e pettorali, il lenzuolo contenitivo, i bracciali e le manopole (Zanetti & Costantini, 2001).

Relativamente al paziente anziano, l’utilizzo dei dispositivi di contenzione viene spesso giustificato dalla presenza di agitazione psico-motoria, di comportamenti aggressivi auto e/o etero lesionistici e dal rischio di caduta (Evans et al., 2002).

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB, 2015) sottolinea però che per applicare forme di contenzione fisica non è sufficiente la presenza di uno stato di agitazione, ma deve presentarsi un pericolo grave e attuale per il malato o per terzi. Una volta scongiurato, la contenzione deve cessare poiché non più giustificata.

La prescrizione della contenzione è di competenza medica e va riportata in cartella clinica, specificando il tempo di applicazione, le modalità, il motivo e il monitoraggio. Inoltre, la sua applicazione deve essere preceduta da un valido consenso informato da parte della persona assistita o da chi ne ha la tutela giuridica (Casale, 2001).

Tale decisione dovrebbe essere il risultato di una valutazione multidimensionale dello stato psico-fisico della persona, effettuata dall’équipe multidisciplinare, la quale dovrebbe prendere prioritariamente in considerazione le misure alternative possibili o, nel caso in cui esse si dimostrino fallimentari, elaborare un piano d’intervento individualizzato. Quando la contenzione diviene l’unica soluzione possibile, devono essere tenuti in considerazione i principi dello stato di necessità e della proporzionalità (Kramer, 1994; Reuben et al., 1995).

Aspetti normativi

L’utilizzo non giustificato dei mezzi di contenzione espone i responsabili a ipotesi di reato, in quanto una condotta di questo tipo rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della persona, limitandone la libertà di movimento e l’autodeterminazione.

Secondo l’art. 54 del Codice Penale, infatti, i diversi dispositivi di contenzione possono essere impiegati solo nei casi in cui si prefiguri uno stato di necessità, ovvero quando il pericolo presenta le seguenti caratteristiche: a) è attuale, cioè deve esistere la possibilità che si verifichi; b) causa un danno alla persona; c) è grave; d) l’agente non deve porsi di propria volontà nel pericolo.

D’altro canto, sottoporre a contenzione individui in assenza delle suddette condizioni comporta il configurarsi dei seguenti reati previsti dal Codice Penale: Art. 571 – Abusi dei mezzi di correzione e di disciplina;  Art. 572 – Maltrattamenti;  Art. 582-83 – Lesioni personali volontarie;  Art. 589 – Omicidio colposo;  Art. 605 – Sequestro di persona;  Art. 610 – Violenza privata.

A queste fonti di diritto di rango superiore si aggiunge, inoltre, il codice deontologico di ogni professionista sanitario coinvolto. Relativamente alla professione dello psicologo, è bene ricordare in tale contesto l’articolo 4 –“Lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni. […] Rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi”– e l’articolo 22 –“Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente”–.

Conseguenze legate all’uso delle contenzioni

Se si permette che mani e piedi vengano legati, in breve si riscontrerà nel paziente un totale processo di regressione e si darà l’avvio a ogni genere di trascuratezza e tirannia, fino a che la repressione diventerà l’abituale sostituto dell’attenzione, della pazienza, della tolleranza e della gestione corretta (Conolly, 1856).

In letteratura sono presenti una serie di evidenze che sottolineano le conseguenze nocive dovute all’utilizzo dei mezzi di contenzione, sia a breve che a lungo termine: tra queste la perdita di autonomia, l’aumento della disabilità e la morte stessa (Mohsenian et al., 2003).

I potenziali danni riscontrati sono di natura fisica, quali arrossamento, abrasioni, ematomi, cianosi, strangolamento, asfissia da compressione della gabbia toracica, incontinenza, infezioni, sarcopenia e lesioni da decubito, e di natura psicologica, come paura, sconforto, agitazione, stress, confusione, rabbia, depressione, perdita di autostima, umiliazione e regressione comportamentale (Evans et al., 2002).

Secondo il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (2015, pag.3) “Il superamento della contenzione è un tassello fondamentale nell’avanzamento di una cultura della cura – nei servizi psichiatrici e nell’assistenza agli anziani – in linea con i criteri etici generalmente riconosciuti e applicati in ogni altro campo sociosanitario”.

Spesso il ricorso alla contenzione è anche determinato da una scarsa conoscenza delle possibili alternative, motivo per cui è necessario promuovere interventi formativi che favoriscano una cultura dell’assistenza attenta al ruolo dei fattori relazionali e ambientali nel processo di cura e consapevole dei rischi e dei problemi associati al contenimento.

Misure alternative

In letteratura sono state proposte numerose misure alternative alla contenzione volte ad arginare episodi di agitazione psico-motoria e di aggressività, promuovendo al contempo la sicurezza della persona e la sua libertà di movimento (Bryant & Fernald, 1997).

La maggior parte di tali interventi sono principalmente modifiche ambientali o la proposta di stimolazione multisensoriale, come l’innovativa Snoezelen Therapy.

Per quanto riguarda gli interventi ambientali, famosa è l’applicazione dei principi della GentleCare (Jones, 1999). Secondo questa metodologia, risultano particolarmente indicati ambienti privi di rumori di sottofondo, a luci soffuse, con uscite mimetizzate o dotate di sistemi di allarme. Principio alla base di tale intervento è la necessità di adattare l’ambiente alle esigenze della persona invece che pretendere il contrario.

È bene, inoltre, proporre durante la giornata attività occupazionali e di intrattenimento individuali o di gruppo, in modo da stimolare l’individuo e al tempo stesso tenerlo sorvegliato e impegnato. Nel caso sopraggiungano deliri o allucinazioni è necessario mostrare un atteggiamento empatico, evitando qualsiasi tipo di critica, negazione o banalizzazione dello stato emotivo altrui. Circa quest’ultimo punto, è consigliata la pratica della Validation Therapy (Feil, 1991).

Relativamente alla stimolazione sensoriale, in alcune strutture per anziani è possibile trovare la stanza Snoezelen, un ambiente caratterizzato dalla presenza di più stimoli sensoriali diversificati, come musica rilassante, materasso ad acqua, aromaterapia, fasci di fibre ottiche e proiettori. Secondo Kitwood uno dei bisogni principali della persona con demenza è quello di essere occupata (Kitwood, 1997), ed infatti è proprio nei momenti in cui le persone sono inoccupate e sperimentano la noia che sono maggiormente inclini ad agitarsi (Cohen-Mansfield et al., 1992). La stanza Snoezelen ha, dunque, lo scopo di rilassare la persona e al tempo stesso coinvolgerla e stimolarla per prevenire l’agitazione, proponendo stimoli in maniera graduale in modo da evitare un sovraccarico sensoriale.

Il rischio di caduta

Nelle strutture per anziani la principale causa per cui viene prescritto un mezzo contenitivo è spesso il “rischio di caduta”, ma al momento nessuno studio in letteratura dimostra una riduzione di tale rischio nei soggetti sottoposti a contenzione (Zanetti et al., 2012; Sze et al., 2013).

Come è noto, la persona anziana, per le caratteristiche fisiologiche correlate all’età, eventuali comorbidità e farmaci assunti, è altamente suscettibile ai danni da caduta (WHO, 2008).

È bene precisare che la caduta, però, può essere determinata, oltre che dalla presenza di deficit motori e sensoriali, anche da una serie di fattori ambientali che possono essere facilmente individuati ed eliminati, quali scarsa illuminazione, superficie irregolare e presenza di ostacoli lungo il percorso (Quigley et al., 2010).

Risulta, dunque, fondamentale prevenire e ridurre il rischio di caduta attraverso un’attenta valutazione delle caratteristiche del singolo individuo oltre che delle caratteristiche ambientali (Ministero della Salute, 2011).

A tal proposito, esiste uno strumento di valutazione del rischio di caduta, ovvero la Morse Fall Scale (Morse, 1997), un rapido questionario a risposta dicotomica che individua tre tipologie di caduta (accidentale, fisiologica prevedibile, fisiologica non prevedibile) e che prende in considerazione una serie di indicatori utili per l’intercettazione delle persone a rischio, come ad esempio la diagnosi, la storia di cadute, lo stato mentale, l’andatura, il grado di mobilità e la terapia endovenosa.

La condotta aggressiva

Un pericolo configurabile come motivo di contenzione all’interno degli ambienti di cura è sicuramente la manifestazione di aggressività.

Anche in questo caso è fondamentale individuare ed eliminare il fattore scatenante. Secondo la letteratura, infatti, solo il 2% degli episodi violenti accade senza un antecedente (Katz, 2000), mentre più del 70% è dovuto al contatto col personale (Ryden et al., 1991). Rispetto a quest’ultimo dato, emerge la necessità di una grande attenzione e sensibilità da parte del personale di cura verso gli aspetti comunicativi e relazionali.

​​Per quanto riguarda la comunicazione, è ormai nota la sua relazione con l’aggressività, infatti negli ambienti di cura sono spesso consigliate le tecniche di de-escalation (Anderson & Clarke, 1996), un insieme di raccomandazioni per il personale sanitario su come modulare la comunicazione verbale (voce bassa, toni pacati, non sovrapporsi, non rimproverare ecc.) e non verbale (mantenere il contatto visivo, non tenere le mani in tasca, evitare il contatto fisico, attenzione alle espressioni facciali), al fine di ridurre gli agiti aggressivi dei pazienti.

Dal punto di vista relazionale, infine, è essenziale riconoscere che, come sottolineato da Tom Kitwood (1997), spesso i caregivers utilizzano inconsapevolmente nei confronti dell’anziano delle modalità di interazione svalutanti, che possono minare i bisogni psicologici della persona, aumentando l’agitazione. L’autore, ad esempio, individua 17 approcci negativi, tra cui l’invalidazione, l’infantilizzazione, l’imposizione e la derisione.

L’utilizzo della hope therapy per migliorare il benessere psicologico delle donne dopo un aborto

Uno studio del 2021 di Raphi e colleghi ha utilizzato la hope therapy su un gruppo di donne, le quali hanno affrontato interruzioni di gravidanza tra il 2020 e il 2021.

 

Le conseguenze psicologiche dell’aborto

Il fenomeno dell’aborto è la causa più comune di interruzione di gravidanza, la quale può avvenire in modo spontaneo o intenzionale (Catalano et al. 2016). 

L’aborto, in qualsiasi forma avvenga, è considerato un evento ad alto impatto traumatico per le donne che lo affrontano, sia per le possibili complicazioni mediche conseguenti sia per le conseguenze psicologiche ad esso associate. È importante sottolineare che gli studi riguardanti le conseguenze psicologiche dovute all’aborto hanno ottenuto risultati discordanti e che si può solo affermare che esclusivamente in alcune donne questo fenomeno ha un apporto diretto allo sviluppo di problematiche psicologiche gravi (Reardon, 2018). Infatti, le conseguenze psicologiche dell’aborto sono influenzate da diversi fattori, quali la storia di vita, disturbi mentali pregressi, altre gravidanze desiderate o indesiderate e supporto sociale (Zareba et al., 2020).

La hope therapy

In ogni caso, esistono svariati tipi di trattamenti per intervenire e uno di questi è la hope therapy. Questa terapia si fonda sul concetto di hope, ovvero “speranza”, considerandola un bisogno fondamentale per l’essere umano, al quale conferisce vitalità, flessibilità di pensiero e di azione e un generale miglioramento della salute mentale. La hope therapy deriva dal pensiero di Snyder e si basa sulla terapia cognitivo comportamentale. Secondo questo autore la speranza è una skill appresa tramite la socializzazione in infanzia (Snyder, 2002). Questo trattamento è utilizzato per ridurre la depressione e l’ansia, per portare cambiamenti positivi a livello cognitivo e per aiutare il paziente a focalizzarsi sulle soluzioni. La hope therapy fa parte delle terapie di terza ondata ed è una combinazione di terapia cognitiva, terapia narrativa e orientata alla soluzione; essa include due fasi: la costruzione della speranza e l’accrescimento della speranza. Le persone speranzose nel fronteggiare un problema tendono a focalizzarsi e dedicarsi attivamente alla risoluzione di quest’ultimo; allo stesso modo, sono in grado di gestire meglio e adattarsi più facilmente a trattamenti psicologici in seguito ad una diagnosi (Snyder 2000).

Hope therapy e aborto

Uno studio del 2020 di Raphi e colleghi ha utilizzato la hope therapy su un gruppo di donne, le quali hanno affrontato interruzioni di gravidanza tra il 2020 e il 2021. Le 52 donne partecipanti allo studio sono state assegnate, in modo del tutto casuale, a due gruppi distinti, definiti in ambito di ricerca gruppo sperimentale, che consiste nel gruppo al quale viene somministrato il trattamento prestabilito, e gruppo di controllo, ovvero il gruppo a cui non viene somministrato alcun trattamento. Il gruppo sperimentale quindi, è stato sottoposto a sedute terapeutiche basate sul paradigma della hope therapy, complessivamente per 8 sedute da 45 minuti, due volte a settimana. Per valutare l’effettiva efficacia del trattamento sono stati somministrati due questionari psicodiagnostici che andavano a indagare il benessere psicologico e la qualità della vita in generale, così da poter valutare se il trattamento avesse sortito un qualche tipo di effetto.

Gli effetti della hope therapy

Dopo aver condotto le dovute analisi statistiche, i risultati dello studio hanno mostrato come i punteggi, sia del benessere psicologico che della qualità di vita generale, fossero significativamente più alti nelle donne che erano state sottoposte alla hope therapy, ovvero quelle appartenenti al gruppo sperimentale, rispetto ai punteggi nettamente inferiori totalizzati dalle donne alle quali non era stato somministrato il trattamento prestabilito dallo studio. Gli autori quindi concludono sottolineando come la hope therapy possa migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita di donne le quali hanno affrontato un evento doloroso e molto spesso traumatico come l’aborto, sebbene a studio abbiano partecipato solo 52 donne, rendendo così i risultati non generalizzabili in modo certo alla popolazione generale.

 

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