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TikTok fra creatività e psicopatologia

Tik Tok, quanta energia, quanta velocità, persino la politica ne approfitta, eppure in fretta scopri quanto è fragile il mondo.

 

Tik Tok e gli altri social network

 Osservando i social network, in un attimo balza agli occhi quanto siamo intrappolati in una bolla illusoria di felicità che si finge evoluta. Grandi risorse che ci agevolano e ci accompagnano, offrendoci anche enormi vantaggi, spesso le piattaforme social non solo segnalano, ma soprattutto stimolano vulnerabilità̀ psicologiche. Si osserva una dilatata vulnerabilità̀ narcisistica.

Osservando i contenuti proposti dai tiktokers, spiccano sicuramente profili creativi e talentuosi, ma al contempo si evidenziano caratteristiche di egocentrismo e problematiche legate alla propria immagine, disagi di tipo psicopatologico e/o difficoltà relative all’identità̀ con fenomeni di dismorfismo, vuoto, chiusura a causa di evidenti difficoltà relazionali e interpersonali, meritevoli di attenzione (Zenone & Barbic, 2021).

Nell’ambiente virtuale si tenta di supplire alle frustrazioni della vita quotidiana e alle palesi crisi esistenziali con personaggi virtuali dissociati dal mondo. Tali profili vengono poi rinforzati dagli utenti e da coloro che, anche solo in un circolo di curiosità̀ e noia, rafforzano la credenza di specialità̀ del creator mantenendone alta la popolarità̀, creando così modelli di indubbia vulnerabilità̀ psicologica. Un fenomeno, questo, già̀ osservato nello showbiz televisivo, ma qui fortemente condizionato da un habitat virtuale che sembra aggravarne l’intensità̀ e legittimare la presenza di comportamenti e performance di dubbio valore, sostenute da un atteggiamento collettivo di tipo disfunzionale (Nesi, 2020). Attraverso i social l’influenza di alcuni atteggiamenti si mostra più̀ virale, colpisce, appassiona, distorce, e talvolta stordisce!

Appare certamente interessante osservare il fenomeno attraverso una chiave di lettura socio-psicologica profonda, ma anche la più̀ semplice delle osservazioni rileva la presenza di un riverbero di grande sofferenza collettiva, una crisi globale che riflette un generale collasso valoriale, una ricerca spasmodica di approvazione (Meno & Leung, 2021) e stati depressivi in risposta (Sia & Dong, 2021).

Si osserva inoltre il potere quasi ipnotico di video e immagini che sembrano innescare stati dissociativi della coscienza, di fuga dalla realtà, rappresentando un rischio per i più giovani che tendono a riconoscersi in una vetrina virtuale, caratterizzata da apparente competenza e illusorio successo, che stimola alternativamente emulazione o sentimenti di esclusione e inadeguatezza (Zanon et al., 2002). Il fenomeno dominante sembra essere una continua affermazione personale legata a doppio filo alla ricerca del consenso da parte degli altri, ma non di altri che siano significativi per il soggetto che fa uso dei social, bensì di una massa indistinta, che rinforzi la dilagante fantasia di potere e riconoscimento universale (Kristinsdottir et al., 2021). Nell’affannosa ricerca di riconoscersi in quanto degni di attenzione e stima, i social catalizzano dunque un massiccio investimento sul tema del valore personale: per essere qualcuno devi essere riconosciuto, speciale, grandioso, a discapito della semplicità e autenticità dei rapporti affettivi. Una forte sociotropia secondo cui l’autostima e la propria identità necessitano costantemente di essere validate dagli altri, in modo indifferenziato (Casale e Banchi, 2020). Quasi non importa più l’essenza di chi sei ma ciò che lo sguardo degli altri riflette su di te, fino al punto in cui tutto si riduce a un “basta che funzioni e che i follower approvino”! (McNamee et al., 2021). Nella smaniosa ricerca del consenso e dell’autoaffermazione, dunque, diventa importante che ci si riconosca senza etichette, senza riferimenti o canoni standard da indossare, con la conseguenza di generare l’effetto opposto, che si traduce in una creazione di modelli pericolosi e molto meno inclusivi di quello che, di primo acchito, appare.

Social network e influencer

 In questo complesso panorama si inserisce il tanto osannato concetto di influencer, che conferma il bisogno di riconoscimento e sancisce la saldatura fra auto-affermazione e consenso come presupposto per riconoscersi, in una modalità̀ che rende il soggetto succube dell’opinione pubblica. Credenze quali “Se gli altri mi riconoscono un certo valore, allora valgo qualcosa!”, oppure “Se lei così riconosciuta si comporta così, allora vuol dire che funziona e lo faccio anche io”, e ancora “se gli altri mi vedono, allora esisto” riflettono senza ambiguità̀ tale saldatura. La visione qui delineata a proposito dei comportamenti socio-psicologici potrebbe essere valutata come troppo critica: sembra demonizzare e svalutare un’idea di progresso, mentre molti risultano essere i vantaggi connessi ai social media come la velocità comunicativa, la condivisione, il potere educativo, altruistico e di solidarietà. In molti casi, si incontrano profili interessanti e attenti alle diverse sensibilità e/o di evidente talento artistico/comunicativo, con un fine collettivo molto potente che solo attraverso questi strumenti può arrivare a toccare fasce di comunicazione importanti, come vertici politici altrimenti inarrivabili. Si riscontra un sempre più̀ largo uso di tali mezzi comunicativi che difatti vengono utilizzati da tutte le categorie, dalla psicologia, all’economia e, ultima tra tutti, dalla politica. Proprio poco tempo fa, in piena campagna elettorale, uno dei più importanti esponenti politici decide di aprire un account su Tik Tok: cambia dunque il modo di fare propaganda per cercare di creare un punto di contatto con un elettorato più giovane, entrando così a far parte di un mondo che sembra ormai invalicabile con i tradizionali mezzi comunicativi.

Tuttavia, osservando i vari profili connessi a Tik Tok non si può non registrare una generale tendenza verso condotte talvolta di cattivo gusto, noiose, irrispettose, vuote. Si osserva prontamente la presenza di fenomeni psicopatologici che meritano attenzione clinica e segnalano un rischio in termini educativi e psicologici (Montag et al., 2021). Molti ragazzi infatti passano gran parte del loro tempo assorti a seguire personaggi labili e fragili che esibiscono condotte egocentriche e prive di senso; si perdono e si chiudono in questo mondo virtuale, che simula il contatto sociale, senza investire in attività sane e produttive, alimentando di conseguenza quella che è la noia e il disinteresse per ciò che è reale (James et al., 2017).

Inoltre, aspetto questo più preoccupante, tale fenomeno ha luogo anche presso la popolazione adulta (Perlis et al., 2021) e nei genitori che, confusi e attoniti, cercano di partecipare per ristabilire un canale comunicativo con i propri figli e per capire il senso di queste evoluzioni virtuali, ma che alla fine, quasi senza accorgersene, entrano a far parte del gioco rimanendone stupefatti e vittime.

Conclusioni

I molteplici studi in corso (per esempio, Kong et al., 2021) aprono dunque all’idea che strumenti come Tik Tok possono rivelarsi polimorfi, perché permettono una duplice analisi della realtà: da un lato si evidenzia il loro indubbio impatto sull’evoluzione sociale, che sta via via determinando un differente approccio dei giovani alle relazioni con se stessi e con gli altri, e dall’altra parte, si osserva quanto e come tale cambiamento comunicativo stia contribuendo ad aprire uno scorcio sulla realtà personale degli utenti, fungendo così da lente d’ingrandimento su paradossi psico-sociali, evoluzioni e cambiamenti.

Da queste osservazioni preliminari potrebbe essere contemplata l’idea di sfruttare la piattaforma social anche a scopi clinici di osservazione e studio: grazie ai contributi degli utenti sotto forma di video e visual è infatti possibile tratteggiare gli aspetti della personalità in relazione ai cambiamenti e ai canoni sociali di riferimento, valutando aspetti profondi della persona che spesso, e paradossalmente, si tende a nascondere nella vita quotidiana.

Il complesso edipico secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale di Freud

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta) superando il complesso edipico

 

Lo sviluppo psicosessuale nella teoria freudiana

 Secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud, lo sviluppo della pulsione sessuale richiede il passaggio della libido (energia associata alla pulsione) attraverso cinque fasi biologicamente determinate. Gli organi la cui stimolazione produce piacere e la cui attività permette di alleviare la tensione definiscono le tappe dello sviluppo psicosessuale. 

Il complesso edipico rappresenta il conflitto che caratterizza la fase fallica (compresa tra i 2 anni e mezzo circa e i 5/6 anni di età) che ha come zona erogena l’area genitale. Difatti, ogni fase è caratterizzata da un conflitto da superare e il conflitto determina il passaggio alla fase successiva: il conflitto si crea perché la soddisfazione della pulsione sessuale associata alle fasi pregenitali è non conforme o adatta alle leggi e alle convenzioni della società civile (la sessualità infantile ha le caratteristiche delle perversioni). 

Il complesso edipico

Nel complesso edipico, le fantasie del bambino esprimono il desiderio sessuale verso il genitore di sesso opposto e sentimenti di rivalità aggressiva e antagonismo nei confronti del genitore dello stesso sesso (vissuto come un rivale). Il bambino vuole eliminare la minaccia rappresentata dal rivale (il genitore dello stesso sesso) attraverso la castrazione e formula l’ipotesi che il padre voglia punirlo nello stesso mondo. Ciò provoca nel bambino l’angoscia da castrazione. 

L’angoscia da castrazione porta il bambino alla rinuncia delle sue ambizioni edipiche e all’interiorizzazione dei valori genitoriali.

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta). 

Possiamo osservare che, nella concettualizzazione del complesso edipico, Freud abbia pensato ad un bambino di sesso maschile, perché è più complesso spiegare l’angoscia da castrazione nelle bambine, cosa che costituisce un punto di debolezza di questa teoria. Presupponiamo però che l’angoscia derivata dalla paura della punizione del genitore dello stesso sesso sia esperienza di tutti i bambini. 

Nella teoria freudiana la fase del complesso edipico rappresenta la tappa più importante all’interno dello sviluppo psicosessuale nel formarsi della personalità, della salute mentale o delle nevrosi. 

La risoluzione del conflitto edipico

 Secondo Freud, la risoluzione del complesso edipico porta alla formazione dell’Io e del Super Io, cioè di strutture stabili e coerenti che costituiscono la mente e che consentono all’essere umano una vita adatta ad una vita civilizzata. Nasciamo secondo Freud con una capacità di pensiero primario basata sul principio di piacere e solo con lo sviluppo attraverso il principio di realtà sviluppiamo un processo secondario, un pensiero logico, razionale, su cui si basano le strutture solide e coerenti dell’Io e del Super Io. 

In particolare, l’io è un’istanza psichica che opera secondo il principio di realtà e che consente di organizzare e rendere accettabili gli aspetti dell’Es. Trasforma in realistici gli obiettivi, gli oggetti e le direzioni dell’Es. Si può definire come un insieme di funzioni regolatrici e armonizzatrici che tengono sotto controllo gli impulsi e le spinte pulsionali dell’Es. Quando queste funzionano bene

  • consentono all’individuo di non agire impulsi e desideri che potrebbero nuocere al benessere dell’individuo e della società
  • permettono di contenere i desideri perturbanti e l’affetto associato

Il Super Io è l’internalizzazione individuale di principi, regole, convenzioni della società. Questi principi sono assimilati in primo luogo attraverso i genitori. L’interiorizzazione di una serie di rappresentazioni cognitive emotive (credenze valori proibizioni atteggiamenti norme) legate ai rapporti precoci con le figure genitoriali. È un sistema di valori e ideali appresi e si divide in due sottosistemi:

  • coscienza (deriva dalle punizioni genitoriali)
  • Io ideale (deriva dalle gratificazioni e dai rinforzi genitoriali)

La funzione principale del Super Io è inibire gli istinti pulsionali dell’Es e convincere l’Io a sostituire obiettivi morali e perseguire la perfezione (standard elevati).

Tutto lo sviluppo psicosessuale di cui parla Freud protende alla socializzazione, cioè lo spostamento della libido da sé stessi agli altri. Il compito dello sviluppo evolutivo è trasformare il bambino con impulsi animaleschi in un adulto sano con un apparato psichico complesso e un sistema di controllo dei propri impulsi strutturato e funzionale, trasformare quindi la sessualità immatura in sessualità matura, passare da una libido narcisistica ad una libido oggettuale, spostare la libido da sé agli altri. 

Il metodo biografico come formazione, cura e filosofia (2022) di Romano Màdera – Recensione

Facente parte della collana Saggi di Raffaello Cortina Editore, il volume di Màdera “Il metodo biografico” spiega cosa intende l’autore parlando di metodo biografico e del caos esistenziale che prende forma partendo dall’esistenza stessa con sfumature personali ed emotive.

 

 Dedicato al grande pubblico che si interessa di riflessioni filosofiche, caratterizzato da un linguaggio specifico e concetti alle volte complessi in una narrazione biografica che aiuta il lettore a disegnare il filo conduttore.

Il volume “Il metodo biografico” è composto da cinque capitoli che raccontano la riflessione attorno al concetto di esistenza personale, biografica, che assume significato partendo dal soggetto stesso ma che in esso non si conclude.

Il linguaggio è quello proprio dei mondi della filosofia e della psicologia di cui Màdera fa parte a pieno titolo. Terminologia e concetti dunque astratti e che richiedono uno sforzo cognitivo ma che racchiudono la grandezza di cui tali temi sono portatori.

Il primo capitolo è dedicato unicamente a comprendere che cosa significhi biografica e cosa il metodo riferito ad essa possa rappresentare all’interno di una riflessione societaria e comunitaria inserita in un “caos” personale e individuale da cui si deve necessariamente partire. L’antitesi continua è tra la ricerca di un significato e la sua assenza, che deve essere colta e vista per giungere ad un metodo critico, ponderato e cosciente. All’interno del capitolo sono presenti diversi estratti e citazioni di autori quali Jung, Montale e Nietzsche.

I capitoli successivi sono rappresentati da racconti, ricordi, parole intrecciate nel passato dell’autore che conducono il lettore all’interno di storie di vita. Qui il registro diventa maggiormente fruibile, si leggono pensieri liberi che si rincorrono in un racconto dalle sfumature personali che narra, come in un film, il susseguirsi delle scene di vita dell’autore. Meritevoli le righe in cui l’autore racconta la prima età adulta e il personale rapporto con le vicende della primavera degli anni 70.

 Il capitolo dedicato all’incontro con il libro intitolato Mitobiografia acquisisce una dualità nel registro utilizzato, una sorta di unione tra quelli presentati nei capitoli precedenti; tuttavia la descrizione è resa in maniera molto funzionale e la lettura avviene in modo scorrevole. Si riconferma anche in queste pagine il trasporto emotivo e narrativo già emerso nel capitolo precedente, il pathos emotivo giunge ad un livello elevato nella sezione dedicata all’”intermezzo in galera”.

La doppia natura dell’autore si fonde nel capitolo conclusivo del volume che si apre con la spiegazione del concetto psicologico per eccellenza ovvero quello di “terapia”. La riflessione in chiave analitica pone l’attenzione sui concetti di espressione e riconoscimento come elementi fondamentali del lavoro terapeutico. Interessanti le riflessioni presenti in questa parte del libro rispetto alla psicopatologia, alle maschere sociali e al Sè e la strada tratteggiata verso quella che l’autore chiama “terapeutica filosofica”.

La conclusione del libro è un regalo in forma scritta che l’autore offre al lettore che pazientemente e con particolare sforzo, giunge nelle pagine conclusive.

“Tu sei il lettore impossibile che spero dentro ogni possibile lettore. Conosco questa magia dissimulata dalla sua occorrenza quotidiana: il lettore ignaro apre la porta a sconosciuti mondi e si precipita ingolosito in altre vite, finalmente dimentico di sé”.

Disturbi alimentari ed epigenetica

Numerosi studi hanno analizzato le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione studiando, nello specifico, il ruolo della metilazione del DNA.

 

I disturbi alimentari

 La sintomatologia principale associata ai disturbi alimentari è caratterizzata dalla presenza di un’intensa preoccupazione per l’alimentazione, per il peso, per la forma del corpo, e più in generale per l’immagine corporea. La sintomatologia specifica presenta pratiche alimentari dannose e disadattive tra cui l’eccessiva restrizione calorica, l’alimentazione disregolata che sfocia in abbuffate e vari meccanismi di compenso, tra cui il vomito autoindotto e l’utilizzo di lassativi (Bulik et al., 2006)

I disturbi alimentari maggiormente osservati si possono racchiudere in tre grandi classi: l’anoressia nervosa (AN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e infine la bulimia nervosa (BN).

L’epigenetica

L’epigenetica è una scienza che indaga l’associazione tra i fattori ambientali, che riguardano il mondo esterno in cui è inserito il paziente, e le predisposizioni genetiche. Parlando di epigenetica è opportuno spiegare brevemente cosa sono e come funzionano i meccanismi epigenetici: tali meccanismi risultano essere responsabili e potrebbero influenzare l’espressione genica in seguito a esposizioni ambientali che lasciano un segno sul genoma. Determinate esposizioni ambientali possono influenzare, motivare e modellare cambiamenti specifici relativi ad una successiva espressione genica, fornendo i substrati fisici che influenzano e modificano le interazioni tra gene e ambiente (Ferron et al., 2006)

 Nella letteratura sono stati pubblicati numerosi studi che analizzano le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione. Nello specifico si è studiato il ruolo della metilazione del DNA (Farrel et al., 2015), durante la quale si verifica una riduzione dell’espressione genica.

È scientificamente dimostrato che la metilazione del DNA viene influenzata da determinate esposizioni ambientali; i maggiori fattori di influenza possono essere lo stress relativo alle prime fasi della vita, i fattori legati all’alimentazione e alla dieta, e una sofferenza fetale acuta (Dauncey et al.,2013; Crider et al., 2012).

Disturbi alimentari ed epigenetica

In un articolo di Thaler e Steiger (2017) viene analizzato come diversi geni possono influenzare la regolazione dell’organismo. Un gene sottoposto ad analisi è POMC, che è partecipe della regolazione dell’appetito. Sono state messe a confronto donne con anoressia nervosa in fase acuta e, donne che non presentano più sintomi significativi dall’anoressia nervosa ed è emerso che l’mRNA della POMC lungo è ampiamente rilevante dal punto di vista funzionale e risulta essere significativa la correlazione con i livelli di leptina, che è più alta nell’anoressia nervosa acuta rispetto all’anoressia nervosa non acuta e ai gruppi di controllo (Thaler et al., 2017).

Lo studio approfondito dell’epigenetica può fornire grandi spunti di riflessione e può garantire nuovi possibili trattamenti futuri dei disturbi dell’alimentazione.

 

Metodo Montessori: è efficace con bambini che presentano difficoltà di apprendimento?

Nel metodo Montessori l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara.

 

Che cos’è il metodo Montessori?

 L’educazione montessoriana è un metodo di istruzione centenario, utilizzato per la prima volta all’inizio del ‘900 con bambini con esigenze speciali e che continua a crescere in popolarità (Lillard & Else-Quest, 2006). Maria Montessori (1870-1952), una delle principali figure dell’educazione del XX secolo e pioniera dell’educazione speciale, creò inizialmente questo metodo per aiutare bambini con disabilità multiple ad apprendere concetti e abilità attraverso materiali pratici (Danner & Fowler, 2015): solo successivamente, infatti, estese il suo lavoro a bambini con intelligenza nella norma (Pickering, 1992).

Diversamente dai sistemi educativi odierni, dove l’attenzione è posta sui risultati in materie accademiche, l’obiettivo dell’educazione montessoriana è consentire al bambino di svilupparsi in modo ottimale (Marshall, 2017), attraverso un approccio sequenziale e strutturato all’apprendimento, che porti dal concreto all’astratto (Pickering, 1992). In particolare, secondo la Montessori, i bambini attraversano periodi sensibili per l’apprendimento e quest’ultimo avviene attraverso attività autogestite in un ambiente appositamente preparato con i vari materiali montessoriani (per esempio materiali sensoriali come la Torre Rosa e materiali didattici come quelli aritmetici). Al centro del metodo montessoriano c’è la triade dinamica tra bambino, insegnante e ambiente: l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara (Marshall, 2017). In questo senso il ruolo dell’adulto è quello di accompagnare e facilitare lo sviluppo naturale del bambino.

Visione montessoriana del bambino con difficoltà di apprendimento

La Montessori riteneva che gli standard utilizzati per valutare lo sviluppo normale fossero fuorvianti e subnormali, motivo per il quale non descrisse o definì mai con precisione i disturbi dell’apprendimento. Lei, infatti, sosteneva che attraverso un’educazione personalizzata in un ambiente preparato scientificamente, i bambini avrebbero rivelato nuovi standard di sviluppo e di gratificazione personale (Orem, 1969). Partendo poi dalla constatazione che gli educatori sembravano più interessati alla classificazione delle anomalie umane piuttosto che alla scoperta di modi per prevenirle, iniziò a sviluppare approcci educativi che catturassero l’interesse dei bambini con difficoltà di apprendimento (Brendtro, 1999).

La Montessori dunque iniziò a utilizzare delle linee guida che indicavano ritardi nello sviluppo (linguistici, motori, comportamentali, percettivi, organici o di funzionamento indipendente), deducendo la possibilità che, in presenza di tali ritardi, potessero insorgere delle difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978). In particolare dunque, secondo la visione montessoriana, bambini predisposti o che presentano difficoltà di apprendimento possono avere problemi di attenzione, ordine e organizzazione, abilità motorie e percettive che portano a una scarsa formazione dei concetti. Questi problemi inducono a difficoltà nello sviluppo e nell’elaborazione del linguaggio orale, nell’apprendimento della letto-scrittura e nella comprensione delle astrazioni della matematica (Pickering, 2004).

Benefici del metodo Montessori su bambini con difficoltà di apprendimento

Il sistema montessoriano può aiutare bambini che presentano difficoltà di apprendimento in diversi modi: 1) fornendo l’ordine e la struttura necessari; 2) migliorando il comportamento motorio, la coordinazione e l’immagine corporea; 3) migliorando il funzionamento percettivo; 4) aumentando l’indipendenza attraverso l’acquisizione di abilità di autoaiuto; 5) sviluppando la concentrazione e l’attenzione; 6) sviluppando le abilità sociali e l’autodisciplina; 7) migliorando il linguaggio ricettivo ed espressivo (Orem, 1969). In particolare, aspetti del metodo Montessori che risultano cruciali affinché questi benefici si presentino, sono l’ambiente preparato, i materiali didattici e le lezioni individualizzate.

 L’ambiente preparato, favorisce l’individuazione di problemi evolutivi nelle loro fasi iniziali, diventando così anche un ambiente diagnostico. Infatti, l’approccio montessoriano prevede che l’insegnante assista i bambini per adeguare il lavoro al loro specifico livello di sviluppo (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004). L’ambiente preparato dalla Montessori offre ai bambini la possibilità di vivere e imparare seguendo il loro ritmo: le regole di base, i materiali didattici e le altre caratteristiche dell’ambiente preparato offrono la cornice per la libera attività e forniscono un equilibrio dinamico tra spontaneità e struttura, elementi necessari per i bambini con difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978).

Inoltre, i bambini che presentano queste difficoltà necessitano, ma in genere non ricevono, l’esposizione ordinata agli stimoli sensoriali offerta dai materiali didattici montessoriani. Permettere ai bambini con difficoltà di apprendimento di imparare attraverso il contatto diretto con il materiale ha un duplice vantaggio: da un lato esercizi e materiali di autoapprendimento sfruttano, durante gli anni della formazione, gli interessi e le capacità dei bambini, dall’altro consentono all’insegnante di avere molto tempo per osservare come e cosa i bambini stanno imparando (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Altro aspetto centrale è l’individualizzazione: le lezioni sono individualizzate alla luce delle capacità e dei livelli di apprendimento dei bambini. Questo è fondamentale per i bambini con difficoltà dell’apprendimento, avendo di solito capacità di apprendimento non omogenee e livelli di rendimento diversi. L’insegnante, dunque, pianifica lezioni individuali presentando materiali con difficoltà di apprendimento adatte al singolo bambino e, solo quando il bambino è pronto, vengono insegnate nuove materie (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Ad oggi quindi, il metodo Montessori risulta essere una risorsa di intervento efficace per la formazione di bambini con difficoltà di apprendimento, soprattutto in caso di bambini con Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Drigas & Gkeka, 2017; Gkeka et al., 2018). Inoltre, si è visto che la combinazione dei sistemi e dei materiali montessoriani con il supporto delle nuove tecnologie e la loro implementazione su vari tipi di tecnologie hanno portato a grandi risultati per quanto riguarda il supporto alla disabilità e il miglioramento dei processi di apprendimento (Drigas & Gkeka, 2017).

Conclusione

In definitiva, per chi si occupa di bambini che apprendono in modo diverso, il metodo Montessori offre molte possibilità, soddisfacendo le esigenze dei disturbi dell’apprendimento nel linguaggio, nella matematica, nella letto-scrittura, nella memoria, nell’attenzione e nella motricità (Drigas & Gkeka, 2017). Tuttavia, questo metodo non può essere considerato una risposta completa (Orem, 1969): per utilizzarlo con bambini con difficoltà di apprendimento è necessario, infatti, che il materiale venga integrato con altri materiali progettati specificatamente per bambini con queste difficoltà (Orem, 1969; Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Il narcisismo comunitario: quando l’impegno verso gli altri soddisfa il bisogno personale di sentirsi speciali

Gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace.

 

 Secondo l’articolo pubblicato nel 2012 da Gebauer et al., le ricerche precedenti avrebbero descritto solo un tipo di narcisismo grandioso, quello agentic. Gli individui con narcisismo agentic sarebbero caratterizzati da tematiche di grandiosità, diritto e potere, che cercherebbero di soddisfare attraverso autovalutazioni irrealistiche positive riferite all’agency (senso soggettivo di competenza e controllo).

Ma il tratto narcisistico si può manifestare anche in ambito “comunitario”? Sebbene possa sembrare un ossimoro, Gebauer, Sedikides, Verplanken e Maio (2012) suggeriscono che la risposta potrebbe essere affermativa, soprattutto se l’impegno verso la comunità serve più a soddisfare il bisogno personale di grandiosità, autostima e potere, che ovviamente sono tratti tipici di una personalità narcisistica (Morf & Rhodewalt, 2001).

Quindi nel 2012 Gebauer et al. elaborano una distinzione tra agency (intesa come concentrazione su di sé e sugli obiettivi personali) e communion (intesa come concentrazione verso gli altri e le relazioni interpersonali). Applicando il modello agency-communion al tratto narcisistico, proposero la descrizione di un’ulteriore tipologia di narcisismo grandioso, il narcisismo comunitario, che condividerebbe le stesse tematiche del narcisismo agentic, ma si differenzierebbe per la modalità adottata per soddisfarle, ovvero mostrando una maggiore attenzione verso gli altri (non motivati dal reale interesse verso le altre persone, ma dal fine ultimo di sentirsi speciali e grandiosi).

Il narcisismo comunitario

In base agli studi condotti, attraverso il “Communal Narcissism Inventory“ (CNI; Gebauer et al., 2012), si è riscontrato infatti che gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace (Gebauer et al., 2012; Luo et al., 2014; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016). Sebbene questi esempi si riferiscano al dominio comunitario, la ricerca empirica ha riportato l’esistenza di una relazione anche tra narcisismo comunitario e tratti che riflettono alti livelli di agency (sensazione soggettiva di controllare le proprie azioni), come senso di potere, sicurezza di sé e superiorità (Gebauer et al., 2012; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016).

Il narcisismo comunitario patologico attualmente non è ancora interpretato come una forma alternativa del narcisismo patologico, bensì come una delle sue facce (Wright et al., 2010). In base al modello di Gebauer si possono riscontrare, nel narcisismo comunitario patologico, delle caratteristiche specifiche come l’importanza data dall’individuo ai comportamenti empatici e prosociali, ma anche outcomes simili a quelli del narcisismo patologico tra cui la ricerca di attenzione, l’inganno, il dominio e la manipolazione (Schoenleber et al., 2015; Wright et al., 2013).

Il narcisismo comunitario patologico e non patologico

Avere dei tratti narcisistici non significa avere un disturbo di personalità narcisistico. Anche nel caso del narcisismo comunitario si può distinguere una forma patologica da una forma non patologica: entrambe condividono gli stessi mezzi per il raggiungimento dei loro obiettivi, ma si diversificano rispetto alle caratteristiche cliniche (Pincus et al., 2009). Questo suggerisce che le due forme di narcisismo comunitario si trovino su un unico continuum, che va dal funzionamento non patologico a quello compromesso/patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010). Infatti, sebbene quello non patologico sia associato a risultati adattivi quali maggior autostima e benessere soggettivo (Żemojtel-Piotrowska et al., 2014), quello patologico è collegato ad esiti maladattivi come paura dell’abbandono, sottomissione, labilità emotiva (Wright et al., 2013), propensione alla colpa ed alla vergogna, (Schoenleber et al., 2015b) e perfezionismo (Stoeber et al., 2015).

Come riconoscere il narcisismo patologico

Lo studio pubblicato nel 2018 da Rogoza e Fatfouta, ha avuto come primo scopo quello di analizzare le differenze esistenti tra narcisismo comunitario patologico e non patologico.

In letteratura esistono due modelli per distinguere il narcisismo patologico da quello non patologico; la prima, categoriale, propone la concettualizzazione in due costrutti differenti, mentre la seconda, dimensionale, propone l’esistenza di un continuum, che vede all’estremità il costrutto patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010).

I risultati dello studio si sono visti a favore del modello dimensionale, riscontrando la condivisione da parte del narcisismo comunitario patologico e non degli stessi fondamentali criteri teorici (obiettivi di superiorità e potere raggiunti attraverso azioni comunitarie/altruistiche).

Miller et al. (2017) hanno proposto la dicitura di “patologico” solo nei casi in cui il narcisismo risulta correlato a disagio e compromissione funzionale; seguendo questa ipotesi, lo studio condotto nel 2018 ha avuto come secondo scopo quello di confrontare le due forme di narcisismo comunitario con i tratti personalità, misurati attraverso il Big Five Inventory-15 (BFI-15; Lang et al., 2011). L’unica differenza riscontrata risulta essere con il tratto del nevroticismo, un tratto di personalità collegato principalmente al disagio psicologico (McCrae & Costa, 1997; Ploubidis & Frangou, 2011) supportando l’ipotesi per cui il narcisismo comunitario patologico è collegato ad alti livello di nevroticismo e suggerendo un’associazione anche ad alti livelli di malessere psicologico.

L’ultimo obiettivo dello studio è stato quello di indagare i valori del narcisismo comunitario patologico e non patologico. I risultati, rispetto a questi dati non hanno riportato differenze: entrambe le tipologie erano motivate sia dall’auto-valorizzazione e che dall’auto-trascendenza (cioè, l’aspirazione ad essere affidabili, degni di fiducia, premurosi, equi e tolleranti).

In generale, i risultati di questo studio supportano l’idea di una concettualizzazione dimensionale del narcisismo comunitario, ai cui estremi si trova la patologia, che si distingue per la presenza di disagio psicologico e compromissioni nel funzionamento (Rogoza & Fatfouta, 2018).

 

Tutto chiede salvezza – Recensione

Non ci sono dubbi che “Tutto chiede salvezza” abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

 

Attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza. Ecco la parola che cercavo, salvezza. Per i vivi e per i morti, salvezza (…) per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.

 A questi versi di una poesia di Daniele Mencarelli è ispirato il titolo di un suo romanzo autobiografico, che ora è diventata una serie di grande richiamo su Netflix, “Tutto chiede salvezza”.

La vicenda è quella che il poeta e scrittore ha realmente vissuto quando aveva vent’anni e a seguito di un crollo psichico subì un TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, che ancora oggi rappresenta la soluzione di contenimento di un’emergenza psichiatrica caratterizzata da assente consapevolezza di disagio e pericolosità per sé e/o la società. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha realizzato una fiction che ha raggiunto, quasi inaspettatamente, un successo straordinario presso il grande pubblico. Gradimento altissimo per un argomento ostico e delicato, lodi della critica oltre che di una larga fascia di spettatori.

Cosa aggiunge una prospettiva in cui l’occhio che guarda riflessivo è un occhio clinico?

Non ci sono dubbi che la serie abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

Inoltre la serie descrive bene la storia dei protagonisti, le vulnerabilità dei personaggi, l’esordio dei disturbi trattati, le debolezze del sistema familiare di riferimento, ma emerge anche come la serie sembra trascurare alcuni aspetti di sofferenza e di criticità del sistema psichiatrico attuale che spesso rinforzano dolore e confermano credenze di inaiutabilitá e fallimento.

Emergono bene i temi di condivisione, solidarietà, amicizia e amore che spesso si osservano nella realtà fra i pazienti che si autosostengono e decidono di essere alleati. Emerge passione e interesse attivo verso temi sociali e politici e la fiction assolve diversi obiettivi: raccontare, rappresentare e creare interesse rispetto ad un tema delicato –il disagio psichico– di norma distanziato o ignorato.

In generale, la rappresentazione fornita dalla fiction è potente, cattura l’attenzione e sensibilizza rispetto ai temi trattati. Nonostante l’amarezza delle storie narrate, si mostra gradevole, riesce a normalizzare e stimolare empatia verso situazioni esistenziali che ci lasciano indifferenti, che ignoriamo, o che evitiamo di conoscere e approfondire, talvolta per paura, per disgusto, o per non sperimentare tristezza, impotenza e sofferenza emotiva. Forse però, normalizzando troppo rischia di trascurare il vissuto traumatico che spesso si osserva nella pratica clinica, in associazione proprio al TSO, ancora oggi.

I fatti che hanno ispirato il libro di Mencarelli, e quindi la serie tv, sono accaduti infatti nel 1997, e l’aver trasferito lo scenario della storia negli anni ’20 del 2000 non deve far pensare che la situazione ora, in un ospedale psichiatrico in cui si “contiene temporaneamente” una situazione di grave disagio psicologico, sia un idillio rispetto a prima e rispetto alla difficile realtà dei reparti di psichiatria. La serie TV rischia di legittimare poco il vissuto di coloro che hanno avuto un’esperienza diretta o hanno osservato la realtà dolorosa del trattamento sanitario obbligatorio e della sua gestione che spesso in Italia si vive.

La rappresentazione fornita racconta –e non racconta– alcuni aspetti della realtà psichiatrica: atteggiamenti, comportamenti, vissuti emotivi che sono invece ben descritti nel libro e purtroppo oggi a volte ancora presenti e problematici.

Chiaramente la serie Tv avvicina il pubblico, lo porta a riflettere e conoscere questa realtà, a non dimenticare e vivere con meno stigma alcuni scenari.

 Tuttavia, ci si chiede se questa rappresentazione (intrinsecamente alterata in quanto fiction) non si discosti troppo dalla sofferenza e dal reale caos di solito legati al TSO, e quanto il grado di partecipazione che sollecita nel pubblico sia plausibile rispetto al reale ambiente psichiatrico e al disagio amaro a cui spesso si assiste.

Obiettivo del regista: avvicinare con strategia? Eppure si rischia di mantenere una vicinanza apparente verso la sofferenza e la malattia mentale?

Il racconto televisivo fornito tratta infatti solo parzialmente il tema del TSO, ricostruendone solo in parte l’aspetto traumatico che molte volte si associa a questo tipo di esperienza e si addiziona al disagio che già si sta vivendo.

Si osservano solamente a sprazzi le criticità spesso presenti nel sistema di cura, la brevità programmatica del trattamento, l’inadeguatezza delle strutture: queste componenti presenti nel libro, e ad oggi ancora attuali, vengono poco rappresentate.

Forse questa serie offre l’opportunità di parlare di come sia fondamentale rivedere il TSO e il suo proseguire. L’inidoneità, l’insufficienza, la risposta spesso deludente dell’istituzione: elementi questi che fanno parte del nucleo della storia e della realtà, che negli episodi televisivi vengono poco approfonditi, ma che meriterebbero progresso e discussione.

Una chiave di lettura critica potrebbe richiedere dunque un riflessione circa la disorganizzazione della realtà psichiatrica e su come poter migliorare la gestione dei ricoveri e dei programmi di intervento, rispettando la dignità del malato senza pregiudizio, con la responsabilità di disegnare un piano di intervento che tenga conto del post TSO e di come le cure fornite segnano il vissuto e hanno il potere di promuovere il cambiamento o il trauma nel trauma.

L’insieme fornito dalla serie TV risulta troppo edulcorato allo sguardo di un clinico che, osservando, oltre ad apprezzare quanto sia ben curata la parte tecnica e come sia ben descritto il funzionamento del vissuto depressivo e dei profili psicopatologici proposti, si preoccupa che possa passare un messaggio sbagliato o per meglio dire omissivo, ovvero che tralascia aspetti di disagio e sofferenza emotiva che non sembrano avere il coraggio di essere abbastanza drammatici per essere credibili.

In buona sostanza, forse, la rappresentazione fornita, nonostante gli innumerevoli pregi e vantaggi circa la rappresentazione della malattia mentale, trascura il messaggio di denuncia rispetto al sistema di cure proposte da alcuni istituti di psichiatria e del TSO nello specifico, così come gestito nella realtà: ovvero, spesso, senza un programma di intervento adeguato che preveda fasi successive a quelle di emergenza e contenimento, fino alla riabilitazione e al reinserimento.

Lo spettatore si sente emotivamente vicino ai protagonisti, ma l’empatia che sente potrebbe essere parziale in quanto non contempla la dimensione soverchiante e spaventosa del trattamento sanitario obbligatorio e del post ricovero spesso più doloroso e abbandonico.

Il tema, per chi ha visto la serie, oggi è più vicino di ieri, ma il rischio è che la forte risonanza emotiva che la serie TV sollecita sia in qualche misura poco autentica, in quanto miope di talune attuali realtà.

“Tutto chiede salvezza”, in conclusione, accorcia le distanze tra chi è malato e chi del malato diffida, ma pratica –in quanto fiction, seppure in modo legittimo– quasi un diniego dei deficit e della sofferenza che si associano all’emergenza psichiatrica e alla malattia mentale.

 

TUTTO CHIEDE SALVEZZA – Guarda il trailer della serie Netflix:

 

Realtà Virtuale e Dismorfismo corporeo: indagine sui bias cognitivi

L’American Psychiatric Association (APA, 2013) definisce il disturbo di dismorfismo corporeo come una preoccupazione per il proprio aspetto fisico, in particolare per difetti o imperfezioni, spesso lievi o inosservabili dall’esterno.

 

 Questa preoccupazione è significativamente invalidante e comporta una compromissione di diverse aree del funzionamento, come quella sociale e lavorativa. Perché possa essere fatta diagnosi, l’individuo deve aver mostrato comportamenti ripetitivi o azioni mentali conseguentemente ad essa. All’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013), il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è collocato nello spettro dei Disturbi Ossessivi. Se non trattato precocemente, può comportare problematiche nella vita quotidiana nonché l’esacerbazione di disturbi concomitanti come la depressione maggiore, il disturbo ossessivo compulsivo, la fobia sociale e disturbi alimentari, come l’Anoressia Nervosa. La terapia più utilizzata comprende un intervento sia farmacologico che psicoterapico, finalizzato alla desensibilizzazione allo stimolo trigger mediante l’esposizione; inoltre, con il progredire degli strumenti tecnologici, ha iniziato a crescere l’interesse verso l’utilizzo della realtà virtuale, la quale offre interessanti novità per fronteggiare le problematiche legate al corpo.

L’utilizzo della Realtà Virtuale (VR)

Secondo quanto riportato in letteratura, gli individui affetti da dismorfismo corporeo interpretano negativamente e in modo minaccioso le informazioni sociali ambigue. Queste inferenze mantengono la sintomatologia e la compromissione a livello psicologico e sociale, rafforzando l’immagine distorta di sé. Conseguentemente, questi bias interpretativi maladattivi costituiscono un target del trattamento terapeutico; ciononostante, secondo Summers e colleghi (2021), i protocolli di intervento che li coinvolgono sono limitati.

Per quanto riguarda l’utilizzo della realtà virtuale, secondo gli studi condotti da Porras-Garcia e colleghi (per esempio, Porras-Garcia et al., 2020), le procedure basate su di essa potrebbero offrire numerose novità per fronteggiare diverse problematiche legate al corpo. Infatti, questa tecnologia è considerata promettente come approccio esperienziale sia alla valutazione che alla comprensione e al trattamento di numerosi disturbi psichiatrici. La letteratura esistente sull’utilizzo della realtà virtuale afferma che i trattamenti svolti in questo setting artificiale si traducono in cambiamenti considerevoli in situazioni reali (Morina et al., 2015), perciò è ipotizzabile che essa possa essere uno strumento di intervento utile anche per pazienti affetti da dismorfismo corporeo e che possa facilitare in vivo la correzione delle disfunzioni cognitive alla base di questo disturbo.

Uno studio su dismorfismo corporeo e realtà virtuale

 Tuttavia, nonostante i risultati positivi, non è ancora stata particolarmente utilizzata con pazienti affetti da questo disturbo; perciò, Summers e colleghi (2020), hanno svolto uno studio con l’ausilio della realtà virtuale avente tre obiettivi: il primo era comprendere se i partecipanti affetti da dismorfismo corporeo mostrassero maggiore approvazione delle interpretazioni di minaccia legate all’aspetto e minore approvazione delle interpretazioni benigne rispetto ai controlli sani, attraverso misure consolidate e nuove scene esperite in realtà virtuale; il secondo era quello di osservare se vi fossero distinzioni per quanto concerne il disagio negli ambienti simulati tra i due gruppi, ipotizzando che i soggetti affetti dal disturbo esperissero maggiore minaccia, angoscia, propensione a cercare di controllare gli stimoli trigger o evitamento; il terzo obiettivo era quello di verificare la fattibilità, accettabilità e utilizzabilità della realtà virtuale all’interno della popolazione affetta dal disturbo.

I risultati ottenuti dagli autori hanno mostrato come rispetto ai controlli non psichiatrici i partecipanti mostrassero maggiori bias di minaccia legati all’aspetto fisico. Inoltre, grazie a questo studio, è stato possibile ampliare le conoscenze sui bias cognitivi, mostrando che quelli maladattivi di interpretazione della minaccia, caratteristici del disturbo da dismorfismo corporeo, possono essere stimolati e valutati in modo efficace e in vivo attraverso la realtà virtuale. I partecipanti hanno valutato l’esperienza con la realtà virtuale come accettabile, coinvolgente, realistica e simile ad esperienze pregresse; inoltre, hanno riportato di percepire un senso di presenza nell’ambiente di simulazione virtuale.

Considerazioni conclusive

Secondo gli autori, nonostante la ricerca sul presente argomento necessiti un ampliamento, sembra che la realtà virtuale possa rappresentare un mezzo con maggior validità ecologica per misurare gli stili interpretativi maladattivi rispetto alle valutazioni tradizionali. Sebbene gli obiettivi della Dott.ssa Summers e colleghi (2021) fossero primariamente focalizzati sulla valutazione dei bias interpretativi, il loro studio potrebbe portare anche a valutazioni più ampie per nuove implicazioni terapeutiche.

In conclusione, sarebbero necessari studi di approfondimento sul possibile utilizzo della realtà virtuale nel trattamento del dismorfismo corporeo, ponendo particolare attenzione ai bias cognitivi che ne sostengono la sintomatologia.

Trauma Sensitive Yoga: portare il corpo nel trattamento (2022) – Recensione

Il modello del Trauma Sensitive Yoga si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico. 

 

 Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è stato sviluppato dal Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston e continua ancora a evolversi all’interno del Center For Trauma and Embodiment (CFTE). I fondatori di questo modello di intervento sono David Emerson e Jennifer Turner che, grazie alle loro differenti professionalità e alla loro coesione, permettono al TSY di farsi strada nel panorama dei trattamenti per il trauma. Emerson e Turner si impegnano costantemente ad offrire un modello con una base scientifica solida, che contempli la verifica dei progressi e benefici ottenuti.

Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è un modello di intervento che si focalizza sulle molteplici sfumature del trauma, tant’è che può essere considerato un intervento di tipo sistemico-integrato.

Data l’efficacia dimostrata, negli Stati Uniti il Trauma Sensitive Yoga è stato riconosciuto come trattamento aggiuntivo di eccellenza per trattare il PTSD, al pari di altri trattamenti, in particolare per il disturbo post traumatico complesso che, seppur non sia ancora una diagnosi ampiamente condivisa e accettata, fa riferimento a una varietà di sintomi che si riscontrano in molte delle difficoltà psicologiche come ad esempio: ansia, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a regolare le emozioni, deficit di enterocezione, depressione, difficoltà relazionali, etc (Emerson, 2022).

Difatti, proprio in questa specifica caratterizzazione del trauma, l’elemento fondamentale è costituito dalla presenza di eventi che risalgono alle prime fasi dello sviluppo e che si caratterizzano per la loro natura relazionale e di attaccamento.

Il modello

Il modello del Trauma Sensitive Yoga è per definizione trauma informed, ovvero si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, ma bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico.

Nel libro, dopo una parte iniziale dedicata agli assunti teorici che stanno alla base del Trauma Sensitive Yoga (ad esempio teoria del trauma, teoria dell’attaccamento e neuroscienze), alla definizione delle molteplici tipologie di trauma e alle differenze tra Trauma Sensitive Yoga e altre tipologie di modelli somatici (ad esempio, Hakomi, Sensomotoria e Somatic Experiencing), Emerson passa poi a elencare dettagliatamente gli elementi centrali –i pilastri– del Trauma Sensitive Yoga, che sono:

  • il linguaggio invitazionale,
  • il fare delle scelte,
  • l’enterocezione,
  • l’esperienza autentica e condivisa dall’essere nel presente,
  • la non violenza.

L’importanza della scelta

Come è noto, i sopravvissuti al trauma spesso sperimentano un senso di impotenza, costante e pervasiva –nessuno sceglie il trauma– dove la persona è per definizione costretta a subirlo (Emerson, 2022). Perciò, nel Trauma Sensitive Yoga risulta centrale restituire la possibilità di scegliere; infatti i pazienti vengono invitati a svolgere degli esercizi senza alcun tipo di obbligo, assumendo una posizione di non giudizio e di non violenza. Restituendo così un senso di piena responsabilità e scelta sul proprio corpo e di conseguenza sulla propria vita.

Embodiment

Un altro dei concetti fondamentali nel Trauma Sensitive Yoga è quello di embodiment –essere incarnato– ovvero la possibilità di sentire il proprio corpo qui e ora, aprendosi alla capacità di scegliere in maniera consapevole. Attraverso le pratiche del Trauma Sensitive Yoga la persona impara a entrare nuovamente in contatto con il proprio corpo, ampliando le abilità enterocettive, cioè le abilità di riconoscere le sensazioni interne al proprio corpo.

 Perdipiù, l’intervento sembra essere incentrato sull’apprendimento di alcune abilità e modalità di approcciarsi all’esperienza, proponendo alcune pratiche di tipo esperienziale che consentono al soggetto di fare un’esperienza autentica –a partire dal proprio corpo–, nonché riappropriarsi delle sensazioni somatiche e riconnettersi con il proprio corpo, permettendo la libera scelta in un contesto protetto. Difatti il Trauma Sensitive Yoga ha come intento quello di creare uno spazio in cui nessuno viene manipolato ed è per questo che non è presente alcun tipo di supporto fisico o verbale poiché, in tale ottica comporterebbe una prescrizione, ovvero comunicare un’aspettativa.

La pratica dello Yoga e l’integrazione in terapia

Spesso i pazienti traumatizzati sono completamente disconnessi dalle loro esperienze interiori, pertanto, il Trauma Sensitive Yoga si propone, attraverso la pratica dello Yoga –concettualizzata in questo modello come combinazione di forme fisiche, respirazione e attenzione focalizzata–,  di intervenire sia sui sintomi somatici di iperattivazione, sia sui sintomi dissociativi del trauma. Favorendo un approccio di tipo bottom-up, con una conseguente ripresa della connessione con le sensazioni somatiche mente-corpo, maggiore consapevolezza, tolleranza e accettazione, sospensione del giudizio e uno sviluppo di capacità autoregolative, nonché di uno stato compassionevole verso sé stessi.

Pertanto, con tali motivazioni lo yoga, può essere considerato un buon candidato all’integrazione nella pratica psicoterapica che tipicamente agisce attraverso modalità top-down, aumentando così l’efficacia del trattamento di specifici sintomi da trauma, come quelli somatici, emotivi e di disconnessione.

Riflessioni e conclusione

Questo libro, inoltre, offre vari spunti di riflessione per introdurre questo modello nella pratica terapeutica, per esempio suggerisce, attraverso varie illustrazioni, un adattamento delle pratiche yogiche nel contesto dello studio del terapeuta, facilitando l’applicazione e aprendo a una maggiore versatilità di utilizzo in diversi setting e contesti, permettendo così di sperimentare tali pratiche anche semplicemente seduti su una sedia in studio.

In conclusione, da quanto riportato dai dati presentati nel libro, si può sostenere che lo svolgimento di tali pratiche somatico-esperienziali –in un contesto protetto– permette ai pazienti di “riappropriarsi del proprio corpo” e, con rinnovata fiducia, prendere in mano la propria vita.

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle…” – I benefici psicofisiologici dei paesaggi naturali

Diversi studi nell’ambito dalla psicologia ambientale hanno approfondito gli effetti della visione dei paesaggi naturali sull’organismo e sui livelli di stress.

 

Introduzione

 I benefici derivati dalla visione di paesaggi naturali sono stati oggetto di grande interesse sia teorico sia empirico. In particolare, molti studi sperimentali nel campo della psicologia ambientale hanno dimostrato il potenziale ristoratore degli ambienti naturali utilizzando video, fotografie e stimoli di paesaggi naturali di montagne, campi, acqua e foreste. Dalla letteratura emerge che la visione di immagini di paesaggi naturali, sia presentate come fotografie, sia come scene di realtà virtuale, produce effetti benefici tra cui l’alleviamento dello stress (Grinde, 2009).

La revisione sistematica di Jo et al. (2019) ha preso in considerazione alcuni studi i cui risultati hanno rilevato miglioramenti nel recupero dallo stress ed effetti di rilassamento provocati dalla visione di ambienti naturali, utilizzando una serie di indicatori psicofisiologici oggettivi.

Gli studi sui benefici associati ai paesaggi naturali

Uno studio si è avvalso della risonanza magnetica funzionale per valutare l’attività cerebrale di 30 studenti universitari durante la visione di esperienze di vita rurale e urbana (Kim et al., 2010). Le scene rurali comprendevano foreste, giardini, parchi e colline, mentre le scene urbane includevano appartamenti, edifici, cavi elettrici e fabbriche. Durante la visione delle scene rurali e urbane si sono attivate aree cerebrali diverse. Il giro parietale superiore, il giro cingolato anteriore, il giro postcentrale, il globo pallido, il putamen e il nucleo caudato erano principalmente coinvolti durante la visione delle scene rurali. Al contrario, l’ippocampo, il giro paraippocampale, l’amigdala e la lingula erano principalmente coinvolti durante la visione delle scene urbane.

Nel 2012, Gladwell et al. hanno esplorato l’attivazione del sistema nervoso autonomo durante la visione di scene naturali e urbane. Hanno misurato la frequenza cardiaca, la variabilità della frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Le diapositive di scene naturali e urbane sono state proiettate su uno schermo mentre i partecipanti erano sdraiati in posizione semisupina. L’attività nervosa parasimpatica è aumentata significativamente durante la visione di immagini della natura rispetto alla visione di scene di ambienti urbani, il che suggerisce un aumento dell’attività vagale.

Duncan et al. (2014) hanno invece confrontato gli effetti dell’esercizio fisico nel verde e quelli del solo esercizio fisico sulla pressione sanguigna e sulla frequenza cardiaca. A quattordici bambini della scuola primaria è stato chiesto di pedalare per 15 minuti mentre guardavano video di ambientazioni forestali o uno schermo vuoto. Rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo, quelli che hanno effettuato l’esercizio fisico con lo stimolo naturale hanno mostrato una significativa riduzione della pressione arteriosa sistolica.

In uno studio risalente al 1998, sono stati valutati gli effetti di recupero dallo stress di un ambiente stradale con l’uso di video di guida in panorami naturali e urbani (Parsons et al., 1998). Dopo aver svolto un compito stressante, 160 studenti universitari hanno guardato video di guida per 10 minuti. Rispetto all’esposizione a panorami urbani, l’esposizione a panorami naturali, come foreste e campi, ha ridotto significativamente l’attività elettrodermica e la pressione arteriosa sistolica e diastolica.

 Attingendo all’idea di questa ricerca, Brown et al. (2013) hanno esaminato gli effetti della visione di ambienti naturali sul recupero dell’attività autonomica dopo l’introduzione di un fattore di stress. La frequenza cardiaca, la variabilità della frequenza cardiaca e la pressione arteriosa sistolica e diastolica sono stati utilizzati come marcatori del cambiamento della funzione autonomica e sono stati raccolti i dati fisiologici di 23 adulti. Lo studio consisteva nel mostrare ai partecipanti 20 fotografie di ambienti naturali e urbani nello stesso ordine per 10 minuti (ogni fotografia per 30 secondi) in una presentazione di Microsoft PowerPoint. Prima di vedere le fotografie, i partecipanti hanno eseguito un test di Digit Span al fine di provocare uno stress cardiovascolare. La variabilità della frequenza cardiaca è risultata significativamente maggiore durante la visione di ambienti naturali rispetto a quelli urbani. Questo risultato dimostra che la visione di immagini della natura migliora il processo di recupero dopo un evento stressante.

Conclusioni e prospettive future

Benché gli studi di questa rassegna abbiano incluso adulti sani appartenenti alla popolazione generale, sarebbero utili ulteriori ricerche su campioni diversi, volgendo l’attenzione su individui che mostrano livelli di stress più elevati, come i pazienti affetti da disturbi dell’umore, da disturbi d’ansia o pazienti in riabilitazione. Il contatto con la natura può essere una strategia preventiva e ricostituente per la salute pubblica, in particolare per gli individui a maggior rischio di malattia.

 

Le caratteristiche del paziente e del terapeuta che influiscono sull’alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica affonda le proprie radici nella psicodinamica ed è un elemento presente e fondamentale in tutti gli approcci terapeutici.

Le origini dell’alleanza terapeutica

 Il legame tra il clinico e il paziente, l’alleanza delle due figure verso un obiettivo, il sentimento di protezione e fiducia nei confronti del clinico, sono temi trattati nelle prime opere di Sigmund Freud (1917). Infatti, il concetto di “alleanza terapeutica” nasce in ambito psicoanalitico con Freud, il quale afferma nelle sue teorie che i rapporti terapeutici sono basati sul transfert, ovvero un fenomeno inconsapevole di trasferimento delle emozioni dal cliente all’analista. Freud sostiene che l’alleanza terapeutica sia quel legame di stima e fiducia che permette al paziente di affidarsi alle cure del medico e collaborare con lui (Gazzillo & Ortu, 2013).

Bowlby, studioso dell’attaccamento, ha concettualizzato il costrutto come una guida per la pratica clinica: infatti, sosteneva, non solo che il terapeuta può diventare una figura di attaccamento con cui creare un legame indissolubile, ma anche che è molto importante che il terapeuta diventi un compagno affidabile per il paziente, che lo accompagni lungo tutto il percorso terapeutico, rimanendo al suo fianco e guidandolo verso il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Lo psicoterapeuta, secondo Bowlby, deve fornire al paziente una base sicura da cui l’individuo può sentirsi libero di riflettere sul proprio vissuto e sperimentare aspetti della propria vita affrontando anche esperienze dolorose. Il clinico, dunque, rappresenta una sorta di specchio per il paziente, attraverso il quale andare alla scoperta di sé (Bowlby, 1988). Secondo lo studioso dell’attaccamento i pazienti si rivolgono al terapeuta come rifugio sicuro nei momenti di difficoltà per avere conforto e sostegno (Gazzillo & Ortu, 2013).

La definizione di alleanza terapeutica proposta da Bordin (1979) si colloca in una visione pan-teorica dell’alleanza, presente in ogni psicoterapia indipendentemente dal loro modello teorico e operativo e capace di trascendere il modello psicoanalitico da cui ha avuto origine. Secondo Bordin (cit. in Safran & Muran, 2019) l’alleanza è basata su tre componenti: l’accordo sugli obiettivi della terapia, il consenso sui compiti della terapia e il legame affettivo tra cliente e terapeuta. L’autore fornisce una delle definizioni più recenti dell’alleanza terapeutica ponendo l’accento sulla collaborazione attiva e su quanto sia fondamentale la partecipazione del paziente nel raggiungimento degli obiettivi.

L’alleanza, come si è visto precedentemente, affonda le proprie radici nella psicodinamica e oggi è un elemento presente e fondamentale in tutti gli approcci terapeutici, poiché considerata l’essenza stessa della terapia. L’alleanza terapeutica è dunque in ottica comportamentale un legame di fiducia, mentre in ambito psicoanalitico una forma di complicità basata sul raggiungimento di uno o più obiettivi di benessere, ed è importante capire quali sono le caratteristiche comportamentali ed emotive delle due figure protagoniste che possono influire sull’alleanza terapeutica agevolando, quindi, l’intero percorso di cambiamento.

Le caratteristiche del terapeuta

 Gli studiosi Ackerman e Hilsenroth (2003) hanno rilevato e analizzato alcune caratteristiche che ogni terapeuta dovrebbe avere per una buona predisposizione alla creazione del legame. Il primo obiettivo del clinico è quello di creare un dialogo con il proprio paziente e di rendere il luogo e il tempo a lui dedicato il più confortevole possibile, dunque il terapeuta deve mostrarsi flessibile, poiché non conosce le caratteristiche del paziente e un atteggiamento aperto e rispettoso agevolerà la conoscenza. L’onestà e il rispetto sono due caratteristiche fondamentali per una buona alleanza poiché alla base del rapporto deve esserci il sincero desiderio di aiutare e di essere aiutati. È importante mostrarsi interessati, calorosi e affidabili in modo da creare il sentimento di fiducia sul quale si potrà costruire un buon rapporto. Il paziente deve sentirsi accolto, compreso e ascoltato, senza sentirsi giudicato o ignorato, solo così potrà affidarsi completamente all’altro rendendo l’intero percorso terapeutico valido. Il paziente riporta la sua vita, i suoi sentimenti e tutti i suoi stati interni, il compito del terapeuta è quello di saper accoglierli e averne cura. Al contrario, una scarsa alleanza terapeutica è data da caratteristiche negative del terapeuta che portano il paziente a distaccarsi e chiudersi. L’essere distante, poco interessato, critico o stanco non crea la sintonia che dovrebbe esserci tra paziente e clinico poiché, mentre il paziente si racconta, sarà molto attento alle reazioni del terapeuta che non deve mostrarsi disattento o giudicante perché potrebbe creare delle rotture nell’alleanza difficili da riparare.

Le caratteristiche del paziente

Norcross (2011) individua anche dei fattori legati a caratteristiche dei pazienti che influenzano l’alleanza terapeutica: il funzionamento interpersonale, il funzionamento difensivo e le aspettative di miglioramento. Il funzionamento interpersonale è un fattore molto importante per ogni relazione, soprattutto in quella d’aiuto, poiché la capacità di mantenere il legame agevola la relazione stessa, il sentimento di fiducia e il raggiungimento degli obiettivi (Muran & Barber, 2010). Se il funzionamento interpersonale predice una buona alleanza, al contrario un funzionamento difensivo, potrebbe creare un legame debole e instabile (Gatson et al., 1988). Il paziente deve essere mosso da un desiderio di cambiamento e miglioramento per intraprendere un percorso terapeutico ma, alcune volte, potrebbe iniziare la terapia senza essere completamente consenziente e mostrarsi distaccato, poco collaborativo e critico, non essendo quindi d’aiuto alla relazione con il clinico e alla terapia stessa. È importante che i pazienti capiscano che la terapia è per loro un aiuto, un momento di ascolto sincero e privo di giudizi, che l’unico fine del clinico è l’aiuto e che quindi una collaborazione può giovare solamente. Un ultimo fattore individuato che predice una buona alleanza è l’aspettativa al miglioramento: Joyce e Piper (1998) suggeriscono che il desiderio da parte del paziente di migliorare aiuta la creazione del rapporto con il terapeuta, poiché il paziente sarà più collaborativo e determinato.

Conclusioni

A sostegno della tesi di Bordin (1979) che aveva definito l’alleanza terapeutica “panteorica”, è interessante notare che nel corso degli anni non siano state individuate caratteristiche differenti per il paziente e il clinico a seconda dell’approccio psicoterapeutico e della scuola di pensiero, poiché l’alleanza terapeutica è un fattore comune e insito in tutte le terapie senza il quale viene meno la terapia stessa (Muran & Barber, 2010).

 

Senza respiro (2022) di David Quammen – Recensione

Il libro “Senza respiro”, edito da Adelphi poche settimane prima delle festività natalizie con perfetta scelta di tempo editoriale, è fortemente raccomandato a chi desidera approfondire le proprie conoscenze in tema di Covid, per comprendere come funziona l’evoluzione della produzione scientifica.

 

 Il volume è consigliato a scettici, perplessi, critici e increduli, purché siano disposti a sgombrare la mente dai pregiudizi che, come diceva Luciano Bianciardi, sono solo “bugie travestite”.

L’autore è il giornalista americano David Quammen, già artefice di alcuni successi editoriali, molto apprezzato sia per il suo stile di scrittura, chiaro ed avvincente, sia per la serietà e l’approfondimento con cui affronta gli argomenti a cui sceglie di dedicarsi. Infatti, alcune delle sue opere precedenti sono state tra i libri di saggistica degli ultimi decenni più venduti in diversi continenti. In “Spillover” (nella nostra lingua: “Salto di specie”), ha descritto la nascita e la diffusione dell’Aids, il cui virus sarebbe comparso nell’uomo in Camerun nel 1908 e, sia in questo che in altri volumi precedenti, aveva messo in guardia in merito ad una possibile pandemia, come poi è drammaticamente avvenuto. Quammen, tuttavia, non è un predittore di catastrofi ma uno studioso attento, a cui va riconosciuto il merito di andare a ricercare le opinioni degli scienziati più bravi, che talvolta non sono necessariamente i più noti o i più importanti dal punto di vista accademico. Non a caso, negli anni, ha condotto ricerche in loco e affiancato scienziati in Congo, in Australia e, infine, nei mercati alimentari presenti nei grandi agglomerati urbani in Cina. Come lasciava intuire il titolo dell’opera, la sua tesi era che il pericolo sarebbe potuto giungere da virus già presenti da molto tempo tra gli animali e che, con un possibile salto di specie, avrebbero potuto prima o poi colpire tutta l’umanità. Ammoniva che era sbagliato ricercarne l’origine come extraterrestre o, ancor peggio, nel nulla.

Il volume recente “Senza respiro” è dedicato al Covid-19 e alla susseguente febbrile ricerca scientifica avvenuta in questi ultimi due anni. Il primo capitolo inizia dalla ormai fatidica data del 19 dicembre 2019 allorquando dalla città di Wuhan (la settima più grande della Cina, con circa 11 milioni di abitanti) un giovane oftalmologo comunica mediante scambi via chat con alcuni colleghi del suo stesso ospedale di aver notato i primi casi sospetti. La lettura prosegue seguendo la diffusione della notizia, inizialmente in un ambito ristretto della comunità scientifica, e racconta come immediatamente alcuni infettivologi in diverse parti del mondo abbiano compreso i rischi che potevano coinvolgere tutto il pianeta e abbiano incrementato i loro sforzi di ricerca. Il saggio offre la chiave di lettura per comprendere in che modo si siano potuti avere a disposizione vaccini in un lasso di tempo sostanzialmente molto breve, ovvero in virtù del fatto che già da anni alcuni scienziati avevano concentrato i loro studi esclusivamente sui “coronavirus”. Infatti, sebbene fossero ignorati da molti, Quammen ci presenta la vicenda di alcuni studiosi che, a partire dalla comparsa della Sars avvenuta nel 2002 sempre in Cina, e quindi ben 17 anni prima del Covid-19, compivano ricerche accurate su questa famiglia di ceppi virali, mettendo in guardia sull’elevata probabilità di una loro comparsa repentina. Proseguendo nella lettura, emerge la figura di Marjorie Pollack, sostanzialmente ignota alla maggioranza del grosso pubblico, siano essi vaccinati o meno, e l’impegno di alcuni altri scienziati, le cui conoscenze si sono rivelate fondamentali. Uno dei compiti della newyorchese Pollack era quello di pubblicare e aggiornare le notizie nel sito dedicato al monitoraggio delle patologie infettive emergenti nel mondo, curato da un team multidisciplinare dell’International Society for Infectious Diseases (ISID) e capace di raggiungere almeno ottantamila medici specializzati in malattie infettive. Si giunge poi alla data dell’11 gennaio 2020, in cui da Edimburgo viene resa nota via internet per la prima volta una sequenza del genoma del virus. Essa era stata individuata dal virologo cinese Yong-Zhen Zhang. È citata la sua collaborazione scientifica con un eccellente biologo evoluzionista australiano, Eddy Holmes, in quanto questi svolse un ruolo importante nel convincere Zhang a condividere quei dati, nonostante un ordine governativo cinese in quel momento proibiva ai laboratori di pubblicare informazioni sul virus. Zhang affermò di non essere a conoscenza del divieto e non ha mai ricevuto alcuna sanzione per aver divulgato le sue scoperte. Holmes, appena ottenne la sequenza impiegò pochi minuti per renderla nota alla comunità scientifica mondiale e per questo insieme hanno ricevuto il premio General Symbiont 2021, come esempio nella pratica della condivisione dei dati ai Research Parasite Awards. Da quel momento partì in diverse parti del mondo la ricerca per la produzione di un vaccino.

 Da psicologo, posso affermare questo. L’intero insieme delle nostre conoscenze e convinzioni si fonda su due fattori, di cui uno è ovvio mentre il secondo non è immediatamente percepito. Il nostro sapere da un lato è costituito dalla somma delle nozioni che abbiamo acquisito, vuoi per averle apprese direttamente, mediante le informazioni ricevute dalle esperienze personali precedentemente vissute, vuoi per averle studiate nei libri o comunque ottenute in modo indiretto. Ma il secondo fattore, costitutivo del nostro sapere, è quello più subdolo, ed è rappresentato dalla totalità delle nozioni che ignoriamo. Infatti, quando alle nostre conoscenze pervengono nuove informazioni (che ad esempio possono riguardare un negoziante o un personaggio pubblico) è intuitivo comprendere come sia elevata la probabilità che si modifichi anche la nostra opinione. Ma tendiamo a trascurare l’importanza di tutto quanto ignoriamo, proprio in virtù del fatto che ci è sconosciuto, e che, quale che sia il nostro grado di cultura e l’intensità delle esperienze vissute, è sempre molto di più di ciò che conosciamo. Siamo, invece, propensi, ed è comprensibile e persino logico, a dare ragione a noi stessi, sottovalutando l’importanza di ciò che ci è ignoto.

Questo per dire che la lettura di questo libro per me avvincente è consigliata a chi con umiltà riconosce di conoscere poco di questo argomento scientifico specifico, nonostante l’infinità degli articoli di giornale o di programmi televisivi a esso dedicati, e desidera saperne di più, anche per confutare legittimi dubbi.

Il volume è ponderoso in quanto consta di oltre 500 pagine, ma rappresenta una lettura scorrevole, in quanto scritto con un linguaggio non tecnico. Esso narra, in alcune pagine con uno stile romanzato, l’evoluzione del sapere scientifico, soffermandosi sulle vicende suggestive di alcuni degli studiosi che hanno giocato un ruolo decisivo contro un avversario che comunque ha prodotto sei milioni di morti nel mondo. Nella premessa, Quammen afferma che il lavoro è dedicato proprio ai familiari di queste vittime. In conclusione del testo, sono citate le imponenti fonti bibliografiche e l’elenco degli incontri personali avuti con numerosi protagonisti del libro, a testimonianza dell’impegno e della serietà con cui è stato redatto il testo.

Infine, molto indovinato il titolo: “Senza respiro”. Tale è stata la manifestazione più angosciosa della sintomatologia della malattia nei pazienti nel primo periodo della sua comparsa, tale è stato lo studio senza sosta di molti scienziati, tale risulta, finanche, la lettura di alcuni brani del testo.

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) come intervento terapeutico promettente per i disturbi alimentari e l’obesità

L’applicazione clinica della rTMS ai disturbi alimentari si basa sull’ipotesi che le caratteristiche disadattive fondamentali di queste condizioni possano essere spiegate da un alterato equilibrio tra i meccanismi neurali legati ai sistemi di ricompensa e di controllo cognitivo/inibitorio.

I disturbi alimentari

 Diversi studi hanno dimostrato che i disturbi alimentari (EDs; Eating Disorders), in particolare l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN), sono responsabili di disabilità e mortalità (Erskine et al., 2016; Smink et al., 2012). La prevalenza mondiale dei disturbi alimentari varia significativamente tra i Paesi e in base alla tipologia di disturbo alimentare. Gli studi epidemiologici hanno evidenziato tassi di prevalenza modesti di anoressia nella popolazione generale (.10% – 1.05%) e tassi di prevalenza significativamente più elevati di bulimia (0.87% – 2.98%), disturbo da alimentazione incontrollata (BED; Binge Eating Disorders) e disturbi alimentari non altrimenti specificati (NOS) (1.98% – 4.45%) (Hoek, 2016). In base a queste evidenze, in letteratura si sono sviluppati diversi approcci terapeutici per far fronte a queste condizioni cliniche, sia farmacologici (Evans & American Psychological Association, 2019) che psicologici (Abbate-Daga et al., 2016; Pisetsky et al., 2019). Tuttavia, è ben noto che una percentuale significativa di persone affette da disturbi alimentari che ricevono diversi trattamenti non riescono a guarire completamente ed in modo duraturo (Kim & Kim, 2019).

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS)

Per quanto riguarda i disturbi psichiatrici resistenti al trattamento e recidivanti (ad esempio, disturbi dell’umore, disturbi da dipendenza, disturbo da stress post-traumatico), esiste un crescente numero di ricerche empiriche che hanno studiato l’efficacia delle tecniche di neuromodulazione per il trattamento di tali condizioni (Kim & Kim, 2019). Tra gli approcci di neuromodulazione disponibili, la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS; repetitive transcranial magnetic stimulation) è non invasiva e uno degli interventi più utilizzati per diversi disturbi mentali (Lefaucheur et al., 2020). La rTMS utilizza un campo magnetico pulsato per alterare l’attività di specifici circuiti neurali attraverso l’induzione locale di una corrente elettrica nella corteccia cerebrale, inducendo una depolarizzazione neuronale (Barker, 1999).

 L’applicazione della rTMS per il trattamento di patologie psichiatriche ha mostrato risultati promettenti, soprattutto per i disturbi dell’umore e per i disturbi da uso di sostanze (SUD; Substance Use Disorder). Diverse meta-analisi hanno riscontrato ampi e consistenti miglioramenti dei sintomi depressivi tra i pazienti con disturbo depressivo maggiore e disturbo bipolare (Berlim et al., 2014; Brunoni et al., 2017; Couturier, 2005; McGirr et al., 2016). Allo stesso modo, un numero crescente di evidenze empiriche ha dimostrato l’efficacia della rTMS nel ridurre il craving e i comportamenti legati all’uso di sostanze tra i soggetti affetti da disturbi da uso di sostanze (Zhang et al., 2019). Partendo da queste evidenze, la rTMS è stata introdotta come trattamento alternativo per lo spettro dei disturbi alimentari. L’applicazione clinica di queste procedure tra i disturbi alimentari si basa sull’ipotesi che le caratteristiche disadattive fondamentali di queste condizioni possano essere spiegate da un alterato equilibrio tra i meccanismi neurali legati ai sistemi di ricompensa e di controllo cognitivo/inibitorio (O’Hara et al., 2015; Wierenga et al., 2014).

Lo studio descritto ha cercato quindi di approfondire le ricerche presenti sull’efficacia della rTMS per il trattamento dei disturbi alimentari utilizzando un approccio meta-analitico.

Stimolazione magnetica transcranica ripetitiva e disturbi alimentari

Coerentemente con le ipotesi dello studio, le procedure meta-analitiche hanno mostrato che la rTMS aveva grandi effetti terapeutici nella riduzione del BMI (Body Mass Index) tra i soggetti affetti da obesità. Al contrario, la rTMS ha mostrato un impatto nullo sui miglioramenti del BMI tra i soggetti con anoressia.

Questi risultati potrebbero supportare provvisoriamente l’affermazione che la rTMS dovrebbe essere effettuata specificamente per il trattamento dei pazienti con obesità, piuttosto che per gli altri disturbi alimentari. In particolare, è possibile che le abbuffate e altri comportamenti compensatori tra queste condizioni riflettano altre caratteristiche fondamentali dei disturbi, come l’ipercontrollo cognitivo (King et al., 2019) e l’inflessibilità cognitiva (Roberts et al., 2007), che potrebbero essere insensibili alle procedure di rTMS. Contrariamente ai risultati primari, la rTMS sembra mostrare effetti terapeutici significativi e moderati nella riduzione dell’affettività negativa. Questo risultato è parzialmente coerente con i risultati di precedenti meta-analisi che hanno dimostrato impatti clinicamente significativi della rTMS nel trattamento dei sintomi depressivi (Berlim et al., 2014; Gross et al., 2007; Teng et al., 2017). Pertanto, le procedure di rTMS dovrebbero essere considerate un intervento accessorio per il trattamento di anoressia, bulimia e disturbi alimentari non altrimenti specificati, con effetti modesti sul miglioramento del funzionamento affettivo. Al contrario, la rTMS sembra migliorare ampiamente l’affettività negativa dei soggetti affetti da obesità, anche se questa considerazione si basa su un solo studio (Alvarado-Reynoso & Ambriz-Tututi, 2019). Considerando questo dato e i risultati legati agli effetti della rTMS sulla riduzione del BMI, è possibile concludere provvisoriamente che queste procedure sono promettenti per il trattamento dell’obesità e, probabilmente, anche per i pazienti con binge eating disorder, come riportato da un singolo caso di studio (Baczynski et al., 2014). Tuttavia, sono necessari futuri studi randomizzati e controllati per supportare ulteriormente questa ipotesi, soprattutto per quanto riguarda i soggetti affetti da binge eating disorder.

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale – Presentazione del Libro”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri online gratuiti di divulgazione rivolti al pubblico.

La formulazione condivisa del caso è un intervento classico del repertorio psicoterapeutico cognitivo comportamentale. Sebbene sempre considerata importante, il suo approfondimento teorico è stato tuttavia sottovalutato rischiando di ridurla ad accorgimento tecnico. La condivisione della formulazione del caso è strettamente innestata ai principi teorici dell’analisi funzionale dei comportamenti disadattivi e alla possibilità di intervenire ristrutturando in collaborazione consapevole con il paziente gli stati mentali disfunzionali. Il libro approfondisce le implicazioni teoriche e cliniche della formulazione condivisa del caso nelle terapie cognitivo comportamentali (cognitive behavioural therapy, CBT), definendola come il principale strumento operativo degli approcci CBT con cui il terapeuta gestisce l’intero processo psicoterapeutico.

Nell’episodio è illustrato il rapporto tra formulazione condivisa del caso, interventi specifici del trattamento cognitivo comportamentale e fattori aspecifici, tra cui alleanza e relazione terapeutica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Utilizzo della Dialectical Behavior Therapy nel trattamento del disturbo borderline di personalità

La terapia dialettico comportamentale ha l’obiettivo di aiutare i pazienti borderline a sviluppare skills fondamentali per far fronte a difficoltà e cambiamenti della vita quotidiana.

 

Il disturbo borderline di personalità

 Il disturbo borderline di personalità (BPD) è definito dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali come “Un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti”. Frequentemente, le persone aventi questo disturbo, mostrano alti livelli di impulsività, che può degenerare fino alla messa in atto di comportamenti violenti, autolesivi e suicidari (Shaikh et al., 2017).

Inoltre, il disturbo borderline si presenta spesso in comorbilità con altri disturbi, come i disturbi d’ansia e dell’umore, e purtroppo la compresenza di queste condizioni aggrava la probabilità di rischio suicidario (Tomko et al., 2014). Infatti, tra le persone con disturbo borderline di personalità, la prevalenza di tentato suicidio stimata nell’arco della vita è del 60%-70% e dell’8%-10% per i suicidi portati a termine (Basheer, 2018). È proprio questa tendenza all’autolesionismo e al suicidio, a portare le persone con questo disturbo a frequente contatto con il sistema sanitario, a causa della frequenza con cui vengono ospedalizzati in condizioni di emergenza; proprio questo fattore rischia di diventare, di per sé, un meccanismo di coping che va a mantenere e rinforzare i comportamenti suicidari (Mehlum, 2009).

Trattare il disturbo borderline di personalità

Molteplici trattamenti sono risultati efficaci nel trattamento del disturbo borderline di personalità, come per esempio la terapia dialettico comportamentale (DBT), la terapia basata sulla mentalizzazione, la psicoterapia focalizzata sul transfert e la schema therapy; tra i trattamenti appena citati, la terapia dialettico comportamentale è quella con maggiori evidenze scientifiche che ne supportano l’efficacia per quanto riguarda il trattamento del disturbo borderline di personalità (Basheer, 2018).

 La terapia dialettico comportamentale è un trattamento di stampo cognitivo comportamentale, sviluppato da Marsha Linehan, specifico per pazienti borderline (Linehan, 1993). All’interno della concettualizzazione della Linehan i sintomi del disturbo borderline di personalità si correlano a una carenza di skills necessarie per fronteggiare e gestire l’instabilità emotiva, comportamentale, cognitiva e relazionale, dovuta a predisposizioni sia genetiche che a fattori ambientali. Proprio per questo, la terapia dialettico comportamentale ha l’obiettivo di aiutare i pazienti borderline a sviluppare skills fondamentali per far fronte a difficoltà e cambiamenti della vita quotidiana. Nello specifico la dialectical behavior therapy skills training (DBT-ST) si articola in quattro moduli: abilità di mindfulness nucleari, regolazione emotiva, tolleranza alla frustrazione ed efficacia interpersonale (Linehan, 2015).

Lo skills training della terapia dialettico comportamentale

Uno studio del 2021 di Heerebrand e colleghe ha valutato l’efficacia della terapia dialettico comportamentale, nello specifico quella ideata per lo Skills Training di gruppo, definita DBT-ST, in un campione composto da 114 persone (105 donne e 9 uomini), di età compresa tra i 19 e i 63 anni, le quali erano state reclutate per partecipare a un training di gruppo DBT-ST, attraverso la Eastern Community Mental Health Service (ECMHS) per la durata di 18-20 settimane. È importante sottolineare che, oltre alla partecipazione al gruppo di skills training, i partecipanti hanno proseguito in concomitanza la cura farmacologica prescritta loro in precedenza. L’intento dello studio in questione era quello di valutare la presenza e gravità dei sintomi del disturbo borderline di personalità, tra cui distress psicologico, depressione, tasso di ricoveri di emergenza in strutture sanitarie e giorni di ospedalizzazione in psichiatria. I risultati di questo studio hanno evidenziato che, al completamento della DBT-ST, i partecipanti hanno mostrato una riduzione dei sintomi del disturbo borderline di personalità, del distress psicologico e dei sintomi depressivi; inoltre, anche il tasso di ricoveri di emergenza è risultato notevolmente ridotto. In conclusione, le autrici hanno comprovato l’efficacia della terapia dialettico comportamentale con focus sullo skills training, per pazienti affetti da disturbo borderline di personalità.

 

La vita è altrove: una exit strategy tramite la passion economy e la YOLO economy

La strategia della Passion Economy parte da un’autoanalisi all’interno della propria sfera interiore, volta a scoprire le passioni da cui muovere per intraprendere un’attività lavorativa. Conoscere se stessi è un elemento fondante di una strategia potenziale.

 

Introduzione

 L’Era digitale sottesa da Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) fornisce un surplus concettuale ed empirico all’Economia della passione –niente a che fare con l’Economia della felicità, naturalmente!–, che vede tra i principali ideatori Adam Davidson (2020). La digitalizzazione del mondo sociale, che porta con sé mutazioni e viralizzazioni anche nella sfera delle preferenze individuali, rafforza peraltro la visione imperniata sullo YOLO (“You Live Only Once”, teorizzata dall’editorialista di tecnologia Kevin Roose) e una congiunzione fondazionale tra Economia della passione ed Economia YOLO (cfr. The New York Times, 2021, Welcome to the Yolo Economy).

Entrambe sono connotate dai prismatici riflessi della forte contaminazione disciplinare.

Le due teorie trovano robusta legittimazione nel progetto sul Benessere equo e sostenibile (Bes), nato nel 2010 con l’obiettivo di valutare il progresso della collettività non solo sotto il profilo economico, ma anche sociale e ambientale. A tal fine, i tradizionali indicatori economici –primo dei quali il Prodotto Interno Lordo– sono stati integrati da misure relative alla qualità della vita e dell’ambiente (cfr. Rapporto Istat sul Bes). Anche casi di studio corroborano l’evidenza delle due teorie: ad esempio, la situazione del Regno Unito dopo la Brexit e quella dell’Italia con le opportunità offerte dal PNRR (per un approfondimento, si rinvia a Money.it, 2021, Economia YOLO e impatto sul mondo del lavoro). In più, le tante circostanze che affollano i nostri tempi hanno preparato il terreno al consolidarsi di entrambe le branche dell’Economia. Sembrerebbe un’aporia logica che tali circostanze negative che abitano attualmente il nostro vissuto, con le molte incertezze e paure che si trascinano dietro, anziché a un ripiegamento su se stessi portino a sfidarci, persino a costo di abbandonare i nostri abituali ancoraggi e routine, per avventurarci altrove e sperimentare altro. Tuttavia, sotto il profilo psicologico, viene notato come la mente produca una molteplicità di idee per allenare la propria creatività e trovare nuove soluzioni da mettere in campo in situazioni avverse (Albano, 2022). E, come la pandemia ci ha insegnato e Roose ha teorizzato, poiché si vive una volta sola, tanto vale buttarsi nell’avventura fin da subito, senza perdere altri pezzi di vita, accettandone il rischio. A tutto ciò si aggiunge il dilagante malessere del burnout, collegato a un’opprimente sensazione di grave e prolungato stress sul lavoro. Il meccanismo di difesa stilizzato si fonda su una presa di distanza e straniamento verso l’attuale attività lavorativa, con la mancanza di interesse per quanto prima motivava e coinvolgeva. Si diventa insensibili al contesto lavorativo e si cercano vie di fuga per sopravvivere (Campi, 2022).

Alla luce di tali argomenti, non possiamo rubricare in modo riduttivo le due teorie economiche come un’ennesima trovata nerd o un divertissement mondan-culturale. Oltre all’aspettativa YOLO di nuovi stili e migliore qualità di vita, prospettive fondative che mettono a fattor comune le due teorie, sono una nuova percezione del lavoro all’interno del dominio del vivere e del Sè. O, in altri termini, sottostante a entrambe le teorie c’è l’idea dell’interiorità intesa come risorsa, anche di natura economico-produttiva.

Su tale solco, appare rilevante aggiungere che entrambe le teorie richiedono una importante premessa di carattere filosofico: il desiderio di “Ritornare in sé” (Merlini, 2022).

E questo in controtendenza ad alcuni scenari fattuali:

  • la nostra spazio-temporalità schizotipica, che mostra la nostra incapacità di resistere alla tentazione dalla fuga da sé (Merlini, 2022) e che, quando esasperata, può collassare nella sindrome FOMO (Fear of Missing Out).
  • alcuni fenomeni sociali esprimibili con metafore esegetiche quali: a) la “sindrome della papera” (ispirazione scenografica che anima il desiderio narcisistico dell’individuo di proporre una lusinghiera immagine di sé al mondo, ma contemporaneamente non consentendo al mondo stesso uno sguardo panottico su di lui/lei); b) il correlato bias “del pavone” (vale a dire la sconfitta di tale allegoria). Si allude all’occultamento, generalmente via social, dell’enorme sforzo psicologico e il dispendio di energie richiesti dallo sciorinare solo la crème de la crème della propria vita. Alcuni, soprattutto fra i Millenials e la Generazione Z, ne soccombono.
  • certi orientamenti nel campo dell’intelligenza artificiale “forte” e “generale”, c.d. IAG (Intelligenza Artificiale Generale). In particolare, lo scienziato dei computer e transumanista, Ray Kurzweil, predice persino “la mente fuori dal proprio corpo” (La mente fuori dal corpo). Di simili posizioni un altro transumanista, il neuroscienziato Henrik Ehrsson (Lasceremo il nostro corpo) e il futurologo Anders Sandberg (Come saranno gli esseri umani tra un milione di anni). Inoltre, appare doveroso citare Caronia –considerato il più autorevole teorico italiano dell’universo cyber– con il suo volume (2020) “Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale”.

Pur consapevoli dei forti sospetti –dalle gravide conseguenze distopiche (cyberpunk)– sollevati sull’infosfera digitale, il presente lavoro rimane circoscritto all’ambito dell’ottimismo tecnologico (postcyberpunk).

Infine, esso adotta un approccio microeconomico, basato sull’agente economico (consumatore e imprenditore) e sul mercato di un bene/servizio (nello specifico, l’output “passion-based”).

Economia della passione ed Economia YOLO, ovvero tecniche di “ritorno a sé”

Il dipanarsi dell’Era digitale attraverso strumentazioni sempre più sofisticate ha prodotto una rivoluzione culturale, un mutamento nei modelli economici e nei principi ispiratori del diritto, nonché nella struttura etico-valoriale delle società.

Nel presente studio, il mercato del lavoro viene interpretato come il fil rouge che attraversa in qualche modo tutti questi ambiti e le cui recenti evoluzioni –in primis, gli sconvolgimenti originati dal lavoro asincrono e da remoto– sono i fattori che stigmatizzano le due teorie economiche in esame. Innovazioni, quelle sul mercato del lavoro, che hanno innalzato le aspettative di una migliore allocazione tra tempo dedicato al lavoro e tempo libero, di reinventarsi, di concretizzare le proprie passioni, creatività ed esperienze in beni e servizi da proporre sul mercato; di non identificare più il lavoro con la propria vita ma –in esatta controtendenza– trasportare la propria esperienza di vita nel lavoro.

Rifacendoci a esempi recenti, il bot ChatGPT (Generative Pretrained Transformer) si rivela un ottimo assistente (anche a blogger e giornalisti) per i lavori creativi: le sue conoscenze matematiche lo mettono in grado di comporre musica, brani e poesie ispirandosi a quanto assimilato dal web. Inoltre, si cita il gruppo pop sud-coreano, Eternity, costituito da soggetti digitali la cui tecnologia consente loro di muovere corpo e viso in modo affatto verosimigliante a quello umano. Grazie a questi strumenti digitali sempre più diffusi, si amplia la cassetta degli attrezzi da cui la creatività può attingere, ottenendo anche riconoscimenti economici sul mercato. E c’è di più: il lato dell’offerta in tale mercato si accresce poiché accessibile a nuovi attori che intendono tutelare la propria vita privata ovvero soffrono di disabilità o problemi di altra natura che minano l’opportunità di esporsi in pubblico.

La passione, la creatività, i beni esperienziali nell’Era digitale si arricchiscono così di nuovi rivoli che affluiscono nel mercato.

Widget Economy vs. Passion Economy

Il concetto di “Widget Economy” è stato introdotto da Davidson (2020) per contrapporre gli schemi che hanno prevalso fino al XX secolo quali indicatori di performance del lavoratore rispetto alle metriche più recenti. Sottesa alla Widget Economy vi è la scelta dicotomica con cui l’individuo si confronta. La prima alternativa di tale dicotomia consiste nel perseguire gli obiettivi economici, la stabilità, la routinizzazione della propria esistenza piegandola all’imperativo di identificare la propria vita con l’attività lavorativa e adattando entrambe (vita e lavoro) a metriche esterne che rappresentano il corollario di tale identificazione: la produttività, il successo sul lavoro, la conseguente ascesa sociale e tutti gli altri parametri correlati, funzionali allo sviluppo socio-economico di una collettività. L’alternativa a tale scelta rinvia a una vita in cui si prioritizzano le proprie passioni, l’espressione personale, le preferenze genuine a scapito dell’attività lavorativa e di tutto ciò che ne segue.

Con la Passion Economy, la dicotomia e la polarizzazione “segui i soldi/segui le passioni” –fondanti nella Widget Economy– si scardinano e le due scelte (esistenziali) non appaiono più irrelate e incompatibili. Lo iato che ha dato discontinuità alle due prospettive è venuto a determinarsi per due fenomeni: i progressi tecnologici e la globalizzazione, entrambi con il loro impatto sul mercato del lavoro (sostituzione uomo-macchina, delocalizzazione delle attività nei paesi a più bassi salari).

La nozione stessa di “strategia” cambia e si complica con la Passion Economy: per il lavoratore che diventa imprenditore di se stesso sul mercato non è più sufficiente una strategia ottimizzante (data la disponibilità di risorse) volta alla massimizzazione dei profitti. La strategia è più articolata e segue un percorso più lungo perché parte da un’autoanalisi all’interno della propria sfera interiore, volta a scoprire le passioni da cui muovere per intraprendere un’attività lavorativa. Conoscere se stessi è un elemento fondante di una strategia potenziale.

La passione è l’input intangibile che costituisce il valore aggiunto del bene/servizio oggetto della propria creazione da proporre al mercato. Il bene/servizio, di conseguenza, appartiene alla categoria dei “beni esperienziali” che raccontano del proprio ideatore e della sua storia.

 Ma, mantenendo i piedi per terra, la passione deve essere unita all’abilità e alla competenza affinchè acquisisca un valore di mercato; inoltre, deve essere canalizzata sul mercato secondo regole ben precise. In primo luogo, il nuovo stereotipo di lavoratore dell’Economia della passione non deve aspirare a vendere grandi volumi della propria creazione. Diversamente, le grandi imprese diventerebbero forti competitor grazie alle economie di scala di cui si avvalgono, che butterebbero fuori mercato il nuovo agente economico “imprenditore-creatore”. Abbandonare il mercato significa incorrere in “sunk cost”, cioè costi non recuperabili in quanto l’attività – proprio per le sue peculiarità soggettive– non è verosimilmente spendibile in un altro mercato di beni/servizi. Per evitare tale rischio, il lavoratore della Passion Economy deve porsi all’interno di una nicchia di mercato: cioè, creare un bene/servizio di nicchia, anziché produrre su vasta scala. La passione, unita a capacità e competenza, costituisce una barriera all’entrata nella sua nicchia di mercato da parte della potenziale concorrenza.

Ancorché con le sue peculiarità, questa nuova teoria economica mutua ulteriori importanti concetti microfondati.

Guardando all’interazione tra lato dell’offerta e lato della domanda, in primis l’offerta potenziale delle proprie creazioni di nicchia deve individuare con sufficiente precisione il segmento della domanda a cui rivolgersi, cioè la classe dei potenziali consumatori.

In questo, oggi –nell’Era digitale– i social assolvono una funzione dirimente.

Individuato il contesto in cui vendere l’output, a cascata si possono individuare i potenziali competitor. Infatti, sebbene il proprio prodotto sia unico, nondimeno il consumatore si avvarrà di termini di paragone, punti di riferimento, esperienze personali o narrate, ecc. Dispone degli strumenti per un accesso facile e veloce alle informazioni necessarie per il suo decision-making. Concentrarsi sui feedback raccolti da tale platea è un fattore cruciale per eventuali aggiustamenti della strategia imprenditoriale e per la fidelizzazione dei clienti.

Altra variabile fondante all’interno di questa interazione è naturalmente il prezzo. E quanto più tale interazione è stretta (“passion-based relationship”) – esplicativa anche delle qualità e caratteristiche non osservabili del prodotto, e quindi del suo valore intrinseco– tanto più preciso sarà il livello del prezzo da fissare per l’output “passion-based”. Deve trattarsi, quindi, di una interazione col cliente molto personalizzata, time-consuming e duratura nel tempo. Costruirsi una reputazione è un percorso sempre molto complesso e demanding. Allora, ecco che la natura del bene stesso diventa più articolato: l’output “passion-based” è un “bene esperienziale e reputazionale”. Proprio queste caratteristiche connotano anche l’elasticità della domanda rispetto al prezzo, vale a dire la reazione dei consumatori rispetto a un aumento di prezzo. È plausibile che si tratti di una elasticità molto bassa, che sottende una domanda scarsamente reattiva alle variazioni dei prezzi.

Questo spiega anche un’altra variabile della strategia: a una platea vasta e indifferenziata è da preferire quella più ristretta degli amatori appassionati. Insomma, pochi ma buoni… purché i criteri economici vengano rispettati, … altrimenti bye bye sognatore!

Conclusioni

Generalmente, la nostra esistenza viene da noi stessi trasformata in un’architettura di evitamento e nascondimento. Ma, a volte, sono alcuni cambiamenti profondi dell’ambiente circostante –come quelli attualmente esperiti– a richiamarci a un ritorno a sé, all’urgenza di anteporre la nostra sfera interiore, trascurata, denegata e tanto gelosamente occultata in primis a noi stessi.

Le stesse circostanze, pervase di incertezza e paura, si prestano a una loro lettura “amichevole” col tenderci empaticamente una mano dotata di escamotage che agevolano il nostro “ritorno a casa” e una seguente esternalizzazione del sè rielaborato.

In questo articolo, tale esternalizzazione e tali escamotage vengono allocati sul mercato del lavoro. Certo, tale scelta rischia di apparire riduttiva rispetto alle nostre rinnovate esigenze esistenziali, ma lo diventa molto meno riflettendo su quanto della nostra esistenza occupi lo spazio lavorativo –“spazio” inteso in senso multidimensionale (affanni, competizione, costi-opportunità, allocazione del nostro tempo, i nostri obiettivi e scala di valori, climax culturale e metriche esterne di valutazione del prossimo, mismatch tra domanda e offerta di lavoro, livelli retributivi, ecc.).

Sempre in chiave di escamotage, la crisi sanitaria ha contribuito al proliferare di piattaforme digitali e software avanzati, cui gli agenti economici possono attingere per percepire un reddito secondo modalità che mettono in risalto, anziché mercificare, la loro individualità. Ed ecco che riemerge l’idea di un ritorno a sé e una successiva esternalizzazione rielaborata del sè.

Ma, si sa, ogni escamotage ha anche dei contraltari. E proprio quando questa nuova fluidità del mercato va a coniugarsi con il mondo virtuale, ecco che sorgono problematiche di non poco momento. Ne citiamo alcune. Malgrado i forti progressi nella diffusione e nella democratizzazione della digitalizzazione in tempo di pandemia e con il lavoro da remoto, nondimeno permangono gap creati dal digital divide in ragione dell’età, del genere, dell’ambiente socio-economico, dell’area geografica (anche a livello globale). La possibilità di cambiare le scelte lavorative assecondando la propria sfera interiore, il sistema di preferenze soggettive e le volizioni nei nuovi contesti tecnologici, può costituire un bene di lusso, in quanto non accessibile a tutti. Corollario è che tali opportunità rischiano di assumere natura regressiva, sotto il profilo redistributivo, cioè a scapito delle classi socio-economiche più basse. E, allora, le trasformazioni in atto rischiano di collassare in nicchie elitarie? A contrastare questa pericolosa deriva concorre oggi la nozione di “open source” secondo un approccio di natura filosofica: l’open source rappresenta una nuova concezione della vita che contrasta qualsiasi appannaggio esclusivo grazie alla condivisione della conoscenza.

Ulteriori difficoltà sorgono a livello manageriale, in quanto i progressi nella digitalizzazione delle attività all’interno di un organismo esigono nuove procedure, revisione/creazione di ruoli, funzioni, competenze e nuove mentalità che inevitabilmente rallentano gli stessi processi di innovazione (Manzocchi e Romano, 2022).

Ci sono poi le questioni legate al piano etico e a quello giuridico in un campo che, com’è noto, soffre ancora di lacune nella regolamentazione a tutela della sfera dei diritti fondamentali dell’individuo (in primis, dignità e privacy), contro i pregiudizi del software (tipicamente di genere e razziale) e contro il cybercrime –ancorché siano stati compiuti significativi progressi anche a livello UE, soprattutto sul piano della soft law (Severino, 2022). Reinventarsi nel lavoro e diventare imprenditori di se stessi sono aspettative lusinghiere, determinano esternalità positive e, quindi, costituiscono un miglioramento del bene collettivo a condizione però che non prevarichino e minino gli spazi di prossimità.

Esperienze Avverse dell’Infanzia (ACE) e Pensiero Ripetitivo Negativo (RNT) in età adulta: una revisione sistematica

Alcune ricerche hanno ipotizzato e dimostrato che la tendenza al pensiero ripetitivo negativo (RNT) sia più comune e più probabile tra gli adulti che sono stati esposti a esperienze infantili avverse (ACE – Childhood adverse experiences) (Gold & Wegner, 1995; Sarin & Nolen-Hoeksema, 2010; Spasojevic & Alloy, 2002). 

 

Adverse Childhood Experiences – ACE: cosa sono le esperienze avverse dell’infanzia?

Per esperienze avverse dell’infanzia (Adverse Childhood Experiences – ACE) si intendono tutte quelle esperienze traumatiche come abusi sessuali, fisici e/o emotivi, trascuratezza emotiva e fisica, nonché circostanze familiari avverse, quali ad esempio la perdita o la separazione precoce dai caregivers, che si sono verificate durante l’infanzia o l’adolescenza (Bernstein et al., 2003; Faravelli et al., 2014)

Gli individui che sono stati esposti ad esperienze avverse nell’infanzia, comunemente sono vissuti e cresciuti in contesti relazionali emotivamente inadeguati e deficitari al punto che i loro caregivers non sono stati in grado di supportarne adeguatamente lo sviluppo delle competenze e delle abilità di regolazione emotiva; alcuni studi evidenziano inoltre nei soggetti esposti a tali esperienze la maggiore tendenza verso il pensiero ripetitivo negativo (RNT) come strategia disfunzionale per far fronte alle emozioni negative (Linehan, 1993; Saarni, 1999; Sarin & Nolen-Hoeksema, 2010).

Pensiero Ripetitivo Negativo: cos’è?

In letteratura il termine Repetitive Negative Thinking (RNT) o pensiero ripetitivo negativo fa riferimento a a un processo cognitivo caratterizzato da una forma di pensiero ripetitivo, frequente e focalizzato sul sé, che include sia il rimuginio che la ruminazione (Segerstrom, Stanton, Alden, Shortridge, 2003; Ehring, Watkins, 2008; Watkins, 2008).

Il rimugino è definito come una catena di pensieri e immagini incontrollabili (Borkoveck et al., 1983). É un tentativo di problem-solving a livello mentale relativamente a problemi il cui esito è sconosciuto ma include la possibilità che possa essere negativo. Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi, dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

La ruminazione è definita come pensieri che focalizzano ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991). La ruminazione è quindi un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo (Nolen-Hoeksema, 1991).

Il pensiero negativo ripetitivo può dar luogo a circoli viziosi di rimuginio e ruminazione aumentando il distress e favorendo l’esordio e il mantenimento di disturbi emotivi  (Repetti et al., 2002; Sarin & Nolen-Hoeksema, 2010; Spasojevic & Alloy, 2002).

Quale relazione tra pensiero ripetitivo negativo e esperienze avverse dell’infanzia

Partendo da tali presupposti, è stato ipotizzato che le forme di pensiero ripetitivo negativo possano rappresentare uno dei possibili meccanismi attraverso cui le esperienze avverse dell’infanzia possono portare a disturbi emotivi e a esiti clinici psicopatologici negativi in età adulta (Baer et al., 2012; Gold & Wegner, 1995; Sarin & Nolen-Hoeksema, 2010).

Lo studio di Mansueto e colleghi (2021) ha voluto approfondire tale tematica con l’obiettivo di effettuare una review sistematica degli studi pubblicati in letteratura che hanno indagato la relazione tra il pensiero ripetitivo negativo e le esperienze avverse in età infantile. 

La review, a seguito di specifici criteri di inclusione, ha incluso 18 studi che si sono occupati di questo tema, andando a includere attraverso PubMed e Ebsco studi scientifici pubblicati in lingua inglese utilizzando come parole chiave “childhood adversity/childhood abuse/childhood neglect/early loss event” AND “worry or rumination”. La review è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

Dai risultati della review è emerso che sia in popolazioni cliniche che in popolazioni non cliniche gli adulti che riferivano una storia di esperienze avverse dell’infanzia presentano modalità di pensiero ripetitivo negativo (rimuginio e ruminazione). In particolare, considerando le diverse forme di repetitive negative thinking, secondo alcuni studi la ruminazione in età adulta appare essere positivamente correlata a una storia infantile di abuso (emotivo, fisico e/o sessuale) e a esperienze di trascuratezza fisica ed emotiva (Conway et al., 2004; Ghazanfari et al., 2018; Sansone et al., 2013; Sarin & Nolen-Hoeksema, 2010; Spasojevi c & Alloy, 2002). Il rimuginio in età adulta presenta correlazioni positive statisticamente significative con esperienze di abuso in età infantile. Questi risultati sono in linea con altre evidenze in letteratura che supportano l’ipotesi che l’esposizione a esperienze infantili avverse possa facilitare il pensiero ripetitivo negativo in età adulta  (Gold & Wegner, 1995; Sarin & Nolen Hoeksema, 2010; Spasojevic & Alloy, 2002).

In uno degli studi inclusi nella review, che ha valutato pazienti con diagnosi di disturbo depressivo maggiore, la ruminazione è stata identificata come fattore di mediazione nella relazione tra esperienze di abuso e trascuratezza in età infantile e sintomi depressivi nell’età adulta (Ghazanfari et al., 2018). Similmente un altro studio su popolazione clinica ha dimostrato che in pazienti con esordio psicotico la ruminazione media la relazione tra esperienze infantili avverse e la recente ideazione suicidaria (Cui et al., 2019).

Considerando campioni non clinici, secondo lo studio di Zielinski e colleghi (2015) la ruminazione media la relazione tra abuso in età infantile e tratti di pesonalità borderline così come secondo altri studi la ruminazione sarebbe un fattore di mediazione nella relazione tra esperienze di abuso in età infantile e depressione in età adulta (O’Mahen et al., 2015; Raes & Hermans, 2008; Spasojevi c & Alloy, 2002). Infine, altri studi hanno identificato che la ruminazione è un fattore che media la relazione tra abuso emotivo infantile e sintomi post-traumatici da stress (Watts et al., 2020).

La review va a stimolare significative implicazioni anche a livello clinico. In primo luogo, appare fondamentale, in casi di individui adulti con storie di esperienze infantili avverse, porre attenzione ai pensieri negativi ripetitivi già a partire dalla raccolta anamnestica. In secondo luogo, in termini di piani terapeutici è necessario lavorare sulla riduzione del pensieri negativi ripetitivi in casi di adulti con che hanno vissuto esperienze avverse nell’infanzia (Watkins, 2008, Wells, 2011). Inoltre, in termini di ricerca, potrebbero essere utili ulteriori studi in futuro per indagare l’efficacia di queste terapie sulla sintomatologia clinica dei soggetti che hanno vissuto esperienze infantili avverse, così come altri studi che possano studiare la relazione tra Adverse Childhood Experiences e il pensiero ripetitivo negativo (RNT). 

 

Il concetto di transfert secondo Freud

Attraverso l’esperienza del transfert, il processo psicoanalitico riporta il paziente nel passato. Non importa chi sia l’analista, il transfert si basa esclusivamente sugli aspetti del paziente.

 

L’inconscio e le libere associazioni

 La tecnica delle libere associazioni viene ad un certo punto bloccata da certe resistenze del paziente: può capitare che il paziente si blocchi o che tenda a razionalizzare in maniera eccessiva quanto riportato in terapia.

Questo processo è ulteriormente complicato dal fatto che spesso queste resistenze si presentano nel corso del trattamento perché il paziente trasferisce sull’analista desideri, fantasie, ansie e difese derivati dalla relazione con le figure significative. Di solito sono le relazioni con i genitori nella prima infanzia che vengono rivissute nella relazione terapeutica (una sorta di riedizione di un’antica relazione oggettuale, di un’antica nevrosi infantile).

Ad un certo punto del trattamento, il paziente rivive il conflitto, di cui ha fatto esperienza durante l’infanzia, attribuendo fantasie, desideri e ansie non più al genitore ma alla figura dell’analista. L’inconscio infatti è caratterizzato da atemporalità: i contenuti psichici inconsci, cioè i desideri sessuali infantili rimossi, continuano ad essere rappresentati nella vita psichica in modo relativamente immodificato (immutati nel contenuto e nell’intensità) nonostante il passar del tempo.

Il transfert in psicoanalisi

Il compito dell’analisi è fondamentalmente un lavoro di memoria: raggiungere il più rapidamente possibile i ricordi, le fantasie, i desideri soggetti a rimozione. Questo percorso è interrotto dal repentino sviluppo da parte del paziente di sentimenti intensi per l’analista. L’analista diventa ad esempio un potenziale amante o nemico e il processo terapeutico perde importanza per l’analista.

Questa interferenza nel processo psicoanalitico prende il nome di transfert. Questi sentimenti rappresentano l’emergere di sentimenti rimossi verso le figure dei genitori, spostati sulla figura dell’analista: una ripetizione di schemi relazionali esperiti nel passato. Attraverso l’interpretazione del transfert, il processo psicoanalitico promuove l’insight e la presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci.

Attraverso l’esperienza del transfert, il processo psicoanalitico riporta il paziente nel passato. Non importa chi sia l’analista, il transfert si basa esclusivamente sugli aspetti del paziente. L’analista non fa altro che regolare i comandi della macchina del tempo per permettere al paziente di tornare nel passato.

 I desideri sessuali infantili rimossi riemergono in forma camuffata durante la terapia e diretti verso l’analista: una riedizione di un’antica relazione oggettuale. Il cambiamento è l’eliminazione della rimozione che avviene attraverso l’interpretazione del transfert che produce l’insight. L’obiettivo della psicoanalisi, difatti, è promuovere attraverso l’interpretazione del transfert l’insight, cioè la comprensione nel paziente, la presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci. L’interpretazione dell’analista è il veicolo primario dell’azione terapeutica in quanto porta alla presa di coscienza.

Le tipologie di transfert

Esistono due tipi di transfert:

  • transfert positivo: il paziente prova fiducia, stima e affetto per l’analista. Questi sentimenti lo aiutano ad impegnarsi a seguire la regola fondamentale della psicoanalisi; il metodo del trattamento psicoanalitico al fine di far riemergere alla coscienza i contenuti psichici inconsci e permettere la scarica dell’affetto incapsulato e il processo di correzione associativa è il metodo delle associazioni libere, connesso alla regola fondamentale della psicoanalisi: dire tutto quel che viene in mente per quanto possa apparire imbarazzante, inadeguato o inopportuno. La psicoanalisi arriva al successo perché è una cura attraverso l’amore del paziente verso l’analista, inteso come fiducia e affetto, e quindi impegno a seguire la regola fondamentale della psicoanalisi.
  • transfert negativo: il paziente rivive le componenti conflittuali vissute nell’infanzia nelle relazioni con le figure significative. Nonostante in un primo momento il transfert negativo blocchi l’adeguata produzione di libere associazioni e il dare affetto e fiducia all’analista, l’analisi e l’interpretazione del conflitto nel presente risultano necessarie per la cura: in un secondo momento, quindi, il transfert negativo si rivela utile ai fini terapeutici, in quanto permette all’analista di interpretare il conflitto interno del paziente nel qui e nell’ora (essendo l’inconscio caratterizzato da atemporalità, il conflitto rivissuto, riedito dal paziente nel trattamento, ha le stesse caratteristiche di quello vissuto nella prima infanzia).

 

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