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La flessibilità psicologica nella terapia per gli individui affetti da obesità

L’obesità è una condizione cronica della salute che può essere determinata da differenti fattori: la genetica, il metabolismo, il benessere socioculturale e i fattori ambientali e comportamentali (Boles et al., 2017; Curry, 2017).

 

Prevalenza e complicanze in associazione all’obesità

 Nel corso degli ultimi 50 anni l’obesità è incrementata notevolmente, raggiungendo i livelli di una pandemia. Più di 1 miliardo di persone nel mondo, nel 2014, erano affette da obesità e di questi, più di 600 milioni soddisfavano i criteri basati sul Body Mass Index (BMI: Kg/m2 >30; World Health Organization, 2000).

L’obesità è considerata un fattore di rischio sia per complicazioni mediche che per complicazioni psicologiche. Infatti, aumenta il rischio di malattie metaboliche, cardiovascolari e muscoloscheletriche, come il diabete di tipo 2, l’osteoporosi, l’ipertensione e determinate tipologie di cancro. Similmente, l’obesità e il sovrappeso possono essere associati a una grande varietà di conseguenze psicologiche come la depressione, l’ansia, i disturbi alimentari, portando conseguentemente a livelli più bassi di qualità di vita e di autostima (Bray et al., 2017).

L’ACT e la flessibilità psicologica

La maggior parte delle ricerche riguardanti la flessibilità psicologica sono state condotte nel contesto della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), una terapia basata su un approccio transdiagnostico (Hayes et al., 2006). L’ACT si basa sull’accettazione delle esperienze sfavorevoli con lo scopo di promuovere la flessibilità psicologica definita come “l’abilità di entrare in contatto direttamente e apertamente con un’esperienza nel momento presente, cambiando il proprio comportamento in base a ciò che la situazione offre ed in base ai valori ed obiettivi personali” (Hayes et al., 2006).

Molti studi scientifici, esaminando l’efficacia dell’ACT su una varietà di condizioni di salute, hanno riscontrato che la flessibilità psicologica è un fattore chiave per il benessere psicologico e per la qualità della vita (Biglan et al., 2008).

Sebbene solo pochi studi abbiano esaminato la flessibilità psicologica negli individui affetti da obesità, dalle evidenze si denota l’importanza di questo aspetto per la promozione del benessere psicologico (Cattivelli et al., 2018; Schumacher et al., 2019; Weineland et al., 2012); per questo lo studio pubblicato nel 2021 da Guerrini Usubini e colleghi, ha studiato l’associazione tra la flessibilità e il benessere psicologico in un campione di individui adulti affetti da obesità. Lo studio si è concentrato su una definizione di benessere psicologico che evidenzia la salute auto-percepita e gli aspetti psicologici della salute, inclusi gli affetti interpersonali e gli stati emotivi positivi e negativi, enfatizzando le valutazioni soggettive e individuali (Diener, 1984; Grossi & Compare, 2014).

ACT e obesità

Un primo risultato indica che, come ipotizzato, bassi livelli di flessibilità psicologica sono associati a bassi livelli di benessere psicologico.

 Coerentemente con le evidenze supportate dal modello della flessibilità psicologica nel campo dell’ACT, i risultati hanno confermato che gli individui con buoni livelli di salute psicologica hanno la capacità di stabilire un contatto aperto e flessibile con i loro stati interni ed esterni e si impegnano in azioni che sono coerenti con i loro valori personali. Infatti, la flessibilità psicologica risulta avere una forte associazione con svariati risultati psicologici positivi, come la riduzione dello stress, dell’ansia e delle sintomatologie depressive (Bardeen et al., 2013; Francis et al., 2016; Tyndall et al., 2020).

Al contrario, si è confermato che gli individui con bassi livelli di flessibilità psicologica hanno maggiori probabilità di insorgenza di disturbi caratterizzati da difficoltà nella regolazione emotiva e comportamentale (Masuda & Tully, 2012).

Il trattamento dell’obesità

Al giorno d’oggi le linee guida per il trattamento dell’obesità raccomandano interventi multiprofessionali e multidisciplinari che includono l’esercizio fisico, la dieta e la terapia cognitivo-comportamentale per promuovere uno stile di vita sano ed una salute psicologica. Lo studio pubblicato nel 2021 (Guerrini Usubini et al., 2021) sulla terapia ACT ha importanti implicazioni cliniche poiché, oltre a fornire ulteriori prove riguardo al ruolo benefico della flessibilità psicologica sul benessere, suggerisce di potenziare il lavoro della terapia ACT negli interventi psicologici per gli individui affetti da obesità, confermandone nello studio l’utilità e l’efficacia.

 

“C’è chi dice no”, ma come si fa? La comunicazione assertiva – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “C’è chi dice no”, ma come si fa? La comunicazione assertiva.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri di divulgazione rivolti al pubblico.

L’assertività consiste in un insieme di abilità che aiutano la persona nel mettere in atto una comunicazione che tenga presente e riconosca i diritti, sentimenti e obiettivi propri ed altrui. L’obiettivo è quello di inviare all’interlocutore in maniera corretta il proprio messaggio senza utilizzare stili passivi o aggressivi. Nel corso dell’episodio verranno illustrate alcune basi e i possibili utilizzi di queste teniche di comunicazione, nonché le idee più diffuse che ci bloccano nel metterle in atto.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Anginofobia: quando deglutire fa paura

L’anginofobia si riferisce a un’intensa paura di deglutire –si tratta di ingestione di piccoli oggetti, di parti di cibo non ben masticate, talvolta persino della saliva– nella convinzione che, nello stesso atto della deglutizione, possa insorgere il soffocamento. 

 

Introduzione

 La sintomatologia dell’anginofobia, affine a quella dei disturbi fobici, presenta una paura sproporzionata del rischio, l’incoercibilità del sintomo e l’evitamento dello stimolo ansiogeno. Quest’ultimo in particolare viene attuato tramite l’esercizio reiterato di condotte protettive. L’anginofobico tende a selezionare le qualità del cibo al fine di individuare quelle caratteristiche peculiari –consistenze, densità, modalità di cottura e condimento– in grado di aggirare o quantomeno ridurre il rischio di soffocamento. Alcuni soggetti si rifiutano di assumere cibo solido, alimentandosi soltanto con yogurt o omogeneizzati, altri triturano il boccone prima di introdurlo in bocca, altri ancora richiedono la presenza di un caregiver durante l’atto della deglutizione, per scongiurare il rischio di trovarsi privi di un soccorritore nel caso in cui se ne presentasse la necessità; ruolo, quest’ultimo, spesso ricoperto da mariti, genitori o altri componenti della famiglia.

La componente fobica contribuisce a privare il cibo di ogni altro valore (nutritivo, conviviale, relazionale) che non sia strettamente connesso a un’angoscia di morte. Il costo esistenziale si rivela quindi oneroso e di difficile gestione in tutti gli ambiti.

La dimensione socio-relazionale risulta fortemente limitata, data la tendenza a evitare qualsiasi occasione di alimentarsi fuori casa, complice il senso di vergogna suscitato dalle strategie di evitamento. Gli stessi ritmi di alimentazione subiscono una sostanziale modifica, essendo richiesta una maggiore quantità di tempo non soltanto per la preparazione del pasto (sono necessari triturazioni e tagli sottilissimi), ma anche per la masticazione –molto più lunga– e per la deglutizione, che spesso avviene solo dopo numerosi tentativi andati a vuoto.

L’aspetto nutrizionale può risultare danneggiato dal reiterarsi delle condotte selettive, talvolta così intransigenti da comportare l’eliminazione di alcuni cibi dal piano alimentare, con grave rischio per la salute.

Da un punto di vista cognitivo l’anginofobia causa il consolidamento di credenze erronee e fuorvianti, cui consegue la maturazione di pensieri irrealistici e totalmente condizionati dal funzionamento fobico. L’associazione della deglutizione al rischio di soffocamento viene progressivamente automatizzata e resa più intensa nelle sue componenti patologiche: si può arrivare a credere che persino l’ingestione di un piccolo boccone potrebbe avere conseguenze fatali.

L’aspetto emotivo presenta vissuti di profonda insicurezza e sfiducia nel Sé, cui si associano stati di dipendenza, impotenza e mancanza di assertività, che spingono a credere di non poter far nulla da soli, neppure mangiare.

L’anginofobia si presenta spesso in comorbilità con disturbi dello spettro depressivo, allo stesso tempo il comportamento ritualistico implicato nelle condotte di evitamento può agevolare l’insorgenza di patologie affini allo spettro ossessivo.

Il sintomo può manifestarsi anche in presenza di situazioni a intenso carico stressogeno o traumatico, di cui potrebbe rappresentare la condotta reattiva disfunzionale, e può egualmente costituire la conseguenza di un trauma vicario, in cui l’aver assistito a un episodio di soffocamento –consumato o potenziale– durante l’ingestione di cibo, può suscitare l’intensa paura di trovarsi a dover vivere la stessa situazione, da cui le condotte di evitamento e protezione.

È necessario precisare che di fronte all’insorgere del sintomo è in primo luogo necessario escludere ogni coinvolgimento organico. Sono infatti numerosi i disturbi neurologici degenerativi che comprendono, nei rispettivi quadri sintomatici, una compromissione della deglutizione, per esempio: la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), la sclerosi sistemica, il morbo di Parkinson, malattie sistemiche autoimmuni, la cui insorgenza può essere associata a un danno nella funzionalità oro-faringea. L’esclusione di questa eventualità rende plausibile l’attribuzione del sintomo a un disagio emotivo somatizzato, direzionando in tal senso anche l’indagine psicodiagnostica.

Paura di deglutire come “angoscia introiettiva”

Secondo un’interpretazione psicodinamica, il profondo disagio percepito nell’atto della deglutizione potrebbe risultare dalla simbolizzazione di una sottesa angoscia introiettiva, il cui fine è quello di difendere i confini del Sé dall’invasione di elementi “estranei” potenzialmente distruttivi, perché contenuti all’interno di un contesto esistenziale altrettanto negativo, da cui l’anginofobico non vuole lasciarsi contaminare (Naldi, 2022). Una sorta di elementi beta, non deglutibili e letteralmente “indigeribili” (Bion, 1962).

L’anginofobico teme di venir invaso da elementi esterni da cui sa di non potersi difendere. Nulla riesce a superare questo vissuto di diffidenza persecutoria che limita l’apertura, la conoscenza, e più generalmente l’introiezione, in ogni suo aspetto.

Questa angoscia introiettiva potrebbe rappresentare il retaggio mnestico di microinterazioni disfunzionali occorse all’interno del legame diadico, e in seguito relegate nell’inconscio non rimosso assieme al coacervo di esperienze presimboliche sperimentate con l’oggetto materno. A testimonianza di ciò, vediamo come al disturbo anginofobico si associno connotati simbolici regressivi profondamente rievocativi del contesto diadico: la masticazione reiterata, simile a quella dello svezzamento, la paura di alimentarsi senza la presenza di un oggetto rassicurante al proprio fianco, l’importanza fornita all’aspetto della sensorialità del cibo, selezionato in base a consistenze, colori, sapori, quantità –sono tutti richiami latenti ad un’alimentazione gestita all’interno della diade, e regolata dalla presenza di un oggetto materno salvifico dal quale è rischioso separarsi (Naldi, 2022; Spitz, 1958).

In linea generale, l’anginofobico mostra atteggiamenti di profonda diffidenza e sospettosità nei confronti dell’ambiente. Non essendo stato adeguatamente tenuto o contenuto dal contesto accuditivo/educativo, egli presenta un Sé vulnerabile e una dimensione egoica altrettanto debole. Ed è proprio questo deficit di funzionalità egoica a impedire il consolidarsi di un rapporto aperto e accogliente con la realtà, un approccio sicuro e securizzante, in cui la novità non viene percepita come una potenziale minaccia, ma come un’esperienza conoscitiva e di sicuro arricchimento.

L’origine del conflitto e l’equivalenza cibo-madre

Anna Freud (1967) ha osservato come, nelle fasi primordiali dell’esistenza, la madre venga totalmente equiparata al cibo. Le identità di questi due elementi vanno a fondersi in una fantasia indifferenziata che, nella dimensione intrapsichica del bambino, rende la madre una sorta di nutrimento e quest’ultimo un elemento non dissimile dall’oggetto materno.

Le ragioni risultano piuttosto evidenti: è la madre a gestire totalmente l’aspetto nutrizionale del bambino (attraverso il ritmo e la frequenza della poppata), ed è sempre la madre a fornirgli il cibo essenziale per la sopravvivenza. Il suo ruolo di regolazione la rende una sorta di “legislatore esterno” (Freud, 1967) dalla cui presenza – vitale e affettiva – non è possibile prescindere.

Ove non si mostri in grado di organizzare funzionalmente questo aspetto, la madre e tutto ciò che da lei proviene assumeranno una valenza minacciosa, quasi “tossica” agli occhi del bambino, spingendolo a rifuggire l’oggetto materno e il cibo in egual modo. In particolare, il bambino può avvertire l’esigenza di distaccarsi da una madre invasiva, opprimente o abbandonica che non lo nutre a sufficienza o nel modo adeguato – che diviene ai suoi occhi un oggetto persecutorio da sfuggire (Crocetti, 1997). A testimonianza di ciò, si veda come disturbi della deglutizione infantile – o i disturbi alimentari più in generale – si verifichino spesso durante la fase dello svezzamento, inteso come distacco, abbandono, separazione dall’oggetto materno al contempo desiderata e temuta (Freud, 1967).

La fobia della deglutizione in adolescenza: rifiuto di un ambiente oppressivo…

L’identificazione cibo-madre, di per sé destinata a esaurirsi al termine della fase fallica, può tornare a presentarsi in corrispondenza di quelle fasi esistenziali a intensa attivazione pulsionale, e per questo altamente stressogene, che comportano una gestione egoica a carattere regressivo (Freud, 1967). Esattamente come nell’infanzia, la fobia di deglutire può di nuovo rappresentare lo spostamento di una pulsione angosciosa nutrita verso un oggetto affettivo primario o verso una situazione disagevole (e impossibile da mandar giù) che si è costretti a vivere.

 Ad esempio, in fase adolescenziale la fobia della deglutizione può simboleggiare il rifiuto verso un ambiente familiare invasivo e limitante, teso a disconfermare ogni possibile svincolo identitario, o da un contesto educativo intransigente e severo, volto a impedire l’appagamento di ogni pulsione.

Il cibo è parte integrante di questo ambiente. Probabilmente gestito e regolato dai genitori, e comunque pervaso dalla loro identità invasiva, esso diventa il correlato di una genitorialità narcisistica che merita di essere disinvestita, de-idealizzata, in favore della scoperta del vero Sé. Esattamente come nello stadio infantile, la pulsione rifiutante verso l’ambiente genitoriale viene dunque spostata sul cibo, al fine di liquidare la componente angosciosa strettamente collegata alla stessa.

…o  rifiuto della pulsione orale?

Alternativamente al rifiuto di un ambiente oppressivo e soffocante, la fobia della deglutizione potrebbe risultare la metafora dell’opposizione verso uno stato pulsionale endogeno. Nello specifico un’oralità che nell’adolescenza torna a fare la propria comparsa, destabilizzando gli equilibri sublimanti realizzati durante la latenza (Freud, 1974).

In questo stadio della vita, la pulsione orale rappresenta un’avidità introiettiva, a sua volta metafora di un profondo desiderio di conoscenza, di esplorazione, di introduzione di elementi nuovi all’interno del Sé. Il tutto in ottemperanza a un desiderio di scoperta che impone il distacco dagli investimenti infantili per sancire l’inizio di un percorso identitario autonomamente gestito (Blos, 1977).

Questa necessità di distacco dal proprio ambiente familiare alla ricerca di oggetti esterni su cui investire, viene tuttavia percepita nella sua duplice connotazione generativa e distruttiva. Non diversamente da quanto accadeva nelle fasi arcaiche della vita. E tuttavia, con una differenza non trascurabile: se nel periodo infantile la carica orale non aveva incontrato decisa opposizione da parte delle altre istanze psichiche (Io ancora troppo debole e il Super-Io non ancora formato), in questa età evolutiva è invece costretta a fronteggiare intense manovre egoiche a loro volta provocate da un Super Io stabilmente introiettato: “l’IO infantile era capace di ribellarsi improvvisamente al mondo esterno e di allearsi con l’Es per ottenere un soddisfacimento pulsionale, mentre l’Io dell’adolescente, così facendo, si troverebbe in terribile contrasto con il Super Io” (Freud, 1936, p. 152).

L’istanza superegoica si è tramutata in una solida componente caratteriale, e assecondarne la volontà proibitiva risulta gratificante oltre che necessario. Si aggiunga che le rigide connotazioni del Super Io adolescenziale potrebbero risultare amplificate dalla presenza di un contesto educativo altrettanto severo e coercitivo, in cui qualsiasi gratificazione pulsionale (persino quella alimentare) viene equiparata alla violazione di un dovere morale. Da questo punto di vista la fobia della deglutizione rappresenta la simbolizzazione di un’angoscia di appagamento, di gratificazione piena e goduta del Sé, impedita dalle briglie coercitive di un Super Io che relega, imprigiona, soffoca letteralmente.

Dietro ad ogni attività inibita per cause nevrotiche si nasconde un desiderio pulsionale (Freud, 1936, p. 107).

Ovviamente anche la pulsione introiettiva, intesa come inserimento del “nuovo”, viene desiderata e al contempo osservata con diffidenza: nella novità c’è qualcosa di affascinante e tuttavia minaccioso, perché quello stesso elemento sconosciuto che tanto attira potrebbe rivelarsi fautore di un’inattesa distruzione, un annichilimento che l’adolescente dovrebbe per di più affrontare senza il supporto del genitore salvifico, ormai de-idealizzato.

A seguito dell’introiezione di oggetti appaganti (il cibo) potrebbe far seguito una vendicativa rappresaglia superegoica (il soffocamento). Ecco il grande rischio connesso all’oralità.

Di fronte alla necessità di difendersi da questo pericolo, l’Io mette in atto uno spostamento pulsionale finalizzato a gestire un’angoscia altrimenti incontrollabile. È così che l’angoscia di introdurre il “non conosciuto” viene esteriorizzata nella paura di deglutire, e la paura di deglutire rievoca il timore di lasciarsi contaminare dalla misteriosa presenza del nuovo. Del diverso. Dell’altro da Sé.

Trattare il disturbo nel setting

Il disturbo di deglutizione sta mostrando una diffusione crescente, soprattutto all’interno del genere femminile (donne tra 20 e 40 anni e soggetti in età adolescenziale in particolare).

Tratti ansiogeni della personalità e fattori di stress ambientale, uniti a un’attenzione alimentare sempre più diffidente e selettiva, rendono il cibo il condensato simbolico di un’angoscia diretta verso l’esterno, il nuovo e l’altro da Sé, che trova in una strenua difesa introiettiva la propria funzione catartica (Freud, 1896).

Come tutte le altre psicopatologie, il disturbo richiede una presa in carico consapevole, svolta all’interno di un setting terapeutico che sappia integrare il sintomo nella sfera esistenziale diminuendone al contempo l’impatto limitativo.

Trattandosi di un disturbo fobico, una psicoterapia di matrice cognitivo comportamentale potrebbe rivelarsi la scelta d’elezione, perché in grado di costruire un focus terapeutico in cui la gestione del sintomo viene attuata direttamente dal paziente, con conseguente restituzione di agency, autoefficacia, padronanza del Sé e dello stimolo stressogeno. Il tutto in un tempistica generalmente contenuta.

Molto utile potrebbe rivelarsi anche una terapia ad indirizzo psicosomatico –con l’eventuale consulenza di un nutrizionista– data la necessità di trattare la disfunzionalità del rapporto psiche-soma e di ripristinare una correttezza alimentare probabilmente danneggiata dal reiterarsi delle condotte selettive.

Anche la psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico potrebbe costituire un valido aiuto, specie ove fondata su elementi espressivi, al fine di identificare le componenti inconsce del sintomo fobico e di rielaborare lo spostamento difensivo alla base dello stesso. Il tutto cercando al contempo di corroborare i contenuti del nucleo identitario, rendere meno opprimente il carico superegoico e consentire un adeguato potenziamento dell’Io, che in questo disturbo mostra caratteristiche di eccessiva e irrisolta vulnerabilità (Gabbard, 2015).

La psicoterapia psicoanalitica tra identità e cambiamento (2022) – Recensione

Lo scopo del libro è chiaro fin dal titolo: “La psicoterapia psicoanalitica tra identità e cambiamento” cerca di trovare non un compromesso ma un punto di equilibrio tra identità, con la propria storia e quella dei maestri di riferimento, e cambiamento. 

 

 Il volume raccoglie i saggi delle due curatrici e di diversi autori, tutti affiliati alla Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica (AFPP), nata nella fine degli anni Settanta: Cristina Diana Canzio, Corrado D’Agostini, Esmeralda Di Mauro, Alfredina Fiori, Giulia Mercuriali, Stefania Pampaloni, Cristina Pratesi, Rosa Romano Toscani, Antonio Suman, Manuela Trinci. Il testo beneficia della ricca prefazione di Rosa Romano Toscani e delle riflessioni, in chiusura, del filosofo Matteo Galletti, in merito al diritto all’autodeterminazione e al bisogno di connessione che caratterizzano, spesso in modo configgente, i comportamenti attuali e le scelte morali delle persone.

Il gruppo di studio dell’AFPP si è costituito per condurre un approfondimento sullo stato dell’arte della psicoterapia psicoanalitica, interrogandosi sui parametri teorici-tecnici fondamentali, alla luce dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, per giungere a proposte tecniche innovative basate sulla loro lunga e articolata esperienza clinica. Il lavoro scritto presentato ora è frutto delle considerazioni emerse nel gruppo di lavoro, che si è auto-denominato “Tavolo di pensieri”, riunitosi per due anni con cadenza mensile. Le riflessioni nascono dalla consapevolezza che i significativi mutamenti odierni, sia nella patologia psichica e sia nella richiesta terapeutica, impongono modificazioni di setting e scelte tecniche non convenzionali. Da qui, la necessità di ripensare alla prassi della psicoterapia psicoanalitica, mantenendo tuttavia il suo humus teorico originario e le sue finalità profondamente trasformative. Appunto, come recita il titolo, trovare non un compromesso ma un punto di equilibrio tra identità, con la propria storia e quella dei maestri di riferimento, e cambiamento.

Nel primo capitolo viene ben spiegato come si situa il loro modello di lavoro clinico, non solo chiarendo quali siano i punti di contatto e le differenze tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, che resta un tema centrale nell’attuale discussione tra terapeuti del profondo, ma entrando anche nel dettaglio del proprio metodo clinico, individuandone sia gli obiettivi che gli aspetti tecnici di conduzione della seduta. Tali fattori sono approfonditi nei saggi successivi. Il seguente, ad esempio, è dedicato alle funzioni contenitive nella relazione terapeutica, ulteriori all’esercizio dell’interpretazione. Trait d’union tra i vari contributi mi pare proprio l’interesse alla dimensione relazionale, inclusa l’attenzione agli aspetti extra-verbali, agli sguardi, al tono e alla musicalità della voce. Non a caso, il capitolo successivo è proprio dedicato al corpo nella relazione terapeutica: quella del paziente ma, ovviamente, anche quello del terapeuta, come descritto nel caso clinico in cui il corpo che si trasforma è quello della terapeuta in gravidanza. Due ulteriori saggi sono dedicati ai cambiamenti richiesti alla tecnica terapeutica in presenza di pazienti dell’area borderline e con quei pazienti a cui difetta la capacità simbolica, incapaci di portare i propri sogni nel trattamento. Infine, non mancano capitoli dedicati ad altre tematiche di grande attualità, quali l’espressione artistica in psicoterapia; l’attenzione ai sogni del terapeuta; l’evoluzione delle psicoterapie a distanza, imposte dalla recente pandemia; fino a un tema sinora poco affrontato ma meritevole di approfondimento, ovvero il vissuto e le elaborazioni del terapeuta nei primi minuti del post-seduta.

 Gli argomenti trattati sono proposti con ampi riferimenti all’esperienza clinica che rendono la lettura agevole e coinvolgente. Tra l’altro, diversi casi clinici fanno riferimento a terapie con bambini e questo è un ulteriore elemento di pregio del libro, mostrando quanto sia importante un tocco delicato nel loro ascolto; così come sono validi e numerosi i riferimenti alla letteratura esistente e alle esperienze formative con i maestri storici e con quelli che hanno guidato da vicino il loro percorso gruppale.

In merito ad alcune informazioni biografiche concernenti le curatrici, Luigia Cresti è psicologa e psicoterapeuta per minori e adulti, socia fondatrice e didatta con funzioni di training AFPP, già delegata europea dell’EFPP. È specialista nella metodologia della Infant Observation e nelle sue applicazioni, direttrice della rivista Contrappunto. Isabella Lapi è psicologa, psicoterapeuta per minori e adulti, socia didatta con funzioni di training e presidente AFPP, specialista in Bioetica; già primario nei servizi di salute mentale della USL Toscana Centro.

In conclusione, si tratta di un volume assolutamente ben fatto, la cui lettura risulta molto interessante e godibile, mostrando la piena padronanza di tutti gli autori dei temi trattati. Particolarmente consigliato a chi si sta formando in questo specifico ambito terapeutico.

 

Disturbi Alimentari e rendimento scolastico tra gli studenti universitari

Vista la scarsità di dati a riguardo, lo studio di Claydon & Zullig (2020) ha indagato l’associazione tra disturbi alimentari e rendimento scolastico in un ampio campione di studenti universitari per capire come il trattamento potrebbe influenzare tale relazione.

 

Disturbi alimentari e rendimento scolastico

 Negli Stati Uniti, il costo della sanità pubblica per la cura dei disturbi alimentari (DA) è considerevole, con stime di trattamento annuali da $ 1.288 a $ 8.042 per paziente, paragonabile al costo del trattamento della schizofrenia (Hudson et al., 2007; Stuhldreher et al., 2012). Inoltre, le persone con un disturbo alimentare hanno alti tassi di mortalità, il più alto dei quali è visto tra quelle con anoressia, che muoiono principalmente per suicidio o per complicanze dovute all’insufficienza cardiaca (Arcelus et al., 2011).

All’interno della popolazione studentesca universitaria degli Stati Uniti, c’è una prevalenza di individui con sintomi di disturbi alimentari che va dal 9% al 13% tra le femmine e dal 3% al 4% tra gli studenti universitari maschi (Eisenberg et al., 2011). Tuttavia, meno del 20% degli studenti che risultano positivi allo screening per i disturbi alimentari riferiscono di aver ricevuto un trattamento e solo il 6% degli studenti con un disturbo alimentare ha chiesto aiuto a un operatore sanitario (Eisenberg et al., 2011; White et al., 2011). Dunque, gli studenti universitari con disturbo alimentare sono una popolazione vulnerabile che rischia conseguenze fisiche e psicologiche significative se non trattata, che può manifestarsi attraverso una varietà di modalità, compreso l’uso di sostanze e la depressione, ma con effetti anche sul rendimento scolastico (AP; Academic Performance; Claydon & Zullig, 2020).

La potenziale relazione tra disturbi alimentari e rendimento scolastico può essere spiegata attraverso l’effetto della malnutrizione o della scarsa nutrizione sul cervello. La malnutrizione è correlata infatti a deficit cognitivi e linguistici che possono ostacolare notevolmente il successo accademico (Sawaya, 2006).

Ad oggi, c’è una scarsità di ricerche che esplorano questa relazione; tuttavia, è importante condurre studi basati sulla popolazione per comprendere al meglio la possibile associazione tra disturbi alimentari e rendimento scolastico e per capire come il trattamento potrebbe influenzare tale relazione (Frank, 2015). Data questa scarsità di dati, lo scopo dello studio di Claydon & Zullig (2020) è quello di indagare l’associazione tra disturbi alimentari e rendimento scolastico in un ampio campione di studenti universitari.

 Per questo studio è stata utilizzata l’American College Health Association-National College Health Assessment (ACHA-NCHA), che è un’indagine rappresentativa a livello nazionale (ACHA-NCHA, 2014). Sono stati utilizzati i dati raccolti dell’ACHA-NCHA tra l’estate 2010 e 2011, raggiungendo un totale di 223.887 partecipanti. Tra le variabili indipendenti selezionate nello studio troviamo Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa; tra le variabili dipendenti troviamo il rendimento scolastico; tra le covariate invece troviamo le informazioni demografiche e comportamentali del campione di riferimento. Quest’ultimo è composto maggiormente da donne bianche con un rendimento scolastico che variava tra A e B. Meno del 2% ha riferito di avere ricevuto una diagnosi di disturbo alimentare o di essere stato curato per anoressia o bulimia negli ultimi 12 mesi; la maggioranza di quelli diagnosticati ha riferito di non aver ricevuto alcun trattamento. Meno del 10% ha riportato la diagnosi o un trattamento per la depressione negli ultimi 12 mesi e meno del 2% ha riferito di soffrire di abuso di sostanze o di star facendo un trattamento per una dipendenza. Il 25% ha riportato difficoltà a dormire negli ultimi 12 mesi.

Disturbi alimentari e rendimento scolastico: i risultati dello studio

Dai risultati delle analisi statistiche emerge che:

  • Per quando riguarda l’anoressia, tutti gli studenti (maschi e femmine insieme) con diagnosi, ma non trattati, non presentavano differenze significative nel rendimento scolastico rispetto agli studenti senza diagnosi di anoressia. Quando gli studenti con anoressia sono stati trattati con farmaci, psicoterapia o “altro trattamento”, la loro prestazione scolastica non era ancora significativamente differente.
  • Per quando riguarda la bulimia, tutti gli studenti (maschi e femmine insieme) diagnosticati, ma non trattati, non presentavano differenze significative nel rendimento scolastico rispetto agli studenti senza diagnosi di bulimia. Quando gli studenti con bulimia sono stati trattati con i farmaci o in psicoterapia la loro performance scolastica non era significativamente differente.

Complessivamente però, separando i soggetti in base al genere, le donne con anoressia e bulimia hanno un rendimento scolastico significativamente più alto quando trattati con farmaci e/o psicoterapia, mentre gli uomini hanno un rendimento scolastico significativamente più alto in assenza di trattamento o nei casi di altro trattamento per bulimia.

Riassumendo quindi, i soggetti con diagnosi di anoressia o bulimia non trattata non hanno riportato valori significativamente più alti nel rendimento scolastico rispetto agli studenti senza diagnosi di anoressia o bulimia. Invece, gli studenti con anoressia o bulimia che avevano ricevuto farmaci o psicoterapia per la loro malattia, avevano un rendimento scolastico significativamente più alto rispetto agli studenti ai quali non era stata diagnosticata quella condizione.

I risultati di questo studio suggeriscono quindi che ci sono molteplici benefici derivati dalle terapie combinate che producono anche esiti accademici positivi e indicano la necessità di un trattamento multimodale per affrontare i disturbi alimentari e le loro conseguenze (Maxwell et al., 2011).

 

Quando tutta la famiglia aspetta la cicogna: l’infertilità nel ciclo di vita familiare

Quando una coppia non può o non riesce a concepire un figlio, insieme all’infertilità possono occorrere alcuni cambiamenti che investono non solo la relazione di coppia, ma anche la famiglia nucleare e il contesto allargato in cui è inserita una coppia. 

 

La diagnosi di infertilità

 In Italia, una coppia viene definita infertile quando non è stato possibile arrivare a un concepimento dopo 12/24 mesi di rapporti sessuali regolari e non protetti tra partner (Ministero della salute, 2021); invece, viene definita come sterile quando il concepimento non è possibile a causa di una condizione medica (Riccio, 2017). Con sterilità primaria si fa riferimento a una condizione in cui la coppia non ha mai potuto concepire; mentre, con secondaria, si indica una difficoltà nel raggiungimento di una seconda gravidanza. Infine, si parla invece di sterilità idiopatica quando la coppia non riesce ad instaurare una gestazione dopo due anni di rapporti non protetti e gli accertamenti medici risultano nella norma. In questa categoria, viene inclusa la cosiddetta sterilità psicogena, che suggerisce un’eziologia psicologica; tuttavia, ad oggi, per nessuna delle due si è arrivati a comprendere quali siano le variabili in gioco (Righetti, Galluzzi, Maggino, Baffoni & Azzena, 2015).

Pur essendo una problematica che riguarda la coppia, la diagnosi di infertilità è un evento del ciclo di vita che non coinvolge solo i partner, ma l’intero sistema familiare. Se si adotta una prospettiva sistemico-relazionale, la sterilità è un evento paranormativo che interessa tutti i membri del sistema, poiché non solo ostacola la coppia nel diventare genitori, ma non consente anche ai genitori di diventare nonni, ai fratelli di diventare zii e così via (Riccio, 2017).

La costruzione della genitorialità

L’esistenza della famiglia è scandita da transizioni, ovvero dei momenti chiave del ciclo di vita del nucleo, come per esempio la nascita o la morte, che comportano dei cambiamenti sia nel tessuto relazionale, sia nei ruoli che ciascun membro ricopre nella famiglia. A sua volta, ciascun ruolo è associato a specifici compiti di sviluppo, pratici e relazionali, che ognuno nel sistema familiare è tenuto a portare avanti, rispetto alla fase specifica in cui si trova in quel preciso momento (Scabini & Cigoli, 2000).

Nel passaggio “dalla diade alla triade” (Binda, 1985), la coppia si prepara per diventare genitore e inizia un lavoro psicologico di immaginazione e di ideazione di un futuro in cui sono presenti i partner come coppia insieme al bambino immaginato. Secondo Zurlo (2009), è possibile definire la “perinatalità psichica” come quell’arco di tempo che va dal concepimento fino al primo anno di vita del bambino; in questo passaggio, la coppia crea uno spazio mentale diadico dove si proietta nel futuro e si immagina insieme al nascituro. Analoghe fantasie possono affiorare e maturare anche nei familiari, con cui, generalmente, aumentano i contatti e le frequentazioni dopo la sua nascita del bambino (Cotoloni, 2021).

Gli effetti dell’infertilità a livello familiare

Nella ciclicità familiare, l’infertilità di coppia si configura come un evento disatteso e imprevisto, dal momento che raggiungere e instaurare una gravidanza è considerato biologicamente e culturalmente naturale. Quando la coppia incontra l’infertilità, può accadere che una parte della sofferenza esperita sia attribuibile alle aspettative familiari non incontrate (Riccio, 2017); mentre altri, invece, potrebbero percepire il peso del non poter saldare il debito di riconoscenza verso i propri genitori, facendoli diventare nonni (Boszormenyi-Nagy & Spark, 1988).

 Dopo aver ricevuto una diagnosi di infertilità, può succedere che la coppia decida di ricorrere alla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) e che nasconda il fatto alla famiglia e al contesto circostante; alcuni riferiscono di non volerlo comunicare per il senso di vergogna esperito, altri, invece per il timore di disapprovazione o per evitare eccessive pressioni. Questo segreto può diventare un non detto: un ostacolo, un argomento rifuggito e taciuto che può mettere a rischio il dialogo e portare la coppia ad allontanarsi da alcune situazioni in cui sentono di essere esposti a domande che affronterebbero in maniera difficoltosa. Inoltre, in alcune di queste famiglie, si è osservato che il bambino può assumere un ruolo importante e, sebbene assente fisicamente, è presente psicologicamente, non solo nello spazio di coppia, ma anche nel clima emotivo e relazionale della famiglia (Cotoloni, 2021).

La nascita di un figlio è un evento che, in maniera implicita, si propaga di generazione in generazione lungo l’asse verticale del sistema familiare (Gandino, Vanni & Bernaudo, 2018). Quindi, questa assenza può comportare un rallentamento, una situazione di staticità o una regressione nell’intero sistema (Binda, 1990), nonché un’interruzione della ciclicità del nucleo lungo oppure una crisi di coppia nel portare avanti il suo mandato di continuità (Sabini, Iafrate & Regalia, 1998). Infatti, molte coppie non considerano le altre forme di genitorialità che non ammettono legami di sangue (Cotoloni, 2021), o che non contemplano la presenza di una connessione biologica (Boszormenyi-Nagy & Spark, 1988). In alcune coppie infertili, è stato osservato che la relazione di coppia può essere caratterizzata da staticità e risentire di legami di dipendenza emotiva e affettiva dalla propria famiglia di origine; in questo senso, in alcune circostanze, la possibile nascita di un figlio può essere vissuta come “molto attesa”, proprio nel suo essere un bisogno “costituente” della coppia e, quindi, essere percepita come un’opportunità per raggiungere una migliore individuazione dal contesto di origine.

Considerazioni conclusive

In conclusione, attraverso un’attenta analisi delle dinamiche relazionali, di coppia e familiari, è possibile osservare che l’infertilità può sollevare alcune problematiche che riguardano le relazioni in cui sono inseriti i partner. In questo senso, il percorso psicologico mira da una parte a proporsi come un momento di crescita per la coppia e di irrobustimento dell’identità a due; dall’altra, ad aiutare i partner ad affrontare la perdita, accompagnarli nel prendere le decisioni opportune e, infine, agevolare una comunicazione più funzionale con i familiari, che possono essere tanto vincolo quanto risorsa per i partner. Se da una parte i legami familiari possono essere avvinghianti, dall’altra possono offrire quella vicinanza e quel calore emotivo in grado di sostenere la coppia verso la Procreazione Medicalmente Assistita oppure verso altre scelte generative (Cotoloni, 2021).

 

Il superamento della paura nelle Leggi di Platone

Esistono metodi, come quelli della psicoterapia cognitivo-comportamentale, che permettono di “insegnare alla nostra neocorteccia a controllare dei sistemi emotivi che risalgono molto indietro nell’evoluzione” (J. Ledoux, Il cervello emotivo, p. 25) o, per utilizzare il linguaggio di Platone, permettono al cocchiere dell’auriga di governare l’indomabile cavallo nero.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale

 Un momento fondamentale ed imprescindibile della strategia terapeutica cognitivo-comportamentale mirata alla cura dei disturbi fobici e ossessivi è la prescrizione di “una serie di esercizi di induzione del sintomo” al soggetto così da riuscire, passo dopo passo e non senza sforzi, ad alzare la soglia di tolleranza di determinati sintomi (cfr. D. A. Clark, A. T. Beck, “Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni”, pp. 227-232). Perché l’induzione dei sintomi temuti risulta essere un momento addirittura imprescindibile della terapia cognitiva?

Ecco la risposta degli esperti:

  • Producendo la sensazione di disagio, l’esercizio attiva la vostra paura centrale e il pensiero collegato alla minaccia, e avrete così l’opportunità di gestirla;
  • Mette in discussione l’interpretazione errata catastrofica per cui la sensazione fisica è pericolosa, fornendo esperienze in cui essa non porta all’esito temuto (p. es.: soffocamento, attacco cardiaco, attacco epilettico, panico conclamato);
  • Dà un maggiore senso di controllo sul vostro stato emotivo perché siete voi ad accendere e spegnere il sintomo (ivi, p. 228).

In quest’ultima risposta compare la parola chiave per la comprensione profonda dei disturbi fobici e ossessivi: controllo. Se è vero che la condizione esistenziale di ogni singolo uomo è unica e irripetibile e che la declinazione di un medesimo disturbo d’ansia può assumere forme radicalmente diverse in due individui diversi, è altrettanto vero, però, che è possibile ricondurre l’infinita varietà dei disturbi d’ansia in generale ad un’unica – fondamentale – paura che, come un denominatore comune, funge da sfondo di queste condizioni esistenziali sofferenti: la paura di perdere il controllo.

Secondo la concezione cognitiva, l’uomo ha il controllo (o, perlomeno, crede di averlo!) quando la sua ragione riesce ad elaborare correttamente le informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno (“via alta”) senza che le emozioni deviino il loro tragitto (“via breve”) producendo interpretazioni errate, esagerate, catastrofiche e disadattive.

Ciò non toglie, però, che il controllo assoluto è e rimarrà sempre più un “ideale regolativo” che una reale condizione conseguibile dall’uomo (motivo per cui è essenziale che il governo della ragione non si tramuti mai in iper-razionalismo schematizzante e calcolante, chiuso alle imprevedibilità quotidiane della vita).

Nella concezione cognitiva il governo della ragione risulta essere, quindi, fondamentale per assicurare il controllo (pur con tutte le riserve accennate sopra) dell’individuo sulla sua vita interiore e sociale. Una delle cause per cui l’uomo può temere di perdere il controllo è l’esplosione incontrollata delle emozioni non regolate dalla ragione.

Le radici antiche della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Nel “Fedro” Platone si riconferma uno dei più grandi conoscitori dello spirito umano quando descrive il cavallo nero (anima concupiscibile – il paleo-encefalo diremmo oggi) in questi termini: “[…] l’altro cavallo è invece storto, grosso, mal formato, di dura cervice, di collo massiccio, di naso schiacciato, di pelo nero, di occhi grigi, iniettati di sangue, amico della protervia e dell’impostura, villoso intorno alle orecchie, sordo, a stento ubbidisce a una frusta munita di pungoli” (Fedro, 253 E). Il cavallo nero è quasi completamente sordo ad ogni richiamo e “a stento ubbidisce a una frusta munita di pungoli”. Quando le emozioni prendono il sopravvento, infatti, sappiamo bene quanto sia difficile non tanto reprimerle (questo davvero sarebbe veramente impossibile), ma regolarle e governarle. Negli attacchi di panico, ad esempio, “il sintomo devastante principale” è per l’appunto “l’incapacità di controllare i propri sintomi mentali, fisici ed emotivi” (A. T. Beck, G. Emery, L’ansia e le fobie, p.133).

Platone e la psicoterapia cognitivo comportamentale punti in comune Fig 1

Tuttavia, esistono metodi, come quelli della psicoterapia cognitivo-comportamentale ad esempio, che permettono di “insegnare alla nostra neocorteccia a controllare dei sistemi emotivi che risalgono molto indietro nell’evoluzione” (J. Ledoux, Il cervello emotivo, p. 25) – nel linguaggio scientifico contemporaneo – permettendo al cocchiere dell’auriga di governare l’indomabile cavallo nero – nel linguaggio platonico.

L’esposizione graduale alla situazione temuta e gli esercizi per l’induzione dei sintomi avvertiti come terrificanti dal soggetto sofferente hanno l’obiettivo di ridargli il controllo cognitivo così da regolare le risposte emotive e renderle adattive. È stato interessante scoprire che nell’inesauribile tesoro contenuto nelle opere platoniche è possibile rintracciare una primissima – ma allo stesso tempo accuratissima – strategia terapeutica d’esposizione che, oltre a riconfermarsi come una strategia universale riconosciuta come particolarmente efficace nella Grecia classica, (di)mostra la stretta vicinanza (a tratti sovrapposizione) tra metodologia psicoterapeutica e pratica filosofica.

Nelle “Leggi” (644 D – 645 C) Platone ci presenta un’immagine davvero emblematica per descrivere la natura umana e l’equilibrio interiore dell’uomo: quella del burattino. Secondo il grande filosofo ateniese due sono le tipologie di fili che governano questo particolarissimo burattino: c’è un filo d’oro, che è quello della ragione, e ci sono fili di ferro, rigidi, multiformi che “applicando forze fra loro antagoniste, ci tirano verso quei comportamenti opposti che valgono a determinare la virtù e il vizio  nelle loro differenze”: questi, è chiaro, sono i fili delle passioni incontrollate. Il primo compito dell’uomo è quello di acquisire una solida consapevolezza dei fili che lo governano: “[…] dovrà interiormente appropriarsi dell’autentico significato dei fili che muovono il burattino e dovrà altresì vivere in coerenza con esso” (Leggi, 645 B).

Il percorso terapeutico

 La presa di coscienza dei fili interni, però, seppure sia un momento imprescindibile, resta comunque il primo passo (conditio sine qua non) del percorso terapeutico dell’anima. Il secondo – particolarissimo – ‘step’ proposto dal filosofo ateniese, invece, è una vera e propria prova di forza psicologica: indurre nel soggetto uno stato alterato (ubriachezza) per studiare e correggere i suoi vizi e superare le sue paure.

Questa pratica proposta dal grande filosofo ateniese, che in prima facie potrebbe sembrare bizzarra, non si differenzia affatto – almeno in linea di principio – dagli “esercizi d’induzione del sintomo” utilizzati oggi dagli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali:

“Iperventilare per 1-2 minuti: affanno, sensazione di soffocamento; Trattenere il respiro per 30 secondi: affanno, sensazione di soffocamento; Correre sul posto per 1 minuto: battito cardiaco accelerato, martellante” Ecc. (cfr. D. A. Clark, A. T. Beck, “Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni”, p. 229)

Gli esercizi d’induzione del sintomo inducono artificialmente una serie di alterazioni fisiologiche nell’organismo del soggetto e, simultaneamente, una serie di distorti pensieri cognitivi ansiogeni, causando un episodio d’ansia in piena regola cosicché, in vivo, il terapeuta può aiutare il soggetto a correggere le sue distorsioni cognitive decatastrofizzando le sue interpretazioni (al battito cardiaco accelerato non segue necessariamente la morte, alla sensazione di stordimento non segue necessariamente la follia, alla debolezza non segue necessariamente lo svenimento e così via). Il soggetto è condotto dal terapeuta non su un campo di battaglia neutrale, ma proprio sul terreno favorevole alla paura.

Ma Platone, con l’ubriachezza, cosa intendeva indurre? La risposta è: la perdita del controllo quasi totale:

Ateniese: […] Per essere più chiari io mi pongo questo problema: piaceri, dolori, scatti d’ira, amori, crescono di intensità a causa del vino?
Clinia: Certo, di molto.
Ateniese: E le sensazioni, i ricordi, le opinioni e i pensieri, anche questi crescono in proporzione, oppure vanno del tutto perduti quando uno è completamente ubriaco?
Clinia: Vanno del tutto perduti.
Ateniese: E non è forse vero che in questi casi l’anima regredisce a livello infantile?
Clinia: Ebbene?
Ateniese: Dico che in tali condizioni uno non ha la minima padronanza di sé (Leggi, 645 D- E).

Nello specifico, il discorso di Platone si articola a partire due paure fondamentali: a) quella dei mali incombenti e b) la “paura che sovente abbiamo della gente, temendo di essere stimati malvagi, quando diciamo o facciamo qualcosa di male” (senso del pudore, particolarmente sentito nella Grecia classica), per poi concentrarsi esclusivamente su quest’ultima. Come rendere un uomo pudico, capace di “dominare i suoi impulsi” e i suoi piaceri più abietti? È nella risposta a questa domanda che la riflessione platonica mostra tutta la sua profondità psicologica:

Ateniese: […] Non è forse quando spingendolo a forza verso l’impudenza che lo esercitiamo a vincerla, costringendolo ad accettare la lotta contro i piaceri?
Ora, posto che per essere perfettamente coraggioso uno deve combattere e vincere la viltà che ha in sé – e d’altra parte, se non avesse esperienza e non si fosse cimentato con essa in questi tipi di scontri non potrebbe sfruttare, nei rapporti con la virtù neppure la metà delle sue potenzialità -, come potrà mai essere un perfetto saggio chi non ha combattuto e vinto con l’intelligenza, la forza, la disciplina, sia nella finzione che nella realtà, gli innumerevoli piaceri e desideri che ci sospingono alla impudicizia e alla immoralità e s’è tenuto lontano da tutti, indistintamente? (Leggi, 647C-D).

Siamo di fronte probabilmente al primo tentativo di ideazione di una strategia di desensibilizzazione della paura mediante l’esposizione in vivo. Platone aveva quindi compreso perfettamente che per poter vincere una paura e ristabilire l’ordine nell’anima (che, nella sua concezione, coincideva con il benessere interiore) bisognava ricreare una ben determinata situazione fobica all’interno della quale si doveva permettere al soggetto di esporsi alla paura, combatterla e vincerla sul suo stesso terreno, grazie al ristabilimento del governo dell’intelletto sulle passioni incontrollate.

 

La via della Narrazione (2022) di Alessandro Baricco – Recensione

Baricco nel suo volume “La via della Narrazione” racconta come narrare non racchiuda un significato univoco, bensì una molteplicità simbolica in grado di far emergere più aspetti della propria storia.

Trascrizione opportunamente lavorata di una lezione tenuta alla Scuola Holden nel novembre 2021 – Un nuovo approccio per riflettere su quegli schemi che rischiano di limitare la nostra libertà di scelta nel panorama contemporaneo.

 

 In questa concisa e chiara raccolta di pensieri, Baricco controbilancia l’ovvio al mistero, invitando chi desideri leggerlo ad andare oltre quello che pensa di avere appena appreso. Intesse dunque una trama che, per quanto semplice, vuole accompagnare il lettore oltre le sue convinzioni, legittimandogli quel dubbio che altro non può se non fargli scoprire stili del tutto nuovi attraverso cui riscrivere la trama della propria storia. In questo breve incontro si avrà l’occasione di intraprendere un viaggio più lungo del solito, dove le placide acque della futile prevedibilità altro non sono se non il preludio di una tempesta pronta a scuotere gli ingranaggi, con i quali siamo soliti etichettare le nostre esperienze come certe, definitive, prevedibili e dal finale già collaudato. Pagina per pagina la trama, la narrazione e lo stile iniziano a riflettere quei concetti adornati non tanto di una stabilità definitiva, quanto piuttosto di una labilità pronta a sgretolarsi; e grazie ad essa la trama delle nostre vite e i processi con cui si è soliti raccontare quanto si vive, sono pronti per essere riscritti. Chi desideri leggere questa raccolta di pensieri, avrà l’opportunità di incontrare quell’incertezza in grado di ripristinare quanto di definitivo e collaudato riteneva di portare dentro di sé.

Nondimeno quanto emerge pagina per pagina è il giusto equilibrio tra coscienza e incoscienza, tra ciò che si ritiene di conoscere e quanto ancora ci sia da scoprire. Perché è proprio quest’ultima nota a delineare l’insorgere di un infinito di cui “occorre fare la guardia, poiché a esso gli umani affidano il fondamentale legame tra storia e libertà”.

Perché se essere liberi vuol dire scegliere, viceversa potrebbe la scelta riflettere uno stile che non sia circoscritto ad una sola trama? Per giunta unilaterale?

 A tal proposito, “Il viaggio dell’eroe” di Christopher Vogler, secondo l’autore torinese descrive appieno la possibilità di prendere le distanze da qualcosa che essendo comune a tutti rischia di assumere un carattere archetipico/collettivo e dall’esito sempre identico, col rischio, tuttavia, di dimenticare che ogni individuo è unico nel suo genere, portatore di una trama diversa e ricco di uno stile che non necessariamente deve rispecchiare una trama comune. Nel libro di Vogler infatti, predomina un’unica certezza, ovvero che tutte le storie del mondo derivino da un unico modello originario e archetipico. Una storia declinata all’infinito nella quale le tappe del viaggio da sempre e per sempre si traducono in una convinzione in cui la propria unicità si scontra con una dimensione unilaterale connotata da schemi già prefissati, in cui tutto il raccontabile rischia di approdare in un porto sicuro, dove “ormeggia solo un repertorio di certezze”. Baricco pertanto, sembra voler dissuadere il lettore dall’impiegare “quel metodo riduttivo e semplicistico” attraverso il quale da troppo tempo si è voluta narrare la propria storia e che altro non rappresenta se non il prodotto artificiale di un pensiero dominante che da generazioni e generazioni tramanda una vicenda madre in cui è contenuto un Dna mentale, etico e normativo.

Narrare. pertanto, non racchiude un significato univoco, bensì una molteplicità simbolica in grado di far emergere più aspetti della propria storia, la quale, se raccontata, può riflettere trame differenti, legittimandole, per di più, uno stile privo di certezze e, al contrario, ricco di mistero.

Insegnare a narrare dunque coincide con l’essere in grado di rigenerare quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure, ma soprattutto vincoli normativi che altro non fanno se non soffocare il proprio grido autentico, libero e sempre pronto a scegliere una nuova rotta grazie alla quale riscrivere una nuova trama.

La narrazione quindi come messaggio dall’inconscio, come parola a lungo rinviata e infine pronunciata.

L’inconscio non è il contenitore di un passato rimosso, ma il capitolo lasciato ancora in bianco nel testo di un’esistenza.

Quanto appena riportato è la testimonianza del noto psicoanalista francese Jaques Lacan, secondo il quale la parola. o come dall’autore stesso definita la “lalangue”, rispecchiava una moltitudine di scelte provenienti non tanto dalla ragione, quanto piuttosto da quel che non siamo ancora. Da una dimensione inconscia rispetto alla quale il desiderio di controllo cede il passo ad una forma più autentica, imprevedibile e per questo originale: un nuovo stile.

 

Uno studio sulla relazione tra rabbia, empatia e teoria della mente

Nello studio condotto da Weiblen e colleghi (2021) è stato selezionato un campione di persone che è stato diviso in tre diversi sottogruppi, a cui è stato manipolato lo stato di quiete inducendo un vissuto di rabbia osservandone gli effetti su empatia Teoria della Mente.

 

Empatia e Teoria della Mente

 La cognizione sociale è una capacità che consente agli esseri umani di comprendere e fare una previsione futura riguardo al comportamento degli altri, creando una deduzione di ciò che potrebbe accadere oppure, attraverso le emozioni, condividere lo stato interno dell’altro, entrando in sintonia con intenzioni e credenze. Attualmente sono presenti in letteratura pochi studi che hanno analizzato l’impatto del proprio stato emotivo interno sulla comprensione dell’emotività e del comportamento degli altri. Nell’articolo di Weiblen e colleghi (2021) è stato analizzato l’effetto di uno stato emotivo rabbioso sull’empatia e sulla Teoria della Mente.

Gli esseri umani, non potendo percepire direttamente i pensieri e i sentimenti degli altri, utilizzano le proprie esperienze pregresse, i propri pensieri e i propri sentimenti per dare un significato e un’intenzione alle esperienze interne e ai comportamenti esperiti dagli altri.

Questa capacità contempla due sistemi che risultano essere complementari (Frith et al., 2008; Waytz et al, 2011): l’empatia e la teoria della mente (TOM); questo processo rientra nella mentalizzazione.

Effetti della rabbia su empatia e Teoria della Mente: lo studio

 Nello studio condotto da Weiblen e colleghi (2021) è stato selezionato un campione di persone che è stato diviso in tre diversi sottogruppi, a cui è stato manipolato lo stato di quiete inducendo un vissuto di rabbia. La rabbia è stata indotta nei diversi gruppi mediante differenti modalità che fanno riferimento a tre paradigmi: il primo è stato svolto in modo autobiografico e valuta l’accuratezza dell’empatia (Engerbretson et al., 1999; Zhang et al., 2014, Janisse et al., 1986), il secondo ha usato un feedback negativo per l’induzione della rabbia (Harmon-Jones et al., 2001; Kelley et al., 2013), mentre il terzo paradigma ha trattato i livelli di frustrazione e il loro effetto sull’empatia e sulle abilità della Teoria della Mente (Kanske et al., 2015).

Nello specifico, ai partecipanti del primo gruppo (metodo autobiografico) è stato chiesto di ricordare una situazione di vita reale in cui hanno provato rabbia e di scrivere quanto successo nei minimi dettagli. Ai partecipanti del secondo gruppo (feedback negativo) è stato chiesto di scrivere un breve saggio, successivamente valutato da un presunto secondo partecipante che fornisce loro un feedback negativo sul lavoro. Ai partecipanti del terzo gruppo (frustrazione) è stato chiesto dallo sperimentatore di compilare un noioso modulo di registrazione che, per via un piccolo errore, viene strappato e fatto ricompilare una seconda e una terza volta.

Per misurare l’empatia nel primo gruppo sperimentale è stata rilevata la misura dell’accuratezza empatica (EA), ottenuta dopo che i partecipanti sono stati sottoposti alla visione di un breve videoclip raffigurante una persona che racconta una storia personale, chiedendo loro di valutare quanto il protagonista del video provasse sentimenti positivi o negativi. Per valutare l’empatia negli altri due gruppi sperimentali è stato implementato il paradigma EmpaToM (Kanske e colleghi, 2015) che misura quattro variabili principali: empatia, compassione, capacità di ToM e fiducia, dopo la visione – da parte dei partecipanti – di un video di un’altra persona che racconta una storia personale.

Conclusioni

Tutti i paradigmi utilizzati sono risultati efficaci nel suscitare la rabbia dei partecipanti. Tuttavia, contrariamente all’ipotesi iniziale dei ricercatori, non è stato riscontrato alcun effetto significativo della rabbia sull’empatia o sulle prestazioni relative alla Teoria della Mente. Questi risultati sembrano contraddire gli studi precedenti che hanno trovato una connessione tra empatia e rabbia. La differenza però sta nel fatto che i precedenti studi hanno esaminato la rabbia e l’empatia come tratti della personalità (Roberts et al. 2014; Strayer et al. 2004). Nel presente studio, invece, è stato esaminato l’effetto della rabbia di stato sulla cognizione sociale di stato, variabili che non sono risultate correlate all’analisi dei dati. Probabilmente – spiegano i ricercatori dello studio – l’induzione dei sentimenti provocati dalla visione dei video, è riusultata più intensa dei livelli di rabbia ottenuti manipolando le tre situazioni sperimentali. I livelli di rabbia indotta, quindi, potrebbero essere stati troppo deboli o transitori oppure, viceversa, le misurazioni dell’empatia e della Teoria della Mente non sono state abbastanza sensibili da rilevare i cambiamenti più piccoli nella risposta dei partecipanti alle emozioni degli altri. Infine, può darsi che la rabbia, essendo un’emozione che spesso si esprime nei confronti di qualcuno (persona o gruppo), possa influenzare l’empatia solo verso quella persona o gruppo.

Futuri esperimenti potrebbero fare maggiore chiarezza sulla relazione tra rabbia, empatia e Teoria della Mente, in modo da comprendere meglio come le proprie emozioni influiscono sul rapporto con gli altri e poter implementare efficaci strategie di trattamento in ambito clinico.

 

Santa Claus is Nudging to Town

È interessante osservare come, durante il periodo natalizio, la dinamica decisionale è spesso alterata da bias ed errori di giudizio. I bias possono essere gestiti tramite l’uso di strumenti conosciuti con il nome di nudge (dall’inglese “to nudge” ossia “pungolare”): utilizzarli significa posizionare strategicamente all’interno di alcuni interventi dei pungoli, vale a dire delle “spinte gentili” che agiscono da rinforzo e influenzano il comportamento.

 

Decision making e bias

 Cosa vuol dire prendere una decisione? In che modo si articola il nostro pensiero quando ci troviamo a dover scegliere tra più opzioni? L’economia comportamentale studia proprio in che modo gli stimoli esterni influenzano l’architettura delle scelte; interessante osservare come, durante il periodo natalizio, la dinamica decisionale è spesso alterata da bias ed errori di giudizio.

Prendere una decisione non è sempre un’azione scontata. Decidere significa effettuare una scelta, rendere concreta una propria preferenza e agire di conseguenza adottando una condotta comportamentale coerente con l’obiettivo finale.

In psicologia le decisioni sono un costrutto a cui sono stati dedicati molti studi a partire dalla fine degli anni ’70. Sono molto noti i lavori dei due psicologi israeliani Amos Tversky e Daniel Kahneman in cui si analizzarono i processi decisionali in situazioni di rischio e di incertezza (Kahneman & Tversky, 1979). A fronte delle loro ricerche, gli autori notarono che le persone preferiscono di gran lunga decidere in situazioni in cui c’è una componente di rischio da poter calcolare, invece che in circostanze dettate dall’incertezza. Questo, spiegano, è dovuto alla tendenza dell’uomo a calcolare e cercare di programmare, e possibilmente anche prevedere, possibili esiti delle situazioni in base alle scelte che compiono (Tversky & Kahneman, 1991).

Questi studi posero le basi che in seguito diedero vita all’Economia Comportamentale (in inglese Behavioral Economics), una disciplina che coniuga al suo interno diverse filosofie di pensiero derivanti dal mondo dell’economia, della sociologia, della psicologia e anche delle neuroscienze.

Il testo di riferimento nel mondo dell’economia comportamentale “Nudge. La spinta gentile” a opera di Richard Thaler (premio Nobel per l’Economia nel 2017) e Cass Sunstein, esamina la componente di razionalità all’interno dell’architettura decisionale (Thaler & Sunstein, 2008). La razionalità, infatti, non è un ingrediente onnipresente nei processi decisionali (Moratti, 2020), tanto che spesso quando si opera una scelta è facile cadere preda di bias (dall’inglese, “preconcetto”, “pregiudizio”) e di euristiche. Questo accade perché, come sostenuto dal Professor Dan Ariely, pedagogista della Duke University, secondo l’Economia Comportamentale prendiamo decisioni in funzione dell’ambiente in cui ci troviamo. Tuttavia, bias cognitivi ed euristiche possono essere gestiti tramite l’uso di strumenti conosciuti con il nome di nudge (dall’inglese “to nudge” ossia “pungolare”): utilizzarli significa posizionare strategicamente all’interno di alcuni interventi dei pungoli, vale a dire delle “spinte gentili” che agiscono da rinforzo e influenzano il comportamento al fine di portare le persone ad assumere condotte virtuose e benefiche per la propria vita e il proprio benessere.

I nudge infatti risultano essere estremamente efficaci principalmente perché si possono applicare in modo trasversale a diversi contesti e situazioni, inoltre perché non vengono percepiti come imposizioni od obblighi, ma lasciano sempre aperta la possibilità della libera scelta individuale (Thaler & Sunstein, 2008).

Come vengono usati i nudge?

La letteratura propone moltissimi studi condotti in svariati contesti che dimostrano come l’utilizzo strategico di nudge all’interno di micro interventi mirati, abbia portato a un risparmio di risorse come tempo, denaro, salute ed energie. Sicuramente l’esperimento che ha ottenuto più successo – diffondendo la Behavioral Economics e dimostrandone il potenziale – è stato lo studio condotto nel 1990 all’interno dell’aeroporto di Schiphol di Amsterdam dove, per ridurre i costi di pulizia nelle toilette maschili, si è pensato di posizionare degli adesivi a forma di mosca all’interno degli orinatoi. Il risultato è stata una sorprendente riduzione dei costi di pulizia dell’8% e una modifica della condotta, ridotta fino all’80% (Evans-Pritchard, 2013).

 Nello specifico per promuovere alcune condotte, prevenire scenari di sofferenza psicofisica oppure incentivare la raccolta differenziata ed agire in un’ottica di ecosostenibilità, l’uso di nudge si è rivelato essere particolarmente efficace (Berger et al., 2020; Kwan et al., 2020). Studi recenti sono stati condotti per disincentivare le condotte sedentarie e promuovere la perdita di peso per mezzo di app strutturate secondo una logica di gamification (ossia sfruttando il potenziale dei giochi come spinta motivazionale a compiere determinate attività) in aggiunta al supporto di una community (Kurtzman et al., 2018). Oppure, per incentivare il consumo di frutta e verdura si è visto che posizionare snack sani vicino alle casse ne ha aumentato le vendite (Kroese et al., 2015).

Nudging bells

Come affermato da Jim Pooler nel suo libro “Why we shop: Emotional rewards and retail strategies” (2003), l’atto del fare shopping mette le persone in una posizione controllante: decidere, compiere delle scelte aumenta la sensazione di potere, rendendoci tutti dei potenziali “decision makers”. (Pooler, 2003, p. 105-106).

In particolare il periodo natalizio è un momento dell’anno per certi aspetti insolito. Le persone tendono a essere più solidali e caritatevoli, quasi fosse un atto per espiare i peccati commessi durante l’anno. E il modo più nobile per rimediare è donare. Esso è un gesto che infonde nelle persone un sentimento di vicinanza e reciprocità; un regalo è un modo per attivare un senso di similarità tra donatore e ricevente (Dunn et al., 2008). Questo è ciò che spinge le persone a scegliere il regalo perfetto, affinché l’altro le apprezzi di più e magari migliori anche l’opinione che ha di loro; di questo Pooler scrive che “le persone sono ansiose di compiacere gli altri” (Pooler, 2003, p. 106). Spesso però, accecati dalla bramosia di essere apprezzati, ci si scorda di essere razionali. Ecco quindi che nella corsa al regalo perfetto si rischia di cadere in alcuni bias che ci fanno spendere di più e con meno consapevolezza. Gli esperti di marketing sanno bene quanto funzioni l’effetto dell’overwhelming stimulus (traducibile dall’inglese come “inondazione di stimoli”): decorazioni, profumi, luci e canzoni sono tutti input che influenzano le scelte d’acquisto facendo leva sulla componente emotiva delle persone, spingendole a usare meno la razionalità. Così facendo le persone saranno più distratte e meno portate a riflettere su quanto stanno acquistando.

Si crea quindi il terreno perfetto per azionare il “principio di scarsità”: se la quantità di un bene scarseggia, esso avrà inevitabilmente un prezzo di vendita più alto e creare scarsità è un modo per sfruttare lo stress dei consumatori che sono in preda allo shopping dell’ultimo minuto (Neville, 2022). La fretta infatti è un elemento determinante, promotore dello shopping impulsivo: si vedano ad esempio gli espositori –o banner nel caso di siti– che sfoggiano promozioni con la scritta “affrettatevi ultimi pezzi!”, come riportato in questa immagine di un noto sito e-commerce; oppure durante lo shopping online, non è raro imbattersi nell’ansiogeno timer che segna il countdown per concludere l’acquisto.

Le insidie dunque sono numerose, ma nonostante questo l’atmosfera sembra giustificare ogni nostra azione. E come dice un famoso spot pubblicitario “A natale puoi fare quello che non puoi fare mai”.

 

La scuola senza voti

Lo scopo è quello di eliminare la pressione competitiva e sviluppare una motivazione intrinseca per l’apprendimento. L’assenza di voti in realtà ha radici ben più storiche e deve le sue origini all’approccio pedagogico montessoriano.

 

Apprendimento e valutazione

 Nel sistema scolastico il rapporto tra apprendimenti e valutazione si riduce spesso ad un solo elemento: il voto. Si tratta di un sistema di valutazione nato per classificare gli studenti, premiare i risultati ottenuti e facilitare la comunicazione tra le diverse istituzioni. Tuttavia, è stato fortemente criticato e giudicato come strumento inesatto in quanto l’eccessiva rilevanza sembrerebbe compromettere l’apprendimento degli studenti, così come il loro benessere (McMorran et al.,2017). Ciò potrebbe accadere perché entrano in gioco diverse variabili: di tipo cognitivo, cioè cosa io mi dico in relazione ad un certo voto assegnato, in termini di autovalutazione positiva o negativa e che potrebbe non corrispondere con la prestazione o ancor di più con le mie reali capacità. L’altro aspetto implicato in un sistema di valutazione basato sui voti, più di tipo relazionale, è l’effetto stesso del voto, che potrebbe comportare l’attivazione di un sistema competitivo e di confronto con i compagni che sono stati più o meno bravi di me.

Schinske e Tanner (2017) hanno visionato le ricerche riguardanti l’influenza della valutazione sull’insegnamento e sull’apprendimento. Secondo gli autori, la votazione non rappresenta un feedback efficace e costruttivo per gli studenti. Di fatto, non fornisce indicazioni utili ad orientare i propri sforzi verso migliori performance scolastiche, soprattutto in relazione ai compiti che implicano capacità creative o di problem solving. Viene evidenziato che nel migliore dei casi la votazione può aumentare la motivazione degli studenti con i voti più alti a continuare ad ottenerli, indipendentemente dall’apprendimento; nel peggiore, la
motivazione ad apprendere subisce una riduzione, mentre aumentano i livelli di ansia e motivazione estrinseca, soprattutto tra gli studenti che hanno maggiori difficoltà (Schinske & Tanner, 2017). L’obiettivo posto sotto la lente d’ingrandimento dell’allievo è quello di raggiungere un certo “numero” in pagella: tale obiettivo viene percepito come fine a sé stesso. Accade così che l’attenzione viene focalizzata sulla possibile reazione genitoriale: un voto positivo si trasforma in un glorioso premio da esibire in attesa di un riconoscimento, un voto negativo invece diviene fonte di preoccupazione circa una possibile delusione genitoriale, critiche o rimproveri. Quale effetto conseguente?

Gli effetti del voto sulla motivazione

Il risultato è una minore motivazione verso la reale comprensione delle aree di apprendimento da potenziare, in termini di punti di forza e di debolezza. Tale aspetto risulta essere fondamentale per la crescita formativa e l’autoconsapevolezza di ogni individuo. Secondo gli studenti, il voto dovrebbe riflettere non solo la performance effettiva, ma anche la quota di impegno personale dedicata al raggiungimento di tale performance. Uno studio condotto su un campione di studenti universitari ha posto attenzione alla prospettiva degli studenti in merito ai voti. Viene riportato l’impegno nello svolgere un compito tra i fattori che influenzano la percezione dei soggetti relativamente alla votazione ottenuta. Inoltre, l’impegno dovrebbe essere un fattore compensatorio, affinché il voto sia considerato giusto. Quando gli studenti ritenevano che l’insegnante non avesse riconosciuto adeguatamente il loro impegno, tendevano a percepire l’insegnante come iniquo e incompetente. Viene dunque evidenziato un bias nella percezione degli studenti in relazione alla valutazione e agli insegnanti. Inoltre, l’orientamento verso l’apprendimento o verso il voto, in interazione con le varie caratteristiche di personalità individuali, condiziona la percezione del voto da parte degli studenti (Tippin, Lafreniere & Page, 2012). D’altra parte, è vero anche che i voti assegnati sono suscettibili dell’influenza dell’insegnante e possono risultare incoerenti sia tra diversi insegnanti che per lo stesso insegnante. Dunque, molte volte essi non costituiscono indicatori affidabili dell’apprendimento degli studenti (Schinske & Tanner, 2017). Secondo Schinske e Tanner, alcuni fattori associati alla valutazione come lo stress, il tempo e le aspettative, possono incidere sulle modalità di insegnamento. In altri termini, gli insegnanti impiegano tanto tempo ed energie nelle valutazioni da non avere risorse per creare e applicare pratiche pedagogiche che possano favorire un ambiente di classe positivo ed efficace ai fini dell’apprendimento. Gli autori propongono dei cambiamenti per mitigare gli effetti negativi dei sistemi valutativi attualmente in uso. Gli insegnanti dovrebbero esprimere dei voti che riflettano non solo l’accuratezza del lavoro svolto, ma anche l’impegno dello studente. In aula è importante che gli studenti abbiano uno spazio per la valutazione tra pari e l’autovalutazione, le quali consentono loro di ricevere dei feedback significativi e favoriscono la collaborazione. In quest’ottica i compagni di classe non sono avversari con cui entrare in competizione, ma risorse per migliorare insieme. Inoltre, è importante ridurre i bias degli insegnanti nella valutazione del lavoro degli studenti attraverso l’utilizzo di appositi strumenti.

L’apprendimento senza voti

 È stato introdotto in alcune scuole italiane un nuovo approccio valutativo che ha destato particolare clamore: l’apprendimento senza voti. Attualmente sono pochi gli istituti che dispongono di sistemi senza voto. Sette anni fa il liceo “Morgagni” di Roma aveva avviato una sperimentazione in una classe poi esteso ad un’intera sezione in cui non venivano assegnate valutazioni numeriche a interrogazioni e verifiche (Santarpia V., 2022). Anche nella scuola primaria “Massalongo” di Verona dal 2017 sono stati aboliti voti, interrogazioni e verifiche così come nell’Istituto “Sassetti Peruzzi” di Firenze e il liceo classico “Monti” di Cesena, basandosi su una valutazione strettamente qualitativa in cui forniscono agli studenti dei feedback in modo da migliorare le loro prestazioni. Lo scopo è quello di eliminare la pressione competitiva e sviluppare una motivazione intrinseca per l’apprendimento piuttosto che orientata esclusivamente sullo sfoggio di un bel voto.

In questo modo si allevierebbe lo stress incoraggiando la cooperazione e sviluppando competenze che supportino l’apprendimento permanente (McMorran et al., 2017). L’assenza di voti in realtà ha radici ben più storiche e deve le sue origini all’approccio pedagogico montessoriano. Punti cardini del suo metodo sono infatti la piena fiducia nelle capacità e competenze del bambino, libera scelta dell’alunno in base al proprio percorso di apprendimento e autogestione; inoltre non è prevista l’assegnazione di voti in quanto l’insegnante valuta gli alunni attraverso la costante osservazione che permette di rilevare l’esatto momento in cui il bambino è pronto a ricevere nozioni superiori in linea con i suoi tempi (Valentini, M.; Stefanini, C., 2020).

Secondo la Montessori, il movimento rappresenta un elemento imprescindibile per la costruzione dell’intelligenza, pertanto dare spazio solo alla parte intellettuale nel processo educativo porta ad una visione limitata del bambino. Questo è confermato anche dalle neuroscienze da cui si è emerso che l’esercizio fisico stimola la neurogenesi, aumenta le capacità cognitive, la plasticità generale e il volume della materia grigia (Fabri, M. & Fortuna, S., 2020). Dall’uso delle neuroimmagini si è potuto rilevare l’attivazione di un’area situata nella parte sinistra della corteccia premotoria, sia durante la scrittura di una lettera sia durante l’osservazione della scrittura della stessa lettera. Questo dimostra che la rappresentazione cerebrale delle lettere non è esclusivamente visiva ma anche senso-motoria (Valentini, M., & Stefanini, C., 2020). Nel corso dello sviluppo dell’individuo sono presenti dei periodi sensibili in cui vi è una predisposizione ad acquisire determinate abilità. Se tali abilità non vengono acquisite in questi lassi temporali, sarà più complicato apprenderle successivamente. Nell’ottica montessoriana, l’insegnate piuttosto che fornire dei compiti da risolvere deve lavorare sull’ambiente al fine di prepararlo nel modo più consono ai bisogni del bambino, consentendogli di apprendere attraverso la ripetizione spontanea delle attività (Catherine, L.et al., 2020).

In uno studio di metanalisi condotto nel 2020 è stata confrontata l’educazione montessoriana con quella tradizionale di un campione di studenti della scuola primaria, secondaria di primo e secondo grado. È emerso che il metodo multisensoriale migliora l’alfabetizzazione e il mantenimento delle abilità linguistiche, inoltre è stato rilevato che gli studenti montessoriani hanno le stesse competenze linguistiche degli studenti che seguono il percorso tradizionale e sembrano mantenersi anche a lungo termine (Valentini, M. & Stefanini, C.). In un sistema di valutazione senza voti si trasmette un messaggio molto importante, cioè che il giudizio non è legato ad un’etichetta numerica o a dei range che stabiliscono l’adeguatezza di una prestazione.

Come gestire un corso senza voti?

Brilleslyper et al. (2012) forniscono alcuni consigli per strutturare un corso basato sull’assenza di voti, proponendo una valutazione globale di ogni studente solo a fine corso. Gli autori propongono di:

  • fissare degli obiettivi chiari;
  • sulla base degli obiettivi del corso, stabilire delle descrizioni pratiche dei voti che verranno espressi al termine del corso;
  • organizzare delle discussioni con gli studenti sui loro progressi relativi agli obiettivi;
  • creare una documentazione che descriva la performance di ciascuno studente.

Impostare un corso in questo modo presenta numerosi vantaggi. Innanzitutto, le attività di valutazione e le esperienze di apprendimento sono in linea con gli obiettivi del corso. Ciò consente agli studenti di focalizzarsi sul percorso di apprendimento in relazione ai propri risultati, anziché sul mero accumulo di punti. Di conseguenza, assume importanza l’obiettivo principale, ovvero l’apprendimento stesso. Questo genera delle votazioni che riflettono il percorso di apprendimento, risultando quindi significative per gli studenti. Le descrizioni dei voti sono strettamente legate ai risultati e rappresentano un feedback chiaro e dettagliato. Gli studenti devono essere informati adeguatamente sul significato e sulle motivazioni sottostanti al voto conseguito.

In conclusione, per supportare la motivazione allo studio, risulta essere fondamentale una procedura in cui l’insegnante accompagni costantemente, ad ogni valutazione, una spiegazione di ciò che ha funzionato e non: comprendo i miei errori, sono consapevole delle mie risorse e questo mi permette di essere maggiormente motivato ad apprendere e percepisco i limiti come una possibilità per migliorarmi.

Solo in tal prospettiva potremmo dire che i voti potrebbero non essere importanti. In un sistema di votazione numerica il voto finale dell’allievo non dovrebbe essere la semplice media dei voti, ma dovrebbe essere basata su una valutazione olistica del percorso dello studente. Pertanto, una singola prestazione scarsa non compromette necessariamente il voto finale. Ciò rende questo sistema altamente flessibile. L’insegnante può evitare di considerare una prestazione anomala negativa nel percorso di uno studente durante la valutazione, ma lo studente non può, in quanto un approccio privo di punteggi rende ogni compito importante. In questo modo, gli studenti non possono privilegiare alcuni compiti rispetto ad altri per ottenere un voto più alto, ma devono impegnarsi al massimo per ciascuno di essi e lavorare continuamente per migliorare le aree in cui riscontrano maggiori difficoltà. Tale struttura favorisce negli studenti la riflessione e la responsabilità nel processo di apprendimento.

 

Articolo scritto dai professionisti di Cliniche Italiane di Psicoterapia – Clinica Età EvolutivaCliniche Eta Evolutiva

 

Il caso Kennedy: trappole mentali e bias cognitivi

Il 22 novembre 1963, Lee Harvey Oswald assassinò John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti. Lo fece sparando tre colpi di fucile dal sesto piano del Texas School Book Depository Building, durante una visita del presidente a Dallas.

 

Le responsabilità dell’attentato furono ampiamente accertate già nella prima inchiesta ufficiale: quella condotta dalla Commissione Warren. L’unico colpevole era Oswald e non vi erano né complici né mandanti.

L’operato della Commissione Warren fu però ampiamente criticato e numerose teorie cospiratorie cominciarono a diffondersi. A seconda della teoria, Oswald aveva dei diversi mandanti: la mafia, la CIA, l’FBI, il KGB, il vice-presidente Johnson. Altre ipotesi prevedevano poi che oltre a Oswald ci fossero anche altri cecchini: uno, due o tre a seconda dell’ipotesi presa in considerazione.

Ma perché il fatto che il presidente fosse stato assassinato da un tiratore solitario non è mai stato accettato? Ancora oggi, molti americani non credono alla tesi di Oswald come unico esecutore dell’assassinio (Art Swift, s.d.) che costituisce senza alcun dubbio la realtà storica.

Per dare una risposta all’interrogativo bisogna capire come funziona la nostra mente.

Il pregiudizio di conferma

Il confirmation bias è stato definito come “il pregiudizio di tutti i pregiudizi” (Maria Lewicka, 1998). Esso ci porta a cercare solo le evidenze che confermano le nostre credenze. Se proprio ci imbattiamo in elementi che stridono con quello in cui crediamo, li interpretiamo comunque a nostro favore (Martin Jones, Robert Sugden, 2001)

In uno degli studi più conosciuti sul tema (Raymond Nickerson, 1998) è stato evidenziato come il pregiudizio di conferma abbia per certi versi scatenato la caccia alle streghe nei secoli dal quindicesimo al diciassettesimo. Nel momento in cui una donna veniva accusata di stregoneria, qualunque evidenza era interpretata a favore dell’accusa: nessun vero processo veniva posto in essere.

Ma come può intervenire questo pregiudizio nel momento in cui ci si approccia all’assassinio del presidente Kennedy?

Facciamo conto che non sappiamo nulla dell’argomento e sentiamo la versione super-breve: Oswald assassina il presidente, dopo due giorni Ruby spara a Oswald, uccidendolo. Chi non penserebbe: qua c’è qualcosa di strano?

Come evidenziato da Daniel Kahneman nel suo “Pensieri lenti e veloci”, la nostra mente va a due diverse andature. Vi è una parte veloce ed intuitiva, che lui chiama il sistema 1. C’è poi una parte lenta e razionale, da lui individuata come sistema 2. Siccome il sistema 1 è più veloce, le risposte intuitive vengono elaborate quasi senza sforzo. Il problema è che spesso sono sbagliate: dovrebbe quindi essere il sistema 2 (che Kahneman chiama “il controllore pigro”) a “sorvegliare” le determinazioni del sistema 1.

Inoltre, tale velocità del sistema 1 ci porta a elaborare le informazioni a nostra disposizione e a “saltare alle conclusioni” (Daniel Kahneman, s.d.) anche in presenza di pochissimi elementi.

Studiando il caso Kennedy, quindi, sentendo la “versione veloce”, la nostra mente tende a saltare alle conclusioni. Chi non penserebbe che nella sequenza degli eventi c’è qualcosa di assolutamente anomalo?

I pregiudizi però, non sono mai da soli, ma si rinforzano a vicenda. Una volta che siamo convinti che “c’è qualcosa di strano” il confirmation bias condiziona pesantemente la ricerca delle evidenze e la loro interpretazione. Siamo sicuri che ci sia stato un complotto e quindi leggiamo tutte le risultanze in quel senso, anche se in realtà provano il contrario. Ulteriore bias che può fare capolino, è il famoso “effetto Dunning-Kruger”, dal nome dei suoi “scopritori” (Justin Kruger, David Dunning, 1999).

Tale pregiudizio, molto nominato ma altrettanto spesso equivocato, riguarda la capacità delle persone di autovalutarsi. Lo studio originario (Justin Kruger, David Dunning, 1999), ha infatti messo in luce che spesso le persone sono incapaci di autovalutarsi (c.d. “metaignoranza”); ciò in quanto le competenze per valutarsi adeguatamente sono le stesse richieste per avere una buona performance.

Ulteriori studi (David Dunning, Kerri Johnson, Joyce Ehrlinger, Justin Kruger, 2003) hanno però evidenziato che l’effetto Dunning-Kruger contiene un paradosso: per rendersi conto della propria ignoranza, bisogna essere un po’ meno ignoranti, in modo da comprendere l’ampiezza dell’argomento di cui ci si sta occupando.

Il “circolo vizioso” nel caso Kennedy

Nello studio del caso Kennedy, quindi, è molto facile che si venga a creare un circolo vizioso, molto difficile da rompere. Sono convinto che ci sia stato un complotto, quindi ricerco solo elementi che lo confermano. Se mi arrivano evidenze che invece provano il contrario, le interpreto comunque in maniera favorevole alle mie credenze. Inoltre, considerato che non sono consapevole dell’ampiezza dell’argomento, ritengo anche di essere abbastanza informato sullo stesso.

Per rompere tale circolo vizioso, bisognerebbe porre in evidenza l’ampiezza della produzione documentale sul caso Kennedy. I libri sull’assassinio sono migliaia, la maggior parte dei quali di stampo complottista. Sterminata è poi la produzione di video e articoli sull’assassinio del presidente. Quindi, si fa spesso fatica ad orientarsi ed è facile “cascare” in una delle tante teorie sull’assassinio del Presidente.

JFK di Oliver Stone

Quando, nel 1991, usci il film di Oliver Stone “JFK: un caso ancora aperto”, vi fu un’ondata di reazioni indignate non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Il film, infatti, promuoveva l’idea che il presidente fosse stato vittima di un complotto, attingendo a piene mani dalle varie teorie cospiratorie formulate fino a quel momento. Moltissimi si convinsero che il complotto fosse stato provato al di là di ogni dubbio.

Uno studio (Lisa D. Butler, Chetyl Koopman, Philip G. Zimbardo, 1995) ha evidenziato che il film di Stone fu capace di indurre una modificazione molto forte nelle credenze degli spettatori, inducendoli a credere nel complotto. Lo studio, inoltre, rilevava che tale modificazione riguardava anche il comportamento sull’impegno politico e sulla beneficenza.

La “confusione” creata dai complottisti

Abbiamo prima evidenziato che il materiale sul caso Kennedy è veramente di un’ampiezza impressionante. Molta documentazione è disponibile gratuitamente, come il Rapporto della Commissione Warren.

Il problema è che c’è sempre qualcuno pronto ad alzare la polvere per non far comprendere la realtà dei fatti. C’è sempre qualcuno che vuole vendere un libro o qualcosa di simile e quindi propugna le teorie più fantasiose.

Come evidenziato da Diego Verdegiglio nel suo “Ecco chi ha ucciso John Kennedy”, (pag. 153): “Alcune tesi sulla cospirazione meriterebbero, più che un’analisi critica, un esame psicopatologico del loro autore”.

Riflessioni finali

Quali considerazioni possiamo fare su quanto abbiamo detto? La nostra mente è meravigliosa, ma spesso ci inganna. Quando discutiamo di una questione per noi importante dobbiamo fare attenzione a non cadere nelle trappole cognitive che ci tende il nostro cervello. Abbiamo quindi ragionato sul caso Kennedy, ma tali ragionamenti possono essere allargati a qualunque argomento per noi di interesse.

Il pregiudizio di conferma è sempre pronto ad influenzarci in maniera occulta e a farci prendere decisioni irrazionali. Tale bias, inoltre, risulta più forte in quanto alimenta, ed è alimentato, anche dai ragionamenti “veloci“ del nostro cervello e dall’effetto Dunning- Kruger.

Bisogna quindi fare uno sforzo, ed essere sempre i maggiori critici di noi stessi. Dobbiamo essere in grado da riconoscere queste trappole cognitive in modo da riuscire a compiere ragionamenti più razionali. Quanto detto, dunque, al fine di evitare condizionamenti inconsapevoli dei nostri pregiudizi occulti.

Sull’amicizia (2022) di Eugenio Borgna – Recensione

“Sull’amicizia” è un libro scritto prevalentemente in tempo di covid e l’autore, costretto alla solitudine, ha pensato bene di riflettere su questa potente modalità di relazione umana, che ha il potere di vivificare la vita, è fonte di gioia, occasione di dialogo e capacità trasformativa.

 

Eugenio Borgna, 92 anni, è stato uno psichiatra e docente universitario e ha pubblicato numerosi saggi. A partire dagli anni ’60 ha diretto il manicomio femminile di Novara, dove, anticipando Basaglia, ha dato vita a una prassi psichiatrica non basata sulla coercizione, bensì sul dialogo e il rispetto del paziente. Rigettando il riduzionismo biologico, è stato tra i primi sostenitori in Italia della psicoterapia fenomenologica. Interessato alla dimensione profonda del disagio psichico e alla ricerca di senso esistenziale, è stato sempre molto attento al contributo proveniente dalla filosofia. In particolare, è stato ispirato dall’opera di Simone Weil, che ha letto e riletto tutta la vita.

Commentando quest’ultima opera letteraria, trovo innanzitutto un inno alla vita e alla speranza che il professore, alla sua età, abbia trovato la voglia e l’impegno per scrivere a proposito dell’amicizia. Il volume, insieme all’altro recentissimo di Borgna dedicato alla “Tenerezza” (Einaudi, 2022), sembra quasi voler descrivere una psichiatria umana e gentile, che Borgna definisce anche “leopardiana”, facendo riferimento all’enorme importanza che il poeta di Recanati attribuisce ai sentimenti, alle emozioni, alle speranze e alle attese, ma anche alle ferite della vita interiore.

Il libro è stato scritto prevalentemente in tempo di covid e Borgna, costretto alla solitudine, ha pensato bene di riflettere su questa potente modalità di relazione umana, che ha il potere di vivificare la vita, è fonte di gioia, occasione di dialogo e capacità trasformativa.

Sono molti i libri che si occupano di amicizia, ma non sono tanti quelli che guardano all’amicizia come a una possibile dimensione di una psichiatria che non abbia paura di confrontarsi con tematiche lontane da quelle cliniche. In effetti, soprattutto l’ultimo capitolo è dedicato a questo tema, mentre i capitoli precedenti si soffermano a descrivere le varie tipologie di amicizia. Come è nello stile di Borgna vi è un ampio riferimento ai suoi autori preferiti e sono tante le citazioni di grandi scrittori e soprattutto poeti: Antonia Pozzi, Musil, Rilke, Dickinson, Bachmann, Mann, Hillesum –che fu deportata in un campo di concentramento–, Poltawska –autrice di belle pagine dedicate alla sua duratura amicizia con Papa Wojtyla–, oltre ai già menzionati Simone Weil e Leopardi.

Per Borgna la caratteristica principale dell’amicizia è la forte intensità del legame, tuttavia privo del desiderio di congiunzione, come invece avviene nelle relazioni amorose. Vi è così il rispetto del rimanere divisi senza l’esigenza di unione con l’altro, accettando le diversità. Si può dire che avviene qualcosa di simile in psicoterapia? – Per chi come il sottoscritto ha dato il titolo di “Affetti speciali” a un testo dedicato alla relazione con i pazienti, la risposta è scontata – Per Borgna “la climax emozionale dell’amicizia è una dimensione essenziale della cura sia in psichiatria infantile sia in psichiatria clinica” (Borgna, 2022, p. 33). Condividendo quanto già espresso anche in forma poetica da Weil e Rilke, punto cardine delle sue riflessioni è che non è dato vivere sino in fondo una relazione di amicizia se non avendo sperimentato il valore e gli orizzonti di senso della solitudine, intesa come raccoglimento e fonte di meditazione.

Un capitolo, il secondo, è dedicato alla descrizione delle amicizie nelle varie fasi della vita, mentre successivamente si sofferma sulle differenze tra i generi. Come è spesso sostenuto, afferma che le amicizie femminili siano più profonde e durature mentre, citando Musil, quelle maschili hanno andamenti più uniformi e sono meno interiorizzate di quelle femminili, meno intessute di emozionalità e passionalità e di conseguenza meno significative nelle vicende esistenziali. A proposito delle amicizie tra una donna e un uomo, le reputa più stabili di quelle maschili, meno esposte alle crisi, con la presenza femminile generatrice di maggiore intensità e variabilità dei contenuti.

Concludo, ribadendo un concetto esplicito in Borgna, che fa propria l’affermazione di Weil: “L’amicizia non deve guarire le pene della solitudine ma duplicarne le gioie” (Borgna, 2022, p. 50). La solitudine non è ricerca dell’isolamento, ma è uno stato necessario per entrare nella nostra interiorità, alla ricerca dei pensieri e delle emozioni. Essa è necessaria per la scrittura e per altre azioni umane guidate dall’introspezione. Questa solitudine non va confusa con quella che ci isola e ci allontana dagli altri, che spegne in noi la speranza. “La solitudine è relazione, ed è una buona compagna nel cammino della nostra vita e delle nostre amicizie, anche se talora dolorosa, perché ci confronta con gli abissi della nostra interiorità” (Borgna, 2022, p.51).

Malattie croniche e distress psicologico: il ruolo della resilienza

Uno studio del 2020 di Debnar e colleghi ha evidenziato il rapporto tra malattie croniche e maggior predisposizione a vulnerabilità psicologiche, confrontando individui aventi malattie croniche con individui sani in un arco temporale di 6 anni.

 

Le malattie croniche

 Quando si parla di malattie croniche ci si riferisce a problemi di salute, come per esempio patologie cardiache e polmonari, cancro e diabete, che richiedono un trattamento continuo, durante un periodo di tempo che va da anni a decadi (OMS, 2019). Ciò comporta un impiego di risorse umane, economiche e mediche sotto diversi punti di vista e comporta, per le persone che ne soffrono, una ridotta qualità della vita.

Oltre all’ingente impiego di risorse, le malattie croniche implicano, a livello psicologico, un costante stato di adattamento a questa nuova condizione di vita. Con adattamento psicologico si intende la messa in atto di un meccanismo cognitivo e comportamentale atto a favorire l’equilibrio mentale e fisico di un individuo nel proprio ambiente di riferimento, in risposta alle avversità che si trova a fronteggiare (Barkow et al., 1992; Lehti, 2016). Sebbene le prime teorie riguardanti l’adattamento psicologico risalgano a decadi fa, recentemente è emerso come le differenze individuali contribuiscano a modificare le traiettorie di adattamento nella popolazione generale. Infatti, la letteratura ha messo in luce come gli individui con alti livelli di resilienza siano caratterizzati da un grado di compromissione minimo rispetto a individui più vulnerabili, i quali sono caratterizzati da alti livelli di compromissione psicologica che può persistere anche per anni (Galatzer-Levy et al., 2018). Con resilienza si intende la capacità dell’essere umano di adattarsi positivamente a un evento avverso e, in particolare, in psicologia si fa riferimento alla capacità di ristabilire il proprio benessere psicologico a seguito di eventi traumatici o stressanti (Herrman et al., 2011).

È però importante sottolineare come, in passato, ci si sia sempre soffermati sulla resilienza come fattore protettivo, mentre a oggi la letteratura sostiene fermamente che sono diversi i fattori che concorrono ad aggravare o migliorare i gradi di compromissione dovuti a una patologia e quindi la qualità della vita in generale (Scharn et al., 2019).

I fattori protettivi nelle malattie croniche

 Uno studio del 2020 di Debnar e colleghi ha evidenziato il rapporto tra malattie croniche e maggior predisposizione a vulnerabilità psicologiche. In questo studio sono stati messi a confronto individui aventi malattie croniche con individui sani, confrontando diverse traiettorie evolutive e fattori di distress psicologico, in un arco temporale di 6 anni.

I livelli più elevati di distress psicologico sono stati riscontrati nei soggetti con minor resilienza e i fattori protettivi più comuni sono risultati: la stabilità emotiva, la soddisfazione a livello relazionale e l’appartenenza al genere maschile (Debnar et al., 2020). È importante sottolineare però che il numero di partecipanti allo studio appartenenti al genere maschile differiva da quello femminile, per cui questo dato risulta difficilmente generalizzabile alla popolazione generale, come dimostrato da numerosi studi precedenti (Moergeli et al., 2012; Zhu et al., 2014). In ogni caso, si può dedurre l’importanza di diversi fattori biopsicosociali nel predisporre o meno un individuo allo sviluppo di vulnerabilità psicologiche dovute alla presenza di una condizione medica cronica. Questi fattori appartengono a diverse categorie, quali: la salute fisica, il benessere psicologico, la sfera sociale (ovvero il grado di supporto sociale) e, in ultimo, l’appartenenza a una determinata categoria sociodemografica. Ovviamente il livello di distress è anche influenzato da fattori come, appunto, il grado di resilienza di un individuo, la severità della condizione cronica sviluppata, e quindi conseguentemente il livello della qualità della vita, e le possibilità di recovery parziale, dovuto alla presenza o meno di cure di mantenimento.

Regione Lombardia: stop allo psicologo di base. Parolin, Presidente OPL: “Uno schiaffo a milioni di adulti e ragazzi” – Comunicato Stampa

Dalla Regione Lombardia arriva lo Stop al progetto dello psicologo di base. Laura Parolin (presidente dell’Ordine Regionale Psicologi) commenta: “Uno schiaffo a milioni di adulti e ragazzi”

Milano, 21 dicembre 2022

La Regione Lombardia ha fermato il Progetto di legge che istituiva lo psicologo di Base. Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia (OPL), ritiene la decisione un vero e proprio schiaffo ai cittadini lombardi.

Esprimo grande amarezza – dichiara – nel constatare che Regione Lombardia ha scelto di fare un drammatico passo indietro sul PdL che istituiva lo Psicologo di Base. La tutela della salute psicologica di tutti i cittadini e delle cittadine lombarde sembra non essere una priorità. Questo PdL avrebbe potuto rappresentare una prima soluzione strutturale all’evidente malessere psicologico che oggi (e domani) rimarrà inascoltato. Si è persa l’occasione di dare una risposta concreta che avrebbe finalmente potenziato la presenza degli psicologi nel sistema socio sanitario regionale lombardo. Figure professionali oggi insufficienti nelle strutture pubbliche: migliaia di adulti e ragazzi restano, così, senza la possibilità di interventi precoci, efficaci e tempestivi. L’iter del PdL dello Psicologo di Base è stata l’occasione per mostrare che di fronte a un problema evidente si può e si deve lavorare trasversalmente alle appartenenze politiche: un’intenzione che abbiamo visto concretizzarsi fino a giovedì scorso quando c’è stato il primo inspiegabile stop della Commissione Bilancio. Da qui in una giravolta di eventi per cui l’iter del PdL è ripreso per approdare poi emendato in Commissione Terza dove ha visto, purtroppo, la sua definitiva interruzione.

Sembra che altre logiche decisionali siano prevalse, comunque distanti dai reali bisogni dei cittadini.

La salute psicologica -aggiunge- non ha e non deve avere una bandiera politica, ma è un Bene che ci riguarda tutte e tutti e una Responsabilità che le Istituzioni devono cominciare ad assumersi. Serve allora chiarezza nei confronti delle cittadine e dei cittadini che hanno creduto che questa proposta fosse il segnale di un cambiamento reale quanto necessario. Con questa brusca frenata la sanità territoriale lombarda resta senza personale e strumenti. Ancora una volta, migliaia di persone con un bisogno vedono negato il loro diritto ad avere risposte pubbliche e gratuite.

Nell’imminenza delle elezioni regionali del 12 e 13 febbraio l’Ordine degli psicologi della Lombardia (OPL) auspica che il primo provvedimento in discussione dal consiglio regionale possa essere proprio quello sullo Psicologo di base.

Durante la campagna elettorale – conclude Parolin – organizzeremo alla Casa della Psicologia di Milano tre serate con i tre principali candidati alla Presidenza della Regione per capire se e come vorranno impegnarsi per sostenere questo e altri provvedimenti decisivi per il futuro della salute psicologica dei cittadini e delle cittadine in Lombardia.

Come il disgusto modella la politica occidentale

L’emozione primaria del disgusto genera un comportamento di evitamento rispetto alla minaccia percepita e proprio questo aspetto, che ha consentito all’essere umano di adattarsi all’ambiente e sopravvivere nel tempo, oggi determina anche i nostri comportamenti politici.

 

Introduzione

Negli ultimi decenni, molti studi in psicologia e scienze politiche si sono dedicati a identificare la personalità, i fattori motivazionali e cognitivi che distinguono ideologie politiche antitetiche. Un consistente corpo di ricerca in questo ambito si è concentrato sulle emozioni implicate nei comportamenti politici, come l’affiliazione a un determinato partito, la comunicazione politica (per esempio nelle campagne elettorali) e la scelta del voto. Molti ricercatori hanno indagato le implicazioni del disgusto rispetto ai comportamenti politici. Tali studi si sono dimostrati talmente interessanti da trovare spazio in un intero capitolo dell’ultimo libro sull’avanzamento della ricerca riguardo l’emozione disgusto, edito da Springer (Powell e Consedine, 2021).

L’ideologia politica generalmente si riferisce a un insieme di credenze, valori e principi etici che descrivono il funzionamento e la struttura di una società (Erikson e Tedin 2003). L’ideologia politica è spesso concettualizzata come un continuum di opinioni che va da destra (estremamente conservatore) a sinistra (estremamente liberale; Everett, 2013). Queste diverse prospettive ideologiche spesso portano a opinioni e atteggiamenti divergenti in materia sociale ed economica (Shook et al., 2021).

Il disgusto è una delle emozioni di base, quindi universalmente condivisa, che ha funzione adattiva e genera un comportamento di evitamento (Rozin et al., 2016, clicca qui per approfondimenti).

Il disgusto nella politica

La maggior parte della letteratura sul disgusto e la politica si è concentrata sulla misura in cui il disgusto, in particolare la sensibilità al disgusto, è legato all’ideologia politica e agli atteggiamenti verso specifiche questioni politiche. In generale, ci sono prove che collegano una maggiore sensibilità al disgusto con un più forte sostegno alle ideologie e agli atteggiamenti politicamente conservatori (Shook et al., 2021). Infatti, sembra che i conservatori tendano a essere più timorosi della minaccia o della perdita, ad avere un maggiore bisogno di chiusura, a essere più intolleranti all’ambiguità; invece, i liberali tendono ad essere più aperti alle nuove esperienze, ad accettare il cambiamento e ad essere meno dogmatici (per una revisione si rimanda a Jost et al., 2003). La percezione della minaccia si configura come un fattore chiave nel determinare le scelte degli individui all’interno del continuum delle opinioni politiche, e la percezione della minaccia è la caratteristica adattiva del disgusto (ovvero quell’aspetto che evolutivamente ha consentito all’uomo di adattarsi all’ambiente e sopravvivere), che porta la persona ad allontanarsi dallo stimolo che lo provoca (Oaten et al., 2009).

L’esperienza del disgusto o la tendenza a essere più sensibili al disgusto, se considerata dalla prospettiva della gestione delle minacce, può portare gli individui a percepire il loro mondo sociale come più minaccioso o pericoloso (cioè, incoraggiare una visione del mondo più pericolosa; Shook et al., 2017a). Questa visione del mondo può, a sua volta, motivare l’adozione di ideologie conservatrici che promuovono la sicurezza e il controllo (Duckitt, 2001; Duckitt et al., 2002; Perry et al., 2013). Infatti, si pensa che gli individui adottino ideologie politicamente conservatrici come mezzo per gestire la percezione della minaccia (Jost et al., 2003), e i conservatori politici tendono a percepire il mondo come più pericoloso dei liberali politici (Altemeyer, 1998; Duckitt, 2001). Pertanto, la sensibilità al disgusto può aumentare la percezione della minaccia, che ha implicazioni sull’ideologia politica (Shook et al., 2021).

Quando si esaminano specifici atteggiamenti politici, il disgusto sembra essere più fortemente connesso con le questioni sociali, in particolare quelle che riguardano l’integrità individuale (ad esempio, aborto, matrimonio gay, vaccini, OGM, uso di droghe) e l’esclusione sociale (ad esempio, anti-immigrazione, anti-senzatetto; Shook et al., 2021).

Alcuni studi (Kaplan et al., 2007; Shook et al., 2017b; Stewart et al., 2019) hanno osservato che la sensibilità di disgusto è collegata agli atteggiamenti verso i candidati politici e che l’esposizione ai candidati politici opposti può evocare disgusto.

Disgusto e persuasione

Inoltre, il disgusto può essere usato come strumento persuasivo nella pubblicità delle campagne elettorali e nella retorica politica, con risultati contrastanti. Infatti, le comunicazioni persuasive politiche sono spesso progettate per suscitare delle risposte emotive con il fine di modificare atteggiamenti o motivare il cambiamento del comportamento, e il disgusto può risultare utile come strategia per plasmare l’atteggiamento dell’opinione pubblica e influenzare il voto (Petty et al., 2003; Gadarian e van der Vort 2018; Hatemi e McDermott 2012). Durante le campagne elettorali l’obiettivo può diventare quello di peggiorare l’immagine del candidato rivale, creando un’associazione tra il candidato avversario e i sentimenti di disgusto (Pinkleton et al. 2002). Tuttavia, queste strategie non sempre hanno l’effetto sperato. Ne è un esempio il caso Campbell –elezioni federali canadesi del 1993–, dove la sensibilità delle persone verso le anomalie fisiche ha causato rabbia e disgusto verso il candidato che palesemente tentava di suscitare disgusto nel pubblico evidenziando la paralisi facciale del rivale politico. Il tentativo è stato percepito come troppo offensivo e immorale, tanto che l’opinione pubblica ha finito per provare disgusto verso Campbell (Shook et al., 2021).

Tutto questo può quindi tradursi in un comportamento politico. Infatti, alcuni studi hanno riscontrato che la sensibilità al disgusto è correlata, e in alcuni casi predice, il comportamento del voto, quindi la scelta di un partito piuttosto che un altro (Shook et al., 2021).

Nel complesso, il modello coerente è che una maggiore sensibilità al disgusto è legata all’ideologia politica conservatrice (Shook et al., 2021), tuttavia sono necessari ulteriori studi che esplorino tale relazione.

 

La suicidalità nei bambini: un’emergenza da riconoscere

Una meta-analisi pubblicata di recente su The Lancet Psychiatry (Geoffroy et al., 2022) evidenzia non solo la gravità e la rilevanza del suicidio infantile, ma anche l’attuale scarsità di dati a disposizione.

 

Introduzione

Il suicidio, inteso come un comportamento emesso con una certa consapevolezza che potrebbe esitare e che in effetti esita nella morte (De Leo et al., 2021), è un problema rilevante per la salute pubblica: globalmente ogni anno muoiono circa 800000 persone (World Health Organization, 2019) e ogni tentativo di suicidio ne coinvolge diverse centinaia (Cerel et al., 2019). Sebbene spesso associabile alla psicopatologia (Baldessarini e Tondo, 2020; Turecki et al., 2019), tentativi e ideazioni suicidarie riguardano la popolazione in senso ampio, con il 3.1% che tenta il suicidio e un ancor più significativo 9.2% che fa pensieri al riguardo – ovvero, che sperimenta ideazione suicidaria (Nock et al., 2008). A riprova di ciò, negli ultimi anni sono emersi dati che ne evidenziano basi biologiche sovrapponibili solo in parte con quelle dei disturbi mentali (ad es., Mullins et al., 2022; Vasupanrajit et al., 2021), completando un quadro nel quale non tutti quelli con una diagnosi psichiatrica tentano il suicidio né tutti quelli che tentano il suicidio hanno un disturbo mentale (Turecki et al., 2019).

Nonostante la rilevanza di questo fenomeno, che rimane una condizione difficilmente prevedibile (Franklin et al., 2017) e trattabile (Fox et al., 2020; Harris et al., 2022), la sua presenza nei bambini è stata molto trascurata. Una meta-analisi pubblicata di recente su The Lancet Psychiatry (Geoffroy et al., 2022) evidenzia non solo la gravità e la rilevanza del fenomeno, ma anche l’attuale scarsità di dati a disposizione.

Lo studio

Lo studio condotto da Geoffroy e colleghi (2022) è una meta-analisi di dati ottenuti da 28 pubblicazioni (per un totale di 30 studi) che hanno incluso 98044 bambini totali tra i 6 e i 12 anni (46980 [50.5%] femmine, 46136 [49.5%] maschi; età media di 9.5±1.4 anni) provenienti dal Nord America, dall’Asia, dall’Europa e da Israele. Le variabili di interesse sono state ideazione suicidaria (compreso l’aver progettato un piano per suicidarsi), tentativi di suicidio e comportamenti autolesivi in generale, inclusi quelli non suicidari (non-suicidal self-injury, NSSI).

La prevalenza di ideazione suicidaria nei 28 studi (per un totale di 97512 partecipanti) che l’hanno valutata è complessivamente risultata del 7.5% (intervallo di confidenza [confidence interval, C.I.] al 95%: 5.9–9.6), con un’elevata eterogeneità (I2=98.1%, 95% C.I.: 97.7–98.4), e simili percentuali sono state riscontrate facendo analisi separate per ideazione suicidaria negli ultimi 12 mesi (6.3%, 95% C.I.: 4.3–9.3) e nell’intero arco di vita (9.2%, 95% C.I.: 7.2–11.7). La prevalenza tra maschi e femmine è risultata simile (7.9% [95% C.I.: 5.2–12] per i maschi, 6.4% [95% C.I.: 3.7–10.7] per le femmine), mentre le percentuali risultano maggiori quando i bambini sono stati direttamente analizzati (10.9% [95% C.I.: 8.1–14.5] con solo bambini e 10.4% [95% C.I.: 6.8–15.5] con bambini e genitori) rispetto a quando vengono considerati solo i genitori (4.7%, 95% C.I.: 3.4–6.6). Inoltre, l’uso di interviste restituisce percentuali maggiori (10%, 95% C.I.: 7.3–13.5) rispetto all’uso di questionari (6.5%, 95% C.I.: 4.7–9). Le percentuali per continente hanno rilevato una prevalenza minore per l’Asia (5.3%, 95% C.I.: 4.1–6.7) rispetto a Nord America (8.1%, 95% C.I.: 6–11) ed Europa (8.7%, 95% C.I.: 3.9–18.4). Il punteggio alle analisi del rischio di bias e l’anno di pubblicazione non giustificano l’eterogeneità nei dati. Inoltre, i progetti suicidari sono stati considerati solo in 3 studi (11945 partecipanti) e complessivamente la loro prevalenza è risultata essere del 2.2% (95% C.I.: 2–2.5).

Per quanto riguarda invece i comportamenti autolesivi nel loro complesso (categorizzati in inglese sotto il termine “self-harm”), 11 studi (e 70562 partecipanti) hanno restituito una prevalenza complessiva del 2% (95% C.I.: 0.8–5) e un’elevata eterogeneità (I2=99.4%, 95% C.I.: 99.3–99.5). La prevalenza del self-harm globale non differisce per genere, periodo di vita considerato, fonte delle informazioni, metodo di valutazione o continente di provenienza. Inoltre, il rischio di bias, l’età media dei bambini e l’anno di pubblicazione non sono risultati responsabili dell’eterogeneità. Più nello specifico, 6 studi hanno direttamente indagato la prevalenza dei tentativi di suicidio, pari a 1.3% (95% C.I.: 1–1.9). Altri quattro studi, i quali non hanno effettuato una distinzione specifica tra ideazione e tentativi di suicidio, riferendosi invece a concetti più ampi come self-harm o suicidalità, hanno riportato una prevalenza di questi dell’1.4% (95% C.I.: 0.4–4.7). Infine, solo due studi hanno riportato dati in merito ai comportamenti autolesivi non suicidari, con una prevalenza complessiva del 21.9% (95% C.I.: 6.2–54.4), tuttavia frutto di un’ampia variabilità (9.1% in uno studio e 44.6% nell’altro).

Conclusioni

La meta-analisi di Geoffroy e colleghi (2022) evidenzia come ideazione suicidaria e tentativi di suicidio non siano solo un problema degli adulti: un allarmante 7.5% di bambini presenta ideazione suicidaria prima del tredicesimo compleanno, il 2.2% ha progettato un modo per uccidersi e l’1.3% ha tentato il suicidio. Oltretutto, è significativo il fatto che la prevalenza aumenti se i bambini vengono direttamente coinvolti nella ricerca rispetto a quando vengono considerati solo i genitori, forse sottolineando, tra le possibili spiegazioni, come lo stigma sociale condizioni ancora la trattazione del tema.

Sebbene da un lato questi dati siano da interpretare con cautela, in quanto è presente un’elevata eterogeneità metodologica e in generale gli studi non siano molti, segnalano comunque che il rischio suicidario è presente nei bambini e costituisce una seria questione che è necessario approfondire.

 

Stai per commettere un terribile errore (2022) di Oliver Sibony – Recensione

Nel testo “Stai per commettere un terribile errore” l’autore si focalizza sui processi decisionali all’interno dei grandi gruppi e, nello specifico, delle organizzazioni. Nella sua analisi, percorre in maniera fluida, e allo stesso tempo dettagliata, le dinamiche inerenti ai “bias cognitivi” individuali e di gruppo.

 

 Nello specifico, prende in considerazione quanto i bias siano determinanti nelle “decisioni strategiche” e come, nonostante la nostra comune tendenza a “idolatrare i leader delle aziende che hanno successo attribuendo loro caratteristiche di “infallibilità” e “onnipotenza” (teoria del grande uomo al comando), anche questi leader di successo possano commettere errori nei processi decisionali. Inoltre, sempre nell’ottica delle “fallacie cognitive”, in genere abbiamo anche la tendenza ad “attribuire” il fallimento di un’azienda o di un’organizzazione a un singolo (teoria dell’uomo cattivo, come spiega l’autore). C’è quindi la tendenza a definire i buoni e i cattivi decisori sulla base dei buoni e cattivi risultati, il che, oltre ad essere tautologico e circolare, rinforza alcuni bias descritti dall’autore. In particolare, il “bias di conferma”, “l’errore di attribuzione”, “lo storytelling”, il “bias del senno del poi”.

Sibony (2022), oltre a descrivere i vari bias (nel testo chiamate “trappole”), fa una rassegna analitica e narrativa (con esempi ed evidenze sperimentali) delle tecniche utili a regolarne l’impatto. Infatti, una delle idee centrali presentate è che per quanto il nostro “bisogno di controllo” possa risultare intenso e quindi permette di “vincere i bias”, non abbiamo bisogno di ciò. Egli scrive: “Abbiamo limitazioni cognitive che potremmo non essere in grado di superare, ma ci sono organizzazioni che possono rimediare alle nostre carenze” (Sibony, 2022, p. 56). Enfatizza quindi il ruolo della “collaborazione e del processo”, di come sia più facile che i bias vengano individuati da più persone piuttosto che da “un solo decisore” e di come sia fondamentale un buon processo per agire sulle proprie intuizioni. Il gruppo, pertanto può costituire un limite nel caso in cui “i bias sociali” ricoprano un potere prevalente, e non venga dato spazio al dialogo, all’incertezza, alla divergenza e all’accoglienza, tuttavia anche una grande risorsa.

Per questioni di brevità, prenderò in considerazione soltanto alcuni dei bias esposti e delle tecniche per gestirne l’impatto sul comportamento (l’autore fornisce un’appendice abbastanza chiara e schematica di tutti i bias).

Prima è stato fatto accenno ai bias sociali. Vediamoli nel dettaglio. Uno di questi è il “pensiero di gruppo”, dinamica in cui i singoli individui mettono a tacere i propri dubbi e si conformano all’idea prevalente, invece di dissentire. In questo, Sibony (2022) enfatizza l’importanza rivestita dal gruppo, quando abbiamo bisogno di formarci opinioni su problemi complessi e con un margine non indifferente di incertezza. C’è nondimeno il ruolo giocato dall’impressionabilità di fronte a colleghi di cui rispettiamo il punto di vista, gerarchicamente superiori, fonte di un certo “timore reverenziale” e portatori di un forte grado di sicurezza di fronte all’incertezza. In genere, quindi, alla base di questa dinamica di gruppo, vi è la “paura” di possibili ritorsioni all’interno dello stesso gruppo, e, allo stesso tempo, la paura determinata dall’incertezza e da ciò che non può essere previsto. Conformarsi al gruppo, a “un grande Altro” riconosciuto nel gruppo e nell’opinione prevalente, costituisce una modalità per compensare l’angoscia derivante da questi fattori. Detto ciò, Sibony (2022) fa inoltre riferimento a un processo cognitivo automatico che, per adeguamento razionale all’opinione della maggioranza, induce il singolo individuo a cambiare idea. L’autore spiega che, una volta rivelato il consenso di gruppo, questo, insieme alla pressione sociale all’interno di esso, porta gli ingenuamente dubbiosi ad autoconvincersi di ciò che sentono.

Associati al “pensiero di gruppo”, vi sono altri bias, che si rinforzano a vicenda, innescando spesso circoli viziosi a valanga. Tra questi vorrei prenderne in considerazione alcuni, a mio avviso strettamente intercorrelati, quali, la “polarizzazione di gruppo”, la “cascata di informazioni”, il “bias di conferma”, “storytelling”, “il bias di attribuzione” e” l’escalation dell’impegno”, “avversione alla perdita”. La “polarizzazione di gruppo”, inserita da Sibony (2022), all’interno dei “bias sociali” come il pensiero di gruppo, insieme alla “cascata di informazioni”, attivano una situazione apparentemente paradossale, in cui il gruppo risulta meno informato della somma dei suoi membri. Nello specifico, la discussione all’interno del gruppo si focalizza troppo su ciò che è condiviso e ciò che sta in superficie, trascurando invece dettagli potenzialmente importanti. Ogni persona adeguerà il proprio giudizio per tenere in considerazione le opinioni espresse prima, ciò induce i gruppi a conclusioni che sono più estreme del punto di vista medio dei suoi membri e a nutrire maggiore fiducia in esse.

All’interno della polarizzazione di gruppo, vediamo associati anche il “bias di conferma e lo storytelling”.

Si è accennato al ruolo della paura nei confronti dell’incertezza. In generale –afferma Sibony (2022)– quando qualcuno ci racconta una bella storia, la tendenza automatica è di cercare elementi che la avvalorino, piuttosto che informazioni che la smentiscano. Ciò collude con un bisogno umano, ovvero un insaziabile “bisogno di storie”. Ma le storie non sono i fatti. Possiamo avere la tendenza a confermare dei fatti in una storia coerente, specie in situazioni complesse, angoscianti e di forte pressione sociale, e quindi fondere il pensiero con la realtà, arrivando pertanto a identificarci con la storia stessa. Per esempio, Russ Harris (2010), nel libro “La trappola della felicità”, parla del “meccanismo di fusione” con i pensieri in una storia coerente, del nostro prenderli come verità assolute e del nostro crederci senza riserve. Sibony afferma: “È più facile berci una storia che rafforza le nostre opinioni, piuttosto che una storia che ci disorienta e ci mette in discussione” (Sibony, 2022, p. 34). Per esempio, una persona esposta a esperienze ripetitive di rifiuto e abbandono, sarà più facile che abbia radicato internamente credenze basate su queste esperienze e sulla concomitante percezione di sé come “non abbastanza, inadeguato/a” e che abbia sviluppato stati della mente rigidi e ripetitivi che vanno a confermare proprio l’esperienza temuta, raccontandosi pertanto una storia drammatica ma, comunque, prevedibile (in questo vediamo anche il “bias dell’esperienza” in cui l’analogia con situazioni della nostra esperienza, ci porta a ricercare conferme all’esterno e potenzialmente a riproporle) .

L’autore propone anche i cosiddetti “bias dell’inerzia” che, nei processi decisionali, spingono appunto a inerzia e status quo. L’escalation dell’impegno, per esempio, spinge le aziende a salvare “a tutti i costi” azioni fallimentari. In questo, ricoprono un ruolo specifico i costi sommersi e l’avversione alla perdita. Sentiamo una potenziale perdita e fallimento, più intensamente di un guadagno della stessa entità. Di conseguenza, ci troviamo maggiormente spinti a perseverare negli stessi schemi di pensiero, emozione e comportamento e in sterili acting-out controfobici, piuttosto che riconoscere e accettare un fallimento strategico. Sibony scrive: “Molti manager sono paralizzati dalla paura del fallimento. È molto difficile condurre un vero esperimento se non si accetta la possibilità del fallimento” (Sibony, 2022). Egli infatti incoraggia il “diritto di fallire” ma non “il diritto di commettere errori”. E dal mio punto di vista, la logica che segue Sibony (2022) fa riferimento all’accettazione e, quindi, nello specifico caso aziendale, “lasciare andare” le risorse precedentemente investite ma fallimentari e trattarle come “costi irrecuperabili”. Aumentando invece la posta in un corso di azione fallimentare, rischiamo di rimanere intrappolati nel “diritto di commettere errori”, riproponendo pertanto circoli viziosi disfunzionali e alimentando “l’escalation dell’impegno”. L’errore logico dei costi sommersi e dell’escalation dell’impegno, sta quindi nell’impegnare nuove risorse soltanto in funzione di perdite irrecuperabili. Sibony (2022), invece incoraggia a porci questa domanda: “Il risultato atteso giustifica le risorse ulteriori che impegniamo oggi?”

Come accennato all’inizio, la parte finale del testo si focalizza sulle strategie per regolare l’impatto dei bias sui processi decisionali. Viene presentato un elenco di tecniche, descritte in maniera altrettanto narrativa e fluida. In particolare, si focalizza sull’importanza della cooperazione, del dialogo, di accogliere l’incertezza, di incoraggiare i punti di “vista sfumati”, di presentare “storie alternative”. Vediamone qualcuno.

La tecnica delle “storie alternative” risulta molto utile per allentare il potere del bias di conferma, paradossalmente attraverso un altro bias che è “lo storytelling”. In particolare, fa riferimento al generare storie differenti per fatti identici. Ciò incoraggia quello che Winnicott (1979) definisce “gioco con la realtà”, e quindi la possibilità di viaggiare tra stati della mente e aprirsi pertanto a una molteplicità di prospettive. Da qui, vediamo anche la tecnica del “cambiare idea con orgoglio”, dove l’autore incoraggia la flessibilità e l’ambiguità e quindi la possibilità di andare oltre polarizzazioni del pensiero. Scrive: “È magnifico vedere un leader ammettere che una decisione è difficile e potrebbe essere necessario testarla nuovamente” (Sibony, 2022, p. 271). Viene enfatizzata l’importanza di non restare imprigionati nella propria storia e di essere pertanto aperti a narrazioni differenti. Sibony (2022), come accennato, sottolinea l’importanza del “lavoro di squadra”, ponendo però enfasi su un aspetto di fondamentale importanza per la leadership. Egli afferma che, per quanto il team sia essenziale, la decisione finale spetti comunque al leader. Deve fare appello agli altri per combattere i propri bias individuali ma, quando arriva il momento, deve prendersi la responsabilità di decidere. Quindi, è importante la connessione ma lo è altrettanto l’autonomia. In questo, Sibony (2022) suggerisce di “condividere la responsabilità” per la presa di decisioni importanti. In questo caso, viene ridotto il rischio che dominino i bias di un individuo.

Nelle conclusioni viene dedicato un interessante paragrafo alla descrizione di un possibile nuovo modello di leadership. Viene accennata l’importanza del carisma del decisore e delle concomitanti aspettative legate al suo ruolo. Tuttavia, proprio le aspettative alimentano il bias di conferma e l’ancoraggio a posizioni rigide. Sicuramente ci possono essere leader “eccessivamente fiduciosi” che incarnano lo stereotipo di un incrollabile ottimismo, ma ci può anche essere un gruppo che abbia bisogno di riporre una fede incrollabile su un “capo”. Questo però è il processo che sopprime il dissenso e scoraggia il pensiero di gruppo. Un leader che invece si prende la responsabilità della decisione finale ma, al contempo, orchestra un processo decisionale attraverso cui il team produrrà la miglior risposta possibile, abbraccia collaborazione, processo e umiltà come basi per un lavoro di gruppo. L’autore conclude con il “mito di Odisseo”, presentandolo come un possibile modello archetipico di leadership. Odisseo è abbastanza consapevole da conoscere i propri limiti e, quindi, della possibilità di non riuscire a resistere alle canzoni ammalianti delle sirene. Chiede ai suoi marinai di legarlo all’albero, riponendo quindi fiducia nel team e affidando la sua vita nelle loro mani. Dice poi ai marinai di turarsi le orecchie con la cera d’api, rinunciando a dare loro nuove istruzioni. Emerge quindi fiducia, cooperazione e consapevolezza del limite che, se accettato, diventa possibilità per la creazione di nuovi orizzonti.

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