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Che relazioni ci sono tra criminalità, uso di sostanze e depressione?

Gli studi hanno dimostrato che la delinquenza e i crimini spesso si accompagnano a problemi di salute mentale e all’uso di sostanze sia nell’adolescenza che in età adulta (Abram et al., 2003; Huizinga et al., 2000; Snowden, 2001). 

 

Criminalità e disturbi psichiatrici

I tassi di dipendenza da uso di sostanze e di disturbi riguardanti la salute mentale nelle popolazioni carcerarie, sono molto più elevati rispetto a quelli della popolazione generale (The Council of State Governments, 2002; Zweig et al., 2004), andando dal 56% al 64% di detenuti nelle carceri statali e locali che soffrono di un problema di salute mentale e con un tasso del 49% di detenuti che soffrono sia di problemi mentali che di problemi di abuso di sostanze (James & Glaze, 2006); le donne detenute riportano tassi ancora più elevati (73-75%) rispetto ai maschi (55-63%). Inoltre, nel sistema di giustizia minorile, circa due terzi dei giovani presentano un disturbo mentale, con il 61% dei giovani che presentano sia disturbi mentali che disturbi da abuso di sostanze (Shufelt et al., 2007).

Relazione tra criminalità, abuso di sostanze e depressione: tre ipotesi

Lo studio condotto nel 2019 (Kim et al., 2019) ha indagato lo sviluppo delle relazioni che intercorrono tra criminalità, abuso di sostanze e comportamento internalizzante/depressione nell’adolescenza e nell’età adulta; altri studi recenti (D’Amico et al., 2008; Mason & Windle, 2002; Merrin et al., 2016) ne hanno indagato la reciproca relazione, ma i risultati si sono dimostrati essere contrastanti. Per questo motivo, lo studio condotto nel 2019 ha indagato tre ipotesi elencate di seguito.

1. Comportamenti criminali e problemi in altri ambiti di vita

La prima ipotesi sostiene la relazione tra i comportamenti criminali e una serie di problemi in altri ambiti della vita, quali l’insorgenza di sintomi depressivi, l’insuccesso scolastico, il coinvolgimento con coetanei antisociali e l’abuso di sostanze (Capaldi & Stoolmiller, 1999; Patterson & Stoolmiller, 1991). Ne sono un esempio i giovani che presentano comportamenti antisociali, per via dei quali, spesso subiscono un allontanamento dai coetanei; questo determina la ricerca di coinvolgimento da parte di gruppi di coetanei che condividono la stessa mentalità e che intraprendono comportamenti offensivi. Man mano che i giovani vengono coinvolti in comportamenti criminali non riescono a raggiungere le tappe fondamentali dello sviluppo (come il diploma) e continuano a intraprendere la strada della criminalità (Moffitt et al., 1996). I fallimenti accumulati aumentano la probabilità di commettere reati, di abusare di sostanze e aumentano il rischio di insorgenza di problemi di salute mentale. Questo studio verifica in che modo l’impegno alla delinquenza determina l’uso di sostanze e l’insorgenza di una diagnosi depressiva.

2. Sostanze e criminalità come meccanismo di automedicazione

La seconda ipotesi sostiene l’esistenza di un meccanismo di automedicazione per il quale l’uso di sostanze e i comportamenti delinquenti sono dei meccanismi per fronteggiare i problemi di salute mentale come l’ansia e la depressione (Wieder & Kaplan, 1969). Tuttavia, il supporto empirico a questa ipotesi è misto e per questo lo studio ne ha esaminato le caratteristiche.

3. Uso di sostanze e ridotto impegno in attività lavorative e sociali

La terza ipotesi indaga la relazione tra abuso di sostanze e ridotta capacità di impegnarsi in attività normative, che si esprimono come perdite a livello sociale e personale e come problemi di salute mentale (Johnson & Kaplan, 1990); ne sono un esempio la disoccupazione lavorativa, il disimpegno sociale e l’abbandono scolastico. Inoltre, conseguenze come l’isolamento sociale risultano incrementare i sintomi depressivi e i comportamenti delinquenti. Alcuni studi (Pihl & Lemarquand, 1998; Snowden, 2001) hanno infatti dimostrato una correlazione tra abuso di sostanze e aggressività, suggerendo l’ipotesi per cui chi ha un disturbo da abuso di sostanze ha maggiori probabilità di mostrare comportamenti aggressivi. Un’ulteriore ipotesi potrebbe essere rappresentata dalla necessità di delinquere per sostenere l’utilizzo di sostanze (Anglin & Perrochet, 1998). Secondo uno studio condotto nel 2006 (Dorsey et al., 2006) circa il 17/18% di detenuti riferisce di aver commesso dei reati per procurarsi denaro per la droga. In questo caso, lo studio ha esaminato se l’uso di sostanze determini un aumento di comportamenti devianti e l’insorgenza di sintomi depressivi (Johnson & Kaplan, 1990).

I primi risultati, in accordo con le ricerche precedenti (Coie et al., 1993; Institute of Medicine (U.S.) et al., 2009), confermano una forte continuità nel tempo dei problemi mentali, emozionali e comportamentali dall’adolescenza all’età adulta, sia nei maschi che nelle femmine. Inoltre, è stata riscontrata una forte correlazione tra l’uso/la dipendenza da sostanze e la criminalità, che conferma l’alta comorbidità tra questi problemi (Loeber et al., 2000).

Criminalità, uso di sostanze e depressione: differenze di genere

Sono state individuate differenze tra maschi e femmine (Kim et al., 2019). Per le donne i risultati suggeriscono che sia l’uso di sostanze, che i comportamenti delinquenti, portano a un incremento di sintomi depressivi. Di fatto, contrariamente all’ipotesi popolare per cui i problemi internalizzanti (sintomi depressivi) portano a comportamenti esternalizzanti (crimini/abuso di sostanze), sono stati riscontrati essere i comportamenti esternalizzanti la causa dell’aumento di sintomi internalizzanti. Per gli uomini, invece, l’intraprendere comportamenti criminali può predire depressione e uso di sostanze. Ancora una volta l’ipotesi dell’automedicazione non è risultata dai dati, ma piuttosto, si è rilevato che i comportamenti esternalizzanti, in particolare quelli offensivi, predicono un aumento di uso di sostanze e di sintomi depressivi.

Date le conseguenze a lungo termine dettate dal coinvolgimento in questi comportamenti problematici, la prevenzione e gli interventi psicoeducativi dovrebbero essere ottimizzati per raggiungere tutti i giovani, ancora prima che essi mostrino comportamenti problematici (Kim et al., 2019).

 

Strenghtening families program: empowerment familiare e comunicazione

Il metodo Strengthening Families Program si concentra su quei fattori che possono rafforzare i legami (in questo caso quelli familiari), che sono decisivi per la crescita e la maturazione di scelte consapevoli dell’individuo e di proporre tecniche utili per il loro mantenimento.

 

L’erronea modalità di comunicazione (o la mancanza della stessa) all’interno del nucleo familiare può comportare una serie di conseguenze negative: isolamento sociale, uso di alcol e sostanze stupefacenti già in età adolescenziale e ricerca di relazioni affettive nocive.

È per tale motivo che negli ultimi decenni sono stati sviluppati diversi modelli focalizzati sul favorire tecniche che aiutino genitori e figli a esprimere pensieri, sentimenti e bisogni senza un atteggiamento giudicante. Lo Strengthening Families Program è uno di questi.

Il metodo Kumpfer e la prevenzione per l’utilizzo di sostanze stupefacenti negli adolescenti

Il termine prevenzione fa riferimento a qualcosa che avviene prima. Pre-venire prima che si debba risolvere un qualcosa di cui non disponiamo il rimedio. Caplan (1964) suddivise la branca della prevenzione in: primaria (tesa a limitare le cause del disagio su un’intera popolazione), secondaria (individua precocemente i sintomi di un disagio) e terziaria (limita la cronicizzazione del danno) (Loss et al., 2009). Questa suddivisione ha indirizzato, così, i vari ambiti di ricerca a focalizzarsi proprio su quella primaria, in modo tale da evitare più danni possibili, in termini di salute fisica, ma anche di benessere più generico. È il caso della psicologia della prevenzione che, in particolare col metodo Strengthening Families Program, decide di concentrarsi su quei fattori che possono rafforzare i legami (in questo caso quelli familiari), che sono decisivi per la crescita e la maturazione di scelte consapevoli dell’individuo e di proporre tecniche utili per il loro mantenimento.

Strengthening Families Program: descrizione del programma e riscontri empirici

Il metodo Strengthening Families Program è stato ideato dalla ricercatrice Karol Kumpfer nel 1982 e può essere adattato a varie fasce d’età (3-5; 6-11; 10-14; 12-16). Gli obiettivi includono:

  • Stimolare negli adolescenti competenze sociali come la cooperazione e l’altruismo, per ridurre i rischi di isolamento e sviluppare fattori protettivi all’interno del contesto familiare, come un attaccamento sicuro, il senso di appartenenza, la fiducia nel genitore;
  • Potenziare le conoscenze dei genitori riguardo ai rischi dell’età adolescenziale (le prime relazioni affettive, i primi contatti con le sostanze, il bullismo) e, in ottica preventiva, attuare strategie per contrastarli;
  • Costruire famiglie unite che sappiano guidare e sostenere i giovani nella fase adolescenziale (Molgaard & Spoth, 2008). Quando si parla di “famiglia unita” si fa riferimento a una sorta di sistema che opera in modo tale che ciascuna parte che lo compone lavora in funzione dell’altro. Se si comunica, ci si ascolta e ci si mette a disposizione delle esigenze gli uni degli altri, si condividono i sentimenti che si provano e si coopera per un obiettivo comune, il sistema sarà ben oliato e, appunto, unito, in funzione del bene che li lega.

Il programma è evidence-based, ovvero fondato su prove scientifiche, e ha lo scopo di aiutare genitori e figli a costruire un ambiente familiare sereno dove la comunicazione efficace, l’empatia, la predisposizione all’ascolto la fanno da padroni e, allo stesso tempo, aiutare a prevenire quelli che sono i rischi di un’età fortemente vulnerabile quale è quella dell’adolescenza (come uso di alcool, droghe, uso spropositato di internet).

Esso consta di 14 sessioni di training familiare atte a prevenire, in questo caso specifico, l’uso di sostanze (Kumpfer et al, 2008). La durata è variabile in relazione ai fattori di rischio delle famiglie che vi partecipano e alle difficoltà che riscontrano nell’apprendimento e nella praticità degli obiettivi da portare a termine.

Applicazioni dello Strengthening Families Program

Il training è stato sperimentato in vari Stati per verificarne l’efficacia e i riscontri sono stati positivi. In una ricerca quasi-sperimentale (Kumpfer et al, 2010) è stato osservato che, dopo aver svolto le 14 sessioni di training, variabili come il comportamento criminale, la voglia di utilizzare sostanze e l’iperattività – intesa come mancanza di interesse in un’attività specifica o poca concentrazione – venivano ridotte nella fascia d’età compresa tra i 10 e i 16 anni e aumentavano invece comunicazione familiare, capacità assertive (esprimere la propria opinione senza temere il giudizio dell’altro, saper dire “no”, esprimere in maniera adeguata i propri bisogni), resilienza, riconoscimento della famiglia come sistema valoriale. Andando ancora più nello specifico, sono state considerate famiglie di etnie diverse residenti negli Stati Uniti (in particolare Ispanici, Africani, Asiatici, Nativi americani e cittadini provenienti dalle Isole del Pacifico) e i risultati hanno dimostrato l’efficacia del programma soprattutto nella fascia 10-16 (Kumpfer et al, 2008). In particolare, per quanto riguarda i genitori sono stati riscontrati un incremento della comunicazione positiva e unità familiare; aumento di abilità genitoriali positive, gestione e organizzazione familiare; miglioramento del rapporto genitore-figli e riduzione dei conflitti familiari. Nei ragazzi, invece, sono risultati: aumento delle abilità sociali grazie alla comunicazione efficace e, quindi, miglioramento della cooperazione e relazioni sociali; miglioramento delle prestazioni scolastiche; riduzione dell’aggressività e dell’ansia; riduzione drastica della volontà di utilizzo di tabacco, alcool e droghe.

Questi studi mostrano, quindi, che c’è la necessità di fermarsi e ritagliare uno spazio che genitori e figli devono dedicarsi a vicenda per ascoltarsi e capire le esigenze gli uni degli altri. E, magari, diffondere lo Streghtening Families Program, proponendolo anche come strumento domiciliare, aiuterebbe tutte quelle famiglie carenti sotto questo punto di vista, e impossibilitate a raggiungere i luoghi di svolgimento del programma, a migliorare le relazioni familiari e sociali.

 

Sull’amicizia (2022) di Eugenio Borgna – Recensione

Edito per Raffaello Cortina, Sull’amicizia è l’ultimo saggio del noto psichiatra Eugenio Borgna, che nel corso delle pagine riflette sul grande mistero dell’amicizia, una parola antica ma poco utilizzata, che rimanda all’esistenza di un legame vitale e profondo con il prossimo, un’esperienza di vita fra le più belle, nonché fondamento della cura nel rapporto tra chi soffre e chi presta aiuto.

 

Il libro è una riflessione a tutto campo sul sentimento d’amicizia, costellata da preziosi rimandi letterari a grandi filosofi (per esempio, Friedrich Nietzsche e Simone Weil), pensatori (Thomas Mann), poeti e scrittori italiani (Antonia Pozzi) e stranieri (Emily Dickinson e Rainer Maria Rilke, per citarne alcuni).

Radici etimologiche del termine amicizia

Il termine “amico” è da ricondurre direttamente al latino amicus, che ha la stessa radice di amare, per cui potrebbe essere parafrasato come “colui che si ama”.

Aristotele parla esplicitamente dell’amicizia come qualcosa di necessario, essenziale per la vita dell’uomo, filosofo o meno; secondo il suo parere, il legame d’amicizia si basa su un’affinità (tó oikeion, stessa radice della parola casa) e concordia (homónoia) che cresce con la frequentazione e si sviluppa in una particolare forma di benevolenza, che è assieme affetto e dimostrazione di fiducia reciproca (D’Avenia e Vigna, 2009).

Nel suo dialogo dedicato all’amicizia, il Liside, Platone conclude ammettendo di non essere stato capace di trovare quale sia la definizione esatta di amico (D’Avenia e Vigna, 2009).

Gettando uno sguardo sulla poesia omerica, ritroviamo l’idea dell’uomo come viaggiatore, curioso conoscitore del mondo, chiamato a “patire” per tornare a casa. In un articolo dell’Avvenire del 2/4/2015, lo scrittore Alessandro D’Avenia evidenzia come “casa” per Ulisse rimandi alla possibilità di avere salva la propria vita e al ritorno dei propri compagni (etàiroi).

Etàiros in greco indica qualcuno con cui si condivide un ideale, un fine, un obiettivo. In italiano, può essere tradotto come compagno, in spagnolo con compañero, in inglese con companion. Nelle varie lingue la radice di questa parola è composta da cum unito a panis e indica “qualcuno con cui si condivide il pane”, da cui compagno.

Trasversalmente ai pensatori, è quindi possibile ritrovare l’importanza della figura dell’amico, quale compagno di viaggio con il quale remare insieme, progettare insieme, disperarsi insieme e, infine, salvarsi insieme, nell’imprevedibile avventura chiamata vita.

L’amicizia secondo Eugenio Borgna

Nella prima parte del saggio, Borgna esplora il mistero dell’amicizia ponendosi una serie di interrogativi, volti a comprendere la natura dell’amicizia e i suoi fondamenti essenziali:

Cosa sia l’amicizia, quali ne siano le radici più profonde, quali infinite sensazioni, quali luci e quali ombre si accompagnino alla nostra vita, quali speranze siano in lei, quale aiuto ci possa dare nelle notti oscure dell’anima, quali vertiginose emozioni rinascano dalla sua presenza, quali ne siano le fragili risonanze nel nostro cuore, quali arcobaleni generi in noi, quante nostalgie inondino la nostra memoria (Borgna, 2022, p. 26).

Nella seconda parte, Borgna esamina gli aspetti tematici dell’amicizia, in particolare i modi di vivere l’amicizia nel vertiginoso scorrere del tempo (dai legami ardenti e brucianti dell’adolescenza, alle generose e sincere amicizie adulte, sino alle relazioni di sostegno e speranza che uniscono le persone anziane), le caratteristiche delle amicizie femminili e maschili, i possibili sconfinamenti dall’amicizia all’amore, che ne trasforma interamente il climax emozionale.

Nella quarta parte, Borgna si sofferma sulle amicizie che vivono in noi come correnti carsiche, anche nel silenzio e nella lontananza, sulle amicizie naufragate per sempre e su quelle finite che, tuttavia, serbano in sé le braci di un affetto passato, pronto a riaccendersi da un momento all’altro.

A tal proposito, in una delle sue opere più inebrianti e stregate, La gaia scienza (1881), il filosofo Nietzsche propone un’immagine evocativa della fine di un rapporto d’amicizia, che vale la pena rileggere:

Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all’ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era la stessa per tutti e due.

Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai – forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli ci hanno mutati! (Borgna, 2022, p. 25).

La natura contemporanea del saggio consente di volgere uno sguardo alle sfaccettature che l’amicizia ha assunto nei difficili tempi della pandemia da covid. Infatti, il tempo della pandemia, contraddistinto da un ritiro nelle proprie case, lontani dai propri affetti, è stato in parte vissuto con angoscia, soprattutto quando la solitudine forzata non si è tradotta in un silenzio interiore fonte di riflessione personale ma in un isolamento, in una stanchezza di vivere, che ha contribuito –in alcuni casi– allo sviluppo di forme di dipendenza dai social network e all’insorgere di importanti sintomi depressivi; questo rischio è stato evitato da chi ha avuto la possibilità di accompagnare ed essere accompagnato da amicizie sincere, che hanno alleviato l’angoscia e la solitudine di quei giorni difficili.

A tal proposito, Borgna (2022) scrive:

L’amicizia è memoria e speranza, e disponibilità ad accogliere subito una richiesta di aiuto; e questa (forse) è la qualità essenziale dell’amicizia: sapere di non essere soli, e di potere contare su di una vicinanza interiore, nemmeno scalfita dalla assenza e dalla lontananza (Borgna, 2022, p. 51-52).

L’amicizia come base della cura

Eugenio Borgna dedica la quinta parte del suo saggio ad esplorare il rapporto che lega i pazienti in condizioni di profonda sofferenza ai loro curanti, medici psichiatri, in contesti di cura spesso deumanizzati e indifferenti alla dimensione umana del malessere psichico.

Volgendo lo sguardo alla filosofia antica, nel De Beneficiis Seneca tratteggia l’ideale di quella che in passato veniva denominata philia iatriké: l’amicizia medica, fondata sulla benevolenza disinteressata del medico e sulla gratitudine e fiducia del paziente (D’Avenia e Acerbi, 2007).

Perché al medico e al precettore sono debitore di qualcosa in più e non estinguo il mio debito pagandoli? Perché da medico e da precettore si trasformano in amici, e noi siamo in debito verso di loro non per le loro prestazioni, che paghiamo, ma per la loro disposizione d’animo benevola e affettuosa (Seneca, 1994, p. 604).

Borgna (2022) evidenzia che Ludwig Binswanger –uno dei grandi psichiatri del secolo scorso– in uno dei suoi libri più famosi, affermava che l’amicizia è la premessa alla cura dell’angoscia e della depressione, dei deliri e delle allucinazioni, del desiderio della morte volontaria.

Sulla stessa linea, il noto psichiatra svizzero, direttore a suo tempo della clinica psichiatrica universitaria di Zurigo, Manfred Bleuler, invitava i suoi colleghi a leggere in ogni forma di vita psicotica una disperata richiesta di aiuto: “Accettami, ti prego, per l’amore di Dio, così come sono” (Borgna, 2022, p. 86).

Tali parole e immagini rispecchiano le esperienze di cura di Eugenio Borgna negli anni di vita in psichiatria, come primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara.

Le parole, le domande, le più semplici e le meno invadenti, gli sguardi di attesa e di ascolto, gli orologi spenti, il mio silenzio e quello della paziente, giovane o anziana, timida o sicura di sé, la conclusione del colloquio mai programmabile: sono state le premesse alla cura alle quali ho cercato di avvicinarmi, nella coscienza dei miei limiti, ascoltando le parole del dolore. (Borgna, 2022, p. 91).

È essenziale, per il paziente, riconoscere nel curante vicinanza e partecipazione emotiva, amicizia e speranza, soprattutto quando si trova al confine estremo della vita: “una paziente, o un paziente, riesce a resistere al fascino stregato della morte, se intuisce in chi la cura una persona amica, vicina al suo dolore.” (Borgna, 2022, p. 95).

Come strutturare quella che Borgna (2022) definisce una psichiatria umana e gentile? Cercando di rivivere le esperienze vissute dagli altri, le loro ferite e la loro disperazione, le loro attese e le loro speranze, le loro disillusioni e le loro nostalgie; provando a immergerci nella nostra vita interiore, ascoltando nel silenzio del cuore la voce della solidarietà e della generosità, della tenerezza e della delicatezza; scegliendo con cura le parole da dire e con ancora più cura quelle da non dire, prestando attenzione alla voce, alla sua tonalità e ai gesti che l’accompagnano, scartando parole oscure o banali, lingue aride e opache, preferendo il linguaggio delle metafore e del silenzio, del dicibile e dell’indicibile, proponendo un lessico familiare e gentile.

L’importanza delle parole

Nel saggio, Borgna dedica ampio spazio ad esplorare la valenza simbolica ed evocativa delle parole, essenziali nella nascita e nel mantenimento di qualsiasi relazione, tra cui l’amicizia.

Difficile non citare il pensiero di Freud in merito che, ne L’Interpretazione dei sogni (1917), scriverà delle origini magiche delle parole che, ancora oggi, conservano molto del loro antico potere.

In tal senso, le parole accuratamente scelte e pronunciate, in un dialogo sincero e onesto con chi sta soffrendo e chiede il nostro aiuto, acquisiscono una grande importanza nello svolgere una funzione terapeutica; a volte ne basta soltanto una, perché il cammino della nostra vita, dissestato da buche profonde e segnato da frequenti intemperie, si illumini di una speranza che sembrava perduta e che improvvisamente rinasce.

Pertanto, Borgna evidenzia con forza l’importanza di nutrire una forte sensibilità verso la terminologia adottata, in quanto l’inclinazione a cogliere gli innumerevoli orizzonti di senso delle parole costituisce la premessa essenziale per l’instaurarsi di un buon legame con l’altro.

Non c’è cura in psichiatria, ma anche nella vita di ogni giorno, se non riflettendo continuamente sui significati, liquidi e mobilissimi, che le parole hanno (Borgna, 2022, p. 59).

Conclusioni

In conclusione, per Borgna (2022) l’amicizia rappresenta una torcia sempre accesa, della quale ogni vita, in particolare quella solcata dal dolore e dalle speranze ferite, non può fare a meno, una luce in grado di rischiarare tutte quelle esistenze indebolite dalla stanchezza e dalla disattenzione, dalla inquietudine dell’anima e dalla incostanza, dalla precarietà e dalla leggerezza, dalla ansietà e dalla angoscia.

L’amicizia costituisce il collante essenziale delle fragili comunità di cura e destino, nelle quali Borgna ha prestato servizio per una vita intera, dove il legame amicale come fondamento della cura può rappresentare davvero “una fragile zattera salvatrice” (Borgna, 2022, p.86) per chiunque sia perduto negli abissi più neri e profondi della sofferenza mentale.

 

Sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e disturbi psicopatologici associati

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è definita come una alterazione endocrina del sistema riproduttivo femminile ed è uno dei disordini endocrini più diffuso nelle donne in età riproduttiva; si stima infatti che ne siano affette approssimativamente il 5-8% delle donne appartenenti a questa categoria (Rodriguez-Paris et al., 2019).

 

Questa sindrome è caratterizzata da sintomi quali flusso mestruale irregolare, amenorrea, infertilità, iperandrogenismo, il quale a sua volta comporta aumento di peso, peluria eccessiva, perdita di capelli e acne (Hasan et al., 2022; Legro et al., 2013).

L’eziopatogenesi della sindrome dell’ovaio policistico

Ad oggi l’eziopatogenesi della PCOS non è ancora chiara, infatti le cure somministrate alle pazienti aventi questa condizione sono generalmente la pillola anticoncezionale e l’invito a condurre uno stile di vita sano che comprenda una dieta equilibrata priva di alcool e ore di sonno adeguate. È evidente che la letteratura al riguardo non sia adeguatamente approfondita rispetto alla diffusione di questa sindrome, infatti le soluzioni fornite dai professionisti per migliorare questa condizione non risultano garantire, nella maggior parte dei casi, una completa guarigione.

In ogni caso, l’ipotesi più largamente diffusa è che lo sviluppo dell’ovaio policistico sia dovuto all’insulino resistenza e all’iperinsulinemia, le quali porterebbero conseguentemente all’iperandrogenismo (Farrell & Antoni, 2010). In linea generale si pensa che sia causato dalla genetica, da uno stile di vita poco sano o dalla combinazione delle due (Hasan et al, 2022).

Sindrome dell’ovaio policistico e disturbi psichiatrici

Sebbene esistano pochi studi al riguardo, è stato evidenziato come esista un’elevata prevalenza di disturbi psichiatrici tra le pazienti affette dalla sindrome dell’ovaio policistico (Jeden et al., 2010). Infatti, le donne affette dall’ovaio policistico spesso affrontano sia a livello fisico che a livello sociale esperienze spiacevoli, che vanno a ripercuotersi a livello psicologico ed emotivo sulla qualità della vita (Borghi et al., 2018).

In primo luogo, i sintomi fisici visibili, ad esempio aumento di peso, peluria eccessiva e acne, possono provocare un senso di umiliazione, inoltre la probabilità di non poter concepire figli per molte donne risulta una privazione della propria femminilità e autostima. In secondo luogo, la letteratura mostra come le donne affetta da PCOS provino meno desiderio sessuale e riescano a raggiungere l’orgasmo con maggior difficoltà, se paragonate a donne non aventi questa sindrome (Stovall et al., 2012; Mantzou et al., 2021). In ultimo, le pazienti, nel loro percorso di cura, vengono spesso ostacolate sia dalla scarsa conoscenza generale riguardo al disturbo in sé e alla sua cura, sia da atteggiamenti sminuenti degli operatori sanitari, dato che si tratta di una condizione medica ad oggi poco chiara.

Proprio a causa di tutti i fattori appena elencati, che riguardano l’ambito fisico, psicologico e sociale, è probabile che la popolazione femminile affetta da PCOS sia maggiormente predisposta a sviluppare disturbi psicopatologici come ansia, depressione, OCD, ADHD e disturbi alimentari; viceversa, è anche possibile che sia la PCOS ad aggravarne le condizioni psicologiche e la qualità della vita (Rodriguez-Paris et al., 2019).

Uno studio del 2018 di Berni e colleghi ha esaminato un campione composto da donne aventi PCOS, confrontando i risultati con donne senza questa sindrome; gli autori hanno indagato la prevalenza di ansia, depressione, disturbi alimentari e disturbo bipolare nei due gruppi sopracitati, per rilevare una eventuale presenza maggiormente significativa di questi disturbi psicologici nelle pazienti PCOS. Proprio come gli autori di questo studio avevano supposto, i risultati hanno confermato la loro ipotesi, supportando il legame tra PCOS e una forte presenza di depressione e ansia, seguiti da disturbo bipolare e disturbi alimentari. Inoltre, l’obesità è risultata frequentemente in comorbilità con ansia e depressione nelle donne affette da PCOS considerate in questo studio. A questo proposito, tuttavia, è importante sottolineare che l’obesità è di per sé correlata ad ansia e depressione, come riportato da studi precedenti (Dawes et al., 2016).

In conclusione, il rapporto tra PCOS e psicopatologie necessita di ulteriore ricerca, proprio perché così poco studiato, seppure la sindrome dell’ovaio policistico sia largamente diffusa tra le donne in età fertile. È inoltre auspicabile che la sindrome dell’ovaio policistico venga studiata più approfonditamente poiché, malgrado la sua diffusione e le nuove strumentazioni scientifiche di ultima generazione, non sono ancora noti cause e trattamenti di comprovata efficacia.

Nascondere le emozioni

Quando proviamo un’emozione può succedere che non vorremmo farla trasparire, non vorremmo che chi ci sta davanti capisse quale effetto ha su di noi una determinata situazione, per diversi motivi che possono andare dal pudore alla vergogna, all’imbarazzo, al senso di colpa, in generale a un tentativo di difendere la nostra parte più intima.

 

Paul Ekman e le micro espressioni

Paul Ekman parla di micro espressioni come di quelle espressioni emozionali del volto che hanno una brevissima durata, ovvero un quarto di secondo. Superata questa durata, sono considerate semplici espressioni di mimica facciale. Queste compaiono sul nostro volto a nostra insaputa per poi sparire rapidamente quando decidiamo di voler nascondere le nostre reali emozioni, dando spazio alla mimica di quell’emozione che invece abbiamo deciso di mostrare volontariamente.

Oltre alla mimica facciale, che caratterizza in un modo che possiamo definire inequivocabile le emozioni che fanno capolino in noi, le risposte corporee sono lo strumento per attivare un sistema di comunicazione non verbale che riguarda elementi quali per esempio voce, postura, respirazione e ritmo cardiaco.

I gesti indicatori

Francesco Albanese, psicologo clinico e psicoterapeuta, ha pubblicato un interessante libro su questo argomento che ci spiega che cosa succede quando cerchiamo di intervenire sui quei gesti ed espressioni facciali che sono indicatori dello stato affettivo che stiamo provando, ossia quei movimenti del corpo e del viso che sono associati alle emozioni primarie.

Come sappiamo, il linguaggio non verbale si basa su un insieme di segnali quali movimenti e gesti che sono involontari, quindi non mediati dalla coscienza e per questo motivo meno sottoposti a una censura e maggiormente rivelatori di quello che stiamo realmente provando.

Quando diciamo la verità, il nostro corpo in sostanza dice le stesse cose che dice la nostra bocca. Nel mentire, invece, le nostre parole affermano qualcosa e il nostro corpo dice qualcos’altro. Mettiamo quindi in atto un tentativo di dissimulazione.

Il nostro cervello gestisce i movimenti volontari del corpo e quelli involontari (incluse le espressioni) attraverso circuiti diversi: spesso i circuiti che gestiscono i movimenti volontari si attivano successivamente a quelli che gestiscono i movimenti involontari, con il risultato che le contrazioni dei muscoli facciali tipiche di un’emozione si mostrano istantaneamente e involontariamente sul volto. Se quella stampata sulla faccia di una persona che ci sta parlando è un’emozione che non ci vuole mostrare, i circuiti volontari intervengono per rimettere al loro posto tutti quei muscoli che si sono mossi “senza permesso”. Quella che abbiamo appena visto sparire dal volto di chi ci sta davanti viene chiamata “emozione soffocata”.

Nel momento in cui si prova un’emozione, l’organismo si attiva mettendo in atto una serie di reazioni fisiologiche.

L’uso della voce

La comunicazione verbale si basa naturalmente sull’utilizzo della voce, ma quando parliamo utilizziamo anche un sistema di comunicazione non verbale che consiste nel modificare alcune caratteristiche della voce quali tono, volume, ritmo, velocità e intensità. Le emozioni che proviamo sono in grado di determinare delle variazioni sull’uso della nostra voce e queste determinano cambiamenti nella comunicazione.

Il modo in cui ci esprimiamo, infatti, trasmette agli altri molto di più di quello che possiamo comunicare unicamente con l’uso della parola ed è in grado di influenzare le reazioni di chi ci ascolta attraverso l’empatia.

Per esempio, ascoltare una voce calma comunica un senso di sicurezza e aiuta a rilassarsi, viceversa l’ascolto di una voce concitata che utilizza un tono più acuto otterrà l’effetto contrario.

La postura

La postura è una forma di espressione sia somatica che comportamentale, in altre parole è il modo in cui il corpo si pone in relazione con l’ambiente ed è anch’essa il frutto delle informazioni che ci arrivano dai nostri sensi.

Anche attraverso la postura mettiamo in atto una comunicazione non verbale.

Immaginiamo una persona che cammina con le spalle curve, facilmente ci trasmetterà l’idea di essere impaurita o insicura, mentre chi si mostrerà con la schiena e le spalle diritte trasmetterà sicurezza. E così via.

Respirazione e ritmo cardiaco

Le emozioni negative possono essere caratterizzate da indici fisiologici quali, ad esempio, un ritmo cardiaco irregolare con l’effetto di rallentare o addirittura bloccare le funzioni cognitive superiori e quindi la capacità di elaborare le informazioni che ci arrivano dall’esterno.

Sappiamo bene che quando proviamo emozioni quali rabbia o paura possiamo avere grosse difficoltà nel pensare lucidamente e nel prendere decisioni adeguate. Al contrario, emozioni positive possono facilitare le capacità delle nostre funzioni cognitive.

Un ruolo importante spetta anche alla respirazione, pensiamo per esempio a quando sperimentiamo un senso di paura: la nostra respirazione sarà disregolata e questo tenderà a influenzare il metabolismo. Stati emotivi negativi hanno quindi ripercussioni anche sulla salute, arrivando a influenzare la salute fisica.

È possibile ingannare noi stessi?

A volte quando cerchiamo di nascondere un’emozione non c’è solo la volontà di “ingannare” qualcun altro su quello che stiamo realmente provando, ma è con noi stessi che non vogliamo ammettere le nostre emozioni reali e cerchiamo di giustificare la nostra condotta motivandola con una reazione inconsapevole. Ma ne siamo consapevoli o è possibile che il nostro cervello metta in atto delle strategie, a nostra insaputa, per cercare di ingannare anche noi stessi?

Io credo”, ci dice Albanese, “che per quanto spesso nelle conversazioni e negli scritti si sia portati (io per primo) a fare affermazioni del tipo ‘il cervello fa questo… il cervello fa quest’altro…’, quasi attribuendogli un’autonomia decisionale, mi verrebbe da dire ‘di livello superiore’, dicevo, credo che in realtà il cervello sia un esecutore, un meraviglioso e complesso strumento. Il cervello è perfettamente in grado di gestire alla perfezione l’intero corpo umano e le relazioni di questo col mondo, ma per tutto l’aspetto cui si fa cenno, quindi di vissuto emotivo, il cervello non è altro che il substrato fisiologico sul quale poggiano istanze (mi ripeto) ‘di livello superiore’ come la psiche e, di ancor più superiore, la coscienza. Quindi, io credo che il cervello non adotti (e che non sia interessato ad adottare) strategie di alcun tipo. Le strategie sono già un qualcosa che sta più in su. Le strategie sono ciò che mette in atto il guidatore, alla guida dell’auto. Sono ciò che mette in atto la psiche, alla guida del cervello. Poi, che la psiche sia in grado di modificare i pattern neuronali, questo è ovvio. Niente è disgiunto da tutto il resto, quindi è naturale che sia così. Per tutto questo, c’è la psicoterapia, la meditazione, l’onestà intellettuale con se stessi accompagnata dalla voglia di cambiare”.

 

Report del workshop “ACT per il trattamento della vergogna”

Report del workshop “ACT per il trattamento della vergogna” tenuto da J. B. Luoma al convegno ACT Italia 2022. 

 

Nel pomeriggio del 25 novembre 2022 ha avuto inizio il Convegno di ACT Italia dal titolo “Sviluppare contesti nutrienti, pacifici e flessibili”. Il convegno si è aperto con un lungo workshop  chiamato “ACT per il trattamento della vergogna, l’autocritica e lo sviluppo della compassione verso se stessi”, condotto dal dott. Jason B. Luoma, psicologo, psicoterapeuta e peer-reviewed ACT trainer presso il Portland Psychotherapy Clinic, Research and Training Center a Portland (OR).

I quattro sistemi emozionali

Il dott. Luoma ha subito presentato i quattro sistemi emotivi (vedi Figura 1) attivati dal sistema nervoso. Nello specifico:

  • I sistemi attivati dal sistema nervoso simpatico sono il sistema della minaccia e il sistema della ricompensa, entrambi caratterizzati da correlati fisiologici caratteristici di un corpo attivato e in allerta;
  • I sistemi attivati dal sistema nervoso parasimpatico sono il sistema di shutdown e il sistema di sicurezza a livello sociale, correlati a un corpo calmo e lento.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 1

Figura 1. Sistemi emotivi 

Dopo essere entrato nel dettaglio di ciascun sistema, il dott. Luoma ha approfondito l’emozione della vergogna, dividendola in due tipologie: la vergogna leggera e quella più intensa. La prima viene attivata dal sistema nervoso simpatico (in particolare, dal sistema della minaccia) ed è, quindi, correlata a sintomi di arousal e attivazione fisiologica. La vergogna più intensa è, invece, attivata dal sistema nervoso parasimpatico (sistema shutdown) e porta a risposte di “spegnimento”, come la paralisi.

Il ruolo adattivo delle emozioni

Le emozioni si sono evolute perché adattive, quindi non ci sono emozioni intrinsecamente buone o cattive. Dal punto di vista della Contextual Behavioral Science, le emozioni sono modi in cui gli organismi sono organizzati in un determinato momento.

Pertanto, anche la vergogna non è un’emozione negativa di per sé, ma ha un valore adattivo, in quanto si è evoluta a partire da repertori comportamentali che hanno a che fare con la negoziazione della posizione all’interno del branco.

Differenza tra vergogna e colpa

Come ha illustrato il dott. Luoma, la vergogna e la colpa si differenziano per due aspetti: le cognizioni associate e il focus dell’attenzione.

Le cognizioni che sono associate alla colpa sono valutazioni negative del comportamento o delle azioni di una persona; quelle associate alla vergogna sono, invece, valutazioni negative di se stessi. A questo punto il dott. Luoma ha citato l’attrice Brené Brown, la quale in un pezzo per teatro sulla vergogna ha recitato “In guilt I made a mistake. In shame I am a mistake” [nella colpa ho fatto un errore, nella vergogna io sono un errore].

Nella colpa l’attenzione si focalizza su un cattivo comportamento o un danno per una relazione, quindi qualcosa che si può cambiare. Mentre nella vergogna l’attenzione è orientata a un sé che è cattivo o a rischio di ostracismo, ma il sé non si può cambiare.

Gli aspetti motivazionali della vergogna

Nella vergogna ci sono due possibili aspetti motivazionali: la vergogna può spingere a proteggersi, quindi a fuggire e ritirarsi, oppure a un tentativo di riparazione, quindi a cercare un modo per essere una persona buona, rispettata e di valore. L’aspetto riparativo emerge quando la persona riesce a trovare il modo di mettere a riparo la propria immagine di sé e quando l’azione non viene percepita come estremamente difficile. Le persone che cronicamente hanno avuto esperienze in cui questo tentativo di riparazione è stato frustrato, tenderanno a spostarsi sull’altro aspetto motivazionale, quindi quello della protezione.

Il ruolo della cultura nella vergogna

La cultura ha un ruolo importante nella reazione alla vergogna: le culture più focalizzate sull’individuo trovano riparo alla vergogna attraverso la riappropriazione del proprio status sociale, mentre nelle culture più collettivistiche si pone riparo alla vergogna attraverso la rappacificazione e il tentativo di connessione.

Dal momento che è più facile rappacificarsi piuttosto che riguadagnarsi il proprio status sociale, questo fa sì che, nelle culture più focalizzate sull’indipendenza, la vergogna è vissuta con più difficoltà.

La funzione comunicativa della vergogna

Tutte le emozioni hanno una funzione comunicativa, anche la vergogna, che si caratterizza per un modo di manifestarsi abbastanza visibile. Gli indicatori non-verbali della vergogna esposti dal dott. Luoma sono: spalle e petto chiusi, toccarsi il viso, sguardo e viso rivolti verso il basso, inibizione sociale ed evitamento del contatto con gli altri (vedi Fig. 2).

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 2

Fig. 2. Manifestazione non-verbale della vergogna

Quello che viene naturale fare di fronte ai suddetti indicatori non-verbali è avvicinarsi e dare sostegno. Se la vergogna viene mostrata nei contesti giusti, può quindi ricevere come risposta il sostegno e la cooperazione. Se si manifesta, invece, in contesti non adatti, può creare problemi.

Il segnale comunicativo della vergogna è quindi quello di mostrare consapevolezza di aver danneggiato il proprio status sociale o di aver violato alcune norme importanti, con la funzione di riparare le tensioni tra ruoli sociali.

A questo punto, il dott. Luoma ha proposto un’esercitazione che consisteva nel contattare un’esperienza personale in cui si è provata vergogna, compilando un foglio di lavoro e poi discutendo in piccoli gruppi su quali sono stati, in quell’occasione, i cue che hanno attivato la vergogna, su quali impulsi, pensieri e comportamenti sono emersi, su quale sistema emotivo si è attivato (vedi Fig. 1) e sull’utilità di compilare questionari simili con pazienti bloccati nella vergogna.

Intervenire sulla vergogna in terapia

La seconda parte del workshop si è focalizzata sull’intervento diretto sulla vergogna in psicoterapia. Il dott. Luoma ha delineato le fasi dell’intervento:

  • Concettualizzazione del caso;
  • Costruzione della sicurezza a livello sociale;
  • Lavorare sull’autocritica;
  • Lavorare sulla vergogna.

Concettualizzazione del caso

Il primo passo consiste nel depotenziare la vergogna (deblaming) attraverso la psicoeducazione e la costruzione della consapevolezza della vergogna e dell’autocritica. Questo passaggio consente poi di co-costruire una concettualizzazione del caso condivisa. I quattro domini della concettualizzazione del caso sono:

  • comprendere il pattern funzionale;
  • costruire una narrativa validante;
  • identificare le risorse di sicurezza a livello sociale;
  • valutare e monitorare il cambiamento.

Costruzione della sicurezza a livello sociale

Entrando nel vivo dell’intervento, il primo aspetto da trattare è proprio l’attivazione del sistema di sicurezza a livello sociale. Per farlo, ci sono due possibili vie, descritte dal dott. Luoma:

  • attraverso gli altri: appartenenza (belongingness);
  • attraverso sé stessi: auto-compassione (self-compassion) e gentilezza orientata verso di sé.

Questi aspetti non hanno solo a che fare con delle emozioni, ma costituiscono dei veri e propri comportamenti. Dal punto di vista ACT, infatti, le emozioni sono comportamenti.

A questo proposito, la differenza tra gentilezza e compassione è che la prima è definita dal fare del bene a qualcuno, senza aspettarsi niente in cambio; la seconda costituisce la risposta alla sofferenza dell’altro e, insieme, il desiderio di aiutarlo. In un certo senso, afferma il dott. Luoma, la compassione è ciò che nasce dall’incontro della gentilezza con la sofferenza.

Lavorare sull’autocritica

Per quanto riguarda la seconda fase dell’intervento, il lavoro sull’autocritica viene svolto attraverso un dialogo, all’interno della persona, tra due interlocutori (self-to-self relating): uno che critica e l’altro che ascolta queste critiche.

In questa fase, si sviluppa la consapevolezza relativamente all’autocritica e alla vergogna nella vita quotidiana e una sensibilità ai loro effetti, utilizzando un linguaggio che facilita la perspective taking (voci, parti, conversazione, etc.). Inoltre, si promuove la defusione dal pensiero o dalla prospettiva autocritica.

Lavorare sulla vergogna

Nell’illustrare l’ultima fase dell’intervento, ossia il lavoro diretto sulla vergogna, il dott. Luoma ha riportato due citazioni toccanti: una dello psicologo Les Greenberg, fondatore dell’Emotion-Focused Therapy: “You can’t leave some place until you arrive.” [non si può lasciare un posto finché non si è arrivati]; l’altra della scrittrice A. M. Lindbergh (vedi Fig. 3) “Non credo che la pura sofferenza insegni. Se la sola sofferenza insegnasse, tutto il mondo sarebbe saggio, perché ogni persona soffre. Alla sofferenza bisogna aggiungere l’elaborazione, la comprensione, la pazienza, l’amore, l’apertura e la disponibilità a rimanere vulnerabili”.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 3

Fig. 3. Citazione sul dolore di A. M. Lindbergh

Queste riflessioni assumono significato nel contesto dell’intervento sulla vergogna dal momento che l’obiettivo è quello di aiutare i pazienti a mettersi in contatto con la vergogna, a stare con essa, allo stesso tempo portando altre prospettive per aiutarli ad apprendere nuovi modi di affrontarla. Nell’intervenire sulla vergogna, bisogna tenere in considerazione che esistono due tipi di vergogna:

  • una vergogna primaria, derivante da eventi che hanno causato vergogna;
  • una vergogna secondaria, derivante dall’autocritica e risultato del disprezzo o disgusto verso se stessi.

La tecnica del chairwork

Infine, dopo aver delineato le modalità di intervento specifiche per ciascun tipo di vergogna, il dott. Luoma ha approfondito il chairwork, quale tecnica per l’esposizione e l’assunzione di una prospettiva maggiormente flessibile (vedi Fig. 4). Tale tecnica consiste nel disporre fisicamente tre sedie nella stanza: una dedicata al sé autocritico, una al sé vulnerabile, e una a un sé osservatore e compassionevole. Il cambio “fisico” di posizione da una sedia all’altra facilita l’assunzione di una prospettiva differente da quella a cui il paziente è abituato, favorendo l’abilità di notare cosa cambia da una prospettiva all’altra.

ACT per il trattamento della vergogna Il workshop del Dott J B Luoma Fig 4

Fig. 4. La tecnica del chairwork

 

Mal di testa: qual è il ruolo della psiche?

La manifestazione del mal di testa segue un processo multifasico sequenziale in quanto già a partire dalle 24 ore antecedenti dal dolore possono manifestarsi sintomi vaghi come la stanchezza, l’irritabilità, la deflessione del tono umorale, lo sbadiglio e la perdita di appetito.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

Il mal di testa, definito in medicina con il termine cefalea, rappresenta un’esperienza genericamente condivisa da tutti. La manifestazione del dolore può interessare diverse zone della testa o la parte superiore del collo. Alle volte compare occasionalmente, ma spesso può risultare invalidante per le sue caratteristiche di persistenza, al punto da investire sfere significative della vita. La patologia è impattante sia per ciò che riguarda i costi diretti legati alle indagini e alle cure adoperate per farne fronte, sia per i costi indiretti ravvisabili nelle conseguenze della problematica stessa. A tal proposito molto spesso vengono messi in atto degli evitamenti nel contesto sociale e lavorativo che chiaramente rappresentano un aspetto piuttosto inficiante per la persona. Il mal di testa diventa invalidante quando le crisi si protraggono nel tempo trasformandolo in cronico (>15 giorni al mese da almeno 3 mesi). Infatti, ad essere coinvolti, sono anche gli aspetti legati alla sfera cognitiva, emotiva e comportamentale, che inevitabilmente impattano sulla qualità della vita. Basti pensare alla componente ansiosa legata alla possibilità che si verifichi un attacco di emicrania, che a sua volta concorre ad apportare delle modifiche psicosociali, innescando un circolo vizioso della sofferenza. In tal modo, anche le attività quotidiane routinarie vengono portate avanti con difficoltà, lasciando tracce di insoddisfazione e senso di inadeguatezza, vissuti che impoveriscono le connessioni sociali ed affettive. Dall’intrecciarsi di questi fattori scaturisce una potenziale insorgenza di disturbi ansiosi e depressivi, ulteriore aggravio nella sfera personale dell’individuo.

La WHO (World Health Organization) ha stabilito che l’emicrania, da sola, è al diciannovesimo posto tra le cause di disabilità mondiale.

Nel dettaglio, i dati dimostrano che:

  • il 90% delle persone riporta un attacco di dolore alla testa almeno una volta nella vita;
  • il 15% della popolazione presenta dolore almeno una volta al mese;
  • il 4% delle persone per circa 15 giorni al mese
  • mentre l’1-2% presenta dolore quotidianamente (Bussone, G., et al., 2017).

Vetvik e MacGregor dimostrano che nel genere femminile il dolore alla testa si presenta in forma più marcata, sia in termini di intensità sia in termini di durata.

Il dolore alla testa è un sintomo aspecifico del sistema nervoso, che può avere molte cause, al momento non del tutto note. Esso, che è definito dall’International Association for the Study of Pain come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale effettivo o potenziale; svolge una funzione importante nella protezione del nostro corpo, coinvolgendo aspetti sensoriali legati all’iperstimolazione nocicettiva.

È opportuno considerarlo come un fenomeno multidimensionale ed è senz’altro un’esperienza soggettiva per cui non tutte le persone reagiscono nello stesso modo allo stesso dolore. Alcuni rispondono intensamente anche ad una manifestazione leggera, mentre altri possono sopportare un dolore tremendo prima di dare il minimo segno di reazione. Ciò dipende non tanto da differenze nella sensibilità dei recettori dolorifici, quanto da differenze nella costituzione psichica della persona. La multidimensionalità del dolore è dettata dalla componente percettiva-quantitativa, che ne definisce la durata, l’intensità e la localizzazione; dalla componente emotiva che lo designa come un’esperienza spiacevole; dalla componente comportamentale che determina la reazione alla sofferenza; e da una componente cognitiva capace di modificare la percezione del dolore e i comportamenti conseguenti ad esso.

La manifestazione del mal di testa segue un processo multifasico sequenziale in quanto già a partire dalle 24 ore antecedenti dal dolore possono manifestarsi sintomi vaghi come la stanchezza, l’irritabilità, la deflessione del tono umorale, lo sbadiglio e la perdita di appetito. Successivamente, durante l’attacco vero e proprio, che può durare dalle 4 alle 72 ore, emerge la percezione del dolore, accompagnata da sintomi vegetativi come la nausea e il vomito. Tali manifestazioni costringono spesso il soggetto ad una ipersensibilizzazione ai rumori e alle luci, che lo costringono all’isolamento. Segue, in successione, una fase post dromica, della durata di 24-48 ore, caratterizzata da insofferenza, spossatezza e abbassamento dell’umore. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 30% dei soggetti, la fase dolorosa è preceduta dalla cosiddetta aura, cioè da un sintomo neurologico focale riconducibile a disturbi del campo visivo, alterazioni della sensibilità a un arto superiore e alla corrispondente metà del volto, difficoltà a convertire il pensiero in parole, che dura mediamente 20-30 minuti, dissolvendosi poi con la comparsa della fase dolorosa.

Nonostante rappresenti la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante del genere umano secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), appare persistere un gap culturale che tende a sottovalutare e sotto trattare tale problematica.

Con l’obiettivo di apportare maggiore chiarezza sulle tipologie, dal 1988 l’International Headache Society (IHS) ha redatto un sistema di classificazione internazionale delle cefalee (Olesen J, et al.,2013). La prima classificazione distingue due macrocategorie: le cefalee primarie e le cefalee secondarie. Le prime sono definite dalll’IHS, come una forma che si manifesta in assenza di qualsiasi altra patologia, non sono determinate da un’unica causa ma rappresentano la risultante dell’interazione tra predisposizione genetica, cause endogene, fattori scatenanti.

Cefalee primarie e secondarie

Le cefalee primarie sono molto frequenti e possono essere distinte in:

  • Emicrania (con aura o senza aura): caratterizzata da attacchi di dolore che colpiscono un emilato del capo, in particolare la regione fronto-temporo-oculare (Vgontzas A., Burch V., 2018). Tende ad esordire lentamente e ad essere di natura pulsante. Il mal di testa può anche manifestarsi ad entrambi i lati del capo e l’intensità della sua espressione può aumentare con il movimento. Alla radice di questa tipologia di mal di testa può essere presente una multifattorialità che può implicare la componente psicologica e neuropsicofisiologica. Altri fattori possono rappresentare la causa scatenante e possono riguardare l’aspetto ormonale (emicrania mestruale), le variazioni stagionali e climatiche, le improvvise esposizioni alla luce, l’assunzione di particolari sostanze alimentari o additivi. Inoltre, l’uso di contraccettivi orali, vasodilatatori e antiipertensivi può rappresentare una concausa di un attacco emicranico. Infine, la qualità dello stile di vita può essere determinante e contribuente in tal senso; ad esempio, l’insonnia, l’ipersonnia, il fumo, l’uso di sostanze, l’alimentazione inadeguata sono fattori che favoriscono lo sviluppo di un attacco emicranico.
  • Cefalea di tipo tensivo: è la forma relativamente meno dolorosa di cefalee ed è più comune in quanto la sua prevalenza è stimata al 30-70%. Il dolore, bilaterale, costrittivo e localizzato nella zona occipitale, viene descritto come “un cerchio alla testa”. Verosimilmente deriva dall’involontaria contrattura della testa in associazione ad una condizione di rigidità e tensione muscolare che ne acutizza sofferenza. Vi è una netta correlazione tra cefalea tensiva e stress, manifestazioni ansiose con umore deflesso ma rimane incerto il nesso causale. (Pérès R., Roos C.& Jouvent E., 2019). Diversamene dall’emicrania questa tipologia di sofferenza sembra inficiare meno la normale vita quotidiana del paziente. Il disturbo è solitamente più comune nel sesso femminile.
  • Cefalea a grappolo: il temine fa riferimento alle crisi che si verificano in determinati periodi dell’anno (in particolare nei cambiamenti climatici: autunno e primavera), separati da intervalli con assenza di crisi. Viene descritta dall’Istituto Superiore di Sanità come la forma meno comune, ma la più severa, in quanto è caratterizzata da un dolore lancinante di tipo trafittivo. Il mal di testa è quasi sempre unilaterale e rimane tale per tutta la durata dell’episodio, che dura dai 15 minuti alle 3 ore. I sintomi sono avvertiti perlopiù nel lato della testa colpito dal dolore e si esprimono sottoforma di arrossamento congiuntivale, lacrimazione dell’occhio, gonfiore o abbassamento della palpebra, restringimento della pupilla, rinorrea e congestione nasale. A differenza dell’emicrania, la cefalea a grappolo non si accompagna quasi mai a nausea o vomito ma ad agitazione psicomotoria a causa del dolore.

Le cefalee secondarie possono rappresentare un sintomo aspecifico in quanto derivano da altre condizioni patologiche. Risultano essere quindi una delle manifestazioni della patologia primaria di cui il paziente soffre riconducibile ad ischemia, aneurisma, meningite, emorragia cerebrale, tumori cerebrali, traumi cranici, assunzione di sostanze, infezioni virali o batteriche, etc.

Cefalea e disturbi psichiatrici

Gli aspetti psicopatologici dell’emicrania rappresentano da molto tempo un tema di grande interesse nell’ambito della ricerca scientifica. Negli anni ’50, Wolff è stato uno dei primi autori ad occuparsi della correlazione tra cefalea e personalità e ha riscontrato come rigidità, nevroticismo, perfezionismo ed ambizione fossero pattern caratteriali molto comuni nei pazienti emicranici, considerando la cefalea come una conseguenza dell’inibizione della propria aggressività.

È stata, quindi, dimostrata l’esistenza di un’associazione tra emicrania e disturbi psichiatrici, causata dall’interazione di differenti fattori genetici e ambientali.

Nella pratica clinica appare dunque rilevante definire la natura tra questo legame al fine di una più corretta identificazione diagnostica e di una maggiore comprensione relativa alla risposta al trattamento terapeutico.

La depressione e l’ansia sono fattori pisco-emotivi spesso associati alle cefalee e agiscono come fattori stressor, per cui necessitano di particolare attenzione.

A tal proposito, recenti studi epidemiologici mostrano che gli emicranici hanno un rischio da 2 a 4 volte maggiore di sviluppare depressione rispetto ai soggetti non emicranici. I sistemi serotoninergico e dopaminergico, l’asse ipotalamo ipofisi surrene, lo stress e alcuni tratti di personalità giocano un ruolo centrale nel legame esistente tra emicrania e depressione maggiore. Alcuni studi di neuroimaging hanno accertato la presenza di alterazioni strutturali e funzionali a carico di aree cerebrali deputate alla modulazione del dolore, nello specifico nell’amigdala e nella corteggia cingolata anteriore. La depressione sembrerebbe, tuttavia, essere legata alla forma di emicrania con aura rispetto a quella senza aura. Nei pazienti depressi, inoltre, i sintomi emicranici, inclusi osmofobia (maggiore sensibilità e intolleranza a certi odori durante gli attacchi di mal di testa) e allodinia (impulso doloroso sentito dalla persona in seguito a uno stimolo innocuo), sembrano essere positivamente correlati con una maggiore gravità dei sintomi depressivi. È stato inoltre dimostrato che i pazienti depressi rispondono in misura minore ai trattamenti antiemicranici.

Relativamente al disturbo bipolare, dai risultati della ricerca effettuata da Gordon-Smith K, Forty L, Chan C, et al si evince un rischio due volte più elevato di sviluppare tale disturbo per i pazienti emicranici rispetto ai pazienti non emicranici e che l’emicrania è correlata a fattori prognostici negativi quali episodi depressivi più gravi, cicli più rapidi e insorgenza precoce.

Anche per i disturbi d’ansia è stata verificata una correlazione, sembrerebbe infatti che la prevalenza del disturbo aumenti con la frequenza dell’emicrania. L’abuso di farmaci e la presenza di sintomi depressivi giocano un ruolo importante in quanto ne rafforzano la comorbilità. Infatti, di fronte alla compresenza di emicrania, depressione e ansia i pazienti presentano un’emicrania di grado più severo e rispondono in misura minore al trattamento. Ciò può scaturire un aumentato rischio di abuso di farmaci per il mal di testa.

Dal punto di vista neurobiologico, tra i disturbi d’ansia e l’emicrania, esistono meccanismi che reggono il loro rapporti e sono rintracciabili nell’alterazione dei sistemi dopaminergico e serotoninergico, nelle fluttuazioni ormonali ovariche e nei cambiamenti nel volume dell’ippocampo. Oltretutto, l’ansia potrebbe influenzare direttamente la sintomatologia emicranica attraverso l’azione sui nuclei del talamo che trasmettono il segnale di dolore.

In definitiva, il dolore coinvolge la componente affettiva attraverso i vissuti negativi di ansia e depressione, che possono rappresentare le cause psicologiche o psicosomatiche del mal di testa, ma anche elementi che contribuiscono al peggioramento dello stesso, attribuendogli un’interpretazione erronea con ulteriore preoccupazione. Anche dal punto di vista cognitivo, molti processi coinvolti nel vissuto del mal di testa, includono pensieri credenze, attribuzioni di significati che definiscono e influenzano l’atteggiamento adottato, a sua volta di fondamentale importanza perché determina il modo con cui si affronta il mal di testa  il grado di aderenza al trattamento farmacologico. Questo sistema di credenze è alla base dei comportamenti adottati che, se funzionali, sono in grado di ridurre la probabilità di ulteriore attacco emicranico.

Emicrania e stress

Una significativa percentuale di pazienti con emicrania riconosce lo stress come fattore precipitante il proprio mal di testa.

Ma cos’è lo stress?

Di fronte a compiti, difficoltà o eventi di vita considerati eccessivi o pericolosi è possibile avvertire una forte pressione mentale ed emotiva. Gli stressor possono essere rilevati negli eventi di vita sia di carattere positivo, come il matrimonio, la nascita di un figlio, un trasloco o un successo lavorativo sia di connotazione negativa, come la perdita di una persona cara, un divorzio o una malattia. Inoltre possono rappresentare potenziali fattori stressogeni i fattori ambientali come i cambiamenti climatici, le catastrofi naturali e la pandemia di Covid-19; eventi imprevisti; situazioni sociali e lavorative come un eccessivo carico di lavoro, scadenze urgenti, relazioni conflittuali; fattori biologici ravvisabili in malattie, traumi fisici o disabilità fisica. Esistono anche fattori interni, ravvisabili nelle paure (timori di fallire in un compito, di parlare in pubblico..); nelle situazioni che non possono essere sotto il nostro controllo, quindi per natura imprevedibili e, più in generale, nel personale sistema di costrutti.

Tale reazione, meglio conosciuta come “stress” è la risposta psicologica e fisiologica che il sistema nervoso autonomo mette in atto. Lo stress presuppone capacità di adattamento da parte del soggetto che lo sperimenta e può essere positivo, “eustress”, quando lo stimolo fa da sprone per affrontare le sfide favorendo l’espressione delle risorse personali, ma può essere anche negativo, “distress”, quando gli stressor  producono un deterioramento progressivo delle risorse psicofisiche.

La reazione di stress attivata è finalizzata ad avviare dei cambiamenti nell’organismo, vantaggiosi al fine di fronteggiare il pericolo in vista. Tuttavia, nonostante l’utilità nel breve periodo, la costante e ripetuta attivazione può risultare difficile per il corpo, producendo sintomi secondari indesiderati poiché favorisce un’alterazione funzionale e strutturale nelle reti cerebrali. Di conseguenza, di fronte al cosiddetto carico allostatico, il cervello è tenuto a rispondere in maniera anomala alle condizioni dettate dagli stressor interni o esterni, provocando il noto mal di testa.

Rimedi e trattamenti per il mal di testa

Essendo l’emicrania un disturbo multifattoriale, è opportuno valutare per la sua profilassi, strategie di trattamento appropriate per il singolo paziente, specie a fronte della componente psicologica soggettiva. A tal proposito, oltre ai trattamenti farmacologici, ha portato a risultati positivi l’adozione di uno stile di vita sano, che comprende l’esercizio quotidiano, l’alimentazione equilibrata e una migliore igiene del sonno. Di fronte allo stress, la risposta di rilassamento risulta essere un metodo efficace per calmare la reazione fisiologica del corpo e consiste nell’applicazione volontaria di azioni volte a regolare e gestire gli stati emotivi attivanti e alleviare la tensione, riequilibrando lo stato psicofisico. Le tecniche di rilassamento sono numerose, ma le principali e più utilizzate sono il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e il training autogeno di Schultz.

Nello specifico, per la cefalea tensiva cronica e l’emicrania, si è rivelato efficace il biofeedback, finalizzato alla riduzione dei sintomi dolorosi. Tale metodo rende possibile aumentare consapevolezza e gestire gli indici fisiologici che hanno uno stretto legame con il dolore (tensione muscolare, temperatura cutanea periferica, frequenza cardiaca..).

Dalla letteratura emerge che gli esiti ottenuti con il biofeedback rivaleggiano con gli esiti della terapia farmacologica e che combinazione del biofeedback con un’opportuna terapia farmacologica può migliorare i risultati. Nonostante l’efficacia in molti pazienti, il biofeedback non riesce a portare un sollievo significativo a un numero considerevole di pazienti con cefalea.

Questo approccio è risultato utile specificatamente per le persone che presentano intolleranze ai farmaci, per le donne in gravidanza o in allattamento o in tutte le situazioni dove si riscontra una scarsa efficacia del trattamento farmacologico.

In conclusione, al fine di gestire efficacemente lo stress correlato all’emicrania ed i fattori causali che la provocano, la terapia cognitivo comportamentale risulta efficace per identificare e modificare risposte comportamentali errate, che possono peggiorare l’attacco emicranico.

PTSD, Sonno e Performance nella realtà militare

Il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), il trauma da lesione cerebrale (TBI) e i disturbi del sonno sono molto diffusi nella realtà militare e nei veterani. 

 

In molti casi queste condizioni mediche sono correlate e si potrebbero sovrapporre contribuendo a una esponenziale diminuzione delle prestazioni.

In questo articolo il concetto di prestazione viene prevalentemente affrontato in un’ottica cognitiva, ma comprende anche il dominio sociale e fisico e viene messo in relazione con il Disturbo da Stress Post Traumatico.

Gli effetti della deprivazione di sonno

Numerose ricerche hanno evidenziato infatti che la capacità di discriminare un amico da un nemico, un bersaglio militare o un uomo armato è fortemente influenzata da quanto il soggetto è in uno stato di deprivazione del sonno (Shay J et al., 1998); è scientificamente provato che dopo 96 ore la lucidità dei soggetti perde attinenza con la realtà (Alhola P et al., 2007).

Un accumulo di poche ore di sonno contribuisce a un aumento immediato e duraturo dei livelli di cortisolo e porta alla cronicizzazione dello stress fisiologico e psicologico contribuendo a infiammare il tessuto cerebrale. Un alterato stato psico-fisiologico porta a una diminuzione della resilienza e della neuro-protezione, che fa crescere i livelli di insorgenza e comorbilità con PTSD e trauma da lesione cerebrale.

Le alterazioni del sonno tra i militari

Due studi svolti su larga scala hanno evidenziato che su una popolazione di soldati, il 72% e il 69% del personale dorme meno di 6 ore a notte (Mysliwiec et al., 2013); la durata del sonno risente altamente del numero di esposizioni al combattimento e delle lesioni correlate all’addestramento; infatti, i soldati riportano di dormire meno di 5 ore a notte (Luxton DD et al., 2011). In una indagine più recente, relativa alle misurazioni del sonno su una popolazione di 6118 militari, è emerso che il 57% di soldati riferisce di avere un sonno molto disturbato, che dipende anche dal tipo e dal numero di missioni in cui è coinvolto (Harrison et al., 2017). È comune dunque uno stato di privazione del sonno (TSD), una restrizione cronica del sonno (CSR), il disallineamento dei ritmi circadiani e la frammentazione del sonno (Capaldi et al., 2019).

Alcuni studi recenti riguardanti l’imaging cerebrale hanno dimostrato che la salute neuro-fisiologica si recupera in minima parte dopo la perdita di sonno, sia per quanto riguarda la privazione del sonno che per la restrizione cronica del sonno (Shokri-Kojori et al., 2018).

Conclusione

La comprensione di questo tipo di funzionamento nel settore militare può contribuire allo sviluppo di nuove strategie personalizzate ed efficaci per la gestione di questo tipo di problematiche. Sono ancora necessarie ulteriori ricerche di approfondimento che coinvolgano a pieno la performance militare.

 

Il vantaggio della curiosità (2021) di Francesca Luzzi – Recensione

Cos’è la curiosità e come funziona una mente curiosa? Ce lo spiega la Dott.ssa Francesca Luzzi, psicologa e psicoterapeuta, nel suo libro Il vantaggio della curiosità. Come funziona la mente curiosa e perché è necessario averne cura per vivere al meglio

 

L’aspetto più curioso e straordinario della parola “curiosità” è il fatto che, etimologicamente, derivi dal latino “cura”, intesa come premura, sollecitudine, riguardo. Trovo questo davvero meraviglioso: chi è curioso è quindi colui o colei che, principalmente, si prende cura di qualcosa, lo ha a cuore, custodendolo nella parte più intima di sè. La curiosità è quindi intesa come attitudine a realizzare che dietro l’esperienza e l’informazione sta il calore della conoscenza, così come dietro alla cura di ogni progetto sta l’amore (Luzzi, 2021, p. XI).

Questo è un pensiero contenuto all’interno dell’ultimo libro della collega Francesca Luzzi, psicologa e psicoterapeuta, dal titolo “l vantaggio della curiosità. Come funziona la mente curiosa e perché è così necessario averne cura per vivere al meglio che mette in risalto l’importanza di coltivare una mente curiosa nell’adulto, quanto nel bambino.

Il testo, scritto in modo chiaro e accurato, descrive e approfondisce il tema della curiosità ad ampio raggio, sia da un punto vista della funzione neurologica che psicologica per l’essere umano.

Oltre a ciò, l’autrice fornisce interessanti spunti di riflessione e suggerimenti pratici per allenare una mente curiosa. Per esempio praticare la perseveranza sia rispetto a un compito che a un obiettivo da perseguire ma anche di fronte a possibili fallimenti, porsi domande e non assumere un atteggiamento passivo nei confronti della vita, allenare la flessibilità mentale, leggere tanto e se possibile viaggiare, uscire dalla “comfort zone” e meditare.

A completamento dell’originalità del testo, a partire dal sesto capitolo intitolato Dizionario (base) di un curioso, si trova un elenco di termini distribuiti in ordine alfabetico, descritti e argomentati dall’autrice in maniera molto precisa.

Quali termini?

Perché proprio quei termini?

Qual è il senso di questa seconda parte del testo?

Possibili quesiti che potrebbero nascere al potenziale lettore del testo, ma che mi riservo volontariamente di svelare, d’altronde stiamo parlando di un testo che innalza la curiosità e spero anch’io di averla fatta nascere in riferimento al libro in questione che ritengo meritevole di attenzione sia per gli addetti ai lavori che non.

Fobia scolare: campanelli d’allarme e strategie di intervento – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo “Fobia scolare: campanelli d’allarme e strategie di intervento”.

 

Con i termini “Fobia scolare”, “Fobia scolastica” o “Rifiuto scolastico” si indica una condizione di paura ed intenso disagio caratterizzata da un atteggiamento di opposizione o resistenza nei confronti dell’ambiente scolastico da parte di un bambino o di un adolescente. La fobia scolare esordisce con maggior frequenza in concomitanza con i passaggi di ciclo scolastico: agli inizi della scuola primaria, della scuola secondaria di primo o di secondo grado, in relazione ai timori connessi all’adattamento al nuovo ambiente, ai nuovi compagni ed insegnanti ed alle crescenti richieste scolastiche. Nelle più precoci fasi dell’età evolutiva, il rifiuto scolare rappresenta una delle più comuni manifestazioni di Disturbo d’ansia di separazione. Nelle successive fasi dello sviluppo è più spesso legata alla preoccupazione relativa alla prestazione scolastica e si caratterizza per un’elevata paura di sbagliare, di ricevere voti negativi, di deludere le aspettative dei genitori e di fare una brutta figura davanti ai compagni. In alcuni casi al rifiuto scolare si associa o fa seguito un progressivo isolamento sociale, che compromette significativamente il funzionamento globale dell’adolescente, configurando un quadro clinico che richiede spesso un intervento intensivo e multidisciplinare. È evidente come la fobia scolare differisca di gran lunga dalle situazioni di assenza ingiustificata da scuola e richieda pertanto di essere tempestivamente riconosciuta e trattata.

La terapia cognitivo-comportamentale si è rivelata efficace nel ridurre l’intensità della sintomatologia ansiosa e nel favorire la graduale ripresa della frequenza scolastica. La Scuola, unitamente alla famiglia, riveste un ruolo fondamentale nel percorso di cura di bambini e adolescenti con fobia scolare.

Terapeuti al lavoro: fobia scolare

L’episodio parla di Fobia scolare sotto il profilo epidemiologico, clinico ed eziopatogenetico, con particolare riguardo alle diagnosi differenziali e/o alle eventuali comorbidità, in modo tale da apprendere come orientarsi nella fase di assessment. Sono inoltre illustrati i principiali fattori prognostici e i principali interventi terapeutici applicabili. Si parla infine dell’importanza del coinvolgimento della Scuola a livello preventivo e di prevenzione delle ricadute.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Silvia Chiaro, Medico specialista in Neuropsichiatria Infantile, abilitata all’esercizio della Psicoterapia. Allieva del Training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale di Studi Cognitivi.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Emozioni, queste sconosciute! Recensione di “Abitarsi. La psicantria delle emozioni” 

Un’esplorazione cantata dell’animo umano: così recita il sottotitolo del libro-cd “Abitarsi. La psicantria delle emozioni”, quarta opera degli “Psicantria” – al secolo Cristian Grassilli e Gaspare Palmieri, psicoterapeuti e cantautori di psicopatologia cantata, che con “quel po’ di follia” e passione da diversi anni ormai ci allietano con la loro fantasia, da sempre fedelmente accompagnati dall’arte musicale di Lorenzo Mantovani. 

 

Molto spesso le persone che abitano i nostri studi professionali arrivano analfabete da un punto di vista emotivo. Ci accorgiamo sin da subito che le emozioni non sono nominate, riconosciute, distinte, integrate; spesso sono tenute strette o al contrario saltano fuori in maniera disregolata. Il nostro lavoro spesso comincia proprio da un viaggio di esplorazione del loro mondo emotivo e il lavoro che adesso presentiamo chissà che non possa rappresentare – come gli autori stessi si propongono – uno strumento di facilitazione per affacciarsi nel mondo delle emozioni, avvicinandosi con melodie leggere, che riescono a far vibrare corde interiori profonde, capitolo dopo capitolo, traccia dopo traccia.

La Psicantria è un progetto nato nel 2010 e sin dalla sua genesi si è posto come obiettivo quello di rendere lo “psicomondo” conoscibile attraverso la musica. Sono nati così “La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata” (2011), “Psicantria della vita quotidiana. Fenomeni psicosociali cantati” (2014), “Neuropsicantria infantile” (2018), tutti lavori editi dalla casa editrice La Meridiana.

La canzone si fa ponte per condurre chi ne fruisce verso una nuova consapevolezza di sé e del proprio mondo interno; crea empatia e partecipazione, aiuta a sdrammatizzare il tabù della malattia mentale e condividere, per abbattere sospetto e diffidenza, come osservava Guccini nell’introdurre l’opera prima del progetto psico-musicale dei nostri amici. Questo l’obiettivo, ampiamente superato.

La cura si pone così tra arte e scienza, cuore e cervello, parole e note. E gli autori lo sanno fare bene, perché lo fanno con un’anima pulita, vera, con dolce ironia, alta responsabilità e un immenso rispetto umano, oltre che professionale. Con loro abbiamo dissipato dubbi e differenze tra le diverse professionalità di cura; col sorriso abbiamo riguardato quadri di personalità e addolcito le amare sofferenze dei nostri pazienti, come l’anoressia, la depressione, l’ipocondria, le tendenze suicidarie. Abbiamo sviscerato alcuni fenomeni psicosociali del nostro tempo, quali i cambiamenti familiari, l’avvento della tecnologia digitale, il bullismo, il paradossale stress da vacanze. Abbiamo colorato con la musica la sofferenza emotiva infantile e approcciato con ironia il misterioso mondo della mindfulness; con impegno è stato da loro difeso il lavoro di Franco Basaglia, a 40 anni dall’apertura di “quei cancelli” e il superamento del pregiudizio verso quel fratello un po’ “matto”. Tutto questo senza dimenticare mai di aver specialmente cura di noi.

E così siamo giunti, oggi, a questo condominio di emozioni. Le prime note ci invitano a entrare in una casa “senza scuri né pareti”, metafora riuscita della nostra dimora interiore. E come un tour, giriamo tra piani, stanze, corridoi, solchiamo pavimenti, accendiamo luci, esploriamo arredamenti. L’invito è quello di imparare ad abitarsi e ad abitare le nostre emozioni. Accomodiamoci, perché da qui in avanti ha inizio un viaggio intenso tra “paesaggi sorprendenti”, uno per ogni capitolo/traccia.

Troviamo il coraggio, “tra i versi di una canzone”; scopriamo che “ci si può vergognare, senza scomparire”, che “la paura può salvarti la vita”, che c’è una rabbia che sale, che “senti nella pancia” o che ci può essere una “rabbia sana”, o ancora che la rabbia, se ne trovi la causa, puoi disinnescarla. Dopo alcune emozioni primarie, gli autori si spostano su due grandi sentimenti, l’amore e l’odio: ci mostrano come sia possibile diventare amici di noi stessi o quanto purtroppo sia facile odiare. In punta di piedi, arriva poi la “canzone gentile”, che con “il suo ritornello può farti da ombrello” e che ci trasporta verso alcune emozioni secondarie, “più complesse e nobili”, come gli stessi autori le descrivono. Ed ecco, quindi, l’invidia, che si insinua a suon di clavicembalo; la gratitudine, che rende tutto quanto “un po’ meno scontato”. E così, nota dopo nota, con pazienza ci si avvia alla fine, “basta andare a passo di danza, finché c’è musica, c’è speranza”!

Un lavoro che scalda le case in cui risuona e i cuori di chi le abita; un lavoro potente, arricchito da diversi contributi di altrettanti autori, tutti fan degli Psicantria, che raccontano del tema a ciascuno assegnato in maniera incarnata, vissuta, sentita. Un valore aggiunto per un’opera già preziosa e di conforto, che mira a rendere piacevolmente navigabile il grande mare –sconosciuto e temuto– delle emozioni.

Gli autori tengono il timone con gentilezza, ma con fermezza. A voi lettori non resta che spiegare le pagine, premere play, respirare e tuffarvi.

Cari psicantrici, la nostra gratitudine va al vostro coraggio!

ABITARSI – Guarda il video:

 

Stress e burnout nei dottorandi in psicologia

Dalla letteratura precedente (Rummell, 2015) sembra emergere che i livelli di stress e il burnout tra i dottorandi in psicologia siano più alti che nella popolazione generale, ma è veramente così?

 

La letteratura sul burnout tra i dottorandi in psicologia

Gli studenti di dottorato in psicologia (Psychology Doctoral Students; PDS), secondo la letteratura precedente (Myers et al., 2012), sperimentano alti livelli di stress; è stato infatti riportato che il 75% di questi si percepiscono da moderatamente a molto stressati a causa delle attività di formazione (Cushway, 1992). Più recentemente, uno studio di Rummel riporta che, coerentemente con quanto affermato nella letteratura precedente, i dottorandi in psicologia tendono a sperimentare maggiori livelli di stress rispetto alla popolazione generale (Rummell, 2015). Ad oggi però, la ricerca sul burnout e i livelli di stress tra i dottorandi in psicologia è molto limitata. Infatti, in letteratura, non sono presenti studi che hanno confrontato direttamente dati sullo stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale. Per questo motivo, il seguente articolo ha lo scopo di colmare una lacuna presente nella letteratura relativa al burnout e allo stress negli studenti di dottorato in psicologia, con un duplice obiettivo: da una parte, confrontare i livelli di stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale; dall’altra, esaminare i livelli di stress e di burnout tra i dottorandi in psicologia, specificando l’anno accademico di appartenenza (Rico & Bunge, 2021).

In questo ambito è necessario sottolineare che non tutto lo stress è problematico. Infatti, è quello duraturo e non trattato che spesso può portare al burnout (Maslach et al., 2001) e interrompere il funzionamento cognitivo e fisico (Garrett, 2010). Nelson e colleghi, in uno studio precedente, riportano quelli che sono i fattori più comuni che causano stress – i cosiddetti stressor – tra gli studenti di dottorato in psicologia. Tra essi troviamo: corsi accademici, lavoro relativo alla tesi di laurea, alle finanze, al tirocinio e al lavoro con i clienti (Nelson et al., 2001). Parlando di burnout invece, ci si riferisce a una “risposta prolungata a fattori di stress emotivi e interpersonali cronici sul lavoro” (Maslach et al., 2001).

Data la letteratura precedente (Rummell, 2015), quindi, ci si aspetta che i livelli di stress dei dottorandi in psicologia siano più alti. Questo studio invece riporta risultati differenti.

Burnout e strategie di coping nei dottorandi in psicologia: studi recenti

Gli studenti che potevano partecipare alla ricerca dovevano essere iscritti a programmi di dottorato in psicologia clinica o di counseling accreditati dall’APA (programmi di dottorato e di psichiatria) negli Stati Uniti, per un totale di 303 partecipanti (204 PDS e 99 appartenenti alla popolazione generale). A questi, sono stati somministrati tramite email il Maslach Burnout Inventory-Human Services Survey (MBI-HSS; Maslach et al., 1996) e il Perceived Stress Scale (PSS; Cohen et al., 1983). In base ai punteggi ottenuti, non vi erano differenze significative nei livelli di stress tra i dottorandi in psicologia e la popolazione generale (Rico & Bunge, 2021). Secondo gli autori dell’articolo, anche questi studenti di dottorato in psicologia potrebbero aver sperimentato livelli di stress più elevati rispetto alla popolazione generale, ma potrebbero aver utilizzato le abilità di coping apprese nei loro studi (Rico & Bunge, 2021). A sostegno di ciò, almeno due studi hanno documentato un elevato uso di abilità di coping da parte degli studenti (El-Ghoroury et al., 2012; Nelson et al., 2001).

Emerge invece che i livelli di stress degli studenti del terzo e quarto anno (raggruppati insieme) erano significativamente più alti rispetto agli studenti degli altri anni. Inoltre, tra questo gruppo di studenti, il livello della sottoscala dell’esaurimento emotivo dell’MBI-HSS degli studenti del terzo e del quarto anno (raggruppati insieme) era significativamente più alto rispetto agli studenti degli altri anni.

Questi ultimi risultati evidenziano la necessità di fornire maggiori livelli di supporto agli studenti del terzo e quarto anno dei programmi di psicologia clinica (Rico & Bunge, 2021).

 

Psicoterapie corporee e Psicoterapia Funzionale

Liberarsi delle tensioni che provocano disturbi e malattie, ripristinare le esperienze fondamentali del Sé, poter finalmente allentare e lasciarsi andare, sono alcuni dei risultati che si possono ottenere con la psicoterapia funzionale e con le psicoterapie corporee.

 

Due rimedi esemplificativi della Psicologia Funzionale

A volte ci sentiamo come una trottola impazzita? Completamente assorbiti dal bisogno di fare ed incapaci di prenderci la benché minima pausa, sebbene la stanchezza tagli le gambe?

Alla sera, sforziamoci di fermarci, anche mentalmente, facendoci abbracciare dal proprio partner, oppure accucciandoci tra i cuscini del letto o sopra un divano.

Una sorta di blocco interiore ci impedisce di rispondere a dovere per un’ingiustizia ricevuta, salvo poi rigirarci tutta la notte nel letto, in preda all’insonnia?

Recuperiamo la Forza calma, con movimenti ampi di forza, specie delle braccia, senza rabbia, senza ansia, con tutto il corpo, con una voce piena ma non gridata, con un respiro diaframmatico profondo: Forza, Fierezza e Potenza.

Metodologie mente-corpo all’interno della Psicoterapia Funzionale

Non sono suggerimenti originali di un personal trainer improvvisato psicologo (o viceversa), ma alcuni dei tanti metodi utilizzati dalla psicoterapia funzionale che interviene sull’interezza corpo-mente, recuperando o preservando modalità di funzionare fondamentali per salute e benessere (nel gergo della psicoterapia funzionale chiamati “Funzionamenti di fondo”). La psicoterapia funzionale include tecniche respiratorie, movimenti e posizioni, immaginazioni, che aiutano a migliorare il benessere emotivo.

Per star bene, corpo e mente devono essere “circolari”: le psicoterapie corporee (che hanno il loro padre storico in Wilhelm Reich, neuropsichiatria austriaco allievo di Freud) si focalizzano non solo sul problema psicologico, ma anche sulla sua espressione fisica, sui funzionamenti profondi mente-corpo. Si differenziano dagli altri percorsi psicoterapeutici non solo per l’uso diretto del corpo in terapia, ma anche perché considerano l’organismo in un’ottica olistica, cioè come un tutto che non è divisibile tra mente e corpo. Infatti, non esiste una struttura di tipo piramidale con una mente che controlla tutto dall’alto, bensì una di tipo “circolare”, nella quale tutti i vari piani psicocorporei contribuiscono alla pari nella complessa organizzazione dell’organismo. Dunque, la razionalità, i ricordi, il mondo simbolico e delle emozioni, ma anche le posture che assumiamo e i movimenti, dai più semplici ai più complessi che compiamo, e pure l’insieme dei sistemi interni fisiologici, cioè l’attività del sistema nervoso, dell’apparato gastroenterico, del sistema neurovegetativo, del sistema endocrino, sono tutte attività profondamente integrate e connesse tra di loro, sin dalla primissima infanzia. Secondo la psicoterapia funzionale, se per vari motivi l’ambiente non aiuta il bambino a colmare in pieno le proprie esigenze, fondamentali per una crescita armonica, alcune di queste attività psicofisiche possono pian piano alterarsi, fino a sclerotizzarsi e a “scollarsi” dalle altre Funzioni. È come se, crescendo, l’anello – o più anelli – di una catena si rompessero. Venendo a mancare questa unità originaria, cioè la piena attività e cooperazione tra le varie Funzioni, non avvertiamo più quel senso di completezza e di piena soddisfazione capace di alimentare allo stesso modo tutto il nostro essere – corpo e mente – e di farci sentire bene, con noi stessi e con gli altri.

Quelle condizioni di vita che creano fratture tra mente e corpo

Nei primi anni di vita il bambino può iniziare a vivere emozioni contrastanti, situazioni che non aiutano a preservare i suoi Funzionamenti di fondo (Esperienze di Base in età evolutiva). Per esempio, può sentirsi poco amato, magari perché i genitori, troppo indaffarati o poco inclini ai contatti fisici, non lo abbracciano o accarezzano a sufficienza. In molti casi, questo atteggiamento potrà rendere il piccolo reticente al contatto con gli altri e farà nascere in lui il sospetto di non meritare amore.

Il bambino piccolo tocca il corpo di un altro bambino o di un adulto senza giudicare se questo suo gesto è bene o male. Lo fa spontaneamente, senza porsi troppi interrogativi. Ma se, a lungo andare, lui stesso riceve poco contatto fisico, oppure un contatto fisico sfuggente, povero di carica emotiva, inizierà a preoccuparsi di come debba essere un tocco e a giudicare troppo criticamente anche il suo modo di accarezzare, di abbracciare e, dunque, di manifestare affetto e amore. Con il passare degli anni, in lui si radicheranno insicurezze, si svilupperà una progressiva incapacità di sentire le proprie sensazioni, e, quindi, anche le sensazioni trasmesse dagli altri, in una sorta di anestesia sia sensoriale, sia emotiva.

Altre volte, invece, il bambino può sentirsi intimorito da genitori troppo autoritari, che tendono a richiudere in un circuito chiuso la sua sana dose di forza. Crescendo, il bambino imparerà ad utilizzare i suoi muscoli ed i suoi visceri come una barriera, che ha il compito di farsi carico delle frustrazioni ed emozioni negative vissute. Secondo la psicoterapia funzionale è con queste modalità che il nostro organismo non è più una fonte di benessere e iniziano a far capolino prima, e a radicarsi poi, problemi come dolori cronici, emicranie, ansia. È così che il corpo inizia a parlare un linguaggio improprio. La rabbia, per esempio, può manifestarsi nella mascella contratta, il viso esprimere tristezza senza che ne siamo consapevoli; muscoli perennemente tesi producono uno stato d’ansia costante, di allarme; le mani sudate e la tachicardia mettono a nudo delle paure profonde e non ben definite.

Le psicoterapie corporee e la Psicoterapia Funzionale

Liberarsi delle tensioni che provocano disturbi e malattie, ripristinare le esperienze fondamentali del Sé, poter finalmente allentare e lasciarsi andare, sono alcuni dei risultati che si possono ottenere con la psicoterapia funzionale e con le psicoterapie corporee. Risultati che, in genere, si possono riscontrare già dopo le prime sedute, ma che, a seconda dei casi, possono richiedere tempi di lavoro più o meno lunghi. Tra le più diffuse in Italia ci sono la Bioenergetica e la Psicoterapia Funzionale, che presentano, comunque, peculiarità, metodologie e teorie differenti.

Senza avere assolutamente la pretesa di descriverle in modo sufficiente, vogliamo qui offrire una enunciazione molto sintetica, giusto per dare una prima conoscenza che permetta di comprendere almeno il senso di cosa vuol dire una terapia che includa anche il lavoro sul corpo. Ovviamente, rimandiamo alla bibliografia e ai vari siti riportati a fondo di tale articolo per una conoscenza che vada al di là di questa prima visione a volo d’uccello.

Le tecniche descritte (prese dai libri citati in bibliografia) sono solo un esempio, che non vuole e non può essere esaustivo, per la comprensione di queste metodiche.

Bioenergetica

Origini e peculiarità

Elaborata negli anni ’60 da Alexander Lowen, la bioenergetica ritiene che ogni emozione, ogni problema psicologico siano presenti nel corpo, formando la corazza muscolare, provocando dei blocchi nella circolazione delle energie, emotive e sessuali. Secondo la bioenergetica, che ha individuato cinque tipologie caratteriali fondamentali (schizoide, orale, masochista, psicopatico e rigido), nell’organismo ci sono sette punti, sette “blocchi”, in cui l’energia ristagna più facilmente.

Alcune tecniche

Punti focali della bioenergetica sono gli esercizi, volti ad “allenare” le emozioni e a liberare e scaricare le energie ingorgate. Eccone alcuni tra i più semplici.

  • Tecnica del grounding o del radicamento: in piedi, assumere una postura rilassata, a ginocchia leggermente piegate; chiudere gli occhi, respirando in modo lento e regolare. Rivolgere l’attenzione alle gambe e ai piedi. Cercare di estendere questa sensazione di connessione con il suolo a tutto il corpo.
  • Vibrazione delle gambe: dalla posizione distesa sul dorso, sollevare le gambe in modo che formino un angolo di circa 90 gradi con il busto. Tenere le ginocchia leggermente flesse. Fare vibrare le gambe spingendo i talloni verso l’alto.
  • Oscillazione del bacino: posizione eretta, con i piedi alla larghezza delle spalle e le ginocchia leggermente piegate. Mantenere le spalle rilassate, ruotare il bacino indietro, appoggiando il peso del corpo sulla parte anteriore dei piedi. Inspirando ed espirando, fare oscillare il bacino in avanti.

Psicoterapia Funzionale

Origini e peculiarità

Elaborata a partire dagli inizi degli anni ’80 da chi scrive, la psicoterapia funzionale ritiene che all’origine dei vari problemi che una persona può sviluppare, ci siano una carenza o una interruzione precoce o una alterazione di una o più delle cosiddette Esperienze di Base (individuate dalla stessa psicoterapia funzionale) che il bambino vive sin dai primissimi anni della vita, e che sono il presupposto per uno sviluppo armonico, completo e soddisfacente sia a livello fisico che psichico.

Tra queste, ci sono, per esempio, l’Esperienza dell’Essere tenuti e contenuti (nell’utero, in braccio ai genitori), che genera senso di tranquillità e di sicurezza; l’Esperienza del Contatto attivo, quando il bambino, attraverso il sorriso o utilizzando tutto se stesso, prende il genitore e lo conduce a sé (come farà poi con gli altri); il Contatto, lo stare con l’altro senza altro scopo che stare insieme, lì, in un semplice contatto; la Forza calma per fermare senza rabbia o aggressività chi vuole calpestarci o invaderci; e così via. Se le Esperienze di Base non sono aiutate dall’ambiente (familiare prima e sociale dopo) a restare aperte e positive in varie situazioni, finiranno per restare carenti o per alterarsi, e non rimarranno come capacità nell’adulto. Il bambino (e l’adulto poi) non avrà quelle Capacità a disposizione, vivrà in modo non pienamente positivo la relazione con gli altri e con se stesso, e svilupperà disturbi, problemi e finanche vere e proprie malattie.

Si potranno sviluppare, ad esempio, un’eccessiva passività che porta a covare la rabbia, oppure la ricerca ossessiva di protezione che fa scegliere sempre e comunque partner sbagliati, o, ancora, la tendenza ad autosvalutarsi e a subire degli altri.

Gli strumenti principali

Scopo principale è recuperare e far rivivere le Esperienze di Base (Funzionamenti fondamentali da adulti) che la persona può non avere pienamente vissuto e sviluppato, al fine di riappropriarsi di un senso più profondo del vivere, sedando insicurezza, disturbi psicosomatici, problematiche relazionali. Per raggiungere questi obiettivi, si utilizzano tecniche che associano emozioni, pensieri, immaginazione, ricordi, movimenti del corpo, posture, sensazioni, tecniche respiratorie ben precise (respirazione diaframmatica originaria).

Alcune tecniche

Ecco alcune tecniche multidimensionali, prese come esempio di come sia possibile recuperare determinate Esperienze di Base.

  • Per sviluppare il Contatto attivo (capacità di chiedere, portare a sé l’altro): la persona è in piedi al centro di un cerchio composto da altre persone, ha gli occhi chiusi ed è in contatto con le mani degli altri. Gli altri si allontanano: la persona allunga le braccia ma non trova nessuno intorno. Sente di essere sola, rivive momenti simili e tristi della sua vita. Ma invece di immobilizzarsi, si muove e va a cercare gli altri avanzando verso di loro. Li trova e li prende tutti, uno ad uno, stringendoli a sé. A questo punto tutti gli altri danno alla persona un contatto morbido ed affettuoso.
  • Per recuperare Contenimento e la sensazione di Protezione (con un intenso effetto tranquillizzante): a gruppetti di 3 o 4. La persona si mette in posizione fetale su di un fianco, con il viso rivolto verso la parete, mentre gli altri la contengono con i propri corpi e con l’aiuto di un plaid. Assaporare la sensazione di essere protetti, riscaldati e sicuri. Dopo un po’, quando si è “assorbito” calma e protezione a sufficienza, si inizia a provare il desiderio di aprirsi e si comincia a spingere dolcemente con mani e piedi sulla parete, facendo un po’ di forza morbida con la schiena contro gli altri, con un po’ di voce. Sino ad aprirsi completamente e distendersi “aperti”.
  • Per recuperare la sensazione di Benessere: ecco la tecnica della respirazione “a farfalla”. Stesi su un lettino, ginocchia piegate e piedi uniti. Si ispira lentamente a bocca socchiusa o aperta, avvicinando tra loro le ginocchia, sino a farle quasi toccare (3-4 tempi). Subito dopo si espira lasciando andare il respiro, sempre a bocca aperta, emettendo un suono dolce e leggero (come in un sospiro di sollievo) e riabbassando le ginocchia, poggiandole e lasciando completamente il loro peso (2 tempi). Una pausa successiva di 2 tempi. Si può ripetere l’intera sequenza fino ad ottenere un senso di grande calma e benessere.

Conclusioni

Ci sono ancora molti, anche professionisti del settore, oltre a persone che hanno bisogno di aiuto psicologico (e non solo), che non conoscono l’esistenza e il senso reale delle psicoterapie corporee. È importante, invece, sapere che non esistono solo psicoterapie basate sul verbale, e che quelle che operano anche sul corpo agiscono su molteplici livelli della persona, con effetti molto profondi, immediati e duraturi.

 

Storia della criminologia e dei metodi investigativi (2022) – Recensione

Leggendo il libro “Storia della criminologia e dei metodi investigativi” scoprirete in che modo religione, psicologia, sociologia e medicina abbiano provato a dare delle risposte, alcune delle quali oggi, come la fisiognomica, sono fortunatamente superate.

 

Il tentativo di comprendere cosa induca l’uomo a commettere crimini di ogni genere ha sempre rappresentato una sfida all’intelligenza. […] Oggi le scienze criminologiche sono orientate verso un’attribuzione multifattoriale all’origine del crimine, che prende in considerazione le relazioni tra corpo, psiche, natura e cultura.

“Qual è l’origine del Male?” si chiede l’Uomo dall’alba dei tempi. La nascita della criminologia affonda le proprie radici nel primo omicidio commesso nella storia dell’Umanità; che sia Caino che uccide Abele (Genesi, 4,8) o un ominide del Pleistocene che fracassa la testa a un suo simile (Carbonell et al., 1995), è da quel momento che abbiamo cominciato a domandarci: Chi è stato? E perché lo ha fatto?

La figura dell’investigatore ha da sempre il suo fascino: da Sherlock Holmes, che Conan Doyle dovette resuscitare dopo le proteste dei suoi lettori, alla signora Fletcher, la detective amatoriale più prolifica (cit. Guinness World Records) che da oltre 30 anni domina incontrastata il palinsesto prandiale. Per non parlare della figura del criminologo: con “Il silenzio degli innocenti” (1991) è amore a prima vista per il profiling, mentre negli anni 2000 i criminologi raggiungono l’apice della notorietà grazie al proliferare di serie tv come C.S.I., NCIS e Criminal Minds. Tutti vogliono iscriversi a criminologia, tutti sognano un posto al RIS di Parma, i giurati hanno grandi aspettative nei confronti delle prove scientifiche presentate in un processo (D.E. Shelton et Al., 2009) e i criminali pare prendano appunti su come farla franca. Sembrano essersi dimenticati che in tv tutto…beh…è alquanto romanzato.

Che cosa sia davvero la criminologia lo racconta bene Massimo Centini nel libro “Storia della criminologia e dei metodi investigativi”, che, senza la pretesa di essere esaustivo, ma con il merito di incuriosire il lettore, confeziona un libro divulgativo che ripercorre le tappe principali dello sviluppo della scienza del crimine.

L’autore illustra come nel corso dei secoli, nel tentativo di prevenire i reati, si sia cercato di rispondere a interrogativi quali: Chi è l’autore di un crimine? Quali sono le sue caratteristiche psichiche e fisiche? Quali circostanze, motivazioni e comportamenti portano a commettere un crimine? Chi commette un crimine lo fa mosso dal libero arbitrio oppure è predestinato a commetterlo? Quale ruolo giocano i fattori biologici, psicologici e sociali?

Leggendo il libro scoprirete in che modo religione, psicologia, sociologia e medicina abbiano provato a dare delle risposte, alcune delle quali oggi, come la fisiognomica, sono fortunatamente superate (se avete il naso storto ringrazierete che l’antropologia criminale sia andata in pensione: Lombroso vi avrebbe etichettato delinquenti nati).

La seconda parte del testo è invece dedicata al contributo dato da scienza e tecnologia alla ricerca della verità: la versione realistica di C.S.I.. Qui Centini spiega come si analizza la scena del crimine, racconta la nascita della medicina legale, illustra il contributo dell’antropometria e della fotografia alle indagini, la svolta data dall’analisi delle impronte digitali e del DNA, l’introduzione di algoritmi per valutare i reati e tanto altro.

Infine, non può mancare, ovviamente, una sezione dedicata ai serial killer.

Il libro presenta tanti argomenti interessanti, ma, non essendo il testo un manuale, la maggior parte dei temi sono trattati in modo poco approfondito. Il risultato è che giunti all’ultima pagina si ha una gran voglia di saperne di più, il che per un libro divulgativo è un pregio. Se siete appassionati di criminologia apprezzerete in particolare gli aspetti storici e gli aneddoti riportati; se invece siete alle prime armi, “Storia della criminologia e dei metodi investigativi” è un buon punto di partenza per approcciare alla criminologia e lasciarsi affascinare dai personaggi che, nel corso dei secoli, hanno cercato di capire cosa induca l’uomo a commettere crimini di ogni genere. Hobbes direbbe Homo homini lupus, ma la criminologia contemporanea, che oggi sposa l’origine multifattoriale del comportamento criminale, non sembra essere tanto d’accordo.

 

Metacredenze e ruminazione rabbiosa in soggetti con tratti di personalità narcisistica – PARTECIPA ALLA RICERCA

La ricerca condotta da Studi Cognitivi ha un duplice scopo: valutare il ruolo delle metacredenze come fattore di mediazione per la ruminazione rabbiosa in soggetti che presentano tratti di personalità narcisistici Overt e Covert e indagare le differenze in merito tra i soggetti con personalità narcisistica Covert e quelli con personalità narcisistica Overt.

 

Negli ultimi anni sta crescendo l’interesse pubblico per il Disturbo Narcisistico di Personalità, disturbo che si caratterizza per una frequente tendenza alla grandiosità, per la necessità di ammirazione e la mancanza di empatia e che inizia nella prima età adulta ed è osservabile in molteplici contesti.

È stato concettualizzato che esistono due tipologie di narcisismo basate su alcuni tratti distintivi: narcisismo Overt e narcisismo Covert (Wink, 1991). La forma Overt, descritta come grandiosa, consiste nella presenza di tratti esibizionistici, esagerato senso di importanza personale, grandiosità e desiderio di attenzione (Wink, 1991). Al contrario la forma Covert, o vulnerabile, è caratterizzata da ipersensibilità alla critica, mancanza di fiducia in sé stessi, isolamento sociale e, similmente alla Overt, un elemento di grandiosità mascherata (Wink, 1991).

Secondo la definizione di Wells e Purdon (1999), la metacognizione è la capacità di riconoscere i propri stati mentali e quelli degli altri; le metacredenze, invece, sono convinzioni che le persone hanno sulla propria mente e sui propri processi cognitivi.

La letteratura scientifica mostra l’esistenza di una stretta relazione tra le credenze metacognitive e i comportamenti dell’individuo. Infatti, le credenze metacognitive disfunzionali sembrano essere alla base dello sviluppo e del mantenimento dei disturbi psicologici (Wells and Matthews,1994).

Secondo Wells, tali strategie inefficaci possono essere definite Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS) e sono alla base dell’insorgenza e del mantenimento dei disturbi psicologici.

La CAS rappresenta una modalità disfunzionale di elaborare le informazioni in entrata e si caratterizza da uno stile di pensiero ripetitivo come il rimuginio e/o la ruminazione, l’ipermonitoraggio attentivo (l’attenzione è focalizzata sulle proprie sensazioni corporee o sugli altri) e le strategie di coping disfunzionali quali evitamento e controllo dei pensieri.

La Sindrome Cognitivo-Attentiva è determinata da credenze riguardanti il pensiero che possono essere di due categorie:

  • Positive: credenze riguardanti l’utilità di impegnarsi nei processi implicati nella CAS;
  • Negative: credenze inerenti all’incontrollabilità e la pericolosità del rimuginio stesso.

La ruminazione rabbiosa è uno stile maladattivo di pensiero che si attiva in presenza di emozioni di rabbia. Il soggetto, focalizzando l’attenzione sulla rabbia, sulle sue cause e sulle sue conseguenze, alimenta l’attivazione emotiva negativa che aumenta il rischio di mettere in atto comportamenti aggressivi. (Bushman et al., 2005; Denson et al., 2012, Pedersen et al., 2011, Anestis et al., 2009).

Secondo una delle teorie sulla ruminazione, la Self-Regulatory Executive Function Theory (S_REF) di Wells e Matthews (1994), la ruminazione verrebbe attivata proprio dalle credenze metacognitive. Secondo questa teoria, la ruminazione sarebbe una strategia che l’individuo sceglie di attuare poiché la ritiene utile: metacredenze positive.

Inoltre, nella letteratura è ancora limitato il numero di studi che indagano la ruminazione rabbiosa nel Disturbo Narcisistico di Personalità. La maggior parte delle caratteristiche della ruminazione sono state indagate in risposta a stati emotivi di tristezza. Secondo questi studi, le metacredenze positive e negative coinvolte nella ruminazione favorirebbero l’insorgere di una sintomatologia depressiva (Spada et al.,2021).

I risultati della ricerca di Spada hanno mostrato anche come, nei pazienti con disturbi di personalità (DP), le metacredenze positive e negative rispetto all’incontrollabilità dei pensieri e alla loro pericolosità siano fattori indipendenti che portano al rimuginio. Inoltre, le metacredenze negative sono anche variabili indipendenti nei casi di ruminazione.

Dunque, dalla rassegna esaminata, risulta evidente l’ipotesi che la ruminazione sia coinvolta nei disturbi di personalità. Non sembrano tuttavia esserci abbastanza studi che indaghino la ruminazione rabbiosa nei tratti Covert e Overt del Disturbo Narcisistico di Personalità.

Secondo Krizan e Johar (2015) il narcisismo Covert o vulnerabile (ma non l’Overt) rappresenterebbe un potente motore di rabbia, ostilità, comportamento aggressivo, alimentato dal sospetto e dalla ruminazione rabbiosa.

Partecipare alla ricerca

Alla luce del quadro teorico sopra esposto, la ricerca condotta da Studi Cognitivi ha un duplice scopo:

  • valutare il ruolo delle metacredenze come fattore di mediazione per la ruminazione rabbiosa in soggetti che presentano tratti di personalità narcisistici Overt e Covert.
  • indagare le differenze in merito tra i soggetti con personalità narcisistica Covert e quelli con personalità narcisistica Overt.

La partecipazione alla ricerca comporta la compilazione di alcuni questionari che non dovrebbe richiedere più di 20 minuti.

Tutti i dati saranno trattati in forma anonima e riservata. Se in qualsiasi momento desidera ritirarsi dalla partecipazione, può semplicemente chiudere il browser e i dati non verranno raccolti.

Le saremmo grati se potesse aiutarci con il nostro progetto e se inoltrasse questo link a colleghi, amici e/o familiari per raggiungere quante più persone possibili.

La ringraziamo anticipatamente per il suo tempo.

Per partecipare alla ricerca clicca qui:

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Il potere delle immagini nella scoperta di valori e ostacoli di vita

Un’indagine preliminare sull’uso delle carte Dixit per l’esplorazione dei Valori in prospettiva ACT presentata al I Congresso Nazionale CBT Italia del 4-5 Novembre a Firenze.

 

Il significato dei valori nell’Acceptance and Commitment Therapy

Con il termine valore, nell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale: i valori sono sentieri di vita, che guidano l’azione impegnata lungo tutto l’arco dell’esistenza. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili e praticabili. Facendo alcuni esempi: ad un valore come quello di “prendersi cura della propria relazione”, un individuo potrebbe scegliere diversi obiettivi come “ascoltare il proprio partner”, “essere sincero con lui/lei” etc. Se una persona ha come valore “mangiare sano” potrebbe perseguire azioni e darsi obiettivi legati alla dieta, al come farla, a cosa mangiare. Se il valore è “prendersi cura del proprio fisico”, potrebbe sviluppare obiettivi come “andare in palestra”, “camminare” etc. (Bassanini, 2013). Mentre un dato scopo, come laurearsi o sposarsi è limitato nello spazio e nel tempo ed implica un traguardo (o trofeo) da raggiungere, il valore si dipana in tutto l’arco di vita e, benché sia soggetto a cambiamento di forma e contenuto durante lo sviluppo, non è identificabile con qualcosa di “conquistabile” (Harris 2022). Piuttosto, nell’ACT si parla di direzioni, di indicazioni “verso” ciò che è importante: di frequente si usa la metafora della stella polare, essa indica il nord, è fondamentale per navigare al buio in assenza di riferimenti, ma a nessuno verrebbe mai in mente di raggiungerla fisicamente! La ricerca di un valore personale dovrebbe sempre partire dalla domanda “Che tipo di persona vorresti essere in questo ambito della tua vita?”, focalizzandosi sui bisogni personali più che sul contesto degli altri. Valori e obiettivi non sono, quindi, la stessa cosa. Agire alla luce dei nostri Valori ed entrare in contatto con essi è un passo essenziale per dare significato alla nostra vita. All’interno dell’ACT, quando parliamo di Valori, essi non vanno intesi dal punto di vista etico o morale, ma come tutto quello che è veramente importante nella vita di ogni persona (Hayes et al., 2006). Nella pratica clinica, a questo punto, si osservano di frequente blocchi più o meno prolungati: i clienti riflettono perplessi su un concetto che difficilmente ha trovato spazio in una società improntata alla competizione feroce, che giudica fragilità e debolezze come peccati veniali di cui vergognarsi. Dopodiché, si assiste spesso ad una svalutazione inconsapevole dei propri bisogni, ad esempio in presenza di perfezionismo patologico: essi sono considerati come indice di fragilità, creando un ambiente fertile per l’autocritica e l’auto-svalutazione (Cheli et al, 2021).

Evitamento esperienziale e fusione cognitiva

La difficoltà ad identificare i Valori, fa da contraltare alle difese messe in atto dalla persona stessa: proprio quando si indaga ciò che c’è di più importante, emergono in superficie ostacoli, demotivazione e blocchi che sembrano insormontabili. Frasi come “È tutto inutile, sono solo illusioni!”, oppure “Tanto non ci riuscirò mai finché non…” sono all’ordine del giorno,  quando abbiamo a che fare con la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale. Ogni possibile azione positiva per se stessi, o anche solo l’immagine in prospettiva di essa, genera sofferenza, poiché aggrappata intimamente con l’incapacità già sperimentata, con l’evitamento doloroso e l’autocritica. L’evitamento esperienziale diventa una sorta di lente distorta attraverso la quale ci si ricostruisce in relazione al contesto esterno: tutto ciò che compone una vita ricca e significativa non è alla nostra portata, non ce la meritiamo o non siamo neppure in grado di immaginarla. La fusione cognitiva peggiora se invece che lavorare con persone ben allenate, ad alto funzionamento e preoccupate abbiamo di fronte quelle a funzionamento minore e con alti livelli di evitamento esperienziale. Queste ultime potrebbero non avere la minima idea di cosa sia importante per sé ed essere così assuefatti all’autocritica, da respingere ogni domanda o esercizio verbale relativo ai Valori. Harris (2011) consiglia, in questi casi, di dedicarsi maggiormente allo sviluppo della defusione cognitiva, poiché si è fusi con il proprio comportamento di evitamento esperienziale al punto da non riuscire a mettere a fuoco nient’altro di significativo. Un cambio di prospettiva e metodo è largamente incoraggiato, nell’ottica di flessibilità funzionale dell’ACT. L’unione fra evitamento esperienziale e fusione cognitiva, rende ragione del meccanismo di ostacolo al cambiamento di abitudini disfunzionali che portano a sofferenza. Per fare un esempio, se penso che vorrei davvero tanto perdere 20 chili (che è un obiettivo, e non un valore), ma non considero sul momento l’importanza consolatoria che il cibo potrebbe aver avuto costantemente nella mia vita per allontanare le emozioni negative (evitamento esperienziale), mi ritroverò ogni anno a criticarmi ferocemente per la mia incapacità, senza esser stata in grado di valutare la situazione nel suo complesso, una sorta di pro e contro. Questo potrebbe portare a incastrarmi in un loop periodico di buoni propositi sistematicamente falliti, che ad ogni ripetizione affonda la mia autostima e aumenta l’autocritica impedendomi, di fatto, di proseguire verso il perseguimento dei miei Valori.

Essendo l’ACT un insieme di metodologie altamente flessibili e adattabili al singolo cliente, è ricca di materiali che coinvolgono ogni canale comunicativo, compreso quello artistico. Il gioco di narrazione e interpretazione Dixit, ideato da Jean-Louis Roubira e illustrato da Marie Cardouat (2008) contiene delle carte con illustrazioni colorate e molto evocative, che nel gioco servono per arrivare ad indovinare il concetto espresso dal giocatore di turno. Visto l’alto potenziale narrativo, queste carte sono state utilizzate in setting multipli, sia terapeutici, che formativi, che educativi (Corbo, 2021).

L’uso delle carte Dixit con una prospettiva cognitivo comportamentale, è stato esaminato dai colleghi Chiarelli et al. (2019), i quali hanno trovato che l’uso di queste carte può consentire ai clienti di contattare i propri valori in modo più libero e spontaneo ed espandere la conversazione sui valori, specialmente con i giovani clienti, che presentavano difficoltà nella scelta dei valori attraverso il linguaggio, e nel rispondere a domande-spunto. Le carte Dixit sono risultate un ottimo strumento per riflettere sui propri valori in modo diretto, senza filtri e adatto anche a chi fa fatica ad accedere al proprio dialogo interno.

Esplorare i valori: l’uso delle carte Dixit – Un’indagine preliminare

Proprio tenendo conto dell’impatto dell’autocritica nel blocco dell’esplorazione dei propri valori, e dell’importanza di contenerla per avere una visione più realistica e fattibile del proprio percorso di vita, ho creato un paradigma che utilizza le carte Dixit per indagare insieme al cliente entrambi gli aspetti dell’esperienza in contemporanea (Migliore, 2022). L’intento era di offrire un clima di riflessione realistico e pragmatico, che tenesse conto sia di ciò che era desiderato (Verso), che di ciò che in quel momento egli percepiva come un ostacolo (Via da). L’ipotesi di base è che questa modalità possa offrire una maggiore normalizzazione nella scoperta dei propri valori e obiettivi di vita, alla luce di ciò che viene percepito come ostacolo, e che questo possa limitare l’autocritica percepita. Questa indagine preliminare sull’uso delle carte Dixit per l’esplorazione dei Valori in prospettiva ACT è stata presentata al I Congresso Nazionale CBT Italia del 4-5 Novembre a Firenze.

Basandomi sul concetto “Via da…Verso” della matrice ACT, ho indagato sia i valori che gli ostacoli percepiti nel perseguirli. La mia ipotesi considera la difficoltà che rileviamo così spesso nel perseguire il benessere, come funzione della mancata considerazione degli ostacoli che ci troviamo normalmente di fronte: mi son chiesta, quindi, se non fosse più realistico far immaginare al contempo entrambi gli aspetti.

Ho proposto questo paradigma sia ad adulti che ad adolescenti, utilizzando il mazzo base e l’espansione Harmonies, la quale presenta toni leggermente più “cupi e inquietanti”. Quest’ultima offre spunti di riflessione più profondi circa gli ostacoli “storici” sperimentati dal cliente. La proposta di un esercizio basato su una stimolazione visiva ha introdotto nel setting cognitivo comportamentale un elemento divertente, giocoso e ricco di spunti di dialogo, specialmente nei casi in cui risultava difficile identificare pensieri e credenze per mancanza di contatto con il dialogo interno. Nel caso, ad esempio, di un adolescente che affrontava le sedute in quasi completo silenzio, fortemente oppositivo e recalcitrante, la scelta di due carte del mazzo classico, aveva consentito l’accesso a due temi centrali della sua vita: siamo riusciti, così, ad entrare in contatto con il tema principale che lo guidava quotidianamente, essere responsabile, e ciò che percepiva come un ostacolo pressante, il tempo (Figura 1). L’uso delle carte ci ha permesso di entrare in uno spazio nuovo, prima vietato, fatto di un dialogo vero. Insieme abbiamo continuato ad esplorare quei due temi così importanti e controversi per lui, continuando a far riferimento alle carte scelte, che avevamo fotografato e tenuto sul telefono.

Valori in prospettiva ACT esplorazione attraverso le carte Dixit Fig 1

A differenza dei colleghi della precedente sperimentazione, ho scelto di non imporre limiti temporali all’interno della seduta, per l’esercizio, e nessun limite nel numero delle carte scelte. Questo mi ha permesso, con clienti con spiccate doti di introspezione, di far emergere diversi temi e di poterli mettere in relazione con i loro ostacoli in modo più completo. Nel caso di una ragazza molto loquace e dotata di un dialogo interno ricco, utilizzando le carte Harmonies abbiamo osservato una vera e propria danza di temi essenziali, nella quale Valori ed ostacoli prendevano e lasciavano la scena a turno. Le carte scelte e fotografate ci hanno fornito un’ancora cui tornare per riflettere sulle implicazioni più specifiche: abbiamo identificato i valori per lei essenziali, quali essere una persona umana e profonda, che sa ascoltare e che sa investire nelle proprie caratteristiche di personalità. La presenza del tema contrapposto ci ha permesso, invece, di visualizzare il grande impatto che il perfezionismo, il giudizio e l’autocritica avevano sulle sue scelte, rendendola di fatto bloccata nelle scelte di vita (Figura 2). Diversi clienti hanno riportato di aver sperimentato più libertà durante un compito simile, piuttosto che nella scoperta dei valori attraverso le domande più classiche. La componente morale, comunemente associata al termine, fa sì che si sperimenti una sorta di “obbligo alla positività” e di converso l’autocritica feroce verso il sentirsi bloccati nella scelta: “sono proprio una persona inutile se non riesco a capire neanche cosa voglio!” Mantenere, invece, una prospettiva duplice e realistica, che guardi sia a ciò che per noi è importante che a ciò che ci sta bloccando nel dirigerci verso esso, aumenta i nostri gradi di libertà nello sperimentare un’esperienza autentica di scoperta, limitando l’autocritica.

Valori in prospettiva ACT esplorazione attraverso le carte Dixit Fig 2

Nel perseguire obiettivi fattibili verso i propri valori, sembra quindi importante considerare il ruolo dell’autocritica, che attiva il nostro sistema di minaccia e blocca ogni azione impegnata intrappolandoci in una “sindrome dei buoni propositi” circolare che ostacola il cambiamento.

L’uso delle carte Dixit, consente un accesso diretto e spontaneo all’esplorazione dei propri Valori libero da morale e giudizi, che tenga conto sia di ciò che è importante che di ciò che costituisce un ostacolo nel momento presente. Attraverso una prospettiva pragmatica e flessibile si può raggiungere una rappresentazione completa e mirata al cambiamento, di ciò che per noi è più importante. Le interviste verranno sottoposte, in collaborazione con la cattedra di analisi qualitativa della Sigmund Freud University, ad analisi del contenuto al fine di individuare con precisione le tematiche emerse nei colloqui.

Il paradigma è stato sottoposto ai clienti anche nella versione online, ed è allo studio un’applicazione alla Schema Therapy, per la personificazione dei vari mode in aggiunta o in alternativa alle sedie.

 

Maternity Blues o Baby-blues 

Il Baby Blues può essere fonte di sofferenza materna, poiché spesso la donna e i familiari non ne sono a conoscenza e possono sviluppare emozioni secondarie di paura, ansia, colpa e senso di inadeguatezza per andare incontro a tali vissuti emotivi.

 

Baby Blues o Maternity Blues

I giorni immediatamente seguenti il parto, oltre a emozioni positive e stati mentali altamente gratificanti e coinvolgenti, possono comportare molteplici sollecitazioni a livello biologico, psicologico e sociale, alle quali le donne possono rispondere con reazioni emotive differenti. Oltre a stati emotivo-affettivi positivi possono emergere ad esempio vissuti ansiosi, episodi di pianto, stanchezza fisica, labilità emotiva, senso di inadeguatezza sul sé, sensazione di smarrimento, irrequietezza e irritabilità.

Con il termine Baby Blues o Maternity Blues in letteratura perinatale si fa riferimento a una condizione che si manifesta abbastanza frequentemente nella donna nel postparto, esordisce nei primi giorni del puerperio (e non oltre le prime due settimane) e tende a rimettersi spontaneamente entro 15 giorni dal parto. Tale condizione è caratterizzata da una elevata reattività emotiva, labilità emotiva e lievi sintomi di carattere depressivo, quali tendenza al pianto, umore labile e tristezza, aumento di irritabilità, difficoltà di concentrazione e sintomi ansiosi, disturbi del sonno e dell’appetito. Tale insieme di sintomi si presentano in maniera accentuata, ma non francamente patologica, sono transitori e sono caratterizzati da remissione spontanea (O’Hara et al., 1991; Sutter et al., 1997).

Maternity blues e depressione post partum

In termini di diagnosi differenziale, è importante distinguere il Baby Blues o Maternity Blues, dalla depressione post-partum e da altre condizioni psicopatologiche quali ad esempio la psicosi puerperale. È da sottolineare che la condizione di Baby-Blues riconosciuta in ambito perinatale, al momento non trova una collocazione specifica tra le categorie diagnostiche del DSM-5.

In letteratura la costellazione di sintomi connessa al Baby Blues o Maternity Blues è stata associata ai cambiamenti dei livelli ormonali che sarebbero conseguenti al parto (Brunton e Russell, 2008), con un possibile legame tra tale sintomatologia e le modificazioni endocrino-metaboliche nel postparto.

In alcuni studi è stato evidenziato che un significativo numero di donne con effettiva diagnosi di depressione postnatale aveva sofferto di Maternity Blues nelle prime due settimane del postparto (O’Hara et al. 1991). Altri studi hanno evidenziato l’associazione tra Maternity Blues e sindrome premestruale (Bloch et al., 2005).

Effetti del Baby Blues

Il Baby Blues può essere fonte di sofferenza materna, poiché spesso la donna e i familiari non ne sono a conoscenza e possono sviluppare emozioni secondarie di paura, ansia, colpa e senso di inadeguatezza per andare incontro a tali vissuti emotivi. Risulta utile, pertanto, informare e sensibilizzare le neomamme, fornire psicoeducazione ed effettuare interventi di prevenzione al fine di rendere più comprensibile il fenomeno del Maternity Blues che può insorgere transitoriamente nel puerperio, e rispetto al quale diventa molto importante richiedere aiuto professionale psicologico nel caso in cui i sintomi non si rimettano entro le due settimane dal parto. Il supporto psicologico può essere utile anche nel caso di Baby Blues nell’immediato postparto per aiutare la donna a regolare al meglio le proprie emozioni nel puerperio, comprendere e circoscrivere eventuali vissuti di inadeguatezza e colpa in relazione al proprio ruolo materno e all’insorgenza dei sintomi.

ADHD e Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Cosa accomuna le due patologie?

L’impulsività del paziente con Disturbo Borderline di Personalità è guidata da aspetti affettivi e interpersonali, mentre nel paziente con ADHD deriva da un deficit neurocognitivo legato all’inibizione del comportamento.

 

Introduzione

Negli ultimi anni molti studi hanno dimostrato che soggetti a cui è stato diagnosticato il disturbo da deficit dell’attenzione-iperattività (ADHD) in età adolescenziale, hanno presentato in età adulta una co-diagnosi di disturbo borderline di personalità (DBP; Weiner et al., 2019). Questi due disturbi si sovrappongono a livello fenomenologico (all’apparenza, infatti, i soggetti che ne sono affetti si assomigliano) e ciò supporta l’idea che l’ADHD dei bambini potrebbe essere un fattore di rischio dello sviluppo del DBP (Matthies & Philipsen, 2014).

L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo tipico dell’età preadolescenziale caratterizzato da disattenzione, iperattività e impulsività che interferiscono con il funzionamento e/o lo sviluppo. Sebbene il sintomo caratteristico dell’ADHD sia una forte disregolazione emotiva, questo disturbo si presenta in maniera differente in età adulta evidenziando un carattere più internalizzante e ansioso che interferisce con il funzionamento quotidiano della persona. Tendenzialmente si presenta in comorbilità con altre malattie psichiatriche, quali il disturbo borderline di personalità.

Il DIsturbo Borderline di Personalità è un disturbo della personalità che viene descritto come un “pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, nell’immagine del Sé e dell’umore” (APA, 2014, p. 768).

ADHD e Disturbo Borderline: l’impulsività

Le definizioni evidenziano che l’ADHD e il Disturbo Borderline di Personalità condividono prevalentemente i fattori dell’impulsività e della disregolazione emotiva (Weiner et al., 2019).

Tendenzialmente si è soliti pensare che essere impulsivi significhi mettere in atto dei comportamenti improvvisi senza pensare alle conseguenze. In realtà, l’impulsività si manifesta in maniera differente: in un paziente borderline si riferisce alla messa in atto di comportamenti autolesionisti, invece in un paziente con ADHD si manifesta come impazienza nell’attesa, parlare a sproposito sopra agli altri e interrompere gli altri mentre parlano.

Da questa prospettiva si può dire che l’impulsività del paziente con Disturbo Borderline di Personalità è guidata da aspetti affettivi e interpersonali, mentre nel paziente con ADHD deriva da un deficit neurocognitivo legato all’inibizione del comportamento (Linhartová et al., 2020).

Infatti, un aspetto fondamentale di similitudine tra i due gruppi clinici è la difficoltà nell’inibizione della risposta. Pazienti con Disturbo Borderline di Personalità sembrano avere difficoltà nel non mettere in atto un comportamento maladattivo in risposta a emozioni molto forti, mentre i pazienti con ADHD non riescono a interrompere un’azione che hanno già iniziato. Questo indica che ci possono essere delle differenze qualitative nei disturbi e che quindi possano essere due manifestazioni fenomenologiche differenti che sottendono lo stesso meccanismo eziopatogenetico (ovvero il processo attraverso cui determinate cause portano allo sviluppo della malattia).

L’impulsività è fortemente influenzata dalla capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni e in entrambe le tipologie di pazienti si riscontrano delle strategie cognitive maladattive di regolazione delle emozioni (Rüfenacht et al., 2019).

Quando un’emozione forte provoca una tensione che diventa insopportabile, il paziente borderline mette in atto comportamenti maladattivi quali l’autolesionismo e tentativi suicidari a causa del basso livello di tolleranza dello stress.

I ragazzi con ADHD, invece, non riescono a gestire le reazioni fisiologiche provocate delle emozioni stesse manifestando di conseguenza comportamenti motori maladattivi (es. si alzano frequentemente, hanno scatti di rabbia ecc.) che riflettono l’iperattività e la disattenzione.

ADHD e Disturbo Borderline: la disregolazione emotiva

Una strategia cognitiva maladattiva che inficia sulla regolazione dell’emozione in entrambi i pazienti è il rimuginio, che viene definito come un’attività cognitiva ripetitiva e pervasiva che guida il pensiero nel focalizzare ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema et al., 2008). Entrambe le tipologie di pazienti hanno trovato il loro personale modo di gestire una forte emozione che regolano in modo disadattivo per cercare di sopprimerla.

Questo meccanismo si riflette anche a livello neurobiologico: in entrambi i pazienti si attiva in modo massivo l’amigdala (l’area del nostro cervello che gestisce principalmente le emozioni), che spegne le aree cerebrali che controllano il comportamento (Schmitt & Falkai, 2016).

Sia l’ADHD che il Disturbo Borderline di Personalità sono disturbi che hanno un forte impatto sulla vita del paziente, soprattutto per quanto riguarda i problemi interpersonali, che interferiscono a loro volta sulla qualità di vita e portano ad avere una bassa autostima.

Non riuscire a gestire le proprie emozioni, infatti, porta ad avere delle difficoltà nel comprendere il proprio e l’altrui stato mentale riducendo i livelli di empatia e creando di conseguenza delle relazioni interpersonali disfunzionali (Rüfenacht et al., 2019).

Se il paziente borderline crea relazioni instabili alternando una idealizzazione e una svalutazione dell’altra persona e si sforza di evitare l’abbandono dalla stessa, il paziente con ADHD non riesce a instaurare delle relazioni con gli altri a causa dei suoi comportamenti maladattivi, quali l’iperattività e l’impulsività (infatti sono soggetti molto agitati, sempre in movimento, che interrompono i discorsi altrui e rispondono senza riflettere).

Studi recenti (Linhartová et al., 2020; Rüfenacht et al., 2019) hanno messo in evidenza che i due disturbi condividono aspetti eziopatogenetici simili. Gli individui che hanno un genotipo più “suscettibile” (ovvero delle caratteristiche biologiche che li predispongono a sviluppare determinate patologie), in presenza di un ambiente esterno non favorevole sono più a rischio di manifestare tali patologie.

In particolare, la letteratura dimostra che bambini esposti a traumi infantili, come l’abuso e la trascuratezza fisica ed emotiva, hanno difficoltà a imparare a regolare le proprie emozioni (Matthies & Philipsen, 2014). Anche questo aspetto viene sottolineato a livello neurobiologico, in quanto è stato osservato che l’esposizione a eventi traumatici altera la traiettoria di sviluppo neuronale, aumentando la possibilità di manifestare queste psicopatologie.

L’ADHD non diagnosticato e non trattato precocemente può portare alla manifestazione del Disturbo Borderline di Personalità. Per questo motivo si pensa che agire in termini preventivi sui sintomi dell’ADHD possa evitare di fare deviare la traiettoria evolutiva della persona verso il disturbo borderline di personalità (Asherson et al., 2014).

 

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