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Diabete e Disturbi Alimentari: una ricerca sulla “Diabulimia”

La Diabulimia è un Disturbo Alimentare vissuto dalle persone con diabete mellito di Tipo 1 (T1DM; Type 1 diabetes mellitus).

 

Insulina e aumento del peso

All’interno della letteratura c’è accordo sul fatto che i Disturbi Alimentari siano prevalenti nelle persone con T1DM, in particolare nelle donne (Conviser et al., 2018; Jones et al., 2000). Colpiscono circa il 20% delle donne con diabete e hanno il doppio della probabilità di verificarsi nelle ragazze adolescenti con T1DM che in quelle senza (Gagnon et al., 2017; Philpot, 2013).

A causa del trattamento con l’insulina, gli adolescenti con T1DM vedono spesso il loro peso aumentare notevolmente tra l’adolescenza e la prima età adulta. Ciò può far nascere nel soggetto l’insoddisfazione del proprio corpo e portare allo sviluppo di condotte alimentari disturbate (DEB; disturbed eating behaviours) (Gagnon et al., 2017). Inoltre, le persone con T1DM possono sentirsi sopraffatte dalla costante attenzione alla nutrizione e ai farmaci (Gagnon et al., 2017). Quindi, l’emergere di condotte alimentari disturbate può essere un tentativo di riguadagnare il controllo sul cibo e sul peso, portando così allo sviluppo di un Disturbo Alimentare. Si può quindi affermare che la Diabulimia è un Disturbo Alimentare caratterizzato dalla deliberata restrizione dell’insulina, con il fine di provocare una perdita di peso (Davidson, 2014).

Diversi studi hanno riportato che la paura dell’aumento di peso è una componente fondamentale nell’emergere della cattiva gestione dell’insulina (Balfe et al., 2013; Falcão & Francisco, 2017; Goebel-Fabbri et al., 2011; Olmsted et al., 2008). Inoltre, in uno studio qualitativo i partecipanti che hanno omesso l’insulina hanno continuato a farlo a causa della rapida perdita di peso e dei successivi commenti positivi che hanno ricevuto (Balfe et al., 2013).

Ad oggi, sebbene il termine “Diabulimia” non sia ancora stato riconosciuto, è stata inclusa una guida su come trattare al meglio coloro che limitano l’insulina (Allan, 2017). Infatti, le persone che manipolano l’insulina in modo disfunzionale subiscono gravi conseguenze per la loro salute. Ciò include la chetoacidosi diabetica (DKA; diabetic ketoacidosis), una complicanza pericolosa e acuta di diabete che si verifica quando il corpo ha ridotto l’insulina (Philpot, 2013). Ci sono anche gravi complicanze micro e macro vascolari a lungo termine associate alla Diabulimia, tra cui retinopatia (perdita della vista) e nefropatia (danno renale) (Goebel-Fabbri et al., 2011; Nielsen, 2002). Nel corso di uno studio longitudinale durato undici anni, è stato riscontrato che la restrizione insulinica ha aumentato il rischio di morte di 3,2 volte (Goebel-Fabbri et al., 2011). Sebbene sia una condizione comune e pericolosa per la vita, c’è però una mancanza di ricerca su questa patologia, in particolare sul modo migliore per prevenire, rilevare e trattare la condizione (Coleman & Caswell, 2020).

Comprendere la Diabulimia

Lo scopo di questo studio è quello di condurre un’analisi esplorativa dei punti di vista e delle esperienze delle persone con esperienza di Diabulimia (Coleman & Caswell, 2020). Si auspica così che i temi individuati aiutino a orientare la ricerca futura. Inoltre, lo scopo è stato anche quello di aumentare la consapevolezza e la comprensione della Diabulimia dal momento che sta giustamente guadagnando attenzione all’interno delle comunità mediche e psichiatriche.

Nel seguente studio è stato quindi chiesto ai partecipanti perché limitassero l’insulina. Attraverso un’analisi tematica, sono stati identificati tre temi principali: perdita di peso, odio per il diabete e autolesionismo. Inoltre, i partecipanti hanno riportato una varietà di fattori che hanno contribuito al loro abuso di insulina. I temi principali riportati erano: traumi, comorbilità di disturbi della salute mentale e sensazione di mancanza di supporto. I partecipanti hanno descritto abuso emotivo, fisico e sessuale, separazione dei genitori, disgregazioni familiari e bullismo. Le più comuni difficoltà di salute mentale in comorbilità discusse sono state: altri disturbi alimentari, depressione e stress. I partecipanti hanno spesso descritto di non avere nessuno con cui parlare, a causa di sentimenti di vergogna e mancanza di comprensione da parte degli altri. Inoltre, hanno riportato la necessità di una maggiore consapevolezza e comprensione della Diabulimia, sia per i professionisti che per le persone con diabete. Infine, tutti i partecipanti hanno ritenuto che la Diabulimia fosse vista negativamente, descrivendo lo stigma e la mancanza di comprensione. I risultati di questo studio suggeriscono che un trattamento psicologico efficace dovrebbe affiancarsi all’educazione sul diabete.

 

La terapia del disturbo d’ansia sociale

Il paziente con disturbo d’ansia sociale presenta una serie di comportamenti difensivi, volti a prevenire un giudizio negativo, in particolare teme che gli altri lo deridano in quanto goffo, in ansia o in imbarazzo nello svolgere semplici attività (la più comune è quella di mangiare).

 

L’obiettivo psicoterapico nel caso del disturbo d’ansia sociale sarà quello di ridurre l’ansia sociale e la tendenza a metavergognarsi (vergogna di farsi vedere mentre si prova vergogna). La prima fase è l’assessment fatto tramite colloqui e test specifici per reperire informazioni dal paziente e ricostruire il profilo interno ed esterno del disturbo. In una seconda fase si tenta di normalizzare la sintomatologia condividendo con il paziente il modello di funzionamento del disturbo che gli permette di capire cosa gli stia accadendo. Un aspetto principale del funzionamento della persona con ansia sociale è quello di avere un’idea della socialità connotata negativamente, dove le relazioni sono pericolose.

La terapia fornirà al paziente una nuova prospettiva sulla socialità dove, come insegna l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), potrà perseguire i valori della sua personalità e soddisfare i propri bisogni. A ciò si aggiunge l’acquisizione di una maggiore resistenza alla frustrazione: il paziente sarà guidato a ridurre il peso che dà abitualmente alle brutte figure nella socialità, così da riuscire ad esporsi maggiormente e a godere dei benefici e dell’arricchimento delle relazioni sociali. Quindi si prosegue con la riduzione dell’ansia sociale, si aumentano le abilità sociali e il loro utilizzo nei contesti naturali, si vanno a ridurre i fattori di vulnerabilità e si fa prevenzione delle ricadute.

Nella fase centrale della terapia, riduzione dell’ansia sociale, si utilizza la tecnica dell’osservazione; il paziente verrà videoregistrato in momenti di socializzazione che lo porteranno a provare vergogna e, prima di rivedere tali video, gli verrà chiesto di dire come s’immagina nella registrazione indicando il livello di vergogna. Dopo l’esposizione del video il terapeuta porterà il paziente a ridurre il peso della vergogna che inizialmente il paziente aveva dato alle sue azioni videoregistrate, basandosi sull’effettivo carico di vergogna che si può osservare senza avere il carico del paziente. Lo stesso metodo si applica per la metavergogna, cioè il provare vergogna per il fatto che si provi vergogna e il giudizio negativo e di scherno per il fatto di ritenere la persona debole o ridicola, credenza tipica del DAS.

Ultima, sebbene non per importanza, fase dell’intervento psicoterapeutico del paziente con disturbo d’ansia sociale, è quella volta a ridurre il peso degli elementi che hanno contribuito a rendere il soggetto vulnerabile allo sviluppo del disturbo e a strutturare un piano per fortificare il paziente, fornendogli delle strategie per prevenire ed eventualmente fronteggiare delle ricadute qualora si ripresentassero i sintomi. Arrivati a questo punto della terapia grazie alla ristrutturazione cognitiva, l’accettazione e l’esposizione, il clinico dovrà consolidare il cambiamento ottenuto. Bisogna fornire standard di performance più realistici e interiorizzati, costruendo un nuovo modello di “Sé ideale”. Alla fine di questo processo il paziente dovrà strutturare un’autostima derivante da un confronto realistico tra sé ideale e sé percepito, che include anche le caratteristiche che un tempo lo definivano come “inetto” ai propri occhi e a quelli altrui. È bene alla fine del trattamento di informare il paziente della possibilità di ricadute, insegnandogli a capire i segni prodromici dei sintomi così da non catastrofizzare e pianificare di chiamare il terapeuta per delle sedute di rafforzamento con l’utilizzo di tecniche già imparate in precedenza durante la terapia.

 

Psicoterapia online: State of Mind intervista Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis – VIDEO

State of Mind ha intervistato Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis, per comprendere come è nata l’idea e tanti altri aspetti di questa piattaforma di psicoterapia online

 

Negli ultimi anni uno degli aspetti della psicoterapia è decisamente cambiato: complice anche la recente pandemia, il setting terapeutico ha esteso i suoi confini, oltrepassando le pareti degli studi di terapia, per farsi strada nel mondo online e rendersi più accessibile e più adattabile alle necessità dei pazienti.

Un cambiamento che risulta ben più evidente se cerchiamo sul web dei servizi di psicoterapia online: diverse piattaforme sono state create con l’intento di offrire agli utenti percorsi psicoterapeutici o di supporto psicologico su misura. Tra le piattaforme che più di altre si sono fatte strada nel mondo della psicoterapia online, troviamo Serenis, una startup tecnologica che offre percorsi di terapia online in videochiamata, con oltre 400 professionisti specializzati, afferenti ai principali orientamenti terapeutici (cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale e psicoanalitico).

State of Mind ha intervistato Daniele Francescon, co-fondatore di Serenis, per comprendere come è nata l’idea, quali aspetti la differenziano dalle altre piattaforme e cosa dovrebbe aspettarsi un paziente che decide di affidarsi a Serenis per iniziare un percorso di psicoterapia online.

 

Intervista a D. Francescon, co-fondatore di Serenis
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ASCOLTA L’INTERVISTA SU SPREAKER:

Le idee disfunzionali di Albert Ellis

Ellis individuò varie organizzazioni cognitive, tacite filosofie, ideologie o convinzioni disfunzionali di pensiero che ricorrono nella maggior parte dei problemi psicologici che chiamò idee irrazionali.

 

La Rational Emotive Behavioral Therapy (REBT)

Albert Ellis è considerato uno dei padri della Terapia Cognitivo Comportamentale grazie allo sviluppo della REBT che rappresenta probabilmente il primo modello formale di intervento psicoterapeutico CBT. Ispirandosi dichiaratamente alla terapia dei costrutti personali di Kelly (personal construct therapy, PCT) che ritiene come gli essere umani si siano evoluti grazie alla loro capacità di fare ordine nel mondo caotico sviluppando schemi previsionali che consentano di affrontarlo efficacemente e di sopravvivere alle sue insidie, Ellis e Beck sostenevano che le credenze – tra cui quelle da loro definite inizialmente irrazionali -, i pensieri automatici e gli atteggiamenti disfunzionali, dipendessero dagli schemi che ci formiamo per comprendere gli eventi significativi della nostra vita.

Più di ogni altra forma di psicoterapia, la REBT presenta solide basi filosofiche che orientano attivamente l’intervento del terapeuta che si ispira all’idea dei filosofi stoici secondo cui sono le persone a scegliere se venire turbate dagli eventi o per dirla come Epitteto: “non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”.

Le cose in realtà si sono dimostrate ben più complesse, in quanto nella determinazione degli schemi cognitivi utilizzati dall’individuo, un ruolo importante viene svolto sia dagli “strumenti” concettuali a disposizione per elaborare i dati sensoriali, i bias mentali, sia dalle metacognizioni, dalle regole cioè prevalentemente inconsapevoli che definiscono “sincreticamente” una vasta gamma di significati. Tuttavia, uno dei primi e più importanti principi della REBT, che afferma che i pensieri sono tra i più importanti fattori che determinano le reazioni emotive, resta di grande attualità scientifica. In altri termini noi “sentiamo” ciò che pensiamo.

L’accettazione di questo paradigma opera una grande rivoluzione interpretativa rispetto al sentire comune, in quanto non sono le situazioni o gli eventi che ci accadono a provocare in noi le reazioni emotive, quanto piuttosto le nostre percezioni degli eventi e le conseguenti attribuzioni e valutazioni, prevalentemente soggettive, che operiamo su di essi.

Ammettendo quindi che molto spesso sono i processi di pensiero che determinano e definiscono le emozioni e che la maggior parte dei pensieri viene rappresentato tramite l’uso di parole o frasi, se ne può dedurre che la maggior parte delle emozioni si producono e si mantengono in strettissima relazione con i processi del dialogo interno o con le asserzioni ripetitive che si svolgono più o meno consapevolmente nel sistema cognitivo dell’individuo.

Le idee disfunzionali o idee irrazionali

La gamma di concetti, idee e pensieri di natura irrazionale, illogica, superstiziosa o magica, utilizzata dagli esseri umani, risulta estremamente vasta ed in questa estrema varietà Ellis individuò varie organizzazioni cognitive, tacite filosofie, ideologie o convinzioni disfunzionali di pensiero che ricorrono nella maggior parte dei problemi psicologici.

Chiamò questi schemi cognitivi “idee irrazionali”, riscontrando la ricorrenza di quattro categorie generali nelle quali ricondurle:

  • affermazioni di dovere, implicanti esigenze e pretese irrealistiche ed assolutistiche sugli eventi, le situazioni e gli individui. I doveri vengono vissuti come obblighi imprescindibili, non modulabili, imposti dogmaticamente agli altri ed a noi stessi, obblighi sui quali si è perduta la capacità di analisi e valutazione non solo riguardo alla loro convenienza ma talvolta sulla loro stessa realizzabilità;
  • affermazioni di “terribilizzazione”, che esagerano e colorano emotivamente le conseguenze negative di una data situazione, anticipando inconsapevolmente i peggiori esiti immaginabili che ne impediscono una valutazione oggettiva e proporzionata;
  • affermazioni di “bisogno”, caratterizzate da esigenze arbitrarie credute necessarie o addirittura indispensabili all’individuo per sopravvivere o per poter vivere una vita adeguata;
  • affermazioni di “valore” che implicano la valutazione globale della personalità propria o altrui subordinando il valore individuale alla presenza o meno di alcune condizioni. L’errore fondamentale, così determinato, consiste nel trasferire alla natura intrinseca di un essere umano (ciò che sono), valutazioni o giudizi che invece riguardano esclusivamente le prestazioni intrinseche (ciò che faccio).

Nell’analisi della struttura concettuale delle idee irrazionali, il primo livello che incontriamo è quello inferenziale, la tendenza cioè ad attribuire arbitrariamente un significato non riconducibile al fatto in premessa; inferire deriva dal latino e significa esattamente portare dentro, e rappresenta un processo psicologico che ci induce ad assumere automaticamente alcune implicazioni che non sono necessariamente ricomprese nel significato oggettivo.

Il secondo sono gli obblighi o le pretese che rappresentano pensieri tassativi su come dovrebbe essere la realtà, una sorta di visione rigida e assoluta che tende ad asservire la realtà alle nostre convinzioni personali; tali assunzioni sono rigide, dogmatiche ed assumono la caratteristica del pensiero unico e ritengono che esista una sola visione della realtà, della verità, del bene ecc.

Il terzo e più importante processo attuato sono le valutazioni, o per dirla meglio le assunzioni di valore che vengono applicate a tutte le situazioni, secondo una scala personale e soggettiva che determina l’importanza percepita del singolo accadimento. Il processo di valutazione coinvolge indifferentemente le implicazioni relative alla qualità della propria vita, alle altre persone ed anche a noi stessi e, come abbiamo visto, la tendenza è quella di applicarlo al proprio valore personale, determinando il modo in cui la persona considera se stessa, ponendosi di fatto come fondamento del concetto di autostima.

In questi termini la sequenza presentata si discosta da quella indicata inizialmente da Ellis perché ritiene che l’elemento nucleare determinante sia proprio il processo valutativo associato alla mancata soddisfazione della pretesa deontica. In realtà il dibattito riguardo alla priorità delle preposizioni deontiche (che postulano doveri), rispetto a quelle assiomatiche (che postulano valori) aveva già interessato sia Ellis sia De Silvestri e, sebbene al riguardo siano state assunte posizioni diverse, quello che appare chiaro è che tanto le preposizioni deontiche quanto quelle assiomatiche sono capaci di determinare disturbi e sofferenza se, e solo se, assolutizzano valori e doveri.

In effetti il nucleo patogeno sembra basarsi proprio sull’assolutizzazione del principio rappresentato; tutti noi crediamo e ci avvaliamo di regole che ci guidano nei nostri orientamenti e nelle nostre scelte, essere onesti, leali ecc. sono principi ai quali cerchiamo di adeguarci. I problemi insorgono quando una di queste convinzioni diviene imperativa ed imprescindibile e comporta quindi un adeguamento impellente e incondizionato; prendiamo l’esempio del rubare: siamo concordi nel ritenere che sia un’azione riprovevole, ma se io rubassi del cibo per salvare la vita ad una persona questo comportamento sarebbe ugualmente biasimevole? O al contrario apparirebbe come una azione nobile?

Cercare di essere competenti nel proprio lavoro è certamente positivo, ma assumere di doverlo essere sempre, in ogni situazione indipendentemente dalle specifiche circostanze, condanna la persona ad un’ansia costante perché, data l’ambizione irrealistica del proposito, gli obiettivi fissati, che sono assoluti, non potranno essere realizzati, determinando conseguentemente un perdurante e radicato senso di inadeguatezza e di disvalore personale.

Le idee disfunzionali sono tali perché impongono all’individuo una visione estremizzata della realtà, in genere refrattaria ad ogni considerazione alternativa, determinando schemi comportamentali poco efficaci, spesso non riconducibili agli obiettivi desiderati o ritenuti utili dall’individuo, e definendo valutazioni cognitive dannose. Infatti l’attivazione emotiva deriva fondamentalmente dalle valutazioni primarie che definiscono quanto sia rilevante l’esperienza al fine del raggiungimento dei propri obiettivi determinando quale emozione proveremo e se questa risulterà funzionale o meno.

Va chiarito che, sebbene Ellis abbia precisato che la sua definizione di razionale era riferita alla tendenza di pensare, sentire e comportarsi in modo essenzialmente funzionale rispetto agli obiettivi della nostra vita, tendenza che deve aiutarci a scegliere valori e scopi utili al mantenimento della nostra sopravvivenza ed al raggiungimento del nostro benessere, si è poi ritenuto opportuno (De Silvestri) adottare il termine meno equivoco di “funzionale”, che esemplifica più chiaramente l’adozione di una visione più relativa ed utilitaristica, che adotta schemi basati sulla loro aderenza a tre principi: la corrispondenza alla realtà percepibile e dimostrabile; l’efficacia nell’affrontare e risolvere le difficoltà riscontrate nel vivere quotidiano; la determinazione di correlazioni emotive adeguate.

L’origine delle idee disfunzionali

Ma come si generano le Idee Irrazionali? Ebbene esse nascono quali strumenti utili per definire il proprio mondo, come regole generali che ci aiutano ad anticipare gli eventi avendo a disposizione un modello concettuale che ci dica come è utile comportarci; si pensi ad esempio all’utilità di essere accolti e considerati dal proprio gruppo di appartenenza, oggi sembra essere soltanto una questione di accettazione sociale, ma quando ci muovevamo in piccoli clan di 50/60 individui l’accoglienza da parte del gruppo era veramente fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo.

Ogni essere umano si forma delle idee di come va o di come dovrebbe andare il mondo, il problema è che queste aspettative o desideri si possono trasformare in pretese e in assunti deontici riflettendo aspettative irrealistiche su eventi o persone spesso riconducibili alle locuzioni devo – devi— è indispensabile.

La formazione di questi schemi si sviluppa sin dai primi anni, prosegue per tutta la vita e si concretizza nell’utilizzo di modelli interpretativi e valutativi finalizzati a spiegare e gestire gli eventi significativi. Poiché essi vengono sviluppati in un’età nella quale non si dispone di sufficienti elementi discriminativi, questi vengono assunti come implicitamente veri e quindi interiorizzati non come ipotesi concettuali ma come una esatta definizione della realtà.

Questo determina due ulteriori significative conseguenze, la prima è che per concettualizzare queste regole utilizziamo strumenti cognitivi molto grossolani, fortemente condizionati dai vari bias e dai vari processi distorsivi, come gli assunti illogici, le deduzioni falsate, le nozioni dogmatiche o assolutistiche, il pensiero dicotomico, le generalizzazioni ecc.; la  seconda è che, rappresentando apparentemente la realtà, questi schemi saranno considerati veri a prescindere e quindi saranno automatizzati a tal punto nel loro uso operativo da renderli di fatto inconsapevoli.

Ne consegue l’adozione di forme di pensiero estremamente rigide, che portano le persone ad utilizzare una serie limitata di strategie, spesso obsolete perché incapaci di cambiare e di adeguarsi al mutamento delle situazioni.

La rigidità cognitiva di una persona si manifesta nell’incapacità di costruire nuove e più appropriate rappresentazioni del mondo ma anche di se stesso e degli altri, mantenendo una pervicace aderenza alle vecchie idee saldamente fissate nella mente.

Quando si crea una discrepanza fra le nostre aspettative e la realtà percepita si genera uno stato di attivazione emotiva che può essere risolta, secondo Piaget, mediante assimilazione o accomodamento. La creazione di un nuovo schema interpretativo è una forma di accomodamento, si cercano nuovi modelli, nuove informazioni, ipotesi alternative, sviluppando il pensiero divergente e creativo; di contro l’assimilazione consiste invece nel mantenere immodificato lo schema interpretativo, tralasciando i dati discordanti e adeguando ad esso la propria percezione della realtà, ignorando semplicemente la falsificazione dell’aspettativa.

In genere noi tutti propendiamo per questa seconda modalità dato che l’accettazione di questi schemi fissi, delle regole assolute, degli stereotipi, dei cliché, risponde ad una precisa esigenza di risparmio psichico, ci consente cioè di disporre di rapide risposte automatiche senza che sia necessario impegnare la sfera cosciente in continue ed estenuanti analisi; sebbene quindi, apparentemente, essa sembri risultare una modalità rapida ed efficace per affrontare la realtà nel medio e lungo periodo rappresenta in realtà una grave difficoltà nel processo di autosviluppo individuale perché impedisce il formarsi di una visione personale indipendente, centrata sui reali bisogni e necessità della persona, che, sarà così portata inconsapevolmente ad utilizzare sempre più frequentemente i modelli già pronti, senza assumersi l’onere di sviluppare regole più articolate e complesse per adeguarsi di volta in volta alle situazioni di vita.

Un esempio classico lo troviamo nel pensiero magico che, secondo la psicologia dello sviluppo di Jean Piaget, sarebbe una forma arcaica di pensiero, tipico della fase magico-animistica attraversata dal bambino nella fascia di età dai due ai cinque anni, detta dell’«egocentrismo». In seguito si attraverserebbero altre tappe, l’ultima delle quali consiste nell’acquisizione delle capacità cognitive proprie della logica ipotetico – deduttiva.

Il pensiero magico dunque per Piaget scomparirebbe del tutto nella persona adulta, venendo sostituito da un approccio più razionale e concreto alla realtà. Questa concezione ha portato a identificare la logica come la forma di pensiero più elevata, come se la razionalità ipotetico – deduttiva propria dello scienziato fosse quella più idonea a definire la natura del pensiero umano.

Più recentemente, però, gli studi effettuati sui bias mentali hanno evidenziato come anche gli adulti, ordinariamente, ricorrono al pensiero magico, dimostrando come questa forma di pensiero continui a persistere nella psiche continuando ad assolvere a tre principali funzioni, ovvero quella difensiva, propiziatoria e conoscitiva.

Di conseguenza il pensiero magico e il pensiero razionale si configurano come due strutture mentali compresenti nell’adulto, due forme di pensiero sostanzialmente diverse ma in costante interazione nella definizione della realtà e, diversamente da quanto prospettato dal grande psicologo svizzero, non esiste una vera e propria maturazione lineare da un pensiero infantile a un pensiero pre-logico e logico formale nell’adulto.

Nell’adulto, ritroviamo infatti le stesse strategie cognitive e le scorciatoie intuitive che registriamo nel bambino, cosa che del resto non dovrebbe stupirci visto che molti processi distorsivi rappresentano gli strumenti iniziali con i quali costruiamo gradualmente le nostre rappresentazioni mentali più complesse.

Le Idee Disfunzionali sono quindi dei modelli rigidi e stereotipati che, interpretando automaticamente la realtà, cercano costantemente di assimilarla alle convinzioni sostenute, sottraendosi al principio di verifica e di adattamento; invertendo l’ordine dei fattori, anziché essere l’individuo ad adattarsi alla realtà, si cerca di piegare questa alle proprie aspettative, determinando risposte emotive sempre dannose, proprio in ragione di questa continua inaccettabilità delle situazioni percepite.

L’intervento sulle idee disfunzionali

Se dunque i disturbi psichici sono considerati in gran parte (sebbene non completamente) in funzione delle percezioni, delle rappresentazioni e delle valutazioni che ci formiamo in merito agli avvenimenti che ci accadono, ne consegue che gli stati emotivi patologici o disfunzionali sono, in larga parte, il risultato di processi disfunzionali del pensiero. Quindi uno dei modi in cui si potrebbe migliorare il senso di benessere personale sarebbe quello di controllare le emozioni spiacevoli o dannose potenziando le nostre capacità di descrivere e rappresentare la realtà percepita, modificando gli schemi di pensiero e le idee che li determinano e li sostengono.

In tal senso l’adozione del metodo scientifico viene proposto come un modello interpretativo alternativo e più adatto a sviluppare il benessere psicologico. L’individuo si adatta meglio alla realtà quando è in grado di sottoporre a verifica le proprie premesse, esamina la validità e utilità delle proprie convinzioni ed è disposto a prendere in considerazione idee alternative.

In quanto esseri umani non possiamo evitare di generare ipotesi influenzate dai nostri desideri e dalle nostre aspettative e di tendere spontaneamente verso i dati che si accordano con esse; è questo che rende impossibile l’adozione di un ragionamento obiettivo e razionale che sia del tutto estraneo alla soggettività del senziente.

Possiamo però cercare di avvicinarci a considerazioni più oggettivabili assumendo diverse linee guida: se accetto che quello che penso non è necessariamente vero, mi sarà più facile adottare pratiche regole di verifica; se sviluppo il metodo costruttivista, tenderò ad approfondire la visione del mondo attraverso l’analisi della sua complessità rifuggendo da semplicistiche scorciatoie.

La visione relativistica proposta ci porta quindi a formulare una posizione apparentemente molto forte e cioè che molte delle nostre convinzioni, schemi, percezioni e verità in cui crediamo potrebbero essere erronee o inadeguate. L’idea di mettere in discussione il nostro sistema di convinzioni più radicato ci risulta particolarmente ostica in quanto confligge con una delle distorsioni più significative, quella definita epistemologia narcisistica ovvero: dato che lo penso è vero.

È intuibile che l’analisi critica dell’insieme di concetti, principi, idee e pensieri che risultano collegati tra loro in modo tale da influenzarsi e rinforzarsi reciprocamente, non necessariamente in modo coerente o logico, ma sicuramente in modo assertivo, richiede un onere rilevante che trova la sua giustificazione nell’obiettivo fissato dalla psicoterapia che, come ha detto Kelly:

…deve concentrarsi sulla creazione di nuove ipotesi e previsioni che costituiscano un livello più elevato verso l’invenzione di un nuovo sistema di significati, piuttosto che cercare di riparare o rattoppare i guasti del sistema corrente.

I problemi psicologici non sono necessariamente il prodotto di forze misteriose o impenetrabili, ma spesso derivano da procedimenti più ovvi, come un apprendimento sbagliato, deduzioni ed informazioni errate, confusione tra immaginazione e realtà, accettazione acritica di processi distorsivi; ne consegue che possono essere padroneggiati affinando le capacità discriminatorie, correggendo i concetti errati e imparando modalità di pensiero più adattative.

Questo richiede un grande impegno, così come a ben guardare lo richiede la normale vita quotidiana che ci impone un adattamento ad una realtà che è divenuta così complessa, così interconnessa con migliaia di fattori assolutamente imprevedibili da apparire il più delle volte assolutamente ingestibile.

L’uomo moderno è continuamente costretto a prendere decisioni più o meni rilevanti rispetto alla propria vita, come guidare un’automobile, fare degli investimenti finanziari, cambiare lavoro o luogo di residenza, trovandosi a dover distinguere tra situazioni che sono realmente pericolose e quelle che semplicemente sembrano pericolose, dovendo analizzare e confrontare migliaia e migliaia di dati disponendo di strumenti cognitivi che non sono adeguati a tale compito.

Questo contrasta con l’idea di molti psicologi che sognano di descrivere la mente e i suoi processi in modo tanto economico da rendere la psicologia semplice e precisa; ma questo non tiene conto del fatto che il funzionamento della nostra mente non dipende da poche e semplici regole perché, durante il lungo periodo dell’evoluzione, il nostro cervello ha accumulato molti meccanismi, che hanno dovuto rispondere a esigenze diverse e talvolta antitetiche nel continuo confronto con la mutevolezza della realtà vissuta.

Per questo l’alternativa proposta dalle scienze cognitive va nella direzione opposta alla semplificazione imperante e promuove la complessità suggerendo che l’unica risposta possibile per un buon adattamento è l’adozione di teorie interpretative adeguatamente complesse, tali da poter affrontare con successo la complessità della realtà che siamo chiamati a vivere.

Ma il cammino non sembra semplice perché, come sosteneva Diderot, il maggior filosofo dell’illuminismo francese:

L’intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso le sue incertezze, la memoria i suoi limiti, l’immaginazione le sue oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti, le cause nascoste, le forme, forse, transitorie. Contro tanti ostacoli che troviamo in noi stessi e che la natura ci pone dal di fuori, disponiamo solo di un’esperienza lenta e di una ragione limitata.

Affermando come la sua concezione di ragione non assomigliava affatto a quella caricatura della “ragione illuministica” di cui possiamo leggere purtroppo ancora troppo spesso anche in alcuni manuali di psicologia.

Manuale delle tecniche psicologiche (2022) di Bernardo Paoli ed Enrico Parpaglione – Recensione

Il volume “Manuale delle tecniche psicologiche” di Paoli e Parpaglione ha l’intento di andare oltre un unico paradigma di riferimento, presentando svariate tecniche utilizzabili dal professionista.

 

“Manuale delle tecniche psicologiche”, un eccellente testo nato ad opera di Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta, ideatore del modello di Terapia Breve delle Esperienze di Equilibrio, co-fondatore dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche, docente di Terapia Breve presso scuole di specializzazione in psicoterapia, consulente e formatore, autore di diversi saggi, ed Enrico Parpaglione, psicologo e psicoterapeuta, trainer e supervisore in Schema Therapy, co-fondatore dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche, Direttore di Training Internazionale Certificato in Schema Therapy. Un validissimo testo all’interno del quale hanno collaborato diversi professionisti di differenti formazioni, orientamenti e specializzazioni.

Un testo che raccoglie numerose tecniche psicologiche tra le più utilizzate, descritte, schedate ed approfondite in modo preciso e chiaro.

Le tecniche psicologiche contenute in questo manuale possono essere definite con nomi alternativi come: esercizi, homework, indicazioni, suggerimenti, suggestioni, prescrizioni, feedback, rimandi, compiti. Ma credo che la parola che si addice resti “esperienze” (Paoli e Parpaglione, p. X).

Tantissime le tecniche raccolte e descritte, distribuite in ordine alfabetico all’interno del suddetto manuale come ABC, Aforismi, Autoipnosi, Body scan, Come peggiorare, Come se, Congiura del silenzio, Controrituale, Defusione, Desensibilizzazione, Dialogo socratico, Dilazione della risposta, Esposizione, Fototerapia, Genogramma, Grounding, Lettere, Mindfulness informale, Prescrizione del sintomo, Pulpito delle lamentele, Respirazione diaframmatica aiutata, Rilassamento Muscolare Progressivo, Sedia vuota, Stop del pensiero, Token Economy, Vantaggi e svantaggi, Zaino.

Il lettore esperto, potrà già notare come l’intento degli autori del manuale è stato quello di andare oltre un unico paradigma di riferimento, offrendo al professionista una raccolta di strumenti validi che possano divenire significativi all’interno e fuori dal proprio studio e facilitare la comunicazione tra i professionisti.

Ogni tecnica viene schedata e descritta in modo preciso, mettendo in risalto le situazioni per le quali è più indicata, obiettivi ed effetti attesi, cosa viene detto e viene fatto, presupposti teorici all’utilizzo della tecnica, testi che ne fanno menzione e tabelle/schemi/allegati.

Ritengo che il Manuale delle tecniche psicologiche” sia veramente uno risorsa preziosa da inserire nella propria libreria, dal forte valore formativo, utile sia al professionista che allo/a psicologa/o in formazione.

 

I disturbi dell’alimentazione, l’ansia, l’autostima e il perfezionismo nello sport

I Disturbi dell’Alimentazione sono associati a conseguenze fisiche e psicologiche che possono portare ripercussioni sia a breve che a lungo termine e che influiscono sulla vita e sulla prestazione sportiva di un atleta.

 

Disturbi alimentari nello sport

In questo studio è stato selezionato un campione che prevede ginnaste e calciatrici che riportano problematiche relative alla gestione alimentare e donne non atlete (Vardar et al., 2006). La porzione di campione femminile con problematiche legate a disturbi alimentari presenta inoltre maggiori livelli di ansia, bassa autostima e perfezionismo (Sundgot-Borgen et al., 2013).

I risultati di questo studio mostrano che le atlete sono maggiormente a rischio di insorgenza di un disturbo alimentare a causa della pressione ambientale, che richiede di raggiungere una composizione corporea ottimale per una prestazione migliore della concorrenza (Cook et al., 2008). Tuttavia, questo studio dimostra anche che nella popolazione femminile di “non atlete” sono presenti comportamenti attinenti al disturbo dell’alimentazione, poiché non sono presenti un’educazione allo sport e un’educazione alimentare corrette.

Per quanto riguarda le componenti psicologiche, è emersa una correlazione positiva e statisticamente rilevante tra l’ansia (comprende sia l’ansia di tratto che quella di stato) e i comportamenti alimentari problematici, che sono stati analizzati tramite il test EAT-40 (Coelho et al., 2013). Un’altra ricerca ha riportato che livelli più alti di ansia innescata dallo sport correlano positivamente con l’insorgenza di una sintomatologia bulimica; inoltre, vi è una maggiore propensione alla magrezza generale (Holm-Denoma et al., 2009).

Perfezionismo e autostima nello sport

Quando si usa il termine perfezionismo si fa riferimento a una caratteristica di personalità che comporta la creazione di standard eccessivamente elevati che vengono accompagnati da una valutazione autocritica molto severa (Frost et al., 1990). L’analisi di regressione condotta nello studio ha mostrato come il perfezionismo e i livelli di ansia siano in una relazione di dipendenza molto forte (Petisco-Rodriguez et al., 2020).

I risultati dello studio selezionato riportano una correlazione positiva tra ansia e perfezionismo, in particolare risulta una interdipendenza con la prima sottoscala, ovvero quella del perfezionismo orientato verso sé stessi e una correlazione negativa con la seconda, che riguarda il perfezionismo legato alla sfera sociale (Koivula et al., 2002).

Lo sport, l’allenamento e il dover mantenere un corpo in forze consente agli atleti di prendersi cura del proprio corpo; tuttavia, se un’atleta si trova in una condizione di voler ottenere maggior controllo, a causa del contesto socioculturale, è più propensa a ricadere in strategie restrittive, per cercare di perdere peso, senza pensare a preservare uno stile di vita sano. L’autostima è stata infatti identificata in molti studi come il fattore principale per la prevenzione di un disturbo dell’alimentazione (Petisco-Rodriguez et al., 2020).

Lo studio selezionato getta le basi per futuri approfondimenti relativi all’autostima e alla prevenzione di possibili comportamenti alimentari che possono rivelarsi dannosi per le atlete.

I tratti di personalità e lo stile di attaccamento come predittori della Gelosia Romantica

La gelosia è intrinseca nella storia dell’uomo e caratterizza tutti gli stadi evolutivi, sia in un contesto familiare che in un contesto socio-culturale e sentimentale (Hart e Legerstee, 2010).

 

White, nel 1981, ha provato a dare una definizione di gelosia romantica, che sembra essere la forma più diffusa per quanto riguarda l’età adulta. Viene descritta come “complesso di pensieri, sentimenti e azioni che segue le minacce all’esistenza o alla qualità della relazione, quando queste minacce sono generate dalla percezione di un’attrazione reale o potenziale tra il proprio partner e un rivale (magari immaginario)” (p. 130). È un fenomeno che, seppur spiacevole, risulta essere adattivo e sottintende un desiderio di mantenere la relazione con il partner duratura nel tempo. (Harris, 2003).

Gelosia e nevroticismo

Un recente articolo di Richter et al. (2022) mette a confronto le dimensioni della personalità analizzando i tratti elencati nella teorizzazione dei Big Five e le dimensioni relative all’attaccamento adulto, considerandoli come predittori della gelosia romantica. Le analisi di regressione che sono state svolte su un campione di 847 soggetti, hanno evidenziato che i Big Five e le dimensioni di vicinanza, di dipendenza e di ansia riguardanti l’attaccamento adulto hanno predetto le differenze individuali della gelosia romantica. È emerso inoltre che livelli più alti di nevroticismo correlano positivamente con la gelosia sia indirettamente che direttamente attraverso le dimensioni dipendenza e ansia dell’attaccamento adulto. Il nevroticismo è caratterizzato da una notevole mancanza di fiducia verso il partner e alti livelli di paura relativi ad una bassa consapevolezza di sé stessi e alla sensazione di essere vulnerabili e sempre sotto minaccia, che potrebbe sfociare in attacchi di rabbia e impulsività. (Costa e MCrae, 2012). I soggetti che presentano maggiori livelli di attivazione rabbiosa e impulsiva manifestano più intense reazioni comportamentali nei confronti del partner (Harris e Darby, 2010).

Gelosia e bassa gradevolezza

Il secondo tratto dei Big Five che è collegato ad una maggiore insorgenza di gelosia è la bassa gradevolezza di sé stessi e dell’altro, considerato come rivale, mentre il terzo predittore relativo alla personalità che correla positivamente con la gelosia è la bassa apertura all’esperienza (Wade e Walsh, 2008). I soggetti che sviluppano una maggiore apertura all’esperienza riportano maggiori livelli di flessibilità verso l’interpretazione dei comportamenti ambigui del partner e una migliore gestione della possibile minaccia (Schmitt e Buss, 2001).

Gelosia ed esperienze pregresse

Inoltre, è emerso che il genere, lo status della relazione e le esperienze di infedeltà che hanno coinvolto precedentemente i soggetti hanno influenza positiva per quanto riguarda l’associazione e le differenze personologiche della gelosia romantica.

È uno studio che getta le basi per una buona comprensione delle modalità relazionali di coppia e potrebbe aprire molte porte per quanto riguarda la gestione di problematiche relative al rapporto con il partner e nel funzionamento sociale più generale.

 

Perché mi vengono gli attacchi di panico? – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Perché mi vengono gli attacchi di panico? Comprendere la paura della paura”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri di divulgazione rivolti al pubblico. Nell’episodio di cui oggi vi proponiamo l’ascolto si parlerà di Attacchi di Panico.

Quando l’ansia diventa un limite per la vita e il benessere dell’individuo, è importante affrontarla con trattamenti adeguati. La terapia cognitivo comportamentale è un intervento scientificamente validato e riconosciuto a livello internazionale per il trattamento del Panico.

In questo episodio del podcast sono fornite indicazioni per comprendere il circolo vizioso dell’attacco di panico come primo passo verso la risoluzione della sintomatologia. Uno sguardo per capire cosa succede quando sviluppiamo la paura della paura e cosa possiamo fare per gestire al meglio i momenti problematici.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Emozioni e sentimenti: sovrapposizioni e differenze

Emozioni e sentimenti sono oggetto di ampio dibattito in campo psicologico e talvolta questi due termini vengono equivocati. Sebbene condividano aspetti simili, vi è una marcata differenza di essi.

Arianna Moroni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Le emozioni

Nel corso del tempo sono stati condotti molti studi su emozioni e sentimenti. Una delle ricerche più note è quella portata avanti dagli psicologi statunitensi Paul Ekman e Wallace Friesen, nella tribù dei Fori in Papua Nuova Guinea all’inizio degli anni ’70. Dai risultati di questa indagine oggi sappiamo che esistono sei emozioni di base universali, cioè emozioni che tutti gli esseri umani possono provare, nello specifico: felicità, rabbia, tristezza, paura, disgusto, sorpresa (Ekman, 1999).

In parallelo, le sempre più accurate tecniche sperimentali hanno permesso di chiarire il funzionamento delle emozioni. In questo campo Antonio Damasio ha certamente offerto il suo prezioso contributo. L’autore sostiene che le emozioni e i sentimenti siano essenziali soprattutto per prendere decisioni e organizzare il tempo e le proprie relazioni interpersonali. Inoltre, aggiunge Damasio, dal punto di vista neurobiologico, un’emozione è un insieme di risposte chimiche e neurali prodotto dal cervello quando viene rilevata la presenza di uno stimolo emotivamente saliente: un oggetto o una situazione, per esempio. L’elaborazione dello stimolo è possibile che avvenga in modo consapevole. Tuttavia, non è necessario che lo sia, dato che le risposte emotive vengono generate automaticamente. Il cervello, infatti, è evolutivamente predisposto a rispondere a determinate classi di oggetti ed eventi con determinati repertori di azioni.

Da quanto emerge da ulteriori indagini, l’amigdala, una minuscola struttura a forma di mandorla, parte del sistema limbico e collegata a stati motivazionali come la fame e la sete, svolge un ruolo importante nella memoria e nelle emozioni ed in particolare nella paura (Pessoa, 2010).

Sono state appunto utilizzate tecniche di imaging cerebrale per mezzo delle quali si è scoperto che quando ad un soggetto vengono mostrate immagini minacciose, l’amigdala si attiva. È stato inoltre osservato che un danno all’amigdala è implicato nell’esordio e mantenimento della paura (Ressler, 2010).

In linea con questi risultati, Damasio in “Fundamental Feelings” (2001) sottolinea che varie strutture, come l’amigdala e la corteccia prefrontale ventromediale, assumono il ruolo di mediatori tra l’elaborazione di stimoli emotivamente salienti e le risposte emotive. Viene specificato però che i veri elaboratori delle emozioni sono le strutture dell’ipotalamo, del proencefalo basale e del tronco encefalico. Queste strutture trasmettono segnali al corpo e al cervello andando così ad originare un’emozione. I target principali delle risposte emotive sono quindi il corpo, gli organi interni, il sistema muscolo-scheletrico ed il cervello stesso, ad esempio, i nuclei monoaminergici nel tegmento, parte del tronco encefalico.

Ad ogni emozione sono associate modificazioni fisiologiche, cognitive e/o motorie. Infatti, quando il cervello rileva stimoli emotivamente salienti (Damasio, 2005), invia segnali specifici al sistema endocrino, che è responsabile del rilascio e della regolazione degli ormoni nel sangue, al sistema nervoso autonomo, che agisce sull’omeostasi, sul sistema cardiovascolare, sugli organi interni e sul sistema muscolo-scheletrico, che è responsabile di alcune risposte tipicamente emotive, come il freezing, la fuga o le espressioni facciali legate alle emozioni. Molte risposte fisiologiche che sperimentiamo quando proviamo un’emozione, come i palmi delle mani sudati o il battito cardiaco accelerato, sono regolate dal Sistema nervoso simpatico, un ramo del Sistema nervoso autonomo (McCorry, 2007). Il sistema nervoso autonomo controlla le risposte involontarie, come la pressione arteriosa e la digestione (Lazarus et al, 1984), il sistema nervoso simpatico è incaricato di controllare le reazioni di lotta o fuga. Quando affrontiamo una minaccia, queste risposte preparano automaticamente il nostro corpo a fuggire dal pericolo o ad affrontare la minaccia (Kozlowska et al, 2015).

Scherer (2005) identifica cinque componenti delle emozioni in base al sistema coinvolto e alla sua funzione:

  • la componente cognitiva, collegata all’elaborazione delle informazioni e al sistema nervoso centrale. La sua funzione fondamentale è la valutazione di oggetti o situazioni presentati all’organismo;
  • la componente neurofisiologica, che svolge un ruolo nella regolazione del funzionamento degli organi interni, a seconda del segnale prodotto dal sistema nervoso centrale, dal sistema nervoso autonomo e dal sistema neuroendocrino;
  • la componente motivazionale, che prepara e mette in moto azioni;
  • la componente motoria, connessa all’attività del sistema nervoso somatico, che svolge la funzione di comunicare la reazione comportamentale e le intenzioni motorie;
  • la componente soggettiva, che ha origine nel sistema nervoso centrale e serve per monitorare lo stato interno dell’organismo e l’interazione che quest’ultimo ha avuto con l’ambiente (Scherer, 2005).

I sentimenti

Anolli (2002) definisce i sentimenti come disposizioni affettive rivolte in maniera relativamente stabile verso specifici oggetti, prodotti sulla base di esperienze precedenti e dell’apprendimento sociale. Coinvolgono processi consapevoli che generano aspettative, desideri, atteggiamenti e comportamenti verso l’oggetto (Anolli, 2002). I sentimenti, pertanto, sono influenzati da esperienze personali, convinzioni e ricordi. I sentimenti sono dunque disposizioni d’animo relativamente stabili, mentre le emozioni possono essere temporalmente circoscritte (Anolli, 2002).

Secondo Le Doux (2012), originati nelle regioni neocorticali del cervello, contrariamente alle emozioni, i sentimenti sorgono dalle emozioni e sono modulati da esperienze personali, credenze, ricordi e pensieri legati ad una particolare emozione.

Damasio (2001) descrive i sentimenti come “rappresentazioni mentali dei cambiamenti fisiologici che caratterizzano le emozioni”. I sentimenti infatti amplificano l’impatto di una determinata situazione, rafforzano l’apprendimento e aumentano la probabilità che situazioni simili a quelle sperimentate vengano anticipate.

Secondo la prospettiva di Damasio (2013), i sentimenti sono connessi alla regolazione omeostatica, che va dai processi di base, come il metabolismo, alle più complesse emozioni sociali. Una caratteristica cruciale dei sentimenti è la loro valenza, positiva o negativa e questa, insieme all’intensità dei cambiamenti omeostatici, aiuta a spiegare perché l’organismo segua l’orientamento dato da un sentimento (Damasio e Carvalho, 2013).

Emozioni primarie ed emozioni secondarie

Antonio Damasio divide il regno delle emozioni in due gruppi: emozioni primarie e secondarie. Le emozioni primarie sono definite come “innate”, “risposte preorganizzate”, a caratteristiche dello stimolo come dimensione, tipo di movimento e tipo di suono. Ad esempio, la reazione del pulcino di nascondere la testa alla vista di ali larghe che volano sopra di lui ad una certa velocità è una tipica emozione primaria. Tutto ciò che serve per suscitare un’emozione primaria è un rilevamento approssimativo e rapido e la coscienza non è richiesta. Le emozioni primarie sono generate nel sistema limbico, e da lì si espandono al corpo (tramite il sistema nervoso ed endocrino) e ad altre parti del cervello (Schreiber, 1995).

Le emozioni secondarie, invece, nella definizione di Damasio (1995), “hanno luogo quando iniziamo a provare sentimenti e a formare connessioni sistematiche tra categorie di oggetti e situazioni, da un lato, ed emozioni primarie, dall’altro”. Ad esempio, se immaginiamo di incontrare un vecchio amico, potremmo subire dei cambiamenti corporei tipici delle emozioni primarie (la pelle potrebbe arrossire, il battito cardiaco accelerare, ecc.), ma in questo caso la reazione corporea sarebbe innescata da quella che Damasio chiama “immagine mentale” – cioè sarebbe innescata “off-line”, non direttamente dalla percezione di uno stimolo, ma piuttosto attraverso i pensieri. Il sistema limbico non è sufficiente per le emozioni secondarie, perché non è in grado di supportare “categorie di oggetti e situazioni”. Il circuito cerebrale legato alle emozioni secondarie deve quindi essere più ampio e, ipotizza Damasio, deve includere meccanismi legati alle emozioni primarie oltre a parti della corteccia responsabili dell’elaborazione di stimoli complessi (come valutazioni e aspettative). Sembrerebbe infatti più economico in natura formare nuove emozioni da vecchi meccanismi, piuttosto che aggiungerne di nuove (Damasio, 1995).

Damasio, con riferimento a questo concetto, ad esempio, sostiene che il disprezzo, che da alcuni studiosi è considerato una tipica emozione secondaria, condivida molti tratti, e in particolare le espressioni facciali, con il disgusto, emozione primaria che, dal punto di vista evolutivo, è connessa all’evitamento di cibi potenzialmente pericolosi (Damasio 2004).

Le emozioni sono anche caratterizzate da una componente fisica somatica, e provocano immediatamente reazioni corporee qualora ci troviamo in presenza di minacce o ricompense. Gran parte delle risposte emotive sono quindi direttamente osservabili per mezzo di misurazioni psicofisiologiche e neurofisiologiche e test endocrini. Le reazioni corporee attivate dalle emozioni possono ad esempio essere quantificate misurando la dilatazione pupillare (per mezzo dell’eye tracking), la conduttanza cutanea (EDA/GSR), l’attività cerebrale (EEG, fMRI), la frequenza cardiaca (ECG) e osservando le espressioni facciali.

Per quanto riguarda i sentimenti, essi sono misurabili utilizzando strumenti di autovalutazione come interviste, sondaggi e questionari costituiti da scale di valutazione e di autovalutazione.

Le emozioni e i sentimenti, quindi, hanno un impatto significativo sul comportamento, sono interdipendenti tra loro, possono essere copresenti e possono influenzare il modo in cui interagiamo con gli altri.

 

Che relazione esiste tra ansia sociale e pratiche genitoriali?

Uno studio condotto nel 2019 (Gómez-Ortiz et al., 2019) ha indagato le possibili relazioni dirette ed indirette tra pratiche educative materne e paterne ed ansia sociale negli adolescenti, considerando l’influenza dei fattori di mediazione come la bassa autostima e la soppressione emotiva. 

 

Il disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale) è caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione che si attiva in risposta a situazioni sociali in cui le persone hanno paura di essere giudicate e valutate negativamente dagli altri (American Psychiatric Association, 2014).

È uno dei disturbi più comuni tra gli adolescenti e le implicazioni che comporta non si limitano al disagio che provoca, ma anche ai limiti che si hanno nell’adattamento sociale dei giovani alle situazioni e alle interazioni sociali (Knappe et al., 2012).

Indagare e conoscere i fattori eziologici associati alla comparsa del disturbo è necessario per stabilire come prevenire il disturbo. Buona parte delle ricerche riguardanti la diagnosi di fobia sociale si sono concentrate sullo studio dell’associazione tra ansia sociale e pratiche educative genitoriali; i risultati hanno identificato il ruolo rilevante di determinati fattori quali l’iperprotezione, l’eccessivo criticismo, il rifiuto e la mancanza di affetto genitoriale (Garcia-Lopez et al., 2014).

Ansia sociale, iperprotezione e criticismo genitoriale

Analizzando questi fattori singolarmente, l’iperprotezione materna (Knappe et al., 2012; Rork & Morris, 2009; Xu et al., 2017) ed il criticismo costante (Rork & Morris, 2009) sono risultati essere due dei fattori più impattanti sullo sviluppo di ansia sociale (Knappe et al., 2012; Rork & Morris, 2009; Xu et al., 2017); di fatto è stato rilevato che comunemente, i genitori dei figli con fobia sociale si concentrano su ribadire loro cosa non fare piuttosto che sul spiegargli i comportamenti socialmente appropriati da utilizzare (Gulley et al., 2014).

Il criticismo inoltre, è spesso accompagnato da modelli di comunicazione carente o negativa (Hummel & Gross, 2001) e da un minore calore affettivo (soprattutto paterno) (Knappe et al., 2012; Xu et al., 2017).

Controllo genitoriale e ansia sociale: il ruolo di autostima e regolazione emozionale

Un articolo pubblicato nel 2016,(Gómez-Ortiz & Casas, 2016) si è concentrato sullo studio del controllo psicologico e comportamentale genitoriale e sulle pratiche di disciplina; il primo si riferisce all’uso di strategie manipolative ed intrusive che innescano il senso di colpa o il ritiro dell’affetto per controllare il bambino, mentre il secondo si riferisce all’utilizzo di alcune domande dirette per ottenere informazioni dal bambino. Queste pratiche sono descritte come fattori di rischio per l’insorgenza di ansia sociale. Sebbene le evidenze teoriche suggeriscano un ruolo determinante della famiglia per lo sviluppo di ansia sociale, studi che ne hanno ricercato la relazione diretta non hanno riportato dati significativi. Una delle motivazioni potrebbe essere la presenza di una relazione indiretta (e non diretta) tra le pratiche genitoriali e l’ansia sociale, mediata dalle qualità individuali quali abilità di regolazione emozionale o autostima; questi fattori hanno rilevato una stretta relazione sia con l’ansia sociale (Gómez-Ortiz et al., 2018; Jazaieri et al., 2015; Kivity & Huppert, 2018; Vicente E. Caballo, Isabel C. Salazar, and CISO-A Research Team Spain & University of Granada, 2018) che con gli stili educativi genitoriali (García et al., 2018; Turpyn et al., 2015) poiché sembrano mediare vari problemi di adattamento (come depressione, aggressività, ansia ) nei bambini e negli adolescenti (Bozicevic et al., 2016; Wouters et al., 2018). Tuttavia, il ruolo di mediazione giocato da questi fattori non è stato ancora studiato.

Per questo, uno studio condotto nel 2019 (Gómez-Ortiz et al., 2019) ha indagato le possibili relazioni dirette ed indirette tra pratiche educative materne e paterne ed ansia sociale negli adolescenti, considerando l’influenza dei fattori di mediazione come la bassa autostima e la soppressione emotiva.

I risultati, in linea con gli studi precedenti (Gómez-Ortiz & Casas, 2016; Knappe et al., 2012), rilevano una relazione diretta, sebbene lieve, tra le pratiche educative genitoriali e l’ansia sociale. La dimensione del controllo psicologico, sia materno che paterno, è risultata essere la variabile maggiormente associata all’ansia sociale; questo sembra suggerire un legame tra la bassa autostima e le procedure intrusive e manipolative genitoriali (Barber & Xia, 2013).

I dati inoltre hanno rilevato la relazione indiretta, mediata dalla bassa autostima e dalla soppressione emotiva, tra pratiche genitoriali e ansia sociale; la mancanza di affetto e di comunicazione, la promozione limitata dell’autonomia, la mancanza di umorismo ed il controllo psicologico, sono le pratiche genitoriali che sembrano avere un impatto maggiore sull’ansia sociale dei giovani; tra tutte, la variabile che è risultata essere più associata all’ansia sociale è quella relativa alla bassa autostima. Questo, fa pensare che il problema principale di questo disturbo sia la mancanza di fiducia in se stessi e la conseguente costante messa in discussione del proprio valore, che porta alla creazione di interferenze cognitive (come la paura della valutazione negativa da parte degli altri) che sembrano essere il punto di partenze per lo sviluppo di ansia sociale  (American Psychiatric Association, 2014; van Tuijl et al., 2014).

Conclusione

In conclusione, i risultati della ricerca condotta nel 2019 hanno confermato il ruolo perno del contesto, dello stile e delle pratiche genitoriali adottate per lo sviluppo infantile della socializzazione. La famiglia, dovrebbe essere prima di tutto una fonte di affetto ed i genitori dovrebbero sia supervisionare, che accompagnare il bambino ad un sano grado di autonomia, che permetta di interiorizzare il proprio senso di valore e che permetta di gestire le proprie emozioni, ricorrendo a procedure efficaci.

 

Metacredenze, ruminazione e rimuginio nei disturbi di personalità

La prevalenza dei disturbi di personalità nella popolazione generale negli USA e in Europa si aggira attorno a un range del 6–13% (Sansone & Sansone, 2011). Vi è una significativa comorbidità tra i disturbi di personalità e altri disturbi della sfera emotiva (Lenzenweger et al., 2007; Goodwin et al., 2005).

 

Il costrutto di Repetitive Negative Thinking

Partendo da tali premesse, risulta importante approfondire i meccanismi che possono essere affrontati in terapia con i disturbi di personalità, per favorirne gli outcome e i cambiamenti terapeutici. Uno di questi meccanismi, che può essere significativo anche in riferimento alla comorbidità tra disturbi affettivi e disturbi di personalità è il costrutto del Repetitive Negative Thinking.

In letteratura il termine Repetitive Negative Thinking (RNT) fa riferimento a un processo cognitivo caratterizzato da una forma di pensiero ripetitivo, frequente e focalizzato sul sé, che include sia il rimuginio che la ruminazione (Watkins, 2008)

Il rimugino è definito come una catena di pensieri e immagini incontrollabili (Borkoveck et al., 1983). È un tentativo di problem solving a livello mentale relativamente a problemi il cui esito è sconosciuto, ma include la possibilità che possa essere negativo.

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi, dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

La ruminazione è definita come pensieri che focalizzano ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991). La ruminazione è quindi un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo, che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative. La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo.

Il rimugino è solitamente focalizzato sulla risoluzione dei problemi ed è più orientato al futuro, mentre la ruminazione in genere si concentra sui problemi passati.

Il Repetitive Negative Thinking (RNT), che include sia la ruminazione che il rimuginio, è considerato un processo patologico transdiagnostico, che aumenta la vulnerabilità ai disturbi d’ansia e dell’umore e alla loro comorbidità (McEvoy et al., 2013). Pertanto, considerando l’elevata comorbidità tra disturbi di personalità e disturbi d’ansia e dell’umore, è ragionevole ipotizzare che il Repetitive Negative Thinking possa essere maggiormente prevalente anche tra i pazienti con diagnosi di disturbo di personalità.

Parimenti, le metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate. Secondo Wells e Matthews (1994) i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti. A volte capita che queste metacredenze, di natura positiva o negativa, portino gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali.

Le metacredenze di natura positiva riguardano l’impatto percepito come positivo delle strategie di coping sui processi cognitivi, come ad esempio “Ruminare mi aiuta a dare un senso ai miei pensieri”, mentre le metacredenze di natura negativa riguardano ad esempio l’incontrollabilità e la pericolosità dei pensieri e processi cognitivi, come ad esempio “Non posso controllare la mia mente”. Tali metacredenze vengono generalmente valutate attraverso il Metacognitions Questionnaire-30 (MCQ-30; Wells, and Cartwright-Hatton, 2004).

Repetitive Negative Thinking (RNT) e metacredenze nei disturbi di personalità

A fronte della scarsità di ricerche sul tema del Repetitive Negative Thinking (RNT) e delle metacredenze nei disturbi di personalità, lo studio di Spada e colleghi (2021), pubblicato recentemente su Journal of Affective Disorder, ha voluto approfondire il tema delle credenze metacognitive e del Repetitive Negative Thinking proprio in questa tipologia di disturbi. In particolare, l’obiettivo dello studio era quello di verificare se vi fossero differenze significative nelle credenze metacognitive e nel RNT tra i pazienti con diagnosi di disturbo di personalità e pazienti che non avevano un disturbo di personalità.

Nello studio di Spada e colleghi (2021) un campione di 558 pazienti è stato valutato in termini di presenza di diagnosi di disturbo di personalità; a tutti i partecipanti sono stati somministrati diversi questionari self-report: il Penn-State Worry Questionnaire per la valutazione del rimuginio, la Ruminative Response Scale, per la valutazione della ruminazione, il Metacognitions Questionnaire -30 per l’assessment delle metacredenze, e infine il Beck Anxiety Inventory e il Beck Depression Inventory per la misurazione dei sintomi ansiosi e depressivi.

I risultati delle analisi statistiche dimostrano che i pazienti classificati con diagnosi di disturbo di personalità, se confrontati con pazienti che non presentano tale diagnosi, hanno punteggi più elevati nelle scale che misurano la ruminazione e il rimuginio (processi che fanno riferimento al Repetitive Negative Thinking), così come nelle scale dell’ansia e della depressione.

Questi risultati sono coerenti con gli esiti di precedenti ricerche che evidenziano come la gravità della sintomatologia nei pazienti con disturbo di borderline di personalità fosse correlata a maggiori punteggi nelle scale di valutazione della ruminazione e del rimuginio (Peters et al., 2017; Titus, and DeShong, 2020).

Inoltre, in tre scale su cinque del questionario MCQ-30 i pazienti con disturbo di personalità risultavano avere punteggi significativamente più elevati, e in particolare nelle sottoscale “Metacredenze positive riguardo al rimuginio”, “Metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e al pericolo delle preoccupazioni” e “Credenze riguardo il bisogno di controllo dei pensieri”.

In secondo luogo, i risultati delle analisi di regressione hanno evidenziato che nei pazienti con una diagnosi di disturbo di personalità le metacredenze positive riguardo al rimuginio e le metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e alla pericolosità delle preoccupazioni erano predittori del rimuginio; similmente, le metacredenze negative riguardo all’incontrollabilità e alla pericolosità delle preoccupazioni erano predittori indipendenti della ruminazione, insieme al fattore dell’autoconsapevolezza cognitiva.

I risultati dello studio sono in linea con il modello S-REF (Wells, and Matthews, 1994; 1996) che vede le metacredenze come fattori correlati all’attivazione e al mantenimento di strategie di coping disfunzionali, che possono a loro volta portare a un’escalation del distress psicologico e della sintomatologia ansioso-depressiva.

Conclusioni

In generale, quindi, lo studio dimostra che i pazienti con disturbo di personalità riferiscono maggiori livelli di metacredenze e di Repetitive Negative Thinking se comparati con altri pazienti che presentano disturbi emotivi ma che non hanno diagnosi di disturbo di personalità.

In conclusione, il Repetitive Negative Thinking e le metacredenze sembrano essere fattori che possono giocare un ruolo significativo nel mantenimento della gravità del distress psicologico esperito da pazienti con disturbi di personalità. In tal senso, se tali risultati verranno replicati ed approfonditi da ulteriori ricerche, si potrebbe fare strada all’integrazione di nuove prospettive per il trattamento dei pazienti con disturbi di personalità, avendo come target specifico le metacredenze e il Repetitive Negative Thinking attraverso la terapia metacognitiva (MCT), già dimostratasi efficace nel trattamento di un ampio range di disturbi psichici (Normann and Morina, 2018).

Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive – Recensione

“Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive” va da capitoli in cui l’autore ripercorre ricerche ed esperienze sul campo fatte durante i lunghi anni di carriera accademica e di ricerca (in particolare con la sindrome di Down), a capitoli più teorici sul tema della disabilità intellettiva, ad altri più pratici, con esempi e indicazioni utili.

 

Il tema dell’inclusione della diversità è sempre attuale nelle nostre società, che diventano sempre più frenetiche, multiculturali e complesse. È inoltre molto sentito in Italia, paese – almeno a livello scolastico – tra i più inclusivi del mondo, in quanto da decenni non prevede più le scuole speciali per bambini con un qualche tipo di disabilità. Il fatto però che di inclusione si parli da molto tempo, che la si attui quotidianamente nelle scuole e in altri ambienti della società non significa che ciò poi avvenga nel modo più opportuno, né che le persone e le istituzioni che la mettono in pratica lo facciano con adeguata cognizione di causa. Per acquisire maggiori conoscenze in proposito, sia da un punto di vista psicopedagogico che didattico, può essere allora molto utile la lettura di un libro come “Potenziali di sviluppo e di apprendimento nelle disabilità intellettive” di Renzo Vianello (Erickson, 2012).

L’autore non ha bisogno di presentazioni. Vianello, professore emerito all’Università di Padova, è uno dei massimi esperti a livello italiano ed europeo di disabilità intellettive, ambito di cui si occupa attivamente tuttora e sul quale ha scritto tantissimo durante la sua lunga carriera di accademico e ricercatore. Il libro di cui qui si parla è una pubblicazione abbastanza sintetica che raccoglie, sistematizzandoli e integrandoli, interventi fatti a corsi di formazione e convegni sul tema, rivolti in modo particolare a educatori e insegnanti; contributi che, proprio per questo, mantengono un chiaro taglio operativo.

Si va da capitoli in cui l’autore ripercorre ricerche ed esperienze sul campo fatte durante i lunghi anni di carriera accademica e di ricerca (in particolare con la sindrome di Down), a capitoli più di tipo teorico sul tema della disabilità intellettiva, ad altri (e sono la maggior parte) di tipo più pratico, con esempi e indicazioni molto utili, non solo per far comprendere cosa significhi da un punto di vista cognitivo il concetto di disabilità, ma anche come intervenire, specialmente in ambito scolastico.

Di grande rilievo un concetto che ancora mi sembra abbastanza sottovalutato, ossia l’importanza di impostare la pratica educativa e didattica a scuola sulla base dell’effettiva età mentale del bambino/adolescente con disabilità intellettiva, età mentale che non coincide, né è direttamente estrapolabile, con il punteggio di QI che danno i vari test di intelligenza usati per la diagnosi e che, almeno dal punto di vista didattico, risulta un concetto molto più utile ed esplicativo del QI in quanto permette, a chi si occupa quotidianamente dell’alunno, di farsi un’idea più chiara della condizione dell’alunno e, conseguentemente, di impegnarlo in compiti e attività adeguate al suo livello mentale e per lui quindi effettivamente affrontabili e utili. Bisogna infatti tenere presente l’importanza di dare al bambino/adolescente con disabilità, sia a casa che a scuola, dei compiti per lui affrontabili, in modo da evitare vissuti di frustrazione e conseguente senso di incapacità che, se protratti nel tempo, possono determinare stati di demotivazione difficilmente superabili.

Solo così la pratica didattica può concretizzarsi in attività non solo adeguate alle capacità del ragazzo ma anche effettivamente utili a rafforzare le sue capacità di base comunque presenti, evitando di ridurre l’insegnamento alla ripetizione dei programmi e degli argomenti trattati in classe proposti in modo molto più semplificato.

Grande importanza infine è data dall’autore all’inclusione relazionale in classe dell’alunno con disabilità, attraverso un suo coinvolgimento nelle attività della classe e nel rapporto coi compagni, attività in cui si trova a svolgere un ruolo di mediatore fondamentale il docente di sostegno, la cui figura esce notevolmente rafforzata e valorizzata da un libro come questo, responsabilizzandolo maggiormente assieme al resto del team docente. Tutto ciò ovviamente senza idealizzazioni di sorta da parte dell’autore, ma sempre mostrando un grande spirito pragmatico, riconoscendo apertamente tutte le difficoltà che attuare un’adeguata inclusione crea ai docenti della nostra scuola, già così provata dai progressivi tagli di risorse degli ultimi decenni.

Per questo la lettura di questo saggio (e, per i lettori più curiosi e interessati al tema, anche di diversi altri dell’autore indicati puntualmente in bibliografia), grazie anche alla chiarezza espositiva e al taglio pratico che lo caratterizza, costituisce a mio avviso un’azione necessaria per chi si occupa da vicino di disabilità intellettive, sia che si tratti di un docente di sostegno, per riuscire ad approntare attività didattiche più adeguate all’alunno, sia che si tratti di un educatore, sia infine che si tratti di uno psicologo clinico, soprattutto per la possibilità di trovare spunti e approfondire ulteriori possibilità, certamente meno battute nella pratica clinica delle istituzioni sanitarie pubbliche, relative alla valutazione cognitiva del bambino/adolescente con disabilità intellettiva.

Vedere la mente, il cervello in cento immagini (2022) di Stanislas Dehaene – Recensione

In questo meraviglioso libro, “Vedere la mente, il cervello in cento immagini”, edito dalla casa editrice Raffaello Cortina, non incontreremo semplici descrizioni di anatomia e fisiologia, bensì attraverso le sue pagine il lettore si sentirà accompagnato all’interno di una di una galleria fotografica ricca di strani dipinti, in grado di restituirgli la sostanza di cui egli stesso è costituito.

 

Un viaggio difficile da dimenticare e ricco di colori

Benvenuti nell’intimità del vostro cervello, se afferrate lo specchio che vi viene porto, scoprirete, nel più profondo di voi stessi, i meccanismi del vostro pensiero (Dehaene, 2022, p. 11).

Un invito con il quale l’autore di questa enciclopedia fotografica, storica e artistica al tempo stesso, sembra voler promettere una discesa vera e propria nei meandri di quanto più ci caratterizza dalla notte dei tempi. Eppure un ulteriore monito sembra accompagnare quello precedente, ossia quello di non farsi travolgere da quella strana e complessa bellezza che per secoli (e ancor più millenni) ha piano piano preso vita dentro di noi.

Una bellezza quasi sconosciuta che, a nostra insaputa e in maniera alchemica, ha trasformato le strutture del nostro cervello legittimando la sua unicità, ancora oggi spesso inafferrabile, proprio perché in continuo mutamento.

Favoloso è l’incredibile progresso delle tecniche di esplorazione del cervello e gli sviluppi folgoranti che hanno permesso di comprendere il legame tra il corpo e la mente (Dehaene, 2022, p. 11).

Perché quest’organo non è una semplice parte costituente del nostro intero organismo, ma al contrario il riflesso di una fioritura in grado di custodire radici lontane nel tempo e capaci di svelare una propria storia evolutiva. Una propria evoluzione che a partire dalla preistoria giunge sino ai giorni nostri.

Un salto nel passato per comprendere il presente

La preistoria ci ha lasciato in eredità innumerevoli tracce di interventi riusciti, quale prova che alcuni uomini avevano compreso che il soffio della mente attraversa il cervello (Dehaene, 2022, p. 13).

Se la passione è il motore principale per una buona pratica di qualsivoglia disciplina, la curiosità al contempo risulta essenziale per scoprire qualcosa di nuovo. In un salto lontano nel tempo l’autore, sin dalle prime pagine, porta il lettore in un mondo rispetto al quale la scoperta e i tentativi di studio del cervello erano caratterizzati da un arricchimento costante di conoscenze e da un passaggio di testimone vero e proprio, dove quanto si scopriva veniva tramandato nel tempo e gradualmente “riciclato” a favore di nuove scoperte basate sui dati acquisiti. Senza esserne consapevoli, infatti, i medici di quel tempo davano vita ai concetti di apprendimento.

Le strutture del cervello servono ad una cosa sola: a pensare (Dehaene, 2022, p. 13).

Eppure questa attività cognitiva che oggigiorno sappiamo essere il riflesso di più parti coinvolte all’unisono, in passato portava con sé un alone di mistero, fatto di incertezze, ma sempre connotato da un comune denominatore: l’amore per la scoperta.

L’autore inoltre sembra voler condurre il lettore ad una visione del cervello quale vero e proprio connubio tra passato e presente e tra storia ed arte. Perché se è vero da un lato che la scienza ha progredito per tentativi ed errori, quanto viene valorizzato è la forte presenza dell’immaginazione quale chiave descrittiva e percettiva, che ha sempre guidato l’uomo nelle sue scoperte e nella sua capacità di rappresentarsi un mondo che ancora non conosceva, e che aspettava semplicemente di essere scoperto, dipinto e tramandato.

I neuroni quali Farfalle dell’Anima

Come le tappe evolutive sono necessarie per scoprire qualcosa di noi, i segni del tempo lo sono altrettanto per comprendere la capacità dello sguardo di trasformare ciò che è stato in qualcosa di nuovo. Dalla preistoria agli Egizi e dai Greci al Rinascimento “avremmo dovuto attendere il secolo delle lesioni e il secolo dell’imaging per acquisire la consapevolezza che ad ogni livello le strutture del cervello sono in grado di dirci qualcosa” (Dehaene, 2022, p. 13).

E così negli anni trenta del secolo scorso un neuroanatomista spagnolo impiegando la colorazione argentica (Stiefel, 2016), scoprì come questo strumento applicato a diverse regioni del cervello fosse in grado di svelare un’orchestra mai vista prima: l’organizzazione cellulare cerebrale. Dando inoltre inizio a quelle che oggi chiamiamo neuroscienze, conferendo a Ramòn y Cajal il premio Nobel per la fisiologia e la medicina a seguito dei lavori svolti sul sistema nervoso.

Un mondo ancora oggi in grado di sorprenderci con la sua struttura e i suoi misteri. Ricco di enigmi sempre nuovi da decifrare ma unici nel farci battere il cuore e farci volare con l’immaginazione. Scoprendo così “le farfalle dell’anima”.

 

L’impatto della quarantena sull’uso di alcool e cannabis nei giovani

L’utilizzo di cannabis è aumentato durante la pandemia poiché, soprattutto tra i giovani, veniva utilizzato come strategia per fronteggiare ansia, depressione e solitudine dovuta all’isolamento.

 

Gli effetti delle misure di isolamento durante la pandemia

L’11 marzo 2020 il direttore generale dell’OMS, Adhanom Ghebreyesus, ha pubblicamente classificato l’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19 come pandemia (OMS, 2020). Infatti il Coronavirus, fin da subito ha modificato significativamente la vita dell’intera popolazione mondiale, con un impatto devastante sia sull’economia sia sul sistema sanitario dei singoli paesi. Purtroppo, le misure di contenimento atte a limitare la diffusione del virus, come la quarantena e il distanziamento sociale, hanno avuto un impatto significativo sulla salute mentale di intere comunità, diventando a loro volta fattori di rischio (Mota, 2020). Infatti, le condizioni psicopatologiche che si sono maggiormente aggravate a causa del lockdown sono risultate il suicidio, l’autolesionismo, l’abuso di sostanze, il gioco d’azzardo e gli abusi domestici. In generale, molte persone che hanno sperimentato ansia, depressione, rabbia, insonnia, noia e solitudine erano più facilmente vulnerabili a sviluppare il disturbo da uso di sostanze.

Se paragonate con la popolazione generale, le persone che abusano di sostanze sviluppano spesso un altro disturbo in comorbilità (Widinghoff et al., 2018). In aggiunta, se consideriamo la comparsa di sintomi di astinenza nel periodo di quarantena, è facile immaginare come le persone che ne soffrissero fossero incentivate a trasgredire all’obbligo di confinamento per andare alla ricerca della propria sostanza, accrescendo il rischio di essere esposti al virus e di contrarlo conseguentemente (Mota, 2020).

Uso di alcol e cannabis durante la quarantena

Se paragonato alle sostanze illegali, meno facili da reperire, l’alcool è sicuramente molto più accessibile ed è frequentemente usato per sopprimere emozioni negative con cui non si vuole stare in contatto. Nel periodo della quarantena, l’alcool è stato usato proprio per gestire l’ansia e combattere l’insonnia, in combinazione anche con altre sostanze illegali. Nello specifico, l’abuso di sostanze in persone aventi disturbi di personalità viene utilizzato come strumento per gestire sentimenti di vuoto, abbandono, solitudine, i quali sono sicuramente stati accentuati dall’isolamento imposto durante la quarantena (Pocuca et al., 2022).

In ogni caso, anche l’utilizzo di cannabis è aumentato durante la pandemia poiché, soprattutto tra i giovani, veniva utilizzato come strategia per fronteggiare ansia, depressione e solitudine dovuta all’isolamento (Bartel et al., 2020).

Secondo un recente studio, la fascia di età denominata emerging adults, la quale è composta da giovani compresi tra i 18 e i 25 anni, risulta essere quella più sensibile all’utilizzo di alcool e cannabis durante la pandemia, se paragonata con i dati raccolti in pre-pandemia (Pocuca et al., 2022; OMS, 2018). Infatti, gli emerging adults sono risultati la categoria più colpita da problemi psicopatologici durante il COVID-19 (Watkins-Martin et al., 2021).

La letteratura ha evidenziato alcuni fattori di rischio per questo fenomeno, ovvero essere appartenenti a uno status socio economico basso, essere single, essere disoccupati, avere scarso supporto sociale, avere preoccupazioni eccessive verso la propria salute (Horigian et al., 2021).

Risulta dunque importante individuare i fattori di rischio associati ai cambiamenti del consumo di sostanze durante questo periodo di tempo, per identificare le categorie maggiormente a rischio e per delineare delle strategie di intervento efficaci, volte a ridurre il consumo di sostanze nelle categorie a rischio (Pocuca et al, 2022).

Uso di cannabis e binge drinking

Un recente studio del 2022 di Pocuca e colleghi ha analizzato la frequenza di utilizzo di alcool e cannabis prima e durante la pandemia, per valutare la presenza di cambiamenti significativi nell’abuso di queste sostanze. I risultati, sebbene non abbiamo riscontrato un aumento significativo dell’uso di cannabis, hanno evidenziato una forte presenza di binge drinking. Il binge drinking è definito dal NIAAA come il consumo di etanolo, in termini di quantità e rapidità, che porta la concentrazione di alcool nel sangue (BAC) allo 0.08%, che equivale a un quantitativo maggiore di 56 g per le donne (circa 4 drinks) e di 70 g per gli uomini (circa 5 drinks), in meno di due ore. Questo fenomeno può essere motivato dal fatto che, proprio a causa dell’isolamento e della scarsa reperibilità di altre sostanze illegali, molte persone abbiano optato per l’alcool come strumento di gestione di ansia e altre problematiche psicologiche. Infatti è importante sottolineare come il concetto di binge drinking implichi una rapida e massiccia ingestione di alcool, che riporta alla volontà di allontanare o anestetizzare tutte le sensazioni ed emozioni negative dovute all’isolamento.

I gemelli digitali con destinazione terra

Il presente lavoro si concentra su una intelligenza artificiale che si può definire “buona”: vale a dire, la creazione di un gemello digitale della Terra (Digital Twin Earth) realizzabile grazie allo stock di dati – sia quelli storici, sia quelli ottenuti in tempo reale – provenienti prevalentemente dai satelliti.

 

Introduzione

Nei molteplici ambiti dell’intelligenza artificiale si è giunti ormai a livelli di astrazione che appaiono pressoché alieni alla percezione umana.

Non solo: questa estrema complessità porta all’esacerbazione delle diseguaglianze: socio-economiche, generazionali, culturali, geografiche e di genere (digit divide). E poi, sottostanti a tanti ambiti dell’intelligenza artificiale, vi sono forme più o meno evidenti e surrettizie di potere e di controllo mediante tecnologie di sorveglianza intelligenti (ad esempio, algoritmi per la sorveglianza di massa, denominata anche sorveglianza “non targetizzata” o “in rete”). In un’epoca di datacrazia (termine coniato dal noto sociologo belga della cultura digitale de Kerckhove), la conseguenza è la forte asimmetria delle informazioni, cioè l’ampio gap tra i potenti detentori dei big data e i soggetti monitorati (tramite videosorveglianza e riconoscimento facciale). Nei paesi dove ciò accade e la cultura della sorveglianza di massa fa parte del vissuto della popolazione – in primis, la Cina con il c.d. Great Firewall – è difficile stabilire cosa prevalga all’interno della collettività: una percezione di tutela e sicurezza (infatti, obiettivo enfatizzato dal governo è quello di salvaguardare la pubblica sicurezza di fronte alla dilagante criminalità, la stabilità sociale e la salute pubblica), ovvero l’incombente sensazione di venire costantemente scandagliati con incursioni nel proprio quotidiano attraverso sistemi iper-predatori?

A quello delle autorità governative si affianca un’altra forma di potere –anch’essa sottile– che è quella del mercato. A tale proposito mutuiamo le suggestioni di de Kerckhove quando parla di “techno-fetishism” e “techno-psychology” (1998).

Se le suddette questioni sollevano tanto scetticismo, il presente lavoro si concentra invece su una intelligenza artificiale che si può definire “buona”: vale a dire, la creazione di un gemello digitale della Terra (Digital Twin Earth) realizzabile grazie allo stock di dati –sia quelli storici, sia quelli ottenuti in tempo reale– provenienti prevalentemente dai satelliti. Ad esempio, dal sistema Copernicus che rilascia uno stock ingente di dati. Tale patrimonio informativo, se in parte fino a oggi non è stato sfruttato appieno, con il gemello virtuale della Terra potrà essere valorizzato su scala più ampia. E ciò anche se si tratterà di un gemello non ancora dell’intero Globo, bensì di gemelli virtuali di ambiti circoscritti che permetteranno di scandagliare specifiche realtà settoriali, geografiche o fenomenologiche. E, questione fondamentale, tali tecnologie di avanguardia potranno aiutare a comprendere le modalità, i tempi e le interazioni attraverso cui operano i fattori del cambiamento climatico (Desiderio, 2022).

Collegato a questi argomenti, ulteriore obiettivo del presente lavoro è quello di mettere in evidenza un attuale e importante triangolazione: space economy – green economy – digital twins.

Se l’utilizzo di big data e sensori spaziali si rendono indispensabili per tenere sotto controllo le variabili climatiche e predirne il corso, nonché per scandagliare l’insieme e l’interazione dei fenomeni sottostanti ai cambiamenti del clima, in modo del tutto complementare la replica virtuale del sistema Terra consentirà di esaminare, capire e predire l’impatto sul clima dell’incremento della popolazione della conseguente e crescente pressione su risorse cruciali (l’acqua, ad esempio) e sugli ecosistemi marittimi e terrestri.

Pertanto, l’integrazione fra tecnologie spaziali e quelle avanzate dell’intelligenza artificiale, finalizzata a monitorare e ad anticipare il cambiamento climatico, produrrà importanti sinergie volte soprattutto ad accrescere la qualità della condizione umana e quella di tutti gli esseri viventi.

Space economy e green economy

La space economy costituisce un tema nuovo e ancora poco conosciuto.

È che oggi lo spazio è anche economia, un’economia globale. Tornando al digital divide, i sistemi satellitari d’avanguardia avranno la capacità di portare internet ovunque, senza che alcuno sia costretto a esserne escluso. Sotto questo profilo, l’economia spaziale ha pure importanti spillovers in termini di equità e di opportunità il più possibile equidistribuite, anche questo tema fondante dell’economia e delle policy pubbliche.

Attraverso una prospettiva fortemente interdisciplinare, la space economy sintetizza, dunque, tanti filoni dell’economia e tante tematiche di policy.

Per citare ulteriori esempi, l’economia spaziale dà un forte contributo nel cercare di gestire le questioni legate al cambiamento climatico e, quindi, nel salvaguardare le condizioni ambientali attuali senza pregiudicare le esigenze delle generazioni future (una green economy sostenibile); sul tema del cibo, la tecnologia spaziale crea opportunità di frontiera per operare un tracciamento dei prodotti, individuare le diffusissime pratiche illegali, allocare in modo efficiente le risorse, sfruttare modelli predittivi per l’approvvigionamento del cibo. Strettamente collegato al tema del cibo è quello derivante dalla combinazione fra i big data satellitari e quelli climatici, destinata a produrre un enorme valore aggiunto nello sviluppo agricolo. La lista degli esempi è lunga, ma possiamo sintetizzarla con l’affermazione di Di Pippo (2021) secondo cui, in prospettiva, lo sviluppo socio-economico sulla terra è legato ai benefici dello spazio.

Inoltre, il mix tra dati terrestri e satellitari permetterà di monitorare i fenomeni di: deforestazione, innalzamento dei mari, alterazione delle correnti oceaniche, livello di emissioni nell’atmosfera, recesso dei ghiacciai polari, depauperamento della biodiversità, interruzione di catene alimentari, estinzione di specie, fenomeni geofisici come terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami; sfruttamento illecito e inquinante di terre rare (largamente utilizzate, ad esempio, nella strumentazione elettronica, per l’energia rinnovabile, nella petrolchimica), e altri drammi già in essere. Drammi che potranno essere mitigati, se non scongiurati, grazie ai benefici grandissimi connessi alla replica virtuale della Terra.

Sempre in una prospettiva economica dello spazio, è stato osservato (Di Pippo, 2021) come le barriere all’entrata nell’ambiente spaziale si stiano abbassando, superando di conseguenza il pericolo di concentrazioni monopoliste/oligopoliste nello sviluppo commerciale dello spazio. Ciò è avvenuto grazie all’accesso di nuove e maggiori fonti di finanziamento di cui hanno potuto usufruire anche i soggetti privati. Ancora sotto il profilo equitativo, l’incremento delle opportunità di accesso sta provocando ricadute redistributive, in quanto l’ambiente e le infrastrutture spaziali (tra cui i lake data, cioè spazi di archiviazione di dati) non saranno prerogativa esclusiva delle economie più ricche ma anche dei paesi emergenti e in via di sviluppo.

Si tratta pertanto di un sistema economico in rapida evoluzione, non solo sotto il profilo delle risorse disponibili, delle opportunità commerciali, del tasso elevato di innovazione delle tecnologie, dell’ingresso di nuovi attori. L’economia spaziale sarà in grado di creare nuovi mercati –determinando di conseguenza un miglioramento paretiano, poiché a una domanda crescente di tecnologie avanzate, di risorse, di infrastrutturazione, di dati corrisponderà una nuova offerta di mercato. E ciò con ricadute positive anche sul mercato del lavoro, che richiederà un’altrettanto rapida evoluzione sul lato dell’offerta di lavoro. Certo, dovranno evitarsi colli di bottiglia che rallentino o interrompano tale escalation virtuosa: per evitare tale impasse, le università dovranno adeguarsi in fretta dotandosi di strumenti necessari per formare un capitale umano nuovo, innovativo e con competenze trasversali.

Un ulteriore pericolo è quello noto come Tragedy of Commons. Esso fa riferimento alla teoria economica che descrive un sistema di risorse limitate e condivise (i beni comuni, appunto) fra più agenti economici. Spinti esclusivamente dal proprio interesse personale, anziché dal vantaggio reciproco, essi finiscono per sfruttare eccessivamente tali risorse, pregiudicandole e determinandone il conseguente degrado. In tal modo viene a determinarsi una esternalità negativa (diseconomia) di lungo periodo. Anche lo spazio costituisce un bene condiviso da un numero crescente di attori, che rilasciano detriti. Mutuando la definizione dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa, 2022): “Space debris is defined as all artificial objects including fragments and elements thereof, in Earth orbit or re-entering the atmosphere, that are non-functional”.

Oltre a costituire un pericolo aggiuntivo per i velivoli spaziali, il rapido incremento che stanno registrando i detriti orbitali causa il degrado dell’ambiente spaziale, pregiudicandone la sostenibilità di lungo periodo.

E andiamo ora a esaminare il secondo lato della triangolazione space economy – green economy – digital twins.

Per comprendere la diade economia spaziale ed economia verde, c’è da ricordare in premessa la forte connessione fra quest’ultima e l’economia circolare, definita dalla Ellen MacArthur Foundation (2016) come “un’economia pensata per potersi rigenerare da sola”. Ovvero, “come la strategia di sviluppo rigenerativo che si concentra sull’uso di rinnovabili e sull’eliminazione di sostanze tossiche nei rifiuti, conciliando obiettivi ambientali, economici e sociali” (Di Pippo, 2021). Una strategia economica pensata in questo modo è coerente con l’idea di sostenibilità ambientale su cui si fonda l’economia verde.

Qual è il collegamento fra quest’ultima e l’economia spaziale? Esso si riconduce allo stretto legame tra le tecnologie spaziali e quelle per le applicazioni circolari (un’analisi dettagliata è in Di Pippo, 2021). In premessa, c’è da dire che nelle stazioni spaziali, il riciclaggio è d’obbligo. Un caso di studio fondamentale è quello offerto dalla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) –che assolve la  funzione di laboratorio di ricerca scientifica in cui gli astronauti vivono e lavorano in un ambiente estremo– dove nessuna risorsa può essere sprecata. Infatti, così distanti dal pianeta Terra, a bordo nessuna risorsa può andare persa. Di conseguenza, gli scarti devono essere trasformati e oggetto di riuso. Dunque, l’ISS rappresenta il caso più avanzato di sistema circolare ed ecosostenibile oggi esistente.

Sul binomio economia circolare-economia spaziale, un recente studio, “Sustainable space for a sustainable Earth? Circular economy insights from the space sector” (2021), osserva che il settore spaziale è interpretabile come l’“ambiente nativo” per l’economia circolare e mostra come le lezioni apprese dall’ambiente spaziale possano essere estese e applicate alla Terra. Decisamente visionario e affascinante!

Destination Earth (DestinE)

Nella parte introduttiva, si è già richiamata la stretta connessione tra le tecnologie dello spazio e quelle più avanzate dell’intelligenza artificiale, segnatamente riguardo ai gemelli digitali.

In tema di gemellaggi digitali, di più ambizioso della replica virtuale dell’uomo c’è quella del pianeta Terra.

Tale obiettivo è fattibile grazie al programma lanciato nel 2021 dalla Commissione Ue insieme a dei partner: l’Agenzia spaziale europea (Esa), il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio (Ecmwf) e l’Organizzazione europea per lo sfruttamento dei satelliti meteorologici (EumetSat). Il nome del programma è “Destination Earth” (o “DestinationE”), che si innesta nell’alveo delle politiche europee riguardanti la transizione digitale (una ottima rassegna è in De Cosmo, 2021). “[…] obiettivo finale è di creare una gigantesca simulazione digitale del pianeta usando dati relativi a clima, meteo, attività umane e qualsiasi altro parametro misurabile utile allo scopo.” (De Cosmo, 2021, p.1). Potranno così essere monitorati e anticipati trend su scala globale, regionale e locale. Ad esempio, in caso di inondazione, il gemello digitale potrà supportare le autorità locali e regionali nelle iniziative volte a salvare vite e a ridurre i costi economici legati alla calamità naturale (Licata, 2022).

Già nel 2024 dovrebbero essere disponibili alcuni spaccati tematici della Terra per il monitoraggio e le previsioni in settori specifici collegati al cambiamento climatico. La realizzazione del gemello virtuale della Terra nella sua interezza è prevista entro il 2030.

In particolare, i primi due gemelli digitali dovrebbero essere realizzati entro il 2024, il primo con l’obiettivo di effettuare il monitoraggio e le anticipazioni di eruzioni, terremoti e altre emergenze naturali estreme; il secondo con lo scopo di effettuare sperimentazioni finalizzate a definire azioni volte all’adeguamento del cambiamento climatico (Guerrini, 2022).

Più in là nel futuro, segnatamente nel 2027, potrebbero essere simulati spaccati tematici e settori specifici, quali rispettivamente il tema della desertificazione e l’immensa regione artica.

Per poi arrivare, entro la fine del decennio, alla replica virtuale sistemica.

Next? Il gemello digitale dell’Universo. È il progetto, ancora in forma di bozza, dell’ESA: Digital Twin & Universe (De Cosmo, 2021).

Conclusioni

Chiudiamo con un esempio: il prossimo cambiamento radicale avverrà probabilmente nel 2100, con la trasformazione in savana della Foresta amazzonica. Se non abbiamo preoccupazione alcuna dell’equità intergenerazionale, si tratta di un futuro che non ci riguarda. In un’ottica di benaltrismo, servono interventi ritenuti prioritari –ora e qui– da parte delle autorità pubbliche, rispetto ai dispendiosi programmi relativi al cambiamento climatico e a quelli riguardanti la trasformazione digitale, ancillari ai primi.

Come è stato osservato (Desiderio, 2022), subentra quindi una questione psicologica: il cambiamento climatico –insieme alle relative tecnologie di avanguardia con finalità predittive e di monitoraggio– potrà essere sottovalutato (se non addirittura marginalizzato) fino a quando certi punti critici e di non ritorno non si materializzeranno. Tale atteggiamento psicologico contribuisce a rimandare e a rallentare le decisioni in questo ambito a favore di altre iniziative presenti nell’agenda dei policy-maker, considerate più urgenti e incombenti (anche in termini opportunistici, qualora abbiano maggiore appeal presso l’elettorato).

Eppure, dati i processi secolari dei cambiamenti climatici e gli avanzamenti tecnologici, che si acquisiscono tipicamente nel lungo periodo, il domani è già ieri.

Altra questione aperta: la necessità di esperti che siano in grado di utilizzare i sofisticati strumenti virtuali sottostanti ai gemelli digitali e capaci di usare, riusare, interpretare i dati e i metadati sia di input che di output: bisognerà creare una comunità scientifica nuova, con una profilazione diversa rispetto a quella più tradizionale (ad esempio, in campo ingegneristico).

In parte collegata a tale questione vi è la considerazione che sia l’economia spaziale sia i gemelli digitali per la Terra sottendono una forte interdisciplinarietà e nuove professionalità, con importanti investimenti in capitale umano: dovranno essere coinvolti data scientist, scienziati dell’ambiente, dello spazio, dell’intelligenza artificiale, ecc. La cooperazione multidisciplinare e trasversale sarà dunque dirimente per il successo.

 

Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare: le ragioni della loro compresenza

Bambini e adolescenti con Sindrome di Tourette sembrerebbero avere un rischio di sviluppare un disturbo bipolare pari al 20-30% (Kavoor et al., 2015).

 

La Sindrome di Tourette e le sue comorbilità

La Sindrome di Tourette (Tourette Sindrom [TS]) è un disturbo neuropsichiatrico cronico dell’età evolutiva, con una prevalenza mondiale dello 0,77% (Knight et al., 2012), che viene definito dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders [DSM-5]) come un disturbo da Tic caratterizzato da una combinazione di tic multipli di tipo motorio e di uno o più tic vocali (American Psychiatric Association [APA], 2014).

Si stima che i pazienti con Sindrome di Tourette mostrino comorbilità –ovvero si manifestano insieme– fino al 90% dei casi (Kavoor et al., 2015; Shim & Kwon, 2014) con il disturbo bipolare (Kavoor et al., 2015; Shim & Kwon, 2014). Bambini e adolescenti con Sindrome di Tourette sembrerebbero avere un rischio di sviluppare un disturbo bipolare pari al 20-30% (Kavoor et al., 2015). In particolare, il disturbo bipolare sembrerebbe essere più comune in soggetti di sesso maschile affetti da Sindrome di Tourette con tic lievi (Kerbeshian et al., 1995; Shim & Kwon, 2014).

Il Disturbo Bipolare nella Sindrome di Tourette

Ad oggi, il disturbo bipolare (Bipolar Disorder [BD]) in età evolutiva ha una prevalenza di circa l’1% (Kerbeshian et al., 1995). Tuttavia, questo è difficile da diagnosticare in bambini e adolescenti a causa di sbalzi d’umore incompatibili con i criteri diagnostici del DSM-5 per il Disturbo Bipolare, della difficoltà di differenziare i sintomi bipolari dai normali cambiamenti dello sviluppo e dell’incapacità dei bambini e degli adolescenti di descrivere adeguatamente i loro sintomi, non avendo ancora le competenze necessarie per farlo, dato il loro livello di sviluppo (Shim & Kwon, 2014).

Un’ulteriore sfida diagnostica di questo disturbo si presenta quando questo deve essere diagnosticato in soggetti con Sindrome di Tourette: generalmente essi presentano un andamento altalenante dei sintomi, che ricorda la ciclicità del disturbo bipolare, la cui caratteristica principale è l’alternarsi di episodi depressivi con episodi maniacali (Kerbeshian et al., 1995). Gli episodi bipolari in soggetti con Sindrome di Tourette possono assumere caratteristiche distintive: l’episodio depressivo è caratterizzato primariamente da tristezza nei bambini e da rabbia negli adolescenti; mentre l’episodio maniacale, seppur difficilmente valutabile a causa di una sovrapposizione dei suoi sintomi con quelli della Sindrome di Tourette, è caratterizzato da una maggiore irritabilità e aggressività rispetto all’euforia o alla grandiosità (Gaze et al., 2006).

Ragioni della sovra-rappresentazione del Disturbo Bipolare nella Sindrome di Tourette

Sebbene vengano riportate prove sufficienti della comorbilità tra la Sindrome di Tourette e il Disturbo Bipolare, l’eziologia della stessa rimane inspiegabile (Kavoor et al., 2015): ad oggi, infatti, risulta poco chiaro perché il Disturbo Bipolare sia sovra-rappresentato nei soggetti con Sindrome di Tourette (Shim & Kwon, 2014). In letteratura sono state diverse le aree indagate per cercare di dare una possibile spiegazione circa l’elevata comorbilità tra Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare.

Una prima area indagata è quella genetica: la Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare sembrerebbero condividere basi genetiche comuni (Comings & Comings, 1987). In particolare, i fattori che causano la Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare sembrerebbero condividere percorsi neurali influenzati da un gran numero di geni, portando di conseguenza a una maggiore probabilità di comorbilità (Kerbeshian et al., 1995).

Una seconda area indagata risulta essere quella neurofisiologica, cioè quella branca della fisiologia umana che studia il funzionamento dei neuroni e delle reti neurali: i due disturbi sembrerebbero condividere anomalie della neurotrasmissione che coinvolgono i neurotrasmettitori della noradrenalina (ormone dello stress), dopamina (ormone del piacere e della ricompensa) e serotonina (ormone del buonumore; Kavoor et al., 2015; Kerbeshian et al., 1995; Shim & Kwon, 2014).

Un’ultima area indagata è quella farmacologica: i farmaci generalmente utilizzati per il trattamento della Sindrome di Tourette, come gli stimolanti (sostanze eccitanti che stimolano le funzioni cognitive, psicologiche e comportamentali), possono porsi come fattori precipitanti, cioè come fattori che, facilitando il manifestarsi del disturbo, inducono il Disturbo Bipolare in soggetti predisposti e contribuiscono, di conseguenza, all’associazione tra Sindrome di Tourette e Disturbo Bipolare (Shim & Kwon, 2014). Inoltre, sembrerebbe che il litio, farmaco utilizzato nel trattamento del Disturbo Bipolare, abbia come effetto secondario la riduzione dei tic in soggetti con Sindrome di Tourette (Kerbeshian & Burd, 1989). Questo sembra supportare, come riportato sopra, la presenza di basi comuni nei due disturbi.

Conclusione

Il Disturbo Bipolare è un disturbo che si può presentare in comorbilità con la Sindrome di Tourette in età evolutiva e interagisce con quest’ultimo (Gaze et al., 2006): mentre la fase maniacale porta ad aumentare i tic, la fase depressiva porta ad una loro remissione (Kerbeshian & Burd, 1989; Shim & Kwon, 2014).

 

Love, sex, web (2022) di Dolce, Santamaria e Pilla – Recensione libro – Psicologia Digitale

Nel saggio “Love, sex, web” gli autori analizzano i cambiamenti del nostro modo di relazionarci online offrendoci una panoramica su sesso e amore nell’universo digitale.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 34) Love, sex, web – Recensione

 

 Siamo sicuri che uno smartphone sia solo uno smartphone? Solo un oggetto come un altro, come potrebbe esserlo un tavolo o un armadio? Forse, anzi, sicuramente no.

Quando quello di cui parliamo riguarda ciò che facciamo con, attraverso, grazie a tecnologie digitali non parliamo solo di oggetti e tecnologie ma di noi stessi, dei nostri comportamenti, emozioni, desideri.

Lo spazio virtuale ed il costante flusso di informazioni cui siamo sottoposti ci richiede la comprensione delle norme sociali che lo regolano, del suo funzionamento, delle sue applicazioni.

Essere connessi vuol dire essere in un rapporto reciproco tra noi, gli altri connessi, gli strumenti che intermediano la comunicazione tra le parti.

Per questo è utile un approccio interdisciplinare: grazie ai background degli autori Dolce, psicologa psicoterapeuta, Santamaria, esperta di digital, e Pilla, analysis manager, in questo saggio esploriamo il nostro stare online sotto diverse lenti. A partire dalle tipologie e varianti del sesso e delle relazioni online, viene tracciato un percorso sull’evoluzione digitale di molte abitudini e comportamenti.

Pur mantenendo uno stile leggero e divulgativo, non vengono tralasciati possibili rischi e problematiche facendoci fare però un passo più in là su cosa comporta essere – e chi siamo noi – online.

Relazioni digitali

I numeri parlano chiaro: secondo uno studio dello scorso anno dell’app di dating Inner Circle più del 90% degli italiani trascorre circa un’ora al giorno in una dating app.

Eppure è ancora radicata l’idea che siano “l’ultima spiaggia”, che le utilizzi solo chi non sa relazionarsi dal vivo o che portino solo a relazioni superficiali e poco stabili.

I pregiudizi sono duri a morire, soprattutto in Italia: sempre secondo questo studio, gli italiani dichiarano che le app di incontri sono inutili e poco romantiche.

E allora come mai sono così utilizzate?

Sempre rimanendo in tema di pregiudizi, persiste lo stigma sociale riguardo l’essere single, soprattutto sopra la trentina, quindi sicuramente una componente di questa ambivalenza risiede nella pressione sociale che porta molti a sentirsi a disagio se non si è in coppia.

Questi strumenti invece favoriscono apertura e sperimentazione, sono una sorta di “palestra di sentimenti ed esplorazione sessuale” e agevolano l’approccio: la geolocalizzazione consente di trovare qualcuno vicino a noi, le foto di farci una idea dell’altro prima dell’incontro, la connessione veloce di comunicare in tempo reale, insomma tutti aspetti che riducono il rischio di rifiuto.

Ed ecco che torniamo ai nostri device, al nostro smartphone: non oggetto, ma confidente e depositario della nostra intimità. Infatti, tramite i device possiamo approcciare online nuove persone, ma anche nuovi modi e nuove pratiche di sessualità: camming, cybersex, sexting, virtual porn, eccetera.

Cosa c’è di nuovo? Nulla che non conosciamo già: aspiriamo all’espressione di ciò che siamo, offline come online; aspiriamo alla connessione con l’altro, alla vicinanza, all’intimità, al sentirci in sintonia con l’altro.

Utilizzo consapevole ed informato

Se questi nuovi modi e pratiche di stare in relazione siano un bene o un male non dipende dai mezzi digitali in sé ma dall’utilizzo che se ne fa: essi non sono in grado di produrre ed indurre, di per sé, a comportamenti molesti, negativi, di dipendenza.

Per questo è fondamentale prevedere percorsi di formazione ed educazione digitale, sessuale e affettiva su questi temi in modo da superare i pregiudizi presistenti. L’utilizzo consapevole, informato e partecipe, contribuisce a mantenere delle sane abitudini digitali.

Le interazioni virtuali fanno parte della quotidianità, è un dato di fatto ora più che mai consolidato, ed il nostro modo di essere nelle relazioni è cambiato, cambia e cambierà; e allora cominciamo a cambiare anche prospettiva perché, sia che conosciamo il nostro partner al bar o tramite una app, dobbiamo ricordarci che siamo sempre noi in una relazione con l’altro.

 

Come definire l’aggressività nell’essere umano e nelle specie animali

Secondo la teoria sociale-comportamentale dell’aggressività, essa viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.

 

Nella vita quotidiana assistiamo a frequenti atti di aggressività come vandalismo, guerre, violenza domestica.

Come definiamo l’aggressività? In generale potremmo sostenere che si tratta di un’azione che mira ad infliggere in modo intenzionale un danno agli altri.

Tuttavia, non è possibile spiegare il significato di aggressività secondo un solo punto di vista. Pertanto, gli studi in ambito della psicologia hanno messo in evidenza due specifiche teorie: una è quella biologica e l’altra è quella sociale.

La teoria biologica dell’aggressività

La prima afferma che il comportamento aggressivo è innato, fa parte della natura umana e, con l’approccio etologico, la base istintiva dell’aggressività umana viene studiata e paragonata a quella degli animali, Bisogna sottolineare, però, che il comportamento reale aggressivo è suscitato da stimoli specifici dell’ambiente, cosiddetti “catalizzatori”.

Infatti, secondo lo studioso Konrad Lorenz, gli animali hanno un’aggressività innata che si manifesta in base al tipo di stimolo ambientale, stimolo dettato dalla necessità di sopravvivenza di un animale. Lorenz ha così osservato che, a differenza degli animali, l’essere umano è sì dotato istintivamente di aggressività, ma non ha sviluppato quei gesti di pacificazione ben riconoscibili nelle specie animali come, ad esempio, l’evitamento di un combattimento che potrebbe essere mortale, o l’atto di subordinazione, ossia quando l’animale si stende sul terreno supino come segno di pacificazione.

La teoria sociale-comportamentale dell’aggressività

L’altra teoria sull’aggressività è quella sociale-comportamentale, ossia l’aggressività viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.

Lo studioso Zimbardo verificò quanto il potere fosse la causa della deresponsabilizzazione, della disinibizione, della crudeltà e della disumanizzazione. La dimostrazione di ciò fu l’esperimento detto “Effetto Lucifero”, che consisteva nel reclutamento di ventiquattro studenti divisi in due gruppi e messi in una situazione che simulava il carcere. Alcuni di loro avrebbero ricoperto il ruolo di guardie, altri di prigionieri. L’esperimento mostrò quanto il potere nelle mani delle guardie avesse rivelato una escalation di comportamenti crudeli sui prigionieri. Uno di questi abbandonò l’esperimento per crollo psicologico, mentre la situazione degenerava così tanto che al sesto giorno l’esperimento fu sospeso.

Aggressività e mancanza di empatia

Gli studiosi Baron e Cohen nel 2011 hanno studiato il male nell’uomo, notando quanto il malfunzionamento dell’empatia (che è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni altrui), sia la causa dell’azione del male. Questo decadimento di empatia, secondo Cohen, sembra essere dovuto a predisposizione genetica, a esperienze infantili avverse, all’obbedienza all’autorità, all’ideologia e ai conflitti tra gruppi.

Tuttavia, alcuni studiosi si sono posti il problema che, se dipendesse dal grado di empatia di ciascuno di noi, l’aggressività sarebbe più controllata. Pertanto, come mai anche di fronte a segni di sofferenza, di paura della vittima, le aggressioni non si fermano?

Aggressività e neuroni specchio

Grazie alle neuroscienze e alla scoperta dei neuroni specchio negli anni Novanta, è stato confermato che gli esseri umani sono dotati di una struttura biologica capace di comprendere le intenzioni e le emozioni dell’altro mediante “il modello di rispecchiamento” imitativo. Ciò significa che l’uomo può provare empatia cognitiva ed emotiva per l’altro, ma anche può realizzare stermini di massa, scatenare guerre, non facendo alcuna distinzione tra uomini, donne, bambini, poiché in alcuni individui il sistema di rispecchiamento si attiva in modo meno spontaneo e automatico.

Come sosteneva anche Keysers, le persone malvagie hanno minori reazioni di rispecchiamento cerebrale, tuttavia anche gli individui aggressivi possono essere empatici, ma con una fondamentale differenza: la loro empatia non scatta in automatico, ma solo volontariamente.

L’apprendimento dell’aggressività

Se si guarda all’interno di alcune famiglie, il bambino apprende in un lungo processo la capacità di controllare gli impulsi aggressivi. Infatti, Albert Bandura, psicologo comportamentale, considerava fondamentale l’apprendimento dell’uomo nel contesto socio-ambientale a cui si appartiene. L’esperienza di vita è per lo studioso il fattore che fa comprendere il modo in cui si manifesta l’aggressività.

In sostanza, il bambino impara ad essere aggressivo, poiché apprende da una esperienza sociale diretta. Ad esempio, nella relazione di cura, il bambino dovrebbe trovare un ambiente di protezione, di calore e di attaccamento affettivo verso il genitore o il caregiver. Tuttavia, se il genitore/caregiver è a sua volta in condizioni di disagio o bisognoso di cure, diventa chiaro che le proteste del bambino vengono intese dall’adulto come segnali aggressivi di opposizione o di minaccia. Pertanto, l’attaccamento e l’accudimento diventano manifestazioni di tipo predatorio.

Bandura sosteneva anche che l’esposizione alla violenza e all’aggressività si manifestano maggiormente sia nei bambini che negli adulti come il risultato di un apprendimento di un modello comportamentale che diventa uno stile di vita.

 

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