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L’impossibile mappa del cervello (2021) di Eva Filoramo – Recensione

Eva Filoramo, laureata in fisica teorica e traduttrice editoriale di mestiere, ha pubblicato nel 2021, con Flaco Edizioni Group, un interessante libro dal titolo: “L’impossibile mappa del cervello”.

 

 La Filoramo è una divulgatrice scientifica appassionata e rigorosa, con questa sua ultima opera affronta un argomento particolarmente complicato: l’evoluzione del cervello e le teorie ad oggi note sul suo funzionamento. Quest’organo, particolarmente complesso, che i sistemi d’intelligenza artificiale attualmente non sono in grado di eguagliare, è contemporaneamente l’oggetto studiato e lo strumento di studio.

Negli ultimi anni sono stati prodotti numerosi studi neuroscientifici che hanno smentito alcune concezioni del passato, anche recente, sul funzionamento dell’encefalo ed hanno rivelato nuove consapevolezze.

Eva Filoramo in modo semplice, scrupoloso e decisamente godibile racconta le numerose conoscenze che il genere umano ha acquisito, conducendo il lettore alla scoperta del cervello. Il viaggio parte da lontano, dai primi tentativi di costruire una mappa cerebrale, correlando le varie strutture neuroanatomiche a specifiche funzioni, per giungere alle nuove cognizioni, come ad esempio la plasticità cerebrale, acquisite grazie anche alle tecniche di neuroimaging.

 Lungo il percorso si incontrano contraddizioni e situazioni ancora non comprese o non pienamente esplorate. L’autrice illustra come nel tempo il pensiero riduzionista si sia dovuto confrontare con quello sistemico che ha messo in crisi alcune concezioni riguardanti il funzionamento cerebrale.

Sono molti gli argomenti presenti nel libro: la memoria, l’apprendimento, l’invecchiamento. Il lettore trova una descrizione utile anche rispetto alle buone e cattive abitudini che possono influenzare la funzionalità di questo spettacolare organo: il cervello. La Filoramo dedica un’attenzione speciale all’evoluzione dell’encefalo e nel suo libro ne spiega la motivazione: “perché sapere come quest’organo si è evoluto è fondamentale per capire com’è fatto e comprenderne il funzionamento”.

Il libro appartiene al marchio trefoglie del gruppo editoriale siciliano che per ogni mille copie stampate pianta, in Sicilia, tre alberi.

 

Conosci la fibromialgia? – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Conosci la fibromialgia?”.

 

Conosci la fibromialgia? Si tratta di una sindrome dolorosa cronica, cioè di una condizione clinica che ha come caratteristica principale il dolore fisico persistente in molte parti del corpo. Il dolore, tuttavia, non è l’unico sintomo della fibromialgia; sono infatti frequenti stanchezza persistente, difficoltà cognitive, disturbi del sonno e problematiche emotive. La diagnosi è molto complessa e non esistono esami che possano certificarne la presenza. Anche il trattamento è spesso difficile e purtroppo non esiste una cura definitiva.

Per tutti questi motivi la fibromialgia, è considerata come una delle sindromi dolorose croniche a cui è più difficile adattarsi. Sempre più spesso si parla di approccio psicologico alla fibromialgia e diverse linee guida sottolineano l’importanza della terapia cognitivo-comportamentale per ridurre l’impatto della malattia e migliorare la qualità della vita di chi ne è affetto. Ma cosa si intende per terapia cognitivo-comportamentale della fibromialgia? Di che si tratta nello specifico? Quale ruolo può avere nel percorso di cura di una persona con questa sindrome? Ascolta l’episodio del podcast per conoscere meglio la fibromialgia e l’approccio cognitivo-comportamentale al trattamento di questa problematica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

La depressione attraverso l’arte e la letteratura

La depressione è la principale causa di disabilità a livello globale (World Health Organization, 2017) e questa disabilità è aggravata dallo stigma che viene associato alla sua diagnosi. La natura della sua condizione rende il disturbo un’esperienza molto soggettiva e isolante, che allontana i pazienti dalla famiglia e dagli amici.

 

 Mustafa e Normahani (2020) si sono rivolti alla letteratura e all’arte per offrire un nuovo paio d’occhiali con cui osservare la depressione, al fine di aumentare la nostra comprensione e la nostra capacità di mostrare compassione ai pazienti che ne sono affetti.

Un’oscurità trasparente, William Styron

“Un’oscurità trasparente” di William Styron (1990) è uno straordinario libro di memorie che traccia il declino dell’autore nella depressione e la sua successiva guarigione. Il titolo del libro è tratto dal Paradiso perduto di John Milton (1667), all’interno del quale emerge un senso di opprimente disperazione che Styron riprende nella sua descrizione della depressione che: “assomiglia al disagio di essere imprigionati in una stanza surriscaldata… poiché non c’è via di fuga da questa reclusione, ed è del tutto naturale che la vittima cominci a pensare incessantemente all’oblio”.

Questa rappresentazione della sofferenza è incredibilmente evocativa e permette al lettore di farsi un’idea della gravità dell’angoscia provocata dalla depressione. Sottolinea l’importanza delle narrazioni dei pazienti nella comprensione di questa condizione, e Styron lo ribadisce: “Quando si dice che il disturbo dell’umore si è evoluto in una tempesta –una vera e propria tempesta, che è in effetti ciò a cui la depressione clinica assomiglia come nient’altro– chiunque potrebbe mostrare compassione, piuttosto che la reazione standard che la depressione evoca, qualcosa di simile a Ne uscirai, abbiamo tutti brutte giornate.

Styron chiarisce, tuttavia, che “l’incomprensione è di solito dovuta all’incapacità di base delle persone sane di immaginare una forma di tormento così estranea all’esperienza quotidiana”.

Egli documenta il declino della sua salute mentale per diversi mesi, culminando in una grave depressione suicida che lo porta a essere ricoverato per circa sette settimane. In ospedale trova un “rifugio” e la sua guarigione è costante. Conclude il suo libro di memorie con l’affermazione positiva che la depressione “si può vincere”.

La campana di vetro, Sylvia Plath

“La campana di vetro” di Sylvia Plath (1963) è un romanzo semi-autobiografico basato sulle lotte della stessa Plath contro la malattia mentale. Plath impiega immagini molto vivide per descrivere l’esperienza della depressione, con la “campana di vetro” del titolo che funge da metafora centrale della depressione: “Non riuscivo a sentire nulla… perché ovunque mi sedessi… ero seduta sotto la stessa campana di vetro, a stufare nella mia stessa aria”.

Attraverso questa immagine, Plath fornisce un’idea della disperazione che può accompagnare questa condizione, poiché la protagonista del romanzo, Esther, si chiede: “Come facevo a sapere che un giorno –da qualche parte, in qualsiasi luogo– la campana di vetro, con le sue soffocanti distorsioni, non sarebbe scesa di nuovo?”.

 Seguiamo Esther attraverso una serie di tentativi di suicidio e di cura, fino al momento in cui comincia a sentire la campana di vetro “sollevarsi” con un conseguente miglioramento dell’umore. Tuttavia, l’inquietante campana non è mai lontana e il lettore è lasciato a contemplare le implicazioni di questa condizione che dura tutta la vita quando, anche dopo un trattamento riuscito, Esther commenta la presenza della “campana di vetro appesa, sospesa, a qualche metro sopra la [sua] testa”.

Mentre la protagonista di Plath guarisce, purtroppo la stessa Plath si suicida nel 1963, alcune settimane dopo la pubblicazione del romanzo.

Campo di grano con volo di corvi, Vincent Van Gogh

Vincent Van Gogh lottò con la malattia mentale per tutta la vita, e il suo stato di deterioramento culminò nel suicidio nel luglio 1890. Nel mese precedente la sua morte, dipinse il “Campo di grano con volo di corvi”. L’oscurità della notte è quasi opprimente e incombe minacciosa sul paesaggio, creando un senso di presagio. Questo è aggravato dagli stormi di corvi, forieri di sventura. I sentieri serpeggianti nel campo non sembrano portare da nessuna parte, creando un senso di confusione e di paurosa incognita. L’effetto è enfatizzato dalle brusche pennellate, che creano l’impressione di un paesaggio ostile e spietato.

Depressione nell arte e nella letteratura quali rappresentazioni Fig 1

Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890, Amsterdam, Museo Van Gogh.

Malinconia, Edvard Munch

Edvard Munch presenta nel suo dipinto “Malinconia” (1894-96) un’immagine di isolato sconforto. La figura principale è seduta da sola in primo piano, con lo sguardo vuoto davanti a sé, lontana dalle figure sullo sfondo che interagiscono tra loro. L’uso del colore da parte di Munch è particolarmente efficace nel trasmettere un senso di dolore: i toni spenti del marrone e del blu creano un senso di cupa tristezza. Inoltre, l’oscurità dei capelli e dei vestiti del personaggio lo contraddistingue, quasi come un lutto. La sua espressione lugubre e la sua posa scoraggiata trasmettono ulteriormente un senso di infelicità. Questa rappresentazione allude alle lotte dello stesso Munch con la sua sofferenza mentale, forse più chiaramente rappresentate nel suo dipinto del 1893 “L’urlo”. Nel 1908, Munch fu ricoverato in un istituto in seguito al declino della sua malattia, aggravato dal consumo di alcol. In seguito, trascorse gran parte della sua vita in isolamento.

Depressione nell arte e nella letteratura quali rappresentazioni Fig 2

Edvard Munch, Malinconia, 1894-96. Collezione Rasmus Meyer, Bergen.

Questi sono solo alcuni esempi di artisti che, nelle loro opere, hanno rappresentato e/o espresso la depressione, le cui sfumature nella letteratura e nell’arte sono gremite di metafore e spunti visivi in grado di promuovere una comprensione più profonda del disturbo, facilitando la nostra capacità di cura compassionevole.

 

Meditazione Mindfulness (2022) di Daniel J. Siegel – Recensione del libro

Daniel Siegel, docente statunitense di psichiatria, propone un programma di Mindfulness di ventuno giorni per sviluppare la propria consapevolezza. “Meditazione Mindfulness” è una guida che accompagna i lettori, passo dopo passo, lungo un percorso di tre settimane per scoprire la presenza mentale.

 

 Nel testo sono presenti diversi esercizi pratici che compongono un programma semplice e pratico, alla portata di ogni lettore.

Respirare, rallentare e recuperare il proprio equilibrio psicofisico non è facile in un mondo sempre più frenetico, ma grazie alle istruzioni presenti nel testo i lettori possono sviluppare un maggior benessere psicologico.

La Mindfulness si basa su studi scientifici che dimostrano infatti quanto sia utile per migliorare la qualità di vita. Ciò può avvenire grazie anche allo sviluppo di una maggior consapevolezza, indispensabile per disinnescare il pilota automatico e adottare un approccio alla quotidianità che permetta di allontanare lo stress dannoso. Tali effetti benefici si riflettono anche sul corpo. Secondo Siegel grazie allo sviluppo dell’attenzione focalizzata, della consapevolezza aperta e dell’intenzione gentile si possono affrontare al meglio le sfide della quotidianità mantenendo un maggiore stato di serenità e felicità.

L’autore propone esercizi diversi per ogni settimana, partendo dalla ruota della consapevolezza.

Esercizi di respirazione, di scrittura di amor proprio e altri ancora accompagnano i lettori.

 È un percorso pratico che può quindi aiutare a rafforzare la propria mente allontanandosi dalle fonti di stress ed imparando semplicemente a essere. È una pratica personale, come sottolinea l’autore, che è possibile attuare ogni volta che lo si ritiene opportuno in modo da sviluppare la propria autoconsapevolezza.

La ruota della consapevolezza è una metafora del funzionamento della mente. Pensieri, emozioni, propriocezioni e sensazioni vengono rappresentate dal cerchio della ruota, mentre il fatto di sentirsi consapevoli viene rappresentata dal mozzo. Tramite la ruota della consapevolezza diventa così possibile integrare le esperienze interne, relative ai propri stati d’animo, con quelle esterne e raggiungere un maggiore stato di benessere.

 

Ipnosi e letteratura: considerazioni sui fenomeni ipnotici partendo da un esempio letterario

Con ipnosi ci si riferisce ad uno stato molto simile al sonno, o agli stati ad esso associati, in cui si verifica la trasmissione, da un ipnotizzatore ad un ipnotizzato, di una suggestione ovvero di un suggerimento.

 

Per entrare subito nel merito della questione che voglio affrontare con questo scritto riporterò un brano dal breve romanzo di Guy de Maupassant “Le Horla”:

14 Luglio – Festa della Repubblica.
Ieri ho assistito a certi fatti che mi hanno assai turbato.
Desinavo dalla mia cugina, maritata a Sable, che comanda il 76° cacciatori a Limoges. C’erano due giovani donne, una delle quali ha sposato il dottor Parent che si interessa di malattie nervose e delle straordinarie manifestazioni che in questo periodo sono provocate dagli esperimenti sull’ipnotismo e sulla suggestione. Il dottor Parent ci parlò a lungo degli straordinari risultati che sono stati ottenuti da scienziati inglesi e dai medici della scuola di Nancy. Mi citò fatti così strani che non ci potevo proprio credere, e glielo dissi:
– Siamo in procinto di scoprire, – diceva, – uno dei più importanti segreti della natura, ossia uno dei più importanti segreti della Terra: altri ve ne sono, di diversa importanza, lassù nelle stelle. Da quando l’uomo pensa, da quando è capace di esprimere e scrivere il suo pensiero, egli sente di sfiorare un mistero che i suoi sensi grossolani e imperfetti non riescono a penetrare e cerca di supplire all’impotenza degli organi con gli sforzi dell’intelligenza. Finché l’intelligenza era ancora allo stato rudimentale, il terrore dei fenomeni invisibili assumeva forme scioccamente spaventose, da cui son nate le credenze popolari nel soprannaturale, le leggende degli spiriti vagabondi, delle fate, degli gnomi, dei fantasmi e voglio anche aggiungere la leggenda di Dio, poiché le nostre concezioni dell’operaio creatore, da qualunque religione provengano, sono le più mediocri invenzioni, e le più sciocche e inammissibili che siano uscite dal cervello spaventato delle creature. Non c’è nulla di più vero della frase di Voltaire: “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo gli ha reso la pariglia”.
“Ora, dopo più d’un secolo, sembra di presentire l’avvento di qualcosa di nuovo. Mesmer ed alcuni altri ci hanno messo su una strada imprevedibile, e davvero siamo giunti, specialmente da quattro o cinque anni a questa parte, a risultati sorprendenti”. La mia cugina, anch’ella completamente incredula, sorrideva. Il dottor Parent le disse:
– Volete che provi ad addormentarvi, signora?

– Sì, certo.
Ella si sedette su una poltrona e il dottore cominciò a guardarla fissamente, incantandola. Ero turbato, il cuore mi batteva a precipizio e mi sentivo la gola chiusa. Vedevo gli occhi della signora Sable appesantirsi, la sua bocca torcersi, e il suo seno affannare. Dopo dieci minuti dormiva.
– Ponetevi dietro a lei, – disse il dottore.
Mi sedetti dietro a lei. Il dottore le mise in mano un biglietto da visita e le disse: – Questo è uno specchio; cosa ci vedete?
– Vedo mio cugino, – rispose ella.
– Che sta facendo?
– Si attorciglia i baffi.
– E ora?
– Si leva di tasca una fotografia.
Le due giovani donne, spaventate, dicevano: – Basta! Basta! Il dottore proseguì: – Domani vi alzerete alle otto, andrete da vostro cugino, all’albergo, e lo pregherete di prestarvi cinquemila franchi che vuole vostro marito e che vi chiederà al suo ritorno. E la svegliò. Tornando all’albergo ripensavo a quella curiosa seduta e fui preso da dubbi, non sulla buona fede, assoluta ed insospettabile, della mia cugina che conoscevo come una sorella fin dall’infanzia; ma sulla possibilità d’un trucco del dottore. Forse egli nascondeva in mano uno specchio e lo mostrava alla giovane addormentata, insieme al biglietto da visita? I prestigiatori di professione fanno cose ben più notevoli.
Me ne andai a letto. Stamani, verso le otto e mezzo, il mio cameriere è venuto a svegliarmi dicendomi:
– La signora Sable vuol parlarvi subito.
Mi vestii in fretta e la feci introdurre. Si sedette visibilmente turbata, tenendo gli occhi abbassati; e senza levarsi la veletta mi disse:
– Caro cugino, devo chiedervi un gran favore.
– Che cosa, cugina?
– Sono molto imbarazzata, eppure devo dirvelo. Ho bisogno assoluto di cinquemila franchi.
– Cosa mi dite? Voi…
– Sì, io: o meglio mio marito, che m’ha incaricato di trovarli.
Ero così stupito che nel risponderle balbettavo. Mi chiedevo se non si prendesse beffa di me, d’accordo col dottor Parent, se si trattasse d’uno scherzo ben preparato e bene eseguito. Pure, guardandola attentamente, i miei dubbi scomparvero. Quella richiesta le doveva riuscire tanto dolorosa che tremava e mi accorsi che stava sul punto di scoppiare in singhiozzi.
So che è ricchissima, perciò le dissi:
– Ma come, vostro marito non può disporre di cinquemila franchi? Suvvia, pensateci un poco… Siete sicura che vi abbia detto di venirmeli a chiedere? Restò esitante per qualche secondo, come se si sforzasse di frugare nella memoria, e mi rispose:
– Sì, sì, sono sicura.
– Vi ha scritto? Esitò ancora, riflettendo. Indovinai il lavorio tormentoso della sua mente. Non lo sapeva. Sapeva solamente di dovermi chiedere in prestito cinquemila franchi per suo marito. Decise di mentire.
– Sì, m’ha scritto.
– Quando? Ieri non mi avete detto nulla.
– Ho ricevuto una lettera stamattina.
– Potete farmela vedere?
– No… no… no… c’erano cose troppo intime, troppo personali… sicché l’ho… l’ho bruciata.
– Insomma vostro marito ha dei debiti…
Esitò di nuovo, e poi mormorò:
– Non lo so.
Le dissi bruscamente:
– Il fatto è, cara cugina, che in questo momento non posso disporre di cinquemila franchi.
Mandò un’esclamazione di dolore:
– Oh! vi prego! vi prego, trovateli!…
S’era eccitata, aveva giunto le mani, come per pregarmi. La sua voce aveva mutato tono: piangeva e balbettava, torturata, dominata dall’irresistibile ordine che aveva ricevuto.
– Vi supplico… sapeste quanto soffro… ne ho bisogno per oggi.
Ebbi compassione di lei.
– Ve li farò avere subito, ve lo giuro.
– Oh, grazie! – esclamò: – come siete buono…
– Vi ricordate, – seguitai, – cos’è successo ieri sera a casa vostra?
– Sì.
– Vi ricordate di essere stata addormentata dal dottor Parent?
– Sì.
– Lui vi ha ordinato di venire stamattina da me a chiedermi in prestito cinquemila franchi, e in questo momento voi gli state obbedendo.
Stette qualche secondo a pensare, e mi rispose:
– Ma me lo ha chiesto mio marito…
Cercai, per un’ora, di convincerla, ma non ci riuscii. Quando se ne fu andata, corsi subito dal dottore. Stava per uscire.
Sorridendo mi ascoltò, poi disse:
– Ci credete ora?
– Per forza.
– Andiamo dalla vostra cugina.
Costei stava sonnecchiando, sfinita, su una poltrona a sdraio. Il dottore la prese per il polso, la guardò per un poco, tenendole una mano davanti agli occhi, che a poco a poco, sotto quell’insostenibile influenza magnetica, si chiusero. Appena si fu addormentata le disse:
– Vostro marito non ha più bisogno dei cinquemila franchi. Perciò dimenticatevi di essere andata dal vostro cugino a supplicarlo di prestarveli; e anzi, se lui ve ne parlerà non lo capirete. Dopo la ridestò. Io trassi di tasca il portafoglio.
– Allora, mia cara cugina, eccovi quel che mi avete chiesto stamani…
Restò così sorpresa che non ebbi il coraggio d’insistere. Provai a rinfrescarle la memoria ma seguitò a negare con forza, credette che la pigliassi in giro e insomma ci mancò poco che s’offendesse. Sono tornato or ora, non m’è riuscito di mangiare nulla, tanto quell’esperimento mi ha sconvolto.”

Avrei potuto scegliere un altro esempio, tra i molti presenti in letteratura, ma ho deciso d’impiegare proprio questo brano principalmente per due motivi: in primo luogo perché Maupassant utilizza dei riferimenti storici particolarmente esatti, come ad esempio il riferimento agli esperimenti condotti a Nancy da Hyppolyte Bernheim; in secondo luogo, perché alcuni elementi della narrazione sono perfettamente congruenti con la realtà e risulta pertanto possibile fare alcune considerazioni sui reali esperimenti ipnotici della fine del diciannovesimo secolo.

Che cos’è l’iponosi?

Prima di entrare nel merito della questione cerchiamo di dare un paio di nozioni riguardo all’ipnosi: con trattamento ipnotico ci si riferisce ad uno stato molto simile al sonno, o agli stati ad esso associati, in cui si verifica la trasmissione, da un ipnotizzatore ad un ipnotizzato, di una suggestione ovvero di un suggerimento. Evidentemente ipnosi e sonno non sono perfettamente identici, lo stato ipnotico è infatti un sonno del tutto particolare. Come nel sonno, ci si trova di fronte ad un fenomeno a cavallo tra il fisiologico e lo psichico, ma l’ipnosi, a parte le sue caratteristiche superficiali come gli occhi chiusi ed il rilassamento, presenta delle peculiarità che non possiamo trascurare. Per esempio: il soggetto è, sì, addormentato, ma è al contempo vigile e capace di reagire agli stimoli esterni e a rispondere alle domande dell’ipnotizzatore. Ed è proprio il rapporto tra i due che caratterizza l’ipnosi. In effetti, la reazione agli stimoli esterni non è estesa a tutti o a tutto; il paziente dorme nei confronti del mondo intero, ma è vigile per il suo ipnotizzatore: è sotto la sua influenza. Sotto un influsso profondo l’ipnotizzato diviene docile, credulo, capace di prestazioni sorprendenti pur di soddisfare le richieste dell’ipnotizzatore. Quando l’ipnotizzatore suggerisce all’ipnotizzato di osservare una lastra specchio – come nel caso del brano di Maupassant – ciò viene eseguito immediatamente, senza opporre alcuna resistenza. In altri casi l’ipnotizzatore può indurre l’ipnotizzato ad esperire una particolare sensazione, come ad esempio l’assaporare un gusto acido, ed immediatamente sul volto di costui appare la tipica espressione contratta di chi ha bevuto l’aceto o assaggiato un limone. L’ipnotizzato sta in questo caso allucinando dei fenomeni, proprio come avviene nel sogno – dove in effetti tutto sembra perfettamente reale. La sottomissione e la credulità dell’ipnotizzato somigliano molto a quelle del bambino nei riguardi dei genitori, o quelle del cosiddetto innamorato perso nei riguardi dell’amata. Tramite questo rapporto è possibile inibire, ostacolare o influenzare una grandissima mole di fenomeni: si possono influenzare le funzioni motorie, sensitive, certi riflessi, o addirittura sentimenti, istinti, memoria ed attività. Questo naturalmente non significa che tutto è possibile, l’immagine dell’assassino per volontà dell’ipnotizzatore è una pura e semplice finzione cinematografica. Il Dottor Caligari non esiste, ci sono dei limiti a cui la soggettività dell’ipnotizzato si manterrà sempre salda, quale che sia il grado d’influenza.

Proprio come il brano di Maupassant mostra chiaramente, una volta che il paziente è sotto l’influenza della suggestione ipnotica egli porterà a zero le proprie azioni volontarie, per essere esclusivamente in balìa dei suggerimenti dell’ipnotizzatore. A differenza, però, degli esempi fatti fino ad ora, quello dell’Horla è un caso di suggestione post-ipnotica. Infatti, che la donna sia intensamente sottomessa alla volontà dell’ipnotizzatore, non ne abbiamo prova subito, ma il giorno seguente. Ed è proprio l’esecuzione di quel particolar comando a mettere il protagonista nell’angosciosa condizione di accettare la veridicità del fenomeno a cui aveva assistito. Ci terrei ora a sottolineare che non solo la donna non si ricorda della suggestione impartitale, ma – e questo è molto interessante – quando viene interrogata sulle cause del suo comportamento, si sforza con ogni mezzo di trovare delle spiegazioni, che sono false. quanto inverosimili, benché ella, bisogna sottolinearlo, si ricorda chiaramente di essere stata messa sotto ipnosi!

Ipnosi e nevrosi

Per quanto Maupassant abbia naturalmente romanzato la faccenda, tocca un punto fondamentale: così come il nevrotico non è conoscenza delle ragioni che stanno dietro al proprio comportamento patologico, anche l’ipnotizzato trova innumerevoli scuse alla sua assurda condotta. Ciò avviene perché sono entrambi sotto l’influenza di processi psichici inconsci, nel primo caso sulla base di una suggestione indiretta (o autosuggestione) e nel secondo sulla base di una suggestione diretta ovvero il comando impartitogli dall’ipnotizzatore. Possiamo pertanto affermare che la suggestione condiziona, nelle sue dinamiche dirette ed indirette, non solo la coscienza del soggetto, ma anche e soprattutto il suo inconscio.

 

Cool Kids: un programma di prevenzione e intervento precoce per l’ansia applicato in contesto scolastico 

Adottando una prospettiva preventiva, recentemente si sta sviluppando l’interesse verso un’applicazione universale del programma Cool Kids a livello scolastico rivolto a tutti gli studenti e non soltanto a coloro che sarebbero identificati come a rischio di sviluppare sintomatologia ansiosa.

 

Disturbi d’ansia in età evolutiva

I disturbi d’ansia sono considerati disturbi psichici comuni tra I bambini e gli adolescenti con un range di prevalenza variabile tra il 4% e il 25% (Beesdo-Baum, Knappe, 2012; Kessler, Petukhova, Sampson, 2012), possono esordire precocemente e divenire cronici (Beesdo, Knappe, Pine, 2009).

Nonostante vi siano programmi di trattamento evidence-based, è frequente che bambini e adolescenti con sintomi ansiosi non ricevano trattamenti appropriati, con alcuni studi che evidenziano che meno del 20% dei soggetti in età di sviluppo che presenta disturbi d’ansia ha accesso a terapie adeguate (Merikangas, He, Burstein, 2011).

Secondo Donovan and Spence (2000) la criticità maggiore in tal senso risiede in trattamenti attuati tardivamente rispetto all’esordio della sintomatologia. Per ovviare a questi problemi, alcuni autori suggeriscono di includere gli interventi di prevenzione, screening, assessment e trattamento dei disturbi d’ansia all’interno dei setting scolastici (Neil, Christensen, 2009). Infatti l’ambiente scolastico avrebbe diversi vantaggi, tra cui favorire la destigmatizzazione ed essere maggiormente accessibile all’utenza da diversi punti di vista.

Alcune review e meta analisi (Neil, Christensen, 2009; Scaini, Belotti, Ogliari, et al. 2016) hanno evidenziato che programmi di prevenzione dell’ansia attuati all’interno di contesti scolastici possano essere strumenti efficaci nella riduzione dei sintomi ansiosi nei bambini e negli adolescenti.

Il programma Cool Kids per il trattamento dell’ansia in età evolutiva

Il programma Cool Kids è uno dei principali protocolli di trattamento cogntivo-comportamentale dei disturbi d’ansia nell’età evolutiva (dai 7 ai 18 anni). Il programma è una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale Coping Cat di Philip C. Kendall (1994) e Coping Koala di Paula Barret, Mark Dadds e Ronald Rapee (1996). Si tratta di un trattamento nato in ambito clinico per essere somministrato a bambini specificamente selezionati per sintomi d’ ansia o a rischio di svilupparli, che si basa su ricerche effettuate da istituzioni australiane (la Macquarie University di Sydney, il Royal North Shore Hospital di Sydney e l’università del Queensland) nel corso di un decennio. I principi fondamentali sono descritti in Treating Anxious Children and Adolescents: An Evidence-Based Approach (Rapee, Wignall, Hudson, & Schniering, 2000).

Il programma include componenti di psicoeducazione, ristrutturazione cognitiva, strategie di gestione del bambino ed esposizioni graduali, oltre ad altri moduli aggiuntivi relativi alle social skills e all’assertività. L’efficacia del programma Cool Kids è stata solidamente e congruamente dimostrata empiricamente sia in Australia che nel contesto di molti altri paesi (Arendt, Thastum, Hougaard, 2016;  Rapee, Lyneham, Wuthrich, 2017; Zikopoulou, Rapee, Simos, 2021).

Il programma Cool Kids presenta anche diverse evidenze di efficacia quando applicato e valutato all’interno di setting scolastici (Mifsud, C.; Rapee, 2005) con dati che segnalano una riduzione significativa della sintomatologia ansiosa nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo (costituito da soggetti in lista d’attesa di trattamento) con un mantenimento di tali esiti positivi anche a un follow-up di 4 mesi. Altri studi hanno riportato risultati simili, tra cui una ricerca norvegese che ha mostrato un significativo miglioramento dei sintomi ansiosi in adolescenti sottoposti al programma Cool Kids rispetto ai controlli (Haugland, Haaland, Baste, 2020).

L’applicazione del Cool Kids in ambito scolastico

Adottando una prospettiva preventiva, recentemente si sta sviluppando l’interesse verso un’applicazione universale del programma Cool Kids a livello scolastico rivolto a tutti gli studenti frequentanti la scuola e non soltanto a coloro che sarebbero identificati come a rischio di sviluppare sintomatologia ansiosa.

Ad oggi non vi sono studi che abbiano indagato l’efficacia del programma Cool Kids in qualità di programma universalmente applicato finalizzato alla prevenzione primaria dei sintomi ansiosi in età evolutiva.

Lo scopo dello studio di Scaini e colleghi (2022) è quello di applicare, verificandone l’efficacia, il programma Cool Kids a un’intera popolazione scolastica, e non soltanto a soggetti considerati “a rischio“ o clinicamente diagnosticati con un disturbo d’ansia.

Il campione è stato costituito da 73 bambini italiani (35 maschi e 36 femmine, con un range di età compreso tra i 10–13 anno) che frequentavano l’ultimo anno della scola primaria oppure il primo anno della scuola secondaria di primo grado. Il programma Cool Kids è stato rivolto a tutti gli studenti indipendentemente dalla loro condizione in termini di salute mentale.

L’adattamento del protocollo Cook Kids al contesto scolastico italiano ha previsto anzitutto un incontro preliminare con insegnanti e genitori per illustrare il programma di intervento. Il programma ha previsto 5 incontri di Gruppo della durata di due ore con la classe tenuti da uno psicologo con esperienza in psicoterapia cognitivo comportamentale e alla presenza di un insegnante. Durante gli incontri è stata svolta attività di psicoeducazione sull’ansia e sulle prinicapli tecniche per la gestione della stessa, come ad esempio ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale, problem solving, etc, utilizzando giochi, materiale digitale e lavori di gruppo.

I partecipanti hanno completano alcuni questionari self-report (il questionario “Screen for Child Anxiety-Related Emotional Disorders – SCARED” e il “Child Depression Inventory”) durante il primo e ultimo incontro di gruppo. Anche i genitori hanno compilato un questionario (Child Behavior Checklist) relativamente alla sintomatologia dei figli prima e immediatamente dopo l’implementazione del programma Cool Kids.

I risultati delle analisi statistiche hanno evidenziato un trend di diminuzione dei sintomi ansiosi nel questionario “SCARED”, soprattutto a livello di punteggio globale, e nelle subscale di ansia somatica, ansia generalizzata, ansia da separazione, ansia sociale e ansia scolastica nella valutazione post-trattamento. Tuttavia, nei questionari compilati dai genitori non è stato evidenziato tale miglioramento nei livelli di ansia percepita nei figli.

In relazione agli aspetti depressivi, anche i punteggi dei sintomi depressivi si sono significativamente ridotti nella fase di post-trattamento rispetto al pre-assessment, suggerendo l’efficacia di un programma di prevenzione dell’ansia attuato in setting scolastico anche per il miglioramento di altre aree problematiche correlate all’umore.

Tali esiti sono in linea con precedenti ricerche che hanno dimostrato come i programmi di prevenzione dell’ansia contribuiscono a prevenire e migliorare lo sviluppo di sintomi depressivi, considerando la comorbidità tra le due tipologie di disturbo (Bienvenu, Ginsburg, 2007; Flannery-Schroeder, 2006).

Questa ricerca fornisce importanti elementi che rafforzano l’evidenza del programma Cool Kids, anche erogato in una modalità breve e non eccessivamente dispendiosa, può essere una valida modalità di prevenzione universalmente rivolta a tutti gli studenti per prevenire l’ansia in età evolutiva all’interno del contesto scolastico che implica la riduzione della sintomatologia ansiosa anche in soggetti non clinici.

Anche se tali risultati sono promettenti, sono necessarie ulteriori ricerche per confermarli e generalizzarne l’evidenza, superando anche i limiti del presente studio tra cui la mancanza di un gruppo di controllo, l’utilizzo di scale self-report per l’assessment dei sintomi ansiosi e la presenza di un campione piuttosto limitato.

 

Il ruolo della lettura nei primi anni di vita

Qual è il ruolo della lettura nei primi anni di vita? In che modo, attraverso la lettura, pagina dopo pagina, il caregiver può contribuire allo sviluppo della regolazione affettiva del bambino?

 

Leggere non è una semplice attività, bensì una vera medicina in grado di apportare notevoli benefici sia intrapsichici che interpersonali.

Questa semplice attività se da un lato stimola la fioritura di nuove sinapsi e dunque di nuovi collegamenti neuronali, dall’altro è in grado di creare e rafforzare quei legami tra genitori e figli, che proprio attraverso la lettura e la sua condivisione, danno vita ad uno scambio interattivo capace di riflettersi anche sotto il profilo neurobiologico (Dehaene, 2009).

Se dunque un buon libro amplia le nostre conoscenze e la nostra curiosità, letto in compagnia può rappresentare una vera e propria forma di apprendimento di future modalità di autoregolazione, rispetto alle quali ciò che si apprende è un vero e proprio bagaglio psicobiologico dove ad essere chiamati in causa sono gli emisferi destri di ambo gli attori della relazione stessa (Schore, 2022).

La neurobiologia interpersonale quale lente applicata alla lettura

Grazie al contributo di Allan N. Schore, e alle nuove scoperte nell’ambito delle neuroscienze, risulta possibile comprendere come “una neurobiologia interpersonale dello sviluppo umano consenta la comprensione della struttura e del funzionamento sia della mente che del cervello” (Schore, 2009).

Secondo l’autore ad emergere sin da subito sono un arricchimento ed un’interazione tra il genitore e il bambino, capaci di creare un’esperienza accompagnata dalla fioritura di quello che Siegel (2021) definisce stato della mente.

Volendo rapportare quanto appena introdotto all’ambito della lettura condivisa, risulta interessante notare quanto a prescindere dal formato scelto, cartaceo e/o digitale, conti perlopiù la condivisione di quanto ci si appresta a leggere (Baron, 2022).

La lettura ad alta voce tra il caregiver e il proprio bambino può dunque rappresentare non solo un valido momento di co-costruzione, bensì un vero e proprio processo attraverso il quale creare quegli strumenti con cui autoregolare le medesime emozioni che attraverso la lettura si sceglie di condividere e di conoscere, e, non ultimo, dinanzi alle quali il nostro emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero significativo (Schore, 2022).

Allineamento e sincronizzazione degli emisferi destri

Mostrando una maturazione più precoce rispetto a quello sinistro, l’emisfero destro gioca un ruolo cruciale nelle fasi prenatali e postnatali dello sviluppo.

Secondo il contributo del neuropsicologo Don Tucker “la specializzazione di questo emisfero per la comunicazione emotiva attraverso canali non verbali suggerisce un dominio della mente che si avvicina all’inconscio psicoanalitico” (Tucker e Moller, 2007).

La lettura condivisa sembra pertanto riflettere un’interazione emotiva rispetto alla quale la comunicazione che si instaura non solo avviene “da emisfero destro ad emisfero destro”, bensì promuove lo sviluppo e il rimodellamento di quei circuiti che quando leggiamo, permettono sia di immedesimarci nei personaggi percependo le loro stesse emozioni sia di autoregolarsi psichicamente e biologicamente. Consentendo l’ingresso in una dimensione dove le emozioni fungono da guida per orientarci col corpo, con la mente e col pensiero. Nondimeno durante quest’attività viene gradualmente a delinearsi quello che Baron (2022) definisce “discorso dialogico”, grazie al quale è possibile descrivere la conversazione che prende piede con i bambini e i neonati nel momento in cui si legge.

La progettazione di materiali digitali più focalizzati per l’apprendimento

Per quanto la scelta del cartaceo sia da sempre quella maggiormente consigliata, al giorno d’oggi tuttavia la pediatria sembra schierarsi sul fronte del digitale. Come sostenuto infatti dalle figure di Kucirkova e Zuckerman (2019), l’uso dei touchscreen e dunque l’impiego degli schermi sembra favorire lo sviluppo del vocabolario, contribuendo inoltre allo sviluppo fine della motricità, alla coordinazione oculo-manuale e alla promozione di una buona comunicazione.

Ciò che dunque risulta maggiormente importante non è tanto il formato, quanto piuttosto il coinvolgimento da parte dei caregiver in grado di condividere un momento semplice, rispetto al quale guidare l’apprendimento del piccolo. Se da un lato quindi leggere riflette un momento condiviso di vero e proprio apprendimento, dall’altro creare “un’impalcatura attorno alla storia che si legge insieme” riflette uno spazio condiviso attorno al quale inserire nuove conoscenze e nondimeno nuove modalità di autoregolazione quali canali grazie ai quali prendere contatto con le stesse emozioni. A differenza del formato cartaceo, per libri digitali si intendono libri o app in grado di replicare i materiali scritti e grafici di un libro stampato, ai quali però si accede attraverso un dispositivo elettronico (Baron, 2022). Al contempo un libro digitale potenziato “incorpora una o più funzionalità aggiuntive che possono rendere la lettura digitale diversa da quella su carta. Proprio per la presenza di suoni, animazioni, aree interattive e giochi. Quest’ultima tipologia infatti sulla base di uno studio condotto sembra confermare come la memorizzazione e dunque l’apprendimento aumentino proprio nel momento in cui il testo viene letto da un genitore. Quest’ultimo infatti non solo ricopre un ruolo fondamentale, bensì rappresenta quel canale attraverso cui filtrano tutte quelle informazioni inerenti il suo background esperienziale e che attraverso la lettura possono tradursi in una modalità grazie alla il bambino sarà o meno capace di farsi guidare da quelle parole che prenderanno la forma di nuove emozioni.

La neurobiologia dell’apprendimento a partire dalle prime fasi di vita

Grazie al contributo di Stanislas (2009) imparare a leggere consiste nel mettere in connessione due sistemi cerebrali presenti nel bambino: quello visivo relativo al riconoscimento delle forme e le aree del linguaggio. Nondimeno attraverso la tappa pittorica, fonologica e ortografica si delineano sempre più il valore e l’importanza della relazione diadica tra il caregiver e il bambino, in quanto come accennato in precedenza è proprio nella qualità della relazione che si instaura un buon imprinting sia per una fioritura sinaptica sia l’instaurarsi di cablaggio neuronale in grado di sincronizzare gli emisferi destri di chi legge e di chi ascolta (Stanislas, 2009). Grazie al modello del riciclaggio neuronale è possibile focalizzare l’attenzione su quella finestra temporale dai 0 ai 5 anni di vita, rispetto alla quale secondo l’autore il cervello del bambino sembrerebbe contenere già quelle strutture neuronali adibite alla lettura, e che tuttavia non aspettano altro se non di essere coltivate e scoperte in compagnia di chi sceglie di condividere un nuovo spazio dai benefici incredibili!

Pertanto coltivare quest’attività in compagnia dei propri figli non farebbe altro che apportare benefici in grado di propagarsi a livello emotivo, psicofisico e neurobiologico.

Effetti della Dog Assisted Therapy per adulti con disturbo dello spettro autistico

Precedenti studi (Beetz et al., 2012; Gabriels et al., 2015; O’Haire, 2013; Vreeburg et al., 2010) su bambini con autismo hanno dimostrato che la terapia assistita con gli animali offre risultati promettenti. Quali risultati si ottengono invece dalle ricerche con adulti autistici?

 

La terapia assistita con animali nel disturbo dello spettro autistico

 I problemi di salute mentale legati allo stress come la depressione e l’ansia sono molto comuni negli adulti con il disturbo dello spettro autistico (autism spectrum disorder [ASD]), tanto che colpiscono fino al 77% di questa popolazione (Joshi et al., 2013). Ad oggi, la ricerca sugli interventi efficaci che mirano a ridurre lo stress nelle persone con disturbo dello spettro autistico è stata molto limitata (Damiano et al., 2014). Alcuni studi (Sizoo & Kuiper, 2017; Vreeburg et al., 2010) riguardo agli interventi per i pazienti con disturbo dello spettro autistico suggeriscono che la terapia cognitivo-comportamentale e il programma di riduzione dello stress basato sulla mindfulness possono essere efficaci per ridurre depressione e ansia. In quest’ottica, la terapia assistita con gli animali (AAT; animal assisted therapy) può essere particolarmente adatta alle persone con autismo perché gli animali comunicano non verbalmente, il che può essere una forma di interazione meno stressante di una conversazione con un terapeuta, coinvolgendo aspetti sia metacognitivi che introspettivi (Verheggen et al., 2017).

Precedenti studi (Beetz et al., 2012; Gabriels et al., 2015; O’Haire, 2013; Vreeburg et al., 2010) su bambini con autismo hanno infatti dimostrato che la terapia assistita con gli animali offre risultati promettenti in termini di riduzione dello stress e miglioramenti nelle capacità di comunicazione sociale. Sebbene gli effetti della terapia assistita con gli animali (principalmente con i cani) nei bambini con autismo siano promettenti, non è chiaro se questi risultati possano essere generalizzati agli adulti (Wijker et al., 2020).

L’obiettivo dello studio di Wijher e colleghi (2020) è quello di esplorare gli effetti della terapia assistita con gli animali con i cani negli adulti con autismo con intelligenza in norma o superiore alla norma (QI ≥ 80). Si sono inoltre focalizzati sullo stress auto-percepito, sulla reattività sociale e sui sintomi psicologici (come depressione e sintomi di ansia). Inoltre, sono stati esaminati gli effetti della terapia assistita con gli animali sull’autostima. Questa è da considerarsi un’aggiunta importante, dato che è stato riscontrato che gli adulti con autismo hanno un’autostima inferiore rispetto agli adulti senza autismo e che l’autostima è fortemente correlata in maniera negativa con depressione e ansia (Cooper et al., 2017).

La terapia assistita con animali: uno studio randomizzato controllato esplorativo

 All’interno di un campione di 68 partecipanti, per ogni partecipante, è stata eseguita una valutazione di base seguita da una valutazione post-intervento (T1) a 10 settimane e una di controllo (follow-up; T2) a 20 settimane dopo la valutazione di base. Il programma di trattamento utilizzato prevedeva un protocollo strutturato e consisteva in 10 sessioni individuali settimanali di 60 minuti ciascuna. Durante l’intera seduta è stato coinvolto un cane da terapia. I terapisti che fornivano la terapia assistita con gli animali avevano una laurea in cure per la salute mentale ed erano inoltre specializzati nel lavoro con adulti con autismo. In totale, sono stati coinvolti nello studio 13 cani da terapia (due Labrador, quattro incroci di Labrador, un golden retriever, tre incroci di golden retriever, due barboncini e un pastore tedesco). Tutti i cani partecipanti allo studio sono stati addestrati e testati per lavorare con le persone e la loro salute mentale e fisica era strettamente monitorata.

I risultati di questo studio esplorativo hanno mostrato che, rispetto al gruppo di controllo, la terapia assistita con gli animali con un cane ha ridotto lo stress percepito, la depressione e i sintomi dell’agorafobia negli adulti con autismo. Inoltre, i risultati indicano che la terapia assistita con gli animali ha ridotto il problema in merito alla reattività sociale valutata dai coniugi dei partecipanti, parenti stretti o amici. Le analisi hanno dimostrato che questi effetti sopracitati, sono rimasti stabili alla sessione di controllo di dieci settimane e che l’intervento è risultato fattibile negli adulti con autismo che sono motivati a riceverlo. Di contro, i risultati non hanno mostrato effetti significativi dell’intervento sull’autostima. La letteratura mostra infatti che gli interventi che si concentrano direttamente sul miglioramento dell’autostima sono più efficaci di quegli interventi focalizzati su altri obiettivi (Haney & Durlak, 1998), come è stato nel caso di questo studio. Per questo, è necessaria più ricerca per esplorare i meccanismi sottostanti alla riduzione dello stress auto-percepito; inoltre, un follow-up più lungo può far luce sugli effetti a lungo termine dell’intervento.

 

Terapia EMDR e trauma complesso di Elisa Faretta – Recensione

Elisa Faretta, psicologa e psicoterapeuta, con il contributo di altri esperti, scrive questo manuale con l’intento di fornire indicazioni e suggerimenti utili per ottimizzare il lavoro con pazienti affetti da disturbi dissociativi, con particolare riferimento al “PTSD complesso”, attraverso l’integrazione di EMDR e della teoria della dissociazione. 

 

 È ormai consolidato e accettato dalla comunità scientifica che l’EMDR è un metodo psicoterapeutico, completo e complesso, che può essere integrato in modo molto flessibile con altri orientamenti psicoterapeutici clinici.

Nell’ambito della pratica clinica, gli psicoterapeuti spesso si confrontano con le complesse problematiche che i pazienti portano alla loro attenzione come, ad esempio, traumi di tipo relazionale o disturbi di vario genere che spesso sono originati da esperienze occorse in età infantile. Una volta raggiunta l’età adulta, queste persone tendono a mostrare una maggiore vulnerabilità, manifestando particolari difficoltà nel gestire le emozioni intense e caratterizzandosi per un’elevata incidenza di sintomi o disturbi di tipo dissociativo.

Nell’ambito del trattamento dei disturbi collegati a un trauma, la dissociazione patologica è un fattore particolarmente rilevante: il terapeuta EMDR deve quindi sviluppare particolari competenze per trattare i pazienti che sono state vittime di traumi complessi e che arrivano in terapia cercando aiuto per gravi sintomi di dissociazione, PTSD, depressione e ansia, che sono la conseguenza di reti neurali dissociate e che portano a percepire un senso di frammentazione che può causare seri problemi in diversi aspetti della vita quotidiana, professionale, relazionale e intima.

Insieme a Elisa Faretta, supervisore senior, il gruppo di colleghi esperti (practitioner) EMDR ha potuto consolidare e approfondire sul campo le conoscenze sul trauma e sui sintomi dissociativi che hanno dato come esito per ciascuno di loro la presentazione di un caso clinico, in cui hanno integrato le diverse esperienze.

 Il percorso di supervisione e approfondimento si è concretizzato con la presentazione dei casi clinici da parte di ciascun terapeuta, che hanno in questo modo potuto portare le loro conoscenze nella pratica ed integrare la psicoterapia EMDR con il lavoro sulle parti emotive, promuovendo non solo una maggiore conoscenza, consapevolezza, empatia ed integrazione interna, ma anche un migliore adattamento, caratterizzato da una significativa ricaduta sul piano sintomatologico.

Seguire un percorso di supervisione può migliorare l’autoefficacia degli specialisti, i quali, a loro volta, possono aiutare i pazienti a funzionare in modo adattivo nella vita presente trovando una stabilità interna attraverso l’utilizzo delle risorse e la riconnessione con le parti del Sé, sviluppando le abilità necessarie per affrontare il lavoro sul trauma, e predisponendoli in sicurezza ad affrontare la fase di desensibilizzazione verso la rielaborazione ed integrazione delle memorie traumatiche dissociate.

Il testo è costituito da una prima parte teorica che illustra i costrutti di “dissociazione” e di “trauma”, la neurobiologia del trauma e della dissociazione ed il ruolo dei traumi infantili sullo sviluppo dei disturbi dissociativi; segue una parte pratica, con l’esposizione di alcune tecniche e strategie utili, che descrive il modello EMDR integrato per il trattamento dei pazienti con sintomi o disturbi dissociativi. Lo scopo del volume è dunque quello di proporre un contributo originale illustrando tecniche e strategie utili nell’applicazione pratica per questi pazienti. Risorse e potenzialità che un percorso di supervisione clinica può offrire e che nel corso del tempo ha permesso di approfondire e migliorare l’applicazione dell’EMDR.

 

Autismo e anoressia: uno studio sulla restrizione alimentare nelle donne autistiche

Recentemente è emerso che donne in trattamento per l’anoressia presentano una co-diagnosi di autismo.

Autismo e alimentazione selettiva

Lo scopo degli autori dell’articolo “For Me, the Anorexia is Just a Symptom, and the Cause is the Autism: Investigating Restrictive Eating Disorders in Autistic Women” pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorders (Brede et al., 2020) è di comprendere come l’anoressia si sviluppa e si mantiene in soggetti con autismo e teorizzare un modello autismo-specifico del comportamento alimentare restrittivo, ovvero spiegare lo sviluppo e il mantenimento di questo disturbo alimentare tenendo conto delle caratteristiche specifiche del disturbo dello spettro dell’autismo (ASD).

Innanzitutto, è importante premettere le caratteristiche dei due disturbi coinvolti in questo studio. L’autismo è una condizione permanente del neurosviluppo caratterizzata da difficoltà nell’ambito sociale, relazionale, comportamentale e cognitivo. L’anoressia, invece, è un disturbo del comportamento alimentare che viene descritto nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders [DSM-5]; American Psychiatric Association [APA], 2014) tramite dei criteri specifici tra cui: restrizione dell’introito calorico, paura di ingrassare, alterazioni del vissuto rispetto al proprio corpo.

Sono state individuate delle caratteristiche nella popolazione di donne anoressiche che sono riscontrabili nell’autismo. Queste sono difficoltà nella cognizione sociale, come per esempio le difficoltà di metacognizione (capire la mente dell’altro), difficoltà nel processamento delle emozioni (riconoscere, gestire le emozioni) e rigidità cognitiva.

In particolare, la rigidità e l’inflessibilità cognitiva sono state individuate come dei fattori che modulano la relazione tra autismo e la restrizione alimentare, piuttosto che esserne la causa diretta, e che tali fattori e caratteristiche sono stati riscontrati retrospettivamente nelle pazienti in età adolescenziale.

Kinnaird (2019) aveva già ipotizzato l’esistenza di un meccanismo autismo-specifico, notando che i sintomi dell’alimentazione restrittiva in pazienti autistici si presentano in maniera differente rispetto a quelli delle pazienti anoressiche. Se da un lato c’è un forte senso di controllo, di difficoltà sensoriali e problemi organizzativi della vita quotidiana (come può essere organizzare la spesa, il cibo, il pasto), dall’altra parte le motivazioni principali nell’anoressia sono il voler raggiungere una magrezza dettata dal peso corporeo, dall’immagine del corpo disfunzionale e dall’autostima.

Per condurre lo studio sono stati somministrati dei questionari semistrutturati per indagare le esperienze personali di pazienti, genitori e clinici. Attraverso un’analisi tematica sono poi stati individuati dei temi che ricorrevano nelle interviste.

Nello specifico, alle pazienti sono state fornite delle domande rispetto all’esperienza personale e ai fattori che hanno influenzato il loro comportamento alimentare (per esempio: peso, forme corporee, esperienze sensoriali). Ai loro genitori, invece, è stato chiesto di descrivere i fattori che hanno influenzato il comportamento delle figlie e la loro esperienza nei servizi.

Le domande poste ai clinici vertevano invece sull’indagare come si presentano i due disturbi e la loro relazione, la loro esperienza personale nel gestire tali pazienti e i possibili provvedimenti di trattamento.

Per quanto riguarda i trattamenti, le pazienti hanno sottolineato un’insoddisfazione poiché sono consapevoli della connessione che c’è tra i due disturbi e non si sentono capite in quanto vengono trattate per curare l’anoressia, mentre invece il problema principale sottostante è un altro.

I clinici, invece, non si sentono adatti alla cura di tali pazienti perché non si sentono adeguatamente formati in materia.

Dalle risposte ai questionari è emerso che ricorrono principalmente 6 tematiche, con sottotemi che si sovrappongono e influenzano a vicenda. Di seguito esploriamo ogni tematica riscontrata dagli autori dello studio (Brede et al., 2020):

Sensibilità sensoriale

La sensibilità sensoriale riveste un ruolo molto importante tra i sintomi dell’autismo. Infatti, una percezione alterata porta a manifestare alti livelli di ansia e comportamenti disfunzionali. Tra le problematiche riscontrate ci sono:

  • Emotività negativa rispetto a stimolazioni tattili, uditive e visive (come il rumore, il tocco leggero e la pressione, le luci), alle quali si rendono insensibili attraverso la malnutrizione. Per questo motivo i clinici sottolineano quanto sia importante l’ambiente e il setting dei servizi.
  • Sensibilità specifica per alcune caratteristiche del cibo (colore, forma, odore ecc.). I clinici hanno correlato ciò al Disturbo Evitante/Restrittivo Dell’assunzione di Cibo (ARFID), un disturbo alimentare dell’età infantile che prevede che il rifiuto del cibo non derivi da motivazioni quali perdita di peso, forme corporee e contenuto calorico, ma piuttosto da caratteristiche sensoriali degli alimenti.
  • Sensazioni interne: le pazienti appaiono ipersensibili (con sensazioni di gonfiore, pienezza dalle quali deriva poi una restrizione alimentare disfunzionale) oppure iposensibili (ovvero con difficoltà nella propria enterocezione, stato interno del proprio corpo: non riconoscono le sensazioni di fame e sazietà).

Interazioni sociali

Le pazienti mostrano difficoltà di socializzazione (nella comunicazione, nel fare amicizia, si sentono sole e bullizzate) e utilizzano l’alimentazione come strategia per far fronte a tali emozioni e stati d’animo sgradevoli.

Le difficoltà sociali che presentano portano loro a evitare situazioni sociali legate al cibo; infatti, per esempio non mangiano a scuola perché si sentono travolte dagli stimoli sensoriali e non hanno nessuno con cui sedersi a fianco.

Sé e identità

Le pazienti si sentono un fallimento e differenti rispetto ai coetanei, sono carenti nel senso di Sé e per adattarsi alla società ed essere incluse attuano comportamenti che riscontrano nei gruppi amicali e che vengono influenzati dalla società e dalla cultura di appartenenza (per esempio, diete ferree o un’attenzione smisurata sull’apparenza fisica).

 Rispetto a questo punto, i clinici riferiscono che le pazienti con autismo sono meno portate a confrontare il loro aspetto estetico e sono meno competitive e meno orgogliose nel momento in cui perdono peso. Per questo motivo, le pazienti con autismo si sentono ancora meno capite nel momento in cui vengono accusate del fatto che il loro comportamento è guidato dall’immagine corporea.

Oltre a ciò, però, l’anoressia fornisce un forte senso di identità, quell’identità che non viene riconosciuta alle pazienti autistiche e che sentono di aver perso. Infatti, l’incapacità di ritrovare un senso del Sé nel mondo, porta i soggetti a darsi una identità personale e rendersi visibili agli altri attraverso l’”essere anoressica”, ovvero un individuo con un disturbo alimentare, riconosciuto da chi lo circonda.

Difficoltà emotive

Le pazienti non riescono a riconoscere, regolare e comunicare le proprie emozioni e si sentono travolte da queste, mettendo in atto i comportamenti tipici del disturbo alimentare (per esempio, iperattività) e la restrizione alimentare per sopprimere tali stati spiacevoli.

I clinici riportano invece che l’ansia che provano nei confronti della loro quotidianità e le paure della vita vengono soppresse tramite un controllo, e l’unico ambito in cui sentono di poter effettivamente avere un controllo è il cibo.

Stile cognitivo

Lo stile cognitivo che presentano è molto rigido e descrivono che pensano che sia la routine che creano nella quotidianità a mantenere il disturbo alimentare (“faccio così perché è quello che ho sempre fatto”). Oltre a ciò, presentano delle tipologie di pensiero disfunzionali, come:

  • Pensiero letterale tutto-nulla: non trovano delle sfumature, delle vie di mezzo, nelle situazioni.
  • Interesse intenso e ossessivo: porta le pazienti a creare routine riguardanti il cibo. Queste alleviano l’ansia e si manifestano in comportamenti quali esercizio fisico, nutrizione, monitoraggio di numeri (Kcal), stili alimentari restrittivi (per esempio, il veganismo).
  • Pensiero rigido: hanno un pensiero inflessibile, non riescono a distaccarsi dalla loro quotidianità e routine perché ciò genera in loro molta ansia. Dall’altro lato, tale caratteristica potrebbe essere un loro punto di forza nel sottolineare una determinazione nel trattamento volta a migliorare sempre di più.

Controllo e prevedibilità

Tutto il quadro sintomatologico viene riassunto in un forte bisogno di controllo e prevedibilità.

In conclusione, il modello autismo-specifico che è stato ipotizzato prevede che l’autismo porta ad avere una restrizione alimentare attraverso due vie: diretta e indiretta (Brede et al., 2020).

Ci sono delle difficoltà specifiche nella vita di un soggetto con autismo (come sensibilità sensoriale, difficoltà emotive e sociali, particolari profili cognitivi) che per via diretta aumentano il rischio di utilizzare un’alimentazione restrittiva.

Nella via indiretta invece tali difficoltà danno vita a conseguenze emotive negative e la restrizione alimentare viene utilizzata come strategia maladattiva per superarle.

Ci sono poi eventi esterni (come violenze, eventi stressanti, cambiamenti di sviluppo) che moderano l’impatto che i tratti autistici hanno su tale comportamento e la vulnerabilità nel manifestare lo stesso.

Le pazienti, quindi, utilizzano l’alimentazione restrittiva come strategia per sopprimere e risolvere le esperienze sensoriali ed emotive spiacevoli, e si tranquillizzano attraverso l’ipercontrollo e la prevedibilità della loro routine concentrata sull’alimentazione.

A sua volta però il digiuno porta all’esacerbazione delle difficoltà iniziali creando un circolo vizioso negativo.

L’anoressia nervosa in pazienti autistici sembra quindi essere correlata a difficoltà sensoriali, sociali, relazionali, di senso di sé e identitario, emotivi, cognitivi e bisogno di controllo. L’anoressia quindi potrebbe essere un sintomo/forma di presentazione dell’autismo, così come viene descritta in una frase riportata da una paziente nello studio: “per me l’anoressia è solo un sintomo, e la causa è l’autismo” (Brede et al., 2020).

 

Persone Altamente Sensibili o Narcisisti Vulnerabili?

Dallo studio di Jauk et al. (2022) emerge una correlazione significativa fra Persone Altamente Sensibili e con Narcisismo Vulnerabile e una loro convergenza nel riferirsi a un medesimo profilo di personalità di stampo nevrotico-introverso, a basso funzionamento (Jauk et al., 2022).

 

Cosa si intende con persone altamente sensibili?

 Il termine “Persone Altamente Sensibili” nasce da Elaine Aron nel 1996 quando, per la prima volta, fece riferimento a un tipo di persone caratterizzate da una spiccata sensibilità alla stimolazione sensoriale, facilmente eccitabili e molto attente all’impressione estetica. Secondo la letteratura, esse impiegherebbero un’elaborazione più profonda dello stimolo, a livello neurale, in quanto altamente consapevoli dei dettagli nel contesto e, per questo, facilmente sovrastimolabili (Aron et al., 2012). Se questo caratteristico tratto di personalità ha certamente dei vantaggi evolutivi, in termini di maggiore reattività ai segnali ambientali, d’altro canto porta con sé inevitabili costi: avere più velocemente accesso alle risorse, infatti, richiede energia e un notevole stato di iperattivazione (Jauk et al., 2022). In questo senso, non sorprende la narrazione dicotomica di Aron (1996) nel descrivere questo funzionamento di personalità: se da un lato esso può apparire come una benedizione, in quanto la sensibilità di queste persone è vissuta come un “dono” che le differenzia dal resto del mondo, dall’altro può essere percepito come un fardello, perché l’intera esistenza diventa qualcosa di stimolante, in ambito lavorativo, sentimentale e quotidiano (Arabi, 2020).

Alla luce di questa panoramica introduttiva, gli studiosi hanno ipotizzato che le Persone Altamente Sensibili, nel tentativo di trasformare un aspetto potenzialmente sfavorevole della loro personalità in qualcosa di positivo (il “superpotere” della sensibilità; Arabi, 2020), possano maturare un senso di unicità e specialità (Jauk et al., 2022). In questo caso, essi sarebbero portati a idealizzare questa parte del loro funzionamento e, così, a pretendere dagli altri un trattamento diverso e di favore. Se queste sono le condizioni, tali caratteristiche non sembrano essere così lontane da quelle centrali nella definizione di narcisismo, dove l’auto-esaltazione e il senso di diritto sono fondamentali (Krizan e Herlache, 2018).

Alta sensibilità e narcisismo vulnerabile

La questione che viene allora posta dagli autori ha lo scopo di capire se l’alta sensibilità di queste persone sia un costrutto distinto dal narcisismo o se, al contrario, essa condivida con questo delle caratteristiche e dei meccanismi di regolazione del Sé. Del resto, si tratta di un tema rilevante dal punto di vista clinico, specie alla luce della qualità della narrazione pubblica, che tende ad attribuire una valenza interamente positiva all’alta sensibilità e una completamente negativa al narcisismo (Koepernik et al., 2021). In realtà, identificare e comprendere le strategie di regolazione del Sé potenzialmente narcisistiche tramite un’elevata sensibilità non porterebbe a patologizzare, bensì ad aiutare l’individuo nella sua crescita personale, compresa da una prospettiva più completa (Jauk et al., 2022).

A livello procedurale, gli autori hanno indagato la sovrapposizione fra le misure che operazionalizzano l’alta sensibilità (Highly Sensitive Person Scale, Aron e Aron, 1997) e il narcisismo (Hypersensitive Narcissism Scale, Hendin e Cheek, 1997; Pathological Narcissism Inventory, Pincus et al., 2009) considerando, per quest’ultimo, la sua variante vulnerabile, ossia quella più sensibile (Hendin e Cheek, 1997; Wink, 1991). I risultati generati dagli studi hanno rivelato considerazioni in linea con l’ipotesi sopra formulata, che convergono cioè nell’affermare correlazioni significative fra i due costrutti nel delineare un profilo di personalità nevrotico e introverso, a ridotto funzionamento (Jauk et al., 2022). Entrambi i costrutti, infatti, mostrerebbero livelli sostanziali di sensibilità agli stimoli esterni, percepiti come troppo intensi. Anche se le Persone Altamente Sensibili avvertirebbero questa sensibilità più verso stimoli non sociali (ad esempio, rumori forti), mentre i narcisisti vulnerabili più in relazione a stimoli sociali correlati al sé (come l’attenzione o la critica altrui; Hendin e Cheek, 1997), entrambe le forme di sensibilità condividerebbero:

  • una generale irritabilità, a causa dell’intensa stimolazione esterna;
  • un conseguente senso di fragilità interiore, abbinato a un atteggiamento evitante nei confronti di qualsiasi forma di disagio.

La correlazione fra la facilità all’eccitazione, tipica dell’alta sensibilità, e il senso di diritto al benessere, tipico del narcisismo, potrebbe essere esemplificata da una pretesa simile alla seguente: “Merito di stare bene, ma sono fragile; quindi, sia io che gli altri dovremmo prenderci cura di me”.

L’utilità clinica

Alla luce dei risultati ottenuti, il fatto che le Persone Altamente Sensibili possano mostrare tendenze narcisistiche, di stampo vulnerabile, è un risultato importante dal punto di vista della pratica clinica. Esso significa che gli individui ipersensibili potrebbero non mostrare in generale delle tendenze narcisistiche, ma che quelli che maturano un senso di fragilità interiore, accostato a un atteggiamento evitante nei confronti del malessere (dato dalla sovraeccitazione), potrebbero sviluppare aspetti di narcisismo e diritto basati sulla vulnerabilità. Questo condurrebbe non solo a problematiche di stampo interpersonale, ma anche a psicopatologia e, dunque, a un più ridotto funzionamento di personalità (Jauk et al., 2022). Di fatto, pensarsi come una persona fragile potrebbe innescare cicli di feedback di esperienze negative, ritiro e rinforzo negativo (Smith et al., 2018), che portano ad adottare strategie narcisistiche di regolazione del Sé volte a idealizzare aspetti problematici della propria personalità, a nascondere questi dagli altri o a condividerli solo con quelli che appartengono alla stessa “comunità sensibile” (PAS vs non-PAS). Ciò, in ultima istanza, non farebbe altro che amplificare i sintomi, attraverso il ritiro sociale (Cohen e Wills, 1985), e rinvigorire l’idea di sé come un essere “temporalmente diverso” (Hendin e Cheek, 1997). In quest’ottica, una mentalità pensata per prendersi cura di sé potrebbe rivelarsi potenzialmente autolesionista a lungo termine, ed è su questa questione di confine che dovrebbe iniziare a dirigersi l’attuale attenzione clinica (Jauk et al., 2022).

 

La mindfulness nel trattamento dei Disturbi d’Ansia e la storia di Yongey Mingyur Rinpoche

La Mindfulness è associata ad una aumentata attività del Sistema Nervoso Parasimpatico, che determina la percezione diffusa di una sensazione di quiete, e ad un rallentamento dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico, che comporta un’attivazione particolarmente intensa nelle condizioni stressanti (Siegel, 2009).

 

Essere consapevoli significa essere liberi. Liberi, per merito della conoscenza, di scegliere, di cambiare rotta.
La pratica di consapevolezza Mindfulness propone una prospettiva di vita sintonizzata.
Riguarda il risvegliarsi da un’esperienza vissuta con il pilota automatico per poi riacquisire il controllo, essendo consapevoli degli aspetti della propria mente. Il contrario di vivere “mindless”.

Mindfulness e sistema nervoso

 Per indagare in merito alle motivazioni per le quali fare esperienza di Mindfulness agisca operosamente sul sistema cerebrale, è opportuna una premessa, seppur generale, sul funzionamento di quest’ultimo.

L’encefalo, che costituisce una parte fondamentale del sistema nervoso centrale, è il centro di elaborazione, integrazione e controllo delle funzioni cognitive, dei sistemi sensoriali e delle funzioni motorie (Pinel & Barnes, 2018).

Il sistema nervoso centrale comincia il suo sviluppo nella fase embrionale. Il cervello umano è la parte superiore di un sistema nervoso che si estende in tutto il corpo. Nella sua repentina evoluzione, stabilendo l’architettura di base, avvicinandosi al momento in cui il feto lascerà l’utero, i neuroni e le loro connessioni sinaptiche cominciano ad essere influenzate dall’esperienza, oltre che dal corredo genetico. Questa crescita produce cambiamenti nella connettività dei neuroni e viene definita “neuroplasticità” (Segal et al, 2006).

In relazione alla Mindfulness, Sara Lazar, Neuroscienziata Dottoressa dell’Università di Harvard, ha pubblicato differenti lavori (Lazar et al., 2005) per mezzo dei quali ha constatato delle modificazioni e una crescita significativa del tessuto neurale favorita dalle pratiche di consapevolezza. Essendo il risultato dell’esperienza, la neuroplasticità diventa la determinante di un aumento dell’attività sinaptica.

Quando ci impegniamo a focalizzare la nostra attenzione con esercizi strutturati attiviamo i circuiti cerebrali e questa conseguenza influisce sul rafforzamento delle connessioni sinaptiche relative alle aree coinvolte. A favore di questa tesi sono stati registrati dei cambiamenti funzionali a livello della corteccia anteriore sinistra che lasciano intendere come la pratica della mindfulness aiuterebbe gli individui a regolare le proprie emozioni, e ancora, cambiamenti nell’emisfero sinistro correlati al sistema immunitario, a dimostrazione che non solo la pratica può aiutarci a sentirci meglio con noi stessi in rapporto con i nostri pensieri, ma a migliorare notevolmente la nostra salute fisica (Lutz et al., 2008).

Aree cerebrali influenzate dalla pratica

Scendendo nel dettaglio di alcune aree cerebrali interessate dalla pratica di Mindfulness troviamo la Corteccia Pre-Frontale (CPF), interessata da un aumento delle dimensioni, con effetti riscontrati di maggior capacità del pensiero riflessivo. Essa agisce sull’amigdala, comportando una riduzione della reattività impulsiva incontrollata; sul lobo dell’Insula, incrementando la meta-cognizione, ossia la capacità di riconoscere pensieri ed emozioni; sull’ippocampo, con sensibili cambiamenti sulla flessibilità di pensiero e sulla memoria; sulla corteccia cingolata anteriore, aumentandone le dimensioni e permettendo di sviluppare una maggiore autoregolazione attentiva e focalizzazione, e sulla giunzione tempero-parietale, aumentando anche di essa le dimensioni e sensibilizzando la percezione del sé corporeo. Inoltre la Mindfulness è anche associata ad una aumentata attività del Sistema Nervoso Parasimpatico, che determina la percezione diffusa di una sensazione di quiete, e ad un rallentamento dell’attività del Sistema Nervoso Simpatico, che comporta un’attivazione particolarmente intensa nelle condizioni stressanti (Siegel, 2009).

Disturbi d’ansia e patogenesi

Nonostante i disturbi d’ansia siano differenti e specifici ciascuno nel proprio genere, la difficoltà comune che si presenta in questi quadri patologici è l’insorgere dell’ansia (Lingiardi & Gazzillo, 2014).

Un’ansia che non si manifesta nella forma di funzionale reazione dell’organismo ad uno stato di allerta, ma in percezioni alterate del pericolo caratterizzate da meccanismi che includono l’attenzione selettiva, le rimuginazioni, la catastrofizzazione, l’ansia anticipatoria e l’evitamento.

L’attenzione selettiva si esprime nella tendenza del soggetto a ricercare solo quei segnali che possano confermare il suo sintomo, invece di focalizzarsi su tutto ciò che potrebbe smentirlo.

Le rimuginazioni sono la tendenza ricorrente di preoccuparsi di ciò che avverrà in futuro, soffermarsi su pensieri fumosi riconoscendoli come necessità da risolvere invece di riuscire ad affrontare le situazioni concrete vissute nella vita quotidiana.

 Parlando di catastrofizzazione, invece, ci riferiamo all’inclinazione ad aspettarsi sempre il peggio, anche quando non ci sono previsioni realistiche che inducono ad aspettarsi sviluppi tragici. L’ansia anticipatoria è quella condizione che insorge quando l’individuo ritiene a priori che si troverà in pericolo in una determinata situazione e quindi entra in uno stato ansiogeno prima del tempo. Infine, l’evitamento è quel meccanismo di difesa tipico del disturbo da attacchi di panico: quando il soggetto è talmente soggiogato dall’ansia e dalla frustrazione a tal punto che si ritrova ad adottare condotte di evitamento che possono condurre alla decisione drastica dell’isolamento e la reclusione nell’ambiente casalingo (Chiesa, 2011). In seguito a ciò che abbiamo appena chiarito non è difficile immaginare come gli interventi basati sulla mindfulness potrebbero portare benefici a chi soffre di disturbi d’ansia. Mediante lo sviluppo di una nuova consapevolezza nell’identificare ciò che caratterizza il quadro ansioso, senza evitare nè reprimere nulla, ma accogliendo per poi poter interagire in modo funzionale (ibidem). Il risultato non sarà quello di far sparire magicamente ansia o pensieri nocivi, l’attività mentale procederà seguendo il proprio corso naturale; a cambiare sarà il modo di entrare in relazione con essa (Nairn, 2002).

Per comprendere meglio gli effetti e le connessioni tra mindfulness e cura ci viene in aiuto la singolare esperienza di un monaco tibetano di nome Yongey Mingyur Rinpoche.

La storia di Yongey Mingyur Rinpoche

Yongey Mingyur Rinpoche nacque nel 1975 in un piccolo villaggio al confine tra il Nepal e il Tibet. Figlio minore del rinomato maestro Tulku Urgyen Rinpoche, insieme ai suoi fratelli viene avviato in giovane età allo studio della meditazione. Il monaco viveva alle pendici del monte Manaslu e soffriva di terribili attacchi di panico.

In un’intervista rilasciata nella docuserie “La mente in poche parole” disponibile sulla piattaforma Netflix, racconta la sua esperienza di vita. Mingyur soffriva fortemente condizioni naturali tipiche del suo paese quali tempeste di neve, tuoni, e anche condizioni più quotidiane come stare in compagnia di altre persone.

Nell’intervista, egli racconta che un giorno il padre, riconoscendo il suo stato di sofferenza, gli propose di meditare insieme; lì si accostò alla sua prima pratica concentrandosi sul respiro, comune esercizio di consapevolezza. Divenne subito un prodigio della meditazione consapevole: imparò a dominare i suoi attacchi di panico rivoluzionando il suo approccio ad essi. Il monaco afferma che inizialmente, all’insorgere di un attacco sperimentava un forte senso di avversione, che non faceva altro che incrementare la paura e l’immobilità. Con la pratica invece cominciò ad accettare quelle sensazioni, accogliendo il panico ogni volta che si presentava, rivoluzionando il suo approccio.

Questo cambiamento nell’affrontare queste manifestazioni portò la mente di Mingyur a vivere i momenti di terrore come parte integrante del suo essere, privandoli sempre più del proprio potere. Durante il dialogo il monaco condivide con l’intervistatore una metafora che spiega chiaramente cosa si intende per mente mindful. Propone l’esempio di un racconto del Buddha storico, dell’incontro tra una volpe e una tartaruga che si ritrovano nella medesima foresta. Trovandosi l’una di fronte all’altra, la volpe cerca di aggredire la seconda, ma la tartaruga si rintana nel guscio. Dopo numerosi tentativi di attaccare la volpe, stanca di girare intorno, abbandona la preda e se ne va. Mingyur afferma che dobbiamo agire attraverso la nostra mente come fossimo una tartaruga, quando incontriamo una volpe nel nostro percorso, come stress, ansia, depressione, panico. Questo non vuol dire fuggire dalle difficoltà, ma fermarsi ad osservare senza lasciarsi travolgere, familiarizzare con i propri stati emotivi in modo da agire poi con consapevolezza.

Ad undici anni, si trasferisce allo Sherab Ling, sede di Tai Situ Rinpoche, dove, due anni dopo, inizia il tradizionale ritiro di tre anni. Viene nominato maestro dei ritiri, e tre anni dopo si trova a ricoprire la carica di abate. Nel 2007 porta a termine la costruzione del monastero Tergar a Bodh Gaya, un centro di studi buddhisti internazionale aperto sia ai monaci sia ai laici.

Nel 2011 Mingyur Rinpoche lascia il monastero nel cuore della notte e senza portare nulla con sé, per passare quattro anni successivi come monaco errante sulle pendici dell’Himalaya. Incuriositi dall’esistenza di questo singolare monaco, alcuni scienziati lo invitarono in Wisconsin per studiarne l’attività cerebrale. Grazie all’utilizzo delle tecniche di neuroimaging scoprirono che a quarantuno anni dimostrava il cervello di una persona di trentuno. Effettuarono inoltre una risonanza mentre meditava coltivando il senso di compassione e osservarono l’attività dei suoi circuiti empatici aumentare dal 7% all’800%. Questa scoperta si annovera tra le più rilevanti che spinsero la comunità scientifica ad interessarsi con maggiore dedizione alla Mindfulness e alle pratiche meditative.

 

Metafore giocabili. Le meccaniche del gioco di ruolo cartaceo, al servizio della psicoterapia

Il gioco di ruolo cartaceo come applicazione della Superhero Therapy, presentato al Primo Congresso Nazionale della CBT Italia il 4-5 novembre a Firenze nel simposio Strategie pratiche CBT e ACT.

 

La Superhero Therapy e il gioco di ruolo cartaceo

 La Superhero Therapy è basata sui principi fondamentali dell’Acceptance and Commitment Therapy e della Compassion Focused Therapy, ed è stata sviluppata da Janina Scarlet nel 2017. Conduce i pazienti, spesso adolescenti, ma anche adulti, in un viaggio di consapevolezza e cambiamento. Attraverso l’inserimento di elementi della cultura pop in terapie evidence based, si incoraggia la presa di coscienza che la propria sofferenza può essere affrontata in modo diverso, quando questa viene considerata un punto di partenza per la strada che porta alla scoperta del supereroe dentro di noi (Scarlet 2017).

Dall’inizio della mia carriera ho incorporato elementi di fantasia o fantascienza nelle mie terapie per creare un linguaggio comune e facilmente accessibile, specialmente con adolescenti che soffrivano di un marcato isolamento sociale in seguito a disturbi invalidanti come il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (Migliore, 2016). Le passioni dei clienti venivano utilizzate per creare una sorta di dimensione parallela, nella quale poter affrontare le proprie paure in un’ottica doppiamente di defusione, secondo il modello ACT.

L’uso della gamification, che ricordiamo essere l’applicazione di elementi di gioco in contesti diversi dall’entertainment, in terapia, è ancora collegata perlopiù alla psicologia evolutiva, ma negli ultimi anni l’uso del gioco di ruolo cartaceo (GdR-c) in terapia ha prodotto risultati sempre più incoraggianti. Sono stati rilevati livelli più elevati di riflessione, empatia, capacità di insight e apprendimento condiviso (Rønning & Bjørkly, 2019), specialmente in epoca post COVID-19, il quale in seguito alle misure preventive e i limiti imposti socialmente ha provocato un aumento dello stress, della depressione, della solitudine, dell’abuso di sostanze e della violenza domestica (Baker et al. 2022). Il GdR-c si configura quindi come una palestra ideale, nella quale immergersi, sperimentare e sperimentarsi in contesti non confidenti: l’esperienza di gioco può aiutare, così, nella risoluzione di conflitti esistenziali, nel superamento di fobie sociali e fornire un aiuto a vari livelli del processo di crescita, e circoli viziosi controproducenti. Gli elementi psicologici centrali all’interno di un gioco di ruolo variano molto: l’immaginazione, l’interpretazione di un personaggio “altro” a noi e la cooperazione che permette di sperimentare una modalità di gioco di riuscita o sconfitta corale. Da notare, inoltre, la possibilità di confrontarsi costruttivamente con gli altri, la quale affina le capacità di lavoro collettivo (Allan 2015).

Ma il GdR-c, non deve essere considerato solo nella sua interezza: attraverso l’uso ragionato di singole meccaniche di gioco, ad esempio il Powered by the Apocalypse, o PbtA (Migliore, 2022), nel quale il fallimento non è un elemento negativo, ma un fattore importante per ottenere informazioni in più e procedere nell’avventura, potrebbe essere possibile normalizzare un’esperienza comunemente considerata come negativa, e rendere l’ambiente di gioco realmente utile per la riduzione di stress e timore del giudizio sociale.

Nella mia riflessione, i Gdr cartacei offrono un ulteriore spunto utile per la terapia: il fattore aleatorio. Inserendo il dado nella narrazione si può toccare con mano la mancanza di controllo effettivo sulla realtà, ed esperirne le conseguenze soprattutto quando sono negative, come difficilmente può accadere in terapia. Diciamo spesso ai nostri pazienti che la maggior parte degli eventi della vita è al di fuori del nostro controllo: in questo modo c’è la possibilità di osservare in vivo sia la scelta del soggetto, che le conseguenze in un mondo il più realistico possibile.

A fronte delle grandi possibilità immersive, il GdR cartaceo è, infine, anche molto economico come strumento terapeutico. Laddove si renderebbero necessarie costose attrezzature come il visore VR, in questo caso servono solo un foglio, una matita e dadi poliedrici. Tutto il resto può essere creato, manipolato e costruito ad hoc, avendo un sistema di gioco con delle regole di riferimento.

Il gioco di ruolo e l’Acceptance and commitment therapy

L’Acceptance and commitment therapy (ACT) presenta, attraverso l’Hexaflex, i processi cognitivi interdipendenti nei quali “addestrarsi” in terapia o attraverso libri di auto-aiuto, per raggiungere una maggiore flessibilità psicologica, la quale consente di accettare ciò che è fuori dal proprio controllo personale e impegnarsi in azioni che arricchiscano la propria vita: Defusione, Accettazione, Contatto col momento presente, Valori, Azione impegnata e Sè come contesto (Hayes et al, 2006).

Gioco di ruolo cartaceo al servizio della psicoterapia Fig 1

Nell’ACT, la flessibilità cognitiva non è vista come un “trofeo da appendere sopra al caminetto”, ma come un processo continuo: un viaggio denso di ostacoli nel quale è non solo tollerato che si inciampi, ma è previsto e consigliato, al fine di apprendere una strada più funzionale verso i propri valori. Tradizionalmente nell’ACT, ogni processo viene proposto al cliente mediante una o più metafore che ne illustrano il significato in modo più immediato e immersivo. Una delle più famose è certamente “Demons on the boat” di Russ Harris (2007), nella quale un marinaio che vuole riuscire ad arrivare ad un porto ricco di provviste e persone amiche, deve vedersela con demoni spaventosi che cercano di dissuaderlo, spaventandolo ogni volta che ruota il timone verso la riva.

 Ipotizzando che fosse più utile per il paziente vivere un’esperienza più immersiva, dove potesse apprendere il messaggio della metafora attraverso le proprie scelte e le successive conseguenze, è stata sviluppata una metafora giocabile con un sistema di gioco apposito, in collaborazione con un’associazione di operatori ludici in ambito sociale di Pistoia, i Narratori di mondi-Amici di Tommaso ACTing Flexible.

Gioco di ruolo cartaceo al servizio della psicoterapia Fig 2

L’applicazione del gioco di ruolo in psicoterapia

Il terapeuta, in qualità di narratore, racconta la metafora come se fosse un’ambientazione di gioco nella quale il soggetto sarà chiamato a prendere delle decisioni, in base alla narrazione stessa. L’esito di queste decisioni sarà deciso dal tiro di un dado, con diverse possibilità di successo e insuccesso.

All’interno del racconto, ho identificato i seguenti choice points, punti salienti del racconto, nei quali il narratore chiede al soggetto di fare una scelta.

Il soggetto decide di compiere un’azione, la descrive e poi lancia il dado a 20 facce per ottenere un valore che si colloca sul versante del successo, dell’insuccesso, del successo con delle conseguenze e dell’insuccesso con un apprendimento, in ottica PbtA.

Le scelte del soggetto sono immediatamente valutate sull’asse Flessibilità/Inflessibilità, in base all’utilità per la risoluzione della metafora, che assegneranno punteggi positivi o negativi al tiro successivo. Nel caso dei demoni in barca, la risoluzione della metafora si avrà con la decisione di proseguire verso la riva, nonostante l’azione spaventante e criticante dei demoni, mostrando di essere disposto a impegnarsi nelle azioni di valore della propria vita nonostante le avversità. Ogni decisione di procrastinazione, fuga o evitamento, porterà ad accumulare punti inflessibilità. La dinamica non è chiara inizialmente, il soggetto deve capirla con le sue azioni. Ad esempio, provare a uccidere i demoni, buttarli giù dalla barca, tapparsi le orecchie ecc, sono sempre azioni infattibili, anche se in caso di successo danno sollievo dall’ansia. In questo modo, la scelta del soggetto, oltre che sul versante Flessibilità/Inflessibilità, si muove sull’asse Stress/Sollievo sulla base delle conseguenze del tiro sulla narrazione: nel momento in cui il paziente prende una decisione considerata infattibile, può comunque accumulare punti Sollievo, esattamente come accade nella realtà, con la procrastinazione ad esempio.

Gioco di ruolo cartaceo al servizio della psicoterapia Fig 3

La metafora è stata finora proposta in ambito fieristico, per la maggior parte a soggetti con esperienza di GdR cartaceo: in seguito alla giocata, veniva raccontata la metafora originale e si sottoponeva un’intervista semi-strutturata al soggetto, o a coppie di soggetti. Il risultato più interessante è che i soggetti, pur lamentandosi della “sfiga” nel lancio del dado, dimostravano una maggiore immersione e comprensione degli altri, proprio per aver vissuto “di più” secondo loro una prospettiva realistica. Oltre all’ipotizzata maggiore immersione e comprensione del messaggio della metafora attraverso scelte, conseguenze e tiro del dado riguardano il caso di fallimenti ripetuti, i quali potrebbero rappresentare periodi particolarmente densi, nella vita reale, di accadimenti stressanti.

Attualmente, in collaborazione con la Sigmund Freud University di Milano, nell’ambito della realizzazione di una tesi magistrale con il Prof. Caselli e la tesista Dott.ssa Meroni, stiamo mettendo a punto una sperimentazione per soggetti non giocatori. La successiva elaborazione puntuale dei dati potrebbe portare, nella mia idea, allo sviluppo di un sistema che consenta di immergersi nell’intero Hexaflex come fosse un gioco a sé stante ispirato alla metafora del viaggio dell’eroe, una metafora e un processo alla volta.

Raccontiamo ai più piccoli (2019) di Anna Antoniazzi – Recensione

In “Raccontiamo ai più piccoli” Anna Antoniazzi, insegnante in storia dell’educazione e pedagogia, ci accompagna in un viaggio di conoscenza attraverso l’universo delle narrazioni rivolte ai bambini, a partire dall’idea che esse non siano mai puri atti di intrattenimento, bensì dei mezzi per portare a termine degli importanti atti educativi o di facilitazione dell’apprendimento. 

 

 Il libro è suddiviso in quattro capitoli. Il primo ci fornisce una panoramica di tutto ciò che afferisce all’area delle “narrazioni orali”: le ninne nanne con i loro temi spesso tristi e malinconici, a volte addirittura inquietanti o di denuncia sociale, le canzoni dei cantautori, espressione dei sentimenti e delle speranze dei genitori e infine le canzoni dello zecchino d’oro, incentrate invece sulla prospettiva dei bambini.

Il secondo capitolo esplora le possibilità narrative offerte dal libro, partendo dall’idea che i migliori prodotti in questo ambito, se rivolti all’infanzia, debbano prima di tutto poter essere oggetti da manipolare, esplorare e conoscere, al fine di stimolare l’esplorazione e l’assunzione di prospettive diverse da parte dei bambini.

Il terzo capitolo è volto ad aiutare il lettore ad orientarsi nel mare magnum dell’animazione: cortometraggi, serie tv, film. Interessante in questa sezione la distinzione che gli autori fanno tra cartoni che propongono più direttamente modelli educativi (più o meno validi) e cartoni più orientati a rappresentare la dimensione infantile autentica, lasciando più spazio all’immaginazione, alla creatività, all’apprendimento che si realizza tramite l’esplorazione diretta della realtà.

L’ultimo capitolo sorprende il lettore, inserendo nel panorama generale delle narrazioni il settore del digitale e in particolare delle app, che spesso riprendono e danno nuova vita e nuove possibilità narrative a personaggi nati in altri settori della narrazione (ad esempio libri o cartoni), con il vantaggio ulteriore di far sentire i piccoli parte integrante ed attiva della storia.

In conclusione, il testo invita gli educatori e i genitori a porsi come mediatori tra i produttori di narrazioni ed i bambini, non abdicando al loro ruolo, nemmeno nella apparentemente banale proposta di un libro o di un cartone.

HIV e depressione: le variabili socio-demografiche che influiscono sui sintomi depressivi

Vari studi condotti su pazienti con infezione da HIV hanno rilevato come ci siano diverse possibili variabili socio-demografiche che influiscono sui sintomi depressivi, quali sono e come si può intervenire?

 

Depressione e HIV

 I disturbi depressivi sono classificati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali e sono caratterizzati da uno stato di tristezza persistente, tanto grave da interferire con il funzionamento dell’individuo, e da una marcata diminuzione d’interesse o di piacere nello svolgere le attività quotidiane (APA, 2013). I disturbi depressivi sono disturbi psicologici ad alta prevalenza nella popolazione mondiale; questa prevalenza risulta essere maggiormente elevata in persone affette da HIV e AIDS (Bernard et al., 2017; Nyongesa et al., 2019).

In particolare, nell’area dell’Africa subsahariana, dove la prevalenza di persone affetta da HIV e AIDS è molto alta, la presenza di disturbi depressivi in questi pazienti arriva fino al 32% (Bernard et al., 2017; Ng’ang’a et al, 2018). La depressione ha risvolti deleteri sul benessere generale e sulla qualità della vita e, in pazienti con infezione da HIV e/o AIDS rischia di compromettere l’aderenza alle cure (Uthman et al., 2014). Inoltre, diversi studi effettuati nell’Africa subsahariana hanno evidenziato come la presenza di sintomatologia depressiva conduca a una inferiore qualità di vita generale, un aumento del rischio suicidario, un decorso della malattia più rapido e, in ultimo, un incremento del tasso di mortalità (Abas et al., 2014; Kingori et al., 2015; Amare et al., 2018).

Oltre ai fattori appena elencati, diversi studi in quest’area dell’Africa, condotti su pazienti affetti da HIV/AIDS, hanno fatto emergere come ci siano altre possibili variabili socio-demografiche che influiscono sui sintomi depressivi: l’avanzare dell’età, l’essere celibi/nubili, un basso livello di scolarizzazione, l’essere disoccupati, avere un reddito basso, l’essere vittime di stigmatizzazione dovuta alla malattia e l’assenza di supporto sociale (Bernard et al., 2017).

Spiegare la prevalenza di sintomi depressivi in persone con infezione da HIV

 Uno studio del 2019 di Nyongesa e colleghi ha misurato la prevalenza di sintomi depressivi in persone sieropositive, provenienti dall’area rurale di Kilifi in Kenya. In questa zona del Kenya il 71% della popolazione vive in una condizione di estrema povertà, solo il 7% ha un grado di istruzione pari alla scuola secondaria di secondo grado e si stima che circa il 5-6% della popolazione sia malata di HIV/AIDS. Gli autori dello studio hanno reclutato 450 partecipanti positivi all’HIV, appartenenti a una fascia d’età compresa tra i 18 e i 60 anni. Al momento del reclutamento i pazienti seguivano già una terapia antiretrovirale combinata (cART), ovvero una combinazione di farmaci risultati efficaci nel tenere a bada l’HIV e far sì che esso non si slatentizzi, diventando AIDS.

La presenza di sintomi depressivi è stata rilevata tramite la somministrazione del Patient Health Questionnaire (PHQ-9), nel quale un punteggio ≥ 10 indicava la presenza significativa di sintomi depressivi (Spitzer et al., 1999). I risultati hanno evidenziato una presenza complessiva di sintomi depressivi pari al 13.8%. Inoltre, lo studio ha individuato un legame di correlazione tra i seguenti fattori e i sintomi depressivi: altre malattie croniche in comorbidità, somministrazione cART, percezione di stigma legato alla malattia, difficoltà nell’accessibilità e reperibilità di cure e servizi nel trattamento dell’HIV.

In sintesi, la prevalenza di sintomi depressivi nella popolazione con infezione da HIV tenuta in considerazione in questo studio è elevata. Gli autori sottolineano che una precoce identificazione della sintomatologia depressiva, una rete sociale adeguata in grado di fornire sostegno psicologico ai malati e una facile accessibilità ai trattamenti, possa agevolare le persone con infezione da HIV nel percorso di monitoraggio e cura del virus.

Ergonomia ambientale: la disciplina che migliora le nostre performance e promuove il benessere psicofisico

L’International Ergonomics Association (IEA) definisce l’ergonomia come la scienza che studia l’interazione tra l’uomo e i supporti tecnologici, con l’obiettivo di promuovere uno stato di benessere e migliorare le performance. Nella sua declinazione ambientale, può essere applicata dal settore lavorativo fino a quello sanitario. 

 

Le origini dell’ergonomia

 L’ergonomia ambientale è una delle più antiche discipline che solo a partire dagli ultimi due secoli ha ridestato l’interesse della ricerca. Che cosa si intende quando si nomina l’ergonomia ambientale e perché è importante? Partendo dal presupposto che normalmente si spende il 90% del proprio tempo all’interno di spazi chiusi (Girelli, 2018) è importante assicurarsi che questi spazi siano ben progettati, sia per una fruizione più agevole sia per preservare e promuovere le performance che mettiamo in atto al loro interno.

Come affermato dal Dott. Piergiorgio Frasca (2006), psicologo del lavoro e delle organizzazioni ed esperto in sicurezza sul lavoro, l’uomo ha cominciato a occuparsi di ergonomia quando ha iniziato a costruire e progettare i primi utensili con lo scopo di agevolare specifiche attività manuali.

Partendo da una definizione etimologica, il termine ergonomia ha origine greca ed è dato dalle parole ergon, che significa “lavoro”, e nomos, ossia “legge, norma”; l’ergonomia è quindi l’insieme delle norme o dei principi che delineano il modo in cui si svolge un’attività.

Agli inizi del secolo scorso lo scienziato polacco Wojciech Jastrzębowski, si dedicò allo studio di questa disciplina tanto da diventarne il primo riferimento ed esserne considerato il padre fondatore. Egli infatti nel 1857 in un articolo pubblicato su un giornale dell’epoca definì l’ergonomia come “la scienza del lavoro” (Walkiewicz, 2020).

L’ergonomia è quindi una disciplina che si pone alla base dell’evoluzione dell’uomo e del suo continuo plasmare ciò che lo circonda per creare un ambiente in grado di rispondere in modo sempre più preciso alle sue esigenze.

Ambiente come promotore del benessere

Nella prima conferenza Europea su Ambiente e Salute, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara che i benefici per la salute e il benessere sono portati anche da un ambiente pulito e armonioso (OMS, 1989). Ciascuno spazio in cui passiamo del tempo – che sia l’ufficio, il salotto di casa o la sala d’aspetto di un centro medico – con le sue caratteristiche specifiche è in grado di indurre nelle persone una variazione sul piano emozionale, cognitivo, sensoriale e fisico (Keizer et al., 2008). Diversi studi hanno inoltre evidenziato come le caratteristiche di un ambiente indoor (come per esempio la presenza di elementi decorativi green, fonti di luce naturale, ecc.) siano in grado di influenzare la creatività e la produttività delle persone (Ceylan et al., 2008; Ulrich, 1984).

Gli spazi quindi non sono da pensare come delle entità asettiche e prive di identità, ma al contrario come delle dimensioni dotate di una propria intrinseca vitalità in grado di influenzare sotto diversi aspetti l’uomo stesso.

 Di contro, un ambiente disordinato, poco illuminato e trascurato può portare le persone a sviluppare forme di somatizzazione. Nello specifico si parla della Sick Building Syndrome (SBS), in cui persone che vivono uno stesso ambiente riportano sintomatologie fisiche apparentemente prive di una qualsiasi componente eziologica come mal di testa, nausea, affaticamento, mancanza di concentrazione (Arikan et al., 2018). Non solo: un esempio concreto è rappresentato dalla realtà ospedaliera. L’ospedale è uno spazio molto particolare, la cui progettazione deve rispettare precise regole sia di gestione semantica degli spazi, che di ergonomia per facilitarne la fruizione e l’orientamento per le persone che lo visitano. In questo caso, studi rivelano che una sbagliata progettazione può arrivare a interferire con la performance dello staff medico e costituire un rischio notevole aumentando la probabilità di errori, come nella somministrazione dei medicinali ai pazienti ricoverati, che è una pratica delicatissima (Rozenbaum et al., 2013).

Il wayfinding mirato alla tutela di pazienti con Alzheimer

In ergonomia ambientale, il termine inglese wayfinding (tradotto letteralmente “trovare una via”) significa applicare un approccio di “traduzione” degli spazi di modo da renderli correttamente interpretabili dalle persone che lo vivono. E la spiccata sensibilità dell’essere umano nei confronti dell’ambiente che lo circonda ne diventa quindi una variabile imprescindibile, in cui la morfologia e la semantica degli spazi assumono ancora più rilievo. Un esempio concreto del concetto di wayfinding è stato applicato in un progetto pioneristico che si è distinto per aver introdotto un modo innovativo e futuristico di gestione di pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer. Essa è la più comune forma di demenza e in quanto patologia neurodegenerativa, essa compromette le facoltà cognitive (memoria, attenzione, pensiero) e comportamentali in modo progressivo (Lopis et al., 2021), concorrendo allo sviluppo di patologie in comorbilità, come ad esempio forme di depressione maggiore (Rovner et al., 1989; Tampi et al., 2022). A fronte di un quadro simile, diventa difficile intuire quale potrebbe essere il modo migliore per assistere questi pazienti (Calkins, 2018). In un comune poco distante da Amsterdam ha preso vita il villaggio di Hogewey. Si tratta di un complesso residenziale che a primo impatto può sembrare un normale paese di provincia olandese: ci sono cinema, negozi e servizi (ad esempio il parrucchiere), il tutto corredato da parchi, panchine e fontane.

Ergonomia ambientale migliorare performance e benessere psicofisico Fig 1

In realtà è un villaggio residenziale progettato appositamente per accogliere pazienti affetti da demenza. Al suo interno, circa 150 pazienti vivono in 23 unità abitative indipendenti e i “passanti” che popolano i vialetti del villaggio sono in realtà infermieri specializzati in geriatria, operatori sanitari, medici, e psichiatri vestiti in abiti civili (Baumann, 2021).

In questo modo i pazienti possono continuare a vivere la propria vita mantenendo una parvenza di normalità dal momento che sono liberi di muoversi e di ricevere visite da amici e parenti.

La supervisione dei professionisti garantisce un’assistenza 24 ore su 24, se ad esempio uno di loro dovesse sentirsi disorientato o perdersi, lo staff medico interviene immediatamente offrendo assistenza e preservando la loro incolumità.

 

Usare la respirazione per calmarsi o darsi energia

La respirazione è una di quelle attività fondamentali per la vita a cui si presta poca attenzione se non nel momento in cui, per un motivo o per un altro, andiamo incontro alla necessità di pensarci consapevolmente.

 

La respirazione

 Certo, il pensiero va subito al Covid o a una qualsiasi di quelle condizioni mediche (non poche) che determinano la percezione di una mancanza di respiro, la sensazione di “fame d’aria” (dispnea). Ma un quadro di malattia non è necessario. Pensiamo a quando i bambini, al mare o in piscina, giocano a chi rimane più tempo sott’acqua, oppure semplicemente a quando si fa dello sport.

Respiriamo per vivere: senza ossigeno si determina la morte dei tessuti e sintomi come capogiri, stati confusionali, mal di testa, tachicardia, perdita della coordinazione, problemi di vista e altro, fino alla morte (Caravita, 2022).

Ciò accade in situazioni di malattia, ma al di là delle cause di fondo, qualcosa di simile accade anche durante l’attività sportiva, nella quale una maggiore richiesta di ossigeno è determinata dal compito e comporta l’incremento della frequenza respiratoria per ripristinare uno stato fisiologico (e di conseguenza mentale) funzionale all’attività stessa.

La respirazione è un’attività che non necessita di consapevolezza per essere eseguita perché è mediata dal sistema nervoso autonomo. Tuttavia possiamo renderci facilmente conto che in alcune situazioni ne mettiamo in atto un uso consapevole in funzione strategica, ovvero per raggiungere degli obiettivi specifici.

Ad esempio per promuovere stati profondi di calma e/o concentrazione. L’utilizzo controllato e sistematico della respirazione è non a caso uno degli strumenti fondamentali delle pratiche meditative, di qualsiasi matrice esse siano, che fanno largo uso di una specifica modalità di respirazione, nota come respirazione diaframmatica. Nel quotidiano respiriamo per ritrovare la calma poco prima di una visita medica, di un esame importante, o di un incontro sociale pieno di attesa e di aspettative.

Ma possiamo utilizzare la respirazione anche per fornire a noi stessi, in maniera autonoma, l’energia promotrice per l’azione: un bel respiro prima di tuffarsi dal trampolino, prima del fischio d’inizio, prima di un impegno sociale o lavorativo importante, prima di battere quel rigore, prima di tirare quella freccia o sparare quel colpo; prima, insomma di una qualsiasi attività che ci richiede impegno e concentrazione.

Le tecniche di respirazione

La psicologia dello sport in Italia ha ricevuto negli ultimi anni una certa copertura mediatica anche grazie ai successi ottenuti da atleti italiani in competizioni ufficiali. Si pensi ad esempio al caso Marcell Jacobs – medaglia d’oro nei cento metri alle Olimpiadi – e alla nazionale italiana di pallavolo. In entrambi i casi si è fatta diretta menzione del ruolo della psicologia per migliorare la performance degli atleti. I risultati di ricerca della psicologia applicata allo sport possono essere utilizzati anche per finalità non sportive e più circoscritte.

È appunto il caso delle tecniche di respirazione, uno strumento di gestione dello stress da competizione per evitare il fenomeno del choking, il peggioramento della performance fisica e/o mentale derivante dalla difficoltà a gestire le pressioni del compito (Agrillo, 2009). In generale possiamo considerarle come uno strumento per agire sulla mente (attenzione, pensieri, emozioni) partendo dal corpo.

Le tecniche che fanno uso della respirazione sono molte, per gli obiettivi di questo articolo ne saranno presentate solo alcune, partendo da un testo di riferimento per la psicologia dello sport (Baldock et al., 2020).

In linea generale si possono distinguere due categorie: tecniche per diminuire la tensione fisica (arousal) e tecniche per aumentarla. Perché queste ultime? Perché un certo grado di attivazione, cui può seguire la percezione di essere pronti al compito e a mettersi in gioco fisicamente e mentalmente (“appraisal di sfida” cfr. Lazarus & Folkman, 1984), è necessario per confrontarsi in compiti impegnativi sia nel lavoro che nella vita in genere. Entrambe verranno presentate passo passo per facilitarne l’apprendimento.

Due premesse fondamentali. La prima è che per essere apprese sarà necessaria qualche seduta di prova, anche di pochi minuti, da potersi fare a casa e, seconda premessa, i migliori risultati si otterranno praticando la respirazione diaframmatica (per un tutorial vedi qui).

Iniziamo con le tecniche di per diminuire la tensione fisica (diminuire l’arousal).

Esalazione completa

  • Espirare completamente fino a quando non si sentono i polmoni ‘vuoti’;
  • Chiudere la bocca e inspirare dal naso lentamente, per 7 secondi, fino a quando non si senta tensione a livello della gola e del petto;
  • Espirare dalla bocca per 8 secondi;
  • Ripetere fino a quando non si senta di aver raggiunto il livello di rilassamento desiderato.

Respirazione ritmica

  • 4 secondi di inspirazione,
  • 4 secondi trattenendo l’aria,
  • 4 secondi di espirazione,
  • 4 secondi senza inspirare né espirare.

Ripetere i cicli fin quando non ci si sente calmi sia fisicamente che mentalmente. È possibile modificare il ritmo a proprio piacere, a condizione che il numero dei secondi per ogni fase sia uguale.

Rapporto 1/2

  • Inspirare per 4 secondi concentrandosi sul torace e sulle sensazioni a livello di naso, gola e polmoni.
  • Espirare per 8 secondi mantenendo il medesimo focus attentivo.
  • Ripetere ciclicamente.

È possibile modificare il rapporto inspirazione/espirazione a patto che rimanga sempre di 1/2 (ad esempio 5 secondi di inspirazione e 10 di espirazione, 6 e 12, etc.).

Conteggio 5 a 1

  • Inspirare profondamente e lentamente, visualizzando nella propria mente il numero “5”;
  • Espirare profondamente;
  • Inspirare profondamente e lentamente, visualizzando nella propria mente il numero “4” e dicendo a sé stessi: “Sono più rilassato/a adesso rispetto a quando ero a 5”, o qualcosa di equivalente;
  • Espirare profondamente;
  • Inspirare profondamente e lentamente visualizzando nella propria mente il numero “3” dicendo a sé stessi: “Sono più rilassato/a adesso rispetto a quando ero a 4”,  etc.;
  • Proseguire fino a “1”.

Respiri di concentrazione

Quando si hanno pensieri che tendono a farci distrarre, è utile concentrarsi sulle sensazioni fisiche interne che si presentano al momento di inspirare e di espirare, rassicurandosi e suggerendo a se stessi di calmarsi.

 Le tecniche per aumentare i livelli di tensione fisica (aumentare l’arousal) sono sostanzialmente le stesse previste per calmarsi, ma ribaltando la logica sottostante: aumentare la frequenza e la superficialità degli atti respiratori e laddove siano presenti messaggi che suggeriscano calma si sostituiscano con messaggi motivanti, da scegliere in base alle proprie preferenze (“Forza”, “Coraggio”, “Ce la puoi fare”; il turpiloquio sembra funzionare abbastanza bene, cfr. Stephens et al., 2018). Ad esempio, nel caso della respirazione ritmica si utilizzerà un conteggio di un secondo; nel caso dei respiri di concentrazione ci si suggerirà qualcosa di motivante mentre si iperventila dal naso, e così via per le altre tecniche.

La pratica quotidiana di queste tecniche permette di acquisire uno strumento utilizzabile al momento più opportuno per controllare i propri livelli di attivazione e avere così un impatto significativo sulle emozioni, i pensieri e quindi i propri comportamenti, in relazione ai propri desideri e agli obiettivi che si vogliono raggiungere in quelle specifiche circostanze.

Lo scopo ultimo è sempre lo stesso: maggiore autonomia, libertà e controllo della propria vita.

La fantasia del mondo distrutto (2022) di Levine e Bower – Recensione

Levine e Bowker mostrano come la fantasia del modo distrutto possa essere espressione del legame sociale, e, raggiungendo il vertice della loro analisi, segnalano i risvolti “dell’appropriazione nella fantasia” di realtà distruttive. 

 

Minacce esistenziali, fantasie e società civile

Prima della malvagità c’è l’assenza. L’assenza diventa malvagità quando scopriamo, o più  esattamente creiamo, un collegamento causale fra le sue cose (Levine e Bowker, 2022, p.12).

 È così che, Daniel P. Levine e Matthew H. Bowker, nel loro libro “La fantasia del mondo distrutto. Uno studio psicoanalitico su cultura e politica”, intrecciano i fili di un progetto che ingaggia il lettore in un’analisi impegnativa ma necessaria sull’incombere di minacce esistenziali nella nostra società e sul legame tra mondo interno e realtà esterna di cui si fanno testimonianza.

Attraverso le dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro, e in quelle spaziali del vecchio e del nuovo mondo, gli autori propongono uno sguardo rivolto alla contemporaneità – intrigante e considerevole – il cui focus è saldamente centrato sulla produzione fantastica. Di quest’ultima, che non può che essere segnalata come un’attività imprescindibile per la costituzione psichica, forniscono una lettura che, procedendo verso la società civile, ne evidenzia il modo in cui ne sia permeata, o meglio, su cui appare edificata.

Percorrendo il sentiero che tracciano per il lettore, è possibile cogliere ben presto un vertice osservativo che non si estende verso tutte le fantasie, ma ne prende in esame una: la fantasia del mondo distrutto. Presentando un’analisi che riserva, in un primo momento, uno sguardo alla dimensione individuale, per approdare, poi, a quella collettiva, Levine e Bowker mostrano come la fantasia del modo distrutto possa essere espressione del legame sociale e, raggiungendo il vertice della loro analisi, segnalano i risvolti “dell’appropriazione nella fantasia” di realtà distruttive.

La fantasia del mondo distrutto, tutt’altro che una fantasia inusitata, ci accompagna nel nostro quotidiano, come accade con molti dei mezzi che usiamo per informazione e/o diletto, che contengono proprio un’ampia rappresentazione della civiltà ridotta in frantumi con cui conviviamo, ma abbiamo imparato ad ignorare.

Abitare il mondo distrutto – e ad essere distrutto è il mondo interno – è, in sostanza, ritrovarsi in un mondo privato dell’oggetto buono, in altre parole quell’oggetto che acquista queste caratteristiche perché il sé è al sicuro nel contatto che intrattiene con esso. Diversamente da quello che potrebbe essere intuito, qui, tutto l’impegno degli autori non è convogliato verso la rappresentazione della perdita, ma verso l’analisi delle sue conseguenze, che trovano nella serie tv “Godless”, una narrazione senz’altro – più immediata e tollerabile – di una contesa tra forze psichiche, emblematiche testimonianze di speranza e disperazione, attive in quel costoso processo che è l’integrazione psichica.

L’oggetto buono perduto e l’assenza di una casa

Perché possa compiersi nel migliore dei modi il passaggio all’età adulta, è importante per l’individuo avere avuto a disposizione un ambiente sicuro in cui crescere, in altri termini, un ambiente che si configura come tale per la presenza di qualcuno che è sufficientemente rispondente ai nostri bisogni, quello che definiamo oggetto buono; il legame con esso è necessario perché il sé possa concepirsi come buono, perché possa sentirsi visto e, dunque, compiere il passo dall’unità alla separazione, fino al suo autodeterminarsi. Se il sé dipende da questo legame, perdere l’oggetto buono significa essere esposto all’abbandono e alla perdita di un posto sicuro; un luogo che non è sicuro è un luogo pericoloso, non possiede significato e non può che rappresentare una minaccia per la sua stessa esistenza.

La colpa e la strada per tornare a casa

Il viaggio nella fantasia del mondo distrutto attraversa estesamente e minuziosamente la colpa insorta in seguito alla distruzione, la esplora espandendo i suoi confini, fino a condurre il lettore a cogliere il suo legame con l’autodeterminazione nella società. Radunare peculiarità e sfumature che la contraddistinguono, intessendo contributi psicoanalitici, filosofici e letterari che consentono di rendere meno oscuri effetti, responsabilità e possibilità riparative di questo danno è il tentativo arduo a cui Levine e Bowker rivolgono il loro impegno e ne chiedono altrettanto a chi si appresta a scorrere le pagine in cerca del filo che le tiene insieme. Ecco che, è al senza senso della fine, alla paura che ingenera questa scoperta, ai suoi effetti e al tentativo dell’uomo di rispondervi che conduce il loro lavoro.

Di fatto, scoprire l’insensatezza del mondo distrutto e adoperarsi per non morirne è il compito di chi sopravvive. Un compito che attraverso la mobilitazione dell’aggressività si pone l’obiettivo di ripristinare il senso perduto, un compito paradossale e non privo di conseguenze e in cui attraverso il senso di colpa si definisce l’assenza e la presenza del sé.

Mentre la lotta tra amore e odio tormenta l’uomo fino a fargli disconoscere che la distruzione è già avvenuta, ecco che il sopraggiungere della sua risposta consiste nella scelta, secondo Levine e Bowker, della sua possibilità di sopravvivenza. Frugando insieme agli autori tra queste possibilità, ne possiamo riconoscere almeno tre attraverso cui si può imparare ad abitare il nuovo mondo: fuggire, adattarsi alla sua inospitalità e minacciosità costruendo un falso sé, oppure costruendo un sé colpevole, ossia quello narrato in “Godless”. Più nel dettaglio, quest’ultima, a cui Levine e Bowker dedicano uno spazio piuttosto ampio, costituisce proprio una valida rappresentazione del mondo interno del bambino dopo la perdita del suo oggetto buono.

Se qualcosa possiamo dire di questo nuovo mondo è che la sua peculiarità per eccellenza è quella di essere dominato da emozioni dirompenti e contrapposte, di amore e odio che non possono essere contenute, ma che sono proiettate nel mondo esterno, palcoscenico della distruzione vissuta nel mondo interno.

Nella “Città senza Dio” la desolazione paesaggistica tipica del far west, con l’aridità e il silenzio dei suoi luoghi, oltre a rappresentare chiaramente l’assenza di qualcuno che risponda al nostro appello – qui è intuibile il riferimento alla filosofia dell’assurdo cui gli autori si accostano per la loro analisi – è utile anche per comprendere meglio come le emozioni distruttive si mobilitino in esso, consentendo al sé di identificarsi con l’innocente e il colpevole, ossia il deprivato e il deprivante.

Ecco che, nella vita mentale del bambino, la colpa e l’odio assurgono alla funzione di riparare il danno e tenere insieme le parti opposte del sé.

Per ritornare a questo nuovo mondo, in cui non c’è più una casa, assumersi la colpa della distruzione costituisce la soluzione necessaria per introdurre la speranza, la speranza di ritrovare, magari un giorno, un posto sicuro.

 Da qui l’importanza di accogliere l’operazione di rivolgere maggiore attenzione alla colpa per poterla identificare, come sostengono Levine e Bowker, come l’elemento necessario perché si possa giungere alla comprensione di quello che, in realtà, le si cela dietro: “[…]una fantasia di abbandono profondamente incorporata, che ha origine nell’esperienza infantile dell’assenza di un oggetto materno affidabile” (Levine e Bowker, 2022, p. 121).

Qui il riferimento ad una esperienza condivisa si fa chiaro, come pure il rarefarsi della distinzione tra dentro e fuori, con l’appiattimento dei piani temporali coinvolti, in gioco il privilegio di essere sopravvissuto, la convinzione che la sopravvivenza costituisca l’equivalenza del non essere cattivo, o fantasie onnipotenti nate per contrastare la vergogna di essere vittime sopravvissute.

L’onnipotenza della giustizia, il gruppo e la famiglia

Nella fantasia, all’onnipotenza di forze distruttive si può opporre l’onnipotenza di forze tese a riparare la distruzione, ossia la perdita dell’oggetto buono e – in definitiva – la perdita dello stesso sé. In una tale prospettiva, la colpa, la riparazione e l’impegno civico appaiono indissolubilmente legati e il gruppo rappresenta la condizione attraverso cui reprimere il sé o viceversa autodeterminarsi. Nel gruppo, infatti, il sé può ri-sperimentare lo stato vissuto nella diade primitiva, in cui la separazione non esiste e l’omologazione ha il fine di annullare le differenze, o viceversa, sperimentare il distacco per manifestare il vero sé. Questa questione assume un significato non trascurabile se intercettata nei sistemi sociali in cui l’attività o la passività del singolo e del gruppo vengono a configurarsi come un tentativo di riparare le relazioni oggettuali interne attraverso le relazioni quotidiane nella realtà esterna. In tal senso, l’impegno civico può essere letto come la necessità di difendersi dall’angoscia di essere abbandonati.

Più nel dettaglio, il sé potrebbe trovarsi nella condizione di contrastare la vergogna provata nella passività, attraverso il proprio impegno a parlare, a parlare per sè, spostando l’odio – l’odio provato verso di sé – all’esterno, in contenitori adatti a contenerlo, e contro i quali combattere. Quest’operazione che potrebbe – e così accade – avvenire nel nome della giustizia, finisce per dare vita a gruppi che ricoprono posizioni contrastive e che, piuttosto che combatterla la violenza, la alimentano ulteriormente.

In altri termini, quello che accade – secondo Levine e Bowker – è che intorno alla giustizia viene costruita una fantasia che definisce la sua onnipotenza nel riparare la perdita. Per usare le loro parole: “Questa fantasia è collegata alla speranza che i torti si possano riparare, se le istituzioni giuridiche costringono altri a sopportare il peso di un sé cattivo o difettoso” (Levine e Bowker, 2022, p.142).

Se quanto riferito in merito alla giustizia, alle tendenze politiche e culturali della società civile viene osservato a livello familiare, quello che è possibile cogliere è che quando è la stessa famiglia a concepirsi come un gruppo, che lascia scarso, se non assente, margine di crescita ai suoi membri, ripudiare le differenze per preservare il legame materno è quello che consente alla “famiglia gruppo” di inscenare all’esterno il dramma interno di un mondo pericoloso in cui l’essere non è possibile.

Se l’essere non è possibile, il modo per portare avanti questo compito è quello di ritrovarsi in un’esperienza condivisa di perdita che, secondo gli autori, è rappresentata dal “gruppo superstite”. In quest’ultimo, in cui i vivi non sono comunque vivi, l’impossibilità del sé di esprimersi e l’identificazione con i morti è necessaria per contrastare la personale spinta vitale e non tradire chi non c’è più. Quando parlano di tradimento Levine e Bowker, si riferiscono a quella condizione in cui il sé: “[…] tradisce (rivela) il segreto della famiglia, ovvero che la famiglia è solo questione di rifiuto e perdita, e tradisce (viola) il suo codice morale, rifiutando di rivestire nel dramma familiare un ruolo che nega la vita” ( Levine e Bowker, 2022, p.179).

Si comprende bene allora come ritrovarsi in una tale condizione costituisca una cristallizzazione del processo maturativo in cui il progresso è confuso con la sua conservazione. La lotta ingaggiata è, infatti, contro un torturatore interno – per citare Orwell a cui gli autori si connettono nelle ultime pagine del loro libro – e la perdita dell’oggetto buono è inevitabilmente irreparabile, perché è già avvenuta.

L’oggetto empatico e la strada alternativa

Per concludere, se una strada alternativa a questo scenario di distruzione può essere trovata, è quella del contatto con un oggetto empatico. Facendo un passo indietro e tornando alla formazione dei legami, difficilmente, adesso, potrebbe sfuggire la relazione che dovrebbe essere osservata tra empatia e aggressività. Qui la metafora del cavallo spezzato o “domato”, come raccontata da Levine e Bowker in merito alla serie “Godless”, potrebbe essere calzante. In essa la primitività della forza di emozioni e impulsi del cavallo/bambino può essere controllata/integrata solo attraverso la creazione di una relazione con un oggetto sufficientemente empatico e pertanto in grado di consentire al sé di esprimere la sua identità. Qui l’importanza di una tale relazione risiede nella possibilità che ha di indebolire, se non interrompere, il riprodursi di una successione di drammi interni nelle relazioni nel mondo esterno. Se una ri-configurazione del mondo interno è mai possibile, lo è attraverso una relazione in grado di offrire uno spazio di accoglienza del sé che impedirebbe alla colpa di prendere il sopravvento e dare al mondo interno e poi esterno un aspetto minaccioso.

“In altre parole, è la capacità di un oggetto nuovo, l’analista, di sopravvivere alle aggressioni del paziente, restando accessibile come fonte di legame empatico, ciò che altera la configurazione del mondo oggettuale interno, attenuandovi il potere della colpa” (Levine e Bowker, 2022, p.191) e dunque il suo viaggio disperato alla ricerca di uno spazio sicuro.

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