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Alessitimia e Strategie di autoregolazione: una rassegna sistematica

L’obiettivo dello studio di Sangalli e Caselli (2022), pubblicato in lingua italiana sulla rivista “Psicoterapia cognitiva e comportamentale”, è stato quello di esplorare in maniera sistematica la letteratura esistente riguardo alla relazione esistente tra alessitimia e autoregolazione per approfondire i meccanismi sottostanti e la possibile influenza che le strategie di autoregolazione potrebbero avere sui tratti alessitimici.

 

Cos’è l’alessitimia?

 Con il termine “alessitimia” si intende un tratto di personalità relativamente stabile che riflette una difficoltà nell’elaborazione cognitiva e simbolica dell’esperienza emotiva.

La prevalenza dell’alessitimia si colloca attualmente tra il 9,9% e il 13% in popolazione generale (Honkalampi et al., 2000; Mattila et al., 2006) e può presentare diversi livelli di gravità.

L’alessitimia è un costrutto complesso e multidimensionale: si caratterizza infatti per diversi aspetti e dimensioni collegate tra loro. Tali dimensioni sono: a) una difficoltà nell’identificare le proprie emozioni; b) una difficoltà nel discriminare le emozioni da percezioni più prettamente fisiologiche; c) una difficoltà nel descrivere e comunicare i propri stati emotivi; d) uno stile di pensiero orientato all’esterno (Taylor, Bagby, & Parker, 1997).

È definibile come un costrutto transdiagnostico, è cioè una condizione che è riscontrabile in diversi disturbi: diverse ricerche dimostrano correlazioni significative tra alessitimia e sintomi depressivi e/o ansiosi (Foran & O’Leary, 2013; Pathwardan et al., 2019), disturbi alimentari (Shank et al., 2019; Westwood et al., 2017), abuso di sostanze come alcol o droghe (Lyvers et al., 2019), alcuni disturbi di personalità (Coolidge et al., 2012; Nicolò et al., 2011).

L’alessitimia può portare a conseguenze sia a livello intrapersonale che interpersonale: le persone con un tratto alessitimico elevato tendono a prediligere uno stile relazionale improntato al distacco e alla freddezza, così come una scarsa assertività (Vanheule et al., 2007).

Le basi dell’alessitimia

I fattori di rischio per l’insorgenza e il mantenimento di un tratto alessitimico elevato chiamano in gioco la complessa interazione tra la dimensione biologica e quella sociale. Studi condotti sui gemelli dimostrano come l’ereditarietà sia in grado di spiegare circa il 30-39% della varianza totale dei tratti alessitimici, mentre il restante 61-70% sarebbe riconducibile a fattori ambientali condivisi e primariamente non condivisi (Baughman et al., 2013). Pertanto a fronte di una certa quota di vulnerabilità biologica, quest’ultima va considerata in interazione con specifici contesti esperienziali: alcuni studi hanno ipotizzato che l’esposizione a traumi precoci e/o in età adulta, uno stile di attaccamento di tipo insicuro ed esperienze di neglect possano essere fattori concorrenti nello sviluppo di tratti alessitimici.

In letteratura vi sono ancora posizioni discordanti circa la natura dell’alessitimia e le dinamiche che la connettono alla psicopatologia: secondo alcuni contributi l’alessitimia sarebbe un fenomeno primario, quindi strutturale, mentre secondo altre prospettive verrebbe concettualizzata come un fenomeno periferico secondario ad altre condizioni (Messina, Beadle, & Paradiso, 2014).

Considerando nello specifico la prospettiva secondo cui un’autoregolazione disfunzionale appresa favorisce l’esordio e il mantenimento di una condizione alessitimica, l’alessitimia è definibile quindi come l’esito di un processo disfunzionale (teorie funzionaliste) in cui il soggetto non avrebbe a che fare con i propri stati interni, privilegiando un pattern di autoregolazione di tipo deattivante e/o evitante.

Recentemente alcune ricerche hanno approfondito la relazione che intercorre tra alessitimia e autoregolazione. Con il termine autoregolazione ci si riferisce a qualsiasi processo di automonitoraggio e autocorrezione volontaria del proprio funzionamento, teso al raggiungimento di uno scopo. Essa può coinvolgere diversi domini, quali la regolazione emotiva ( Gross & John, 2003), le strategie di coping (Lazarus & Folkman, 1984) e l’evitamento esperienziale (Hayes, 1994). In quest’ottica le difficoltà alessitimiche sarebbero l’esito di uno stile di autoregolazione appreso tale per cui gli individui alessitimici non avrebbero imparato a regolare i propri stati interni in modo funzionale (Panayiotou et al., 2015). In letteratura diverse ricerche dimostrano la presenza di strategie di coping e di regolazione emotiva in soggetti alessitimici.

Alessitimia e autoregolazione

L’obiettivo dello studio di Sangalli e Caselli (2022), pubblicato in lingua italiana sulla rivista “Psicoterapia cognitiva e comportamentale”, è stato quello di esplorare in maniera sistematica la letteratura esistente riguardo alla relazione esistente tra alessitimia e autoregolazione per approfondire i meccanismi sottostanti e la possibile influenza che le strategie di autoregolazione potrebbero avere sui tratti alessitimici.

Per raggiungere l’obiettivo di ricerca è stata condotta una rassegna sistematica in accordo con il prospetto PRISMA (Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses). Le parole chiave utilizzate sono state le seguenti: «Alexithymia» AND («coping» OR «coping strateg*» OR «COPE» OR «emotion regulation strateg*» OR «ERQ») NOT «psychopathology» NOT «neuroscience» — e sono state inserite nella banca dati EBSCOhost. Sulla base dei criteri di eleggibilità sono stati identificati nove articoli scientifici

 A seguito della revisione sistematica della letteratura, emerge che i soggetti alessitimici e non alessitimici differiscono nell’uso di strategie di regolazione emotiva, quantomeno a livello quantitativo. I primi sembrano infatti caratterizzarsi per un uso maggiore della soppressione espressiva e minore della rivalutazione cognitiva: sia le emozioni negative che quelle positive sembrerebbero essere inibite. Tale pattern di autoregolazione è indice di maggiori difficoltà emotive e si associa a scarsi livelli di benessere individuale (Gross & John, 2003).

In tutti gli studi correlazionali è stata dimostrata una significativa associazione positiva tra alessitimia e strategie di soppressione. Mentre, per quanto riguarda le strategie di rivalutazione cognitiva (in inglese “cognitive reappraisal”) i risultati sembrano indicare un’associazione negativa più debole e in alcuni casi incerta (Laloyaux et al., 2015; Borges e Naugle (2017).

Concettualizzare l’alessitimia come una tendenza appresa a evitare, più o meno consapevolmente, le proprie esperienze interne porterebbe il focus dell’intervento clinico verso un target specifico: agire sui processi di autoregolazione emotiva e cognitiva individuali andrebbe ad influenzare quindi una riduzione dei livelli di alessitimia.

Il principale limite degli articoli inclusi all’interno di questa rassegna sistematica consiste nella natura trasversale degli studi. Tale disegno di ricerca non permette di trarre conclusioni circa le relazioni di causa-effetto che intercorrono tra le variabili oggetto d’esame. L’utilizzo di strumenti di assessment auto-somministrati che possono essere soggetti a desiderabilità sociale rappresenta un ulteriore limite. Infine, la scarsa numerosità e l’eccessiva specificità dei campioni di soggetti utilizzati creano difficoltà nella generalizzazione dei risultati.

Considerazioni conclusive

In conclusione, possiamo affermare che l’alessitimia è da considerarsi come un costrutto complesso, multidimensionale e trans-diagnostico i cui aspetti eziologico-esplicativi risultano ad oggi ancora meritevoli di approfondimento empirico-scientifico. Sulla base di evidenze empiriche preliminari, la rassegna sistematica degli studi qui descritta identifica una correlazione tra alessitimia e strategie di autoregolazione disfunzionali (seppure non potendo affermare la direzione di causa-effetto che lega i due costrutti). Sarebbe auspicabile mettere a punto future indagini empiriche volte a verificare l’ipotesi secondo cui l’alessitimia sia un esito di un pattern di autoregolazione disfunzionale. In tal senso, nella regolazione dei  propri stati interni il soggetto alessitimico ricorrerebbe a strategie di evitamento e soppressione che terminano in un progressivo disconoscimento degli stessi (Gross & John, 2003) e in uno stato di malessere maggiore. A livello clinico, diventerebbe quindi fondamentale intervenire precocemente su tali processi autoregolatori disfunzionali interrompendo il circolo vizioso e favorendo quindi un decremento dell’alessitimia.

Le potenzialità della Gamification in ambito lavorativo ed educativo

L’uso attento e mirato degli elementi di gioco nella gamification può indurre una situazione di apprendimento caratterizzata da un alto livello di motivazione e di coinvolgimento attivo, producendo a sua volta risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali. 

 

Coniato nel 2002 da Nick Pelling, il termine “gamification” (Andrzej Marczewski, 2012), compare nella letteratura sulle tecniche e strategie d’istruzione solo nel 2008 (Deterding et al., 2011). Nel 2010, nonostante si senta parlare di gamification con maggior frequenza non sono ancora molti gli studi sull’argomento. Dall’analisi delle diverse definizioni nella letteratura internazionale (Deterding et al., op. cit.; Marczewski, op. cit.; Perrotta et al., 2013; Simões et al., 2013; de Sousa Borges et al., 2014) emerge un sostanziale accordo tra coloro che considerano la gamification un approccio che utilizza le caratteristiche del gioco: elementi, meccaniche, strutture, estetica, pensiero, metafore, in impostazioni “non di gioco”.

La gamification viene usata in relazione a molte questioni: la pervasività e l’ubiquità dei giochi per computer e dei videogiochi nella vita di tutti i giorni; la necessità di suscitare e mantenere l’interesse degli studenti per l’apprendimento – con l’obiettivo di coinvolgere gli utenti e incoraggiarli a raggiungere obiettivi più ambiziosi, seguendo regole e divertendosi. Pertanto, è consigliata per essere applicata in quegli ambiti della vita quotidiana in cui noia, ripetizione e passività sono prevalenti, al fine di stimolare il tipo di comportamento desiderato.

Gamification dell’apprendimento

In particolare, ci soffermeremo sull’applicazione della gamification nell’istruzione per migliorare motivazione e coinvolgimento e massimizzare l’apprendimento. È importante, però, chiarire che la gamification non sfrutta giochi per scopi diversi dall’intrattenimento, ma piuttosto usa l’esperienza di gioco per favorire la fidelizzazione.

Nella “gamification dell’apprendimento” vengono identificati otto elementi: (1) regole, (2) obiettivi e risultati, (3) feedback e ricompense, (4) risoluzione dei problemi, (5) storia, (6) giocatore/i, (7) ambiente sicuro, (8) senso di padronanza (Apostol et al., 2013), mentre quante e quali dovrebbero essere le funzionalità di gioco è tutt’ora un tema controverso. Tra gli esperti c’è disaccordo fra chi come Marczewich sostiene che anche una singola funzionalità può creare un’esperienza di apprendimento e chi no. In particolare, Kapp (2012) distingue tra quelle caratteristiche che possono portare unicamente ad un livello superficiale di coinvolgimento degli studenti e quelle funzionalità che inducono un coinvolgimento più profondo. Le prime derivano da fonti di motivazione estrinseca, come ricompense, punti e badge. Mentre le seconde, rappresentate dalla storia, dalla sfida, dal senso di controllo, dal processo decisionale e dal senso di padronanza, derivano da motivazioni intrinseche.

Kapp sostiene che “per rendere un gioco un’esperienza di apprendimento efficace sono necessari più elementi. È l’interazione degli elementi che rende i giochi più efficaci” (p. 50). Poiché non ci sono prove empiriche a favore o contro, Apostol et al. (2013) concludono che “il modo migliore per un designer didattico o un insegnante, di selezionare gli elementi del gioco è considerare gli obiettivi educativi e gli esiti desiderati del processo di apprendimento” (pp. 68-69).

Inoltre, Sousa Borges et al. (2014) osservano che “negli approcci di gamification, questi elementi non sono al centro del sistema, ma hanno lo scopo di motivare gli utenti a utilizzarlo” (p. 217).

Perrotta et al. (2013) associano le meccaniche di gioco ai processi coinvolti nell’esperienza di apprendimento. Credono che la “gamification dell’apprendimento” sia intrinsecamente motivante perché le regole sono input per un’ampia gamma di processi decisionali:

  • divertimento, perché gli obiettivi consentono agli studenti di vedere l’impatto diretto dei loro sforzi;
  • autenticità, perché la fantasia fornisce uno sfondo avvincente che consente agli studenti di sperimentare le abilità senza subire le conseguenze del fallimento nella vita reale;
  • fiducia in sé stessi, perché il feedback guida gli studenti a facilitare e correggere le prestazioni;
  • esperienziale, perché è riconosciuta come una delle tecnologie emergenti che consente agli studenti di condividere esperienze e costruire legami (Johnson et al., 2014).

La gamification è nuovo approccio in grado di colmare il divario generazionale fra insegnanti e studenti (Kapp, 2007; Oblinger, 2004).

Gli esperti hanno elogiato la versatilità della gamification, sia nelle lezioni in aula, come compito a casa, come esame finale, che come attività di apprendimento principale per motivare gli studenti e migliorare le loro abilità.

L’uso attento e mirato degli elementi di gioco può indurre una situazione di apprendimento caratterizzata da un alto livello di motivazione e di coinvolgimento attivo, producendo a sua volta risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali.

Altri studiosi, invece, ritengono che esistano alcuni limiti della gamification come il rischio di “banalizzare” i concetti da apprendere; sostengono che l’apprendimento non debba essere considerato un gioco e che alcuni giochi siano più adatti ad incoraggiare il discente ad operare con concetti e nozioni, piuttosto che ad assimilarli. Affermano che i giochi da soli non siano sufficienti a migliorare le prestazioni e che le difficoltà di apprendimento non possano essere superate solo attraverso i giochi. (Apostol et al., op. cit.).

Gamification e motivazione

Nonostante le ricerche sulla gamification nell’istruzione siano ancora poche, i risultati di tali studi offrono un quadro più complesso di ciò che accadde quando viene introdotta la ludicizzazione, in particolare rispetto all’influenza di motivazione e coinvolgimento sui risultati dell’apprendimento degli studenti.

Un consistente corpus di ricerche suggerisce che gli elementi del gioco possono effettivamente aumentare i livelli di motivazione intrinseca, soprattutto quando rendono interessanti compiti noiosi.

Quando aumentano i livelli di motivazione estrinseca, i livelli di motivazione intrinseca diminuiscono significativamente, con conseguente minore entusiasmo per il lavoro.

Questi risultati sono in accordo con la teoria dell’autodeterminazione (Deci et al., 1985) e la ricerca sul gioco (Caillois, 2001), secondo cui ricompense ed incentivi diminuiscono la motivazione intrinseca di una persona a svolgere un compito.

Hanus e Fox (2015), ad esempio, hanno testato la motivazione confrontando i risultati raggiunti dagli studenti di due classi. Per tutti è stato utilizzato lo stesso programma, ma in una classe sono stati introdotti elementi ludici. I risultati hanno dimostrato che gli studenti della classe ludicizzata hanno espresso livelli di motivazione più bassi e un punteggio più basso all’esame finale. I ricercatori hanno concluso che i punteggi bassi degli esami finali sono stati influenzati dai livelli di motivazione intrinseca e che gli effetti negativi sulla motivazione intrinseca sono attribuibili alla ludicizzazione. Le evidenze empiriche ottenute da questo studio longitudinale sono “allineate con la letteratura esistente sugli effetti negativi delle ricompense sulla motivazione” e suggeriscono che “dare ricompense sotto forma di badge e monete, nonché incoraggiare la concorrenza e il confronto sociale attraverso una classifica digitale, nuoce alla motivazione” (p. 159).

Le ricerche, inoltre, indicano che gli elementi sociali sono fondamentali per creare un apprendimento ludico motivante. Un esperimento condotto sugli studenti di un corso di e-learning ha mostrato gli effetti negativi del confronto sociale sulla motivazione. L’esperimento ha dimostrato che la gamification non è un fattore motivante importante per tutti, perché ad alcuni studenti non piace competere con i propri compagni di classe (Domínguez et al., 2013). Questo risultato conferma i feedback raccolti in diversi studi, secondo i quali “alcuni affordance motivazionali (che altrimenti ricevevano commenti positivi) sono stati percepiti come negativi (come quelli che incoraggiano la competizione), dando credito all’idea che diversi tipi di giocatori vivano lo stesso affordance in modo diverso” (Hamari et al., 2014, p. 3030).

A questo proposito, possiamo affermare che quando la gamification si concentra troppo sulla motivazione estrinseca, gli effetti sulla motivazione non sono uniformi per tutti gli studenti della classe. I ricercatori ritengono che sia importante utilizzare un ampio inventario di tecniche che bilancino le motivazioni estrinseche con quelle intrinseche (Dichev et al., 2014) e progettare un sistema di gamification che possa essere personalizzato e mirato per garantire che tutti gli studenti in classe possano godere dei benefici. (Hamari, 2013; Eickhoff et al., 2012; Hamari & Koivisto, 2013).

Se è vero che il coinvolgimento può essere definito come l’attenzione e la partecipazione dello studente, è anche vero che i compiti di apprendimento sono imposti dall’insegnante. Quindi tale coinvolgimento non è sempre scontato.

L’integrazione di elementi e meccanismi di gioco nelle attività di apprendimento sembrano garantire un maggiore coinvolgimento in classe perché “ha il vantaggio di introdurre ciò che conta davvero dal mondo dei videogiochi – aumentare il livello di coinvolgimento degli studenti – senza utilizzare alcun gioco specifico” (Simões et al., 2013, p. 347).

In conclusione, l’impatto degli interventi di ludicizzazione sul coinvolgimento degli studenti varia a seconda che lo studente sia motivato intrinsecamente o estrinsecamente (Buckley & Doyle, 2014; Hamari et al., 2014a). Ma, soprattutto, la ricerca ha dimostrato che la partecipazione è potenziante soprattutto quando gli studenti possono scegliere tra ludicizzazione e metodi tradizionali (Domínguez et al., 2013; Mollick & Rothbard, 2014; Cheong et al., 2013).

Alcune ricerche hanno scoperto che il coinvolgimento diminuisce nel tempo. Una volta che la novità svanisce, l’interesse degli studenti per la gamification si esaurisce (Koivisto & Ha mari, 2014; Mollick & Rothbard, op. cit.) e il coinvolgimento svanisce a un ritmo incredibile se tutti i contesti di apprendimento sono “gamificati” (Hanus & Fox, 2015). Pertanto, in questo campo diventa indispensabile indagare l’effetto novità, in una prospettiva a lungo termine (van Roy & Zaman, 2015).

Effetti positivi della gamification

Lee e Hammer (2011) individuano alcuni degli aspetti positivi della gamification. Secondo gli autori il gioco sviluppa la capacità di risoluzione dei problemi attraverso un complesso sistema di regole, incoraggiando esplorazione e scoperte attive.

  • Riconoscono il valore delle “sfide che si adattano perfettamente al livello di abilità del giocatore, aumentando la difficoltà man mano che l’abilità del giocatore progredisce”.
  • Sottolineano anche l’importanza dell’“area emotiva”, che si riferisce a tutte le potenti emozioni che si provano giocando – come orgoglio, gioia, ottimismo e curiosità – ma anche rabbia, frustrazione, tristezza.

Secondo Lee e Hammer, i giochi offrono la possibilità di “riformulare il fallimento come una parte necessaria dell’apprendimento” poiché l’errore diventa un’opportunità per mettersi alla prova e superare i propri limiti. Secondo questo punto di vista la gamificazione determina una trasformazione emotiva perché i ripetuti fallimenti permettono d’imparare qualcosa di più e di nuovo, mentre la dimensione sociale degli ambienti ludici consente agli studenti di identificarsi pubblicamente, aumentare la credibilità sociale e avere il riconoscimento di quei risultati, che altrimenti rimarrebbero invisibili.

Questi risultati positivi nelle aree cognitive, emotive e sociali dovrebbero anche garantire effetti positivi sulle prestazioni degli studenti e sui loro punteggi (Kapp, 2012; Connolly et al., 2012; Ke, 2009; Sitzmann, 2011); in particolare, Domínguez et al. (2013) indicano che un riscontro frequente, significativo e rapido può migliorare i risultati degli studenti.

Nel complesso, lo studio ha rivelato che gli effetti sono fortemente condizionati dagli utenti che lo utilizzano. Infatti, gli studenti che hanno avuto un’istruzione tradizionale hanno ottenuto lo stesso punteggio di coloro che hanno avuto gli esercizi “gamificati”.

Alcuni studi hanno dimostrato che gli studenti possono opporsi al “divertimento obbligatorio” e possono considerare vincolante il sistema di ricompensa che viene imposto (Mollick & Rothbard, 2014).

Inoltre, per quanto riguarda l’ambito aziendale:

Il coinvolgimento, la voglia di partecipare energicamente alle attività lavorative quotidiane, il desiderio di dare sempre il meglio di sé e l’entusiasmo innovativo sono caratteristiche che le imprese vorrebbero vedere in ogni collaboratore quali garanzie di performance di eccellenza. Le aziende sono costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, idee e strumenti per sviluppare l’engagement e porre le condizioni affinché le proprie risorse operino al massimo delle loro potenzialità. L’evoluzione inarrestabile dei mercati e del mondo del lavoro – nonché l’ascesa delle nuove generazioni che rispondono a logiche di engagement totalmente differenti – richiedono sforzi significativi a leader e responsabili HR nel supportare l’intera organizzazione nel trovare nuovi modi di far crescere le risorse in termini di creatività, proattività e coinvolgimento. Oggi esistono approcci innovativi, mutuati dal mondo ludico, che aiutano le aziende a stimolare elementi quali divertimento e sfida come leve per incrementare la motivazione e, di conseguenza, la produttività dei collaboratori. (…) Apprendere i principi, le tecniche e le applicazioni operative di una nuova pratica mutuata dal mondo del gioco volta ad aumentare l’engagement, l’innovazione, la felicità e la produttività in azienda. (Formazione Professionale, Formazione Aziendale, Consulenza, Coaching, 2021).

 

Il colloquio di valutazione psicosociale in gravidanza e dopo il parto – Recensione

Gli autori del libro “Il colloquio di valutazione psicosociale in gravidanza e dopo il parto” mostrano l’importanza di un’ottica bio-psico-sociale, che favorisce una comprensione globale dei numerosi aspetti della persona, collocabili sia nella dimensione biologica, sia in quella psicologica, che in quella sociale.

 

È ancora molto diffusa nel nostro contesto sociale l’idea che la gravidanza e il post partum siano dei periodi idilliaci in cui la donna e tutto il nucleo familiare sperimentano esclusivamente emozioni positive; dall’altro estremo, quando vengono messi in luce fatti di cronaca quali il suicidio nel periodo successivo al parto o l’infanticidio, questa fase di vita viene vista come particolarmente a rischio. Benché queste due esperienze esistano, molto più frequenti sono le situazioni in cui la donna si trova a sperimentare delle ambivalenze verso il bambino e/o la nuova situazione che sta vivendo, con malesseri e disagi che dovrebbero essere sempre presi in carico. Lo strumento che ci presentano gli autori, che costituisce l’inizio dell’intervento, è il colloquio di valutazione psicosociale.

Ma cosa si intende per colloquio di valutazione psicosociale? Nel volume viene definito un importante strumento per approfondire le conoscenze riguardanti la salute bio-psico sociale della donna gravida o della neomamma nelle situazioni di disagio, difficoltà e malessere prenatali. L’ottica utilizzata è appunto quella bio-psico-sociale, che favorisce una migliore comprensione sia del grado di benessere, sia dei livelli di disagio o di malessere; questo approccio favorisce infatti una comprensione globale dei numerosi aspetti della persona, collocabili sia nella dimensione biologica, sia in quella psicologica, che in quella sociale: aspetti neuroendocrini e ormonali, biochimici, immunologici, muscolo-scheletrici e viscerali, esperienza personale, storia individuale e familiare passata (anche in termini intergenerazionali) e, infine, rapporti interpersonali, legami esistenti o recenti esperienze relazionali.

Ciò che invece i professionisti talvolta tendono erroneamente a fare è rilevare esclusivamente alcuni aspetti, quelli più legati alla propria formazione, trascurandone altri che sono ugualmente fondamentali per una comprensione completa della storia della donna e del suo contesto di vita.

Molto utili per facilitare la comprensione i quadri riassuntivi, gli schemi e i casi clinici esemplificativi che si trovano lungo tutto il corso del volume.

Viene spiegato anche come trattare situazioni delicate come l’ideazione suicidiaria e il rischio di compiere atti lesivi verso il bambino, offrendo indicazioni su come avvicinarsi a tali tematiche con tatto e gradualità.

Infine viene indicato come offrire una restituzione alla donna su quanto emerso durante i colloqui e come progettare il piano di intervento.

In ogni fase, gli autori mettono in evidenza quanto sia imprescindibile offrire un ascolto empatico, non giudicante, accogliente e competente.

In definitiva, questo libro è rivolto a tutti i professionisti sanitari e sociali per intercettare i bisogni e le richieste implicite della donna durante la gravidanza e nel post-partum; è un utile ripasso per psicologi e psicoterapeuti che lavorano o vorrebbero lavorare nell’ambito perinatale, ed ancor più utile per medici, ostetriche, assistenti sociali ed altre figure che lavorano a contatto con le donne in gravidanza e nel periodo dopo il parto.

Relazioni tra disturbi di personalità e disturbi alimentari in uno studio prospettico di follow-up di 17 anni

Questo studio mira a segnalare la presenza di una diagnosi categoriale e dimensionale di disturbi di personalità negli adulti con una lunga storia di disturbi alimentari e a indagare se i cambiamenti nel disturbo di personalità sono predittivi dei cambiamenti nella sintomatologia alimentare, o viceversa.

 

Disturbi di personalità e disturbi alimentari

Diverse meta-analisi (Friborg et al., 2014; Martinussen et al., 2017; Rosenvinge et al., 2000) hanno mostrato una presenza significativamente maggiore dei Disturbi di Personalità (PD; Personality Disorders) in pazienti con Disturbi Alimentari (EDs; Eating Disorders) rispetto ai controlli sani. Questa comorbilità è associata a un aumento dei livelli di psicopatologia generale nonostante l’elevato utilizzo di trattamenti. Una recente revisione sistematica (Simpson et al., 2022) ha rivelato esiti terapeutici più sfavorevoli per i disturbi alimentari, forse perché i sintomi tendono a diventare più gravi e intrattabili quando si verificano in contemporanea a un disturbo di personalità.

Poiché la ricerca dei predittori dell’esito del trattamento dei disturbi alimentari ha fornito risultati estremamente eterogenei, è fondamentale controllare diverse variabili per evitare di giungere a conclusioni imprecise. Per esempio, l’Indice di Massa Corporea (Body Mass Index – BMI) risulta molto rilevante, poiché la malnutrizione e il sottopeso potrebbero essere correlati a sintomi come il comportamento ossessivo-compulsivo e la mentalità rigida (Friborg et al., 2014); da notare inoltre che punteggi più elevati di disturbi di personalità sono stati rilevati nei campioni di pazienti sottopeso rispetto ai campioni di pazienti con normopeso o sovrappeso (Martinussen et al., 2017).

Disturbi di personalità e disturbi alimentari: uno studio di follow up

Questo studio mira quindi a (1) segnalare la presenza di una diagnosi categoriale e dimensionale di disturbi di personalità negli adulti con una lunga storia di disturbi alimentari dopo un trattamento ospedaliero e dopo un follow-up a 1 anno, 2 anni, 5 anni e 17 anni; e (2) indagare se i cambiamenti nel disturbo di personalità sono predittivi dei cambiamenti nella sintomatologia alimentare, o viceversa (Eielsen et al., 2022).

Eielsen e colleghi hanno quindi reclutato tutti i pazienti con un’età maggiore di 18 anni con diagnosi di Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) o Disturbo dell’Alimentazione con Altra Specificazione (OSFED), che sono stati ricoverati in un reparto psichiatrico specializzato per disturbi alimentari in Norvegia, dall’agosto 1998 al giugno 2001. Tutti i pazienti, durante il ricovero, hanno partecipato a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale. Inoltre, sono stati sottoposti a vari test diagnostici quali: SCID-II (utilizzata per identificare una diagnosi sia categoriale che dimensionale del disturbo di personalità) ed EDE-17 (utilizzata per valutare e generare una diagnosi di disturbi alimentari). Entrambi sono stati somministrati durante il trattamento ospedaliero e al follow-up a 1, 2, 5 e 17 anni. Informazioni relative all’età, alla durata del trattamento e alla durata della malattia sono state raccolte in precedenti interviste. Il peso e l’altezza dei pazienti invece sono stati misurati al momento del ricovero e sono stati utilizzati per calcolare il BMI.

Dai risultati emerge una marcata riduzione sia della psicopatologia della personalità che di quella alimentare al follow-up di 17 anni. I Disturbi di Personalità Evitante, Borderline, Dipendente, Paranoide e Ossessivo-Compulsivo sono stati quelli più frequentemente rilevati nelle valutazioni. Livelli basali più elevati di Disturbo Borderline di Personalità erano particolarmente svantaggiosi per gli esiti a lungo termine del disturbo alimentare, prevedendo meno riduzione della sintomatologia. Inoltre, è emerso che i disturbi di personalità tendono a essere più elevati nei pazienti ricoverati rispetto ai pazienti ambulatoriali o residenti in comunità. Diversi studi hanno concluso che la gravità dei sintomi sembra giocare un ruolo significativo nella comorbilità di disturbi alimentari e disturbi di personalità (Rowe et al., 2009; Wonderlich et al., 1994) e il disturbo alimentare di lunga durata è correlato a sintomi sociali e psicologici che potrebbero complicare il processo di recupero.

Un altro fattore che può influire sulla presenza dei disturbi di personalità è il BMI dei pazienti, considerando che il basso peso risulta associato a una proporzione più alta di disturbi di personalità (Martinussen et al., 2017). Sebbene gli sforzi dello studio fossero quelli di ridurre il rischio di sovrastima del disturbo di personalità, un terzo del campione era ancora sottopeso al momento della dimissione; questo potrebbe avere aumentato la prevalenza di disturbi di personalità. Riguardo quindi al BMI, esso sembra non avere un impatto significativo sulla comorbilità tra disturbi alimentari e disturbi di personalità. Indipendentemente da questo, però, non si può escludere la possibilità che la presenza di un disturbo di personalità sarebbe diversa se i pazienti avessero raggiunto il normopeso.

Disturbi di personalità e disturbi alimentari: il Cluster C

Durante tutto il periodo di follow-up, c’è stato un costante calo del numero di disturbi di personalità. Ciò era particolarmente vero per il Disturbo Borderline di Personalità, risultato che è anche in linea con gli studi che concludono che quest’ultimo sembra essere dannoso per l’esito del disturbo alimentare (Hessler et al., 2019; Wonderlich et al., 1994). La prognosi sfavorevole potrebbe essere spiegata da diversi fattori. Molte caratteristiche tipiche del Disturbo Borderline di Personalità, come l’ideazione e i comportamenti suicidari, potrebbero mettere in ombra la psicopatologia del disturbo alimentare (Cassin & Vonranson, 2005; Chen et al., 2011; Pettersen et al., 2008; Wildes et al., 2011). Inoltre, il Disturbo Borderline di Personalità è generalmente correlato a difficoltà relazionali dovute alla disregolazione emotiva, il che presenta un grave ostacolo nello stabilire l’alleanza terapeutica (Hessler et al., 2019; Olofsson et al., 2020). Una tendenza contraria invece è stata verificata dalla stabilità del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità, che non mostra miglioramenti significativi alla valutazione di follow-up dopo 17 anni.

In linea con la maggior parte degli studi sui disturbi di personalità tra i pazienti con disturbi alimentari (Friborg et al., 2014; Martinussen et al., 2017), il Cluster C (Disturbi di personalità evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo) è rimasto il più frequentemente diagnosticato nel campione in tutte le valutazioni. Si ipotizza quindi che una comorbidità con una diagnosi di disturbo di personalità del Cluster C potrebbe rappresentare un ostacolo ai benefici del trattamento, oltre che nel dirigere meno attenzione clinica nel trattamento di un disturbo alimentare (Vrabel et al., 2010).

I risultati attuali sono di importanza clinica in quanto possono indicare che disturbi alimentari e disturbi di personalità “viaggiano insieme”, aspetto fondamentale da prendere in considerazione nella formulazione degli obiettivi terapeutici e del trattamento.

La chirurgia estetica è un trattamento efficace per la Dismorfofobia?

Essendo il Disturbo da Dismorfismo Corporeo caratterizzato da una tendenza a ossessionarsi e preoccuparsi in modo persistente di difetti inesistenti o minori, il trattare chirurgicamente solo una parte del corpo non migliora la gravità complessiva del disturbo.

 

La Dismorfofobia

La Dismorfofobia o Disturbo da Dismorfismo Corporeo (Body Dismorphic Disorder [BDD]) è un disturbo cronico con esordio nell’adolescenza che ha una prevalenza dell’1,7-2,4% nella popolazione generale (Lai et al., 2010). Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders [DSM-5]) definisce il Disturbo da Dismorfismo Corporeo come un disturbo caratterizzato da una preoccupazione per un difetto immaginario del proprio aspetto che causa disagio significativo o una compromissione funzionale (cioè una condizione di salute in cui una o più delle normali funzioni fisiologiche sono compromesse; American Psychiatric Association [APA], 2014). Qualsiasi parte del corpo può essere oggetto del Disturbo da Dismorfismo Corporeo, ma le preoccupazioni riguardano spesso uno o più aspetti visibili, del viso o del corpo (Mulkens & Jansen, 2006). Le persone che ne soffrono tendono a esaminare e modificare in modo ossessivo la particolare parte del corpo (Lai et al., 2010).

Il Disturbo da Dismorfismo Corporeo e i trattamenti di chirurgia estetica

La maggior parte delle persone affette da Disturbo da Dismorfismo Corporeo fatica a riconoscere il proprio disturbo come un problema di natura mentale: il problema è considerato di natura fisica e ritengono, di conseguenza, di avere una reale deformità per la quale è necessario un trattamento estetico (Crerand et al., 2010; Lai et al., 2010). Le persone con Disturbo da Dismorfismo Corporeo, infatti, tendono a cercare maggiormente trattamenti cosmetici come soluzione a quelli che percepiscono come “difetti” rispetto a interventi psichiatrici (Crerand et al., 2010).

La chirurgia estetica è diventata sempre più popolare negli ultimi 15 anni, in particolare tra gli under 30 (Mulkens & Jansen, 2006) ed è stimato che il 26-40% dei pazienti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo si è sottoposto a chirurgia estetica (Lai et al., 2010). Tuttavia, sembrerebbe che raramente i trattamenti medici migliorino i sintomi del Disturbo da Dismorfismo Corporeo sia nel breve che nel lungo termine (Crerand et al., 2010; Phillips et al., 2001). Inoltre, sembrano avere un ruolo cruciale le aspettative dei pazienti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo che si sottopongono alla chirurgia estetica: aspettative irrealistiche sembrerebbero condurre a una maggiore probabilità di insoddisfazione degli interventi medici effettuati (Castle et al., 2002), ancor più se il soggetto si è sottoposto a più interventi (Lai et al., 2010).

Le ragioni dell’inefficacia della chirurgia estetica nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo

Essendo il Disturbo da Dismorfismo Corporeo caratterizzato da una tendenza a ossessionarsi e preoccuparsi in modo persistente di difetti inesistenti o minori, il trattare chirurgicamente solo una parte del corpo non migliora la gravità complessiva del Disturbo da Dismorfismo Corporeo (Crerand et al., 2010). Sembrerebbe, invece che, dopo l’intervento chirurgico, i pazienti spostino la loro preoccupazione su una nuova area corporea: si preoccupano maggiormente di imperfezioni minori nella zona trattata o temono un suo imbruttirsi (Phillips et al., 2001). Questo potrebbe spiegare il perché un cambiamento “superficiale” come quello di chirurgia estetica non possa essere considerato una cura (Crerand et al., 2010).

Un altro elemento che sembrerebbe giocare un ruolo importante nel mantenimento del Disturbo da Dismorfismo Corporeo è riconducibile all’area neurobiologica, cioè quella branca della biologia relativa allo studio del sistema nervoso. In particolare, sono state riscontrate delle anomalie neurobiologiche in soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo: hanno una maggiore attivazione delle aree cerebrali specializzate nell’elaborazione dei dettagli piuttosto che in quella globale (Feusner et al., 2007), di conseguenza, è improbabile che tali differenze neurobiologiche e pregiudizi percettivi possano essere modificati dalla chirurgia (Crerand et al., 2010).

Interventi efficaci per il Disturbo da Dismorfismo Corporeo

Nonostante i soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo vedano la chirurgia estetica come unica soluzione, la terapia cognitivo-comportamentale è, a oggi, il trattamento evidence-based (ovvero basato su prove di efficacia) più efficace per questo disturbo, anche se un’altra opzione efficace di trattamento può essere quello farmacologico (Mulkens & Jansen, 2006). Dati questi aspetti, sarebbe importante che i chirurghi estetici prima di un intervento somministrassero strumenti di screening (come il Body Dysmorphic Disorder Questionnaire; Thanveer & Khunger, 2016) in modo da identificare i soggetti con Disturbo da Dismorfismo Corporeo, così da evitare ripetuti interventi medici che non migliorerebbero i sintomi del paziente (Crerand et al., 2010).

Conclusione

In generale, le persone ricorrono alla chirurgia estetica quando la loro autostima dipende fortemente dall’immagine corporea e quando sono molto insoddisfatte della stessa. Tuttavia, le persone con Disturbo da Dismorfismo Corporeo sembrano non avere esiti positivi da questo tipo di intervento, anzi, i sintomi tendono a permanere nel tempo e a peggiorare in caso di trattamenti di chirurgia estetica ripetuti.

 

Voci e parti dissociative (2022) di Dolores Mosquera – Recensione

Qual è la differenza tra voci e parti dissociative? Tutte le voci sono parti, ma non tutte le parti hanno voce. 

 

L’opera “Voci e parti dissociative” non è un semplice manuale teorico che illustra un modello pratico, ma un testo prezioso che accompagna il terapeuta nel lavoro con pazienti che presentano traumi complessi. Il lettore è guidato passo per passo su come affrontare le eventuali problematiche presentate dalle parti, per superare i blocchi del percorso e raggiungere gli obiettivi della terapia. Durante la lettura sembra quasi di essere presente nello studio, con la terapeuta e il paziente, e di partecipare al percorso terapeutico: “Voci e parti dissociate” è il surrogato di un tirocinio sul campo!

Dolores Mosquera è una psicologa e psicoterapeuta spagnola. Nel corso della sua carriera come clinica e ricercatrice si è specializzata nel trattamento dei Disturbi della Personalità, dei traumi complessi e della dissociazione, condivide la sua esperienza conducendo seminari, lezioni e workshop a livello internazionale che affiancano le numerose pubblicazioni di libri e articoli. È Trainer accreditata per l’EMDR Europe, formatrice in Schema Therapy e Advanced Practitioner in Sensorimotor Psychotherapy. Attualmente lavora come Direttrice dell’Institute for the Study of Trauma and Personality Disorder (INTRA-TP) di La Coruña. La dottoressa Mosquera supervisiona, inoltre, diversi programmi per il trattamento di donne vittime di violenza, di uomini violenti colpevoli di reato e di adolescenti nelle carceri minorili.

Dolores Mosquera in “Voci e parti dissociative” parte dallo spiegare prima di tutto la differenza tra la dissociazione strutturale, descritta da altri autori come Janet, van der Hart o Kathy Steele, ovvero la mancata formazione di un Sé integrato in chi è stato vittima di trauma complesso, e le parti dissociative indipendenti e autonome, considerate come non-Sé dall’individuo.

Il trattamento in questi due casi, infatti, non è equivalente, né adatto in presenza di disturbi in cui vi è una frammentazione del Sé, come nel Disturbo Borderline di Personalità.

L’intento dell’autrice non è semplicemente aumentare la consapevolezza su questi aspetti nei terapeuti che si occupano di traumi, ma soprattutto offrire un metodo per valorizzare clinicamente la presenza delle voci in modo da raggiungere l’obiettivo terapeutico.

La lettura dell’opera è scorrevole, la sua architettura alterna le parti didattiche, in cui vengono illustrati gli interventi e le strategie, con l’esempio dettagliato di casi specifici e le trascrizioni dei relativi colloqui. A facilitare ulteriormente l’assimilazione dei contenuti, vengono fornite anche delle tabelle sintetiche del lavoro terapeutico passo per passo. I vari interventi terapeutici, infine, vengono anche codificati in modo tale che sia possibile ritrovarli all’interno degli esempi clinici.

È possibile definire “Voci e parti dissociative” come una guida pratica per i terapeuti che si trovano a lavorare con pazienti che sentono le voci e hanno parti dissociative.

Il fine della presentazione delle diverse procedure non è tanto quello di promuovere una rigida applicazione di un metodo, quanto, piuttosto, offrire delle linee guida da poter utilizzare al momento opportuno in modo flessibile.

La dottoressa Mosquera non prescinde, comunque, dal fornire delle solide basi per guidare il terapeuta nel trattamento di pazienti così complessi; a partire dalla formulazione del caso, per esempio, in cui vengono elencate le aree di indagine prima del trattamento o quali sono le fondamenta per impostare un buon piano terapeutico. Un’altra parte utile è quella che guida il terapeuta su come orientarsi nella scelta dei target da selezionare per l’elaborazione EMDR, quando si presenta una persona con diverse complicazioni, infatti, non sempre è facile capire da cosa partire.

La struttura dell’opera è divisa in quattro parti:

  • Parte I. Si comincia da manuale con l’illustrare i concetti chiave dell’approccio, per esempio il termine co-coscienza che descrive l’esperienza condivisa tra il Sè e le parti dissociate, oppure il concetto di Sè-Adulto, un modello non ancora sviluppato dalle parti in grado di comprenderle e regolarle, oppure l’approfondimento dei modelli teorici che hanno influenzato il lavoro della Mosquera, uno su tutti l’approccio EMDR, che l’autrice ha contribuito a formalizzare nel corso degli anni. Questa sezione procede, poi, con la definizione delle procedure e delle tecniche utilizzate, una su tutte, quella del luogo di incontro, anche nota come “l’esercizio della sala riunioni”, in cui il paziente è invitato a chiamare le parti per lavorare sui loro bisogni, le funzioni e le relazioni tra loro.
  • Parte II. Come in altri modelli di trattamento si parte dal lavoro sul sintomo, come l’approccio EMDR insegna. La prospettiva, però, è diversa: si parte dall’approfondire il conflitto tra le parti che genera e mantiene la sintomatologia. L’intervento del terapeuta ha lo scopo di aiutare la persona a sviluppare il Sé Adulto. Questa parte include anche alcune linee guida generali, utili a impostare il trattamento.
  • Parte III. È in questa sezione che facciamo la conoscenza delle parti e delle voci che più spesso il terapeuta incontra con questo tipo di pazienti. Le parti possono essere ostili, dalla parte del perpetratore, critiche, suicidarie. È importante imparare a riconoscerle, per poter personalizzare l’intervento.
  • Parte IV. In questa sezione viene affrontato uno dei problemi principali delle parti, ovvero il loro essere bloccate nel passato del trauma e, di conseguenza, la mancata consapevolezza di essere al sicuro e protette nel presente. Il lavoro per integrarle in una narrazione coerente tra passato e presente inizia già dal primo colloquio con l’invito a raccontare la propria storia. I pazienti che hanno più difficoltà di integrazione richiederanno un lavoro specifico per favorire l’integrazione delle parti fobiche.

Ogni sezione di “Voci e Parti dissociative” è sempre accompagnata da esempi di colloqui clinici, in cui la dottoressa Mosquera illustra il suo modo di lavorare con le parti che i pazienti portano, così come anche l’ultima parte dell’opera che è dedicata all’approfondimento di alcuni casi clinici complessi che si è trovata ad affrontare.

A chi si rivolge l’opera? “Voci e parti dissociative” si rivolge a terapeuti esperti che sono formati all’approccio EMDR e che vogliono approfondire il lavoro con le parti per poter aiutare al meglio i loro pazienti con traumi complessi, permettendo di migliorare la comprensione delle parti e di poterle considerare delle risorse sia per la persona in terapia, che per il terapeuta che lavora con quella persona.

 

Il Family Based Treatment (FBT) per il Disturbo Evitante-Restrittivo dell’assunzione di cibo (ARFID)

Rispetto al percorso di cura per il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo, è stata utilizzata una varietà di approcci e quelli che stanno dando i migliori risultati basati sull’evidenza sono: il Family-Based Treatment (FBT; Lock & Le Grange, 2018) e gli Approcci Cognitivo-Comportamentali (CBT; Fairburn, 2018; Thomas, 2018).

 

Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID)

È frequente che alcuni bambini siano etichettati come “schizzinosi” perché appaiono poco interessati al cibo o perché restringono la varietà alimentare a poche pietanze. Nella maggior parte dei casi questa selettività non ha un impatto negativo sul loro sviluppo e si risolve spontaneamente con la crescita. In un sottogruppo di bambini, però, può pregiudicare in modo significativo la maturazione psicofisica e, a volte, soddisfare i criteri diagnostici del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID).

L’ARFID è una patologia di recente categorizzazione introdotta nel 2013 dalla quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association [APA], 2013) e rappresenta uno dei più frequenti disturbi alimentari con esordio nell’infanzia e nella preadolescenza. È definito come un Disturbo della Nutrizione e dell’Alimentazione che si manifesta con un persistente fallimento nel soddisfare l’appropriato fabbisogno nutrizionale e/o energetico associato ad una o più delle seguenti caratteristiche (APA, 2013):

  • significativa perdita di peso (o mancato raggiungimento dell’aumento ponderale previsto o crescita discontinua nei bambini);
  • significativo deficit nutrizionale;
  • dipendenza dalla nutrizione enterale oppure da supplementi nutrizionali orali;
  • marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Per porre diagnosi di ARFID, il disturbo non deve essere spiegato dalla mancanza di cibo o da una pratica culturalmente sancita, non deve manifestarsi esclusivamente durante il decorso dell’anoressia e della bulimia e non deve esserci l’evidenza che l’evitamento del cibo sia la conseguenza della paura d’ingrassare e dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Infine, il disturbo non deve essere attribuibile a una malattia medica concomitante o essere spiegato da un altro disturbo mentale. La mancata soddisfazione delle esigenze nutrizionali può portare alla comparsa di danni fisici e l’evitamento e la selettività si riflettono negativamente anche sulla vita sociale e familiare (Bryant Waugh, 2021).

A differenza di quanto succede nei pazienti con anoressia, bulimia o binge eating questi soggetti non sono guidati da preoccupazioni relative all’immagine corporea, ma piuttosto da un persistente basso appetito, sensibilità sensoriale e/o paura di conseguenze avverse dell’alimentazione (es., soffocamento). I pazienti con ARFID sono più giovani (l’età media di insorgenza è di 12.9 anni), più frequentemente maschi e presentano una durata di malattia solitamente maggiore (33.3 mesi) rispetto ad altre patologie alimentari (Fisher et al., 2014). Inoltre, il disturbo presenta una frequente comorbilità per i disturbi d’ansia e, in alcuni casi, per l’ADHD e i disturbi dello spettro autistico (Kambanism, et al., 2020; Mazzone, 2018). Ricercatori e clinici sono concordi nell’adottare un modello eziologico complesso che tenga in considerazione fattori genetici, individuali, familiari e socio-culturali (Dalla Ragione, 2018).

Il trattamento del disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID)

Rispetto al percorso di cura, è stata utilizzata una varietà di approcci per trattare l’ARFID e quelli che stanno dando i migliori risultati basati sull’evidenza sono: il Family-Based Treatment (FBT; Lock & Le Grange, 2018) e gli Approcci Cognitivo-Comportamentali (CBT; Fairburn, 2018; Thomas, 2018).

Il Family-Based Treatment (FBT) ha dimostrato efficacia con altri disturbi alimentari e recentemente è stata manualizzata una versione specifica per la cura dell’ARFID (Lock, 2021; Rosania & Lock, 2020); è un trattamento che è stato sviluppato negli anni Novanta che integra interventi dell’approccio sistemico e indicazioni del modello cognitivo-comportamentale. Il cuore di questo modello è l’attivazione genitoriale nella normalizzazione dell’alimentazione del figlio. Nel Family-Based Treatment la centralità dei genitori nel percorso di cura è imprescindibile e l’obiettivo dell’intervento è quello di individuare e mobilitare le risorse della famiglia per affrontare e superare la patologia alimentare (Gorrell et al., 2019).

Per comprendere il Family-Based Treatment per l’ARFID è utile una descrizione del modello classico adoperato per l’anoressia nervosa in età adolescenziale (Lock & Le Grange, 2018). Il Family-Based Treatment per l’anoressia nervosa (AN) sollecita i genitori ad aiutare il figlio a superare la patologia e si struttura in tre fasi. La prima si concentra sul ripristino del peso del paziente da parte dei genitori che assumono il controllo della sua alimentazione. Nella prima seduta, il terapeuta sottolinea la gravità dell’anoressia nervosa per aumentare l’urgenza e la responsabilità delle figure genitoriali. Si adotta un approccio agnostico, sottolineando che le cause dell’anoressia nervosa sono sconosciute, con lo scopo di alleviare il senso di colpa dei genitori. Il terapeuta esternalizza il disturbo alimentare, inquadrandolo come separato dal paziente e non sotto il suo controllo.

La seconda sessione della prima fase prevede un pasto in famiglia e consente al clinico di valutare e intervenire sulle dinamiche familiari che possono influenzare il ripristino del peso. La fase 2 inizia quando il paziente è tornato ad alimentarsi senza resistenza e c’è stato un costante aumento di peso. Questo secondo momento della terapia si concentra sull’aiutare i genitori a restituire al paziente il controllo dell’alimentazione in un modo che sia adeguato all’età e coerente con la loro famiglia.

La fase 3 inizia quando c’è stato il ripristino del peso, i comportamenti dell’anoressia nervosa sono scomparsi e il paziente sta gestendo da solo il cibo e l’esercizio fisico. Questa parte si concentra sull’affrontare tappe adolescenziali che l’anoressia ha bloccato.

Nel Family-Based Treatment per l’ARFID (Lock, 2021; Rosania & Lock, 2020) l’esternalizzazione della malattia e la promozione di un senso di urgenza possono essere più difficili perché le condizioni fisiche sono meno evidenti e il funzionamento psico-sociale è spesso solo parzialmente compromesso. Gli obiettivi del trattamento si concentrano sui comportamenti alimentari (es., migliorare la varietà, la flessibilità, la velocità) piuttosto che sul ripristino del peso. Il bambino può essere più motivato al trattamento e più reattivo alle ricompense rispetto ai pazienti con anoressia, che generalmente hanno poca consapevolezza di malattia e investimento nella cura. Infine, la Fase 2 e la 3 differiscono; la fase 2 si inizia quando il bambino è in grado di provare nuovi cibi in modo coerente e spesso non c’è la fase 3 dato che i pazienti con ARFID sono spesso pre-adolescenti.

Il Family-Based Treatment rivisitato per il disturbo evitante restrittivo dell’assunzione di cibo (FBT-ARFID) mantiene gli interventi chiave del FBT per anoressia  e bulimia nervosa. Nello specifico, non vi è alcuna attenzione alle cause dei comportamenti alimentari disfunzionali al fine di ridurre la colpa dei genitori e aiutare la famiglia a rimanere concentrata sull’azione (agnosticismo). In secondo luogo, i genitori sono gli agenti del cambiamento (empowerment genitoriale) e, sebbene il terapeuta spesso faciliti il processo decisionale e l’apprendimento nel sistema familiare, non è mai prescrittivo (posizione consultiva) e aiuta la famiglia a mantenere una concentrazione pragmatica. Altro elemento centrale è la separazione tra l’ARFID e il paziente (esternalizzazione), che agevola i genitori nel mantenere una posizione non colpevolizzante nei confronti del figlio. Infine, il terapeuta, soprattutto nella fase iniziale, pone l’attenzione sulla gravità della patologia per stimolare i genitori a mantenere un sufficiente senso di urgenza che mobiliti le loro risorse nel processo terapeutico.

Il Family-Based Treatment per l’ARFID mantiene i presupposti teorici delle forme originarie di FBT, ma differisce per alcuni aspetti tecnici. In alcuni casi di ARFID, come già detto, può essere difficile costruire un senso di urgenza al trattamento e una consapevolezza della severità del disturbo. A differenza delle preoccupazioni mediche acute ed evidenti dell’anoressia e della bulimia nervosa, alcuni bambini che si presentano per il trattamento di ARFID, in particolare quelli con sensibilità sensoriale, potrebbero non aver ancora sperimentato chiare conseguenze mediche o nutrizionali della malattia e il disagio e la menomazione possono essere esclusivamente nell’ambito psicosociali. Pertanto, il lavoro del terapeuta nella costruzione del senso di urgenza e della severità dovrebbe focalizzarsi sulla prevenzione dei danni che l’ARFID potrebbe causare se non si intervenisse nell’immediato (es. crescita potenziale, sviluppo puberale, problemi tra pari e familiari). Allo stesso modo, durante la Fase 1 di Family-Based Treatment per l’ARFID per il terapeuta separare la malattia dal paziente è spesso più difficile rispetto al trattamento di anoressia o bulimia. L’ARFID tende ad avere un esordio precoce, e quindi molte famiglie hanno convissuto con la patologia per la maggior parte della vita del bambino ed è percepita come una caratteristica del figlio. Ciò è in netto contrasto con l’esordio acuto di anoressia, che consente ai genitori del paziente di ricordare chiaramente la vita prima del disturbo alimentare e di vedere prontamente la possibilità di tornare alla normalità e le caratteristiche pre-morbose del figlio. Oltre a ciò, i pazienti con ARFID sono generalmente più propensi a partecipare al trattamento già nelle fasi iniziali. Chi soffre di anoressia nervosa fatica a vedere gli effetti negativi del disturbo e per questo è poco motivato alla cura. Durante la Fase 1 del FBT per anoressia è sconsigliato che l’adolescente sia coinvolto nelle decisioni sull’alimentazione e i genitori spesso devono ignorare le loro richieste. I pazienti con ARFID sono meno determinati al mantenimento della malattia e sebbene molti fatichino a partecipare al trattamento, una volta che accettano il coinvolgimento dei genitori nella gestione dei pasti, sono spesso motivati ad “avere voce in capitolo” nella definizione di obiettivi e sfide.

Conclusione

Per concludere, l’ARFID è una patologia piuttosto eterogenea e l’applicazione del Family-Based Treatment richiede degli adattamenti. Gli interventi FBT fondamentali sono mantenuti in qualsiasi processo terapeutico ma possono essere giustificate modifiche e interventi ad hoc, come sul focus del trattamento (es., aumento di peso, ampliamento della flessibilità alimentare) e sulle istruzioni specifiche fornite per il pranzo di famiglia. Non abbiamo ancora dati sull’adeguatezza di questo trattamento per popolazioni specifiche (adolescenti, giovani adulti e pazienti con comorbilità psichiatriche o mediche), ma i report preliminari suggeriscono le potenzialità del Family-Based Treatment per l’ARFID in pazienti in età pediatrica e pre-adolescenziale, confermando l’utilità dell’approccio sistemico e dell’intervento sulla famiglia nei casi di disturbi alimentari e della nutrizione.

 

Che impatto ha l’attività fisica sulle emozioni dei bambini e degli adolescenti?

La ricerca ha dimostrato che l’attività fisica attiva risposte emotive che derivano da una combinazione di fattori cognitivi (ad esempio, l’autoefficacia) e da segnali provenienti dai recettori viscerali.

 

Gli effetti positivi dell’attività fisica

Negli ultimi anni le ricerche si sono concentrate sullo studio degli effetti dell’attività fisica sulla salute. Le evidenze scientifiche suggeriscono che un’adeguata e prolungata attività fisica migliora l’umore aumentando la concentrazione di dopamina, serotonina e norepinefrine nel cervello (Voss et al., 2011). Al contrario però, un’attività fisica eccessiva può innescare la produzione di steroidi anabolizzanti androgeni che aumentano l’irritabilità e l’aggressività e potenzialmente le emozioni negative (de Graaf‐Roelfsema et al., 2007). Ad oggi, determinati risultati sembrano essere contrastanti tra loro; per questo lo studio condotto nel 2022 da Li e colleghi ha avuto come scopo quello di esplorare gli effetti dell’attività fisica, dentro e fuori dalla classe e dalla scuola, sulle emozioni positive di bambini e adolescenti, riscontrando un’associazione positiva tra queste due variabili. In letteratura attualmente considera quattro tipologie di spiegazioni differenti per questa associazione.

La prima riguarda la distrazione e suggerisce che i bambini e gli adolescenti distratti da stimoli sfavorevoli, mentre partecipano all’attività fisica, sperimentano miglioramenti significativi nelle emozioni durante e dopo l’attività (Bourke et al., 2021).

Un’altra spiegazione riguarda l’impatto sull’autoefficacia; l’attività fisica potrebbe essere vista come un’attività impegnativa e praticarla regolarmente potrebbe contribuire ad aumentare la fiducia in sé stessi migliorando le emozioni durante e dopo l’attività (Bandura, 1977).

La terza spiegazione considera l’interazione sociale; il sostegno reciproco tra gli individui coinvolti in attività fisica svolge un ruolo importante nel miglioramento delle emozioni positive (Ransford, 1982).

L’ultimo punto riguarda l’aumento di trasmissione sinaptiche delle monoammine e l’attivazione della secrezione di endorfine che avviene durante l’attività fisica (Morgan, 1985). Queste sostanze hanno un effetto inibitorio sul sistema nervoso centrale e ciò implica una riduzione del dolore ed un aumento dello stato di attivazione del cervello, con la conseguenza di un miglioramento dell’umore dopo l’attività (Yeung, 1996).

Tuttavia, dagli studi, non sono emersi dati coerenti riguardo agli effetti di causalità e, per questo, nel 2022 Li et al. hanno condotto una revisione sistematica con lo scopo di valutare gli effetti dell’attività fisica sulle emozioni positive di bambini e adolescenti; in particolare, sono stati inclusi nella ricerca 24 articoli presenti nella letteratura pubblicata, che vanno dal 2007 al 2021, condotti in 14 paesi differenti. Gli interventi di svariate tipologie di attività fisica, presenti negli studi inclusi, sono stati raggruppati e comparati con un gruppo di controllo che non presentava nessuna tipologia di intervento di stretching o di esercizio fisico. Per la valutazione degli effetti dell’esercizio sulle emozioni positive, si sono utilizzati diversi questionari basati su specifici contenuti, utili per la misura di indicatori rilevanti e registrati per ogni centro in cui sono state condotte le ricerche. L’età dei soggetti partecipanti alle ricerche variava dai 7 ai 21 anni, con 3 studi riguardanti le scuole elementari (2-6 anni), 15 studi riguardanti le scuole medie e superiori e 6 studi con partecipanti universitari.

Gli effetti dell’attività fisica: differenze per fasce di età

I primi risultati rilevano un miglioramento emotivo maggiore nel gruppo di soggetti di età superiore ai 12 anni, rispetto al gruppo di età inferiore. La ragione, come spiegato anche da una precedente revisione, potrebbe essere il graduale sviluppo della regolazione emotiva durante la crescita (Zimmermann & Iwanski, 2014), che permette di prestare maggior attenzione alle riflessioni sui propri stati emotivi interni (Zimmer-Gembeck & Skinner, 2011).

Altre analisi hanno riscontrato che il sottogruppo che praticava attività fisica, sia aerobica che anaerobica, mostrava un maggiore miglioramento nelle emozioni positive rispetto al gruppo che non praticava attività fisica. I dati, tuttavia, hanno mostrato un miglioramento maggiore in concomitanza con l’attività aerobica. La ricerca ha dimostrato che l’attività fisica attiva risposte emotive che derivano da una combinazione di fattori cognitivi (ad esempio, l’autoefficacia) e da segnali provenienti dai recettori viscerali (Ekkekakis et al., 2011). Quando l’attività fisica supera la soglia ventilatoria (VT), la percezione viscerale influisce sulle esperienze emotive riguardanti l’attività fisica. Per questo, attività aerobiche al di sotto della soglia ventilatoria potrebbero innescare esperienze emotive positive, mentre attività anaerobica, sopra la soglia ventilatoria, potrebbe contribuire ad innescare emozioni negative. Nonostante questi risultati siano confermati da un’altra ricerca che rileva l’effetto terapeutico dell’attività aerobica (Rethorst et al., 2009), un altro studio condotto nel 2018 (Oliveira et al., 2018) non ha rilevato differenze significative; questo porta alla necessità di ulteriori ricerche per la valutazione e la conferma di questi risultati.

La ricerca ha rilevato dati anche riguardanti la durata dell’esercizio fisico, riscontrando effetti sulle emozioni positive significativamente più alti nei gruppi che praticavano attività di 30-60 minuti. Un minor tempo di attività potrebbe non avere effetti di sollievo emotivo (Salmon, 2001), mentre attività che superano i 60 minuti potrebbero avere effetti sulla produzione di steroidi androgeno-anabolizzanti che aumentano l’irritabilità e l’aggressività (Kersey, 1996).

I risultati di questa ricerca, nel complesso, indicano un’associazione positiva tra attività fisica ed emozioni positive, ma ricerche future potrebbe essere utili per chiarire e confermare le controversie che si sono riscontrate riguardanti la durata, l’età e la tipologia di attività.

Quando nasce un bambino nasce anche una madre

In questo articolo l’esperienza della maternità viene esplorata nei due versanti della nascita psicologica del bambino e dei profondi cambiamenti psico-affettivi nella madre durante la gestazione e i primi anni di vita del figlio.

 

Gravidanza e maternità

L’esperienza della maternità è per sua natura totalizzante e coinvolge la madre in ogni dimensione del suo essere: fisico, cognitivo ed emotivo. Si tratta di un processo profondo e complesso che comporta grandi cambiamenti: Racamier (2010) parla di una vera e propria “crisi d’identità”, che offre alla madre nuove possibilità di trasformazione e maturazione. Si tratta di un processo  paragonabile a quello adolescenziale per intensità e profondità.

La madre infatti non solo accoglie il figlio nel suo corpo, che diventa per lui casa e contenitore nutriente, ma lo accoglie in modo profondo e invisibile dentro di sé, nei suoi pensieri e nel suo mondo interno. Racamier definisce “maternalità” “la fase di sviluppo affettivo che corrisponde alla realtà biologica della maternità” (Racamier, 2010, pag. 38). Durante la gravidanza il corpo della madre cambia per soddisfare le esigenze del bambino in crescita e contemporaneamente avvengono continui aggiustamenti psichici nella mente di lei. Tale condizione psicologica si caratterizza per l’essere costantemente protesa verso il proprio bambino e i suoi bisogni, una compartecipazione psichica ed emotiva profonda che è stata studiata nelle sue diverse sfaccettature. “Preoccupazione materna primaria” è il termine attribuito allo stato di totale assorbimento psicologico verso il bambino (Winnicott, 1956). “Pensare per due” è il dialogo interno continuo di una madre con suo figlio (Ammaniti, 2008). “Costellazione materna” è il nome dato a tutti gli atteggiamenti di attenzione e premura con cui la madre si prende spontaneamente cura del suo bambino garantendone il benessere (Stern, 2007). Queste modalità caratterizzano la gravidanza e perdurano durante il primo anno di vita del bambino, traducendosi in azioni tipiche come parlare con lui, attribuirgli un nomignolo affettuoso e nel pensare come sarà il suo viso, il suo corpo e il suo carattere quando è ancora in gestazione.

Nascita del bambino e della madre

Il momento della nascita è un evento collocabile con precisione nel tempo e nello spazio, in seguito al quale il bambino nasce fisicamente, ma è ancora psichicamente unito alla madre in modo profondo. Durante i primi anni di vita del bambino avvengono due processi paralleli e complementari, che porteranno alla nascita del bambino come soggetto separato dalla madre e contemporaneamente alla nascita di una madre. Il primo è il processo di separazione, che implica il ridimensionamento del legame simbiotico, e il secondo è quello di individuazione, che porterà il bambino a percepire se stesso come un individuo autonomo (Mahler, 1975).

In questo periodo la madre accudisce il bambino cercando di inferire i bisogni che manifesta attraverso i suoi comportamenti. Quando il neonato piange, la madre si occupa di lui con diverse azioni che spesso accompagna a parole di rassicurazione. Prova a cambiarlo, a offrirgli nutrimento, a coprirlo, a cullarlo, fino a che il pianto cesserà perché il bisogno sarà stato compreso: dalla madre e, attraverso di lei, dal bambino stesso. Infatti, grazie all’accudimento materno il bambino impara a riconoscere e distinguere la tensione della fame, il malessere provocato dal freddo, e così via. Il riconoscimento delle sensazioni corporee fonda la possibilità di percepire il proprio corpo come un’entità a sé, di sentirsi “individuo”: nasce lentamente l’identità. La prima relazione è infatti una relazione di contatto, attraverso la pelle della madre che accarezza quella del suo bambino, mentre lo sorregge, lo culla, lo accudisce (Anzieu, 1985). È attraverso l’abbraccio con cui la madre tiene, contiene, accudisce il bambino che lui può iniziare a percepirsi come un soggetto, con un proprio corpo e una propria individualità (Winnicott, 1974).

Il bambino quando nasce non esiste ancora come individuo, dato che è fuso psichicamente con la madre. Parafrasando le parole di Winnicott possiamo concludere dicendo che non c’è una madre senza un bambino e non esiste un bambino senza le cure sufficientemente buone e la presenza desiderante della madre (Winnicott, 1940).

Parlare all’Io dandosi del ‘Tu’? Autoregolazione emotiva e costruzione di significato

Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare con se stessi.

 

Introduzione

Chi non si è mai colto a parlare tra sé e sé? Se per alcuni l’esperienza passa al di sotto della consapevolezza, per altri invece è qualcosa che fa parte del proprio quotidiano, al punto che si stima che almeno il 20% della giornata sia passata in monologhi o dialoghi con sé stessi, allo scopo di spronarsi, darsi istruzioni, correggersi, commentare quanto si sta vivendo in quel momento. Ma il contesto non necessariamente è solo quello presente, ecco quindi che lo stesso fenomeno può presentarsi in riferimento a eventi nel passato o a eventi, oggetti, situazioni, di là da venire (Alderson-day & Fernyhough, 2011).

Degli esempi? Quando siamo al semaforo e pensiamo alla lista delle cose da fare quando arriveremo al lavoro o a casa; quando dobbiamo risolvere un problema difficile e ci aiutiamo con le parole, dandoci istruzioni su come proseguire; quando pensiamo con rabbia o con gioia a un incontro avvenuto in passato; quando cerchiamo di inquadrare una situazione, allo scopo di capire come ci potremo muovere la prossima volta che ci ritroveremo in essa, in relazione ai nostri obiettivi. Questi sono solo alcuni esempi della ricca fenomenologia del linguaggio interiore e molti altri ne possono venire in mente; anche partendo dalla propria esperienza personale, con po’ di introspezione.

Non è “strano” né anormale parlare tra sé e sé. Di fatto potrebbe non essere altro che l’interiorizzazione di quanto, quando eravamo bambini, le nostre figure di riferimento e l’ambiente ci comunicavano e che abbiamo successivamente imparato a dire a noi stessi, al fine di autoregolare il nostro comportamento (“Stai seduto dritto sulla sedia”), il nostro pensiero (“Concentrati su quello che stai facendo”) e le nostre emozioni (“Ora calmati”).

Per Vygotsky (1978), insigne esponente della psicologia sovietica degli inizi del Novecento, l’apprendimento del linguaggio passa, di fatto, dal processo di socializzazione nei primi anni di vita del bambino. Il codice linguistico verrebbe prima acquisito per osservazione e ascolto, nel suo uso e in relazione alle diverse situazioni, per poi essere progressivamente ripetuto, elaborato e, infine, assimilato. Il bambino inizia così a farne pratica espressiva e comunicativa orientata ad altri interlocutori (overt speech). Mano a mano che le strutture linguistiche –nelle lore regole, usi e funzioni nei diversi contesti– vengono assimilate, il linguaggio diventa strumento di autoregolazione, che si manifesta nell’uso a scopo riflessivo, con tono e volume inferiori rispetto al caso precedente, udibili solo dal proferente e da chi osserva (private speech). Al termine di questo percorso di progressiva interiorizzazione della capacità di linguaggio, sta la definitiva acquisizione della capacità di parlare tra sé e sé, senza proferire suoni (inner speech), capacità che per alcuni equivale alla capacità stessa di pensare.

Il dialogo interno

Le idee di Vygotsky sulla relazione tra linguaggio e pensiero hanno fatto scuola, e lo studio dell’inner speech –ovvero, il parlare tra sé e sé come strumento di pensiero e di autoregolazione– si è dimostrato nel tempo molto interessante in ambito clinico (ad esempio, per lo studio di allucinazioni uditive e ruminazione; cfr. Perrone-Bertolotti et al., 2014) e applicativo. In questo senso due ambiti di ricerca riguardano il miglioramento della performance dell’atleta sotto pressione e la facilitazione dell’apprendimento in ambito scolastico (cfr.  Theodorakis et al., 2012).

Nella prospettiva più generica della vita quotidiana il monologo/dialogo interno è uno degli strumenti a nostra disposizione per aiutarci a riflettere su ciò che viviamo, descrivere situazioni, fare scelte, valutare, prendere decisioni, autoregolarci emotivamente, cognitivamente e nel comportamento. Le ricadute cliniche sono piuttosto ampie, al punto che già da tempo esiste un approccio terapeutico di stampo cognitivo-comportamentale focalizzato sul suo uso sistematico  (Cognitive Behavior Modification [CBM]; Meichenbaum, 1977).

Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare a noi stessi.

Un interessante e recente articolo uscito su Science (disponibile qui) permette di apprezzare come variazioni, anche solo superficiali, nelle frasi che usiamo per raccontare e raccontarci siano connesse a effetti significativi dal punto di vista psicologico. Nello specifico, gli autori (Orvell et al., 2017) erano interessati a testare l’ipotesi che la variazione di un pronome personale – l’uso della seconda persona singolare “Tu” al posto della prima persona singolare “Io”– avesse un impatto significativo sul modo in cui le persone elaborano le esperienze negative.

Partendo dalle evidenze disponibili circa gli effetti positivi della distanza psicologica in relazione al disagio emotivo (Kross & Ayduk, 2017) e sul valore normativo che il linguaggio generico dona alle espressioni descrittive (Bolinger, 1979), gli autori hanno utilizzato diversi compiti di scrittura espressiva, dimostrando che il “Tu” generico è utilizzato per descrivere situazioni nelle quali si percepisce la presenza di una norma generale (leggi o aspettative su come dovrebbero essere le cose; per esempio, “Non si passa con il rosso” vs “Non passare con il rosso”); le persone lo utilizzano per riflettere sulle proprie esperienze negative (“L’orgoglio è qualcosa che può ostacolarti nella ricerca della felicità”), poiché permette di assumere una maggiore distanza psicologica dai vissuti in corso di elaborazione (Liberman et al., 2007); e che infine tale distanza facilita la costruzione di senso quando si riflette su un’esperienza nella quale si sono vissute emozioni negative anche molto intense.

Quali ripercussioni per le persone?

Nella clinica la validazione e la normalizzazione dell’esperienza del paziente (ricondurre alla norma, a qualcosa che in genere è possibile e ci si può aspettare che accada nella realtà) sono strumenti necessari per soddisfarne i bisogni relazionali di base (Erskine, & Trautmann, 1996). In questo modo il paziente comprende che i propri vissuti sono condivisibili, sono reali anche per un altro – il terapeuta, di cui si fida – le cui opinioni sono per lui valide e il quale può eventualmente rimandare al paziente che, nelle medesime circostanze, chiunque avrebbe potuto reagire nello stesso modo.

Su questa linea di pensiero possiamo cogliere i benefici del parlare a noi stessi utilizzando il “Tu” generico anche quando riflettiamo da soli sulle nostre esperienze.

Utilizzare delle espressioni linguistiche generali e normalizzanti può infatti permetterci di giudicare le situazioni nelle quali siamo coinvolti, soprattutto quando sperimentiamo emozioni negative intense, da una posizione più distaccata, per guardare con maggiore obiettività quanto è accaduto, per trovarne le cause e chiarire a noi stessi le ragioni della nostra reazione, quasi come fossimo un osservatore esterno e quindi meno coinvolto, promuovendo in questo modo un migliore adattamento alle situazioni stressanti o emotivamente cariche (Ayduk & Kross, 2010).

Uso delle contenzioni nelle RSA: tra legislazione ed etica professionale

I mezzi di contenzione fisica sono dispositivi che limitano la libertà dei movimenti volontari della persona e che possono essere più o meno invasivi a seconda del grado di costrizione provocato.

 

In nessun ospedale dove i malati sono legati credo che nessuna terapia, di nessun tipo, possa dare giovamento (F. Basaglia, 1968)

Il rispetto dell’autonomia e della dignità della persona è alla base di una buona relazione terapeutica ed è condizione necessaria per ottenere l’efficacia di un trattamento. Nonostante ciò, l’utilizzo dei mezzi di contenzione è ancora molto diffuso e tale pratica, spesso aggravata dallo stato di fragilità della persona a cui viene applicata, affonda le radici in una cultura assistenziale poco attenta agli aspetti appena citati.

La contenzione fisica

La contenzione è un atto sanitario-assistenziale di natura eccezionale, da prendere in considerazione solo quando tutte le altre misure alternative si sono dimostrate inefficaci (Cester & Gumirato, 1997). L’utilizzo di tale pratica è un tema molto dibattuto, sia dal punto di vista etico che normativo, per la scarsa efficacia clinica dimostrata e per le implicazioni derivanti dalla limitazione della libertà dell’individuo.

I mezzi di contenzione fisica sono, infatti, dispositivi che limitano la libertà dei movimenti volontari della persona e che possono essere più o meno invasivi a seconda del grado di costrizione provocato. Essi, in base alla situazione, possono essere applicati al corpo, a una parte di esso o allo spazio circostante. Esempi di contenzione fisica sono le sponde a letto, il tavolino avvolgente la carrozzina, i divaricatori, le cinture addominali, pelviche e pettorali, il lenzuolo contenitivo, i bracciali e le manopole (Zanetti & Costantini, 2001).

Relativamente al paziente anziano, l’utilizzo dei dispositivi di contenzione viene spesso giustificato dalla presenza di agitazione psico-motoria, di comportamenti aggressivi auto e/o etero lesionistici e dal rischio di caduta (Evans et al., 2002).

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB, 2015) sottolinea però che per applicare forme di contenzione fisica non è sufficiente la presenza di uno stato di agitazione, ma deve presentarsi un pericolo grave e attuale per il malato o per terzi. Una volta scongiurato, la contenzione deve cessare poiché non più giustificata.

La prescrizione della contenzione è di competenza medica e va riportata in cartella clinica, specificando il tempo di applicazione, le modalità, il motivo e il monitoraggio. Inoltre, la sua applicazione deve essere preceduta da un valido consenso informato da parte della persona assistita o da chi ne ha la tutela giuridica (Casale, 2001).

Tale decisione dovrebbe essere il risultato di una valutazione multidimensionale dello stato psico-fisico della persona, effettuata dall’équipe multidisciplinare, la quale dovrebbe prendere prioritariamente in considerazione le misure alternative possibili o, nel caso in cui esse si dimostrino fallimentari, elaborare un piano d’intervento individualizzato. Quando la contenzione diviene l’unica soluzione possibile, devono essere tenuti in considerazione i principi dello stato di necessità e della proporzionalità (Kramer, 1994; Reuben et al., 1995).

Aspetti normativi

L’utilizzo non giustificato dei mezzi di contenzione espone i responsabili a ipotesi di reato, in quanto una condotta di questo tipo rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della persona, limitandone la libertà di movimento e l’autodeterminazione.

Secondo l’art. 54 del Codice Penale, infatti, i diversi dispositivi di contenzione possono essere impiegati solo nei casi in cui si prefiguri uno stato di necessità, ovvero quando il pericolo presenta le seguenti caratteristiche: a) è attuale, cioè deve esistere la possibilità che si verifichi; b) causa un danno alla persona; c) è grave; d) l’agente non deve porsi di propria volontà nel pericolo.

D’altro canto, sottoporre a contenzione individui in assenza delle suddette condizioni comporta il configurarsi dei seguenti reati previsti dal Codice Penale: Art. 571 – Abusi dei mezzi di correzione e di disciplina;  Art. 572 – Maltrattamenti;  Art. 582-83 – Lesioni personali volontarie;  Art. 589 – Omicidio colposo;  Art. 605 – Sequestro di persona;  Art. 610 – Violenza privata.

A queste fonti di diritto di rango superiore si aggiunge, inoltre, il codice deontologico di ogni professionista sanitario coinvolto. Relativamente alla professione dello psicologo, è bene ricordare in tale contesto l’articolo 4 –“Lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione e all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni. […] Rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi”– e l’articolo 22 –“Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente”–.

Conseguenze legate all’uso delle contenzioni

Se si permette che mani e piedi vengano legati, in breve si riscontrerà nel paziente un totale processo di regressione e si darà l’avvio a ogni genere di trascuratezza e tirannia, fino a che la repressione diventerà l’abituale sostituto dell’attenzione, della pazienza, della tolleranza e della gestione corretta (Conolly, 1856).

In letteratura sono presenti una serie di evidenze che sottolineano le conseguenze nocive dovute all’utilizzo dei mezzi di contenzione, sia a breve che a lungo termine: tra queste la perdita di autonomia, l’aumento della disabilità e la morte stessa (Mohsenian et al., 2003).

I potenziali danni riscontrati sono di natura fisica, quali arrossamento, abrasioni, ematomi, cianosi, strangolamento, asfissia da compressione della gabbia toracica, incontinenza, infezioni, sarcopenia e lesioni da decubito, e di natura psicologica, come paura, sconforto, agitazione, stress, confusione, rabbia, depressione, perdita di autostima, umiliazione e regressione comportamentale (Evans et al., 2002).

Secondo il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (2015, pag.3) “Il superamento della contenzione è un tassello fondamentale nell’avanzamento di una cultura della cura – nei servizi psichiatrici e nell’assistenza agli anziani – in linea con i criteri etici generalmente riconosciuti e applicati in ogni altro campo sociosanitario”.

Spesso il ricorso alla contenzione è anche determinato da una scarsa conoscenza delle possibili alternative, motivo per cui è necessario promuovere interventi formativi che favoriscano una cultura dell’assistenza attenta al ruolo dei fattori relazionali e ambientali nel processo di cura e consapevole dei rischi e dei problemi associati al contenimento.

Misure alternative

In letteratura sono state proposte numerose misure alternative alla contenzione volte ad arginare episodi di agitazione psico-motoria e di aggressività, promuovendo al contempo la sicurezza della persona e la sua libertà di movimento (Bryant & Fernald, 1997).

La maggior parte di tali interventi sono principalmente modifiche ambientali o la proposta di stimolazione multisensoriale, come l’innovativa Snoezelen Therapy.

Per quanto riguarda gli interventi ambientali, famosa è l’applicazione dei principi della GentleCare (Jones, 1999). Secondo questa metodologia, risultano particolarmente indicati ambienti privi di rumori di sottofondo, a luci soffuse, con uscite mimetizzate o dotate di sistemi di allarme. Principio alla base di tale intervento è la necessità di adattare l’ambiente alle esigenze della persona invece che pretendere il contrario.

È bene, inoltre, proporre durante la giornata attività occupazionali e di intrattenimento individuali o di gruppo, in modo da stimolare l’individuo e al tempo stesso tenerlo sorvegliato e impegnato. Nel caso sopraggiungano deliri o allucinazioni è necessario mostrare un atteggiamento empatico, evitando qualsiasi tipo di critica, negazione o banalizzazione dello stato emotivo altrui. Circa quest’ultimo punto, è consigliata la pratica della Validation Therapy (Feil, 1991).

Relativamente alla stimolazione sensoriale, in alcune strutture per anziani è possibile trovare la stanza Snoezelen, un ambiente caratterizzato dalla presenza di più stimoli sensoriali diversificati, come musica rilassante, materasso ad acqua, aromaterapia, fasci di fibre ottiche e proiettori. Secondo Kitwood uno dei bisogni principali della persona con demenza è quello di essere occupata (Kitwood, 1997), ed infatti è proprio nei momenti in cui le persone sono inoccupate e sperimentano la noia che sono maggiormente inclini ad agitarsi (Cohen-Mansfield et al., 1992). La stanza Snoezelen ha, dunque, lo scopo di rilassare la persona e al tempo stesso coinvolgerla e stimolarla per prevenire l’agitazione, proponendo stimoli in maniera graduale in modo da evitare un sovraccarico sensoriale.

Il rischio di caduta

Nelle strutture per anziani la principale causa per cui viene prescritto un mezzo contenitivo è spesso il “rischio di caduta”, ma al momento nessuno studio in letteratura dimostra una riduzione di tale rischio nei soggetti sottoposti a contenzione (Zanetti et al., 2012; Sze et al., 2013).

Come è noto, la persona anziana, per le caratteristiche fisiologiche correlate all’età, eventuali comorbidità e farmaci assunti, è altamente suscettibile ai danni da caduta (WHO, 2008).

È bene precisare che la caduta, però, può essere determinata, oltre che dalla presenza di deficit motori e sensoriali, anche da una serie di fattori ambientali che possono essere facilmente individuati ed eliminati, quali scarsa illuminazione, superficie irregolare e presenza di ostacoli lungo il percorso (Quigley et al., 2010).

Risulta, dunque, fondamentale prevenire e ridurre il rischio di caduta attraverso un’attenta valutazione delle caratteristiche del singolo individuo oltre che delle caratteristiche ambientali (Ministero della Salute, 2011).

A tal proposito, esiste uno strumento di valutazione del rischio di caduta, ovvero la Morse Fall Scale (Morse, 1997), un rapido questionario a risposta dicotomica che individua tre tipologie di caduta (accidentale, fisiologica prevedibile, fisiologica non prevedibile) e che prende in considerazione una serie di indicatori utili per l’intercettazione delle persone a rischio, come ad esempio la diagnosi, la storia di cadute, lo stato mentale, l’andatura, il grado di mobilità e la terapia endovenosa.

La condotta aggressiva

Un pericolo configurabile come motivo di contenzione all’interno degli ambienti di cura è sicuramente la manifestazione di aggressività.

Anche in questo caso è fondamentale individuare ed eliminare il fattore scatenante. Secondo la letteratura, infatti, solo il 2% degli episodi violenti accade senza un antecedente (Katz, 2000), mentre più del 70% è dovuto al contatto col personale (Ryden et al., 1991). Rispetto a quest’ultimo dato, emerge la necessità di una grande attenzione e sensibilità da parte del personale di cura verso gli aspetti comunicativi e relazionali.

​​Per quanto riguarda la comunicazione, è ormai nota la sua relazione con l’aggressività, infatti negli ambienti di cura sono spesso consigliate le tecniche di de-escalation (Anderson & Clarke, 1996), un insieme di raccomandazioni per il personale sanitario su come modulare la comunicazione verbale (voce bassa, toni pacati, non sovrapporsi, non rimproverare ecc.) e non verbale (mantenere il contatto visivo, non tenere le mani in tasca, evitare il contatto fisico, attenzione alle espressioni facciali), al fine di ridurre gli agiti aggressivi dei pazienti.

Dal punto di vista relazionale, infine, è essenziale riconoscere che, come sottolineato da Tom Kitwood (1997), spesso i caregivers utilizzano inconsapevolmente nei confronti dell’anziano delle modalità di interazione svalutanti, che possono minare i bisogni psicologici della persona, aumentando l’agitazione. L’autore, ad esempio, individua 17 approcci negativi, tra cui l’invalidazione, l’infantilizzazione, l’imposizione e la derisione.

L’utilizzo della hope therapy per migliorare il benessere psicologico delle donne dopo un aborto

Uno studio del 2021 di Raphi e colleghi ha utilizzato la hope therapy su un gruppo di donne, le quali hanno affrontato interruzioni di gravidanza tra il 2020 e il 2021.

 

Le conseguenze psicologiche dell’aborto

Il fenomeno dell’aborto è la causa più comune di interruzione di gravidanza, la quale può avvenire in modo spontaneo o intenzionale (Catalano et al. 2016). 

L’aborto, in qualsiasi forma avvenga, è considerato un evento ad alto impatto traumatico per le donne che lo affrontano, sia per le possibili complicazioni mediche conseguenti sia per le conseguenze psicologiche ad esso associate. È importante sottolineare che gli studi riguardanti le conseguenze psicologiche dovute all’aborto hanno ottenuto risultati discordanti e che si può solo affermare che esclusivamente in alcune donne questo fenomeno ha un apporto diretto allo sviluppo di problematiche psicologiche gravi (Reardon, 2018). Infatti, le conseguenze psicologiche dell’aborto sono influenzate da diversi fattori, quali la storia di vita, disturbi mentali pregressi, altre gravidanze desiderate o indesiderate e supporto sociale (Zareba et al., 2020).

La hope therapy

In ogni caso, esistono svariati tipi di trattamenti per intervenire e uno di questi è la hope therapy. Questa terapia si fonda sul concetto di hope, ovvero “speranza”, considerandola un bisogno fondamentale per l’essere umano, al quale conferisce vitalità, flessibilità di pensiero e di azione e un generale miglioramento della salute mentale. La hope therapy deriva dal pensiero di Snyder e si basa sulla terapia cognitivo comportamentale. Secondo questo autore la speranza è una skill appresa tramite la socializzazione in infanzia (Snyder, 2002). Questo trattamento è utilizzato per ridurre la depressione e l’ansia, per portare cambiamenti positivi a livello cognitivo e per aiutare il paziente a focalizzarsi sulle soluzioni. La hope therapy fa parte delle terapie di terza ondata ed è una combinazione di terapia cognitiva, terapia narrativa e orientata alla soluzione; essa include due fasi: la costruzione della speranza e l’accrescimento della speranza. Le persone speranzose nel fronteggiare un problema tendono a focalizzarsi e dedicarsi attivamente alla risoluzione di quest’ultimo; allo stesso modo, sono in grado di gestire meglio e adattarsi più facilmente a trattamenti psicologici in seguito ad una diagnosi (Snyder 2000).

Hope therapy e aborto

Uno studio del 2020 di Raphi e colleghi ha utilizzato la hope therapy su un gruppo di donne, le quali hanno affrontato interruzioni di gravidanza tra il 2020 e il 2021. Le 52 donne partecipanti allo studio sono state assegnate, in modo del tutto casuale, a due gruppi distinti, definiti in ambito di ricerca gruppo sperimentale, che consiste nel gruppo al quale viene somministrato il trattamento prestabilito, e gruppo di controllo, ovvero il gruppo a cui non viene somministrato alcun trattamento. Il gruppo sperimentale quindi, è stato sottoposto a sedute terapeutiche basate sul paradigma della hope therapy, complessivamente per 8 sedute da 45 minuti, due volte a settimana. Per valutare l’effettiva efficacia del trattamento sono stati somministrati due questionari psicodiagnostici che andavano a indagare il benessere psicologico e la qualità della vita in generale, così da poter valutare se il trattamento avesse sortito un qualche tipo di effetto.

Gli effetti della hope therapy

Dopo aver condotto le dovute analisi statistiche, i risultati dello studio hanno mostrato come i punteggi, sia del benessere psicologico che della qualità di vita generale, fossero significativamente più alti nelle donne che erano state sottoposte alla hope therapy, ovvero quelle appartenenti al gruppo sperimentale, rispetto ai punteggi nettamente inferiori totalizzati dalle donne alle quali non era stato somministrato il trattamento prestabilito dallo studio. Gli autori quindi concludono sottolineando come la hope therapy possa migliorare il benessere psicologico e la qualità della vita di donne le quali hanno affrontato un evento doloroso e molto spesso traumatico come l’aborto, sebbene a studio abbiano partecipato solo 52 donne, rendendo così i risultati non generalizzabili in modo certo alla popolazione generale.

 

I luminari della prima impressione

Una raccolta dei pensieri dei grandi psicoanalisti del passato come Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson, che hanno dato un contributo unico e straordinario alla comprensione e all’uso clinico delle capacità intuitive.

(NdA) Questo articolo lo vorrei dedicare al Dott. Giorgio Ferri, Medico Psichiatra, Primario di Psichiatria di Imola, purtroppo recentemente scomparso. Principale Maestro tra i miei Maestri.  

 

Riassunto

Nei miei ultimi due articoli (Theodor Reik e la comprensione psicoanaliticaIl paziente espressivo e il terapeuta curioso), pubblicati entrambi sulla Rivista online State of Mind, ho cercato di avvicinarmi sempre di più al concetto di intuizione (alquanto sfuggente e complesso) e al suo utilizzo clinico (soprattutto durante il primo incontro col paziente), attraverso una riflessione personale sul pensiero geniale dello psicologo psicoanalista Theodor Reik, allievo e pupillo di Sigmund Freud, su tale facoltà del terapeuta.

Nel presente lavoro tento di approssimarmi ulteriormente all’essenza di tale facoltà umana e clinica, ‘reclutando’ i pensieri di altri grandi psicoanalisti del passato come Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson, che hanno dato, a mio parere, un contributo unico e straordinario alla comprensione e all’uso clinico delle capacità intuitive.

Introduzione

Il titolo del presente lavoro non è ‘farina del mio sacco’, ma della prima interazione clinica che ho avuto, durante la primavera del 2022, con una Signora anziana, di un certo livello culturale, inviatami da un Collega Specialista per una depressione cronica con colon irritabile, nell’ambito di un disturbo di personalità. Con questa paziente mi sono confrontato apertamente sull’importanza della prima visita (che può ovviamente, come spesso accade, anche essere l’ultima) per la comprensione e la cura del caso clinico, segnalandole anche l’estrema importanza dell’uso immediato delle abilità intuitive del terapeuta, oltre che, ovviamente, di quelle logico–analitiche, delle sue esperienze precedenti, conoscenze e competenze. La Signora mi ha ascoltato e poi, improvvisamente, mi ha detto: “Ma allora, Lei è un ‘luminare della prima impressione’!”. Sono rimasto profondamente colpito da questa sua definizione creativa e ironica di me stesso! Ho visto questa paziente 3 volte in tutto e due volte l’ho sentita telefonicamente.

Dal 2007 a tutt’oggi mi sto occupando della prima visita psichiatrica, di terapia a seduta singola, da me successivamente fatta evolvere in consultazione terapeutica bi–sistemica singola, bi-sistemica data appunto l’importanza da me data all’uso ed all’integrazione immediata delle abilità intuitive e logico–analitiche del terapeuta. Non vi dico quanti libri, quanti lavori scientifici ho reperito nel corso di questi anni, materiali che ho studiato e selezionato per scrivere svariati miei contributi sull’argomento, che ritroverete tutti citati nella bibliografia dei due miei articoli già precedentemente pubblicati sulla presente Rivista, incentrati sul pensiero di Theodor Reik (Gherardi, 2019, 2020).

La definizione di ‘luminare della prima impressione’, ricevuta improvvisamente da questa paziente, più che farmi pensare, ad esempio, a Sigmund Freud (grandissimo genio intuitivo, ma che ha scritto molto poco su tale abilità), più che farmi ricordare Carl Gustav Jung (che ha posto l’intuizione al centro della sua psicologia analitica), ha invece stimolato e indirizzato il mio pensiero verso quel profondo e fecondo periodo storico-scientifico, tra gli anni ’30 e ’60 del secolo scorso, e, in modo particolare, agli illuminanti contributi non solo di Theodor Reik, ma anche di Erik Berne, Richard Board e Ralph R. Greenson.

Theodor Reik

L’Autore dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua “response” globale al paziente (Reik, 1936, 1948). A mio parere, l’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso clinico (Gherardi, 2019).

La naturale tendenza del paziente all’espressività e la spontanea controtendenza del terapeuta alla curiosità clinica (Reik, 1933, 1967) catalizzano un’accelerazione interattiva del processo comprensivo e terapeutico già durante il primo incontro. Il paziente tende spontaneamente ad aprirsi, confidarsi, confessarsi, auto-tradirsi col terapeuta che, a sua volta, ha una sana curiosità (né narcisistica, né epistemofilica) a recepire l’essenza dell’interlocutore. Da questa base scaturisce una dinamica interattiva a vari livelli (conscio, preconscio ed inconscio). In modo particolare, l’intersoggettività inconscia primaria può portare ad una profonda comprensione e cura del caso anche già dal primo incontro (Gherardi, 2020).

Erik Berne

Berne (1992) dà dell’intuizione una definizione pragmatica basata sulla sua esperienza clinica. “L’intuizione è la conoscenza basata sull’esperienza acquisita attraverso il contatto sensoriale con il soggetto, senza che ‘chi intuisce’ riesca a spiegare esattamente a se stesso o agli altri come è pervenuto alle sue conclusioni. Oppure, in termini psicologici, è la conoscenza basata sull’esperienza e acquisita mediante funzioni inconsce o preconsce preverbali attraverso il contatto sensoriale con il soggetto”. Tale funzione è favorita notevolmente da un atteggiamento mentale che l’Autore definisce come ‘disposizione intuitiva’.

Nel sottomettere le forze dell’Es, l’uomo spesso imprigiona molte cose che gli potrebbero essere utili e benefiche. Molti potrebbero coltivare le facoltà intuitive senza danneggiare la loro personalità e l’esame di realtà.

La diagnosi è un processo configurativo. I processi diagnostici preliminari nei clinici esperti si basano sull’analisi di configurazioni al di sotto del livello di coscienza e non, come nei principianti, sulla sintesi consapevole (aggiuntiva) di mosaici di osservazioni. Un’intuizione è un genere speciale di diagnosi derivante da processi arcaici subconsci (inconsci e/o preconsci). Le intuizioni, in quanto percepite coscientemente, sono derivati di giudizi primari, che sono basati su immagini primarie attivate da comunicazioni latenti. I giudizi primari nella pratica clinica hanno maggiore efficacia durante il primo colloquio. Ciò concorda con l’esperienza che riguarda l’intuizione. Si è rilevato che, in generale, la conoscenza del terapeuta rappresenta un ostacolo al processo diagnostico intuitivo. La precisione intuitiva tende a diminuire non appena alla prima impressione del terapeuta si sovrappongono il materiale clinico e le reazioni provocate dalle difese e dalle operazioni di protezione da entrambe le parti, cioè quello che è il processo di coinvolgimento tra il paziente e lo psichiatra. Ciò può essere evitato solamente se la relazione terapeutica viene mantenuta analiticamente pura e incontaminata. I giudizi primari effettivamente appartengono ai primi 10 minuti, un periodo decisivo e importante dello sviluppo di qualsiasi relazione interpersonale.

L’empatia ha una connotazione di identificazione. L’intuizione non ha essenzialmente niente a che fare con tali forme adulte di identificazione. Ha a che fare con l’elaborazione automatica delle percezioni sensoriali. Alcune persone mostrano resistenza, ansia nei confronti dell’intuizione, per cui l’Autore afferma: “Dev’esserci qualcosa di potenzialmente pericoloso in questa facoltà”. Diagnosi e paranoia derivano analogamente entrambe da giudizi primari.

Il clinico intuitivo può essere descritto come un individuo curioso, mentalmente vigile, interessato e pronto a ricevere comunicazioni latenti e manifeste dai suoi pazienti. Dal punto di vista genetico, questi atteggiamenti sono derivati ben sublimati di scopofilia, vigilanza (paranoia)  e recettività orale. Sebbene l’intuizione sia per natura un processo arcaico, rivelando i suoi prodotti più facilmente quando le facoltà neo-psichiche sono inattive, non può essere definita una manifestazione dell’Es, ma una facoltà dell’Io arcaico. È un fenomeno archeo-psichico. Quelle che per l’archeo-psiche sono conclusioni diventano per la neo-psiche dati da elaborare.

Richard Board

La sintesi intuitiva del materiale associativo scaturisce dall’inconscio creativo dello psicoanalista. Il ragionamento scientifico non richiede una consapevolezza delle regole logiche, per cui ciò non può essere considerata una differenza primaria tra la concettualizzazione scientifica e quella intuitiva. L’intuizione spesso appare all’improvviso nella coscienza, ma differisce dall’induzione e dalla deduzione lineare, che richiede un ordine metodologico di simboli e di osservazioni empiriche accurate. L’intuizione è un metodo per formulare ipotesi, che vanno successivamente validate. Lo studio dei processi inconsci in psicoanalisi è probabile che sia facilitato da una modalità di formazione dei concetti da parte dell’intuizione, di cui alcune componenti empiriche sono osservazioni inconsce (Board, 1958).

Ralph R. Greenson

Secondo Greenson, l’empatia e l’intuizione sono correlate. Entrambe sono metodi speciali per una rapida e profonda comprensione del paziente. L’empatia serve per raggiungere i sentimenti; l’intuizione per avere idee. L’empatia è per gli affetti e gli impulsi ciò che l’intuizione è per il pensiero. L’empatia conduce spesso all’intuizione. La reazione ‘aha’ è intuita. Arrivi ai sentimenti e alle immagini attraverso l’empatia, ma è l’intuizione che dà il segnale nell’Io analitico che tu hai veramente compreso il paziente. L’intuizione coglie gli indizi che l’empatia raccoglie. L’empatia è essenzialmente una funzione dell’Io esperienziale, mentre l’intuizione deriva dall’Io analizzante. Ci possono essere antitesi tra le due. Gli empatici non sono sempre degli intuitivi e gli intuitivi sono spesso degli empatici inaffidabili.

Sia l’intuizione che l’empatia danno a una persona un talento per la psicoterapia; i terapisti migliori sembrano possederle entrambe. L’empatia è un requisito di base; l’intuizione è un “extra bonus” (Greenson, 1960).

Conclusioni

Arrivo direttamente alle conclusioni di questo mio contributo: Ritengo che questi Autori, nei lontani anni ’30, ’40, ’50 e ’60 del secolo scorso abbiano toccato vette di pensiero così alte da non essere ancora stati superati nel XXI secolo, nonostante gli innumerevoli e variegati contributi scientifici successivi (psicologici, psicoanalitici e delle neuroscienze). Per questo motivo, cerco di attirare l’attenzione del lettore su queste lontane e rare eccellenze. La Signora da me citata nell’introduzione, quella che, involontariamente, mi ha dato l’idea di scrivere questo articolo, definendomi creativamente ed ironicamente un “luminare della prima impressione”, mi ha anche detto di se stessa: “Mi annoio a parlare di me, a raccontarmi”. Ebbene, io non mi annoio a parlare di me, ma il mio obiettivo è solo quello di trasmettere al lettore la passione che, dal 2007 ad oggi, mi ha preso nel cercare di sviscerare e di tentare di raggiungere l’essenza di tale facoltà intuitiva subconscia che, come l’intelligenza (probabile sua derivata evolutiva conscia), ha ancora larghi margini di sfuggevolezza alla nostra piena comprensione e al suo utilizzo massiccio e fecondo. Tale nostra facoltà è sempre fondamentale nella relazione col paziente ed, in modo particolare, durante il primo incontro con lui, facendo risultare la prima visita spesso immediatamente terapeutica. Tutti gli esseri umani, tutti gli operatori, possiedono questa capacità a diversi livelli quali-quantitativi e tutti, se lo vogliono, la possono approfondire e coltivare nel corso della loro esperienza umana e professionale, facendo anche dei corsi di formazione ad hoc, per divenire sempre più velocemente comprensivi e terapeutici.

 

Lasciamole andare. Spunti e appunti di una dipendente affettiva (2021) – Recensione

La dipendenza affettiva, spiega l’autrice in “Lasciamole andare. Spunti e appunti di una dipendente affettiva”, comporta la graduale elaborazione di una percezione distorta del proprio valore e del partner, in grado di regolare e confermare la valenza dei nostri stati emotivi.

 

Quando la testimonianza è il seme in grado di far fiorire una maggiore consapevolezza

Non sempre è facile dar voce a quanto di più insito e profondo si cela al proprio interno e non sempre le emozioni si lasciano accompagnare da un nome in grado di dar loro un significato, legittimandone la presenza. Perché, se da un lato riconoscere qualcosa di estraneo sembra porre una distanza tra noi e gli altri, al contempo accoglierlo consapevolmente può essere la chiave di svolta. Scriverlo e tramandarlo richiede coraggio, determinazione, ma ancor più una nuova lente tramite la quale guardare quelle nuove compagne di viaggio che tra le pagine di questo libro si avrà il piacere di conoscere grazie alle testimonianze che l’autrice, M. Carmen Vitali, vuole donare a chiunque desideri leggerla.

Quale riflesso di un’esperienza vissuta in prima persona, il libro esplora le tematiche e i numerosi substrati di una delle condizioni del nostro tempo che difficilmente si riconosce e dalla quale a volte sembra impossibile sfuggire: quella della dipendenza affettiva.

Una modalità relazionale patologica in grado di compromettere in modo significativo e progressivo la qualità della vita di chi ne è affetto. Essa infatti risulta essere una condizione in grado di riflettere e confermare una dinamica relazionale/affettiva rispetto alla quale la propria vita e i propri bisogni vengono messi al servizio di un Altro all’infuori di noi. Nella vita di coppia pertanto la nostra persona acquista valore esclusivamente in funzione di un riconoscimento esterno, in questo caso di un partner dal quale difficilmente siamo in grado di prendere le distanze.

In funzione di chi vivo?

Attraverso questa condizione si assiste ad uno sbilanciamento vero e proprio rispetto al quale uno dei due attori della relazione erge l’altra persona ad una posizione che automaticamente innesca una distanza che ci si impone di raggiungere e dinanzi alla quale il proprio valore cede il posto alla disistima.

La relazione patologica che si instaura principalmente con noi stessi, comporta la graduale elaborazione di una percezione distorta del proprio valore e della persona all’infuori di noi, in grado regolare e confermare la valenza dei nostri stati emotivi.

Questi ultimi nondimeno risentono di un investimento energetico rivolto non tanto alla propria persona, quanto piuttosto verso il partner percepito quale regolatore esterno; l’unico in grado di dare una direzione alla nostra vita, ormai connotata da una serie di ingredienti, che altro non fanno se non renderci più schiavi di quello che ritenevamo essere un amore sano.

Tra questi (ingredienti) l’autrice annovera:

  • Paura ossessiva dell’abbandono
  • Difficoltà a dire di no
  • Bisogno di approvazione da parte del partner
  • Difficoltà a porre dei confini

Isolamento dalle relazioni sociali per essere sempre disponibili

Una panoramica preliminare dietro la quale si cela un mondo e un modo di vivere le relazioni con sé stessi e gli altri in grado di riportarci indietro nel tempo.

Se da un lato infatti i primi stili di attaccamento e le prime esperienze infantili riflettono un valido spunto di riflessione da cui partire, dall’altro la consapevolezza e la riscoperta di una propria autonomia lo sono ancor di più.

La dipendenza quale nuova opportunità

Attraverso le testimonianze dell’autrice e di altre donne che come lei hanno vissuto le numerose sfumature di questa condizione, il libro offre una nuova lente attraverso la quale riappropriarsi della propria vita e ancor più della propria indipendenza, valorizzando oltremodo quello che la dipendenza affettiva sembra portare con sé, ossia una nuova opportunità. Spesso infatti non sempre siamo in grado di scorgere il doppio volto di una situazione che ci troviamo a vivere e rispetto alla quale cerchiamo di dare numerose spiegazioni pur di non perderla, eppure lasciare andare qualcosa significa imparare a creare il giusto distacco da quello che più ci faceva soffrire e in funzione del quale valorizzavamo la nostra vita e i nostri desideri. Significa anche correre il rischio di scoprire una felicità rinnovata capace di farci sentire pienamente completi. In sintonia con i nostri bisogni e pronta a farci conoscere una nuova forma d’amore: quella per sé stessi.

 

La stimolazione vagale nel trattamento di disturbi alimentari, obesità e depressione

Un gruppo di ricercatori, appartenenti alle università di Bonn e di Tubinga, ha pubblicato recentemente su Brain Stimulation una ricerca i cui risultati dimostrano che è possibile, tramite la stimolazione non invasiva del nervo vago a livello auricolare, intervenire rapidamente nella comunicazione stomaco-cervello.

 

Da tempo è noto che esiste una rete neuronale che permette che stomaco e cervello possano essere in comunicazione (Folgueira C. Seoane L.M. Casanueva F.F. 2014).

Il nervo vago, che appartiene ai nervi cranici, è la struttura anatomica che collega il cervello allo stomaco, oltre che ad altri organi (Holtmann G. Talley N.J. 2014; Powley T.L.  Spaulding R.A. Haglof S.A 2011). Dal punto di vista neurotrasmettitoriale questa comunicazione avviene grazie all’azione della serotonina (Berger M, Gray JA, Roth BL. 2009). Questa molecola ha, al di là di un importante ruolo a livello cerebrale – tanto che il suo deficit è collegato alla comparsa di depressione (Delgado P. et al. G.1990) -, anche un’azione sulla motilità gastrica; infatti, la serotonina è coinvolta molto spesso nella genesi della dispepsia funzionale (Talley NJ. 2008). Oltre a modulare la cinetica gastrica, il nervo vago è mediatore nella ricerca selettiva dei cibi e permette che questa si sintonizzi con il sistema cerebrale di ricompensa (Rebollo I. Devauchelle A.D. Beranger B. Tallon-Baudry C.  2018; Bandera, 2018).

Lo studio tedesco (Muller JS., Tenckntrup V., Rebollo I., Hallschmid M., Kroemer NB., 2022) ha utilizzato un campione composto da 31 soggetti in cura presso l’istituto di nutrizione umana di Postdam ed il centro per la ricerca sul diabete.

I ricercatori hanno effettuato, simultaneamente alla stimolazione vagale all’interno dell’orecchio dei soggetti, un elettrogastrogramma ed una risonanza magnetica funzionale.

L’elettrogastrogramma è un esame che permette di registrare i segnali elettrici che attraversano i muscoli responsabili dei movimenti gastrici. Il team ha potuto così osservare, come ha dichiarato il prof. Kroemer, riferendosi alla stimolazione vagale auricolare, che questa “rafforza l’accoppiamento tra i segnali provenienti dallo stomaco e dal cervello”; i ricercatori hanno raggiunto questo rafforzamento in pochi minuti. In particolare, la regione cerebrale maggiormente interessata nell’accoppiamento dei segnali è quella mesencefalica, ma sono coinvolte anche altre regioni cerebrali connesse alla funzionalità gastrica.

Come evidenziato dal comunicato dell’università di Tubinga (Stimulation of the vagus nerve strengthens the communication between the stomach and the brain), i risultati ottenuti con questa ricerca potrebbero in futuro essere utili per sviluppare nuovi trattamenti per l’obesità, i disturbi alimentari ed i disturbi dell’appetito e del peso correlati alla depressione.

Facial emotion recognition in bambini adottati

Uno studio del 2021 di Paine e colleghi ha analizzato alcuni aspetti del riconoscimento delle emozioni in bambini adottati, sottoponendoli a discriminazione di diverse espressioni facciali e bias di risposta.

 

Tutti i bambini presenti nel sistema di adozioni hanno avuto esperienza di separazione dai genitori biologici e quindi di una situazione di instabilità generale; sebbene il concetto di adozione implichi creare un ambiente stabile e sicuro, le prime esperienze infantili di avversità hanno comunque delle gravi conseguenze sullo sviluppo emotivo e comportamentale del bambino adottato (McEwen et al., 2015).

Riconoscere le emozioni

Il riconoscimento delle emozioni è uno strumento fondamentale per lo sviluppo psicologico e delle relazioni sociali. Soprattutto nei bambini, essendo ancora in fase di sviluppo, il riconoscimento delle espressioni facciali e delle emozioni ad esse associate è di fondamentale importanza per un adeguato sviluppo di capacità di interazione sociale e di sopravvivenza (Blair, 2005).

Quando si parla di precisione nel distinguere le emozioni, ci si riferisce alla capacità di identificare correttamente le emozioni di un individuo con cui ci si sta relazionando tramite l’osservazione delle espressioni e microespressioni facciali, avendo determinati indizi derivanti dalla situazione in cui ci si trova; un’alta precisione nel riconoscimento è spesso associata a buone competenze sociali e a un alto grado di accettazione da parte del gruppo di appartenenza (Denham, 2014).

Riconoscimento delle emozioni nei bambini adottati

Uno studio del 2021 di Paine e colleghi ha analizzato alcuni aspetti del riconoscimento delle emozioni in bambini adottati, sottoponendoli a discriminazione di diverse espressioni facciali e bias di risposta. I risultati ottenuti dai bambini che hanno partecipato a questo studio, provenienti dalla Gran Bretagna e compresi tra i 4 e gli 8 anni sono stati confrontati con un campione di bambini non adottati, per poter evincere eventuali differenze. I risultati hanno mostrato differenze significative tra i due gruppi, in quanto nei bambini adottati si è riscontrata una minore precisione nella distinzione delle espressioni facciali delle emozioni di tristezza e paura, rispetto ai bambini non adottati. La scarsa precisione nell’identificare le emozioni di tristezza e paura nei bambini è risultata maggiore per i bambini i cui genitori avevano a loro volta problemi comportamentali, precedentemente determinati tramite lo Strength and Difficulties Questionnaire; inoltre, la scarsa capacità di identificare tristezza e paura è risultata correlare con la presenza di problemi di gestione delle emozioni. Al contrario di quanto previsto dagli autori, i bambini che avevano affrontato situazioni di avversità prima dell’adozione sono risultati più abili nell’identificare emozioni negative. In ultimo, dallo studio è emerso che uno stile genitoriale affettuoso e calmo comportava nei bambini minori problemi comportamentali ed emozionali, e, inoltre, una più alta percentuale di corretta identificazione delle espressioni facciali.

In questo contesto, sviluppare la conoscenza dei fattori che potrebbero influire sullo sviluppo cognitivo e affettivo dei bambini adottati può fornire un valido punto di partenza per la strutturazione di interventi efficaci al miglioramento della qualità di vita, sostenendo l’adattamento dei bambini adottati e delle loro famiglie.

Prof. David Clark on improving public access to effective psychological therapies – The Journal Club –

In questo episodio SPECIALE del podcast The Journal Club, presentiamo un intervento del Prof. David Clark dal titolo “Improving public access to effective psychological therapies: lessons from the English IAPT programme

 

Il podcast The Journal Club è nato con l’intento di approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei più noti esperti in materia. 

In questo episodio SPECIALE del podcast The Journal Club, presentiamo un intervento del Prof. David Clark in cui viene illustrato lo IAPT programme, ovvero il servizio attuato in Inghilterra per promuovere l’accesso alla psicoterapia evidence-based per ansia e depressione.

La lezione è in lingua inglese ed è stata registrata durante il congresso online di Ricerca in Psicoterapia delle Scuole della rete nazionale di Studi Cognitivi – Formazione.

Ascolta l’episodio:

L’episodio è disponibile sulle seguenti piattaforme:

 

Strategie cognitivo comportamentali nella cura alle patologie del sonno nel bambino

La valutazione delle problematiche del sonno in età evolutiva è una delle prime cause per cui i genitori si recano dal pediatra, rappresentando un problema comune a molte famiglie.

 

I disturbi del sonno in età evolutiva

Il sonno è fondamentale per la salute mentale soprattutto nei primi anni di vita, in cui i pattern si stabilizzano sia per maturazione fisiologica cerebrale, che attraverso l’interazione del bambino con le figure di riferimento e in relazione al contesto di crescita.

La base eziopatogenetica dei disturbi del sonno, è rappresentata da interazioni di variabili fisiologiche, genetiche e comportamentali.

Solo in meno del 20% dei casi di insonnia infantile si riconosce una causa organica, mentre la restante percentuale dei casi, identifica la causa nell’interazione tra bambino e genitori; nello specifico i circuiti neuronali del bambino che regolano il sonno interagiscono con i circuiti neuronali che regolano le emozioni, che a loro volta dipendono dall’interazione con i caregivers.

Secondo l’ultima classificazione internazionale disturbi del sonno (valida per bambini e adulti) l’insonnia in età pediatrica può essere descritta da uno dei seguenti sintomi:

  • Difficoltà a iniziare il sonno
  • Difficoltà a mantenere il sonno
  • Risveglio prima del voluto
  • Resistenza ad andare a letto negli orari appropriati previsti
  • Difficoltà a dormire senza l’intervento del caregiver

Punti 4 e 5 determinanti per la diagnosi.

Il paziente riferisce o il genitore osserva inoltre, uno o + sintomi associati alla difficoltà di sonno notturno:

  • Sonno / Malessere
  • Difficoltà di attenzione, concentrazione e memoria
  • Difficoltà in ambito sociale, familiare e nella prestazione scolastica
  • Disturbi di umore e irritabilità
  • Sonnolenza diurna
  • Problemi comportamentali (es. iperattività, aggressività)
  • Riduzione di motivazione / energia / spirito d’iniziativa

Le conseguenze di studi di ricerca longitudinali, mostrano che la privazione del sonno nel bambino, ha conseguenze su variabili psico – fisiologiche nell’immediato e nel futuro, in quanto predice disturbi comportamentali e un rischio di 4,2 volte maggiore di divenire obesi, oltre che aumentare in adolescenza la percentuale di abuso di sostanze stupefacenti e alcool, con conseguente aumento del rischio di incorrere in patologie depressive.

Le patologie del sonno nel bambino sono da definirsi un problema familiare, perché oltre a colpire come visto il bambino stesso, rendono scarsa la salute genitoriale psicofisica, con un’alta correlazione con depressione materna e pensieri aggressivi che preoccupano i genitori.

I bambini sono classificabili in due categorie:

  • bambini autoconsolatori, rappresentano il 65% circa dei bambini di un anno e sono caratterizzati dalla capacità di riaddormentarsi autonomamente dopo un risveglio notturno, in breve tempo.
  • bambini segnalatori, sviluppano una dipendenza da specifiche situazioni stimolo, oggetti o setting che rendono molto complesso l’addormentamento o il riaddormentamento dopo un risveglio notturno, senza la presenza di un genitore.
    Questa categoria ha maggior probabilità di riscontrare problemi del sonno in età adulta.

L’obiettivo del training sonno è rendere il bambino autoconsolatorio, quindi in grado di addormentarsi da solo dopo un risveglio notturno, senza andare a chiedere aiuto ai genitori.

Interventi clinici

Ad oggi gli interventi clinici proposti e con maggiore evidenza empirica sono quelli a orientamento cognitivo-comportamentale che affrontano i comportamenti, i pensieri e le emozioni associati al problema del sonno.

Il trattamento cognitivo-comportamentale per i problemi del sonno nella prima infanzia ha incluso diverse strategie (più o meno) funzionali di seguito esplicate.

Estinzione standard

Il metodo richiede al genitore la rimozione di ogni risposta ai richiami del bambino una volta che è stato messo a letto dopo aver scelto una finestra oraria in cui lascia a se stesso il minore, senza intervenire in alcun modo.

Viene considerato un metodo efficace, ma estremamente stressante per bambini e genitori (bassa tollerabilità) che fa conseguire una bassa aderenza ad applicare il metodo con sistematicità.

Estinzione graduale

Limitazione graduale della presenza del genitore in fase di addormentamento con risposte brevi e minimali alle richieste del bambino (metodo del minimal checks).

I genitori offrono rassicurazioni con brevi visite al bambino a intervalli predefiniti e progressivamente prolungabili. Questo trattamento prevede lunghi tempi di applicazione (anche 10 notti insonni per vedere i risultati), tuttavia viene accolto con maggiore aderenza da parte dei genitori rispetto all’estinzione standard, in quanto giudicato meno estremo. Il bambino piange per del tempo mai eccessivo, in quanto il genitore può svolgere il suo compito in maniera sistematica preservando efficacia del metodo e sicurezza del bambino e del genitore.

Apprendimento discriminativo/addormentamento ritardato

Nota anche come tecnica dei rituali preaddormentamento (pre-bed routines). Consiste nella definizione di alcuni rituali da eseguire sistematicamente tutte le sere prima di andare a letto (es cambiarsi il pannolino, lavarsi i denti, leggere un libro coi genitori…). È un metodo di facile aderenza da parte dei genitori, ma con tempi di applicazione molto lunghi.

Risvegli programmati

È una tecnica poco utilizzata e consiste nello svegliare sistematicamente il bambino durante la notte sempre alla stessa ora. È consigliato svegliarlo 15 minuti prima dal solito orario, per poi incoraggiarlo a riaddormentarsi aiutando il bambino, tramite il risveglio anticipato, ad apprendere lentamente a non svegliarsi più nella fascia oraria prevista. Ha il limite di riscontrare difficile applicabilità da parte dei genitori per via dell’insonnia che caratterizzerebbe la messa in pratica di questo metodo.

Rinforzi positivi

Patteggiare un premio quando il bambino mette in atto un comportamento desiderato, come per esempio non raggiungere il letto dei genitori durante la notte.

Questo metodo funziona principalmente con bambini dai 3 anni in su, mentre prima è meno efficace in quanto per patteggiare serve che il bambino abbia acquisito determinate capacità riscontrabili dall’entrata nell’età prescolare. Ha facile aderenza da parte dei genitori ma tempi di applicazione lunghi.

Componente cognitivo/educativa

I problemi del sonno capitano spesso perché vi è molta disinformazione a riguardo.

Molti genitori non sanno che un bambino dai 4 ai 5 mesi dovrebbe essere messo a letto tra le 8 e le 8:30, mentre spesso la messa a letto viene ritardata perché si pensa che così facendo si ritardi l’orario del suo risveglio al mattino dopo, contravvenendo alla regola fondamentale di non far mai addormentare i bambini quando sono troppo stanchi.

Il metodo consiste quindi nel fornire informazioni sul funzionamento e sullo sviluppo del sonno in età infantile e nell’uso della ristrutturazione cognitiva per discutere e modificare credenze disfunzionali per il sonno del bambino.

Alcuni genitori mostrano delle resistenze soprattutto in merito ad alcune abitudini funzionali al genitore stesso come il co-sleeping (alcuni care-givers, per filosofia di vita, preferiscono dormire insieme ai propri figli nonostante questo comporti un sonno di cattiva qualità).

Secondo la corrente cognitivo comportamentale, tramite la messa in pratica di una o più strategie sopra specificate, è possibile rendere in breve tempo il bambino da segnalatore ad autoconsolatorio, andando a migliorare il suo futuro e la qualità di vita nell’immediato presente dei genitori.

 

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