expand_lessAPRI WIDGET

Psicopatologia alimentare nelle ballerine di danza classica: una meta-analisi

Alcuni studi hanno evidenziato che le ballerine di danza classica, anche quando non soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare, presentano punteggi di insoddisfazione corporea e desiderio di magrezza paragonabili a quelli dei pazienti affetti da disturbi alimentari.

 

Introduzione

 I disturbi dell’alimentazione (EDs; Eating Disorders), maggiormente diffusi nelle adolescenti di sesso femminile, comprendono un gruppo eterogeneo di disturbi come l’Anoressia Nervosa (AN), la Bulimia Nervosa (BN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e i disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati (EDNOS) (Hudson et al., 2007). Si stima però che, nonostante sia una fascia ad alto rischio, solo un adolescente su quattro con disturbo alimentare riceva un trattamento adeguato (Fairburn & Brownell, 2002).

Non sono solo gli adolescenti ad essere una popolazione predisposta allo sviluppo di un disturbo alimentare. Infatti, è stato studiato che anche le ballerine di danza classica rientrano tra le persone a rischio (Bettle et al., 2001; Garner & Garfinkel, 1980; Szmukler et al., 1985).

I disturbi alimentari nella danza classica

Lo scopo dello studio descritto di seguito è stato quello di valutare se le ballerine di danza classica presentano punteggi di psicopatologia alimentare più elevati rispetto alla popolazione generale (Silverii et al., 2021). Tra i fattori che possono giocare un ruolo dominante nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti alimentari disfunzionali nelle ballerine possiamo trovare sicuramente la bassa autostima e il perfezionismo (Abraham, 1996). Inoltre, la spinta alla magrezza, la dura disciplina, gli elevati standard personali e il perfezionismo corporeo, frequenti nella danza classica, possono contribuire a comportamenti alimentari disfunzionali (Van Diest & Perez, 2012). L’insoddisfazione corporea, l’auto-oggettivazione e l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza sembrano essere i fattori principali che aumentano ulteriormente il rischio di sviluppo dei disturbi alimentari (Slater & Tiggemann, 2011; Stice et al., 1994). In particolare, l’insoddisfazione corporea sembra essere uno dei fattori di rischio più importanti nel mantenimento di queste patologie (Stice et al., 1994). Alcuni studi hanno evidenziato che le ballerine di danza classica, anche quando non soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare, presentano punteggi di insoddisfazione corporea e desiderio di magrezza paragonabili a quelli dei pazienti affetti da disturbi alimentari (Ringham et al., 2006). Per approfondire l’argomento, gli autori dello studio hanno effettuato una ricerca sistematica sui database PubMed ed Embase, raccogliendo tutti gli studi osservazionali sugli atteggiamenti e i comportamenti alimentari che confrontano le ballerine di danza classica con i soggetti di controllo.

In generale, la meta-analisi mostra una maggiore prevalenza della psicopatologia alimentare nelle ballerine di danza classica rispetto ai controlli (Silverii et al., 2021).

Restrizione e desiderio di magrezza

In particolare, i risultati dello studio suggeriscono che le ballerine di danza classica mostrano livelli più elevati di restrizione e di desiderio di magrezza rispetto ai controlli (Silverii et al., 2021).

 I livelli più elevati di restrizione e di desiderio di magrezza tra le ballerine sono coerenti con una maggiore prevalenza di perfezionismo; infatti, il mantenimento della magrezza potrebbe svolgere un ruolo adattivo nel raggiungimento delle prestazioni nella danza classica. È stato riportato che gli sport ad alte prestazioni, in cui la forma del corpo gioca un ruolo importante (come la ginnastica, la danza, il pattinaggio, il nuoto e la corsa) (Szmukler et al., 1985), richiedono tutti un aumento dei livelli di perfezionismo, autocontrollo e controllo alimentare.

Questi dati sembrano confermare che la restrizione alimentare nelle ballerine di danza classica potrebbe essere una caratteristica peculiare ed essere considerata, almeno in alcune danzatrici, funzionale a un adattamento, piuttosto che disfunzionale (Martin & Bellisle, 1989).

In conclusione quindi, come affermato in precedenza, le ballerine di danza classica mostrano un livello più elevato di restrizione e di desiderio di magrezza rispetto ai soggetti di controllo. Questo risultato suggerisce che questi soggetti potrebbero essere un gruppo a rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari, in particolare l’anoressia nervosa. Per una migliore caratterizzazione della psicopatologia alimentare nelle ballerine sono però necessari ulteriori studi, che includano valutazioni della qualità di vita e della psicopatologia correlata, oltre a osservazioni longitudinali.

 

L’altra voce del dolore: il PTSD come antecedente della fibromialgia

La fibromialgia è stata oggetto di ogni declinazione possibile, da una malattia autoimmune a una malattia infettiva o somatica. Esisterebbe un’alta prevalenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tra i pazienti con fibromialgia e, quando entrambi sono concomitanti, è stato dimostrato un aumento della gravità dei sintomi di entrambi i disturbi.

 

Introduzione

 Non esiste prova alcuna che la fibromialgia sia autoimmune o infettiva, ma la sua diffusa inclusione in queste categorie e il fatto che sia comunemente valutata e trattata dai reumatologi la rende una sindrome ideale per la discussione in un’ampia varietà di campi clinici. Anche se è stata conosciuta sotto una moltitudine di nomi per almeno un secolo, quella che ora è designata come fibromialgia o sindrome fibromialgica (FMS) non ha ricevuto la sua prima descrizione clinica dettagliata fino al 1990, momento in cui furono prese in considerazione diverse variabili sintomatologiche, tra i quali disturbi del sonno, affaticamento, rigidità mattutina, ansia, sindrome dell’intestino irritabile, mal di testa, depressione pregressa, parestesie e dolore in generale. Tuttavia, i criteri che meglio distinguevano la sindrome fibromialgica da altri disturbi reumatologici e dolorosi erano la presenza di dolore cronico diffuso e 11 dei 18 punti specifici di “tender points”, ovvero precisi punti del corpo la cui pressione provoca particolarmente dolore (Borchers & Gershwin, 2015).

Fibromialgia e PTSD

Esisterebbe un’alta prevalenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tra i pazienti con fibromialgia e, quando entrambi sono concomitanti, è stato dimostrato un aumento della gravità dei sintomi di entrambi i disturbi. I polimorfismi nei geni associati alla dopamina, così come la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che porta alla secrezione di cortisolo legata a precedenti eventi traumatici, sono stati indicati sia nel PTSD e sia nella fibromialgia (Yavne et al., 2018). Dato il substrato biologico potenzialmente condiviso, sembra plausibile che la relazione tra fibromialgia e PTSD sia bidirezionale; il dolore può servire come stimolo traumatico per lo sviluppo del PTSD, e l’iperarousal, l’intolleranza allo stress e l’attenzione selettiva tipica del PTSD possono esacerbare il dolore. Sembra dunque che il PTSD e la fibromialgia siano due disturbi in comorbidità con meccanismi eziologici condivisi che possono svilupparsi in popolazioni vulnerabili dopo l’esposizione al trauma (Roy-Byrne et al., 2004).

Fibromialgia e disturbi somatoformi

La domanda principale è perché, dopo eventi o esperienze traumatiche, alcuni pazienti sviluppano problemi somatici, mentre altri manifestano disturbi psichiatrici. Da un punto di vista clinico ed esistenziale, si può dire che il “dolore” dei pazienti PTSD sia legato al rivivere il trauma. Vivere con il trauma e il dolore senza che ci sia una significativa diminuzione nel tempo, è parte integrante della disabilità e della sofferenza di questi pazienti. Non è inconcepibile che il dolore emotivo possa essere trasmutato o convertito in dolore fisico, soprattutto perché i sintomi fisici sono socioculturalmente più accettabili dei sintomi mentali ed emotivi. I disturbi somatici dei pazienti con fibromialgia possono essere in parte un meccanismo adattativo secondario di evitamento, modellato da fattori post-traumatici. Può anche darsi che questi disturbi somatici e la persistenza di molteplici sintomi fisici inspiegabili sia nella fibromialgia che nei pazienti con PTSD possano essere un fenomeno simile ai disturbi somatoformi. Invero, sono state riportate associazioni tra trauma/PTSD e disturbi somatoformi, e tra disturbi somatoformi e fibromialgia. A livello psicofisiologico, questa associazione è interessante: può essere possibile che i risultati implichino non una mera comorbidità, ma che la fibromialgia rappresenti un’espressione fisica dell’agitazione psicologica/fisiologica del PTSD, cioè una forma somatizzata di PTSD (Cohen et al., 2002). Il dolore cronico e il PTSD sono condizioni che si mantengono reciprocamente, ed esistono diversi percorsi attraverso i quali entrambi i disturbi possono essere coinvolti nell’escalation dei sintomi dopo il trauma (Peres et al., 2009). Secondo la letteratura, i pazienti con fibromialgia riportano livelli significativamente più alti di varie forme di trauma rispetto ai pazienti con altri tipi di dolore cronico e, in modo particolare, sono stati riscontrati alti tassi di traumi infantili e anomalie neuroendocrine. Uno studio ha mostrato che le donne con fibromialgia hanno maggiori probabilità di riferire una storia di abuso sessuale e/o fisico rispetto alle donne senza fibromialgia, e che lo stress cronico sotto forma di PTSD può mediare la relazione tra storia di abuso e fibromialgia (Ciccone et al., 2005).

Fibromialgia e ipocortisolismo

 La ricerca sui possibili fattori di mediazione nel collegare la psiche al soma si è spesso concentrata sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (Cleare, 2004). L’asse HPA svolge un ruolo fondamentale nelle risposte adattive allo stress. L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), ha un conseguente aumento della secrezione di cortisolo dalle ghiandole surrenali. L’associazione tra stress e aumento della secrezione di cortisolo si è consolidata negli ultimi decenni a tal punto che stress e aumento della secrezione di cortisolo sono diventati semplicemente sinonimi in letteratura e, inoltre, la presenza di ipersecrezione di cortisolo è stata utilizzata per definire gli stati di stress. In una notevole serie di studi, tuttavia, è stato descritto in modo più evidente il fenomeno dell’ipocortisolismo per i pazienti che hanno vissuto un evento traumatico e successivamente hanno sviluppato un disturbo da stress post-traumatico. Più recentemente, l’ipocortisolismo è stato riportato anche in pazienti che soffrono di disturbi corporei, come la sindrome da burnout con disturbi fisici, la sindrome da fatica cronica, la fibromialgia, il dolore pelvico cronico e l’asma. I risultati di alcune ricerche riguardanti l’ipocortisolismo nei disturbi corporei hanno portato ad affermare che l’ipocortisolismo può essere un fattore rilevante nella patogenesi di questa gamma di disturbi, in quanto una mancanza di disponibilità di cortisolo può promuovere una maggiore vulnerabilità ai disturbi corporei, come disturbi autoimmuni, infiammazioni, dolore cronico, asma e allergie (Heim et al., 2000). Ciò funge da cartina tornasole per affermare che i disturbi corporei come la fibromialgia possono rappresentare una famiglia di disturbi legati allo stress con antecedenti psicologici e caratteristiche endocrine simili.

Se l’ipocortisolismo dovesse rivelarsi un mediatore neurobiologico tra lo stress e la manifestazione dei disturbi fisici, questo modello fisiopatologico potrebbe aprire nuove strade per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dei classici disturbi psicosomatici.

Voci e parti dissociative. Un approccio pratico orientato al trauma (2022) di Dolores Mosquera – Recensione

Illustrare come lavorare con le voci e con le parti dissociative in psicoterapia è l’obiettivo del libro “Voci e parti dissociative. Un approccio pratico orientato al trauma”

 

 L’approccio, come riferisce il sottotitolo, è pratico e corredato da una serie di casi clinici in cui la Mosquera tratta pazienti traumatizzati con la presenza di parti dissociative relativamente indipendenti e articolate, segno di una traumatizzazione molto probabilmente precoce e grave.

Il testo si divide in cinque parti, l’ultima delle quali riporta cinque casi clinici in cui sono descritti in maniera dettagliata i vari interventi terapeutici.

Le altre quattro parti illustrano concetti chiave, procedure e tecniche su come aiutare il paziente a sviluppare il proprio Sé adulto; esplorare il sistema interno e comprenderne il conflitto interiore; come lavorare con le parti e le voci problematiche e tre questioni fondamentali: differenziazione tra realtà esterna e interna, co-coscienza per integrare le parti e le voci e integrazione delle stesse.

La prima parte presenta delle linee guida flessibili per l’impostazione del lavoro terapeutico e la strutturazione delle sedute cliniche che prevede diverse fasi.

Si parte con l’esplorazione delle voci e delle parti e per questo è necessario che i pazienti assumano un atteggiamento curioso verso il loro mondo interno. Poi è importante stabilire cosa stia succedendo quando le voci e le parti si presentano per collegare queste informazioni all’esplorazione della funzione e all’identificazione delle necessità. Un’altra fase va a identificare le fobie dissociative: se c’è, ad esempio, una parte che ha paura o si vergogna o prova disgusto per un’altra. E ancora, quale sia il livello di differenziazione (interno vs esterno) e l’orientamento temporale (qui e ora vs lì e allora); infine, pensare a risposte alternative e suggerire modi più utili o adattivi con cui la voce possa veramente aiutare la persona, individuare parti mancanti, raggiungere accordi e farle cooperare.

La seduta può essere suddivisa in tre momenti: il primo relativo alla valutazione degli effetti del lavoro fatto nella seduta precedente; nel secondo si lavora su questioni che emergono durante la seduta; e nell’ultimo si chiude in modo appropriato, senza che il paziente esca dalla seduta ancora attivato emotivamente.

Nella seconda parte del volume si evidenzia come il modello dell’approccio progressivo (González, Mosquera, 2015) proponga di lavorare con i pazienti dissociativi attraverso il Sé adulto per mostrare al paziente come parlare e comunicare con tutte le diverse voci e parti. L’obiettivo è di imparare a soddisfare i propri bisogni. Imparare ad ascoltare le voci o le parti del Sé e capirne la funzione e il significato che si celano dietro i comportamenti dirompenti diventa un aspetto cruciale del trattamento.

La terza parte del libro descrive come affrontare le parti e le voci.

È essenziale la considerazione del sistema come un tutto, il rispetto di ogni parte e dei suoi tempi, lo sviluppo di una sana curiosità, l’esplorazione delle funzioni adattive e delle risorse del sistema, e la promozione di empatia, cooperazione e capacità di negoziazione per ridurre il conflitto interno tra le parti e le voci.

Le voci che invece sono diffidenti, ostili, aggressive, suicide, sospettose o che imitano il perpetratore, diffidenti e impaurite poiché sono molto più complicate e impegnative; hanno bisogno di un trattamento più continuo e sistematico per far sì che riescano a vedere con i loro occhi che il pericolo è finito, hanno bisogno di capire che si possono differenziare e che ci sono modi più funzionali di proteggere il sistema.

La quarta parte del volume illustra il lavoro sulla differenziazione, la costruzione della co-coscienza la condivisione di esperienze o compiti tra gli stati dell’Io e/o le parti dissociative e l’integrazione.

Proprio l’integrazione delle parti è l’obiettivo e insieme il processo della terapia. L’autrice riprende la definizione di Janet:

L’integrazione consiste in una serie continua di processi mentali e fisiologici come la sintesi, che implica l’associazione di esperienza e realizzazione, ovvero il processo per mezzo del quale si sviluppa la comprensione cosciente e si estrae il significato dalle esperienze personali. La realizzazione, inoltre, implica la personificazione (“Quella bambina sono io!”) e la presentificazione (“Sono nel presente e il passato è passato, sono adulta e ora posso scegliere”) (Janet, 1928).

Nell’ultima parte sono presentati casi clinici con l’illustrazione della formulazione del caso e l’organizzazione del lavoro terapeutico.

“Voci e parti dissociative” è un libro prezioso per quanti lavorano con disturbi dissociativi perché entra nel dettaglio delle procedure e delle tecniche da seguire, esemplificando il lavoro affinché il lettore possa appropriarsi e fare tesoro dell’esperienza di chi da anni opera con questi pazienti.

 

Non abbiamo un pianeta B: un aiuto dal plantoide

Il plantoide, oltre a imporre un approccio trasversale, offre una ricchezza di spunti all’interno della comunità scientifica; aggrega e sensibilizza le preferenze della collettività a favore della sostenibilità ambientale, auspicabilmente anche in una prospettiva di altruismo intergenerazionale.

 

È davanti alla sorprendente modulazione formale della passiflora che la ragione umana indietreggia […]: ‘lI fiore stesso è espressione perfetta dell’assoluta coincidenza di vita e tecnica, materia e immaginazione, mente ed estensione’ (Porceddu Cilione, 2019, p. 143).

Introduzione

 Questo articolo descrive uno dei tasselli che concorrono all’evoluzione di un’intelligenza artificiale (IA) “buona”, cioè con finalità etiche. Senza alcuna pretesa di esaustività e sistematizzazione dell’argomento, lo studio vuole rappresentare una sorta di crocevia multidisciplinare dove si innestano tecnologia –segnatamente, robotica e intelligenza–, filosofia, biologia molecolare, neurobiologia vegetale, ambiente, arte, economia, psicologia, neuroeconomia, che amplia la metodologia alla base dell’esame microfondato delle scelte individuali –in tale prospettiva, essa è collocata nello spazio “where psychology and economics meet”– (Chorvat et al., 2004, p. 16).

Al centro di tale articolato crocevia, nello studio viene collocato il plantoide. Nel suo “piccolo” –una pianta– e nel suo “grande” –la portata dell’invenzione–, il plantoide può essere contestualizzato appieno nell’ambito degli SDGs (Sustainable Development Goals) dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dai Paesi ONU. Fra i 17 Obiettivi (da conseguire entro il 2030), collegati al plantoide se ne ravvedono quantomeno tre: sicurezza alimentare e agricoltura sostenibile (Obiettivo 2); lotta contro il cambiamento climatico (Obiettivo 13); uso sostenibile dell’ecosistema terrestre (Obiettivo 15). Su tale scorta, c’è da osservare che fra le tante applicazioni energivore dell’intelligenza artificiale, il plantoide non figura tra queste.

Proprio la sua sofisticata architettura (un passaggio dall’intelligenza vegetale a quella artificiale; Mancuso e Viola, 2015; Mancuso, 2017; Mazzolai, 2019, 2021) e le sue poliedriche finalità, il plantoide, oltre a imporre un approccio trasversale, offre una ricchezza di spunti all’interno della comunità scientifica; aggrega e sensibilizza le preferenze della collettività a favore della sostenibilità ambientale, auspicabilmente anche in una prospettiva di altruismo intergenerazionale.

Pur riconoscendo la rilevanza della distinzione fra intelligenza e razionalità, nel lavoro ci si limiterà a registrare che, riguardo alle piante, alcuni autori insistono sul concetto di razionalità (ad esempio Castiello, 2020), altri su quello d’intelligenza (Mancuso e Viola, 2015; Mancuso, 2017; Mazzolai, 2019). Entrambi si declinano in una molteplicità di dimensioni, ad alcune delle quali si farà un breve cenno volto a migliorare la contestualizzazione in ambito vegetale di tali concetti. In particolare, si mutuerà il significato d’intelligenza secondo l’approccio di Mancuso e Viola (2015), cioè (1) nella loro capacità di problem-solving anche in presenza di un gran numero di variabili da considerare (dove cercare e allocare i nutrienti, quali organi generare e quali riconoscere obsoleti per disfarsene nel tempo, quando riprodursi, il numero di discendenti da creare, ecc; Cfr. Brenner et al., 2006); (2) nella loro “intelligenza di sciame” (Mancuso e Viola, 2015; Mazzolai, 2019), desunta dai comportamenti emergenti degli insetti sociali, dalla quale è nata una recente branca della robotica tra i cui fini c’è quello di studiare i meccanismi d’intelligenza distribuita nell’intero organismo (in antitesi all’approccio tradizionale di intelligenza unificata e centralizzata).

Vale anche la pena rifarsi a una suggestiva prospettiva: il cervello altro non è che una “metafora”, adottata da taluni studiosi della percezione delle piante, a significare la loro capacità sistemica –quali organismi senzienti– di fornire segnalazioni (Brenner et al., 2006). Infatti, come in un sistema di mercato parcellizzato in una pluralità di agenti e connotato da un contesto informativo imperfetto e in evoluzione, il rigore scientifico unito all’evidenza empirica dà conto che pure per le piante il “signalling” (al proprio interno, fra loro, nei confronti degli insetti, ecc.) ha valenza strategica di natura evoluzionistica: “Comunicare […] permette di scansare pericoli, di accumulare esperienza, di conoscere il proprio corpo e l’ambiente” (Mancuso e Viola, 2015, p. 74).

E, comunque –come la razionalità– l’intelligenza non è quasi mai intesa di per sé, bensì in funzione dell’ambito, delle sue capacità logiche, previsionali, emotive, ecc. Nell’ambito dell’intelligenza artificiale, nel machine learning l’intelligenza risiede nella sua capacità di apprendimento. Un programma sarà perciò “intelligente” se la sua performance nell’apprendimento si accresce con lo stock di esperienze accumulate (D’Abbraccio et al., 2021). Anche gli avanzamenti tecnologici incidono sulla nozione di intelligenza dell’intelligenza artificiale: nel deep learning, è collegata alla “non-umanità” dell’intelligenza, nel senso che più potenti e sofisticati diventano i sistemi, meno gli esseri umani sono in grado di comprenderli sentendosene quindi alieni (si cita la partita in cui AlphaGo, un software dotato di reti neurali profonde, ha sconfitto l’elevata abilità umana; Bridle, 2022).

Per il significato di razionalità, ci si limiterà a richiamare la nozione di razionalità strumentale e razionalità ecologica, che sembrano –anche in un loro mix– quelle che meglio si attagliano al mondo delle piante. Alla luce di questo binomio, appare particolarmente adatto, sul piano psicologico, pensare a quella vegetale come a una forma di psicologia evoluzionistica.

Inoltre, per particolari forme di comportamento delle piante, si esamineranno brevemente alcuni stupefacenti paralleli con le strategie analizzate attraverso il metodo della Teoria dei Giochi (strategie di cooperazione vs. competizione; strategie di coordinamento; Cfr. Fiocca, 2005).

D’altro canto, a irrobustire gli studi, gli esperimenti e l’evidenza empirica risultante dall’applicazione di metodologie scientifiche rigorose, esiste anche lo scenario controfattuale: se le piante fossero “stupide”, nel senso di sprovvedute e scarsamente equipaggiate, la selezione naturale le avrebbe punite già da tanto tempo. Le deprivazioni e il depauperamento cui si assiste, più che da un processo evoluzionistico, derivano soprattutto dall’uomo, benché quest’ultimo abbia bisogno delle piante (ma non viceversa).

Il sentire delle piante

Il plantoide richiede riflessioni preliminari su attitudini, comportamenti e sentire delle piante (qui in termini molto generali). In queste ultime, “i processi percettivi hanno inizio con la codifica dello stimolo, che giunge ai recettori attraverso specifici canali sensoriali, dando il via a una forma di interpretazione degli stimoli ambientali in ingresso. La percezione quindi consiste in una e vera e propria attività di elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente” (Castiello, 2020, p. 37).

Grazie ai recettori diffusi lungo tutto l’organismo, le piante compensano la loro natura di organismi sessili con sensi estremamente sviluppati e distribuiti sia nell’ambiente sotterraneo sia in quello aereo. Hanno capacità uditive (ad esempio, ascoltano la musica, sentono il cinguettio degli uccelli, il rumore sotterraneo dei bruchi, lo scorrere dell’acqua verso cui allungare le radici); beneficiano di una elevatissima sensazione tattile (si arrampicano lungo elementi che reputano in grado di sostenerle, riconoscono l’effetto positivo o meno di un insetto che le tocca, ecc.); vedono (capaci, ad esempio, di individuare una sorgente luminosa di cui avvalersi); hanno un forte olfatto attraverso cui veicolano messaggi (pericolo, attrazione, repulsione, ecc.) e il senso del gusto che sfruttano per alimentarsi (le radici vanno alla continua ricerca di nutrienti appetibili, come potassio, fosfati, nitrati).

E poi, sono dotate di abilità all’apprendimento dall’ambiente e di memoria di quanto esperiscono. Inoltre, si muovono (e anche tanto!) per migliorare la loro fitness lungo il proprio processo evolutivo o, ad esempio, in reazione a urti, come tipicamente nel caso delle piante insettivore. È da intendersi una strategia di movimento da un posto all’altro persino la dispersione di semi (Mazzolai, 2019). Peraltro, la loro sensibilità va oltre i cinque sensi dell’uomo (ad esempio, riescono a sentire e quantificare la forza di gravità, i campi elettromagnetici, a scandagliare diversi gradienti chimici; Mancuso e Viola, 2015). E per il fatto di essere sessili, beneficiano –come per una forma di diversificazione del rischio dei propri asset– di una struttura modulare, cioè priva di organi concentrati in poche zone nevralgiche, scomponibile in parti divisibili. In più, le piante adottano comportamenti sociali, interagendo fra loro tramite codici non solo di suoni e odori, ma anche di colori e forme, nonchè costituendo alleanze e simbiosi (ad esempio, la loro capacità di mimetizzarsi con le piante vicine altro non è che una stretta interazione fra loro). Tali interazioni avvengono sia all’interno della biosfera, sia con altre forme di alterità, quali l’intelligenza artificiale. Si richiama un meccanismo simbiotico sorprendente e affascinante poiché evocativo di forme di attenzione e del prendersi cura. Il caso è famoso: si tratta di una “storia d’amore cyborg” che nasce fra due soggetti speciali, un bellissimo glicine – la Wisteria Floribunda di color rosa – e una sofisticatissima intelligenza artificiale – battezzata Antitesi. I due hanno un avversario comune, che combattono insieme: il cambiamento climatico. Antitesi assolve una triplice funzione a favore della sua protégé: attraverso i propri sensori digitali osserva l’impatto del clima sulla salute del glicine, perciò misura, calcola, compara i dati diacronici e sincronici acquisiti, scandaglia le informazioni utili a definire il suo stato; condivide con la comunità scientifica i dati raccolti tramite questo continuo monitoraggio; effettua investimenti in Borsa secondo una struttura di incentivi fondata su un sistema di punizione/premialità. Infatti, se i parametri registrano cambiamenti climatici pregiudizievoli per il glicine, Antitesi reagisce veementemente iniziando a investire in Borsa a sostegno delle imprese virtuose che combattono la crisi ambientale tramite strategie aziendali e i propri prodotti (Agrifoodtoday, 2021).

Gli esseri viventi si confrontano con un ambiente complesso, che evolve nel tempo, carente di informazioni, incerto, soggetto a shock, condizionato dall’operato degli esseri con cui ognuno entra in contatto e/o indirettamente interagisce. Di fronte alle asperità di questo ecosistema, le mutazioni genetiche hanno messo in condizione gli esseri umani e tutte le altre forme di vita di sopravvivere a shock, cioè a quanto Darwin chiamava “condizioni di vita”.

Ma guardiamo anche alle (tante) condizioni di ambiente positive, e non solo alle ispidità. L’ecosistema si espande e progredisce nel tempo, diventando inclusivo di nuove forme di attivismo, impegno sociale e sensibilizzazione culturale; consolidando un climax a favore del riconoscimento di una sfera più ampia dei diritti di animali e piante (caso pivot quello dell’elefantessa Happy); facendo proprio l’intreccio tra arte e tecnologia di frontiera. L’esempio stesso della diade glicine/intelligenza artificiale allarga gli orizzonti di solidarietà, collaborazioni, caregiving e anche di amore al di là degli stereotipi tradizionali, tipicamente attribuiti a uomini e animali (e agli uni con gli altri). In tale universo, più la scienza avanza, tanto più poliedriche, meravigliose, affascinanti e arricchenti le esperienze, le conoscenze e le forme d’arte che ci vengono offerte.

Sì, perché ideatori della diade Wisteria Floribunda-Antitesi sono due artisti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, la cui opera è stata realizzata presso il Centro di ricerca “HER: She Loves Data” (Singapore). L’installazione costituisce la prima opera datapoietica dedicata al cambiamento climatico (“datapoiesis” è un neologismo che fa riferimento a un processo basato su dati e intelligenza artificiale, al fine di realizzare cose ed esperienze che aiutino le persone a capire fenomeni complessi e globalizzati). Coerentemente, anche il Centro di ricerca è di particolare interesse. Non solo perché utilizza dati e calcoli sofisticati volti alla sensibilizzazione culturale verso la ricerca e l’innovazione tecnologica, ma anche perché intende ridurre il digital divide prevalente fra sessi, stimolando le donne a contribuire all’interno di un mondo orientato al dataismo e avvicinandole alle discipline STEM.

L’intelligenza delle piante

Per via della loro struttura modulare, le piante si avvalgono di un’intelligenza decentralizzata. In particolare, l’apparato radicale è la loro parte più rilevante e l’intelligenza distribuita in tale (estesa) zona le guida nello sviluppo esplorando il suolo alla ricerca degli input necessari.

Lo stretto coordinamento fra radici nel movimento e l’interazione diretta tra pianta e ambiente determinano un comportamento emergente unitario tale da richiamare il movimento di uno sciame. “[…] si parla di comportamento emergente –o intelligenza collettiva– ogni qual volta un comportamento di alto livello si origina a partire dalle migliaia di interazioni semplici che avvengono tra agenti singoli” (Mazzolai, 2019, p. 135) o tra le diverse parti di un sistema. “Con i milioni di apici radicali e una parte aerea dotata di rami e foglie, in realtà le piante rappresentano il caso estremo di intelligenza distribuita in natura” (p. 139).

L’efficienza di questi meccanismi ha ispirato la realizzazione di robot sofisticati, che uniscono la robotica all’intelligenza artificiale. E passando dall’intelligenza vegetale a quella artificiale, ci troviamo di fronte alla robotica bioispirata, che si colloca nell’area di ricerca più ampia: la biorobotica (Mazzolai, 2021). Il plantoide è una delle sue creature.

La razionalità delle piante

Una breve digressione di natura economica a supporto dell’idea di razionalità vegetale.

Nell’agente economico, la razionalità (nella prospettiva strumentale) è da intendere come l’obiettivo di ottimizzazione sotto il vincolo delle risorse disponibili (ottimizzazione vincolata). Il carattere strumentale della razionalità sta sia nell’analisi da parte dell’agente sui costi-benefici di tutte le sue possibili azioni, sia nella scelta di quella efficiente, cioè deputata all’ottimizzazione. Alla luce della scarsità delle risorse e dei beni/servizi, tale nozione di razionalità ha perciò valenza fortemente competitiva per il raggiungimento dei fini da parte di ciascun soggetto contro gli altri.

Il parallelismo con le strategie delle piante è pressoché immediato. Innanzi tutto, anch’esse hanno come obiettivo l’ottimizzazione, adottano forme di decision-making, vivono in un ambiente fortemente competitivo. L’ottimizzazione (vincolata) sta nella scelta di allocare energie e materie nel modo più efficiente per il loro sviluppo. Ne segue che anche le piante attuano valutazioni costi-benefici grazie ai recettori che registrano ed elaborano le informazioni disponibili. Sulla base dei dati raccolti, mettono in atto un processo decisionale tramite cui pervengono a una risposta adattiva. Le decisioni (strumentalmente) razionali includono anche i tempi ottimali per fiorire e germogliare, e persino se è il caso di abortire i semi in circostanze estreme, quali infestazioni di parassiti o condizioni climatiche avverse (Castiello, 2020). In questo caso, l’aborto fa parte della cassetta degli strumenti per la sopravvivenza e la buona salute della specie.

 Prendiamo il caso della concorrenza fra piante per beneficiare della luce: il fototropismo è il loro movimento per riceverla in modo ottimale. La “fuga dall’ombra” è la dinamica che le spinge a crescere più rapidamente delle competitor per l’accaparramento della luce (Mancuso e Viola, 2015). La competizione delle piante non si limita naturalmente all’ambito del mondo vegetale. I competitor sono ovunque! Dagli uomini agli animali. È la sempiterna lotta tra prede e predatori.

La dimensione razionale delle piante può essere declinata anche secondo la sua accezione ecologica. Gli studi empirici, la teoria delle scelte in condizioni di incertezza, l’economia comportamentale, quella sperimentale, la neuroeconomia, insieme a tanti altri filoni di letteratura interdisciplinare hanno disvelato il profondo solco tra come gli agenti si comportano e come dovrebbero comportarsi. Le evidenze hanno dimostrato che, per comprendere i comportamenti individuali e non etichettarli necessariamente “irrazionali”, vi era l’urgenza di estendere la nozione stessa di razionalità per renderla a “misura d’uomo”, in contrapposizione a quella perfetta “onnipotente” dell’economia neoclassica (Fiocca, 1994).

La razionalità ecologica si fonda sull’abilità degli esseri che popolano la biosfera di attuare il loro decision-making prendendo a riferimento l’ambiente in cui si trovano. Cioè, l’ambiente esterno – e il modo in cui esso viene percepito – non è “neutrale”. La decisione non può essere quindi razionale di per sé, poiché non avviene nel vuoto e il soggetto non è una monade. È perciò necessario scontare le variabili situazionali, cioè le circostanze. Si tratta di una forma altamente contingente di elaborazione delle informazioni e, quindi, altrettanto flessibile. Sono chiari i tratti adattivi ed evoluzionistici di tale nozione che, come si vedrà più avanti, viene mutuata anche nel plantoide.

Studi importanti lungo questa linea di argomenti sono stati realizzati in psicologia, in particolare da quella evoluzionista. È stato suggerito che esiste una sfera psicologica vegetale e che essa può essere analizzata studiando il comportamento delle piante in termini di stimoli e risposte: entrambi costituiscono reazioni adattive all’ambiente (ad esempio, Castiello, 2020). In natura, si sa, l’evoluzione e l’adattamento di qualsiasi essere vivente avvengono non secondo un processo lineare, ma attraverso la discontinuità di un incessante “groping”, “trial and error” (Fiocca, 2005).

Di conseguenza, dopo aver agito per tentativi, nel lungo periodo le abilità all’apprendimento dall’ambiente e di memoria da parte del mondo vegetale si affinano, agevolandone la sopravvivenza e l’evoluzione. Meccanismi di variazione, eredità e selezione (Fiocca, 2020), quando memorizzati, possono costituire nel lungo periodo un imprinting genetico per lo sviluppo adattivo intergenerazionale. Tutto ciò è stato osservato scientificamente e confermato rigorosamente dall’evidenza empirica (Castiello, 2020).

Parallelismi di strategie di uomini e piante secondo la Teoria dei Giochi

Riguardo al mondo delle piante è vivo il dibattito sui risultati, in chiave evoluzionistica, di comportamenti egoisti o altruisti. Tra i tanti esempi, si cita quello di un particolare fungo che forma una specie di manicotto intorno alle radici di una determinata pianta, con un guadagno reciproco: il primo fornisce alle radici alcuni minerali e, in cambio, riceve gli zuccheri prodotti con la fotosintesi (Mancuso e Viola, 2015). Tale comportamento può essere stilizzato col metodo della Teoria dei Giochi (TdG), in cui gli agenti/giocatori sono due piante (ciò non toglie che uno degli attori che interagisce con la pianta sia un animale) e i loro rispettivi guadagni sono i payoff.

Le ipotesi fondanti della Teoria dei Giochi sembrano coerenti con i precedenti argomenti: le due piante riconoscono la reciproca interdipendenza; ciascuna di esse tenta di sfruttare tale interazione con l’obiettivo di massimizzare i propri payoff; entrambe sono razionali (in senso strumentale, a indicare l’obiettivo di ottimizzazione). Nel Dilemma del Prigioniero, la strategia non cooperativa di ciascuna pianta conduce a un risultato in cui entrambe perdono. La cooperazione converrebbe, però, solo se entrambe la applicassero, altrimenti si tratterebbe solo di sfruttamento di una (free-rider) a spese dell’altra. Consideriamo invece un gioco –come il Tit-for-Tat (“Colpo su colpo”, la cui filosofia alla base è “Occhio per occhio”)– ripetuto nel tempo un numero indefinito di volte (che ben si attaglia a un pattern evolutivo). Tale gioco dà spazio all’apprendimento, alla memoria, all’esperienza e al reciprocare la risposta. Grazie a questo background accumulatosi nel tempo, potrà emergere una soluzione di natura cooperativa anche fra soggetti egoisti –argomento che affonda le radici in Hobbes e Hume, rispettivamente a metà ‘600 e ‘700. L’altruismo, quindi, anziché genuino, ha natura strategica, ancora in coerenza con il paradigma strumentale della razionalità.

Al comportamento a sciame delle piante si può ricollegare un gioco di coordinamento (concetto naturalmente ben diverso dalla cooperazione). Noto esempio è la “Battaglia dei sessi”, che rappresenta le molte situazioni in cui i soggetti cercano di coordinare le proprie azioni (a prescindere dalle rispettive preferenze): il coordinamento è sinergico e, quindi, dà un valore aggiunto all’azione (circostanza anch’essa del tutto compatibile con le dimensioni strumentale ed ecologica della razionalità). L’interpretazione evoluzionista di tale gioco è che l’equilibrio raggiunto da una popolazione (il comportamento emergente che determina la forma di sciame) coincide con l’ottimizzazione di lungo periodo (l’unione fa la forza).

Il plantoide

È una tecnologia bioispirata –un “robot-pianta”– frutto dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alla robotica volta a contribuire alla sostenibilità ambientale (di cui agli SDGs). Il plantoide sconta l’avanzamento in robotica: “non più sistemi dalla forma predefinita e fissata una volta per tutte, ma in grado di evolversi e mutare” (Mazzolai, 2019, p. 36). La sua plasticità ne fa il primo robot che cresce e muta la morfologia, come il suo omologo biologico. Ad esempio, anch’esso è dotato di “idrotropismo” (cresce verso l’acqua) e di “tigmotropismo” (evita un ostacolo).

Segnatamente, il plantoide costituisce la replica artificiale dell’apparato radicale di una pianta sotto numerosi aspetti, quali: le sembianze, il comportamento, l’esplorazione del suolo, la capacità di percepire l’ambiente che sta esplorando per rispondere in modo adattivo alla varietà di stimoli esterni, e, quindi, le capacità di movimento, le capacità comunicative (Mazzolai e Salvini, 2018). La radice robotica (sono cinque le radici del plantoide) è analoga al suo omologo naturale. Ha quindi una parte apicale i cui sensori misurano i gradienti chimici ed evitano gli ostacoli. Ca va sans dire, l’apparato radicale del plantoide adotta un modello di comportamento emergente. Come in Natura, esso è stato dotato inoltre del “senso delle priorità”, che gli attribuisce un comportamento dinamico: “le radici robotiche si indirizzeranno verso una sostanza con maggiore preferenza rispetto a un’altra sulla base del fabbisogno della pianta robotica” in determinate circostanze (ad esempio, uno stress idrico; Mazzolai, 2019, p. 141).

Rispetto alle radici naturali, nel plantoide è più elevata la rapidità del movimento. Ciò è un limite nella verosimiglianza, poiché la velocità comporta un dispendio di energia, e le piante sono parsimoniose in questo: non hanno fretta. Inoltre, la loro esplorazione del suolo ha bisogno di tempo. Per sequoie, querce, ulivi, ecc., tempo e velocità assumono valori dilatati (Mazzolai, 2019). Le piante si sono evolute, quindi, in modo del tutto diverso dagli animali e –si direbbe – anche dagli uomini, costantemente abitati da fretta e impazienza.

Sotto il profilo estetico, il plantoide non è un granchè: un tronco piuttosto tarchiato (contenente la parte elettronica), agghindato di alcuni rami abbelliti da foglie artificiali il cui materiale è ispirato ai tessuti delle foglie vere e, come queste, reattive a cambiamenti di temperatura e tasso di umidità. Come accade in Natura, l’apparato fogliare del plantoide prende l’energia dal clima: i materiali intelligenti da cui è costituito “funzionano da sensori e motori al tempo stesso e, proprio come quelli naturali, possono interagire con l’umidità dell’aria generando un movimento associato” (Mazzolai, 2019, p. 131).

Insomma, il plantoide: un po’ bruttino, ma tanto intelligente.

Psicologia dell’esperienza immersiva nei copioni narrativi: best sellers, serie tv e serie cinematografiche

Questo articolo esplora in quali modi il best seller, il prodotto narrativo più diffuso di questi anni, contribuisce a plasmare il nostro immaginario psicologico, il nostro inconscio collettivo, i nostri ruoli sociali e i nostri valori.

 

“Se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano”  (Guy Debord)

Consideriamo solo i primi due dei cinque assiomi della comunicazione secondo Paul Watzlawick.

  • 1° assioma – È impossibile non comunicare. (“L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro”)
  • 2° assioma – In ogni comunicazione si ha una metacomunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando. (“Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione”)

 Nel voler ricercare chi siano, cosa vogliano comunicare e metacomunicare gli autori dei best sellers attraverso le storie che ci raccontano e i personaggi che le animano, dovremmo a mio parere tematizzare, dal vertice di una psicologia sociale e politica, ed anche piuttosto radicalmente, questi primi due assiomi della comunicazione.

Non v’è dubbio che “comunicare” è interesse precipuo di ogni autore di romanzi e storie, ma nel caso degli autori che vendono molti milioni di copie, come le star dell’editoria, la comunicazione attraversa innumerevoli passaggi intermedi, tutti i passaggi che riguardano il confezionamento del prodotto nella filiera che va dalla scrittura sulla scrivania dell’autore fino al comodino o alla mensola di casa nostra, passando dal contratto editoriale, la revisione e l’editing dei contenuti nel solco della politica editoriale della major editrice, le scelte di marketing e di promozione multimediale dell’opera nei canali adeguati, comprese, in certi casi, le leggende costruite ad hoc sull’opera e/o sull’autore, fino alla scelta della veste grafica, l’uso delle immagini e dei colori della copertina, le dimensioni del libro, le caratteristiche della carta, dei caratteri, dell’impaginazione, e così via.

Attraverso tutti questi passaggi di marketing editoriale passa però, carsicamente, un’altra forma di comunicazione, una metacomunicazione appunto, che ci racconta dei modi con cui l’editoria co-costruisce trame, personaggi, autori, brand editoriali e in definitiva modelli di riferimento che riguardano complessivamente il tipo umano contemporaneo. Editori e lettori co-costruiscono, metacomunicativamente, un medesimo intreccio di intenti, contenuti e codici simbolici.

Dunque tutto comunica e tutto metacomunica, ed è ingenuo pensare che l’industria culturale non programmi nei minimi dettagli il consumo di massa dei propri prodotti volendo al contempo incontrare, anzi interpretare e anticipare, bisogni e desideri dei lettori. Dice Edgar Morin a proposito dell’industria culturale:

“Si può asserire che una cultura costituisce un corpo complesso di norme, simboli, miti ed immagini che penetrano l’individuo nella sua intimità, strutturano gli istinti, orientano le emozioni. Questa penetrazione si effettua grazie a degli scambi intellettuali di proiezione e di identificazione polarizzati sui simboli, miti ed immagini della cultura come sulle personalità mitiche o reali che incarnano i valori (gli antenati, gli eroi, gli dei). Una cultura fornisce dei punti d’appoggio pratici alla vita immaginaria: nutre l’essere metà reale, metà immaginario, che ciascuno elabora all’interno di sé (la sua anima); l’essere metà reale, metà immaginario che ciascuno elabora all’esterno di sé e con cui si ricopre (la sua personalità)” .

A tal proposito è importante sottolineare che gli esperti di marketing distinguono il pull marketing, il marketing orientato all’offerta, alla proposta di prodotti, che incontra i gusti della clientela e dialoga direttamente con essa, dal push marketing, il marketing che offre la mercanzia alla clientela soprattutto attraverso la promozione verso gli intermediari della vendita (distributori), invogliandoli a spingere il prodotto indipendentemente dai gusti della clientela.

Nell’epoca in cui viviamo, dei big data e della Psicopolitica, dove l’idea stessa di libertà appare minata alle radici, si è avverata la profezia di Morin: non è più possibile concettualmente poter distinguere nettamente tra queste due modalità di vendita (pull e push) di un prodotto. Non è più possibile, vista la massa enorme di conoscenze sempre più dettagliata e profonda sulle abitudini delle clientele, distinguere quanto il bisogno di quel prodotto sia dal punto di vista di chi lo vende recepito o costruito o, come ipotizziamo qui, continuamente co-costruito. Il ruolo attivo e compiacente del consumatore – ogni consumatore – nella costante retroazione su abitudini di consumo, ci conduce su un paradigma di civiltà, ma anche di funzionamento del mentale, del tutto inedito.

In questo quadro, il prodotto narrativo best seller, a largo consumo, non fa eccezione rispetto a tutti gli altri, esso contribuisce in maniera decisa, anzi forse maggiormente rispetto ad altri considerata la sua natura narrativa, a dare forma al materiale del nostro inconscio collettivo e a definire tipologie umane, ruolizzazioni sociali e orizzonti valoriali, dove però ciò che viene utilizzato nella co-costruzione di questo apparato è uno strumentario molto più esteso e molto più raffinato, integrato e totalizzante. I corrispondenti modelli umani e narrativi dell’epoca moderna e pre-moderna, i cosiddetti classici, pur essendo long-sellers, non reggono il confronto rispetto alla penetrazione profonda nella vita mentale delle persone e del tessuto sociale. Se non altro per le limitate diffusioni mediatiche delle epoche precedenti alla nostra e per le limitate diffusioni e stratificazioni sociali legate all’alto tasso di analfabetismo.

Vediamo come avviene questa penetrazione e secondo quali criteri e significati.

Il prodotto da bancarella: l’esperienza sensoriale

Entrare in una grande libreria e osservare i banchi dei best sellers in bella vista con le loro copertine sgargianti, le edizioni speciali ed economiche, è esperienza molto diversa rispetto ad entrare in una polverosa biblioteca o anche in una libreria di pochi anni fa dove i tomi erano messi in ordine alfabetico e per categorie e ben poco spazio era concesso all’immagine. Il libro, compreso il romanzo, era l’apologia del contenuto ed una copertina troppo vistosa casomai raccontava del cattivo gusto dell’editore.

Le grandi librerie contemporanee sono organizzate più o meno come gli altri centri commerciali con i loro labirintici percorsi obbligati, con le loro musiche di sottofondo, le loro luci da ambiente, con i loro studiati posizionamenti e dislocazioni della merce sugli scaffali: nell’atrio, appena entrati vicino alle casse, best sellers recenti e non, edizioni economiche, offerte e sconti. Il consumatore di letteratura ad alto consumo non deve perdere tempo: i best sellers in genere sono impilati in alte colonne in bella vista. Anche questa è una metacomunicazione ben precisa come a dire che non si tratta di un libro che devi sfilare da uno scaffale o da una fila, un libro che devi fare la fatica di cercare, ma di un prodotto che va via come il pane e che non occorre nemmeno consultare. Compra e zitto!

Via via proseguendo tutti gli altri settori, in fondo, su altri piani, con i libri più seri che richiedono spesso l’intervento del commesso e della sua sapiente ricerca.

Prendere in mano un best seller oggi e immaginarlo in bella vista nella nostra libreria di casa o sul tavolino del salotto o sul comodino, è diventata un’esperienza sensoriale già molto significativa. Immagini esplicative, copertine a tutta immagine, carta lucida, spesso con colori primari, grafica essenziale, presentazioni in quarta di copertina brevi e catturanti, nelle edizioni speciali immagini e caratteri in rilievo per consentire esperienze tattili e sinestetiche (Fig. 1).

Best seller esperienza narrativa ed emotiva del lettore Fig 1

Fig. 1  Qui alcuni esempi di copertine di best sellers

Jean Baudrillard nel suo primo saggio, “Il sistema degli oggetti”, affrontava esattamente questo piano sensoriale-elementare della fruizione del prodotto indicando la differenza esistente, nella espansiva società dei consumi del dopoguerra, tra valore funzionale, cioè l’uso concreto del prodotto, e il valore segnico, per indicare il valore sociale interno ad un sistema di oggetti che rimanda ad uno status sociale ad esso collegato (oggi diremmo il brand). Il valore segnico è ancora diverso dal valore simbolico che indica invece il valore individuale, affettivo e biografico che ciascuno assegna ad un oggetto.

L’oggetto-di-consumo-culturale-libro, come accaduto con innumerevoli altri oggetti di consumo, nella attuale società dei consumi, tende a con-fondere e far confluire il valore simbolico nel valore segnico. Tale oggetto (meta)comunica che un best seller non è un libro qualunque, di quelli seri o seriosi, che vuole educarti, istruirti, informarti, approfondire, farti pensare o riflettere. No, nulla di tutto questo: già a partire dall’esperienza sensoriale, il best seller si candida ad essere oggetto esclusivo del nostro arredamento domestico (e di quello interiore), come prevalente oggetto ludico, di intrattenimento puro. L’oggetto-best-seller deve intrattenere e catturare divertendo, al limite rapendo il lettore in un flusso di coscienza che già dagli aspetti sensoriali ci racconterà qualcosa di noi, ma senza impegnarci molto, in altre parole deve realizzare la paradossale esperienza di spiazzarci senza metterci in discussione. Deve inoltre diventare ordine del giorno nelle discussioni tra amiche e amici come se si parlasse del proprio partner o del vicino di casa molesto o bizzarro.

Le regole implicite metacomunicative che il marketing editoriale vuole trasmettere, già da questo piano elementare sensoriale, sono quelle dell’omologazione ad altri criteri comunicativi, quelli televisivi in primis e poi quelli multimediali di cui il prodotto-best-seller è semplicemente punto di snodo di una lunga sequenza commerciale, corollario di una lunga catena di eventi mediatici plurimi e interattivi: libro, film, serial tv, talk e trasmissioni tv, forum web, fan fiction, talora graphic novel e videogioco, etc.

Il libro sgargiante troneggiante sul banco della libreria ci dice in buona sostanza che “tutta la città ne parla”, qui trovi, già dall’esperienza sensoriale, il rimando all’esperienza di cui altri milioni di individui stanno godendo in tv sia nelle serie televisive collegate che nelle trasmissioni specchietto per le allodole, al cinema, sul web (nei forum specializzati). Insomma, questo è il testo sacro, il racconto primigenio o l’ennesimo di una sequenza, da cui originano tutte le esperienze ludiche, empatiche e identificatorie che coinvolgono milioni di persone come te. Per essere protagonista del tempo presente e sentirsi parte adeguata di una collettività, seppure solo virtuale e delocalizzata, occorre vivere l’esperienza che questo oggetto ti propone.

Il prodotto empatico: l’esperienza emotiva

Procedendo in un ideale percorso dal “basso” verso l’“alto” delle funzioni psicologiche, l’esperienza sensoriale del best seller avanza verso quella emotiva ed allo stesso tempo ne è preludio e l’esperienza emotiva precede ed integra l’esperienza narrativa. Naturalmente la suddivisione che qui operiamo tra i paragrafi di questo capitolo è meramente descrittiva e occorre quindi dire che dal punto di vista psicologico esiste un continuum/circolarità piuttosto strutturale e coerente tra esperienza sensoriale, emotiva e cognitivo-narrativa, per cui l’esperienza del lettore non è mai scindibile ed isolabile, seppure prevalgano nella fruizione ora un aspetto psicologico, ora un altro, a seconda del contesto in cui esso viene osservato.

Non esiste esperienza cognitiva e narrativa senza un preciso marker emotivo, l’emozione in sostanza colora e fissa la memoria di un’esperienza letteraria. È per questo che sul piano dell’esperienza emotiva troviamo il terreno applicativo elettivo degli sforzi del marketing globale.

Analizziamo ora solo alcuni recenti studi psicologici sull’esperienza emotiva del lettore. In generale, gli studi empirici provano a scoprire le diverse risposte emotive dei lettori rispetto ad un testo e a comprenderne le variazioni durante e dopo la lettura sia sul piano emotivo sia su quello cognitivo.

Mar ed altri in una recente rassegna sulla ricerca empirica sul tema delle emozioni dei lettori di narrativa, del 2010 esaminano dapprima le differenze tra fruizione emotiva della letteratura rispetto ad altri media e altro genere di narrazione. Chi sceglie la finzione narrativa sembrerebbe in grado di gestire le emozioni meglio (con possibilità di differimento, metabolizzazione e controllo) di chi fruisce di altri media più “economici” e passivizzanti come tv o cinema e questo farebbe pensare che la scelta di questo genere di intrattenimento sia legata ad una fruizione più attiva e interessata e non soggetta ad un flusso emotivo semplice.

Mar differenzia i diversi piani del coinvolgimento emotivo del lettore che, pur correlati tra di loro, sono distinti: esistono le emozioni estetiche legate alla fruizione del testo letterario come opera d’arte ed esistono le emozioni “immersive” legate all’ingresso nel mondo immaginario del romanzo. Le emozioni immersive a loro volta si differenziano in: emozioni recenti ed emozioni evocative, queste ultime legate alla rappresentazione sia personale che collettiva delle narrazioni.

Le emozioni recenti si suddividono in: emozioni di simpatia, di identificazione e di empatia. Le emozioni di simpatia sono il correlato di una partecipazione più semplice (rispetto alla identificazione) alla situazione descritta come se il lettore fosse un testimone privilegiato degli accadimenti, cosa che produce emozioni di simpatia rispetto a quanto accade nel bene e nel male ai personaggi. Le emozioni di identificazione sono legate alla situazione soggettiva del lettore e alla sovrapposizione dei piani esistenziali tra lui e il protagonista. Le emozioni di empatia invece implicano la comprensione emotiva e cognitiva dei piani descritti riguardo situazioni e personaggi sotto forma di modelli mentali, teorie della mente, ma le emozioni del lettore sono distinte da quelle dei personaggi.

Ma sono le emozioni evocative quelle che appaiono avere maggiore influenza duratura sulla personalità del lettore anche dopo la fine della lettura, incidendo più profondamente sull’esperienza del lettore.

Mar, infine, cita alcune ricerche nelle quali è risultato evidente come le narrazioni consentano una maggiore possibilità di metabolizzare emozioni mantenute a distanza a causa della loro virulenza o per cause traumatiche personali, dimostrando quella valenza terapeutica della narrazione che l’uomo conosce dalla notte dei tempi.

In un altro studio si evidenzia invece come vi sia complementarietà nella lettura della letteratura tra processi di empatia, qui declinati come esperimenti morali di assorbimento-immersione nelle vicende altrui e come assunzione di ruolo, e processi di auto-riflessione che implicano invece un distacco e un relativo estraniamento, una sorta di alternanza tra un’emotività veloce e una più lenta e riflessiva.

In un’altra rassegna del 2013, Susanne Keen sostiene che l’empatia, da differenziare dai processi di identificazione, sovrasta ogni altro aspetto narrativologico a livello psicologico. L’autrice riferisce che “gli psicologi che studiano l’empatia narrativa in laboratorio hanno identificato le caratteristiche principali dei testi di fiction narrativa tra cui troviamo un uso massiccio di immagini che invitano il lettore alla simulazione mentale e all’esperienza dell’immersione e a rendere i rapporti soggettivi più fluidi come se ‘avessero lasciato il mondo reale alle spalle durante la visita di mondi narrativi'”.

L’autrice inoltre esplora le tecniche narrative utilizzate dagli autori (e, aggiungiamo noi, dal sistema di marketing sottostante) per evocare e approfondire le risposte empatiche dei lettori: “queste tecniche comprendono le manipolazioni di situazioni narrative nella prospettiva di un personaggio della narrazione o di una rappresentazione interiore di personaggi immaginari, l’uso di punti di vista e paratesti. Altri elementi si ritiene siano coinvolti nell’evocazione dell’empatia dei lettori compreso l’utilizzo vivido di sconfinamenti, metalessi, ripetizioni seriali di racconti immersi in un mondo narrativo stabile, lungaggini, l’incoraggiare i lettori ad immergersi o lasciarsi trasportare, l’uso di convenzioni generiche, interiezioni metanarrative, l’uso dei primi piani, il disordine o l’estraniamento indotto dal rallentamento della lettura” (Susanne Keen, ibidem).

Possiamo concludere che gli stili narrativi dei prodotti editoriali a largo consumo, se ci soffermiamo su questo piano emotivo, puntino a evocare nel lettore, specie laddove tali stili narrativi si appiattiscono su quelli delle serie tv e cinematografiche, soprattutto (ma non solo) l’esperienza dello smarrimento empatico, cioè una sorta di esperienza ludica del perdersi nel dedalo delle situazioni narrative di vicende e personaggi puntando più sulla gamma di emozioni recenti, specialmente empatiche che su quelle identificatorie. Come detto, l’empatia ha a che fare con la capacità dell’individuo (e del lettore) di costruire teorie della mente dei suoi interlocutori acquisendo una comprensione emotiva non necessariamente identificatoria o simpatica. Le narrazioni contemporanee con i loro personaggi variegati, talora anonimi, talora antieroi, talora onirici, riescono a immergere il lettore in flussi di vissuti emotivi nei quali è richiesto al lettore il semplice sforzo del lasciarsi trasportare e talora di cambiare prospettiva, ma non quello di cambiare idea.

In tal senso la massimizzazione delle risposte empatiche nel lettore sembrerebbe ottenere un risultato “a-pedagogico” ovverosia il risultato di ampliare il lessico emotivo dei lettori, ma di scoraggiare l’uso di modelli emotivi identificatori.

Questo non significa affatto che le trame e i personaggi dei best sellers contemporanei non seguano modelli e codici, almeno dal punto di vista emotivo, “esemplari”, cioè identificatori. Solo che in questo caso ciò che non viene definito esplicitamente dall’autore, diventato nella postmodernità, laico e antiideologico, viene definito implicitamente.

Il prodotto pervasivo: l’esperienza narrativa

L’ipercodifica che avviene su ogni piano della realizzazione del prodotto-best-seller e su ogni piano della sua fruizione psicologica e culturale, del soggetto-consumatore, coincide in definitiva con una sorta di παιδεία implicita (per i greci antichi, paideia = educazione valoriale e sociale) che avviene laddove esperienza sensoriale ed esperienza emotiva confluiscono coerentemente con il sistema simbolico-valoriale del tempo presente.

Per molti psicologi, specie i cosiddetti post-razionalisti, la mente è narrazione, utilizza esclusivi schemi narrativi come strumenti adattativi alla realtà circostante. Senza dover aderire totalmente a questo costrutto, di sicuro possiamo asserire che la mente utilizza la funzione narrativa ai piani alti della propria funzionalità. Tende cioè a rappresentare il dialogo tra i personaggi del proprio mondo interno attraverso piani anticipatori, trame e intrecci, più o meno brevi/lunghi, che assumono carattere di temi narrativi ricorrenti.

 Le attuali società dell’era neoliberista e iperconsumista hanno prima annullato la dialettica produzione-consumo invitando il consumatore a partecipare attivamente alla produzione della propria felicità, eleggendo il consumatore di fatto a protagonista e co-costruttore di senso del proprio essere al mondo attraverso il proprio consumo. Poi hanno progressivamente esteso ad ogni esperienza psichica tale compartecipazione compiacente attraverso la spinta adoperata dai vecchi e nuovi media. Secondo Byung-Chul Han (op. cit.) questo sviluppo coerente, all’interno dello stesso paradigma economico-sociale, segna il passaggio dall’era della biopolitica a quella della psicopolitica, dove in gioco non è più solo il controllo della vita della popolazione e dei suoi confini e della sua etica, ma la vita loro psichica ormai migrata sui nuovi territori inaugurati dai nuovi media e da internet. Vita psichica caratterizzata, diversamente dal bios, dalla sua intrinseca illimitatezza riguardo il mondo immaginario, le emozioni e i desideri.

In altre parole, la capacità di penetrazione delle regole che presiedono alla formazione dell’individuo passa oggi attraverso dispositivi e canali tecnologici e simbolici particolarmente pervasivi e strutturanti.

Come dimostra l’illuminante testo di Stefano Calabrese, “Anatomia del Best Sellers”, nelle trame dei best seller, come in quelle delle serie tv più popolari, l’immersività delle esperienze nelle vite immaginarie dei protagonisti riproduce, attraverso una nuova fluidità dell’esperienza estetica, analogo annullamento dialettico di cui sopra, questa volta non semplicemente tra produttore e consumatore, ma più specificatamente tra lettore, autore e protagonisti.

Inoltre, sempre secondo Calabrese, la frequente fusione e sovrapposizione, operata dal marketing editoriale tra autore, narratore, protagonista e talora anche lettore, tende a creare dal punto di vista narrativologico una sorta di effetto totalizzante, un mitologema, che risulta fortemente favorevole alla creazione di “casi” letterari, che ben presto si offrono al mercato mediatico globalizzato sottoforma di narrazioni parallele nelle cosiddette fan fiction, serie tv, film, graphic novel, forum, fan art e videogiochi, etc.

L’esperienza narrativa totalizzante di un fan

Massimo (nome fittizio) è un ragazzo di 21 anni, seguito in psicoterapia da circa due anni, in genere in seduta racconta le proprie esperienze personali, familiari e sociali sullo sfondo delle sue difficoltà, originate già nell’infanzia, ma in via di risoluzione. Oggi Massimo lavora felicemente nel negozio di famiglia, ha superato molti suoi problemi iniziali e comincia a sentirsi un ragazzo della sua generazione.

Massimo però è anche un fan assiduo e informatissimo sia delle serie tv più diffuse (“Trono di Spade” su tutte, ma anche “Harry Potter”) che dei best sellers connessi. Solo una volta in ben due anni di incontri, racconterà di questa esperienza di fan e poi mai più.

Nel racconto della sua esperienza narrativa, egli apre nuovi mondi allorquando illustra, facendolo assolutamente dall’interno, il complesso sistema mediatico che presiede una serie di successo.

Seguendo il racconto in seduta di Massimo, possiamo comprendere come un fan come lui abbia la possibilità di seguire storie e personaggi della serie o del best seller preferito nei seguenti spazi:

  • Libro (o serie di libri in sequel)
  • Serie di film al cinema (alcuni best sellers diventano film e produzioni cinematografiche di successo anche in serie: “Harry Potter”, “Il Codice da Vinci”, “Twilight”, “50 Sfumature di grigio”, “Il Signore degli Anelli”, tra gli altri)
  • Serie TV (alcuni best sellers diventano serie TV. Molti autori di best sellers nascono come autori e sceneggiatori per la TV)
  • Fan fiction (spazio dedicato ai fans della serie o del libro che costruiscono storie parallele dette spin off a partire dalle trame principali. Ricordiamo che “50 Sfumature di Grigio” nasce come spin off di “Twilight”)
  • Forum dedicati ai fans (spazi di discussione nei quali i fans discutono nei diversi topic relativi a questo o quell’evento relativo a trame o dettagli di trame della serie tv o del libro. Massimo racconta delle centinaia di pagine di discussione dedicate dai fans alla frase di chiusura dell’ultimo libro di “Trono di Spade”, volutamente ambigua, per la quale non era chiaro se il personaggio accoltellato morisse o sopravvivesse)
  • Fan art (siti web dove vengono disegnati i personaggi delle serie e dei romanzi)
  • Video Recensioni (ogni episodio tv o libro viene ripetutamente recensito su Youtube)
  • Video Tributi (sono tributi e presentazioni dei vari personaggi di serie e libri, sempre su Youtube)
  • Gruppi facebook (sono gruppi dedicati ai fan di questo o quel best seller, serie, autore, film, etc)
  • Graphic Novel (versioni fumettistiche di serie e libri)
  • Cosplay (è la pratica di travestirsi nei personaggi di una serie tv o cinematografica, di un fumetto o di un libro, spesso utilizzata in riunioni e esibizioni pubbliche)
  • Fiere e presentazioni (sono occasioni pubbliche dove i fans di una certa serie o libro si possono – finalmente – incontrare dal vivo per conoscersi e scambiare opinioni)
  • Videogiochi (sono trasposizioni ludiche per consolle di giochi elettronici con gli stessi personaggi, ambientazioni e vicende di serie e libri)

Massimo si limiterà, come detto, solo una volta ad aprirsi in seduta a questi mondi articolati, per il resto del tempo ri-confinerà questa esperienza nel territorio parallelo e nascosto (una sorta di vita virtuale parallela e segreta, condivisa con pochissimi amici) dalla quale era emersa. Non prima però di confessare che il venire in possesso del fatidico e agognato sesto libro della serie “Trono di Spade” (atteso da oltre 6 anni e ancora non uscito) nella sua personale classifica esistenziale avrebbe scalzato addirittura il derby cittadino. Ed è tutto dire!

Assistiamo qui, dunque, in particolare riferendoci alla narrativa con elementi fantasy o similia (ma il discorso è facilmente estendibile a molti altri best sellers anche di genere diverso), all’esplosione di un nuovo epos partecipativo-immersivo dove troviamo alcune ricorsività delle strategie narrative, ne elenchiamo qui le principali tra tante:

  • Enfasi dei processi identificativi con i personaggi (con i correlati emotivi descritti nel paragrafo precedente);
  • Utilizzo di ambientazioni esotiche, immaginifiche, irreali, astoriche;
  • Utilizzo massiccio e ripetuto di colpi di scena emotivamente scuotenti;
  • Utilizzo massiccio e ripetuto di dettagli ambigui e di finali aperti (tali da alimentare le cosiddette “teorie” dei fans sui contenuti del testo e le loro discussioni);
  • Utilizzo di riferimenti esoterici, misteriosi, magici

Queste strategie narrative (accanto a quelle descritte da S. Keen nel precedente paragrafo sull’esperienza emotiva), ed altre ancora, attraverso strumenti di dissonanza e spiazzamento emotivo/cognitivo (specie i colpi di scena e i finali aperti), molto simili a quelli utilizzati in ipnosi per approfondire la trans ipnotica, hanno l’effetto di ingigantire a dismisura l’esperienza immersiva del lettore/spettatore e di incollarlo letteralmente alla storia, creando, attraverso il circuito mediatico, illustrato così dettagliatamente da Massimo, un cerchio chiuso tra narrazione televisiva e narrazione letteraria, che finiscono per alimentarsi e trascinarsi (anche commercialmente) a vicenda e ad assomigliarsi sempre più, ma anche, come sottolineato da Calabrese, tra personaggi immaginari e personaggi reali (gli autori, i fans, i personaggi).

L’immersività, l’enfasi empatica sul piano emotivo, poi quella identificativa su quello narrativo e l’emozionalizzazione dell’esperienza, in generale, rimandano all’uso sfrenato di un’attività immaginifica, spesso con coloriture ludico-grandiose, che molto richiamano la fenomenologia dell’organizzazione di personalità dello spettro narcisistico, per la quale la gran parte del tempo della propria intimità psichica e del proprio dialogo interiore è occupato in fantasie grandiose e di successo. Per comprendere quanto detto basti fare riferimento al personaggio di un noto film, interpretato da Ben Stiller, “Walter Mitty” (“I sogni segreti di Walter Mitty”, 2013), il quale è continuamente immerso in fantasie grandiose di successo e di avventura, in sogni vividi ad occhi aperti molto immanenti, pur avendo nella realtà una vita noiosa e piuttosto mortificata. Fino a quando un evento lavorativo lo dirige verso impreviste avventure reali.

Conclusioni

Chiudere e saldare il cerchio tra realtà ed immaginazione, tra strumenti comunicativi, tra media, tra forme di narrazione, tra lettori-spettatori-autori-editori-personaggi, tra venditori e compratori, serve in sostanza a esaltare ed imporre uno storytelling compartecipativo sulla realtà attuale che investe ogni piano dell’esperienza umana, da quella sensoriale a quella cognitiva, ogni piano della comunicazione mediatica, annullando i confini tra vita e racconto, tra verosimiglianza e verità, tra chi progetta le storie e chi le compra-legge-vede.

L’esito di questa saldatura così minuziosa e articolata tra parti e controparti, tutte partecipanti al medesimo obiettivo e nella medesima sostanza fluida e collosa, è la blindatura dell’immaginazione e dei processi culturali che a loro volta hanno come conseguenza l’omologazione dei processi creativi.

È difficile infatti immaginare un atto creativo, nell’arte come nella letteratura, senza un pensiero divergente, senza un’innovazione, un atto realmente sorprendente e inedito che emerga dall’inquietudine più o meno disciplinata dell’artista che ha dato forma comunicativa alla sua opera. La creatività senza imprevedibilità trasforma l’opera in prodotto in serie, finemente e astutamente confezionato affinché evochi una gamma altrettanto prevedibile di risposte ludiche, emotive, cognitive del consumatore che si fa egli stesso co-autore del fenomeno esperienziale in questione.

Il consumatore di best seller appare, in questa compartecipazione attiva, il prodotto di una mutazione antropologica, una creatura modificata ad arte dal marketing evoluto dei big data, tale da poter godere pienamente delle esperienza immersive, totalizzanti, emotivamente oniriche, dei propri sconfinati mondi immaginari nel rapporto coautorale e circolare costruito dal marketing emozionalizzante.

Non è solo il concetto di creatività che entra in crisi, ma anche quello di libertà, resa condizionata e colonizzata, o sfruttata, come dice Han (op.cit.) in questa epoca neoliberista avanzata. La compartecipazione circolare e pervasiva elimina ogni controparte sfruttante e rende ognuno padrone della propria schiavitù, padrone e schiavo coincidono nel nuovo soggetto detto consumatore, ipnoticamente adattato alle eternamente sovraordinate esigenze del marketing.

 

Sintomi della normalità. Mente e mentalità dell’epoca contemporanea (2021) – Recensione

Nel libro “Sintomi della normalità”, edito dalla casa editrice milanese Mimesis, l’autore Fabio Monguzzi offre, a chi scelga di leggerlo, una descrizione approfondita del mondo contemporaneo e di ciò che lo caratterizza, con una panoramica di quegli stili comunicativi che in maniera implicita e spesso automatica (da troppo tempo) sembrano imporre le azioni che ciascuno di noi si trova a compiere nel quotidiano.

 

 Introducendo un’analisi retrospettiva sotto il profilo sociologico e antropologico, vengono evidenziati quei cambiamenti nevralgici inerenti all’area tecnologica, economica e culturale capaci di offrire al lettore una nuova chiave di lettura rispetto alla quale il tempo inizia ad assumere una fisionomia capace di assorbire le nostre vere predisposizioni, sottoposte al vaglio del giudizio esterno.

L’autore pertanto, pagina dopo pagina, sembra offrire la possibilità di prendere coscienza, ma ancor più consapevolezza, circa quella responsabilità che ognuno di noi non solo dovrebbe riscoprire, ma che di contro rischia di glissarsi a favore di quelle leggi normative emanate da una società alla quale abbiamo delegato il permesso, se non il diritto, di privarci della nostra parola. Soppiantata da regole socio culturali in grado di insinuarsi nella propria sfera intima e privata. Influenzando le nostre relazioni, il proprio modo di stare con noi stessi e ancor più il nostro stile comunicativo. Eliminando quel dialogo interiore che purtroppo rischiamo pian piano di perdere, di dimenticare. Ma che più di ogni altra cosa caratterizza la nostra autenticità.

A ciascuno di noi spetterebbe dunque il gravoso compito di non cedere a quella pigrizia linguistica dove tutto è già stato scelto, bensì di dar vita a quelle creature viventi, dalle quali non dovremmo mai smettere di lasciarci guidare.

Il cambiamento linguistico dunque sembra riflette non solo un mutamento storico e al contempo cognitivo, piuttosto uno stile unilaterale connotato da una scarsa attitudine a saper andare oltre quello che automaticamente viene fornito sotto forma di risposta. Confermando in tal modo la presenza di uno stato mentale privo di quella autenticità in grado di farci scegliere cosa sia realmente idoneo alla nostra persona.

Un grande contributo sembra peraltro provenire da un tempo non troppo lontano dal nostro, rispetto al quale una persistente afasia caratterizza e deteriora sempre più le nostre capacità comunicative che, se un tempo erano adornate di “un gergo ricco di invenzioni quasi poetiche a cui contribuivano tutti giorno per giorno, una parola imprevista era il preludio di una meravigliosità linguistica”, oggi al contrario sembrano dover fare i conti con l’imprevedibilità (Pasolini, P, P., 1975). Secondo l’autore quest’ultima altro non rappresentava se non una chiave in grado di promuovere il giusto equilibrio tra il senso di stupore e la curiosità per il mistero; che seppur non conosciuto rappresentava tuttavia qualcosa verso cui rivolgere uno sguardo privo di schemi prestabiliti. La realtà secondo Pasolini era il frutto di una rappresentazione simbolica ove il concetto di limite sembrava non intaccare la propria economia psichica.

Oggi, al contrario, la predisposizione all’imprevedibilità sembra non trovare una sua collocazione all’interno della normale vita quotidiana, poiché sembra aver ceduto il posto ad un controllo eccessivo in cui le nostre emozioni, le nostre relazioni e ancor più il proprio modo di dar vita alle parole che ci abitano, rischiano di sgretolarsi in funzione di un predominio esterno alla nostra natura autentica.

L’automatismo linguistico rischia così di essere adornato di quella normalità che secondo l’autore può sancirne l’esistenza, legittimando così il suo uso distorto, perverso e privo di quella spinta che oggigiorno si scontra con una censura poco disposta a spendere qualche parola in più!

 Allo stato attuale dunque il linguaggio sembra aver perso quella profondità e quella unicità quali validi promotori di emozioni, sentimenti e vissuti esperienziali in sintonia con quanto di più profondo ci abita. Il linguaggio parlato e scritto sembrano aver vissuto un radicale cambiamento, poiché quello che più ci caratterizza si trova a fare i conti con “i codici di significato automatici socialmente accettati” (Monguzzi, F., 2021). Ciò significa che le modalità espressive si trovano incanalate in quei vettori unilaterali e sempre pronti a tradurre il loro contenuto sulla base delle richieste provenienti dall’esterno; uno spazio (quest’ultimo) che sembra soppiantare le “connotazioni soggettive”. Questa funzione, dunque, sembra essersi tramutata in un fragile mezzo attraverso il quale comunicare non tanto quello che realmente sentiamo di esprimere, quanto piuttosto rispondere automaticamente e in maniera prevedibile dinanzi a quanto ci si aspetti di sentire dal nostro interlocutore. Uniformare il linguaggio a leggi che ne governano l’espressività significherebbe impoverirlo della sua più autentica natura, del suo reale valore a discapito di una “rappresentatività emotiva” soffocata da un limite da seguire, e di fronte al quale la nostra predisposizione non risentirebbe del valore che le compete. Significherebbe dunque cedere ad un atteggiamento socio culturale che sembra racchiudere delle norme comportamentali e comunicative da seguire inderogabilmente (Monguzzi, F., 2021).

Qual è il rischio principale?

Secondo l’autore quello di farsi rappresentare da qualcosa che non ci appartiene, di delegare a qualcuno all’infuori di noi il senso di appartenenza, escludendo a priori la possibilità di entrare a contatto con le nostre emozioni più autentiche. Nondimeno i nostri automatismi linguistici rischiano di innescare una rigidità mentale correlata peraltro ad una scarsa capacità simbolico-rappresentativa, connotata ad una carenza nell’attribuire un significato alle proprie esperienze, soffocate da un vero e proprio “linguaggio di copertura” (Monguzzi, F., 2021).

Un fenomeno sempre crescente e accompagnato da una solitudine della parola attraverso la quale attingere un contenuto immaginifico diviene impossibile. Quest’ultimo infatti non solo rispecchia una risorsa, ma descrive una chiave di lettura in grado di fare del linguaggio stesso un ventaglio di valenze metaforiche e analogiche.

Secondo le figure di Jung ed Hillman, infatti, immaginare vuol dire attivare quell’energia ancestrale capace di allontanarci dalla superficie nella quale siamo soliti sostare (Jung, C, G., 2014; Hillma, J., 2019).

Purtroppo le stesse capacità immaginative che dovrebbero nutrire ciò che più ci caratterizza, risultano ad oggi soppiantate da un insieme di rappresentazioni esterne alle quali ciascuno di noi sembra affidare il proprio valore, facendo dei modelli e delle relazioni culturalmente accettabili una dipendenza di fronte alla quale la propria parola non conta più nulla. Dove il pensiero e la riflessione subiscono un’inversione di rotta a favore di un condizionamento normativo al quale paradossalmente siamo obbligati a rispondere.

Aggressività genitoriale e utilizzo di punizioni fisiche: i fattori di rischio e le conseguenze sui figli

Secondo vari studi, alcuni fattori che influenzano l’aggressività da parte dei genitori riguardano la salute mentale dei genitori, le esperienze infantili, la qualità della relazione genitoriale, il funzionamento familiare e l’utilizzo di sostanze.

 

Gli effetti negativi dell’aggressività genitoriale e delle punizioni fisiche

È ormai riconosciuto da un’ampia letteratura che l’utilizzo di punizioni corporali, da parte dei genitori nei confronti dei bambini, può portare ad una serie di esiti negativi, tra cui problemi internalizzanti come ansia e depressione, problemi esternalizzanti come comportamenti antisociali e aggressivi e relazioni genitoriali negative (Gershoff, 2002; Gershoff & Grogan-Kaylor, 2016). Inoltre, non esistono evidenze che confermano l’associazione tra l’utilizzo di punizioni fisiche ed il miglioramento comportamentale dei bambini o della loro salute (Durrant & Ensom, 2012; Gershoff & Grogan-Kaylor, 2016) e, al contrario, gli esiti negativi legati alle punizioni corporali si protraggono per tutto l’arco della vita, anche in età adulta (Afifi et al., 2006; MacMillan et al., 1999).

Allo stato attuale della letteratura, i ricercatori includono le punizioni fisiche nella categoria delle “esperienze avverse infantili” (Adverse Childhood Experience, ACE) e recentemente, l’American Academy of Pediatrics (Sege et al., 2018) ha pubblicato una dichiarazione, secondo la quale i genitori o i caregivers non dovrebbero ricorrere a punizioni corporali (schiaffi, sculacciate, etc) su bambini e adolescenti.

È importante quindi aiutare i genitori a sostituire questi metodi con strategie genitoriali positive e non violente, che permettano di fronteggiare e migliorare il comportamento dei bambini (Afifi & Romano, 2017).

Indagare i fattori che favoriscono il rischio di attuazione di punizioni fisiche risulta rilevante al fine di poter comprendere come prevederne e prevenirne l’utilizzo da parte dei genitori.

Cosa porta i genitori a ricorrere alle punizioni fisiche?

Secondo vari studi, alcuni fattori riguardano la salute mentale dei genitori, le esperienze infantili, la qualità della relazione genitoriale, il funzionamento familiare e l’utilizzo di sostanze (Davis et al., 2011; MacKenzie et al., 2011; Wilson et al., 2018).

Uno studio condotto nel 2019 da Afifi et al., utilizzando un campione di 1883 ragazzi dai 14 ai 17 anni, ha indagato i fattori che potrebbero portare i genitori/caregivers dei ragazzi ad un maggior utilizzo di punizioni fisiche come ad esempio schiaffi e sculacciate, riscontrando molteplici risultati.

In primo luogo, le esperienze infantili dei genitori, incluso il bullismo fisico e verbale da parte dei coetanei, l’abuso sessuale ed emotivo e l’esposizione diretta a violenza fisica tra i genitori, sono risultati essere associati ad un maggior uso di punizioni fisiche sui propri figli.

Anche un alto tasso di conflitti di coppia, è risultato avere un’associazione significativa con l’aggressività fisica nei confronti dei figli e, al contrario, una bassa percentuale di litigi tra coniugi si è vista agire come fattore protettivo contro l’utilizzo di punizioni fisiche.

In terzo luogo, un basso livello di salute mentale dei genitori/caregivers è stato associato ad una maggior probabilità di utilizzare punizioni fisiche.

 Coerentemente con le ricerche precedenti (Barkin et al., 2007), è stata riscontrata una associazione tra genitori/caregivers che riferivano di essere stati schiaffeggiati durante l’infanzia, e una maggior probabilità che i loro figli riferissero di essere stati picchiati. Tuttavia tali dati sono differenti rispetto ai dati di altri studi (Gagné et al., 2007) secondo cui chi subisce abusi fisici infantili sembrerebbe non ricorrere all’uso della forza (comprese le sculacciate) sui propri figli per evitare di far vivere loro le stesse esperienze (Ertem et al., 2000). Sono necessarie ulteriori ricerche per determinare i meccanismi sottostanti, che potrebbero essere informativi per la prevenzione.

Gli studi sulle indagini per la tutela dei minori hanno mostrato che molti casi di abuso fisico iniziano come tentativo da parte dei genitori di disciplinare i bambini con punizioni corporali, finendo per spingersi troppo oltre (Black et al., s.d.). Questo significa che fare prevenzione sulle sculacciate potrebbe ridurre anche il verificarsi di abusi fisici ancora più gravi.

Aggressività genitoriale e status socio-economico

Per quanto concerne l’associazione tra lo stato di povertà e l’utilizzo di punizioni fisiche, dai dati sembra che le famiglie povere siano meno propense all’utilizzo di metodi educativi che includono violenza fisica. Prima di generalizzare tali risultati sono necessari ulteriori ricerche poiché è possibile che le famiglie incluse in questo studio abbiano ricevuto supporto da parte di programmi mirati alla divulgazione di strategie positive genitoriali. I risultati hanno anche dimostrato che un’elevata conflittualità (3 o più litigi importanti negli ultimi 12 mesi), un basso livello di salute e benessere mentale ed un uso moderato o grave di alcol sono associati ad una maggior probabilità di utilizzo di punizioni fisiche da parte dei genitori. Anche lo stress genitoriale si è rilevato essere associato a pratiche genitoriali più severe (Liu & Wang, 2015; MacKenzie et al., 2011), mentre una soddisfazione materna elevata è risultata essere un’attenuante nella relazione tra stress genitoriale e punizioni fisiche (Liu & Wang, 2015).

In conclusione, questi risultati supportano il bisogno di maggior prevenzione a livello sociale riguardo ai fattori riscontrati rilevanti e di ulteriori indagini su come le relazioni familiari, il funzionamento della salute mentale, il benessere e l’utilizzo di alcol possano essere migliorati per creare un ambiente domestico più sano per la crescita dei bambini (Afifi et al., 2019).

The Patient (2022). L’umanizzazione come processo di cura – Recensione

Dal 14 Dicembre è disponibile, sulla piattaforma Disney+, una serie intitolata “The Patient”, nata dalla sceneggiatura di Joe Weisberg e Joel Fields. Si tratta di un thriller psicologico che ha come protagonisti Steve Carell, nei panni di Alan Strauss, un noto psicoterapeuta e Domhnall Gleeson, che interpreta Sam, un assassino seriale.

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler!

 Dal punto di vista psicologico, la serie si articola alternando momenti di costruzione di un insolito setting terapeutico, con l’intento di non spettacolarizzare la malattia mentale o le doti di cura del terapeuta, ma di mostrare il lato umano dei due personaggi principali e di quelli secondari. In senso introspettivo, infatti, la trama narrativa della serie guida lo spettatore nell’avvicendarsi emotivo degli eventi. Nel caso del paziente, l’accrescere della rabbia verso un “altro ingiusto” spiega all’audience come emotività e razionalità si dominano a vicenda, in una continua lotta tra ciò che si sente e ciò che viene agito, anche se questo agito si trasforma in aggressività.

Dall’altro lato, emerge il versante emotivo del terapeuta, che, nell’ottica della trasparenza del patto terapeutico, non nasconde il suo lato umano, che si concretizza nella paura che il paziente possa fare del male ad altri o a lui stesso, confrontandosi con un senso di impotenza, incrementato da uno spazio claustrofobico e angusto, ben diverso dal suo studio. Al contrario di Sam, la cui storicità ed esperienza compare gradualmente a partire dalle sedute, nel caso del terapeuta, gli aspetti umani sono ricostruiti attraverso flashback o mentre immagina di parlare con il suo supervisore, da tempo deceduto.

 In questo alternarsi tra spazi individuali e di terapia, ciò che viene posto al centro è che la cura non ha necessariamente un fine risolutivo, ma di iniziale consapevolezza e comprensione del proprio modo di funzionare, al fine di imparare a conoscere gli stati emotivi e ciò che li scatena, con l’obiettivo di ri-orientarli con un nuovo senso. Chiari sono, fin dall’inizio, i movimenti compiuti dal terapeuta, fin quando la situazione non si esaspera e l’aggressività aumenta. In questo punto di svolta, è interessante la contrapposizione tra la de-umanizzazione (Fiske, 2013) agita inconsapevolmente da Sam e l’umanizzazione della vittima (Paladino & Vaes, 2011), come strategia di gestione e controllo. Invero, laddove Sam considera la persona aggredita solo come l’oggetto del suo impulso, privandola di qualsiasi forma di riconoscimento, si contrappone –nella terapia– un tentativo di restituire alla vittima una narrazione, legata alla sua famiglia, alle sue passioni, alle sue emozioni. L’idea di fondo dell’umanizzazione, infatti, è quella di rendere la vittima molto più simile al protagonista, allenando a metterlo nei panni dell’altro.

Come dimostrato anche nelle trame narrative della serie, l’umanizzazione della vittima consente di orientare l’emotività verso nuovi significati che, se per Sam acquistano senso solo dopo l’assenza del terapeuta, per lo stesso Strauss è proprio la situazione di prigionia a spingerlo nella ricerca di nuove consapevolezze riguardo agli eventi passati.

Ed è proprio in questo doppio legame psicologico, tra intimo e condiviso e tra Sé e l’Altro, che “The Patient” sa parlare alla “pancia” dello spettatore, richiedendo un’attenzione e coinvolgimento totale. Questo coinvolgimento attentivo è costruito sulla logica ambivalente tra de-umanizzazione e umanizzazione che si delinea non solo tra paziente e terapeuta, ma, di rimando, anche nel legame tra personaggi sulla scena e spettatori.

The Patient – Guarda il trailer:

 

La comunicazione della perdita e le reazioni dei fratelli dopo una Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS), ovvero la “morte improvvisa e inaspettata del lattante”, è un evento luttuoso tragico e potenzialmente traumatico non solo per la coppia genitoriale, ma anche per i fratelli

 

La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

 La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS) è definita come la morte improvvisa e inaspettata di un neonato apparentemente sano di età inferiore a un anno, che rimane inspiegabile anche dopo un’indagine approfondita del caso, l’esecuzione di un’autopsia completa con test ausiliari, l’indagine del sito di morte e la revisione della storia clinica (Goldstein et al., 2019). La SIDS può essere un evento fortemente traumatico per il sistema familiare ed è in grado di sconvolgere e perturbare gli equilibri in modo più intenso rispetto ad altri tipi di lutto (Markusen et al., 1978).

Dopo la morte di un bambino per SIDS, i fratelli sopravvissuti possono mostrare alcune conseguenze sul piano psicologico e comportamentale (Hutton & Bradley, 1994) nei primi 3 mesi e, per alcuni bambini, perdurare fino a quasi 3 anni (Powell, 1991).

L’impatto che la SIDS ha sui fratelli è duplice: da una parte essi perdono un compagno di giochi e di vita; dall’altra, per un lasso di tempo, essi perdono l’attenzione e il supporto dei genitori, travolti dal proprio dolore (Hogan & DeSantis, 1994; Packman et al., 2006; Avelin et al., 2014). Pertanto, i fratelli sopravvissuti si trovano a dover gestire sia il vissuto di lutto per il proprio fratello, sia le emozioni correlate al cambiamento del proprio ruolo come fratello maggiore (Powell, 1991).

Nonostante dopo una perdita i sintomi dei bambini possano essere simili a quelli degli adulti, vi sono delle differenze nel processo di elaborazione dovute al fatto che essi possiedono capacità cognitive e personalità ancora in evoluzione. Inoltre, è più alta la probabilità che essi utilizzino meccanismi di difesa più primitivi e che siano più a rischio di disagi psicologici dopo una perdita (Osterweis et al., 1984). Le reazioni comportamentali ed emotive dei fratelli dipendono dal rapporto con il defunto e dal grado di sostegno che ricevono da parte del caregiver, oltre che dall’età, a sua volta correlata alla capacità del bambino di sopportare lo stress, di gestire le emozioni e di comprendere la morte (Powell, 1991; Hunter & Smith, 2008).

Le reazioni dei fratelli dopo una Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

Nei bambini di età compresa tra i 16 mesi e i 6 anni, si è osservato come frequente l’emergere di paure circa il fatto che anche loro possano morire o che i genitori possano scomparire (Mandell et al., 1988), fino allo sviluppo di una fobia della morte (Crehan, 2004). Possono emergere alcuni disturbi del sonno, causati da incubi o dal rifiuto del bambino di andare a dormire per paura di non risvegliarsi, soprattutto se la morte del fratellino è avvenuta durante il sonno (Mandell et al., 1988). È frequente una richiesta di maggiore affetto e attenzioni attraverso comportamenti indisciplinati e possono manifestarsi alcune regressioni rispetto ad alcune tappe evolutive come, per esempio, la ricomparsa di enuresi notturna (Price, 2007). Infine, nei bambini più piccoli, può manifestarsi ansia da separazione, specialmente quando i genitori sono molto immersi nel proprio lutto (Mandell et al., 1988).

Se nei bambini di età prescolare la morte è vista come reversibile e temporanea, invece, a partire dai 5 anni, poiché i bambini acquisiscono il pensiero logico-concreto e non comprendono ancora la propria mortalità, la personificano e la associano alla credenza che solo le persone anziane o malate possano morire (DeMaso et al., 1997).

In alcuni bambini tra i 6 e gli 8 anni possono emergere una fissazione per la morte (Price, 2007), accompagnata da domande insistenti e curiosità incessanti verso i genitori; un vissuto di rabbia indirizzato verso i genitori, per aver “permesso” che il fratellino morisse, oppure verso il fratellino stesso per essere morto causando dolore (Hutton & Bradley, 1994). Infine, il senso di colpa (Price, 2007), che si presenta come risultante di una combinazione tra i sentimenti ambivalenti verso il nuovo arrivato, la presenza di pensiero magico, le poche conoscenze riguardo la morte e l’alone di silenzio che spesso circonda la perdita (Mandell et al., 1988; Crehan, 2004).

Tra gli 8 e i 10 anni, bambini comprendono che la morte è un fenomeno naturale irreversibile, che consiste nella “cessazione delle attività vitali” e che può colpire tutti; infatti, il loro concetto di morte inizia a essere molto simile a quello adulto (DeMaso et al., 1997). Nei bambini sotto i dieci anni di età è verosimile che, dopo una SIDS, i genitori rilevino alcuni cambiamenti nei comportamenti dei propri figli e osservino: una aumentata insicurezza, una maggiore ricerca di attenzioni, una paura della solitudine, una aumentata insonnia, alcuni incubi notturni, una costante tristezza, una maggiore aggressività, insieme ai comportamenti tipici della loro fase di sviluppo (Powell, 1991).

I bambini più grandi, di età compresa tra i 10 e i 13 anni, sono in grado di leggere l’accaduto in modo più logico e possono mostrare diverse modalità come reazione all’evento, come la ricerca di conforto e di vicinanza con i genitori oppure, al contrario, con il distacco a causa di un senso di colpa verso sé o verso i genitori, o attraverso un abbassamento del rendimento scolastico (Price, 2007). Nel contesto scolastico, si è osservato anche un cambiamento nei comportamenti di questi bambini verso i pari e reagire con maggiore aggressività oppure isolandosi (Mandell et al., 1988).

Infine, negli adolescenti si è osservato come il senso di colpa sia anche presente, specialmente quando la SIDS è avvenuta mentre erano loro a occuparsi del fratellino: il senso di colpa nasce dall’auto-accusa del non essersi presi cura del piccolo nel modo corretto ed è aumentato dalla mancanza di cause certe di morte che possano smentire questa convinzione (Price, 2007).

 Per quanto riguarda lo stile comunicativo intrafamiliare, è stato osservato che la condivisione e la comunicazione aperta siano in grado di agevolare l’elaborazione del lutto portando ad aggiustamenti positivi a lungo termine (Martinson & Campos, 1991). Al contrario, l’evitamento del tema e la non condivisione dell’accaduto possono instillare nel bambino fantasie disfunzionali all’elaborazione del lutto, come la convinzione che la morte del fratellino sia un segreto spaventoso di cui non si parla. I genitori sono la principale fonte di apprendimento per un bambino sia per quanto riguarda informazioni che da solo non è in grado di comprendere, sia per le modalità di affrontare il lutto (Cain et al, 1964).

Dopo una SIDS, i bambini sono in uno stato di elevata vulnerabilità e, poiché la sicurezza della famiglia è stata minacciata, anche le interazioni che hanno con i genitori subiscono delle trasformazioni, a causa del clima familiare perturbato dall’evento. Alcuni genitori riferiscono di aver bisogno di più intimità, mentre altri si sentono più protettivi nei confronti del proprio figlio  (Mandell et al., 1988).

Comunicare il lutto ai fratelli in seguito a SIDS

Per comunicare il lutto ai bambini è buona prassi parlarne con loro in modo efficace, adattando i contenuti e la forma a ciò che il bambino è in grado di comprendere, con una particolare attenzione all’età: fino ai 5 anni, è fondamentale utilizzare affermazioni semplici, evitare eufemismi o metafore che il bambino non è in grado di comprendere e che potrebbero portare a concezioni distorte della morte. Ad esempio, se il bambino chiede dove sia il fratello è utile rispondere con frasi tipo “il tuo fratellino è morto”, “la morte avviene quando un corpo smette di funzionare”, evitando descrizioni della morte che facciano riferimento al dormire o all’essere andati via; a questa età è importante nominare in modo corretto le emozioni e utilizzare la terminologia appropriata per farvi riferimento (DeMaso et al., 1997).

I bambini in età scolare possono rivolgere la loro attenzione ad aspetti più specifici della morte: è importante rispondere con trasparenza alle domande fornendo anche materiali appropriati all’età come dei libri illustrati che permettano al bambino di comprendere ed esaurire i propri dubbi (Price, 2007). Come abbiamo già visto si può sviluppare un certo grado di senso di colpa; per prevenirlo è necessario integrare alle risposte il fatto che la SIDS è un tipo di morte che, nonostante non abbia cause certe, non avviene per colpa di qualcuno (DeMaso et al., 1997).

È importante non screditare le convinzioni che i bambini sviluppano, anche se possono apparire poco logiche; piuttosto, è utile incoraggiare la loro discussione in modo da poterle reindirizzare e aiutare il bambino a esprimere i propri stati d’animo, anche attraverso l’espressione artistica.

A partire dai 10 anni, è possibile che i bambini spostino l’attenzione su aspetti più spirituali e/o religiosi e, quindi, la famiglia può integrare alle spiegazioni dell’accaduto i significati che fanno parte del proprio sistema di credenza. A questa età, il bambino è in grado di sopportare maggiormente questo disagio, sebbene abbia comunque bisogno di tempo e spazio per elaborarlo. Ad esempio, si è visto che può essere utile l’utilizzo di un diario personale in cui tenere traccia dei propri vissuti.

Gli adolescenti sono in grado di comprendere anche le implicazioni pratiche e future riguardo la morte; pertanto, è utile che i genitori offrano loro l’opportunità di un confronto alla pari sull’accaduto e sullo svolgimento delle indagini. Inoltre, lo stress provocato dalla SIDS potrebbe contribuire ad accelerare il processo di distacco dalla famiglia tipico dell’adolescenza, motivo per cui è importante rispettare il volere del ragazzo di condividere alcuni vissuti emotivi al di fuori del nucleo familiare (Price, 2007).

In conclusione, per fornire un adeguato supporto ai fratelli, la letteratura mette in luce quanto sia importante aiutare la famiglia a creare una maggiore condivisione emotiva interna e un senso di vicinanza reciproca e, infine, far vedere loro che ciascuno non è solo nella sofferenza, ma che essa accomuna tutti, sebbene venga espressa con modalità differenti.

 

Attività motorie e funzioni esecutive (2022) di Fedeli, Pascoletti e Zanon – Recensione

Il libro “Attività motorie e Funzioni esecutive. Metodi e percorsi per la scuola primaria” pubblicato a Luglio 2022, è stato scritto da Daniele Fedeli, Stefano Pascoletti e Francesca Zanon, docenti universitari e ricercatori nell’ambito della pedagogia e dell’educazione presso l’Università di Udine.

 

 Il manuale si rivolge a insegnanti, educatori, istruttori sportivi e più in generale al personale che si occupa dei processi educativi nel corso del primo ciclo di istruzione.

L’obiettivo che si prefigge tale volume è proprio quello di indagare le interazioni tra le funzioni esecutive e le attività motorio-espressive come ad esempio: lo sport e il gioco.

Le funzioni esecutive sono abilità cognitive avanzate utilizzate per raggiungere con successo obiettivi personali, includendo quindi anche i processi cognitivi, quali ad esempio: flessibilità cognitiva, pianificazione e inibizione comportamentale. Questi due aspetti risultano fortemente correlati tra loro, in quanto, le attività motorio-espressive consentono al bambino di esercitare e potenziare le proprie funzioni esecutive e a sua volta lo sviluppo delle funzioni esecutive impatta sulle attività motorio-espressive. Queste connessioni vengono indagate all’interno del libro prendendo in considerazione la fascia d’età della scuola dell’infanzia e primaria, poiché queste fasi risultano particolarmente significative per uno sviluppo sano del bambino.

Nel libro, in primo luogo, viene sviluppata un’introduzione teorica in cui vengono presentati i principali modelli esplicativi delle funzioni esecutive, il loro impatto nello sviluppo e la loro interazione con l’ambito espressivo e motorio. Vengono poi analizzati i principali strumenti di assessment delle funzioni esecutive utilizzabili in età evolutiva prendendo in considerazione sia strumenti già validati e diffusi sia una batteria recentemente sviluppata dagli autori stessi (FE Battery).

La Batteria delle Funzioni Esecutive è stata ideata ai fini di supportare le osservazioni e le misurazioni delle funzioni esecutive nell’età dello sviluppo. Lo scopo di tale scala è quello di intercettare eventuali bias nella valutazione delle funzioni esecutive dovuti a compiti nuovi svolti all’interno di un contesto non conosciuto. Successivamente, il libro si focalizza su linee guida per la stesura di programmi educativi orientati all’ambito motorio, utili all’affinamento delle funzioni esecutive. In altri termini, fa riferimento alla dimensione didattica prendendo in considerazione sia lo sviluppo tipico che atipico con una particolare attenzione alla disabilità intellettiva. Un esempio di strumento di valutazione in ambito educativo proposto dagli autori è la batteria di prove denominata MOVIT.

La MOVIT è uno strumento che permette una valutazione dell’area psicomotoria, evidenziando le abilità, le difficoltà e le potenzialità di allievi a sviluppo tipico e in situazione di disabilità.

 Gli autori si sono soffermati anche sul rapporto bidirezionale tra funzioni esecutive e potenziamento delle prassie, definite come coordinazione dei movimenti che costituiscono un determinato atto. Questo concetto viene poi ampliato inserendolo all’interno degli ambiti dell’attività sportiva e del gioco. Vengono presentati tre esempi pratici in cui l’attività sportiva è utilizzata come strumento per potenziare le funzioni esecutive in una popolazione con sviluppo atipico. Il primo fa riferimento all’attività motoria scolastica con bambini autistici, il secondo prende in considerazione l’arrampicata con bambini iperattivi e il terzo, le arti marziali con bambini aventi un deficit di attenzione. Prendendo in considerazione l’esempio dell’arrampicata sportiva per bambini con ADHD, gli autori risultano particolarmente chiari nel fornire i motivi che hanno spinto all’utilizzo di tale sport per la popolazione di interesse. Infatti, viene chiaramente esplicitato che: l’arrampicata sportiva fornisce condizioni esterne prevedibili, la presenza di diverse vie di salita stimola la capacità di problem solving, è utile per allenare abilità quali attenzione, memorizzazione dei passaggi necessari e gestione dello sforzo.

In conclusione, possiamo dire che questo libro è utile in quanto offre elementi innovativi, riguardanti sia l’assessment delle funzioni esecutive sia la stesura di programmi educativi, il cui focus è l’aspetto motorio. Inoltre, fornisce numerose evidenze scientifiche sull’importanza dell’attività sportiva, la quale risulta benefica non solo da un punto di vista fisico ma anche cognitivo. Infine, la presenza di esempi pratici sul legame tra sport e funzioni esecutive, consente la comprensione dell’argomento non solo agli esperti in materia, ma anche ad un pubblico più ampio.

 

Comorbidità ADHD e altri disturbi psichiatrici

Uno studio di Bitter e colleghi, pubblicato nel 2019, ha evidenziato la necessità di approfondire in maniera più definita la presenza di sintomi riconducibili all’ADHD, poiché molto spesso questo disturbo non viene diagnosticato correttamente.

 

L’ADHD nell’adulto

 Il disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (ADHD o DDAI) è definito come un disturbo del neurosviluppo, caratterizzato da un persistente e inappropriato livello di disattenzione e/o iperattività e impulsività, con conseguente compromissione del funzionamento generale (APA, 2013). Tendenzialmente, le caratteristiche di ADHD più frequenti negli adulti corrispondono a scarse capacità attentive, associate a disorganizzazione e disregolazione emotiva (Kooij et al, 2010).

L’ADHD nell’adulto è spesso associato a risvolti di vita negativi, come compromissione del funzionamento psicosociale, scarsa qualità di vita, basso rendimento scolastico e lavorativo, relazioni interpersonali povere, capacità di guidare compromessa, basso status socioeconomico, bassa autostima o alti tassi di criminalità (Buitelaar et al., 2011; Chang et al.,2014).

È importante sottolineare che la diagnosi di ADHD rimane a oggi problematica proprio per gli alti tassi di comorbidità con altri disturbi mentali (Asherson et al, 2014). In particolare, se paragonati a persone prive di diagnosi ADHD, i pazienti con ADHD hanno alta compresenza di disturbi come depressione maggiore, distimia, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi di personalità (Asherson et al. 2014; Perroud et al., 2014). Allo stesso tempo, le statistiche mostrano la presenza di ADHD non diagnosticato pari al 19%, anche in pazienti in cura per altri disturbi (Deberdt et al., 2015). Questo dato fa riflettere in merito all’efficacia complessiva dei trattamenti somministrati poiché, a livello psicologico, essere sottoposti a un trattamento psicoterapeutico e farmacologico senza ottenere miglioramenti significativi nel tempo o avendo frequenti ricadute ha un’influenza negativa su questi pazienti, sui quali non è stata effettuata una corretta diagnosi di ADHD. La difficoltà nell’effettuare una corretta diagnosi risiede anche nella presenza di sintomi “sovrapponibili”, ovvero riconducibili a livello eziologico a diversi disturbi.

L’ADHD non diagnosticato

 Uno studio di Bitter e colleghi, pubblicato nel 2019, ha evidenziato la necessità di approfondire in maniera più definita la presenza di sintomi riconducibili all’ADHD, proprio perché molto spesso questo disturbo non viene diagnosticato correttamente. Infatti, sebbene negli ultimi anni questo disturbo venga riconosciuto e trattato più facilmente, ci sono ancora molte comorbidità nascoste, che ne rendono difficile la diagnosi, anche in pazienti già in cura per altri disturbi psichiatrici. Lo scopo di questo studio (Bitter et al., 2019) è stato dunque quello di stabilire il tasso di prevalenza dell’ADHD non diagnosticato in pazienti psichiatrici. I soggetti partecipanti allo studio sono stati selezionati da diversi centri di cura in Repubblica Ceca e Ungheria, ai quali è stato somministrato un questionario self-report per ADHD e successivamente l’intervista Conners’ Adult ADHD Rating Scale.

Secondo i criteri diagnostici del DSM-5, il manuale statistico e diagnostico per individuare la presenza di disturbi psichiatrici, la presenza di ADHD sfuggito a precedente diagnosi, in pazienti affetti da altri disturbi, corrispondeva al 9.27%. Lo studio condotto da Bitter e collaboratori (2019) ha analizzato il rapporto tra altri sintomi o veri e propri disturbi psicopatologici e la presenza di ADHD non diagnosticato. Il risultato più rilevante emerso riguarda il rapporto con il rischio suicidario; infatti, il legame tra rischio suicidario e ADHD non diagnosticato è risultato significativamente elevato, proprio come emerso da un precedente studio (Balazs & Kereszteny, 2017). Inoltre, l’ipotesi di Bitter e colleghi (2019) è che la presenza di ADHD fosse associata a una maggior severità di sintomi psicopatologici in casi di comorbidità con altri disturbi psichiatrici, ad esempio, la presenza di ADHD in molti casi aumenta le probabilità di sviluppare o aggravare l’abuso di sostanze (Ohlmeier et al., 2008).

Procedure e strumenti di autoterapia umoristica (2022) – Recensione

“Procedure e strumenti di autoterapia umoristica. L’umorismo: uno strumento efficace per favorire il benessere” ci spiega come sia utile non prendere sempre tutto troppo sul serio e come sia possibile utilizzare lo humor in terapia e fuori dalla terapia.

 

 Dopo un evento emotivamente difficile molti potrebbero essersi sentiti dire da un amico o da un familiare: ridi che ti passa, impara a riderci sopra oppure fatti una risata e vedrai che passa, e molti di questi potrebbero essersi arrabbiati o sentiti invalidati da questi suggerimenti. Potrebbero aver pensato dell’assurdità del ridere dopo un evento difficile o in una situazione spiacevole connotata di intensa tristezza, ansia, panico, rassegnazione, rabbia, senza rendersi conto sul momento che forse l’umorismo avrebbe potuto essere l’arma vincente per superare il problema.

“Procedure e strumenti di autoterapia umoristica” di Scarinci, Ruggiero, Carloni e Recanatini, edito da Franco Angeli, ci svela come sia possibile utilizzare l’umorismo “sano” per tollerare degli stati emotivi intensi e spiacevoli, i fallimenti che si incontrano sul proprio cammino, gli ostacoli alla propria realizzazione, mantenendo una prospettiva flessibile e nuova degli eventi che accadono, divertendosi, smorzando tensioni e creando coesione all’interno delle relazioni. Chi utilizza l’umorismo conosce bene i suoi benefici sul malessere, è consapevole della sua potenza spiazzante nel rovesciare un punto di vista predefinito e nell’aprire al contempo spiragli nuovi e imprevedibili. Allo stesso modo, la ricerca scientifica ha rimarcato la funzione positiva dell’umorismo nel trattamento dei disturbi psicologici  (Tse et al., 2010; Irving, 2019). Tali prove hanno consentito ai diversi approcci psicoterapeutici di far uso del sense of humor come strumento di conoscenza, consapevolezza e accettazione della realtà, di se stessi e degli altri.

Infatti, nella sua forma “sana” scevra da scopi aggressivi, prevaricanti o svalutanti, l’umorismo permette di decatastrofizzare e sdrammatizzare uno scenario pauroso o imbarazzante, di confrontarci con le perdite in modo meno drammatico e di ridurre l’esagerata sensibilità nei rapporti interpersonali, aumentando l’accettazione dell’ineluttabile o l’impegno a guardare le cose in una prospettiva non coerente rispetto la propria abituale.

 Gli autori propongono al lettore varie applicazioni dell’umorismo da utilizzare dentro e fuori il setting terapeutico attraverso l’uso di battute, esagerazioni, metafore, ragionamenti illogici e illustrazioni. Tra le procedure e le tecniche descritte per promuovere e incoraggiare il sense of humor troviamo l’autocaratterizzazione, il genogramma, la ristrutturazione cognitiva, l’immaginazione. Sebbene queste tecniche si concentrino su aspetti e dimensioni diverse della persona, tutte sono volte ad aiutare la persona a descrivere, ricostruire e narrare la propria “storia” andando alla ricerca del “lato divertente” mai banalizzando, ma sempre contestualizzando e disinnescando i processi e i contenuti disfunzionali. Per esempio, la ristrutturazione cognitiva umoristica potrebbe assolvere lo scopo di disputare in termini umoristici idee o pensieri irrazionali per produrre cambiamenti comportamentali ed emotivi, così come l’immaginazione potrebbe consentire di alterare la funzione avversiva di un’immagine o di un pensiero evocando sensazioni ed emozioni differenti.

Il libro di Scarinci e colleghi ci accompagna pagina dopo pagina, vignetta dopo vignetta, a scoprire come sviluppare e coltivare il nostro “io umorista” e un po’ pagliaccio a cui possiamo affidarci nei momenti della vita più difficili per regolare le emozioni intense, progettare un cambiamento o oltrepassare ostacoli attraverso una risata e con amorevole gentilezza e compassione verso noi stessi.

 

La morte della farfalla (2016) di Pietro Citati – Recensione

Nel libro “La morte della farfalla” (2016), Citati ripercorre la salita verso il successo dei coniugi Fitzgerald e la loro caduta nel buio della malattia. 

 

 Quello che ci presenta Citati è una doppia biografia, in cui si evidenzia il ruolo di Zelda Fitzgerald, moglie dello scrittore Scott e lei stessa autrice, dimenticata, però, dal panorama letterario. Ultimamente, infatti, si sta cercando di far chiarezza sull’ascesa nel mondo della scrittura di Scott, a cui sicuramente ha contribuito, anche con aiuto autoriale, Zelda. A questo enorme successo della famiglia, segue il loro declino psicologico e psichico, che continuerà fino alla morte delle due farfalle.

Inizio di un amore

Chi sono Zelda e Scott Fitzgerald? Ripercorriamo in breve la loro relazione: furono una delle coppie più iconiche degli anni ’20 del Novecento. I due si conobbero da giovani ad un ballo e, sin da subito, Scott corteggiò Zelda perché colpito dall’audacia di questa donna indipendente che sfidava i costumi di quel periodo. Scott riuscì nel suo intento, infatti nel 1920 si sposarono e vissero i primi anni di matrimonio con grande entusiasmo. Dopo un po’ di anni, però, le discussioni tra i due iniziarono a essere più frequenti e accese, accompagnate dai problemi di insonnia e alcolismo di lui, e di depressione di lei.

Il ruolo della malattia

La malattia, nel testo di Citati e nella vita di Scott e Zelda, ha un ruolo fondamentale poiché tormenta i due coniugi fino alla loro morte: dopo il successo, hanno a che fare con un declino precipitoso della loro vita, dato che i libri di Scott non raggiungono il successo dei precedenti e Zelda, sentendosi sempre più tradita, sia dal punto di vista relazionale, sia per quanto riguarda l’attività di scrittrice, diventa sempre più fragile.

Tra i due si instaura un rapporto molto problematico, viste anche le criticità della salute mentale di entrambi, un rapporto che Citati descrive con queste parole:

Erano la stessa persona, con due cuori e due teste; e questi cuori e queste teste si volgevano appassionatamente l’una verso l’altro, l’una contro l’altro, fino ad ardere in un unico rogo
(La morte della Farfalla).

Questo rapporto sfocerà in una vera e propria malattia nel caso di Zelda, e in dipendenze per Scott. Vediamo in che forme la malattia caratterizza la loro vita, e il loro rapporto con l’arte, precisamente con la danza per lei e con la scrittura per lui.

Scott e al scrittura

Francis Scott Fitzgerald diventò uno scrittore molto cosciente di sé e della sua arte, grazie al successo che ottenne in America. Lui riteneva che la sua arte fosse un dono tanto che nei Taccuini scrisse: “In ogni mio racconto c’era una piccola goccia di qualcosa – non di sangue, non di pianto, non del mio seme – ma qualcosa di più intimamente mio di questo”.

Questo non voleva, però, dire abbandonarsi alla vocazione e lasciarsi trasportare dalla penna, ma lavorare con fatica e sacrificarsi in nome dell’amore per l’arte. Era una questione sì di vocazione, ma anche di sudore, volontà, fatica e sacrificio.

Per riprendere la metafora usata da Pietro Citati, da giovane era stato una farfalla con le ali coperte di polvere iridescente, ma poi diventò un soldato. Il perché di questo cambiamento ci viene spiegato:

Le condizioni di una vita artisticamente creativa sono così ardue, che ad esse posso paragonare soltanto i doveri di un soldato in tempo di guerra
(La morte della farfalla).

Fitzgerald, infatti, stava sempre in casa a dedicarsi al suo lavoro, come un recluso, convinto che lui e la sua arte bastassero per una vita completa, convinto di poter sopravvivere senza alcun contatto esterno. Sentiva di essere un artista, un soldato alla frontiera […] contro le orde selvagge di una melanconia essenziale (Kierkegaard).

 Un artista rende l’arte il mezzo per dare voce, e vita, alla melanconia, o melancolia, essenziale ed esistenziale che preme sulla sua vita; questo è anche il caso di Scott. Un legame, quello tra arte e melancolia, che percorre innumerevoli pagine della letteratura, tanto che lo vediamo anche nella Grecia del IV secolo a.C. Con il Problema XXX, pseudo-aristotelico e riconducibile a un allievo di Aristotele, Teofrasto, si affronta la relazione tra melancolia e genio. Si cerca di dare una spiegazione, anche fisiologica, di come la melancolia, come patologia o disposizione caratteriale, sia in un rapporto molto stretto con il genio e l’estro creativo. Anche F. Scott Fitzgerald vive questo dualismo, questa relazione tra melancolia e arte.

Zelda e la danza

Zelda, come suo marito, si rifugiava nell’arte, con cui tentava di colmare le mancanze causate dalla sua malattia mentale, ma non faceva che immergersi nel buio dei suoi pensieri. Lei si rifugiava nella danza: ballava sia di notte che di giorno, davanti allo specchio per osservare meglio il suo corpo, da sola e con gli altri. Lei aveva sempre amato la danza, ma a un certo punto iniziò la sua irrefrenabile velleità di diventare ballerina professionista. Molti pensavano fosse un desiderio innocuo, senza sapere che ciò avrebbe aumentato le sue insicurezze. Questa è la radice della sua tragedia: dietro i movimenti sinuosi e apparentemente leggeri e fragili della danza, nascondeva la sua malattia, la schizofrenia. Si autoflagellò con l’attività fisica: danzava davanti allo specchio, si interrompeva solamente per bere, aveva lividi in tutto il corpo, la notte legava i piedi alle sbarre del letto, per raggiungere i canoni estetici della danza classica, e il suo corpo diveniva sempre più rigido.

Quello che otteneva non era, però, leggiadria e leggerezza ma, come i coniugi Murphy raccontarono, “qualcosa di terribilmente grottesco nell’intensità” (La morte della farfalla). Tutto era pesantezza, infelicità, sforzo, uno sforzo che ci ricorda quello di Scott nello scrivere, uno sforzo che portò a un delirio che si estese sempre di più, fino a che lei iniziò a parlare in modo insensato, sorridere senza alcuna ragione e tacere isolandosi per ore.

Zelda e la scrittura

Nelle parole di Citati, si percepisce come lui abbia uno sguardo affettuoso e compassionevole nei confronti di Zelda e una certa freddezza nei confronti di Scott.

Questo possiamo immaginare sia dovuto al fatto che diversi studi hanno portato alla luce come Zelda, probabilmente, fu autrice di numerose pagine, passate sotto il nome di Scott. Lei era molto appassionata alla scrittura, a cui si dedicava con la stesura dei suoi diari, diari dati a Scott per il suo romanzo d’esordio “Di qua dal paradiso”, la cui protagonista era plasmata sulla figura di Zelda.

Per il romanzo successivo, “Belli e dannati”, pare che Scott abbia riportato pagine intere dei diari di Zelda. Vi fu la proposta di pubblicare in un’opera i diari di Zelda, opera che si sarebbe intitolata “A Young Girl’s Diaries” ma Scott non fu d’accordo. Proprio dopo quest’evento, i diari di Zelda sparirono. Zelda, dopo la pubblicazione di “Belli e Dannati”, scrisse questo:

Mi sembra che in una pagina ho riconosciuto una parte di un mio vecchio diario misteriosamente scomparso poco dopo il mio matrimonio, e anche frammenti di lettere che, sebbene notevolmente modificati, mi suonano vagamente familiari. In effetti, il signor Fitzgerald – credo che sia così che scrive il suo nome – sembra credere che il plagio inizi a casa.
(The New York Tribune).

Non si sa quanto sia ironica o quanto sia sincera, ma sappiamo che qualcosa non è chiaro in questa questione.

Morte delle due farfalle

Scott continuò a scrivere, mantenendo viva la sua creatività sino alla morte. L’ultimo libro a cui si dedicò fu “The last Tycoon”, di cui riuscì a scrivere qualche capitolo. Un attacco cardiaco, però, portò la fine della sua vita, ma non della sua arte, che sopravvisse nel tempo.

Hemingway parla della sua morte con parole evocative:

Scott… aveva ancora la tecnica e lo spirito romantico per fare qualsiasi cosa, ma da molto tempo tutta la polvere era sparita dall’ala della farfalla, anche se l’ala ha continuato a battere fino alla morte della farfalla (La morte della farfalla).

L’angelo con le ali un po’ bruciacchiate, Zelda, non guarì mai dalla sua malattia, ma perse il fuoco della sua giovinezza e fece del tormento sfondo delle sue giornate.

Nel pieno della sua sofferenza, tornata un’altra volta allo Highland Hospital, affermò di non avere paura di morire, ma un incendio nella cucina d’ospedale portò alla sua morte, “arsa per sempre dal suo fuoco”.

Di lei rimase solamente una pianella quasi incenerita, che permise di riconoscerne il cadavere e seporlo vicino al marito.

Una vita di luci e ombre

La vita dei coniugi Fitzgerald, come abbiamo visto, è fatta di eccessi e viene ricordata ancora oggi come mito e paradigma dei “ruggenti anni 20”, della vita di successo e sfarzo che vissero. Gli eccessi, però, vi furono sia nel bene che nel male e portarono a un declino davvero precipitoso.

Così continuiamo a remare, barche contro la corrente, risospinti senza posa nel passato (“Il Grande Gatsby”, F. Scott Fitzgerald): queste le ultime parole de “Il Grande Gatsby” incise sulla lapide dei due coniugi, sepolti uno vicino all’altro. Sebbene la loro notte non sia stata tenera e la loro vita sia stata davvero tormentata, la loro vita e la loro arte sono passate alla storia.

Se Lev Tolstoj aveva ragione a scrivere “Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce” (Anna Karenina), la vita dei Fitzgerald è stata varia, deliziosa e bella. Soprattutto è stata una vita piena di ombre e di luci, dalla luce del successo all’ombra della malattia, dall’alba della loro vita, invidiata da chiunque, al crepuscolo di un’esistenza inquieta.

 

Il contatto tra autori di reato e vittime

Lo studio condotto nel 2020 da van Denderen e colleghi, ha come scopo quello di esplorare, in quattro ospedali psichiatrici forensi diversi, la giustizia riparativa e l’esperienza degli assistenti sociali durante l’incontro tra vittima e autore di reato.

 

La giustizia riparativa

 Il crescente interesse nei confronti del contatto tra vittima e autore di reato, nella pratica scientifica così come in quella clinica, si inserisce in generale nel contesto degli sviluppi delle pratiche di Giustizia Riparativa (Restorative Justice, RJ).

La giustizia riparativa è un approccio nei confronti del crimine che dà alle vittime, agli autori di reati ed agli altri individui coinvolti, una maggiore influenza nel modo in cui le conseguenze del reato sono trattate (Latimer et al., 2005; Sherman et al., 2015).

Le pratiche di giustizia riparativa danno maggiore rilevanza alla possibilità di coinvolgere e tenere conto dei bisogni delle vittime e degli autori di reato (Robinson & Shapland, 2007). Queste pratiche vogliono essere un mezzo di riparazione morale, psicologica e sociale (Zinsstag & Keenan, 2017).

Alcuni studi hanno riportato effetti positivi che includono: una diminuzione della rabbia, del bisogno di vendetta e dei sintomi del disturbo da stress post-traumatico delle vittime (Angel et al., 2014; Daly, 2003). Ciononostante, altri studi hanno riportato anche risultati negativi, come il peggioramento dei sentimenti di paura da parte delle vittime nei confronti degli aggressori (Wemmers & Cyr, 2005).

Anche riguardo ai pochi studi che hanno indagato l’impatto del contatto tra vittime e autori di reato sulla recidività, i risultati hanno rilevato dati contrastanti (Jonas-van Dijk et al., 2020; Livingstone et al., 2013).

Le procedure ed i possibili miglioramenti riguardanti il contatto tra vittime e autori di reato, o in generale riguardanti le pratiche di giustizia riparativa, sono state spesso studiate prima della sentenza come un’aggiunta al procedimento penale oppure in un contesto carcerario (Latimer et al., 2005; Sherman et al., 2015; Stewart et al., 2018; Strang et al., 2006; Wemmers & Cyr, 2005; Zebel et al., 2017).

L’incontro tra vittima e autore di reato

I dati sono ancora insufficienti; si hanno poche evidenze riguardo alle circostanze in cui potrebbe essere vantaggioso il contatto tra vittime e autori di reato, così come non si sa molto della presenza di specifiche caratteristiche degli autori di reato che potrebbero influenzare i risultati. Per questo, lo studio condotto nel 2020 da van Denderen e colleghi, ha come scopo quello di esplorare, in quattro ospedali psichiatrici forensi diversi, l’esperienza degli assistenti sociali durante l’incontro tra vittima e autore di reato.

In particolare, gli autori hanno intervistato 35 assistenti sociali su 56 casi di reato, investigando: la psicopatologia degli individui, il reato commesso, la relazione tra vittima e autore di reato, lo svolgimento del contatto e i possibili fattori di promozione o di ostacoli che possono occorrere.

Il risultato principale riguarda la capacità degli autori che hanno commesso reati gravi e con severi disturbi mentali di avere un contatto con la vittima, a seconda degli obiettivi e della tipologia di contatto. Infatti, gli assistenti sociali non hanno riscontrato particolari categorie di disturbi mentali o di reati che escludessero –“per definizione” e a priori– l’incontro.

 Gli assistenti sociali hanno inoltre riportato che il contatto tra vittime e autori di reato può determinare numerosi benefici; alcune vittime ottengono risposte alle loro domande e sono in grado di esprimere le conseguenze emotive del crimine al loro aggressore, mentre gli autori dei crimini riescono ad esprimere il loro rammarico alla vittima e riescono anche a ripristinare i possibili precedenti rapporti (in caso le vittime fossero parenti dell’aggressore).

In linea con i risultati di un precedente studio condotto nel 2015 (Cook et al., 2015), il processo preparatorio è risultato essere un altro fattore benefico, sia per la vittima che per l’autore di reato, anche in assenza di un contatto conclusivo.

Gli assistenti sociali hanno riscontrato determinate caratteristiche che risultano facilitare od ostacolare il contatto: secondo quanto riferito nelle interviste, la consapevolezza dei problemi causati, la capacità riflessiva ed una condizione psichiatrica stabile sono fattori che possono influire positivamente; al contrario, una comprensione scarsa del problema arrecato alla vittima, insieme ad aspettative irrealistiche su ciò che potrebbe succedere incontrando la vittima, sono fattori che possono influire negativamente.

Un dato importante è che, gestendo le aspettative delle due parti, nella maggior parte dei casi gli assistenti sociali sono riusciti a far avvenire il contatto nonostante le caratteristiche ostacolanti (Drennan, 2018).

I risultati di questo studio suggeriscono che la psicopatologia dell’autore di reato non è necessariamente determinante per il contatto con la vittima; in realtà, è stato riscontrato che molti dei risultati positivi dipendono dalle competenze degli assistenti sociali e del team per il trattamento, dal modo di gestire la psicopatologia e dalla forma di contatto che si decide di far intraprendere. Anche questo dato è in linea con i risultati precedenti che evidenziano che per permettere un contatto con autori di reato che soffrono di disturbi mentali, sia necessaria una maggior formazione e personale qualificato a lavorare con pazienti che soffrono di psicopatologie gravi (Garner & Hafemeister, 2003).

Una delle motivazioni principali che porta gli autori di reato a voler instaurare un contatto è il ripristino dei legami con i parenti (che sono state vittime). Questo è in linea con altre ricerche che hanno mostrato l’efficacia delle pratiche riparative nel rafforzare la rete di sostegno sociale (Hafemeister et al., 2012). Un ambiente familiare stabile e un forte sostegno sono risultati essere dei fattori protettivi nei confronti di individui che mostrano comportamenti violenti ripetuti (de Vogel et al., 2011).

Conclusioni

In conclusione, è stato riportato che il contatto tra vittima e autore di reato non dovrebbe essere scoraggiato a priori poiché, come riportato dagli assistenti sociali in questo studio, non sono state riscontrate specifiche categorie di disturbi mentali o reati per i quali il contatto è escluso per definizione. Facilitare il contatto è un processo complesso che richiede professionisti altamente qualificati, preferibilmente in gruppi multidisciplinari. È importante che la direzione degli ospedali forensi aiuti i propri professionisti a svolgere al meglio il loro lavoro, fornendo tempo, formazione e mezzi sufficienti all’organizzazione del contatto tra vittima e autore di reato (van Denderen et al., 2020).

 

Psicologia del giudicare: tra ragione e sentimento 

Il presente contributo vuole rappresentare uno spunto di riflessione psicologica che punta al superamento della dicotomia tra ragione ed emozione approfondendo il contesto della psicologia giuridica.

 

Abstract

 La sfera emotiva, infatti, rappresenta un contributo indispensabile per la razionalità, una mente senza emozioni non è per nulla una mente (Le Doux J, 1998). Pur riconoscendo la reale possibilità che influenze emotive possono essere alla base di ragionamenti sbagliati, non si può non considerare quello che gli studi psicologici (De Groot 1965; Chase e Simon 1973; Kahnemann 2011) hanno consolidato da tempo, ossia che è l’apporto emotivo a dare inizio al processo decisionale. Allora il focus non è più da considerarsi in termini di esclusione della dimensione emotiva, quanto di una sua indispensabile integrazione che deve passare dalla consapevolezza che l’emotività possa avere aspetti devianti ma anche virtuosi.

Alcune bussole per orientarsi

Per secoli le emozioni sono state contrapposte alla razionalità, ma mantenere questo atteggiamento mentale non permette di avere accesso alle dimensione emotiva che è sempre presente in ogni atto della ragione: negandole non si elimina certo il peso, anzi lo si rende un’incognita.

La difficoltà ad includere le emozioni all’interno del processo decisionale si evince anche dall’analisi delle teorie scientifiche proposte fino agli anni cinquanta. La principale teoria faceva riferimento ai principi della coerenza​ e della massimizzazione, invocando l’indipendenza dal contesto e la massima utilità. È solo a partire dagli anni 70 che con Simon, Premio Nobel dell’economia nel 1978, si inizia a comprendere come la complessità dei dati e i limiti cognitivi dell’uomo non permettono di operare solo e sempre attraverso logiche deduttive, ma è più vicina alla realtà quotidiana parlare di decisioni soddisfacenti. Nascono così le prime teorie descrittive che cercano di delineare il come in realtà gli individui prendono le decisioni. Si evidenzia l’importanza del ragionamento induttivo che consente di utilizzare l’esperienza passata per orientare il comportamento presente. Questo processo permette di arrivare a conclusioni plausibili e probabilmente vera. Ecco che la dimensione esperienziale inizia a palesarsi nel processo decisionale.

Kahneman e Tversky nel 1974 identificano delle scorciatoie che ognuno di noi utilizza nell’uso della propria esperienza: queste scorciatoie prendono il nome di euristiche. Gli autori ne rintracciano alcune: l’euristica della disponibilità in forza della quale gli eventi più facili da ricordare solo più disponibili. Un esempio è costituito da quanto ci sta accadendo: se dovessimo chiedere se nel 2020 in Italia ci siano stati più morti per Covid o di tumori molti risponderebbero di Covid ma non perché questo corrisponda al vero, ma solo perché la nostra esposizione mediatica rende più disponibile le informazioni relative ai decessi da SARS-2.

Un’altra scorciatoia è rappresentata dall’euristica della rappresentatività ossia più l’evento esaminato assomiglia alle caratteristiche di una determinata classe, più ne farà parte. Un esempio classico che spiega quest’euristica è dato da una serie di interviste nelle quali veniva chiesto a un soggetto di immaginare un cittadino a caso con gli occhiali che parlava in maniera pacata, che è ordinato e che legge molto; veniva poi chiesto loro di dire se tale individuo fosse un bibliotecario o un agricoltore. La maggior parte degli intervistati rispose che il soggetto era un bibliotecario laddove è evidente che per numero di abitanti il numero di agricoltori è di molto superiore a quello dei bibliotecari.

Un’altra euristica individuata dagli autori e quella dell’ancoraggio in forza della quale quando ci troviamo a valutare una serie di eventi i primi hanno su di noi, e sulla nostra scelta, un peso molto superiore ai successivi. Le euristiche descritte non sono artifici teorici, ma sono trappole cognitive, errori sistematici a cui tutti siamo esposti.

Di quanto la dimensione emotiva sia necessaria in ogni processo decisionale se n’è avuta prontezza anche dal punto di vista clinico: soggetti con danno prefrontale ventro mediale, nei quali era stata rilevata una incapacità a provare emozioni, non riuscivano più a prendere delle decisioni, a fronte dell’integrale capacità intellettiva, attentiva e mnestica (Damasio, 1995). Le predette osservazioni portarono Damasio e il suo gruppo di lavoro ad ipotizzare che le emozioni svolgessero una funzione di guida cognitiva nel processo decisionale.

Altro interessante spunto di riflessione sulle emozioni è quello dato da Michael Brady (2014), che sottolinea il valore epistemico delle emozioni in forza delle loro caratteristiche di riflessività. In altre parole la possibilità che il soggetto ha di riflettere sulle proprie decisioni, avendo consapevolezza dello stato un motivo che ha provato, permetterebbe un ulteriore approfondimento epistemico da parte del soggetto stesso. In quest’ottica le emozioni, attraverso pratiche virtuose, possono restituire credenze giustificate: questa riflessione aiuterebbe a correggere certi pregiudizi affinando il giudizio o mettendo a tacere certe considerazioni.

Accertato che la dimensione emotiva costituisce un elemento importante nei processi decisionali come possiamo però determinare il suo peso? E come questo varia da persona a persona?

Davinson (2012) prova a rispondere a queste domande definendo il concetto di stile emozionale come particolarità unica che caratterizza ogni persona. Tale stile, identificato come un pool affettivo del quale ognuno di noi è portatore, secondo l’autore sarebbe la combinazione di 6 dimensioni: resilienza, istinto sociale, autoconsapevolezza, sensibilità al contesto e attenzione. Per ognuna di queste dimensioni Davidson definisce specifiche caratteristiche neuronali e, benché lo stile emozionale rimanga piuttosto stabile nel tempo, esso può tuttavia essere modificato da esperienze contingenti.

La particolare combinazione tra elementi emotivi individuali, informazioni acquisite e modalità di elaborazione porterebbe a definire quelli che Susan Scott (1995) ha identificato come stili decisionali. L’autrice ne ha individuati cinque: lo stile razionale contraddistinto dalla ricerca completa delle informazioni per l’analisi delle alternative possibili e delle conseguenze; lo stile intuitivo con una particolare attenzione agli aspetti globali e la tendenza a decidere in base alle sensazioni; uno stile dipendente nel quale si tende a ricorrere a suggerimenti degli altri; uno stile esitante ed, infine, quello spontaneo caratterizzato dalla tendenza a decidere più velocemente possibile. Particolari eventi nella vita di ognuno determinano la costruzione del nostro assetto emotivo di base e questo esercita un peso sia nel processo decisionale che nella formulazione di un giudizio.

Altri elementi influenzano i nostri processi decisionali come l’umore, l’ansia, lo stress. Generalmente le nostre decisioni tendono a perpetrare il nostro umore. Ad esempio i soggetti ansiosi tenderebbero, nel processo decisionale, ad utilizzare un minor numero di informazioni e salterebbero alle conclusioni; inoltre, questi soggetti presenterebbero una maggiore difficoltà nell’apprendere dalle esperienze e sarebbero propensi a vivere ogni evento come nuovo.

Oltre alla dimensione emotiva, altre insidie possono determinare una involontaria faziosità del giudizio: sono tutte quelle serie di convinzioni di cui ognuno di noi è portatore. Parliamo della psicologia implicita intesa come quell’insieme di credenze e teorie che ognuno matura sul comportamento del prossimo, e della teorie della mente ossia la tendenza del soggetto ad attribuire stati mentali agli altri. Convinzioni, ad esempio, quali: i bambini specie se piccoli non sanno mentire; le prime dichiarazioni dei bambini sono quelle più genuine; se due testimoni dello stesso fatto dicono cose diverse uno dei due dice falso; sono spesso il frutto di queste trappole cognitive.

Questi elementi possono, inoltre, essere alla base di uno schema mentale che costruiamo ogni volta che veniamo in contatto con le informazioni o con una persona nuova. Numerosi studi (Willis, Torow; 2006) hanno mostrato come questi schemi tendono a resistere al cambiamento influendo sulle interpretazioni che il soggetto fornisce degli eventi (bias della conferma), ma vi è più: se si considera l’effetto priorità, in base al quale l’informazione che giunge per prima ha maggiore impatto rispetto a quella successiva, tali schemi possono far risentire i propri effetti anche quando si scopre che l’impressione iniziale è palesemente sbagliata.

In una visione ecologica del processo decisionale, inoltre devono introdursi anche elementi contestuali che incidono sul nostro funzionamento e si fa riferimento alla pressione sociale che in determinati casi può essere associata ad un particolare processo. Il quadro si complessifica ancor di più se si pensa che in ogni passo del processo del giudicare si possono introdurre elementi distorcenti ed ognuna proporre una propria specifica narrazione. Appare esemplificativo quanto ci ricorda Rovelli (2014) “noi non conosciamo il mondo com’è, costruiamo narrazioni che ci danno una struttura per concettualizzare il mondo, ma queste non possono essere prese per fondamento di una certezza poiché esistono altre narrazioni possibili”.

L’atto del giudicare

Probabilmente il pensare che giudicare non significa essere insensibili, ma essere in ascolto ci aiuta maggiormente a non pensare ragione e sentimento come entità separate. Colui che giudica, infatti, dovrebbe lasciarsi muovere dalla specifica esperienza nella quale è processualmente immerso perché tutti gli attori processuali sono anche attori emotivi. E ogni attore tende naturalmente a “punteggiare” in maniera personale la sequenza comunicativa organizzando secondo una specifica prospettiva. Per esempio il marito dirà che picchia la moglie perché questa lo insulta ma lei dirà che lei lo insulta perché lui la picchia. Il Pubblico Ministero giustificherà il proprio rigore con il ‘cattivo’ comportamento processuale dell’imputato il quale invece spiegherà la propria condotta come giustificata dal rigore del Pubblico Ministero ecc.” (Gulotta, 1987).

L’emotività è non solo un dato innegabile, ma è anche un qualcosa che può e deve essere integrato positivamente nell’iter decisionale.

Ragione e sentimento possono essere intesi, secondo la teorizzazione proposta da Kahneman (2011) come due sistemi a velocità differenti; due vie che guidano il nostro modo di decidere, un Sistema Euristico (Sistema 1) e un Sistema Analitico (Sistema 2).

Il primo sistema opera con modalità caratterizzate da rapidità, impulsività e automatismi; tutti funzionamenti difficili da controllare o modificare. Esempi del suo funzionamento sono i ragionamenti esplorativi nei quali si salta velocemente alle conclusioni. Nel mondo anglosassone, quando si vuol definire una decisione intuitiva, si fa ricorso all’espressione gut feeling. L’immagine evoca un modo di sentire viscerale. Questo sistema euristico può essere pensato come un inconscio cognitivo, un pilota automatico che, acquisito evolutivamente, ci permette di avere elementi per muoverci agevolmente nel mondo in maniera sufficientemente efficiente e senza sforzo, è il sistema che Altavilla (1948) annovera tra le “esperienze subcoscienti”. È in questo sistema che la dimensione emozionale rappresenta un elemento estremamente importante.

Il secondo sistema implica processi consapevoli, più ponderati e lenti, come quelli messi in campo quando si affronta un calcolo matematico.

Secondo questa teorizzazione S1 si farebbe carico del problema azzardando una soluzione che poi passerebbe al vaglio del sistema S2. In quest’ottica gli errori di giudizio sarebbero da ricercare nella difettosità del controllo operato da S2. Già Altavilla ammoniva: “l’intuito, proprio per questa sua origine, può alle volte dare risultati preziosi, alle volte creare un uniformismo pericoloso per il giudice. L’intuito è certamente una voce che sorge dall’incosciente, in cui si è accumulata la nostra esperienza e anche quella della razza, che precedendo ogni processo analitico di ragionamento, ci fa sentire come un avvenimento ha dovuto verificarsi. Ed alle volte questo giudizio anticipato si cristallizza così prepotentemente nella coscienza del giudice, che non soltanto le risultanze processuali non varranno a modificarlo ma egli, inconsapevolmente, si sforza di adattare questi risultati al suo convincimento”.

Trovare un giusto equilibrio tra ragione e sentimento è fondamentale per aumentare le probabilità di successo quando bisogna prendere una decisione. Ogni posizione estrema è espressione di una rigidità che diventa incapacità e limitatezza.

Tutto porta verso un inevitabile superamento della dicotomia classica tra emotivo e cognitivo, poiché l’emozione diviene parte fondamentale della cognizione. I sistemi neurofisiologici alla base di questi due circuiti sono interconnessi e grazie alla loro interazione permettono di scegliere le alternative comportamentali più adatte ad una specifica situazione. Emerge dunque da tale interconnessione la necessità delle componenti emotive per attuare un processo decisionale (Forza et al., 2017).

Lo stesso affidarci esclusivamente alla razionalità nei fatti porterebbe ad una stortura del funzionamento umano e con esso alla capacità di decidere. Essere dei signor Spock, come il personaggio della serie Star Trek, nei fatti costituirebbe una mortificazione del nostro stesso essere. Quasi alla ricerca di un’integrazione possibile il dott. Spock, teso a funzionare solo con la ragione è, nella rappresentazione narrativa, un vulcaniano; come se le sue origini riportassero comunque ad una necessaria integrazione emotiva.

 Come ricorda Gulotta “il pensatore logico e razionale non è affatto colui che è in grado di controllare e mitigare il peso delle emozioni, in quanto senza queste il processo decisionale sarebbe molto meno efficace ed adattivo. Gli stati emotivi, infatti, sono qualcosa di intrinsecamente legato al processo decisionale: nel prendere una decisione, e nel memorizzare il suo esito, va ad accrescersi in noi una ‘memoria emozionale’ che permetterà, in situazioni successive, di generare decisioni più rapide ed efficaci grazie all’attivazione del medesimo stato emozionale”. …Pertanto, ‘liberarsi’ dalle emozioni per diventare decisore migliore non solo non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile. Piuttosto, risulta utile conoscere ed essere consapevoli del funzionamento specifico delle reazioni emotive e del modo in cui queste si manifestano (Gulotta, 2018)

Esemplificazione clinica: il caso Tortora

Ogni teorizzazione, e non fanno eccezione quelle proposte nel presente contributo, propone un modo per leggere la realtà nella consapevolezza che ogni esperienza di vita mai si adatterà pienamente ad una definizione univoca o ad un modello seppur complesso.

Con questa premessa, nella seguente esemplificazione vogliamo provare, nella rilettura del caso Tortora, a identificare i possibili processi che probabilmente hanno sotteso alcune fasi di quello che venne definito da Giorgio Bocca (2010) come “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato dal nostro paese”. L’analisi proposta assume un ulteriore valore se si considera il costo che gli errori giudiziari hanno per l’erario del nostro Paese.

In Italia, solo per l’anno 2018 sono stati versati 33 milioni di euro per 895 casi di ingiusta detenzione. Si intende qui fare riferimento a coloro che subiscono una misura cautelare intramuraria o domiciliare per andare poi incontro ad una assoluzione. Per gli errori giudiziari sono stati versati, invece, circa 48 milioni di euro a fronte di 913 innocenti ingiustamente condannati. Si consideri errore giudiziario il caso in cui dal 1992 al 2017, a causa di condanne errate sono stati erogati quasi 700 milioni di euro; se si considerano anche gli errori giudiziari la somma ammonta a 768 milioni per un totale di 26 mila persone ingiustamente condannate (Gulotta, 2018).

Enzo Tortora è stato un giornalista, un conduttore (radiofonico e televisivo) e un politico. La carriera di Tortora viene bruscamente interrotta il 17 giugno 1983, quando viene arrestato con l’accusa di “associazione per delinquere di stampo camorristico”; viene accusato di essere un membro della Nuova Camorra Organizzata e di essere dedito allo spaccio di stupefacenti. Le accuse furono avanzate dalla Procura di Napoli, dai pubblici ministeri Di Pietro e Di Persia in seguito alle dichiarazioni di pregiudicati, assassini e camorristi: se ne contarono più di undici.

Su alcuni di questi personaggi appare opportuno spendere poche parole solo per identificare possibili “storture del giudicare”. Giovanni Pandico, uno dei primi a fare il nome di Tortora è per gli inquirenti “un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare ”. È probabile che lui diventa nella mente dei giudici una figura rappresentativa, un prototipo del “pentito”; ogni sua parola diventa fonte di preziosa informazione. A conferma di ciò ecco cosa dichiareranno i giudici nelle motivazioni del processo di primo grado “deve darsi atto al Pandico, al di là di qualsiasi valutazione critica sulla reale entità del suo contributo, di aver dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia, sposata con impeto e senza vie di mezzo”.

L’euristica della rappresentatività, come già precedentemente espresso nel presente contributo, nei fatti congela l’idea che si ha di una persona addebitandole caratteristiche che potrebbe non possedere.

Altri magistrati, quelli del così detto terzo troncone dell’inchiesta, probabilmente meno invischiati dall’euristica della rappresentatività su Pandico diranno “(…) non è stato mai affiliato alla Nco, Pandico ha dato corpo a sue personali convinzioni o a suoi personali risentimenti, che nel corso di questo procedimento non hanno risparmiato nessuna delle persone che hanno avuto un qualche rapporto con lui”. Ed è lo stesso Giovanni Pandico che ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, e che per i medici è “schizoide e paranoico”. Ritornando ai fatti: l’accusa prende corpo, di fatto, unicamente da un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con su scritto a penna un nome che appare essere, all’inizio, quello di “Tortora”, con a fianco un numero di telefono; nome che, a una perizia calligrafica, risulterà non essere il suo, bensì quello di tale “Tortona”.

Nemmeno il recapito telefonico risulterà appartenere al presentatore. Dal nostro vertice di osservazione la narrazione, probabilmente nella mente della procura inizia proprio con una fascinazione che la presenza di quel nome porta con sé: non a caso tutta l’operazione porta il nome Portobello, il nome della trasmissione televisiva. Una ponderosa operazione più di 850 mandati di cattura e 4000 arresti. All’epoca dei fatti il conduttore televisivo veniva seguito nella sua trasmissione da una media di 18.900.000 spettatori.

A partire da quello che potrebbe essere un banale errore di lettura di una grafia incerta, si innescano tutta una serie di dichiarazioni di pregiudicati che vanno a corroborare quella che Cecchin (1997) avrebbe definito “un’idea perfetta”.

Sull’importanza delle prime informazioni e sul loro peso si è già parlato quando si è fatto riferimento all’euristica dell’ancoraggio e all’effetto priorità. Le informazioni successive non si vanno mai a sommare algebricamente a quelle precedenti, secondo un principio commutativo; ma rimangono subordinate alle prime.

Il funzionamento della mente inquirente, come più volte descritto nel presente contributo, alla ricerca di coerenze nei fatti selezionerà solo le informazioni che corroborano l’ipotesi iniziale. Non sono sufficienti le dichiarazioni del proprietario dell’agendina che affermerà che il nome non è Tortora ma Tortona con tanto di numero telefonico associato; non saranno sufficienti le vistose incoerenze di luoghi e di tempi nei racconti dei pentiti.

Fissata l’idea che il noto presentatore fosse un camorrista questa diventa, probabilmente, l’immagine maggiormente disponibile (euristica della disponibilità) e quella alla quale più facilmente si farà riferimento tanto nella costruzione della narrazione degli inquirenti che dei pentiti.

A complicare quello che può essere definito un castello “autoportante” degli equivoci anche una lettera che un carcerato aveva scritto alla trasmissione condotta da Tortora: la redazione riceveva circa duemila lettere al giorno. Il detenuto aveva spedito una serie di centrini fatti a mano con la speranza che potessero essere venduti in trasmissione; questi manufatti vennero dispersi e dopo una serie di lamentazioni epistolari la trasmissione propose un risarcimento per la perdita del pacco. Questo carteggio nella visione ad imbuto degli inquirenti diventa un segno tangibile della compromissione di Tortora: i centrini all’uncinetto diventano linguaggio in codice per intendere gli stupefacenti e il debito reclamato diventa quello che il presentatore dovrebbe a seguito di una partita di droga sottratta all’organizzazione criminale di cui avrebbe fatto parte. Lo stesso detenuto confermerà che l’oggetto delle missive erano centrini e non altro, ma i magistrati ormai innamorati della loro tesi non solo non prendono in considerazione queste affermazioni, ma asseriranno che l’autore delle lettere sia un altro detenuto omonimo rispetto al dichiarante. Il 17 settembre del 1985 Tortora viene condannato a 10 anni di carcere e a cinquanta milioni di lire di multa. Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli: i giudici smontarono le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia.

Conclusioni

Tutti gli individui indipendentemente dall’ambito nel quale operano sono esposti a commettere errori sistematici per effetto dei naturali limiti della mente. La componente emotiva, lungi dall’essere sempre un elemento peggiorativo e distorcente, svolgerà una parte costruttiva nel processo decisionale. La razionalità, come ricorda Sutherland (2010), di una decisione deriva dalla pienezza del quadro conoscitivo che si possiede. Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni. L’obbligo della motivazione, relativamente ad un giudizio esprime, ed al tempo stesso garantisce, la natura cognitiva anziché discrezionale del giudizio stesso. È in forza della motivazione che la decisione risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. L’apporto di nuove conoscenze che le neuroscienze stanno dando al mondo del processo è destinato dunque a mettere in tensione categorie consolidate e tra queste forse anche quella del libero convincimento del giudicante. Scienza e giudizio non costituiscono, dunque, due entità separate ed indipendenti, bensì contesti esposti a una reciproca integrazione possibile alla luce di una epistemologia complessa.

 

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista al Prof. Paolo Moderato

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio. In questo numero pubblichiamo l’intervista al Prof. Paolo Moderato.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

 Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dall’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista al Prof. Paolo Moderato

State of Mind (SoM): Paolo Moderato, 72 anni di cui 46 spesi nell’università, è stato presidente di corso di laurea, direttore di dipartimento, direttore di scuola di dottorato, past president dell’associazione Europea di Terapia Comportamentale Cognitiva (EABCT), ora presidente di CBT Italia e professore emerito. Una storia che ci può aiutare ad affrontare il problema della formazione in psicoterapia. Lei è uno dei firmatari proponenti del manifesto per la psicoterapia. Perché questo manifesto?

Paolo Moderato (PM): Per rispondere devo fare un breve riassunto della storia recente della formazione in psicologia, che ho vissuto direttamente. Come alcuni ricorderanno, i primi due corsi di laurea in psicologia sono stati istituiti nel 1971 nelle facoltà di Magistero di Padova e di Roma. Per 15 anni, fino al 1986, queste sono state le due uniche sedi in cui si studiava per divenire psicologi, e questo ha creato degli effetti distorsivi: ad esempio si è arrivati a 1800 matricole all’anno, 12.000 iscritti per ogni sede, con le difficoltà che questi numeri comportano nel proteggere la qualità della formazione.

Nel 1978 è stata approvata la legge di riforma del servizio sanitario nazionale che ha consentito finalmente negli anni ottanta e novanta che questo alto numero di psicologi potesse essere inserito nel mondo del lavoro.

Nel 1986 il piano di studi del corso di laurea in psicologia è stato riformato, passando da 4 a 5 anni, articolati, come le facoltà di medicina e ingegneria, in un biennio formativo di base e in quattro trienni di indirizzo. Contemporaneamente il monopolio formativo Padova-Roma va a cadere con l’apertura di nuove sedi di laurea, la prima a Palermo, e a seguire, negli anni Novanta, Bologna, Milano, Trieste, Torino e via di seguito.

Nel frattempo in Parlamento veniva approvata la legge 56/89 sull’ordinamento della professione di psicologo, che istituiva l’ordine e l’albo degli psicologi. L’articolo 3 definiva la specificità della formazione quadriennale in psicoterapia, presso scuole di specializzazione universitaria o “istituti a tal fine riconosciuti”. Il riconoscimento avviene con la legge 127/97 (art 17 comma 96) e con il conseguente regolamento applicativo contenuto nel Decreto 509 del 1998.

Dopo il conseguimento del diploma gli allievi sono legittimati all’esercizio della psicoterapia.

Nel 1999 ha luogo la  riforma universitaria che modifica gli ordinamenti precedenti operando la distinzione tra laurea di primo e di secondo livello: questi due livelli di laurea venivano chiamati prima specialistica e poi magistrale. In base al decreto 270 del 2004 questa riforma viene applicata anche alla psicologia. Lo scopo di questa legge è evidente: quello di inserire più precocemente i giovani nel mercato del lavoro: purtroppo questo obiettivo non si è raggiunto e manca ancora un profilo professionale ben chiaro per i laureati di primo livello in psicologia.

Ultimo passaggio: 5 anni fa, nel dicembre del 2017, la psicologia è riconosciuta come professione sanitaria, inserita a pieno titolo nella tutela della salute dei cittadini, riconosciuta dalla nostra Costituzione. Il diploma di specializzazione non è solo il lasciapassare per l’esercizio della psicoterapia nel proprio studio privato, ma diviene anche il titolo che consente l’accesso ai concorsi di dirigente psicologo nel servizio sanitario nazionale, come già accadeva per i medici.

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto ora ha il diritto di sapere perché questa dettagliata introduzione.

SoM: Infatti, me lo stavo chiedendo anch’io.

PM: Ci sono due aspetti che mi preme sottolineare: in primo luogo la suddivisione in laurea triennale e laurea magistrale si è rivelata per la psicologia molto improduttiva, come è testimoniato dalla percentuale irrisoria di psicologi che si fermano al terzo anno e che sono iscritti alla sezione B dell’albo, qualche centinaio sugli oltre 100.000 psicologi. In realtà si è avuto un progressivo indebolimento della formazione psicologica, se prendiamo come punto di partenza e di riferimento il piano studi quinquennale del 1986, in cui i primi due anni erano destinati a una solida formazione di base e i tre anni successivi alla formazione specifica, mentre nella laurea triennale professionalizzante attuale bisogna fornire sia un po’ di formazione di base sia un po’ di formazione pratica, e questo ha creato problemi, di fatto contraendo entrambe le aree.

Data la formazione meno approfondita nasce l’esigenza sentita da moltissimi colleghi di ulteriore formazione, dopo la laurea, da ottenere con corsi di master e corsi di specializzazione. Il problema della formazione post lauream non riguarda solo la specializzazione in psicoterapia, ma anche i vari corsi di master in campo educativo e riabilitativo: ad esempio i corsi per DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), necessari per chi si occupa di trattamento psicologico dei ragazzi con problemi di dislessia o BES (bisogni educativi speciali), o i corsi di master in ABA (applied behaviour analysis, analisi applicata del comportamento) per coloro che si vogliono occupare di disturbi del neurosviluppo, e così via.

La seconda considerazione è che la distinzione fra interventi psicologici e psicoterapia, e la necessità di una specifica formazione post lauream, non è un’invenzione degli ultimi tempi, nasce insieme alla legge istitutiva dell’albo professionale, anche se trova piena applicazione solo alcuni anni più tardi. Allo stesso modo viene definito fin dall’inizio il doppio canale formativo per la psicoterapia, quello universitario e quello degli istituti privati. Anche questo punto ha delle spiegazioni possibili, ad esempio la scarsa tradizione di ricerca in psicoterapia in molte Università italiane, dovuto a scarsi mezzi, a ritardo nel riconoscimento della importanza della ricerca e a volte anche al dominio di modelli di terapia lontani dal mondo della ricerca. Di fatto la risposta alla domanda di formazione negli anni è stata coperta in gran parte dal privato accreditato dal MIUR. Ricordo altresì che la formazione privata accanto a quella pubblica non è peculiare della psicoterapia, dato che è presente in tutto l’arco formativo, potremmo dire dall’asilo nido fino all’università. Basta pensare alla scuola dell’infanzia delle suore o al modello Reggio Children, alle scuole Montessoriane o Steineriane, al liceo dei Salesiani o dei Gesuiti, alle università (pubbliche) non statali come Cattolica, Bocconi, San Raffaele, Kore e last but not least la Sigmund Freud University di Milano. Tutti questi enti formativi rilasciano titoli legalmente riconosciuti dallo stato italiano, esattamente come le scuole di specializzazione riconosciute, i cui programmi di insegnamento, tecnicamente gli ordinamenti didattici, sono autorizzati e verificati dal ministero dell’università, come accade per i corsi universitari. La necessità di avere più istituti formativi, che fanno riferimento a modelli clinici diversi, nasce dal fatto che la psicologia è ancora una scienza non unificata al cui interno coesistono prospettive cliniche e scientifiche diverse.

 Ci tengo a sottolineare questo punto perché uno degli argomenti usati pretestuosamente da qualche critico del manifesto per la psicoterapia è che questo manifesto persegue e difende interessi privatistici. Gli istituti riconosciuti rilasciano un titolo di studio che, lo ribadisco, non consente solo l’esercizio libero professionale della psicoterapia, ma è un titolo di accesso ai concorsi per dirigente psicologo nel servizio sanitario nazionale. Questo significa che nel servizio sanitario nazionale per prendere in carico il caso clinico di un paziente, è necessario che lo psicologo abbia conseguito una specializzazione quadriennale post laurea in psicoterapia. A onor del vero bisogna anche riconoscere che non tutti gli istituti di formazione psicoterapeutica, anche approfittando, e talvolta abusando, degli aspetti di debolezza di questa “diversità”, sono stati all’altezza del compito. Però ci sono due aspetti che mi fanno ben sperare per il futuro: in primo luogo, il lavoro della commissione tecnico scientifica presieduta dal collega Cesare Maffei, che sta procedendo a un riordino sistematico del settore. In secondo luogo, la crescente consapevolezza degli studenti, che con le loro scelte agiscono come meccanismo selettivo di qualità, premiando con la loro presenza le scuole di alta qualità clinica e scientifica e contribuendo all’estinzione progressiva di quelle scadenti.

SoM: Partendo da queste considerazioni arriviamo al punto nodale, che riguarda il bando dell’Ente Nazionale di Previdenza di  Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Qual è la sua analisi?

PM: Proviamo a fare una SWOT Analysis, un’analisi dei punti di forza (Strength), delle debolezze (Weaknesses), delle opportunità (Opportunities) e dei pericoli (Threats). Partiamo dai punti di forza. Il modello adotta una metodologia di trattamento per passi (stepped care); gli interventi sono commisurati alla necessità di trattamento. È basata sul principio di good enough, che non significa abbastanza buono ma buono quanto basta: gli interventi a bassa o ad alta intensità vengono applicati in funzione della necessità non in modo schematico. È basato su un modello empiricamente supportato di terapia (EST), erogazione di trattamenti basati su prove di efficacia. Fa riferimento ad un modello messo a punto e sperimentato da anni in Inghilterra.

SoM: Passiamo ai punti di debolezza.

PM: Il modello vivere meglio è preso dal progetto inglese IAPT (Improving Access to Psychology Therapies, accesso migliorato alle terapie psicologiche) che si basa su un modello formativo e clinico diverso da quello italiano. L’intervento psicoterapeutico in Inghilterra può essere erogato da professionisti diversi dallo psicologo (infermieri, assistenti sociali ecc.), formati ad hoc, che operano su prescrizione e sotto la supervisione di uno psicologo con una formazione clinica post lauream (specializzazione o dottorato). Lo stesso accade negli Stati Uniti, ricordiamo che Marsha Linehan era un’assistente sociale. Si tratta quindi di uno psicoterapista, che fornisce un aiuto di tipo sostanzialmente tecnico, l’equivalente psichico di uno fisioterapista. In Italia non è così come abbiamo visto, anche per la lunga storia storicista e umanistica tipica del nostro paese. Ciò richiede dei modelli di trasformazione che complicano il quadro e che il progetto “vivere meglio” a volte sembra non tenere in adeguata considerazione. Io penso però che il punto più critico sia la definizione di alta/bassa intensità e il rapporto con la tipologia di intervento. Se la bassa intensità definisce la necessità di un intervento non psicoterapeutico ma di sostegno clinico, allora nulla questio. Se invece la bassa intensità definisce la necessità di un intervento psicoterapeutico allora questo può essere erogato solo da uno specialista, a garanzia della salute del paziente. Il punto è l’ontologia della psicoterapia, ciò che la definisce come tale, non il dosaggio. Negli ultimi anni sono stati messi a punto, prevalentemente in ambito CBT, modelli di psicoterapia breve e brevissima che proprio in quanto tali richiedono una preparazione altamente specialistica del professionista che li mette in atto. Per fare un’analogia con la medicina, l’ontologia dell’antibiotico non varia se viene prescritto e somministrato come copertura per un semplice intervento odontoiatrico o come terapia per combattere una grave infezione batterica.

SoM: Ma ci sono anche delle opportunità in questo progetto?

PM: Penso che un progetto di interventi brevi, con prove di evidenza, erogati da persone con adeguata formazione che siano in grado di fare un’appropriata concettualizzazione del caso e di gestire correttamente l’alleanza/relazione terapeutica rappresenti certamente un’opportunità da sviluppare e sostenere buona idea che deve però essere migliorata e fare i conti in modo più articolato con la realtà italiana.

SoM: E i pericoli? Quali sono?

PM: I disturbi psicologici sono materia sensibile, vanno trattati con la competenza e la cura che si raggiunge solo con una preparazione approfondita. La preparazione prevista dal piano di trattamento non sembra rispondere adeguatamente a questi criteri, e questo può produrre mal practice e comportare un rischio per la salute del paziente. Nella formazione psicoterapeutica molte ore sono dedicate alla supervisione, da parte di un terapeuta esperto, ma nel piano questa parte è molto carente. Chi è coinvolto negli istituti di formazione sa che fonte di sicurezza la supervisione rappresenti per il giovane professionista che si deve comunque assumere dei rischi.

SoM: Secondo lei è fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

PM: Temo di sì. Tutti noi ricordiamo quando, da giovani, amici o conoscenti scoprivano la nostra formazione, l’incubo della domanda: “allora mi puoi spiegare la differenza tra psicologo, neurologo, psichiatra, psicoanalista, psicoterapeuta e così via?”

SoM: Qualche considerazione finale?

PM: Vorrei invitare tutti a moderare i toni, e a non cercare di scatenare una guerra interna al mondo psicologico che non gioverebbe a nessuno, certamente non ai nostri pazienti, che devono essere il nostro punto di riferimento, in scienza e coscienza. Più della metà degli psicologi iscritti all’Albo sono anche psicoterapeuti, e la richiesta di psicoterapia breve ed efficace è in costante crescita, in modo particolare dopo la pandemia, spesso da parte delle persone che sono state più colpite, come gli adolescenti e le persone più fragili. La risposta a questa crescente domanda di aiuto non può essere una diminuzione della qualità e del controllo della offerta clinica, anzi. Ricordare le differenze tra interventi psicologici e psicoterapia, differenze definite ab initio nella legge istitutiva, non significa togliere la clinica agli psicologi, anche se andrebbe magari definito che cosa si intende per formazione clinica, visto che ci sono oltre 50 etichette che definiscono la laurea magistrale in Psicologia (LM 51). Ma questo aspetto ce lo riserviamo per una prossima intervista.

 

Leggi le altre interviste relative al bando Vivere Meglio:

Covid-19: sostegno psicologico mirato per operatori sanitari in “prima linea”

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19

 

Riassunto

 L’articolo si propone di esporre l’importanza dell’intervento di sostegno psicologico tempestivo nei confronti degli infermieri che stanno affrontando in prima linea la pandemia da Covid 19. Nello specifico, viene illustrata la modalità di intervento dell’Area Funzionale Psicologia dell’Emergenza della S.C.Psicologia ASL TO3-Regione Piemonte.

Il sostegno psicologico offerto agli infermieri è mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. L’articolo descrive le modalità di trattamento ad indirizzo cognitivo comportamentale volte alla promozione delle abilità di coping e della resilienza, anche attraverso tecniche a mediazione corporea.

Il lavoro clinico svolto ha facilitato il rientro degli infermieri sul posto di lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte stress lavoro-correlato alla pandemia contingente, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Al termine del trattamento, i sanitari hanno riferito una migliore capacità di gestione delle emozioni, una percezione del proprio ruolo e della propria identità maggiormente basata sull’equilibrio tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e rispetto delle norme di prevenzione.

Abstract

The article aims to explain the importance of early psychological support to nurses who are facing the Covid 19 pandemic. In particular, the modality of intervention of the Functional Area Emergency Psychology of the S.C.Psychology ASL TO3-Piedmont Region is illustrated.

The psychological support offered to the nurses is aimed at reducing the anxiety and depressive symptoms linked to the difficult management of work in Covid departments. The article describes the modalities of cognitive behavioral treatment aimed at the promotion of coping skills and resilience, also through body mediation techniques.

The clinical work carried out has facilitated the return of nurses to the workplace, after a period of contagion or severe work-related stress to the contingent pandemic, preserving their skills and sense of effectiveness.

At the end of the treatment, health professionals reported a better ability to manage emotions, a perception of their role and identity more based on the balance between work and family life, between fear of infection and compliance with prevention standards.

Introduzione

Durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, la presa in carico integrale del paziente, il suo inserimento e accompagnamento all’interno di un percorso terapeutico sono stati gli obiettivi principali dell’assistenza, in cui hanno giocato un ruolo importante tutte le diverse figure dei professionisti sanitari.

Tutto questo, come sappiamo, è avvenuto in un contesto di incertezza generale, di paura, di urgenza e di aspettative, connotate dalla fantasia della popolazione, che viveva la percezione di essere in pericolo di vita, sperando di essere “salvati” dal personale sanitario.

In questo scenario, la figura sanitaria dell’infermiere è stata centrale, sia nei casi gravi ed urgenti, sia nei casi long term, così come nella prevenzione e nel conseguente evitamento di spreco di risorse pubbliche. L’infermiere, figura fondamentale nel rapporto quotidiano con il malato, ha quindi costituito un riferimento importantissimo nell’aderenza alle terapie da parte dei pazienti e nella sostenibilità del sistema di cura.

Da quando è cominciata l’emergenza sanitaria da Covid-19, i professionisti sanitari si sono impegnati in prima linea a fronteggiare l’epidemia nei vari setting del Servizio Sanitario: si sono esposti al rischio di infezione e a un sovraccarico emotivo; soprattutto in una situazione iniziale in cui vi era carenza di adeguati dispositivi di protezione individuale, hanno sostenuto turni di lavoro pressanti e la fatica fisica, hanno affrontato il lavoro di cura in un contesto di riduzione delle risorse umane e talvolta di precarietà organizzativa.

La letteratura scientifica (Krämer et al., 2016; Kushal et al., 2018) relativa allo stress lavoro-correlato aveva già ampiamente confermato come il settore sanitario fosse caratterizzato da fattori di rischio psicosociale, strettamente legati alla sicurezza e alla salute degli operatori e all’organizzazione lavorativa: turni, reperibilità, gestione di emergenze e urgenze, carenza di personale, confronto quotidiano con situazioni di estrema sofferenza, potenziale rischio di episodi di aggressione verbale e/o fisica. Tali fattori, in questo momento di emergenza, si sono inevitabilmente amplificati.

I vissuti del personale infermieristico

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19.

È emerso che siano principalmente quattro le tematiche emotive emergenti durante la pandemia: l’incertezza e la paura; l’alterazione nella percezione dello spazio e del tempo; l’attribuzione di un significato diverso al termine “to care”; il cambiamento nei ruoli e nelle relazioni multidisciplinari.

L’incertezza è stata una compagna costante della maggior parte degli infermieri coinvolti, sin dal primo giorno della diffusione del contagio. Questo ha scatenato un enorme disorientamento e mancanza di riferimenti, dettati dalla paura dell’ignoto, non solo riferibile alla mancanza di certezze diagnostiche e di cura, ma anche di tipo epidemiologico, alla paura di poter contagiare i propri familiari. Quest’ultimo aspetto ha spesso condotto alla decisione di isolarsi a garanzia dell’incolumità dei propri familiari.

Durante la prima ondata si sono dovute affrontare moltissime carenze, come ad esempio la mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuali o la disponibilità di risorse di personale estremamente limitata. Tuttavia, nel corso di un’epidemia, anche quando le misure preventive e protettive sono adeguate, il personale sanitario resta comunque esposto a un alto livello di stress psicologico oltre che fisico, aggravato ulteriormente dalla sofferenza per la perdita di pazienti e talvolta di colleghi, alla separazione prolungata dalla famiglia, ai cambiamenti nelle pratiche e nelle procedure di lavoro.

Tutto questo ha inevitabilmente determinato la necessità di fornire un maggiore supporto emotivo agli operatori.

Da alcuni studi (Brooks, 2020; Pierce et al., 2020; WHO, 2020) si rileva che, rispetto ad altre situazioni di emergenza sanitaria, come per esempio le catastrofi naturali, il fattore di rischio maggiore durante la pandemia da Covid-19 è stato proprio l’isolamento sociale, dovuto alle misure di distanziamento, alla quarantena o in alcuni casi alla discriminazione e all’assenza del sostegno familiare a causa del pericolo di contagio. Significativa è stata anche la riduzione del confronto con i colleghi e del rapporto con i pazienti dovuto all’aumento del carico di lavoro. È quindi frequente che emergano emozioni di rabbia, ostilità, frustrazione, senso di impotenza e che si manifestino sintomi depressivi e stati d’ansia con somatizzazioni, insonnia, aumento del consumo di caffeina, alcol e tabacco.

Una metanalisi condotta su 59 articoli (Kisely et al., 2020) e vari studi svolti in Cina sui rischi psicosociali dello stress tra il personale sanitario (Kang et al., 2019) durante le epidemie di SARS ed Ebola, durante la pandemia influenzale A/H1N1 e durante la gestione dell’epidemia Covid-19, hanno rilevato la comparsa di sintomi assimilabili a PTSD (Rossi et al., 2020). In particolare, uno studio trasversale condotto in Cina (Lai, 2020) su 1257 operatori sanitari impegnati nei presidi coinvolti nella gestione di pazienti con Covid-19 ha evidenziato come le donne, il personale infermieristico e coloro che lavorano nelle zone con maggiore concentrazione di casi (e che quindi più coinvolti nell’emergenza) hanno sintomi più intensi. Questo potrebbe essere imputabile al fatto che quando la domanda assistenziale è troppo elevata, non lascia spazio all’elaborazione di una risposta psicologica funzionale o alla formulazione di una richiesta d’aiuto da parte dell’operatore.

Le risorse del personale infermieristico

Le immagini trasmesse dai media inerenti al lavoro nei reparti e nelle terapie intensive hanno sicuramente reso l’idea della fatica affrontata dagli operatori nei mesi in cui i picchi della diffusione e della gravità dei sintomi del Covid-19 erano più intensi. Attraverso queste immagini vi è stata l’attribuzione da parte della popolazione di una qualità eroica a questa professione.

Il senso di advocacy della professione infermieristica è stato espresso in modo straordinario; infatti, molti infermieri hanno chiesto volontariamente di venire reclutati nei reparti Covid. Il ruolo degli infermieri nell’assistenza ai pazienti durante la pandemia ha fatto emergere la vera essenza della professione infermieristica, fatta di vicinanza, contatto fisico e di relazione con l’assistito, il cui valore più forte è stato sicuramente la costanza, la continuità in ogni fase della malattia.

Un fattore significativo di resilienza è stato la collaborazione tra i membri dell’équipe sanitaria, talvolta già presente e stabilizzata prima della pandemia, in altri casi, costruita ad hoc per far fronte a specifiche situazioni emergenziali.

L’intervento psicologico rivolto agli infermieri nell’ASLTO3

Durante la prima ondata della pandemia, presso la SC.Psicologia-AF.Psicologia dell’Emergenza dell’ASLTO3-Regione Piemonte, è stato messo a punto uno specifico protocollo rivolto a tutta la popolazione del territorio, agli operatori sanitari e nello specifico agli infermieri professionali. In particolare, è stato diffuso un numero di telefono e un indirizzo mail al quale presentare richiesta di supporto. La coordinatrice dell’A.F. Psicologia dell’Emergenza ha effettuato un primo contatto con le persone che richiedevano aiuto, prevedendo l’assegnazione ad un collega psicoterapeuta per l’avvio di un percorso psicologico, ove possibile, entro 48 ore. Particolare attenzione è stata data alla celerità della risposta alle richieste provenienti dal personale sanitario, al fine di contenere fin da subito i vissuti di solitudine e incertezza e di promuovere autoefficacia ed empowerment, fondamentali per poter affrontare nei migliori dei modi l’elevata richiesta in ambito lavorativo.

In base alla richiesta della persona, si sono proposti percorsi di consulenza o di psicoterapia focale. In particolare, gli psicoterapeuti a indirizzo Cognitivo Comportamentale appratenti all’A.F Psicologia dell’Emergenza hanno messo a punto un protocollo di intervento rivolto alla figura dell’infermiere professionale.

L’assessment

La presa in carico prevede un primo colloquio clinico con la funzione di avviare la relazione d’aiuto attraverso l’ascolto empatico, individuando i bisogni che hanno spinto la persona a chiedere supporto e raccogliere informazioni riguardo al disagio alla base della richiesta. Fin da subito è prevista l’esplorazione delle risorse personali fondamentali in tutte le fasi del percorso successivo.

Laddove emergevano sintomi legati al PTSD, veniva somministrato il Clinician Administered PTSD Scale (CAPS), o in alternativa, l’International Trauma Questionnaire (ITQ), entrambi strumenti finalizzati alla valutazione della presenza di sintomi psicopatologici, durata e gravità del quadro clinico. Inoltre, a inizio e fine percorso, veniva proposta la compilazione del Clinical Outcomes in Routine Evaluation-Outcome Measures (Core-OM), per valutare l’efficacia dell’intervento psicologico.

Nei colloqui iniziali si è chiesto all’operatore-paziente di ripercorrere i momenti lavorativi e familiari che lo avevano messo maggiormente alla prova, che potevano aver influito sulla normale gestione emotiva quotidiana. Le esperienze riportate si discostavano in modo marcato dai vissuti derivati da tanti anni di lavoro nei vari reparti, anche se gli infermieri presi in carico avevano già precedentemente lavorato in contesti connotati da esperienze emotive molto forti, come il pronto soccorso, i reparti oncologici infantili, le terapie palliative ecc.

Nei colloqui effettuati, è stata trasversale la paura del contagio, legata anche all’utilizzo dei vari dispositivi, oggetto di nuovi protocolli d’uso che nel tempo si sono modificati.

 Nel contesto di pandemia, strategie funzionali prima perseguite con successo, hanno perso di efficacia: i protocolli hanno determinato infatti nuove disposizioni su come i dispositivi dovevano venire indossati e sull’idoneità dei contesti, con particolare attenzione alla gestione dei momenti di pausa, quando l’attenzione dell’operatore anche a causa della stanchezza, tende a venire meno. Spesso la tensione saliva nel cercare un raccordo fra modalità differenti di perseguire quanto indicato dalle varie linee guida.

Tutto ciò ha costituito inevitabilmente una fonte di preoccupazione, perplessità, tensione e rabbia, che andava inevitabilmente a minare la buona cooperazione e il clima emotivo all’interno del gruppo di lavoro.

Il tema del contagio ha condizionato spesso il contesto extra-lavorativo. Episodi di cronaca nazionale riportavano contagi estesi, partiti da soggetti che si recavano in contesti sanitari e, una volta infetti, diffondevano il virus indiscriminatamente. Soprattutto durante la prima ondata, quando si avevano poche e frastagliate informazioni sul virus, era prevalente il vissuto di impotenza e di incertezza.

Essere possibile fonte di contagio di Covid-19 all’interno del proprio ambito familiare, soprattutto se costituito da bambini e anziani, ha influito ulteriormente sullo stato ansioso e sul tono dell’umore degli operatori.

Fase 2: il trattamento

Agli infermieri che hanno richiesto un sostegno psicologico è stato offerto un trattamento focalizzato, costituito da una media di dieci colloqui, mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. Si è lavorato in parallelo sulle strategie di coping e sul tema della resilienza, sottolineando l’esperienza acquisita dal professionista in pregresse situazioni di emergenza, ancorandolo a dati di realtà che restituivano un alto livello di preparazione e professionalità.

Quando emergeva la presenza di importanti traumi pregressi non elaborati, che si riattivavano in modo importante, è stato necessario prevedere percorsi più lunghi per favorire la rielaborazione dei vissuti traumatici.

Durante il trattamento si è dato ampio spazio alle tecniche di ristrutturazione cognitiva, intesa come ridefinizione dei pensieri negativi disfunzionali e alle false credenze relative alla pandemia. Questo ha permesso di riportare l’operatore a un piano di razionalità. L’utilizzo delle linee guida per la gestione dei pazienti positivi al Covid-19, l’attenzione nel seguire le indicazioni fornite dalla Direzione, sono state rilevanti a livello di conoscenza oggettiva e hanno favorito l’acquisizione di buone pratiche per la copertura dal rischio.

È stato importante valorizzare le precedenti esperienze professionali dell’operatore, anche se ciò ha comunque comportato in parallelo una forma di adattamento. La pandemia ha portato gli operatori sanitari a confrontarsi con l’impossibilità di aiutare il paziente in situazioni di grave patologia. Molti infermieri chiamati a lavorare nei reparti Covid-19 avevano già lavorato in passato in reparti ad alta intensità emotiva, con malati terminali o pazienti molto gravi. Ciò che differiva a livello di gestione pratica ed emotiva, secondo quanto riportato nei colloqui effettuati, è stata la repentinità con cui si aggravavano i pazienti infetti: questo ha comportato una difficoltà di gestione della sofferenza fisica ed emotiva del malato, accentuata dall’assenza del familiare, che avrebbe potuto contribuire ad alleviare il senso di paura e di smarrimento del proprio caro.

La gravità dei pazienti, la solitudine nella gestione, gli aggravamenti improvvisi e il carico di lavoro hanno portato spesso ad un cambiamento nella modalità di comunicazione delle diagnosi, che gli operatori hanno vissuto come salto temporale indietro, rispetto ai diritti acquisiti negli anni sulla comunicazione della diagnosi di malattia e dell’acquisizione di quanto disposto dall’articolo 4 del codice deontologico degli infermieri, secondo cui “il tempo di relazione è tempo di cura”.

L’empatia, punto portante del lavoro dell’infermiere, è stata messa quindi a dura prova. Spesso l’operatore descrive la sensazione di sentirsi “svuotato” a fine turno. Stanco a livello fisico per le enormi incombenze a cui è sottoposto, ma ancora più provato dall’impotenza, dall’identificazione vissuta in modo marcato con pazienti in fase terminale, che spesso in poche ore erano deceduti.

L’immagine che rimane in genere più impressa è stata la procedura di trasporto delle salme nelle camere mortuarie che spesso erano stanze improvvisate. La persona di cui avevano avuto cura fino a poche ore prima, si trasforma in un oggetto di possibile trasmissione di contagio, che deve essere il prima possibile reso “innocuo” attraverso procedure di disinfezione delle salme. Tali metodi sono stati molto pesanti da praticare da parte degli operatori, perché vissuti come vilipendio nei confronti del deceduto.

Queste esperienze spesso diventano ricorrenti nei pensieri del personale che ha svolto questi compiti. I colloqui venivano mirati alla ricerca di significato che permettesse all’operatore di poter perseguire questi nuovi mandati, in netta contrapposizione con il tema dell’empatia e del prendersi cura della persona in difficoltà.

Nei colloqui, è emersa spesso la necessità di una ridefinizione del tema dell’empatia. Spesso l’operatore partiva dalla fantasia che fosse di qualcosa di indefinito, sia a livello qualitativo che quantitativo, spesso erroneamente ricondotta solamente a una caratteristica personale o ad una disponibilità innata. Nello specifico, si è cercato di lavorare sul pensiero disfunzionale relativo al concetto di “risorsa inesauribile”, cercando di circostanziarla meglio come “risorsa limitata, soggetta a stanchezza, da distribuire con attenzione e moderazione”; una parte della quale deve essere obbligatoriamente riservata a se stessi e alle relazioni al di fuori del contesto lavorativo. Tale presa di coscienza ha in molti casi permesso all’infermiere di riconoscerne il limite naturale, immodificabile a livello quantitativo, ma controllabile nell’erogazione.

Il senso di colpa relativo al non essere stati sufficientemente empatici con tutti i pazienti seguiti durante il proprio turno viene quindi sostituito da una maggior consapevolezza e senso di controllo da parte del professionista. Questo è stato utile per minimizzare il rischio di esaurire tutte le energie troppo presto e per evitare un progressivo processo di chiusura e distacco nella vita familiare ed amicale, causa di inevitabile bourn out.

Una parte del trattamento psicoterapeutico ha previsto l’utilizzo di tecniche a mediazione corporea. Lo stato di tensione continua in cui hanno vissuto gli infermieri nel periodo della pandemia, ha originato una serie di sintomi neurofisiologici, quali agitazione, insonnia e tachicardia, ma anche stanchezza e dolori muscolari, di difficile gestione sia nelle ore di lavoro con i dispositivi di protezione, sia nelle ore di riposo.

Quando le persone sono esposte ad un evento stressante si ha un’attivazione del sistema nervoso simpatico, che a sua volta determina un aumento della produzione di sostanze in grado di regolare l’espressione dei geni preposti alla produzione di proteine, che determinano infiammazione a livello cellulare. Questi effetti infiammatori della reazione “attacco-fuga” rinforzano temporaneamente l’attività del sistema immunitario.

Lo stress psicologico di lunga durata, al contrario, pare incidere sulla persistente espressione dei geni pro-infiammatori, con ricaduta negativa su problemi medici e psichiatrici.

Oggi la Teoria Polivagale di Porges sottolinea che quando il nostro sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, queste possono diventare potenzialmente dannose per la nostra salute, poiché viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo.

La Teoria Polivagale (Porges, 2013) pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché uno unico e sull’importanza della relazione gerarchica tra loro. Esiste una reazione simpato-adrenergica ventro-vagale, responsabile delle nostre risposte di mobilizzazione (attacco/fuga); ma c’è anche una reazione dorso-vagale, che quando è attivata in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi, consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria e prolungata.

Le tecniche di rilassamento rientrano nella categoria degli interventi psicofisiologici, cioè quegli interventi che prendono in considerazione l’inscindibile interazione tra vissuti mentali e vissuti corporei, cercando integrazione ed equilibrio tra le due componenti.

In particolare, sono stati utilizzati il training autogeno (T.A.) di Schultz e la respirazione lenta.

Il training autogeno consiste nell’apprendimento e nell’allenamento costante di una serie di esercizi di rilassamento di tipo autoindotto. L’obiettivo è insegnare al paziente una modalità alternativa di rispondere ad un determinato stimolo, attraverso l’esposizione progressiva e la conseguente risposta controllata. Una volta appreso, diviene uno strumento che il soggetto può utilizzare in autonomia, in situazioni diverse della vita quotidiana.

La respirazione lenta si rivela particolarmente efficace nel caso di forti emozioni, come ansia o collera. Entrambe sono buone strategie da mettere in pratica senza richiedere particolari setting o attrezzature.

Conclusioni

Introdurre una forma di riflessione di risparmio delle energie emotive, permette di essere maggiormente consapevoli dei propri disagi e di passare da un ruolo di spettatore passivo ad una situazione di maggiore utilizzo delle strategie di coping e self-efficacy.

Il senso di advocacy che ha costituito una grande spinta per gli infermieri a lavorare con determinazione durante la pandemia, non deve essere confuso con l’ignorare il senso di limite personale, che spesso viene letto come freno verso possibili azioni più determinanti. Portare avanti il mandato professionale, rispettando sé stessi, porta al raggiungimento del target professionale ed in parallelo tutela l’operatore.

Spesso gli operatori che hanno richiesto un aiuto psicologico sono giunti al Servizio di psicologia dell’emergenza già provati da periodi prolungati in reparti Covid-19; alcuni sono stati contagiati dal virus con conseguenze fisiche ed emotive in certi casi rilevanti.

La richiesta psicologica riportata è di un periodo di distacco in altri contesti per poter “prendere fiato”. A livello clinico, tenendo anche in considerazione l’importanza della presenza di professionisti preparati in reparti Covid-19, si evince quanto possa essere utile, più che un periodo prolungato di mutua, un rientro in altri contesti, anche riconducibili alla prevenzione dal Covid-19 (vaccinazioni o tamponi) o in ambulatori “puliti”. Infatti, il prolungamento della mutua può in alcuni casi accentuare una percezione di isolamento, una maggior sensazione di vulnerabilità e di inefficacia. Un reinserimento in altri reparti porta spesso progressivamente il professionista a reinstaurare una nuova modalità di svolgere il proprio lavoro, riappropriandosi del proprio ruolo e della propria identità di “operatore efficace”.

È stato quindi facilitato il bisogno dell’operatore di rientrare rapidamente al lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte malessere derivato dalla situazione contingente, orientandolo su altri reparti o su altre mansioni, quando possibile, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Il lavoro sulle strategie di coping, promuovendo la resilienza, con l’ausilio anche di tecniche a mediazione corporea, ha permesso all’operatore di avere un maggiore controllo emotivo e neurofisiologico in situazioni di stress.

Al termine del trattamento la maggior parte degli infermieri presi in carico hanno riferito di essersi riappropriati del proprio ruolo e della propria identità, ristabilendo un buon equilibrio tra empatia e professionalità, tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e buona prevenzione, tra senso di isolamento e condivisione di sensazione, riscoprendo i punti di forza dei propri confini\limiti. Hanno riferito di “gestire” meglio le emozioni, recuperando l’idea di poter fronteggiare le nuove ondate di pandemia assieme ad altri colleghi che possono vivere in parallelo disagi, paure e timori, ma con la convinzione di avere un obbiettivo condiviso ed affrontabile.

Alcune indicazioni pratiche tratte dall’analisi della letteratura

Riportiamo alcune indicazioni sulla prevenzione dello stress emotivo degli operatori sanitari legato alla situazione di emergenza da Covid-19.

Indicazioni per le Aziende sanitarie e i Dirigenti delle strutture sanitarie

  • Garantire una buona comunicazione e fornire al personale aggiornamenti precisi e accurati su ciò che sta accadendo. Questo può contribuire a mitigare le preoccupazioni degli operatori legate all’incertezza e far percepire un senso di controllo.
  • Riferire feedback positivi utili a rafforzare il valore e l’importanza del ruolo svolto.
  • Promuovere il lavoro in team. Il Buddy system, per esempio, è un metodo che prevede che due colleghi coinvolti nell’emergenza lavorino affiancati, divenendo responsabili della sicurezza personale l’uno dell’altro e sostenendosi nella reciproca capacità di affrontare circostanze avverse.
  • Facilitare l’accesso ai servizi di supporto psicologico, assicurandosi che il personale sia a conoscenza di come e dove accedervi, incluso il supporto telefonico o altre opzioni di servizio a distanza, se disponibili.

Indicazioni per gli operatori sanitari

  • Organizzare, per quanto possibile, il lavoro, mantenendo un monte ore ragionevole e facendo delle pause. Durante la fase acuta dell’emergenza è fondamentale garantirsi degli spazi di tregua per riposare e riflettere sull’esperienza che si sta vivendo. Gestire lo stress e occuparsi della propria salute mentale è importante per mantenere la salute fisica.
  • Utilizzare strategie individuali di gestione delle difficoltà (coping) rivelatesi efficaci in altri contesti può aiutare a superare anche una situazione completamente nuova e senza precedenti come l’attuale emergenza da COVID-19.
  • Confrontarsi con i colleghi è fondamentale sia per coordinare le attività, sia per condividere la percezione personale e trovare un supporto reciproco, rispettando i diversi modi di reagire alla situazione critica. Esplicitare un riconoscimento professionale nei confronti di un collega può rafforzare la motivazione e moderare lo stress.
  • Cercare di mantenere stili di vita salutari, mangiando e idratandosi a sufficienza e in modo sano per essere in condizioni di affrontare la pressione che inevitabilmente viene accumulata. Ridurre l’assunzione di caffeina, nicotina e alcol.
  • Concedersi sonno e riposo adeguati a ricaricarsi, fare un po’ di esercizio fisico.
  • La pressione, lo stress e i sentimenti associati, possono far emergere sensazioni di impotenza e inadeguatezza verso il proprio lavoro. È importante, quindi, riconoscere ciò che si è effettivamente in grado di fare per aiutare gli altri, valorizzando anche i piccoli risultati positivi; riflettere su ciò che è andato bene e accettare ciò che non è andato secondo le aspettative, riconoscendo i limiti legati alle circostanze. È anche importante stare in contatto con gli stati d’animo personali, essere consapevoli del carico emotivo, imparando a riconoscere sintomi fisici e psicologici secondari allo stress. Prendersi cura di sé e incoraggiare i colleghi a farlo è il modo migliore per continuare a essere disponibili con i pazienti.
  • Rimanere in contatto con gli amici, la famiglia o altre persone di cui ci si fida per parlare e ricevere sostegno, anche a distanza.

 

L’attaccamento sicuro-guadagnato: perché un’infanzia avversa non è un destino ineluttabile

Lo studio di (Dansby Olufowote et al. (2020) ha lo scopo di specificare in quali condizioni e tramite quali comportamenti è possibile un cambiamento positivo nello stile di attaccamento giungendo all’attaccamento sicuro-guadagnato.

 

Cos’è l’attaccamento sicuro-guadagnato?

 Con l’espressione “attaccamento sicuro-guadagnato” (Earned Secure Attachment), la letteratura fa riferimento al processo attraverso cui una persona che ha sviluppato in infanzia un attaccamento insicuro riesce, in un’epoca successiva della vita, ad acquisire un nuovo senso di sicurezza (Hesse, 2008; Main et al., 2008; Saunders et al., 2011).

Ma come fanno realmente gli adulti con una storia di attaccamento insicuro a “guadagnare” sicurezza interiore? Quali specifiche condizioni rendono possibile questo processo?

Lo studio di Dansby Olufowote e colleghi (2020) ha lo scopo di colmare alcune lacune presenti nella letteratura sull’attaccamento che, pur citando la possibilità di sviluppare un attaccamento sicuro a seguito di un’infanzia avversa, non ha mai esplicitato i processi attraverso cui si possa compiere tale cambiamento. Manca, di fatto, un modello esplicativo che spieghi non solo se lo stile di attaccamento possa cambiare nel corso della vita, ma anche come questo possa modificarsi e sotto quali condizioni. A partire da questa domanda di ricerca, gli autori hanno cercato di rispondere muovendo da una serie di considerazioni teoriche fondamentali.

Innanzitutto, nella paradigmatica teoria di Bowlby (1969), l’attaccamento è quel legame affettivo che si forma in infanzia nell’esperienza relazionale col caregiver e che permane in età adulta sotto forma di modelli operativi interni (Ainsworth e Bell, 1970). Questi ultimi influenzano lo stile relazionale dell’individuo, dal momento in cui lo portano a proiettare le aspettative interpersonali, esperite nei legami primari, anche nelle relazioni dell’età adulta, aspettandosi o meno che l’altro sia degno di fiducia, dipendenza e sicurezza (Mikulincer & Shaver, 2007). A seconda della disponibilità e responsività ricevuta dal caregiver, il soggetto svilupperà un legame di attaccamento sicuro o insicuro (quest’ultimo può essere di tipo evitante o ansioso), che condizionerà le sue relazioni successive. Un’ampia mole di letteratura testimonia i numerosi benefici a lungo termine associati a uno stile di attaccamento sicuro, così come molti sono i dati a sostegno dei costi che un attaccamento insicuro porta con sé (Dutton e White, 2012). Se queste sono le premesse, è importante e doveroso esplorare la possibilità che le persone possano ottenere la “base sicura” interiore (Bowlby, 1969) che è mancata in un’infanzia avversa. Come affermato dallo stesso Bowlby (1969), anche se lo stile di attaccamento pone le sue radici nei primi anni di vita e informerà sempre del modo in cui l’individuo vede il mondo, i modelli operativi interni sono in continua revisione, influenzati dalle esperienze sociali conseguenti che possono disattenderne le aspettative (Mikulincer e Shaver, 2007). In questa direzione, il suddetto studio (Dansby Olufowote et al., 2020) ha lo scopo di specificare in quali condizioni e tramite quali comportamenti tale cambiamento positivo nello stile di attaccamento può avvenire.

Come si costruisce l’attaccamento sicuro-guadagnato?

Sullo sfondo metodologico della teoria costruttivista e dell’utilizzo di interviste semi-strutturate, gli autori hanno individuato una teoria coerente capace di descrivere, in generale, il processo di “guadagno” della sicurezza nel sistema d’attaccamento, a partire da tre principali categorie di processi (Dansby Olufowote et al., 2020):

Meta-condizioni per acquisire sicurezza, trasversali nel tempo e nelle altre due categorie, perché facilitatori nel progresso continuo verso un attaccamento sicuro. Esse includono:

  • l’intenzione e la motivazione al cambiamento nell’attaccamento, perché la trasformazione non avviene per caso, ma occorre impegno e sforzo continuo;
  • la capacità di superare gli ostacoli lungo il percorso, che non può essere lineare;
  • essere supportati da un percorso di psicoterapia o aiuto personale, dove sia centrale la relazione col terapeuta;
  • avere figure di attaccamento alternative a quelle familiari, con cui relazionarsi positivamente e in modo inedito.

Cambiamenti intrapsichici, di tipo emotivo, cognitivo e spirituale, osservati interiormente alla persona che ha cambiato stile di attaccamento. Essi coinvolgono:

  • ridefinizione della propria identità e del proprio valore come essere umano, riformulando le percepite qualità negative personali come punti di forza;
  • abbandono della mentalità vittimistica, che vede il Sé determinato dal proprio passato, in virtù del quale ha un ingannevole diritto ad agire in maniera insicura.

Cambiamenti interpersonali, riscontrabili nelle azioni relazionali che hanno aiutato la persona a modificare lo stile di attaccamento, fra cui:

  • fare pace col proprio passato, sperimentando sentimenti nuovi e positivi associati alla propria infanzia;
  • vedere la propria famiglia d’origine sotto un’altra luce, consapevole dell’insicurezza dei comportamenti da loro attuati in infanzia e del nuovo e necessario modo di rapportarsi a loro nell’attualità;
  • provare manovre relazionali che aprano all’altro, in cui assumersi piccoli rischi e provare ad avere fiducia.

 Nel rispondere alla domanda di ricerca, la teoria che si è venuta a formulare delinea un processo multifattoriale di cambiamento positivo nello stile di attaccamento, che prevede acquisizione di sicurezza su tre piani relazionali: con la propria famiglia d’origine, con se stessi e con gli altri (Dansby Olufowote et al., 2020). Tale considerazione finale ha implicazioni cliniche dal valore inestimabile. Se si pensa che, fino a qualche tempo fa, gli studiosi ritenevano che lo stile di attaccamento formatosi in infanzia non si sarebbe potuto modificare molto durante la crescita (Waters et al., 2000), i passi fatti per scardinare il determinismo di un attaccamento insicuro e, parallelamente, approfondire la processualità dello stile di attaccamento sono stati molti. In questo caso, lo studio ha avuto il merito di sottolineare l’importanza della presenza di alternative figure di attaccamento, che vicarino il bisogno di sicurezza mancato in età infantile, il ruolo della terapia, per vivere un’esperienza relazionale ed emozionale correttiva, e la necessità di cambiamenti duplici, intrapsichici e interpersonali, per acquisire uno stile di attaccamento sicuro anche in un’epoca successiva della vita. Di questo, ciò che dovrà interessare i professionisti della salute mentale è allora la centralità della relazione, comun denominatore alle variabili di cambiamento sopra citate, nella quale poter vivere un’esperienza di sicurezza inedita e trasformativa (Dansby Olufowote et al., 2020).

 

cancel