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Disturbo Evitante-Restrittivo dell’assunzione del cibo

Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo non si riferisce a un periodo di sviluppo limitato: può essere diagnosticato durante tutta la vita

Per poter diagnosticare il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo è necessario escludere che l’ alimentazione selettiva non sia dovuta ad altre cause: la mancata disponibilità di cibo, fattori culturali, una malattia medica concomitante o un altro disturbo mentale che possano meglio spiegarlo (ad es. anoressia e bulimia nervosa), inoltre si deve poter escludere che l’evitamento del cibo abbia a che fare con il timore di ingrassare e con un eccessiva attenzione al corpo (peso e forma).

Disturbo Evitante-Restrittivo dell'assunzione del cibo: i criteri diagnostici

Disturbo selettivo dell’alimentazione e DSM 5

Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) è stato introdotto nel 2013 nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), dove i disturbi della nutrizione dell’infanzia e i disturbi dell’alimentazione sono stati unificati nella stessa categoria diagnostica: i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (ossia ARFID, il disturbo di ruminazione e la pica).
 Il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) si sostituisce al Disturbo della nutrizione nell’infanzia o prima giovinezza (FD) descritto nel DSM-IV TR. A differenza di quest’ultimo, l’ARFID non fa riferimento a un periodo dello sviluppo limitato, con il vantaggio di poter essere diagnosticato durante tutto l’arco di vita.

Inoltre, nel DSM 5 la compromissione del funzionamento non si limita a parametri di peso e sviluppo fisico, ma si estende anche a valutare eventuali carenze nutrizionali dovute ad un’ alimentazione selettiva esagerata. I Criteri diagnostici sono:

A – Un’anomalia dell’alimentazione e della nutrizione (ad es. assenza di interesse per l’alimentazione o per il cibo; evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo) che si manifesta attraverso una persistente incapacità di assumere un adeguato apporto nutrizionale e/o energetico associata con una o più delle seguenti:

  1. Significativa perdita di peso o nei bambini incapacità a raggiungere il peso relativo alla
 crescita
  2. Significativa carenza nutrizionale
  3. Dipendenza dalla nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali
  4. Marcata interferenza col funzionamento psicosociale

B – Il disturbo non è connesso con la mancanza di cibo o associato a pratiche culturali.
C – Il disturbo non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia o bulimia nervosa e non vi è evidenza di anomalia nel modo in cui è percepito il peso e la forma del proprio corpo.
D – L’anomalia non è meglio attribuibile a una condizione medica o ad un altro disturbo mentale. Se il disturbo alimentare si manifesta nel corso di un altro disturbo, la sua importanza supera quella del disturbo di base e richiede attenzione clinica.

Ovviamente per poter diagnosticare il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo è necessario escludere che l’ alimentazione selettiva non sia dovuta ad altre cause: la mancata disponibilità di cibo, fattori culturali, una malattia medica concomitante o un altro disturbo mentale che possano meglio spiegarlo (ad es. anoressia e bulimia nervosa), inoltre si deve poter escludere che l’evitamento del cibo abbia a che fare con il timore di ingrassare e con un eccessiva attenzione al corpo (peso e forma).

L’ARFID può esprimersi con motivazioni differenti e questo ha permesso di identificare tre diversi sottotipi: nel primo sottotipo il cibo viene evitato per un’apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo, si tratta di un disturbo emotivo di evitamento del cibo; nel secondo sottotipo l’evitamento del cibo è sensoriale, cioè l’evitamento del cibo è legato alle sue proprietà sensoriali: l’aspetto, il colore, l’odore, la consistenza, il gusto, la temperatura; nel terzo sottotipo l’evitamento del cibo è dovuto alla paura che mangiare possa avere conseguenze negative: come il non riuscire a deglutire e soffocarsi, il vomitare, dolori addominali e diarrea, reazioni allergiche. Anche nausea, reflusso e dolore addominale possono presentarsi in concomitanza del disturbo. Questo tipo di suddivisione in sottotipi non è ancora stata validata, sebbene abbia un’utilità clinica.

Disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo e ortoressia

Ortoressia è un termine comparso per la prima volta nel 1997 e utilizzato negli ultimi anni dagli esperti dell’alimentazione per segnalare un’attenzione eccessiva rispetto al consumo di cibi sani e naturali. A rendere problematico tale atteggiamento sono le caratteristiche ossessive di ruminazione mentale sul cibo e di ricerca, selezione e consumo degli alimenti. È una patologia inclusa nel DSM 5 nel disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo e rimanda ad uno stile di vita che ruota completamente e persistentemente intorno ad una corretta alimentazione, tanto da influenzare la quotidianità dell’individuo. La focalizzazione è sulla qualità del cibo, sulle norme di controllo, con conseguente evitamento di tutte quelle situazioni sociali che non lo consentono. Così accade che una pratica alimentare salutista finisca per avere esiti problematici come l’isolamento sociale o la carenza nutrizionale.

Dunque, come è possibile discriminare una filosofia di vita da un disturbo alimentare, quale l’ortoressia? A rendere difficile questa distinzione è la sovrapposizione, parziale o totale, degli aspetti fenomenici e direttamente osservabili, poiché una scelta accurata e selettiva degli alimenti può avere a che fare con l’adesione ad alcune pratiche culturali, ma può anche riguardare un rapporto di dipendenza dal cibo.

Esistono indicatori per cogliere la differenza? L’utilizzo dell’etichetta ortoressia, adatto più che altro nella comunicazione tra professionisti, non deve indurre a credere che sia possibile fare generalizzazioni. Infatti, la complessità di ciascun individuo non può essere ricondotta a criteri standardizzati né ridotta alla descrizione di un sintomo. È comunque possibile fare riferimento a criteri psicologici che consentano di cogliere i campanelli d’allarme di uno stile alimentare patologico. Nel caso specifico, alla base dell’ortoressia può esserci la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute, talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: la paura assume le caratteristiche di un’ossessione per il cibo, il quale perde spesso la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.

A ciò si associa un allontanamento dalla dimensione del piacere che viene sostituita da quella del sollievo, possibile grazie alla rigidità delle regole e all’accuratezza della pianificazione alimentare. Comportamenti di questo tipo necessitano di una particolare attenzione agli ingredienti di ciascun cibo, di un’ispezione dettagliata delle etichette. Interviene inoltre una componente psicologica importante: entro una simbolizzazione del contesto del tipo “buono-cattivo”, gli alimenti non conosciuti o non accettati vengono vissuti come cattivi e in quanto tali minacciosi. Così, chi soffre di ortoressia arriva a privarsi di qualsiasi situazione sociale che possa ostacolare la conoscenza dei cibi e la ricerca di un’alimentazione sana e, sostanzialmente, quella che sembrerebbe una scelta finisce per diventare una gabbia, una torre di controllo e di rinuncia al confronto e allo scambio, a garanzia della propria sicurezza.

È bene evidenziare che non soltanto l’attenzione al cibo sano può avere alla base un disturbo alimentare. Esistono infatti altre pratiche, sempre più condivise, che possono nascondere un disturbo pur non avendo nulla a che fare con una dimensione patologica. È il caso, ad esempio, del breatharianismo (o respirarianesimo), una pratica collegata all’ascetismo orientale e secondo la quale è possibile nutrirsi di solo “prana”, una specie di nettare prodotto dalla respirazione che consente di apportare al corpo le necessarie energie senza bisogno di mangiare e, in alcuni casi, di bere. Ancora, chi pratica sungazing (o HRM) riferisce la possibilità di nutrirsi esclusivamente di “sole”, attraverso l’osservazione diretta di quest’ultimo. Entrambe le pratiche prevedono il digiuno o una forte limitazione nell’assunzione di cibo e liquidi. Le conseguenze fisiche correlate possono essere la disidratazione, la perdita di peso e, nelle donne, l’amenorrea, condizioni riscontrabili anche nell’anoressia nervosa.

In generale, è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una invece patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”? Se si pensa alla patologia secondo un modello dimensionale è impossibile parlare di normalità, dunque è impossibile discriminare in modo dicotomico sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono e, in altre parole, un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità. Ecco allora che la stessa pratica alimentare può essere sana o patologica: la differenza starà nella modalità con cui viene messa in atto, nel significato che le si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali se colti in tempo.

Nei disturbi alimentari il cibo viene infatti utilizzato per comunicare un disagio difficile da esprimere altrimenti e in questo senso la riflessione proposta non ha il fine di demonizzare alcune pratiche alimentari piuttosto che altre, ma quello di accendere una luce sulla possibilità che alcuni disagi possano trovare nascondiglio e rifugio dietro un’appartenenza culturale legittimante e al tempo stesso rassicurante.

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