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La responsabilità della psicologia nel sistema delle cure

Proponiamo ai nostri lettori un estratto della lettera scritta da Maria Simonetta Spada e Margherita Papa e pubblicata su Quotidianosanità.it che invita a riflettere su un tema di particolare importanza e attualità, ovvero la responsabilità della psicologia nel sistema delle cure.

 

31 OTT – Gentile Direttore,

in questo momento storico, dopo un lavoro di ricognizione che ha palesato la disomogeneità italiana relativamente alla presenza della Psicologia nelle organizzazioni sanitarie, è in fase di costituzione il Coordinamento dei Direttori di Struttura Complessa di Psicologia e, proprio da questo vertice osservativo, riteniamo utile partecipare al dibattito in corso.

Risulta superfluo qui sottolineare come, specie nella fase post pandemica, i bisogni psicologici siano fortemente rappresentati in tutte le fasce di età e, con loro, la richiesta di una risposta da parte del SSN.

Si rende quindi sempre più necessario un lavoro di intercettazione precoce dei bisogni psicologici all’interno di un sistema che operi una funzione che va dal sostegno alla salute, ispirato al welfare di comunità, che contempla anche il benessere organizzativo, fino al livello di intervento specialistico, in ambito di patologia acuta o cronica non necessariamente psichica. Teniamo conto infatti dell’importanza della componente psicologica nel processo di cura e di assistenza di tante malattie fisiche e problemi di salute di salute, sino ad arrivare al tema del dolore e delle cure palliative.

 

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Lo psichiatra E. Zanalda sul caso di Assago: “Non etichettiamo subito come malato psichiatrico l’autore del reato” – Comunicato Stampa

Enrico Zanalda, Presidente psichiatri forensi: “Non stigmatizziamo e non etichettiamo subito e in modo semplicistico l’autore del reato come malato psichiatrico”. L’esperto commenta così le prime reazioni a seguito del drammatico episodio di cronaca al Centro commerciale di Assago dal triste bilancio di 5 feriti accoltellati e 1 morto 

Comunicato Stampa

 

Milano, 28 ottobre 2022 – Un fatto drammatico e increscioso quello consumato nella sera del 27 Ottobre che sta suscitando paure e allarmi che meritano il commento e le raccomandazioni di Enrico Zanalda, psichiatra e Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense (SIPF).

Siamo veramente costernati per quanto accaduto ad Assago, ma non vorrei che questa tragedia aumentasse a dismisura l’incremento dello stigma e della paura nei confronti della psichiatria. Non generalizziamo quindi – interviene Enrico Zanalda, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense – né la condizione di paziente psichiatrico, né quella di depresso con un collegamento semplicistico e stigmatizzante che determina allarme sociale e paura dei nostri pazienti. Sarà la perizia psichiatrica ad attribuire la responsabilità della persona. Lo stigma verso la salute mentale è dannoso quanto lo scarso finanziamento dei servizi di salute mentale a distanza di oltre 40 anni dalla legge Basaglia. Al fine di attuare completamente la riforma psichiatrica del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), sarebbe opportuno che la Società Italiana di Psichiatria Forense partecipasse anche nell’ottica della prevenzione, all’attuazione pratica della riforma determinata dalla L 81/2014 superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

È riduttivo etichettarlo in modo automatico come psichiatrico

Senza dubbio appare doveroso sottolineare la probabile mancanza di equilibrio psichico dell’autore dei gravissimi fatti di Assago – continua Zanalda – ma etichettarlo come malato psichiatrico o attribuire alla depressione la causa del comportamento, è riduttivo e stigmatizzante. Questa enfasi non può che aumentare la paura della gente nei confronti delle numerosissime persone che soffrono di depressione o sono ricoverate in ambiente psichiatrico.

Non sottovalutiamo chi sta seguendo percorsi di riabilitazione

Il soggetto pare fosse anche disoccupato e chissà quali altre caratteristiche emergeranno nei prossimi giorni dalla sua biografia. I comportamenti delle persone sono sempre pluri-determinati e dipendono da molteplici fattori: cultura, personalità, educazione, circostanze ambientali, stato di equilibrio mentale dell’autore del reato e vanno soppesati nell’ottica psichiatrico-forense. Etichettarlo come malato psichiatrico in automatico – ribadisce Zanalda – è ingeneroso verso tutte quelle persone che si curano e lottano per il proprio equilibrio psichico e che, dopo questo episodio se etichettato non correttamente, troveranno maggiori difficoltà nei percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale che tutti i giorni i dipartimenti di salute mentale si impegnano a realizzare.

Il timore di emulazione

Nell’immediato, il ritiro dei coltelli dai supermercati come sta succedendo in queste ore, può rassicurare i clienti come operazione di marketing più che di incremento reale della sicurezza del pubblico. L’emulazione – conclude Zanalda – è un fenomeno molto evidente e noto soprattutto in ambito suicidario. Lo è meno nei casi di omicidi di massa, definitivi “mass murder”, anche se il clamore mediatico attira personalità predisposte ad agire scatenando la rabbia incontenibile che provano nei confronti di particolari comunità o della società.

La salute mentale dei migranti

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

 

La salute mentale di migranti e rifugiati

 Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Quest’anno il tema generale è stato: “Rendere la salute mentale e il benessere una priorità globale per tutti”.

Il Parlamento Europeo, a tal proposito, ha focalizzato l’attenzione su migranti e rifugiati, la cui salute mentale viene spesso trascurata o tralasciata. In realtà, il viaggio che si è costretti a intraprendere, l’insediamento in un paese straniero e l’integrazione con una cultura sconosciuta, mettono a rischio prima di tutto la stabilità psichica di donne e uomini che, già segnati da esperienze difficili quali guerre, sfollamenti forzati e rotte migratorie durissime, possono non essere in grado di gestire la portata di emozioni che questo comporta.

La mappatura delle politiche a favore della salute mentale dei migranti pubblicata a luglio 2022 dall’European Migration Network, mette in luce le sfide per gli Stati membri in merito all’accesso ai servizi primari da parte di chi è straniero. Se sulla carta il diritto alla cura è lo stesso messo a disposizione dei cittadini europei, nella realtà dei fatti migranti e rifugiati si trovano di fronte a ulteriori, e non di rado insormontabili, difficoltà, quali le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni, la difficoltà di accesso ai servizi integrati, i costi elevati e le lunghe liste di attesa, la mancanza di consapevolezza e fiducia, gli svantaggi socio-economici. Dunque, l’integrazione dei migranti passa dallo sviluppo di politiche e strategie che pongano attenzione anche alla formazione del personale addetto, affinché possa avere competenze specifiche per sostenere e aiutare chi parla una lingua diversa e ha radici culturali lontane.

Quali difficoltà incontrano migranti e rifugiati?

Nel 2007 Franco Voltaggio, medico e filosofo della scienza, tenne presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma una lectio magistralis intorno alla psichiatria transculturale, che studia e cura tutti quei disturbi riconducibili all’ambiente culturale di insorgenza e non ascrivibili a categorie patologiche riconosciute o condivise. In quell’occasione vennero alla luce problematiche ed esigenze ancora oggi di difficile soluzione: “Mentre i nostri politici decidevano che cosa fare di se stessi, che cosa fare da grandi, se continuare la prima o fare la seconda repubblica, l’Italia, considerata a torto o a ragione una sorta di “eldorado”, venne investita da un grande flusso migratorio. […] Da questa novità, e cioè dall’entrare in contatto finalmente con le cose vere –con gli uomini, le donne, i bambini– sono stati in prima istanza i medici, e ancor prima ovviamente gli psichiatri, che hanno dovuto confrontarsi con le conseguenze della migrazione, scoprendo diverse cose. La prima assomiglia alla scoperta del cavallo, dell’acqua calda, dell’ombrello, della carta vetrata: quando si parla di integrazione non si dovrebbe pensare all’integrazione degli altri nella società italiana, ma a una reciproca integrazione che parte dagli italiani e viene ripresa dagli ospiti” (Scaringi, 2008).

Questi ultimi, però, sono spesso infelici: “prima di tutto perché non trovano lavoro facilmente, perché non trovano alloggio, perché le condizioni di lavoro (quando le trovano) sono condizioni orrende. Ma sono infelici anche per una sindrome che io chiamerei spaesamento: il giovane migrante, che viene in Italia e che viene accolto da quelli che eufemisticamente vengono chiamati Centri di Prima Accoglienza (ma che in realtà sono dei campi di concentramento), è spaesato perché si trova in un posto che non è il suo e sente una malinconia profondissima, una nostalgia forte per il paese che ha lasciato. Però, per quanto possa sembrare paradossale, questa nostalgia, confondendo passato e futuro e presente, la prova anche nei confronti della terra di approdo” (Scaringi, 2008). Sì, perché è la terra dell’abbondanza; e lo straniero, sapendo che se ne dovrà andare anche dalla nuova patria, sperimenta una sorta di nostalgia anticipata: egli “lascia le proprie radici, ma una volta entrato in quella specie di inferno paradisiaco che sarebbe l’Italia, ne recide delle altre” (Scaringi, 2008).

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con un 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

Nonostante le difficoltà attuali, una persona ogni 30 nel mondo vive al di fuori del proprio Paese: i 281 milioni di migranti internazionali incidono infatti per il 3,6% sulla popolazione mondiale. Le donne rappresentano circa il 48% dei migranti internazionali. Le principali aree di partenza sono Asia (111 milioni) ed Europa (67 milioni); seguite da America (47 milioni, di cui 43 milioni Sud America), Africa (41 milioni) e Oceania (2 milioni). Il primo Paese di partenza è l’India (17,9 milioni di emigrati), seguita da Messico (11,2 milioni), Federazione russa (10,8 milioni), Cina (10,5 milioni) e Siria (8,5 milioni). Martoriata dalla guerra civile ancora in corso la Siria vede emigrata la metà della nazione (48,3%). Tassi di emigrazione particolarmente alti si registrano in altri Paesi storicamente sconvolti dai conflitti, come Palestina (78,9%), Bosnia Erzegovina (51,4%) e Armenia (32,3%), ma anche in Paesi tradizionalmente a forte pressione emigratoria, come Portorico, Suriname, Samoa, Giamaica, Capo Verde, ecc. Tra il 20-30% si distingue, inoltre, una folta pattuglia di Paesi dell’Europa mediterranea o centro-orientale: Albania, Macedonia, Moldavia, Croazia, Bulgaria, Lituania, Malta, Georgia, Montenegro, Portogallo e Romania (IDOS, 2021, p. 20).

Questi i dati che emergono dall’edizione 2021 del Dossier Statistico Immigrazione, pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Idos.

Il 59,0% dei migranti internazionali si è insediato in uno dei Paesi del Nord del mondo. Il primo continente di destinazione è l’Europa con 93 milioni di migranti internazionali, seguita da Asia (79 milioni), America (74 milioni), Africa (25 milioni) e Oceania (9 milioni). A livello di aree continentali, un quinto è insediato nell’Ue-27 (19,6%) e un altro quinto in America settentrionale (20,9%). L’incidenza sulla popolazione raggiunge il 12,3% nell’Ue, ma arriva al 15,5% nell’Asia occidentale, al 15,9% nell’America settentrionale e al 22,0% in Oceania. Nei Paesi a sviluppo umano molto alto, l’incidenza degli immigrati raggiunge il livello record del 13,8%, contribuendo così anche al perseguimento di un Pil pro capite molto alto (44.835 dollari annui). Metà dei migranti internazionali si concentra in dieci Paesi: Stati Uniti (50,6 milioni di immigrati), Germania (15,8 milioni), Arabia Saudita (13,5 milioni), Federazione Russa (11,6 milioni), Regno Unito (9,4 milioni), Emirati Arabi Uniti (8,7 milioni), Francia (8,5 milioni), Canada (8,0 milioni), Australia (7,7 milioni) e Spagna (6,8 milioni). L’Italia si colloca all’undicesimo posto, con 6,4 milioni (IDOS, 2021, p. 21).

Secondo l’OMS, sebbene rifugiati e migranti siano colpiti dagli stessi determinanti sanitari della popolazione autoctona, “il loro status migratorio può rappresentare esso stesso un determinante sanitario che, combinato con l’altro individuo (genetica, genere, comportamento personale ed età) e sociale ed economico (istruzione, alfabetizzazione sanitaria, reddito e stato sociale, occupazione, reti di sostegno sociale ecc.), svolge un ruolo nelle diverse fasi del ciclo migratorio e le rende particolarmente vulnerabili dal punto di vista sanitario” (INMP, 2022). A essere maggiormente a rischio di violenze fisiche e sessuali sono soprattutto le donne, il cui status, se associato al fatto di avere titoli di studio bassi e occupazioni instabili, assume un valore rilevante per gli effetti sulla salute; ma anche i minori non accompagnati sono vulnerabili al rischio di subire violenze e soffrire di disturbi mentali causati dal disagio vissuto, anche in relazione all’interruzione del ciclo scolastico dovuta alla migrazione. Infine, l’insicurezza economica e l’impiego in lavori spesso pericolosi e impegnativi, oltre alla residenza in alloggi non sicuri o sovraffollati, influiscono inevitabilmente sulla salute dei migranti.

L’incidenza dei disturbi mentali in migranti e autoctoni

 Parlando di disturbi mentali, “la prevalenza della depressione e dell’ansia può essere maggiore tra rifugiati e migranti nelle diverse fasi dello sfollamento e della migrazione, in base a vari fattori individuali, sociali e ambientali. Il disturbo da stress post-traumatico è frequentemente osservato nei bambini e negli adolescenti rifugiati colpiti da conflitti” (cfr. INMP, 2022). Molti sono infatti i fattori che incidono sull’insorgere di problematiche mentali: una storia di separazione familiare per affrontare un lungo viaggio, essere vedovi o avere un’esperienza di divorzio alle spalle, il recente arrivo in un paese straniero di cui si ha difficoltà a imparare la lingua e a esprimersi, aver subito violenze e abusi sessuali oppure esperienze discriminatorie mai comunicate. In Europa, l’incidenza del disturbo da ansia è in qualche modo simile tra i rifugiati (13%) e la popolazione generale (9%); diverso il caso dei disturbi depressivi che incidono rispettivamente per il 32% contro il 4%. Uno studio sui giovani migranti in Svezia, di età compresa fra i 19 e i 25 anni, ha evidenziato come la prevalenza dei disturbi mentali diminuisca con un più elevato livello di istruzione e che il rischio di sviluppare stress post-traumatico sia associato a una maggiore permanenza nel paese ospitante (cfr. WHO, 2022, p. 125). Per quanto riguarda schizofrenia e disordini psicotici, le popolazioni migranti sono maggiormente esposte, soprattutto in base alle regioni di origine e di destinazione, oltre alla loro combinazione; un ruolo significativo nell’insorgenza di tali disturbi lo hanno fattori quali la separazione dai genitori durante l’infanzia e la discriminazione e la densità etnica nel paese di arrivo. La prevalenza di alcune condizioni mentali rispetto ad altre varia quindi rispetto a fattori sociali e ambientali, oltre che all’accesso ai servizi di cura e diagnosi. Tuttavia, il rischio di sviluppare patologie o dell’aggravarsi di malattie già conclamate risulta essere più alto per i migranti rispetto alla popolazione autoctona. Analizzando, ad esempio, i profili dei pazienti che, in Qatar, arrivano al pronto soccorso in seguito ad atti di autolesionismo e tentato suicidio, la quota più alta (35,5%) può essere ascritta agli espatriati (i qatarioti arrivano al 21,4%). Tra gli adolescenti palestinesi, invece, che vivono nei territori occupati, il 25,6% ha espresso tendenze suicidarie, uso di cannabis e tabacco, mancanza di amici intimi, disordini alimentari e insonnia indotta dalle preoccupazioni (cfr. WHO, 2022, p. 127).

Promuovere la salute di migranti e rifugiati, riorientare le politiche sanitarie, rafforzare le competenze degli operatori del settore, migliorare i sistemi informativi per la raccolta, l’analisi e la condivisione dei dati, significa garantire un diritto fondamentale, anche in linea con l’obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile a non lasciare indietro nessuno, promuovendo la salute mentale e il benessere di tutti.

 

I contraccettivi ormonali e i loro effetti sulla popolazione femminile, maschile e transgender -FluIDsex

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019), ma è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore.

 

I metodi contraccettivi

 I metodi contraccettivi, sia ormonali che non, sono presenti fin dagli egizi. Dai metodi arcaici siamo però arrivati negli ultimi anni ad avere una vasta opzione di scelta per quanto riguarda il controllo delle nascite. È noto come circa il 44% delle donne vada incontro a gravidanze inaspettate e che 2/3 di tali gravidanze sono conseguenti all’uso di metodi contraccettivi non affidabili o alla mancanza di metodi contraccettivi in generale (Abbe et al., 2020).

Ad oggi è possibile scegliere tra diversi metodi contraccettivi, alcuni dei quali in tabella:

Contraccettivi ormonali effetti in individui femminili maschili e transgender Imm 1

Ovviamente ciascuno di questi metodi ha un’efficacia variabile, quelli più efficaci rimangono gli impianti sottocutanei e i dispositivi intrauterini, mentre i contraccettivi ormonali (HC) sono certamente efficaci, ma possono comportare, in alcuni casi, effetti collaterali per quanto riguarda la regolazione emotiva (McCloskey et al., 2021).

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019). Tuttavia, è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore in soggetti che ne fanno uso; i dati che ne risultano sono controversi (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020).

I contraccettivi femminili

Tenuto conto dell’impatto che gli steroidi sessuali hanno sia sul ciclo mestruale che su emozioni e comportamenti, è importante esplorare l’impatto che una terapia di questo tipo può avere (Robakis et al., 2019). Il mondo della ricerca è diviso riguardo agli effetti negativi dei contraccettivi orali (OC): da un lato ci sono studi che riportano una non-associazione tra l’utilizzo di contraccettivi orali e sintomatologie psichiatriche (Toffol et al., 2011, 2012), altri studi invece hanno trovato come donne che usavano contraccettivi orali riportavano un minor numero di sintomi depressivi e un minor numero di tentati suicidi (Keyes et al., 2013). Infine, ci sono studi che correlano l’uso di contraccettivi orali con un maggior rischio di uso di antidepressivi e di diagnosi di depressione (Skovlund et al., 2016).

Andando invece ad approfondire l’interazione dei contraccettivi ormonali con alcuni specifici disturbi troviamo anche qui dati contrastanti.

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo endocrino caratterizzato da iperandrogenemia, ciclo mestruale irregolare, insulino-resistenza, possibile infertilità e multiple cisti ovariche (Robakis et al., 2019), questi sono sintomi che di per sé causano stress psicologico. Associato a tale disturbo abbiamo studi in cui i casi di depressione erano minori nei soggetti con PCOS trattati con contraccettivi ormonali (Rasgon et al., 2003), mentre in un altro studio non erano riportati benefici significativi (Cinar et al., 2012).

Il disturbo disforico premestruale (PMDD) comporta una destabilizzazione dell’umore durante la fase luteale, in questa fase i livelli di estrogeni e progesteroni aumentano rapidamente per poi diminuire durante il mese, ciò che cambia non è quindi la concentrazione assoluta degli ormoni, ma la rapidità dei cambiamenti che seguono (Robakis et al., 2019). All’interno di questo quadro diagnostico i soggetti che soffrono di disturbo disforico premestruale trovano beneficio in una regolazione del flusso di ormoni che l’uso di contraccettivi orali, o combinazioni di essi, comporta (Robakis et al., 2019).

Per i soggetti post-partum è sì consigliato l’uso di contraccettivi per evitare gravidanze involontarie, ma rimane una questione aperta quando si parla invece di allattamento al seno (Robakis et al., 2019). Detto ciò, in uno studio si è notato come l’uso di contraccettivi contenenti etonogestrel è associato a un maggior rischio di uso di antidepressivi, mentre l’uso di contraccettivi contenenti noretindrone è associato a un minor rischio di uso di antidepressivi e a diagnosi di depressione, similmente all’uso di dispositivi intrauterini con rilascio di levonorgestrel (Roberts e Hansen, 2017).

Gli effetti negativi sull’umore sono di maggior impatto tra gli adolescenti, in popolazione psichiatrica o con trascorsi psicopatologici (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020), sebbene, anche per quanto riguarda gli adolescenti, i dati sono anch’essi controversi (McKetta e Keyes, 2019). Altri effetti negativi possono comprendere ciclo mestruale irregolare, libido ridotta, aumento del peso e ipersensibilità al seno, è quindi sempre necessario adattarsi al quadro clinico del soggetto (Thirumalai & Page, 2019).

I metodi contraccettivi maschili

 Per quanto riguarda i metodi contraccettivi maschili, fino ad ora era stato possibile scegliere solamente tra i preservativi, che da un lato proteggono anche da malattie sessualmente trasmissibili, ma dall’altro posseggono una percentuale d’efficacia più aleatoria rispetto ad altri metodi contraccettivi, e la vasectomia, una procedura chirurgica che è sì reversibile, ma che risulta essere invasiva, costosa e poco accessibile (Thirumalai e Page, 2019). Un contraccettivo ormonale maschile è tuttavia teoricamente possibile e diversi studi cercano di arrivare alla distribuzione al pubblico (Thirumalai e Page, 2019). I primi studi prevedevano l’uso di dosi sovrafisiologiche di testosterone (T; Contraceptive efficacy of testosterone-induced azoospermia in normal men, 1990). Tra gli effetti collaterali di questa terapia basata su sovradosi di T è stato però notato lo sviluppo di acne ed eritrocitosi; a ciò si deve sommare la possibilità di sviluppare disturbi conseguenti a un’esposizione prolungata ad alte dosi di androgeni (Thirumalai e Page, 2019); sarà inoltre necessario comprendere i possibili effetti negativi sulla psiche. Si è quindi passati a un trattamento che prevedeva la riduzione del dosaggio di T tramite l’aggiunta di progestinici; sebbene la concentrazione sia minore, si è riusciti a mantenere un’efficacia maggiore del 95% (Nieschlag, 2010). Questi trattamenti sono tuttavia ancora fermi alle prime fasi sperimentali, è quindi plausibile ipotizzare lo sviluppo di una “pillola maschile” nel corso del prossimo decennio (Thirumalai e Page, 2019).

I metodi contraccettivi nella popolazione transgender

Per quanto riguarda l’utilizzo di metodi contraccettivi all’interno della popolazione transgender, il discorso si dirama in più direzioni. Escludendo coloro che si sottopongono a operazioni chirurgiche alla zona genitale, che comporta una perdita permanente delle capacità riproduttive, coloro che si sottopongono a un Gender-Affirming Hormonal Treatments (GAHTs) possono subire un variabile grado di reversibilità per quanto riguarda la perdita delle capacità riproduttive, non è infatti raro che uomini trans debbano affrontare una gravidanza non desiderata (Mancini et al., 2021). Tenuto conto della particolare situazione che i soggetti di questa popolazione devono affrontare, in termini di trattamenti ormonali e di cambiamenti radicali sia dal punto di vista fisico che degli equilibri interni, non è possibile escludere che contraccettivi ormonali possano avere effetti sull’umore non ancora ben esplorati. Una delle sfide che si presenta in questa situazione è legata proprio alla somministrazione del contraccettivo; è infatti necessario tenere in conto che determinate metodologie potrebbero accrescere, per il soggetto, il senso di disforia (Mancini et al., 2021).

 

La fine della coscienza? (2022) di Ciuffardi e Perissi – Recensione

La tesi sostenuta nel libro La fine della coscienza?” è che bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa dell’esperienza cosciente.

 

 Il sistema di credenze di ognuno cerca di dare significato al mondo e alle grandi questioni irrisolte che riguardano anche la coscienza.

Per affrontare questo tema gli autori di “La fine della coscienza? Dalla mente bicamerale all’intelligenza artificiale” fanno riferimento al contributo di Julian Jaynes, illustrato nel saggio “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, ripreso da autori di grande prestigio quali Zemir Zeki, Eric Kandel e Richard Dawkins.

La prospettiva con la quale Ciuffardi e Perissi affrontano il tema è fenomenologica e considera i fenomeni della coscienza come “prodotti culturali e a loro modo rappresentativi della modalità complessa e multidimensionale con la quale il cervello si fa mente e l’uomo si fa società, cultura e infine storia”.

Il modello epistemologico preso in considerazione è il costruttivismo – la distanza, però, da un costruttivismo radicale per il quale esistono solo le mappe e non il territorio è netto – che può consentire di comprendere il rapporto tra osservato e osservatore e favorire il salto di paradigma che serve per rendere conto di anomalie da studiare pensando in maniera diversa rispetto a quanto fatto sino ad ora.

Grandi intuizioni nascono, infatti, da osservazioni apparentemente banali o da curiosità attinte da discipline differenti. Studiare “cose strane e particolari” in quest’ottica può essere molto utile per far avanzare il sapere.

Il libro si apre con un capitolo dedicato alla storia della coscienza.

Il nostro cervello ha sviluppato l’emisfero sinistro a discapito dell’emisfero destro senza soppiantarlo del tutto.  La metà sinistra è deputata alla razionalità, alla spiegazione scientifica, quella destra volta alla trascendenza e alla dimensione artistica.

Prima che nascesse la coscienza intesa in senso moderno i due emisferi si parlavano alla pari, mentre oggi la focalizzazione dei processi mentali elimina tutto ciò che non è oggetto di essi, perciò non siamo più guidati da voci interiori di esseri soprannaturali e non consideriamo ogni fenomeno intenzionale e dotato di libero arbitrio.

Molti neuroscienziati considerano la coscienza moderna nient’altro che l’epifenomeno dell’attività elettrica e biochimica del cervello. Il linguaggio, pertanto, assume un ruolo dominante nel definire che cosa sia cosciente oppure no.

Ciuffardi e Perissi riportano una serie di controesempi per mettere in discussione questa tesi, e nel ripercorrere le tappe della storia del concetto di coscienza, facendo riferimento a Kandel, Fodor, Dennet, Metzinger, Damasio, concludono che “se l’intero flusso di coscienza può essere interpretato nei termini di un “presente ricordato” (Edelman, 2007), essenziale per intrecciare le varie percezioni in un’unità dotata di senso e coerenza, la mente bicamerale potrebbe essere allora intesa come l’impronta di un passato ancestrale che non muore mai, capace di far ritorno ricorsivamente nel presente sotto forma di immagini senza tempo, strane reminiscenze e percezioni extracorporee alle quali noi attribuiamo un significato paranormale, dai poteri della mente agli avvistamenti dei dischi volanti, ai fenomeni di difficile comprensione come le esperienze di premorte”.

La coscienza rimane comunque uno dei grandi misteri irrisolti poiché non sappiamo spiegare come emerga dal livello microscopico sottostante, il modo in cui si forma l’esperienza soggettiva, l’autoconsapevolezza che rende conto del libero arbitrio.

La tesi del libro è che proprio per questo bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa (qualia) dell’esperienza cosciente, inevitabilmente diversa per ciascun osservatore.

E qui, nel secondo e terzo capitolo, i riferimenti sono Maturana, Varela, Heidegger contro la prospettiva eliminativista di Dennet e contro l’emergere dell’intelligenza artificiale cui erroneamente, almeno per il momento, qualcuno attribuisce la capacità di raggiungere e persino superare le facoltà più propriamente umane.

Il quarto capitolo si apre con la domanda: In quale punto si colloca il confine tra la coscienza e la realtà “esterna”?

All’epoca della mente bicamerale il rapporto era caratterizzato da un realismo ingenuo, tutto ciò che veniva percepito era considerato come la realtà effettiva. In seguito si è fatta largo una percezione orientata da credenze e pregiudizi per lo più inconsapevoli, e da quella che Bessel definisce equazione personale.

Il fenomeno della coscienza si sviluppa proprio a partire dalla percezione più o meno distorta della realtà intorno a noi, determinando una dimensione parallela che si sovrappone al mondo fisico e, come sostiene Erwin Schrödinger, citato dagli autori, “la sola possibilità è di accettare l’esperienza immediata che la coscienza sia un singolare di cui non si conosce il plurale”.

Il processo di continua costruzione e attribuzione di significato sembra valere anche per la psichiatria e per la psicoterapia, giacché possiedono una valenza diversa a seconda della teoria o modello di riferimento.

Nel quinto capitolo s’illustrano una serie di evidenze, non ancora spiegate, che mettono in evidenza come la coscienza consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite.

 Ma la tendenza a bypassare la coscienza, presente anche in alcuni approcci psicoterapeutici manualizzati con protocolli specifici che non tengono conto della singolarità con la quale si percepisce la realtà in collegamento con l’ambiente, tanto da far avanzare l’ipotesi di una mente estesa e distribuita, non limitata al cervello umano, ma ampliata fino a diventare un tutto unico con l’ambiente circostante (Sheldrake), andrebbe a produrre un disadattamento evolutivo.

I due autori citano una serie di fatti a dimostrazione della tesi: il brusco calo nell’elaborazione degli stimoli da parte del cervello a causa dell’uso eccessivo della tecnologia; l’aumento di procedure meccanizzate e soluzioni standardizzate; l’effetto Flynn nei paesi più sviluppati; il dilagare dei disturbi dell’apprendimento; la pervasività del fenomeno della droga e di altre forme di dipendenza; l’abuso degli psicofarmaci, la demenza digitale, ecc..

D’altra parte Ciuffardi e Perissi continuano nei capitoli successivi del libro a mostrare, con una serie di esempi riguardanti lesioni del cervello che dovrebbero comportare la perdita di funzioni, ma che inopinatamente e inspiegabilmente non si verificano, quanto lo schema della profezia che si autoavvera, cioè le assunzioni che facciamo sulla nostra esperienza che in qualche misura la strutturano e la orientano verso conseguenze che lungi dall’essere inevitabili fanno leva sulla nostra spesso inconsapevole complicità, siano determinanti nella produzione di senso sia in termini negativi, sia positivi.

L’essere dotati di una coscienza, o almeno il credere di esserlo, consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite. Ma se la coscienza costituisce un tratto adattivo transitorio, il cui sviluppo è avvenuto in risposta a un ambiente mutevole, rischia di fare la fine di altri adattamenti che in natura si sono estinti perché diventati perfettamente inutili, superflui o ridondanti.

Già i resti dell’antica mente bicamerale, secondo Jaynes, è possibile intravederli tutt’intorno a noi, come se stessimo visitando un sito archeologico.

Maghi, astrologi, cultori dei fenomeni paranormali persino psichiatri e psicologi forniscono visioni del mondo strutturate per trovare esattamente ciò che cercano, operando in modo antitetico al principio di falsificazione di Popper.

Nel corso dei millenni, siamo passati dall’impossibilità che la mente bicamerale aveva nel discernere fra fatti veri e leggende, alla concezione opposta, in base alla quale verità e finzione narrativa sono due poli inconciliabili.

I misteri spesso si collocano negli occhi di chi guarda piuttosto che all’interno di quanto osservato, negando l’evidenza dei dati a disposizione, ma anche all’opposto producendo una mole infinita di dati, nella convinzione che essa esaurisca ogni discorso.

È, quindi, necessario formulare teorie e modelli in grado di essere falsificati andando alla ricerca, in maniera contro-intuitiva, non delle prove a favore, bensì di quelle sfavorevoli e contrarie.

Gli autori ritengono che attraverso un’indagine seria delle anomalie e delle cose strane che a volte si verificano nella realtà, sia possibile imparare moltissimo sulle modalità di funzionamento della mente in condizioni normali.

Questa visione ha una caduta anche sulla psicoterapia, che per gli autori consiste in un’attività artistica con basi scientifiche che, tenendo conto delle tecniche e del setting clinico, cambia ogni volta che il saper fare e il saper essere del terapeuta entrano in risonanza con ogni singolo paziente.

Il modello clinico, sviluppato a partire dalla mente bicamerale, mira proprio a incrementare il livello di coscienza delle persone, portandole a riflettere sugli eventi accaduti, anche su quelli presunti, e sul senso di sé, in modo da attivare le capacità di ragionamento critico e altre risorse interiori, affinché sia possibile trarre un significato personale da una storia anche strana.

In questo senso ci sembra che Ciuffardi e Perissi evidenzino la necessità di coniugare il rigore del metodo scientifico, gli aspetti di una coscienza bicamerale ancora presente con funzioni evolutive e adattive e volta a tener conto degli aspetti di singolarità, e una riflessività e autoconsapevolezza che non può rischiare di eclissarsi, a favore di una coscienza moderna che fa coincidere il funzionamento biochimico ed elettrico del cervello con la mente.

 

Che impatto ha la depressione genitoriale sulla regolazione emotiva dei figli?

Lo studio condotto da Davis e colleghi (2022), ha esaminato la relazione tra la depressione genitoriale, la socializzazione emotiva e lo sviluppo della regolazione emotiva dei bambini nella prima e nella seconda infanzia.

 

Genitorialità e regolazione emotiva infantile

 La socializzazione emotiva si riferisce alla modalità dei genitori di discutere e reagire alle emozioni nel contesto relazionale genitore-bambino (Eisenberg et al., 1998).

I genitori influenzano il modo in cui i bambini esperiscono le loro emozioni, fornendo strategie di regolazione emotiva che i bambini apprendono e successivamente usano (Katz & Gottman, 1997; Morris et al., 2007). Inoltre, essi svolgono un ruolo di risoluzione di esperienze di turbamento per il bambino. Questa capacità è legata a una competenza di regolazione emotiva generale (Criss et al., 2016; Denham et al., 1997; Shortt et al., 2010) e all’acquisizione di strategie di regolazione emotiva più specifiche come le strategie di problem solving (Eisenberg et al., 1996; Meyer et al., 2014).

Reazioni poco supportive, quali la punizione o la minimizzazione, sono associate invece a competenze minori di regolazione emotiva (Barnett et al., 2010; Hughes & Ensor, 2006) e al conseguente uso di strategie disadattive da parte dei bambini (quali l’evitamento, usato per alleviare le emozioni negative; Eisenberg et al., 1996).

La depressione genitoriale

I genitori con diagnosi di depressione hanno una minor capacità di supporto alle emozioni del bambino (Leinonen et al., 2003; Rutter, 1990), poiché la persistente negatività, l’irritabilità e l’apatia li portano a rispondere in modo inefficiente alle richieste di sostegno emozionale dei figli (Conger et al., 1993).

Alcuni studiosi (Lovejoy et al., 2000) hanno preso in considerazione gli effetti della depressione genitoriale sulla regolazione emotiva dei bambini. È stato riscontrato che le madri affette da depressione hanno più probabilità di influenzare i bambini all’apprendimento di risposte inappropriate alle esperienze negative (Denham et al., 1994) e di controllare i bambini con la coercizione (Conger et al., 1995), utilizzando più frequentemente risposte punitive con i loro figli (questo dovuto alla propensione dei genitori affetti da depressione di valutare positivamente un’educazione rigida e severa; Field et al., 1985). Inoltre, i genitori affetti da depressione tendono a utilizzare risposte che richiedono un basso impegno emotivo (come il rifiuto), minimizzando le emozioni dei bambini (Downey & Coyne, 1990).

Il collegamento tra depressione genitoriale, socializzazione emozionale e risposte emotive dei bambini deve prendere in considerazione anche il contesto di sviluppo, poiché le interferenze sullo sviluppo della regolazione emozionale nei bambini possono differire in base all’età. Purtroppo pochi studi hanno isolato la relazione tra le diverse età.

Alla luce di queste lacune lo studio condotto da Davis e colleghi (2022), ha esaminato la relazione tra la depressione genitoriale, la socializzazione emotiva e lo sviluppo della regolazione emotiva dei bambini nella prima e nella seconda infanzia, valutando l’influenza dei sintomi depressivi dei genitori su queste dinamiche e confrontando i dati nelle due diverse fasce di età.

Depressione genitoriale e regolazione emotiva del bambino

I primi risultati riguardano le differenze nella regolazione emotiva considerando le differenze di età. I bambini più grandi hanno riportato l’utilizzo maggiore di evitamento cognitivo e di soppressione espressiva; i bambini più piccoli invece tendono a utilizzare maggiormente la ricerca di supporto sociale.

 Riguardo all’associazione tra la socializzazione emotiva genitoriale e le competenze di regolazione emotiva, i risultati hanno mostrato che una socializzazione supportiva genitoriale sembra legata ad abilità maggiori di regolazione emotiva dei bambini. La socializzazione genitoriale non supportiva, di cui fanno parte le reazioni punitive e minimizzanti, è stata identificata come ostacolante per lo sviluppo di capacità di regolazione nei bambini. Per i bambini più piccoli, le reazioni di rifiuto e le reazioni punitive hanno predetto una ricerca di supporto sociale, mentre per i bambini più grandi hanno predetto un minore uso di cambiamenti in base all’obiettivo e di ricerca di supporto sociale.

Successivamente sono state considerate le conseguenze riferite alla depressione genitoriale riscontrando un collegamento tra depressione e socializzazione emotiva e tra depressione e specifici aspetti di competenze di regolazione emotiva dei bambini: la severità dei sintomi depressivi genitoriali ha predetto reazioni di minimizzazione con i bambini più piccoli; questi risultati sono coerenti con le osservazioni rispetto alle quali i genitori depressi utilizzano reazioni che richiedono minor energia e minor impegno, come le reazioni di minimizzazione e di rifiuto (Downey & Coyne, 1990).

Le conseguenze della depressione genitoriale si estendono alle competenze di regolazione emotiva dei bambini. I bambini con genitori depressi possono percepire le emozioni più intensamente ed esprimerle in modo più disregolato rispetto agli altri bambini della stessa età.

L’ultimo aspetto sottolineato riguarda le conseguenze dei deficit di regolazione emotiva riscontrati nei bambini, che possono comportare difficoltà nel funzionamento emotivo: queste difficoltà si ritiene siano alla base dello sviluppo di psicopatologie, tra cui la depressione e i disturbi del comportamento dirompente (Carter et al., 2001; Cole et al., 1994; Gross, s.d.; Wright et al., 2000).

 

Le terapie psicologiche efficaci: report dal convegno del 26 ottobre a Venezia

Il 26 ottobre si è svolto a Venezia sull’isola di San Servolo il convegno “Le terapie psicologiche per l’ansia e la depressione: nuove forme di integrazione clinica e organizzativa“, evento presieduto dal prof. Paolo Michielin e dalla dott.ssa Novara e organizzato dalla Consensus Conference sulle terapie psicologiche per l’ansia e la depressione, un gruppo di lavoro fondato dal professor Enzo Sanavio che sta diffondendo la conoscenza e la promozione delle buone pratiche di psicoterapia fondate su prove di fatto tra gli operatori della salute mentale e gli utenti: psicologi, psichiatri, medicina territoriale, associazioni di familiari e così via.

Il principale intervento del convegno è stato quello del Prof. David Clark della Oxford University e Consulente del Programma IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) un programma sanitario che ha svolto un’analoga funzione della Consensus nel servizio sanitario britannico. Nella sua presentazione Clark ha descritto il percorso storico dello IATP, programma che ha ricevuto ricchissimi finanziamenti statali ed è stato progettato in maniera specifica per il servizio sanitario inglese. Dopo averlo descritto, Clark ha raccomandato di considerare lo IATP un’ispirazione e non un modello da imitare pedestramente. Sicuramente lo IATP ha raggiunto un livello di realizzazione unico, avendo avuto il pieno sostegno statale, mentre la Consensus svolge più una funzione di promozione, incoraggiamento e diffusione di una cultura che dia fiducia alla psicoterapia di provata efficacia.
Prima di Clark ha parlato il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Prof. Silvio Brusaferro, che a sua volta ha descritto con ricchezza di informazione il percorso storico e gli obiettivi della Consensus. Nata da un convegno organizzato dal prof. Ezio Sanavio e dedicato al tema dell’efficacia provata in psicoterapia, la Consensus ha visto i partecipanti a quel congresso consolidarsi in un gruppo di lavoro. Dopo lo sguardo al Regno Unito e all’Italia infine l’intervento del Dott. Roberto Mezzina del Program Development World Federation for Mental Health ha offerto una visione dei programmi e dei report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla salute mentale nel mondo.

Gli interventi successivi hanno presentato varie ragioni e dati a favore dell’adozione e della diffusione di queste buone pratiche nel servizio sanitario italiano. Il Prof. Giovanni de Girolamo del Fatebenefratelli di Brescia ha parlato del grado di conferma delle psicoterapie di efficacia sostenuta da prove di fatto (evidence-based). La sua è stata la sola voce in parte dissonante, esprimendo alcuni argomenti critici contro le prove di fatto provenienti dalla letteratura del paradigma relazionale-contestuale così come lo ha battezzato il prof. Bruce Wampold, paradigma che sembra opporsi a quello medico-empirico che da Beck e Clark in poi invece sostiene la bontà delle prove di fatto. Per la verità Di Girolamo ha finito per criticare anche il cavallo di battaglia del paradigma relazionale-contestuale, ovvero la centralità dell’alleanza terapeutica. Il suo intervento è quindi risultato critico a 360 gradi, atteggiamento che da una parte stimola sicuramente il pensiero appunto critico e l’intelligenza ma che forse non era del tutto adatto a un convegno che doveva promuovere la crescita nella fiducia nelle prove di fatto empiriche a favore delle psicoterapie di provata efficacia.

Più centrata sugli obiettivi del convegno la relazione del Dott. Giuseppe Nicolò del Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale che ha descritto lo stato attuale di adozione delle buone pratiche nel servizio sanitario italiano. Analoghi interventi ma dedicati alle popolazioni dell’infanzia e dell’adolescenza hanno svolto la Prof.ssa Renata Tambelli del Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute dell’Università “Sapienza” di Roma, la Dott.ssa Maria Antonella Costantino dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e la Prof.ssa Alessandra Simonelli dell’Università degli studi di Padova.

Il convegno si è chiuso con una tavola rotonda con alcuni interventi sia di operatori sanitari che di associazioni di utenti e pazienti. Durante la tavola rotonda il Dott. Moreno De Rossi del Collegio dei medici psichiatri e dei clinici universitari di psichiatria del Veneto ha raccontato quali sono i punti di forza del modello medico-psichiatrico e psicologico-clinico del servizio sanitario italiano, ovvero la multidisciplinarietà, ovvero la presenza di specializzazioni diverse intorno al paziente, la capillarità, ovvero la diffusione sul territorio di queste specializzazioni e la transmuralità, ovvero la facile comunicazione tra queste diverse specializzazioni.

Accanto agli operatori hanno poi parlato anche i rappresentanti di associazioni di pazienti e familiari che hanno espresso le loro richieste di un servizio più diffuso e più puntuale, come l’Associazione italiana per la tutela della salute mentale, l’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, la Lega italiana contro i disturbi d’ansia, d’agorafobia e da attacchi di panico e l’Associazione di volontari per la salute mentale. Ha chiuso infine il convegno il Prof. Sanavio, esponente centrale della Consensus, che ha confermato la missione e lo scopo centrale della Consensus, ovvero diffondere e promuovere tra gli operatori e gli utenti la cultura della psicoterapia di provata efficacia. Oltre a questo convegno, la Consensus ha pubblicato un lavoro online che raccoglie lo stato dell’arte della sua missione e che potete trovare qui: https://www.iss.it/documents/20126/0/Consensus_1_2022_IT.pdf

 

Il cervello rettiliano esiste? Limiti del modello del cervello trino 

LEGGI ANCHE LA PRIMA PARTE DI QUESTO EDITORIALE

Nell’articolo esaminiamo gli aspetti a nostro avviso critici dell’applicazione del modello neuroscientifico del cervello trino alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, osservando in particolare i limiti del modello di MacLean.

 

Mentre nella prima parte di questo articolo abbiamo esplorato l’applicazione del modello neuroscientifico del cervello trino alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, in questa seconda parte esaminiamo quelli che sono a nostro avviso gli aspetti critici di questa operazione. Prima di tutto osserviamo che già il modello in sé ha i suoi limiti. Già secondo Terrence Deacon (1990), ricerche successive a MacLean hanno rivelato che la premessa di base di MacLean che i sistemi cerebrali sono stati aggiunti per accrescimento nel corso dell’evoluzione è discutibile. Gli organi non si evolvono per aggiunte successive. Per Deacon Il modello di MacLean ha promosso storicamente la comprensione del cervello in termini evolutivi, ma scientificamente era fuorviante.

Per la neurologa Lisa Feldman Barrett (2019), l’idea che i nostri cervelli siano delle matrioske l’una dentro l’altra è un concetto avvincente ma ingannevole. Il cervello della maggior parte dei vertebrati è costituito dagli stessi tipi di neuroni. È il numero di neuroni e la loro disposizione che differiscono da specie a specie. I progressi nelle tecniche di sequenziamento genico hanno permesso di scoprire che la maggior parte dei cervelli dei vertebrati sono fatti degli stessi identici ingredienti; che non ci sono parti recenti e primitive del cervello.

La miglior sintesi di queste perplessità la si trova in una rassegna di Steffen, Hedges e Matheson, che dopo aver esaminato la letteratura scientifica concludono che sarebbe meglio sostenere che il cervello è adattivo e non trino. Non vi è una netta suddivisione tra funzioni e stati ad alta e bassa controllabilità consapevole ma una capacità, di certo plastica ed epigeneticamente modellata, ovvero variabile a seconda delle circostanze e delle storie personali degli individui, di regolare gli stati emotivi a diversi gradi di efficienza. Questa regolazione effettivamente tende ad avvenire a un livello indiretto e metacognitivo ovvero processuale, non per azione immediata, ma avviene in termini diffusi e non secondo barriere più o meno invalicabili. Insomma, emozione e cognizione sono interdipendenti e lavorano insieme.

Le obiezioni alla teoria del cervello trino

 Steffen, Hedges e Matheson (2022) discutono tre diverse classi di obiezioni per la teoria del cervello trino. In primo luogo, il cervello non si è evoluto in fasi successive come ipotizzato da MacLean (1990). L’idea che l’evoluzione dei vertebrati sia consistita in strutture cerebrali più nuove sovrapposte sopra e sopra strutture cerebrali antiche non è evolutivamente giustificabile (Cesario, Johnson e Eisthen, 2020). In realtà, le regioni neurali di base sono condivise tra tutti i vertebrati. Inoltre non vi è necessariamente una progressione lineare dal rettile all’uomo (Striedter, 2005).

In secondo luogo, le strutture cerebrali non funzionano indipendentemente l’una dall’altra (Heimer e Van Hoesen, 2006). Durante le risposte emotive, c’è attività nell’amigdala e nel sistema limbico, ma c’è anche attività nelle aree corticali e nel tronco cerebrale (LeDoux, 2012). Il sistema limbico non è un centro puramente emotivo nel cervello. L’ippocampo è considerato parte del sistema limbico ma che non è una regione cerebrale essenzialmente emotiva ma è più strettamente associato alla memoria (Ledoux, 2012). Insomma, l’emozione e la cognizione non sono eventi indipendenti corrispondenti ad architetture cerebrali separate. Piuttosto, sono funzioni interconnesse che lavorano di concerto. Per questo il termine “sistema limbico” non è più un termine comunemente usato per descrivere come funziona il cervello (Bush et al., 2002; Shackman et al. 2011). Il “sistema limbico” perde la sua utilità anche in ambito clinico; poiché l’affetto è il culmine di un’ampia gamma di processi correlati che non possono essere ridotti a stati di impulsività incontrollabile come rischia di suggerire l’ipotesi del cervello trino (Barrett, 2017).

In terzo luogo, gli attuali risultati della ricerca neuroscientifica forniscono ulteriori obiezioni alla teoria del cervello trino. La ricerca sulla paura fornisce un esempio. Non esiste un circuito cerebrale della paura che si accenda durante una risposta alla paura, ma per il resto giace dormiente. Le reti cerebrali hanno sempre un certo livello di attività che influisce sul modo in cui elaborano le informazioni (Barrett, 2017). Ciò che cambia è l’attività relativa delle diverse reti cerebrali, con le reti attivate in modo differenziato in base al bisogno (Anticevic et al., 2011; Corbetta et al., 2008; Fox et al., 2005; Raichle et al., 2001).

Una teoria evolutiva più esplicativa su come funziona il cervello ha bisogno di integrare una conoscenza accurata della struttura e della funzione del cervello. L’adattamento, la sopravvivenza e la riproduzione sono al centro della teoria evolutiva e le reti cerebrali interdipendenti si sono evolute per aumentare l’adattamento per poter sopravvivere e riprodursi. Inoltre, i risultati emergenti suggeriscono che il cervello utilizza le informazioni enterocettive ed esterocettive per prevedere le condizioni future e ha bisogno di consentire un adattamento ottimale agli ambienti interni ed esterni in continuo cambiamento (Quigley et al., 2021; Brossschot et al., 2018; Thayer e Lane, 2009; Van den Bergh et al., 2021). Sulla base di una migliore comprensione di come funziona il cervello, Steffen, Hedges e Matheson propongono di sostituire “cervello trino” con un termine che cattura meglio l’attuale comprensione della funzione cerebrale: il cervello adattivo. In questo modello, il termine cervello adattivo sottolinea l’interdipendenza e la plasticità delle regioni cerebrali e la capacità del cervello di prevedere e adattarsi ai bisogni e alle condizioni future. Invece di tre regioni cerebrali relativamente indipendenti le reti cerebrali lavorano insieme in modo interdipendente; invece di circuiti emotivi o circuiti cognitivi puri, il cervello utilizza reti interconnesse per ottimizzare il mantenimento dello stato interno del corpo, delle emozioni e della cognizione per adattarsi a bisogni in continua evoluzione (Barrett, 2017).

È interessante notare le analogie tra questo modello di cervello adattivo e non trino e i modelli processuali. Come nei modelli processuali, non siamo in presenza di strutture separate ma di funzioni intrecciate e interdipendenti come avviene nel funzionalismo processuale cognitivo. Sarebbe ancora più intrigante esplorare se anche in questo cervello adattivo neuroscientifico la disfunzione non dipende da barriere architettoniche che bloccano definitivamente le comunicazioni dissociando le strutture cerebrali ma da disfunzioni che limitano in un uso rigido ma non lesionato le funzioni mentali.

 

Prisma, Prima Stagione (2022) – Recensione della Serie TV

Prisma ha i numeri per sfondare e rappresenta una novità affascinante per il pubblico a cui si rivolge, affamato come non mai di stimoli e opportunità, anche identificative.

 

 Latina, ai giorni nostri. Una location insolita e già per questo invitante, che fa da sfondo alla storia di Andrea e Marco, gemelli diversi, in questa nuovissima serie drammatica disponibile su Prime Video dal 21 Settembre, dove i due adolescenti sono interpretati (fatto divertente), dal medesimo attore, il promettente Mattia Carrano.

L’aver fatto coincidere le riprese con il lockdown ha messo a disposizione del regista Luigi Bessegato, scorci cittadini ripuliti dal caos (a tutto favore dell’atmosfera), che insieme alle dune di sabbia e ai luoghi del mito di Circe, creano lo scenario in cui i personaggi vivono la gravità dei loro diciassette anni.

Marco, introverso e schiacciato dagli obiettivi, dorme in stanza con Andrea, sfacciato e provocatorio. Dopo un gesto di autolesionismo del primo, Andrea inizia a tenerlo d’occhio con piglio da “fratello maggiore”. Ma Andrea ha una preoccupazione più grande: la sua identità. O una sua parte ad essere precisi, che lo porta a fantasticare in un futuro altrove.

Ci sono poi gli amici, il liceo, le feste, lo sport, la trap e quando l’occhio clinico vuole la sua parte, l’incessante lavorio narcisistico di accomodamento, tra manifestazioni di grandiosità, nelle sue mille sfaccettature e manovre di svalutazione.

Una chiara nota di merito va all’attualità della narrazione: temi LGBTQ a fare da substrato, la sessualità (forse vista con eccessiva tenerezza se rapportata al reale, con amplessi fiabeschi e una certa indulgenza ad accedere all’erotismo), i legami amorosi, tutto sviluppato attraverso dinamiche di fiducia e lealtà, di cameratismo, del segreto, del mostrare per nascondersi.

Poi, il bisogno di affermazione attraverso la visibilità, che è compensatorio di quella inferiorità percepita, anche d’organo (per ricordare Adler), come appare nel personaggio di Carola, con buona intuizione scenica, ma in modo un po’ idealizzato e monocorde di un concetto ormai super sdoganato di resilienza.

Prisma è una ventata di novità e carisma che fa dell’identità e della sua ridefinizione il cardine per esprimere come le vecchie concezioni di bianco e nero, maschio e femmina, normale e anormale, siano più che mai grossolane interpretazioni del mondo intimo delle nuove generazioni, del tutto insufficienti a comprenderne la realtà.

Otto puntate in cui l’onnipresente texting rivela sullo schermo le chat private che i personaggi si scambiano, mostrando la relazionalità tipica delle giovani generazioni e attraendo anche lo spettatore-genitore curioso.

Tra le trame narrative non resta spazio per il sempre poco attenzionato (e poco attraente) tema dell’esclusione sociale – piuttosto ironicamente – appena abbozzato dalla presenza di Fabio “Coccolino”, stereotipo del ragazzo bullizzato perché manchevole di ogni abilità sociale, protagonista solo di un tenero omaggio a fine stagione.

Occupano invece un piccolo spazio i genitori, che non rubando mai la scena ai figli, finiscono per essere soltanto un supporto necessario alla trama, e che siano attenti (la madre di Carola), assenti (la madre di Nina), o censori (i genitori dei gemelli), non vengono mai visti da dentro, anzi sono così al margine, tranne che in un’occasione sul finire della stagione, da non avere nomi propri.

Un assetto volutamente ricercato, un peccato veniale per una serie indirizzata ai giovani, ma anche un’opportunità sfumata, sia per spiegare molto meglio al giovane spettatore la ricaduta dinamica dei legami di attaccamento, sia per invogliare un pubblico adulto che non sia solo il genitore attratto dallo “spiare dal buco della serratura” la vita che i figli non raccontano.

Gli indizi utili a collegare la personalità e lo stile dei genitori al carattere dei figli, sono talmente sporadici che si ha l’impressione che siano capitati accidentalmente nella sceneggiatura.

 Al contrario, il lavoro per rendere credibile l’attore principale in due ruoli differenti, mediante una serie di accorgimenti tecnici, è talmente riuscito che neanche con uno sforzo razionale sembra possibile credere che si tratti della stessa persona. Merito di tutto il comparto tecnico e naturalmente di una regia e di una recitazione che risultano drammatiche e mai pesanti, spinte alla loro massima intensità dalle note di una colonna sonora che rivela da subito la miscela azzeccata di immagini e sonorità rock ed elettroniche, ma che spaziano da successi anni novanta a Franco Califano e Luigi Tenco.

Questo titolo, con l’indicazione +16 anni, avverte con l’alert “uso di alcol, contenuto sessuale, scene con fumatori, violenza, linguaggio volgare, nudità, uso di stupefacenti”, ed è tale da allarmare il genitore medio, ma si tratta di una produzione casta e pervasa di romanticismo.

La trasgressione inscenata mediante l’uso di un linguaggio volgare e l’abuso di droghe e alcool, è tenera e vulnerabile, incapsulata nella narrazione e senza rischi di una emulazione pericolosa, contrariamente ad altre ben note produzioni italiane che hanno reso appetibile il comportamento criminale.

Siamo ad anni luce dalla violenza insensata dei truci giochi di Squid Game per intenderci. I ragazzi di Prisma non sono né deviati, né violenti. Appaiono soltanto nelle loro fragilità.

La presenza di un adulto serve semmai a difendere il concetto che non bisogna necessariamente essere belli e svegli come i personaggi dei film per andare bene. Oppure, ancora meglio, come opportunità per riconoscere nella precocità, anche sessuale e sensuale dei giovani (e giovanissimi) di oggi, l’opportunità per dialogare e quindi proteggere, per dimostrare che l’unica cosa davvero pericolosa è ciò che non si conosce, che non si può dire o che non si capisce.

Prisma ha i numeri per sfondare e rappresenta una novità affascinante per il pubblico a cui si rivolge, affamato come non mai di stimoli e opportunità, anche identificative.

Il target dei giovani è facile da sedurre, si sa, ma il regista non esagera con gli espedienti e a parte la necessità cinematografica di ammantare di charme i personaggi, fa del realismo e della bravura degli attori i suoi punti di forza.

Per concludere, la lente proposta da Prisma illustra finalmente ad un pubblico ampio qualcosa che da sempre è esistito, ma che il nostro tessuto sociale e morale ha sempre mutilato, chiudendo quegli spazi che oggi appaiono più disponibili per esprimersi liberamente. Oltre l’intrattenimento, ma senza arrivare all’entusiasmo propagandistico di chi parla di Generazione Prisma, questa serie può raggiungere l’invidiabile traguardo dell’utilità, soprattutto per quegli adolescenti che mostrano problemi di evitamento e di socialità, a patto di spegnere la tv e trovare il coraggio di vivere le proprie esperienze.

L’uso problematico di Internet e il suo impatto sulla soddisfazione relazionale

Con la comparsa e la diffusione di Internet, fino ad arrivare ad un uso problematico di internet, alcune difficoltà relazionali si sono intensificate, con conseguenze a livello di coppia e familiare.

 

 Come già osservato, l’uso problematico di Internet è un fenomeno in rapido aumento, che può comportare numerose complicazioni nella vita quotidiana di un individuo, oltre che a impattare sugli ambiti lavorativi, sociali, familiari e relazionali (Candemir Karaburç & Tunc, 2020).

Proprio in tema relazioni di tipo romantico (relazioni sentimentali), l’utilizzo di Internet ha avuto un grande impatto (Chattopadhyay et al., 2020). Al giorno d’oggi è possibile incontrare il proprio partner online, velocizzando molto il processo di ricerca grazie a diversi programmi che permettono di incontrare le presunte anime gemelle semplicemente selezionando quali caratteristiche ricercare. Tuttavia, l’uso eccessivo di Internet può causare molte difficoltà nelle coppie, soprattutto in quelle sposate o conviventi.

L’impatto di Internet sulla coppia

Uno dei motivi principali per i quali le persone intrattengono relazioni sentimentali stabili è trovare un supporto che sia reciproco, in termini biologici, sociali e psicologici (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Considerando i fattori di benessere della coppia, sia in termini sociali che in termini economici, si può ipotizzare che i partner dovrebbero soddisfare a vicenda i propri bisogni, al fine di assicurare una stabilità relazionale. Infatti, la soddisfazione dei bisogni gioca un ruolo fondamentale nella stabilità della coppia. Fattori come la fiducia, l’autonomia, la fedeltà, l’autorealizzazione, l’amare e sentirsi amati sono tutti elementi chiave per una vita di coppia felice e pacifica.

Tuttavia, con la comparsa e la diffusione di Internet, alcune difficoltà relazionali si sono intensificate (Chattopadhyay et al., 2020). Ad esempio, il fenomeno del tradimento, che da sempre mina la stabilità relazionale, è diventato molto più diffuso, proprio grazie al fatto che al giorno d’oggi è possibile che si verifichi un fenomeno chiamato cyber infedeltà, ovvero l’avere una relazione extraconiugale che si svolge solamente online. Molti siti, infatti, forniscono l’opportunità di trovare online dei nuovi partner, e ciò favorisce la possibilità di avere una relazione extraconiugale sul web. Inoltre, molti individui cercano il proprio ex partner sul web, semplicemente per interesse o per tentare un’altra relazione.

Un altro ambito che può venire colpito dall’utilizzo problematico di Internet riguarda la sfera sessuale della coppia (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Infatti, individui che mostrano un uso problematico della rete tendono spesso a soddisfare i propri bisogni sessuali attraverso siti web espliciti. Il risultato è il fatto che l’individuo si senta meno energico e abbia meno desiderio sessuale verso il proprio partner, comportando così un calo nella soddisfazione relazionale.

L’impatto di Internet a livello familiare

 È inoltre possibile che gli individui con un uso problematico di Internet tendano a considerare poco i propri familiari, a causa del troppo tempo passato sulla rete (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Come conseguenze di ciò, è possibile che il proprio partner e i figli vengano trascurati, o che l’individuo eviti le responsabilità domestiche o addirittura non soddisfi i bisogni dei familiari, diminuendo così la soddisfazione relazionale, fino ad arrivare alla rottura della coppia. L’insoddisfazione e il malessere causati dal trascurare l’ambiente familiare, con conseguente aumento di carico di lavoro per il partner, insieme all’indebolimento dei legami familiari, possono risultare nel burnout della coppia, inteso come stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale nella coppia, causato dall’incompatibilità tra le aspettative e la realtà.

Sembra quindi che con l’aumentare del tempo trascorso sul web, e il diminuire del tempo passato in famiglia o col partner, è possibile che nella coppia compaiano insoddisfazione, disagio e sensazione di essere rifiutati (Chattopadhyay et al., 2020). Una possibile strategia per gestire l’impatto dell’uso problematico di Internet sulla soddisfazione relazionale potrebbe essere la sensibilizzazione sull’argomento, al fine di informare il partner che si tratta di una vera difficoltà. Inoltre, sarebbero utili anche strategie di prevenzione.

Il panico tra mito ed arte: una prospettiva della Psicologia Funzionale

La Psicologia Funzionale, attraverso l’interpretazione di alcune forme di espressione umana ci illumina in merito al Disturbo di Panico, indagandolo nella cornice psicosociale contemporanea e riconoscendolo come manifestazione del richiamo di un’interiorità che esige a gran voce di essere ascoltata.

 

Quella in cui viviamo oggi è l’epoca della crisi d’identità, sia individuale che sociale. In una società condizionata dalla narrativa di un’apparentemente inevitabile economia capitalista, madre di un mercato delle illusioni. Il Sé individuale si ritrova a dover barattare “l’essere” con il “sembrare”, in nome di un’aspirazione consumistica “dell’avere”, condannando all’oblio quelli che sono i bisogni fondamentali dell’individuo umano. Il Sé sociale invece, in questa cultura della finzione identitaria, insoddisfatto, sperimenta l’orrore dell’esperienza del vuoto che induce a depersonalizzazione e sfocia infine nel panico (Rasicci, 2011, p. 7).

La realtà postmoderna che ci fa da cornice, e non solo, investe su un diktat che “divide et impera”, cioè isola e confina le persone nel proprio spazio privato, anonimo, dissociato dalla propria interiorità. Basti pensare alle innumerevoli opportunità offerte dalla rete e alla facilità con cui reperire le informazioni in modo trasversale e dinamico. Ma parliamo di schermi asettici, freddi, avere accesso a un’infinità di contenuti non vuol dire necessariamente farne esperienza ed opportunità di crescita.

E in risposta a questa narrativa di intimità senza contatto, l’attacco di panico, che sorprende all’improvviso, fa il suo ingresso in scena come un grido interiore contro l’alienazione.

Dalle prime pitture rupestri ritrovate nelle caverne, l’uomo ha sempre sentito l’esigenza di lasciare un segno del proprio passaggio su questa terra. Perfezionando nel corso dell’evoluzione la propria capacità di espressione ritroviamo l’esperienza dell’uomo, la sensibilità del proprio personale sentire, in ogni opera.

Siamo allo stesso tempo protagonisti e testimoni di un mondo fatto di eventi, cose e persone che in ogni manifestazione esprimono vita, e se l’espressione artistica è una forma di comunicazione è nostro diritto e dovere interpretare ed esserne critici osservatori. È quando diveniamo sordi all’appello di quel richiamo di vita, chiudiamo gli occhi ignorando determinate dimensioni della nostra realtà affettiva apparentemente immateriali che ci sembrano superflue, che travolti dall’horror vacui sperimentiamo il panico.

Ed insorge l’urlo di Pan a ricordarci che esiste una realtà più profonda di cui occorre prendersi cura. Citando Hillman (1977) in una sua riflessione sul pensiero di Plutarco riguardo la morte di Pan:

La natura cessò di parlarci – oppure non fummo più capaci di udirla (…) Egli vive nel rimosso che ritorna, nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno avanti (…) (p.58-59).

Carl Gustav Jung (1875-1961) definì il dio Pan, “colui che fa l’angoscia”, come se in una specie di epifania psichica, ci ricordasse della sua esistenza generando il terror di panico e portando così alla luce i limiti dell’intelletto umano e l’inconsistenza delle nostre apparenze dietro le quali quotidianamente ci mascheriamo (Rasicci, 2011).

Il mito di Pan e la psicopatologia

Vent’anni fa l’attacco di panico era tendenzialmente insondato, abitualmente confuso con l’ansia e l’angoscia: ora viene considerato la nuova isteria, manifestazione emblematica di un’epoca alienante, come un tempo lo era l’isteria. La sindrome del panico è il fenomeno storico e socio-culturale caratteristico dell’epoca moderna.

Nei meriggi dell’antica Arcadia incontriamo il dio Pan, in parte caprino in parte umano, che rappresenta la totalità, senza distinzione tra psiche e corpo, cielo e terra, sacro e profano. Gli uomini vivevano allo stato brado, in un rapporto viscerale con la madre terra e tutti gli esseri senzienti. In un palcoscenico silvestre si esibisce nella sua performance attraverso un grido che si innalza rompendo il silenzio in risposta a chi osa interrompere il suo sonno. Nelle ore più luminose del giorno, quando Apollo dio del sole la fa da padrone e la ragione governa questa espressione spaventosa e allo stesso tempo spaventata, viene liberata, come se un dolore lancinante lo prendesse anima e corpo. La manifestazione di Pan è un’oppressione al petto e fame d’aria.

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Rappresentazione Dio Pan
Rappresentazione del dio Pan

Il viandante sul mare di nebbia

Il dipinto in questione, olio su tela del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840), ci offre un ulteriore spunto di riflessione sull’espressione del panico nella dimensione artistica umana. In quest’opera, il Viandante dà le spalle all’osservatore e si affaccia sul precipizio, simbolismo del dissolvimento della visione antropocentrica. Una staticità dinamica, che riconosce l’importanza del pensiero, dell’accettazione del vuoto che prescinde dal nostro controllo.

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Il viandante sul mare di nebbia

L’incapacità di riconoscere queste dimensioni è propria della consumistica società post-moderna, in cui ci viene garantita l’illusione del controllo. Disponiamo di tutti gli strumenti per rimanere in contatto, informarci, pianificare ogni nostra singola mossa. Quando però veniamo chiamati più o meno consensualmente ad uscire dal nostro porto sicuro caratterizzato dalla frenesia che ci esime dal pensare, invece di fare come il Viandante che osserva in quiete l’immensità reagiamo al non conosciuto con il terror di panico di chi è spaventato dal crollo delle proprie rigidità dalle quali è intessuto il controllo (Rasicci, 2011).

 

Il cervello rettiliano esiste? Psicoterapia cognitivo comportamentale e cervello trino

La teoria del cervello trino di Paul MacLean fornisce un appoggio neuroscientifico ai modelli cognitivi che danno meno credito alle capacità di auto controllo volontario della mente, appoggio che suggerisce che esisterebbero delle architetture cerebrali primordiali che sfuggono al controllo consapevole della neocorteccia.

 

Neuroscienze e psicoterapia cognitivo comportamentale

Da non pochi anni alcuni modelli di cognitivismo clinico si sono impegnati in alcune affascinanti riflessioni teoriche e cliniche sulle basi evoluzioniste dell’attività mentale. In questa operazione si sono richiamati ad alcuni modelli neuroscientifici che hanno avuto grande importanza storica – essi hanno svolto un ruolo fecondo nel promuovere l’esplorazione della radice evoluzionista dello sviluppo intellettuale dell’uomo – ma il cui valore scientifico è stato almeno in parte ridimensionato negli ultimi anni.

Parliamo del modello del cervello trino di Paul D. MacLean. Nella prima formulazione della teoria del 1949 MacLean sostenne che le componenti emotive di alcuni disturbi psicosomatici ed epilettici siano insediate in strutture cerebrali profonde che chiamò cervello viscerale e poi nel 1952 sistema limbico. Vent’anni dopo, MacLean completò la sua immagine del cervello trino (tre in uno) aggiungendo ciò che definì il complesso R (per “rettile”) – strutture nel nucleo del cervello e nel tronco encefalico che governano le funzioni di sopravvivenza di base – ai sistemi neocorticali e limbico. Infine, la teoria è stata definitivamente sviluppata in forma matura nel libro del 1990, The Triune Brain in Evolution, che si basava su studi anatomici di cervelli di animali.

Questo articolo è la prima parte di un più ampio contributo in due parti in cui ci proponiamo di esaminare questo ridimensionamento. In questa prima parte vogliamo tuttavia concederci qualche riflessione su alcune ragioni della fascinazione che ha avuto il cognitivismo clinico italiano per le neuroscienze. L’uso delle neuroscienze in psicoterapia può essere stimolante ma è sempre soggetto a due rischi. Il primo è che si tratta di un campo di discipline estremamente ampio che include molto sotto-insiemi, come le neuroscienze cellulari e molecolari, cognitive e computazionali. Questa ampiezza incoraggia l’audacia nella formulazione delle ipotesi, che è poi il secondo rischio, il rischio di trasposizioni troppo audaci da un campo all’altro in un’epoca in cui, malgrado di tanti passi avanti, il rapporto mente-corpo è ancora ben lungi dall’essere compreso. È vero che questi tentativi audaci hanno il merito di stimolare l’avanzamento delle indagini ma è altrettanto vero che non sono state ancora definite operativamente variabili ponte che permettano di creare ipotesi controllabili sulla corrispondenza tra stati mentali e corrispettivi cerebrali e viceversa.

La conseguenza è che qualunque scoperta del funzionamento o dell’architettura cerebrale è difficilmente applicabile in maniera diretta a corrispondenti funzionamenti mentali. Si tratta per lo più di stimolanti suggerimenti che possono essere fecondi a patto di essere coscienti della loro natura ancora labile e sfuggente all’osservazione. Attribuire a certe scoperte neuroscientifiche in modo meccanico e lineare un eccesso di significato mentale rischia sempre di trasformare delle ipotesi ancora mal definite in metafore che descrivono tutto e spiegano poco. Attenzione, non stiamo sostenendo che, siccome la natura del rapporto mente-corpo non è ancora chiara non si possono tentare applicazioni psicoterapeutiche ispirate da concetti neuroscientifici. Sarebbe come sostenere che finché la fisica quantistica non sarà tutta definitivamente chiarita la sua applicazione alle nuove tecnologie è scorretta, cosa non vera. Le applicazioni ci sono. Il problema è che, sulla base di concetti neuroscientifici ancora generici, si sono generati modelli di psicoterapia discutibili che non sono sostenuti da dati empirici di efficacia ma da queste stesse teorie neuroscientifiche. Il rischio è quindi di considerare le neuroscienze una forma di conferma empirica paragonabile alle prove di efficacia. Naturalmente è possibile anche il caso migliore. Ad esempio, alcuni efficaci interventi di psicoterapia cognitiva (Beck, 1976) e metacognitiva (Wells, 2008) hanno un’ispirazione neuroscientifica proveniente dagli studi sulla memoria e l’attenzione.

Il modello del cervello trino

A nostro parere, non è invece il caso di quello che è accaduto con l’ipotesi del cervello trino, ovvero quel modello neuroscientifico in cui strutture cerebrali sarebbero diverse non solo a livello funzionale ma apparterrebbero a livelli evolutivi diversi attribuibili a classi diversi di esseri viventi: il cervello rettiliano attribuibile appunto ai rettili, il cervello limbico o mammaliano attribuibile ai mammiferi e il neocervello tipico dei primati. I tre cervelli avrebbero funzioni diverse. Al rettiliano appartengono gli istinti di sopravvivenza individuale e di specie di base come alimentazione e riproduzione sessuale, le funzioni corporee autonome e della difesa del territorio, della risposta attacco-fuga, dei comportamenti non verbali, della sessualità e della riproduzione. Il cervello limbico corrisponde alla percezione emotiva e serve alla raccolta delle informazioni dei cosiddetti sistemi motivazionali, quelle classi di desideri e scopi individuali che regolano la vita a un livello superiore a quello puramente istintivo: i bisogni di attaccamento e di esplorazione, vicinanza e autonomia. Il terzo cervello, quello più evoluto, infine è la sede delle rappresentazioni consapevoli in cui l’informazione cognitiva è scomponibile secondo regole analitiche e verificabile secondo operazioni logiche. I tre livelli cerebrali si sarebbero sovrapposti uno all’altro durante lo sviluppo evolutivo.

Ciò che ha determinato il successo di questo modello tuttavia non sono le singole funzioni attribuibili ai tre cervelli, nozione che è parzialmente vera. Nel tronco vi è di fatto, fisiologicamente, la regolazione delle funzioni corporee autonome. Il problema è che da questa nozione empirica si deducano, con argomenti neuroscientifici, le modalità di azione di un’altra funzione per lo più attribuita alla neocorteccia dei primati e in particolare dell’uomo, la funzione spesso denominata della razionalità in termini naif mentre più propriamente dovrebbe essere denominata del controllo esecutivo volontario. Sulla base del modello del cervello trino si è dedotta, senza dimostrarla, l’ipotesi che questa funzione volontaria ed esecutiva abbia scarsa se non nulla capacità di regolare, influenzare e controllare le altre funzioni, quelle di regolazione corporea ed emotiva (Liotti, 2001).

Sappiamo che la forza di questa funzione del controllo esecutivo propria di alcune aree neocorticali come ad esempio la corteccia prefrontale era stata apprezzata e privilegiata nei modelli classici di psicoterapia cognitiva, in particolare quello di Beck (1976) secondo il quale il soggetto sofferente era ritenuto in grado di raggiungere un maggiore grado di benessere psicologico esplorando i propri stati emotivi (in termini tecnici incrementando il grado di rappresentazione consapevole dei propri stati motivazionali) ristrutturandoli in termini più funzionali e soprattutto decidendo consapevolmente (ecco la funzione esecutiva consapevole) di poter scegliere comportamenti più funzionali malgrado il messaggio avversivo generato delle emozioni.

Psicoterapia cognitiva, regolazione emotiva e cervello trino

Questa fiducia per la capacità del paziente di potere recuperare il proprio auto-controllo in termini più funzionali (ecco ciò che in termini naif si chiama razionalità) ha sempre generato perplessità in molti terapeuti, anche cognitivi. Per un serie di ragioni, alcune scientificamente fondate altre radicate in una certa cultura popolare condivisa anche da alcuni terapeuti, spesso nutriamo scarsa fiducia nella nostra capacità di agire in maniera opposta o almeno differenziata rispetto alle emozioni. Riteniamo che le emozioni ci travolgano, ci comandino, o in termini meno irrazionali che le emozioni siano semplicemente ciò che ci caratterizza in maniere più sincera e che quindi agire contro il dettato emotivo sia un’operazione falsa e inautentica.

In realtà la psicoterapia cognitiva non ha mai sostenuto che le emozioni siano meccanicamente comandate dagli stati cognitivi consapevoli. Semmai ha sostenuto che esse possono essere cognitivamente regolate attraverso una serie di operazioni mentali consapevoli. Ciò che è davvero gestibile in maniera diretta sono solo i comportamenti. Va ammesso che questo modello regolativo è definitivamente maturato solo con i cosiddetti modelli processuali o di terza onda della psicoterapia cognitiva mentre è vero che nei modelli classici ci fosse in parte una fiducia ingenua nel potere della cognizione di influenzare direttamente le emozioni.

Nel bene e nel male alcuni modelli di cognitivismo clinico hanno sempre attribuito particolare preferenza allo studio di questi limiti della razionalità (termine naif, ripetiamolo). Nel bene perché gli ha permesso di approfondire alcuni temi clinicamente importanti, come ad esempio il significato semi funzionale del sintomo (un contributo che possiamo attribuire sia al gruppo dei costruttivisti kelliani come Lorenzini e Sassaroli (1995) ma anche ad alcuni lavori della prima parte dell’attività creativa di Vittorio Guidano e Gianni Liotti (1983), prima della sua svolta post-razionalista oppure alcune intuizioni di Antonio Semerari (1999) sulla regolabilità indiretta e metacognitiva delle emozioni. Si tratta di una serie di contributi, cosiddetti di scuola costruttivista, che sono passati nel cognitivismo classico di Beck e poi sono stati portati a maturazione nella svolta processuale. Nel male poiché per questa strada il cognitivismo clinico ha rischiato di rinnegare il principio clinico cognitivo della fiducia nella capacità del paziente di regolare consapevolmente le emozioni, imboccando invece una strada alternativa che sembra partire da un principio opposto, che è quello della incontrollabilità delle emozioni. Si tratta anche di una visione del mondo che ha inattesi parallelismi in certe caratteristiche culturali intrinseche sua passate che recenti della filosofia italiana, dalle speculazioni filosofiche di Giordano Bruno e Giambattista Vico passando per Leopardi fino al modello biopolitico di Agamben, tutti dominati da una visione del vissuto emotivo dell’esistenza umana come scaturigine ingovernabile (Esposito, 2010).

Tornando alla psicoterapia, questo tipo di sviluppo è visibile soprattutto nel lavoro di Gianni Liotti (2001), così interessato a quegli stati per eccellenza poco controllabili come quelli della dissociazione traumatica e che non a caso adottò pienamente la teoria del cervello trino. Di qui il crescente interesse per processi terapeutici che sembrano tentare di agire attraverso canali non cognitivi, ovvero senza passare attraverso rappresentazioni consapevoli ed esecutivamente controllabili, modelli terapeutici di tipo relazionale e/o esperienziale-corporeo elaborati come non cognitivi, con l’ulteriore rischio -a nostro parere- di fraintendere questi interventi che invece conservano una buona dose di funzionamento che passa attraverso le funzioni consapevoli ed esecutive (ovvero razionali, ma -ribadiamolo ancora- razionale è un termine naif).

La teoria del cervello trino di Paul MacLean fornisce un appoggio neuroscientifico ai modelli cognitivi che danno meno credito alle capacità di auto controllo volontario della mente, appoggio che suggerisce che esisterebbero delle architetture cerebrali primordiali che sfuggono al controllo consapevole della neocorteccia. Per compensare queste tendenze non sempre progressive del cognitivismo clinico italiano si possono citare brevemente alcuni sviluppi delle neuroscienze che sono seguiti alla diffusione del modello del cervello trino. Queste revisioni critiche hanno discusso le rigidità di quel modello di MacLean, a cominciare dalla sua suddivisione del cervello in parti separate. Occorre ricordare che il cervello è fatto da reti di comunicazione che suggeriscono che i cosiddetti tre cervelli non sono tre compartimenti stagni isolati ma vi sono proiezioni plastiche che dalla neocorteccia vanno al tronco, dal tronco alla neocorteccia e così via. È vero che nel processo di maturazione nervosa dallo stadio embrionale alcune strutture maturano prima di altre e forse per questo che alcuni studiosi di psicoterapia come Farina e Liotti (2011) o van der Kolk (1996) ritengono che certi traumi, avvenuti in precoce, possano essere “racchiusi” da un tag molecolare/sinaptico in certe zone cerebrali rispetto ad altre. Chiudiamo qui la prima parte dell’articolo mentre nella prossima esploreremo i limiti del modello del cervello trino e della sua applicazione alla psicoterapia cognitivo-comportamentale.

LEGGI ANCHE LA SECONDA PARTE DI QUESTO EDITORIALE

L’alterazione delle coordinate percettive nello Spazio

L’alterazione delle coordinate percettive nello Spazio: la percezione degli oggetti, il riconoscimento dei volti, le illusioni spaziali e la confusione mentale.

 

 Tra gli aspetti dell’elaborazione delle informazioni studiati durante i voli spaziali, troviamo l’impatto della microgravità anche sulla percezione dello Spazio, sulle relazioni tra due oggetti esterni, sulla rappresentazione mentale della tridimensionalità e sulla propensione alle illusioni visive geometriche. Tutti questi aspetti sono molto rilevanti, non solo per i neuroscienziati, ma anche per la comprensione dei processi cognitivi di base necessari per un lavoro efficiente nello Spazio. Infatti, l’assegnazione coerente delle coordinate spaziali (ad esempio: “su”, “giù”, “sinistra”, “destra”, “sotto”, “sopra”) di un oggetto percepito è essenziale per la comunicazione con i compagni di viaggio e con il resto della squadra (Mammarella, 2020, pp. 55-58). Per questo tipo di incarico, la rappresentazione dello spazio esprime l’importanza del quadro di riferimento di un oggetto. Sulla Terra sono disponibili diversi segnali percettivi che potrebbero essere usati come tale riferimento, quali le coordinate dello sfondo visivo, le coordinate intrinseche dell’oggetto (o della forma percepita) e le coordinate gravitazionali fornite dai recettori vestibolari e somatosensoriali dell’osservatore. Di solito sorgono pochissimi conflitti tra tutti questi diversi segnali percettivi perché, sulla Terra, sono tutti perfettamente concordanti (Macaluso et al., 2017, pp. 8-9). Nello Spazio, in cui si è sottoposti all’influenza della microgravità, questi diversi segnali percettivi risultano essere tutti discordanti tra loro. Com’è possibile assegnare le giuste coordinate spaziali ad uno stimolo, quando non si hanno punti di riferimento affidabili e quando il nostro cervello riceve segnali contrastanti dai diversi recettori sensoriali? (Landon, Slack & Barrett, 2018, pp. 563- 564). È stato testato un gruppo di astronauti durante una missione spaziale su un compito di verticalità visiva soggettiva e su uno di verticalità percettiva. I risultati ottenuti sono stati successivamente confrontati con quelli di un gruppo di controllo sulla Terra. Il primo compito, studiato per valutare la verticalità percettiva, misura la dipendenza dagli indizi visivi per l’orientamento spaziale. Solitamente questo esercizio consiste nel presentare una linea luminosa su uno schermo di computer ed i volontari devono indicare se la linea sia inclinata verso destra o sinistra rispetto ad una pallina che cade (in questo caso la direzione della pallina che cade è data dalla forza gravitazionale). La verticale soggettiva, invece, sfrutta le coordinate dettate dalla propria posizione corporea (in qualsiasi direzione essa si trovi) per indicare la posizione dello stimolo. Conseguentemente, se noi fossimo nello Spazio e dovessimo indicare le coordinate di uno stimolo in assenza di punti di riferimento certi, risponderemmo dandone la posizione rispetto a noi stessi perché in quel momento, la nostra posizione risulta essere l’unica informazione affidabile. I risultati ottenuti suggeriscono che gli astronauti tendono a fare affidamento sugli indizi corporei rispetto a quelli visivi. Infatti, non sono state rilevate grandi differenze nei due compiti tra il gruppo sperimentale e quello di controllo, ad indicare una capacità del sistema percettivo di procedere con una serie di aggiustamenti alla microgravità per compensare i cambiamenti richiesti dalle condizioni spaziali (Lee et al., 2019, pp. 4-8). Per comprendere meglio questi fenomeni sono stati indagati soprattutto la percezione degli oggetti, il riconoscimento dei volti e le illusioni geometriche.

La percezione degli oggetti

Nello Spazio la sfida principale consiste nella percezione degli oggetti presenti nell’ambiente circostante a causa dell’influenza della microgravità. Questa condizione altera il modo in cui percepiamo l’ambiente producendo sensazioni illusorie con conseguenze persistenti negli astronauti che trascorrono lunghi periodi nello Spazio. Così come la percezione è influenzata dalle condizioni di microgravità, altrettanto il nostro cervello possiede una rappresentazione interna della gravità che gli consente di svolgere funzioni importanti come il controllo adeguato e la pianificazione motoria (Clement, Skinner, Richard & Lathan, 2012, pp. 894-895). Nel corso dell’esperimento di Friederici e Levelt, ad un gruppo di astronauti sono stati presentati degli stimoli visivi costituiti da due palline (una nera ed una bianca). Il compito assegnato agli astronauti era quello di descrivere le relazioni spaziali tra le due palline (ad esempio, “la pallina nera si trova in alto a sinistra rispetto alla pallina bianca”). Questo esperimento è stato proposto agli stessi soggetti prima sulla Terra e poi nello Spazio e, in entrambi i casi, i risultati hanno rivelato una coerente assegnazione di coordinate spaziali. Tuttavia, il quadro di riferimento dominante utilizzato per questo compito è stato alterato; infatti, in orbita, si parla di coerenza e non di “giusto” o “sbagliato” perché, mentre sulla Terra le assegnazioni riportate dai soggetti sono in gran parte basate sulla direzione della forza gravitazionale, nello Spazio è stato scelto un quadro di riferimento egocentrico (non potendone scegliere uno allocentrico). Ovvero, le assegnazioni spaziali erano determinate prevalentemente dalle coordinate retiniche. Quindi, la risposta degli astronauti in orbita rispetto alla posizione delle due palline risultava essere coerente con la loro posizione corporea (Friederici & Levelt, 1990, pp. 253-256). Ad un risultato simile, era arrivato anche un altro studio incentrato sulla percezione della verticalità e dell’orizzontalità. In particolare, sono stati testati cinque astronauti ed un gruppo di controllo su un compito che chiedeva loro di ricordare ed indicare se lo stimolo presentato sullo schermo fosse allineato perfettamente con l’orientamento di una linea presentata in precedenza. Tutti i partecipanti hanno mostrato una buona performance (il classico “effetto obliquo”) a sostegno dell’ipotesi che l’orientamento viene elaborato attraverso diversi tipi di indizi, partendo da quelli propriocettivi fino a quelli gravitazionali. Conseguentemente, quando mancano gli indizi gravitazionali, quelli propriocettivi possono compensarne la perdita (McIntyre, Lipshits, Zaoui, Berthoz & Gurfinkel, 2001, pp. 113-116).

Il riconoscimento dei volti

Interessante è il contributo più recente di Harris sulla percezione della verticalità. Si tratta di un’abilità percettiva fondamentale, in quanto l’essere capaci di elaborare la verticalità ci permette di leggere, di riconoscere gli oggetti ed i volti (Harris, Jenkin, Jenkin, Zacher & Dyde, 2017, pp. 7-9). Ad esempio, è stato studiato il classico “effetto inversione” che si riscontra nel riconoscimento dei volti, ovvero la difficoltà di riconoscere un volto anche familiare se viene presentato a testa in giù. Gli oggetti complessi vengono riconosciuti più facilmente quando presentano un orientamento specifico. Quando viene presentato un viso capovolto, anche molto familiare, viene riconosciuto con maggiore difficoltà rispetto a quando viene presentato in posizione verticale. Fino ad ora non era possibile stabilire se la direzione fornita dalla gravità, dalla retina o dal corpo costituisse il riferimento spaziale coinvolto maggiormente nell’effetto inversione (Tim, Michael & Peter, 2016, pp. 247-249). Si è ritenuto quindi importante indagare se la gravità viene utilizzata come riferimento principe nell’elaborazione degli oggetti (semplici e complessi) e del loro orientamento spaziale. È emerso che il riconoscimento dei volti è un processo molto più sensibile rispetto agli oggetti semplici, all’effetto di inversione. Conseguentemente si è pensato di esaminare il riconoscimento dei volti sia nello Spazio sia sulla Terra per verificare le differenze di elaborazione (Cara & Nicholaa, 2015, pp. 134-135). Sono stati quindi testati diversi astronauti, i quali hanno dimostrato che i volti codificati sulla Terra sono sensibili all’effetto inversione anche quando vengono riproposti una volta giunti nello Spazio. Se la gravità fosse usata come informazione principale per codificare i volti, il riconoscimento in forma eretta o invertita dovrebbe avere una comprensione più facilitata (o disturbata) durante il volo. Ma questo non si è verificato. Al contrario, se la gravità fosse stata utilizzata per assegnare una direzione corretta ad un viso capovolto per riconoscerlo, le successive prestazioni di riconoscimento dei volti avrebbero dovuto dare risultati peggiori durante il volo. Invece, il livello generale delle prestazioni è rimasto lo stesso sia sulla Terra sia in volo. Se ne deduce che la direzione data dalla gravità non sia un indizio utilizzato a Terra per codificare a lungo termine l’orientamento dei volti e non risulti necessario per assegnare una direzione ai volti durante il riconoscimento. Infatti, è stato osservato che i volti mostrati nello Spazio sono codificati con un orientamento preferenziale di tipo verticale piuttosto che orizzontale. Questo succede perché il volto risulta più facilmente riconoscibile se posto in linea parallela rispetto all’orientamento dell’osservatore sia sulla Terra sia nello Spazio. Infatti, l’effetto di inversione che colpisce il riconoscimento dei volti familiari, potrebbe essere basato esclusivamente su una fonte di informazioni di tipo egocentrico come l’orientamento e la direzione della retina dell’osservatore, dati che non vengono modificati nello Spazio (Parr, Taubert, Little & Hancock, 2012, pp. 25-27). Si parla infatti di “orientamento retinico”, ovvero una tipologia di orientamento che non dipende dalla direzione della gravità e della verticalità terrestre, ma dal parallelismo e dalla verticalità tra la retina dell’osservatore e la posizione di un oggetto complesso (come la fotografia capovolta di un viso) (Donatella, Walter & Irvin Rock, 1995, pp. 29). Il fatto che l’effetto di inversione sia ancora presente sulla Terra per i volti mostrati in volo, suggerisce che l’elaborazione di quel viso non può beneficiare dell’opportunità di sperimentare volti e oggetti capovolti nello Spazio, come non beneficia dell’opportunità di riconoscere i volti grazie alla gravità terrestre. Se ne deduce che la gravità non è coinvolta come riferimento preferenziale nel riconoscimento dei volti.

Le illusioni spaziali e la confusione mentale

 Lo Spazio può provocare strane reazioni nella mente, ad esempio la sensazione di disorientamento, percezioni distorte, un pensiero più opaco. Queste conseguenze sconvolgenti sono talvolta note come space stupids (Aubert et al., 2016, pp. 4) o space fog e potrebbero potenzialmente mettere a repentaglio le missioni future (Clement Gilles, 2014, pp. 7). Alcune delle percezioni distorte degli astronauti possono essere attribuite allo stress e alla solitudine durante i viaggi nello Spazio. Un equipaggio della stazione spaziale Salyut-5 ha riferito di un odore acre e tossico (che li ha spinti a fare ritorno in anticipo), ma alcuni psicologi hanno suggerito che si trattasse di un’allucinazione causata dalle pressioni sia fisiche sia mentali provocate dalla missione (NASA, 2014, pp. 33). Molte delle strane illusioni sono causate da qualcosa a cui è ancora più difficile sfuggire: la mancanza di gravità. Senza il peso del corpo, il cervello diventa facilmente confuso sul suo orientamento, causando, ad esempio, la strana sensazione di essere permanentemente sottosopra. Durante le fasi iniziali di una missione spaziale, la percezione deve adattarsi ad una serie di cambiamenti in termini di stimolazione sensoriale, che le permettano di adattarsi al nuovo ambiente. La natura delle illusioni spaziali è determinata dal ruolo e dal contributo relativo ai vari tipi di input sensoriali dovuti all’orientamento spaziale. È possibile dunque che, in condizioni di microgravità, emergano errori percettivi e illusioni che poi si risolveranno una volta tornati sulla Terra. Dalle risposte a una serie di questionari somministrati a 104 astronauti, lo studio di Kornilova (1997), ha rilevato come il 98% dei partecipanti riscontrasse una qualche forma di illusione circa la propria posizione, il proprio movimento e il movimento degli oggetti circostanti (Kornilova, 1977, pp. 433-435). In particolare, la percezione dell’orientamento del proprio corpo può cambiare: se sulla Terra la verticale soggettiva è legata alla posizione della testa e del corpo, in orbita anche i piedi possono essere percepiti come parte superiore del corpo. Questo fenomeno viene chiamato “illusione dell’inversione” (inversion illusion) ed è dovuto alla distribuzione dei fluidi che lasciano le estremità inferiori per dirigersi verso il cervello (Mammarella, 2020c, pp. 78-79). Gli studi appartenenti all’approccio cognitivo si sono soffermati su illusioni come quella della massa-dimensione (size mass illusion), che si verifica quando un individuo solleva due oggetti dello stesso peso ma di dimensioni diverse e mostra la tendenza a dire che quello più piccolo è il più pesante. L’illusione è interessante, in quanto si basa sulle aspettative circa il peso presunto di un oggetto (solitamente più è grande più è pesante). Tali aspettative vengono disattese quando si prendono gli oggetti in mano: il soggetto afferma che quello più piccolo pesa di più (Clement Gilles, 2014, pp. 5-6). In condizioni di microgravità, però, il peso non può essere un indizio utile per valutare gli oggetti, in quanto gli stessi devono essere agitati (procedura detta anche “accelerazione degli oggetti”) per valutarne la pesantezza. Clément, nel 2014, ha condotto uno studio di conferma su questa illusione reclutando 12 volontari e chiedendo loro di stimare il peso degli oggetti dopo averli scossi: anche in questo caso si è verificata l’illusione (Clément Gilles, 2014, pp. 86-87). L’obiettivo di questa area di ricerca era anche di indagare la percezione della profondità negli astronauti (durante e dopo il volo spaziale) studiando la loro sensibilità alle figure prospettiche. È emerso che la percezione della profondità è alterata e per questo motivo si parla di “percezione illusoria”. Questa importante ambiguità della profondità è attribuita alla mancanza del riferimento gravitazionale e ancor più dell’elevazione occhio-suolo, necessari per interpretare correttamente i segnali di profondità prospettica. Le illusioni sono una caratteristica comune della percezione visiva e derivano dalla differenza tra le caratteristiche oggettive e quelle soggettive dell’ambiente circostante. Di conseguenza, le illusioni rappresentano un prezioso strumento per esplorare l’adattamento della percezione visiva alla rappresentazione degli ambienti insoliti (Moore et al., 2019, pp. 13-14). Volando senza visibilità, di notte o tra le nuvole, il pilota non può evidentemente contare sulla propria vista, per quanto acuta essa sia e deve ricorrere agli strumenti di bordo. Con il cattivo tempo, il pilota rischia di prendere una stella per un faro o al contrario i fari per le stelle, il bordo curvo di una nuvola per l’orizzonte ecc. Ancora più spesso egli prova la sensazione che il suo apparecchio si inclini, viri o plani (Bernard Weiss, Mark Utell & Paul Morrow, 1992, pp. 242). Egli, inoltre, ha spesso l’impressione che l’aereo continui il proprio volo in posizione capovolta. In queste condizioni non potendo contare sui propri sensi, il pilota si rimette unicamente alle indicazioni dei suoi strumenti, ma ciò non è affatto facile ed egli deve talvolta ricorrere all’autosuggestione per convincersi che sta volando correttamente. Anche lo Spazio cosmico è fonte di frequenti illusioni. Come è noto, l’assenza di peso è preceduta da un’accelerazione, forza invincibile che incolla il cosmonauta allo schienale del sedile. Ma l’organismo si oppone a questa forza, i muscoli si tendono per staccare il corpo dal sedile. Quando l’assenza di peso si manifesta, i muscoli restano attesi per inerzia ed è allora che il cosmonauta prova la sensazione, inevitabile ma erronea, di volare sulla schiena o con la schiena in basso. Se i muscoli della schiena si decontraggono gradualmente, il passaggio all’assenza di peso non genera simili illusioni. Tuttavia, quando il sistema nervoso è incapace di inibire l’informazione alterata proveniente dall’apparato otolitico, le rappresentazioni erronee possono persistere abbastanza a lungo. Basandosi su considerazioni teoriche di ordine generale, Tsiolkovskij (fondatore della astronautica) aveva già formulato l’ipotesi che in assenza di peso l’uomo sarebbe stato vittima di diverse illusioni e che avrebbe provato difficoltà a orientarsi nello spazio. Tuttavia, per insolite che fossero queste condizioni, egli stimava che si sarebbe potuto adattare ad esse sostenendo che con il tempo queste illusioni sarebbero scomparse. Mentre alcuni astronauti durante il volo non perdono la loro capacità lavorativa accusando semplicemente uno stato di debolezza come se stessero sollevando un peso, altri hanno l’impressione di cadere, di capovolgersi e di restare sospesi con la testa in basso. Queste illusioni generano un senso di inquietudine e le persone che ne sono vittime, perdono la capacità di orientarsi nello spazio e si fanno un’idea errata del mondo circostante. Questo stato solitamente dura pochi secondi e cede subito il posto, in alcuni casi, ad una sensazione di euforia. I soggetti dimenticano così il programma e manifestano improvvisamente una felice eccitazione. Tuttavia, la percezione dello spazio e degli oggetti circostanti non è la sola a modificarsi. In alcuni individui si nota un’alterazione di quello che può essere definito lo schema corporeo, vale a dire della rappresentazione della sua forma e delle sue dimensioni, della grandezza assoluta e relativa delle sue diverse parti, dei loro rapporti reciproci e dei movimenti degli arti. Questo gruppo comprende anche gli individui che in uno stato di imponderabilità possono provare una sensazione di isolamento e di impotenza. Quando il disorientamento e le illusioni spaziali sono particolarmente intense, queste illusioni persistono durante tutta la fase dell’assenza di peso e si accompagnano talvolta a sintomi di mal di mare. Talvolta l’illusione di cadere in un abisso è talmente pronunciata da ispirare sensazioni di terrore da stimolare notevolmente l’attività motoria e da far perdere ogni capacità di orientamento. Questa reazione psichica ricorda la sindrome della fine del mondo, caratteristica di alcuni disturbi mentali, in cui i pazienti riferiscono la sensazione di “camminare galleggiando nell’aria, di non sentire il proprio corpo che diventa leggero come una piuma, imponderabile”, sintomo plausibilmente legato a disfunzioni cerebrali e all’alterazione delle informazioni trasmesse al cervello dagli organi di senso (Gagarin & Lebedev, 2016, pp. 196-197). L’assenza di peso provoca anche una notevole alterazione delle informazioni proveniente dai recettori (dalla pelle, dal tessuto cellulare sottocutaneo e dai vasi sanguigni) incaricati di percepire l’effetto della pressione. Dato che in assenza di peso gli sforzi muscolari necessari al mantenimento della posizione verticale diventano senza oggetto, anche il flusso di impulsi nervosi emanati dall’apparato muscolare si modifica: da ciò la comparsa di ogni tipo di illusioni, il disorientamento nello Spazio e la modificazione dello schema corporeo (Hinkelbein et al., 2020, pp. 13-14).

Traendone le conclusioni

In risposta ai fenomeni relativi alla percezione degli oggetti, al riconoscimento dei volti ed alle illusioni, esistono due possibili teorie, tra le quali attualmente non è ancora possibile scegliere a causa della mancanza di studi più approfonditi. La prima teoria riguarda il fatto che i livelli di stress durante il volo possono ostacolare gravemente i processi di apprendimento. Infatti la permanenza nello Spazio provoca l’insorgenza di deficit dell’apprendimento e una riduzione della capacità di memorizzare le informazioni (Koppelmans et al., 2016, pp. 4-5). La seconda teoria prevede che la microgravità possa influenzare la fase iniziale nella codifica degli oggetti complessi, senza però comportare l’effetto inversione (Said Can et al., 2020, pp. 16-18). Infatti, le prime fasi di elaborazione e di codifica a lungo termine dei volti sulla Terra potrebbero essere determinate con il riferimento gravitazionale. In condizioni di microgravità queste prime fasi sarebbero disturbate e, di conseguenza, la codifica a lungo termine potrebbe essere insufficiente. In conclusione, se ne deduce che la gravità rappresenti un’informazione principe nella codifica degli oggetti complessi e, in particolare, di volti. Sembra che la codifica a lungo termine non sfrutti direttamente l’orientamento gravitazionale, ma piuttosto l’orientamento retinico. Utilizzando questo tipo di riferimento, il cervello risulta essere più dipendente dalla ripetizione e dalla frequenza di una specifica esperienza piuttosto che dalle caratteristiche ambientali come la gravità.

Le angosce dei filosofi – L’ ansia di Arthur Schopenhauer

Nel suo L’arte di conoscere se stessi, Arthur Schopenhauer ci offre una sorprendente descrizione della sua personalità che capovolge l’immagine di un filosofo austero e solenne: ciò che emerge è, invece, l’immagine di un uomo consapevolmente fragile, spesso dominato – ma mai vinto da – irrazionali e “inspiegabili” paure.

 

Nell’«aureo libretto», come lo definisce giustamente F. Volpi, intitolato L’arte di conoscere se stessi, Arthur Schopenhauer ci offre una sorprendente descrizione della sua personalità che capovolge radicalmente la pregiudiziale immagine di un filosofo austero e solenne: quello che emerge dalla sua personale autobiografia è, invece, l’immagine di un uomo consapevolmente fragile, spesso dominato – ma mai definitivamente vinto da-irrazionali e “inspiegabili” paure.

Ecco le parole del maestro di Danzica:

La Natura ha fatto qualcos’altro per isolare il mio cuore munendolo di diffidenza, irritabilità, impetuosità e fierezza in una proporzione quasi inconciliabile con la mens aequa del filosofo. Da mio padre ho ereditato l’angoscia, che io stesso ho maledetto e combattuto impegnandovi tutta la mia forza di volontà. Capita che per i motivi più insignificanti mi assalga con una tale violenza da farmi vedere dianzi a me in carne e ossa sciagure solo possibili, anzi appena pensabili. 

Una terribile fantasia potenzia a volte questa inclinazione fino all’incredibile. Già da bambino, a sei anni, una sera i miei genitori, tornando da passeggio, mi trovarono nella più cupa disperazione perché mi ero immaginato che all’improvviso mi avessero abbandonato per sempre. 

Da ragazzo mi tormentavano malattie e litigi immaginari. Durante gli studi a Berlino per un certo tempo credetti di avere un esaurimento. Allo scoppio della guerra nel 1813 mi perseguitò il timore di essere costretto al servizio militare. Da Napoli mi fece fuggire la paura del vaiolo, da Berlino il colera. A Verona ero in preda all’idea fissa di avere assaggiato tabacco da fiuto avvelenato. Nel luglio 1833, al momento di lasciare Mannheim, senza alcun motivo esteriore fui preso da un indicibile senso d’angoscia. Per anni mi hanno perseguitato il timore di un processo penale per il pasticcio a Berlino, il terrore di perdere il mio patrimonio e la paura che mia madre impugnasse la mia parte di eredità. 

Di notte bastava un rumore per farmi saltare giù dal letto e afferrare la sciabola e le pistole che tenevo sempre cariche. Anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono. Essa amplifica all’infinito anche la minima avversità e rende tanto più difficile per me il rapporto con gli esseri umani. 

Sarebbe molto difficile, ma non impossibile, riuscire a costruire una ‘diagnosi’ a partire da questa brevissimo, ma denso, frammento autobiografico. Apparirebbe tuttavia inutile sforzarsi di diagnosticare e medicalizzare a posteriori una qualche sindrome o un particolare disturbo a proposito di una personalità, quale fu quella di Arthur Schopenhauer, che non solo convisse con la sua angoscia facendo di tutto per combatterla («che io stesso ho maledetto e combattuto impegnandovi tutta la mia forza di volontà») ma, con ogni probabilità, la utilizzò come una sorta di ‘palestra filosofica’, per conoscere più a fondo le inquietudini che attanagliano lo spirito umano e studiare strategie efficaci per ‘vincere’ il dolore.

Ciononostante, se proprio si volesse azzardare una congettura diagnostica in base al testo biografico letto, cosa si potrebbe dire? Gli episodi biografici raccontati dal famoso filosofo tedesco sarebbero quasi certamente riconducibili alla sfera dei disturbi d’ansia. Ad esempio questo passo: «anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono» lascerebbe pensare ad una severa ansia generalizzata e l’esperienza berlinese, per citarne una, ad una crisi ipocondriaca abbastanza rilevante.

È abbastanza riconoscibile una tendenza al pensiero catastrofico. Nel manuale sul disturbo d’ansia generalizzato, preparato dall’équipe della Clinical Research Unit for Anxiety Disorders di Sidney (Centro Scientifico Editore, Torino, 2004) vengono indicati ben quattordici errori cognitivi tipici di una mente ansiosa (pp. 27-29), e vale la pena elencarli qui di seguito per usarli come griglia interpretativa del frammento biografico del filosofo di Danzica:

  • Pensare in termini di tutto o nulla: «di notte bastava un rumore per farmi saltare giù dal letto e afferrare la sciabola e le pistole che tenevo sempre cariche»;
  • Generalizzare: «anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono. Essa amplifica all’infinito anche la minima avversità e rende tanto più difficile per me il rapporto con gli esseri umani»;
  • Filtrare mentalmente la realtà;
  • Sminuire;
  • Personalizzare;
  • Sopravvalutare i rischi o le probabilità di un evento spiacevole: «allo scoppio della guerra nel 1813 mi perseguitò il timore di essere costretto al servizio militare. Da Napoli mi fece fuggire la paura del vaiolo, da Berlino il colera»;
  • Catastrofizzare o esagerare l’importanza di un evento: «per anni mi hanno perseguitato il timore di un processo penale per il pasticcio a Berlino, il terrore di perdere il mio patrimonio e la paura che mia madre impugnasse la mia parte di eredità»;
  • Giudicare in base alle emozioni;
  • Saltare alle conclusioni: «durante gli studi a Berlino per un certo tempo credetti di avere un esaurimento»;
  • Leggere la mente;
  • Fare l’oracolo;
  • Dare troppa importanza al passato;
  • Essere troppo pessimisti;
  • Usare due metri di misura per sé e per gli altri;

Non è un caso, inoltre, che Arthur Schopenhauer non solo sia approdato allo studio del pensiero orientale, ma che abbia addirittura istituito una relazione fra lui e Buddha:

A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte (A. Schopenhauer, Il mio Oriente, p. 15).

Lo studio del pensiero orientale, inoltre, ha avuto una valenza terapeutica profondissima sul suo spirito inquieto ed angosciato:

Infatti, come realmente l’Oupnekhat riflette dovunque il sacro spirito dei Veda! Colui che grazie ad assidue letture è riuscito a rendersi familiare il persiano-latino di questo libro impareggiabile, come viene afferrato fin nell’intimo del suo essere da quello spirito! Come ogni riga è piena di un significato preciso, determinato e sempre coerente! E da ogni pagina ci vengono incontro profondi pensieri, originali e sublimi, mentre un’elevata e sacra serietà aleggia su tutto. Tutto qui respira aria indiana e un’esistenza originaria, affine alla natura. E come qui lo spirito subisce un lavacro purificante che lo libera da ogni pregiudizio ebraico, inoculatogli fin dall’infanzia, e da ogni filosofia schiava di quel pregiudizio! È la lettura più profittevole ed edificante (a parte il testo originale) che sia possibile a questo mondo: essa è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, vol. II, pp. 523-524).

È interessante considerare attentamente il tipo di suggerimenti che il grande filosofo ci ha regalato in diversi, fondamentali, passi delle sue opere (presumibilmente da lui stesso impiegati nella strenua lotta contro la sua angoscia) e rilevare il loro effettivo valore terapeutico alla luce di alcuni programmi, come la Mindfulness Based Stress Reduction, che sono spesso integrazione alla terapia cognitivo-comportamentale (con soddisfacenti risultati) e che hanno origine da un antichissimo sapere orientale al quale Arthur Schopenhauer ha attinto a piene mani.

Cominciamo dall’invito che ci fa il filosofo di Danzica a recuperare la dimensione del presente:

Un momento importante della saggezza del vivere sta nel sapere stabilire un giusto rapporto fra le attenzioni che dedichiamo al presente e quelle rivolte al futuro. Molti – persone troppo leggere – vivono troppo nel presente; altre – quelle pavide e apprensive – vivono troppo nel futuro. Raramente ci si attiene alla misura giusta. Coloro che, con le loro aspirazioni e speranze, vivono esclusivamente nel futuro, guardando sempre davanti a sé, e corrono impazientemente incontro agli eventi venturi, dai quali si attendono, finalmente, la vera felicità – e, intanto, trascurano il presente e lo lasciano trascorrere senza goderlo -, si possono paragonare, con tutta la loro aria saputa, a quegli asini che, in Italia, per accelerarne l’andatura, si fanno camminare con davanti al muso un fascio di fieno penzolante da un bastone assicurato alla testa; se lo vedono sempre davanti e sperano sempre di raggiungerlo. Chi vive così defrauda l’esistenza: non è vivo che ad interim, dal principio alla fine – finché muore. Quindi, invece di dedicarci esclusivamente a progetti per il futuro e di preoccuparci continuamente del nostro avvenire, o, al contrario, di abbandonarci alla nostalgia del passato, non dovremmo mai scordare che soltanto il presente è reale e sicuro, mentre il futuro è sempre diverso da come lo immaginiamo, così come era diverso lo stesso passato; (A. Shopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 58).

E così conclude queste straordinarie riflessioni:

Solo il presente è vero e reale: esso è il tempo realmente inverato, e in esso soltanto è contenuta la nostra esistenza. Perciò dovremmo sempre fargli una lieta accoglienza, e quindi godere, consapevolmente, di ogni ora sopportabile e libera da immediate contrarietà o sofferenze così com’è, senza, cioè, turbarla crucciandoci per le delusioni del passato o per le preoccupazioni sul futuro; perché è del tutto insensato voltare le spalle a una bella ora del presente, o rovinarla di proposito col rammarico per ciò che è stato o l’apprensione per ciò che deve venire (ibidem).

Chi vive in modo eccessivamente sbilanciato sul futuro «defrauda l’esistenza» che, invece, si sostanzializza solo nel presente, nel qui ed ora. Cerchiamo di comprendere bene, però, alla luce delle riflessioni fenomenologiche di Van Den Berg, come la sostanzializzazione dell’esistenza nel presente non nientifica il passato e il futuro (cioè due delle tre dimensioni temporali dell’uomo), ma le riconfigura dialetticamente a partire dal qui ed ora:

Non sarebbe molto più giusto dire che presente e futuro non sono così rigorosamente separati come l’orologio vorrebbe farmi credere? Che fra essi esiste invece un legame molto stretto, tanto stretto da poter dire che il futuro è contenuto nel presente, e pur essendo – quest’è vero – ciò che verrà poi, è un “poi” come lo vedo in questo momento? Scendendo dal letto, infatti, il mio contegno non è certo determinato da ciò che accadrà nelle prossime ore: ciò che accadrà realmente nel seguito della giornata non c’è ancora, e dato che non esiste non può avere neppure un’influenza su di me. Aggiungiamo ancora, che gli eventi della prossima giornata potranno benissimo non accordarsi col modo in cui metto le gambe giù dal letto; per esempio, può darsi che la giornata si riveli piacevolissima, anche se mi sono alzato di malavoglia. Il futuro è ciò che verrà, così come mi si fa incontro ora, nel presente. Il futuro è l’avvenire, ciò che deve venire, cioè, essenzialmente, ciò che trova espressione nel modo in cui mi si fa incontro. Pensando al futuro, vivo già in ciò che mi viene incontro; prima di mettere le gambe giù dal letto, il giorno mi è già venuto incontro e io vivo in esso ancor prima che sia cominciato; prima di essere sceso dal letto e di aver mosso qualche passo nella stanza, sono già entrato nel giorno. Il modo del mio entrare nel giorno e il modo in cui il giorno si affretta verso di me si corrispondono come risposta e domanda, e il frutto di tale dialogo è il mio modo di scendere dal letto (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, pp. 91-92).

Qual è il senso di queste profondissime riflessioni fenomenologiche?

Per comprenderlo bisogna concentrarsi su questa affermazione: il futuro è la risposta ad una domanda esistenziale posta dall’uomo.  Tale risposta non ha un carattere definito, e non prescinde dal modo in cui è stata posta la domanda.

Una domanda speranzosa avrà una risposta tranquillizzante, una domanda originatasi dalla paura avrà una risposta terrorizzante, una domanda serena avrà una risposta rassicurante. Domanda e risposta stanno insieme dialetticamente: nessuna delle due esiste senza l’altra. Molto spesso accade che l’ansia della risposta pregiudichi lo stesso domandare: siamo così focalizzati sulla risposta-futuro che la domanda-presente rischia di essere frettolosa e confusa e, quindi, mal posta. Per dare un’adeguata risposta ad una domanda mal posta, però, bisogna riformulare la domanda stessa. Dal futuro si ritorna al presente. Ma in che modo?

Secondo Seneca, che su questi temi non è molto distante dal filosofo di Danzica, bisognerebbe adottare queste precise contromisure:

[…] non c’è che io sia triste e crucciato senza motivo, e che mi crei un male che non esiste? «Come posso accorgermi», mi dirai, «se le sventure che mi angustiano sono vere, o sono solo immaginate da me?». Eccoti la norma da seguire: noi ci crucciamo per cose presenti, o future, o per entrambe. Sulle cose presenti il giudizio è facile: se il tuo corpo è libero e sano, e se non hai alcun dolore per offese ricevute, si vedrà poi quello che accadrà: oggi non ci sono motivi per preoccuparsi. «Ma il male verrà», obietterai. Anzitutto considera bene se ci siano chiari indizi di questo male futuro: spesso infatti noi ci affanniamo per semplici sospetti, e ci lasciamo trarre in inganno da quelle dicerie che, come hanno la forza di mandare in rovina gli eserciti, tanto più possono abbattere i singoli. È così, o mio Lucilio; con troppa fretta accettiamo per vere le opinioni; e non cerchiamo di veder chiaro nei nostri timori, né abbiamo il coraggio di scacciarli, ma voltiamo le spalle trepidanti, come chi fugge dal campo solo per aver visto la polvere sollevata da un branco di pecore, o come chi si spaventa al racconto di cose leggendarie e irreali, di cui non si conosce neppure l’autore. Non so perché ma le cose immaginarie turbano di più. […] niente porta conseguenze così dannose e irreparabili come il timor panico (Seneca, Lettera 13 a Lucilio).

Molte volte dalla presunzione errata di una specifica risposta impostiamo e costruiamo la domanda, dimenticando che essa dovrebbe nascere, invece, da un presente accolto in tutta la sua ricchezza esistenziale unica e irripetibile. In questa dialettica particolare e complessa (dalla quale dipende la serenità della vita interiore) il primato è sempre della domanda, cioè del presente. Ritornare al presente vuol dire interrompere un cattivo dialogo esistenziale e reimpostarlo a partire dal qui ed ora. Sarebbe impossibile eliminare dalla vita umana le dimensioni del passato e del futuro e non è questo che Arthur Schopenhauer ha suggerito di fare (e non lo richiedono i fenomenologi e non lo richiese Seneca).

Sull’importanza del presente il grande filosofo tedesco non si è limitato a quei passi profondissimi letti più sopra. Poco più avanti ha scritto:

Ma quanto più uno è lasciato in pace dal timore, tanto più lo rendono inquieto i desideri, le passioni, le ambizioni. Il significato della ben nota poesia di Goethe Ich hab mein Sach auf nichts gestellt è, in sostanza, questo: all’uomo è dato partecipare di quella pace dello spirito che è alla base della felicità umana soltanto quando è stato costretto a rinunciare a ogni sua aspettazione e riportato alla nuda, spoglia realtà dell’esistere. Quella pace è indispensabile per farci ritenere accettabile il presente, e con esso l’intera esistenza. A tal fine dobbiamo sempre rammentarci che l’oggi viene una volta sola, e non ritorna più. Noi ci illudiamo che domani ritorni: ma domani è un altro giorno, e viene anch’esso una volta sola. Dimentichiamo, anche, che ogni giorno è parte integrante della vita, e perciò è insostituibile, considerandolo, invece, contenuto nella vita così come gli individui sono compresi nel concetto generale di comunità. Inoltre, apprezzeremmo e gusteremmo meglio il presente se, nei giorni in cui siamo sani e soddisfatti, ci tornasse in mente come, quando siamo ammalati o afflitti, ogni ora libera da dolori e da privazioni ci si presenti alla memoria come sconfinatamente invidiabile, come un paradiso perduto, come un amico che avevamo misconosciuto. Noi, invece, viviamo i nostri giorni belli senza accorgerci di loro; poi, quando vengono quelli neri, vorremmo che ci fossero restituiti. Ci lasciamo scorrere davanti, con aria infastidita e senza goderne, mille ore serene e piacevoli; e poi, nei momenti bui, sospiriamo per esse in un vano rimpianto. Dovremmo, invece, apprezzare ogni momento sopportabile del presente, anche i più banali, quelli che ora lasciamo trascorrere con tanta indifferenza, e anzi con insofferente frettolosità (A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 58).

Nella frase contrassegnata in neretto è presentato al lettore un pensiero radicale e, a ben pensare, formidabilmente veritiero: l’accettazione e il godimento dell’esistenza sono possibili a partire dall’accettazione e dal godimento del presente. Se è vero, infatti, che l’esistenza si sostanzializza nel presente, come sopra si è ricordato, è altrettanto vero, però, che a partire dal presente s’irradia la nostra accettazione del passato e il nostro progettare il futuro. Van Den Berg, dalla prospettiva fenomenologica, ha scritto:

Il passato vive infatti, vive oggi; né è senza significato che viva oggi, e così come lo vediamo. Il passato ha una funzione – benefica talora, tal’altra malefica – nella vita presente. […] Che fra essi [scil. tra presente e futuro] esiste invece un legame molto stretto, tanto stretto da poter dire che il futuro è contenuto nel presente, e pur essendo – quest’è vero – ciò che verrà poi, è un “poi” come lo vedo in questo momento? (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, pp. 88-91).

La serenità della vita è, dunque, la risultante di un equilibrato gioco dialettico tra presente, passato e futuro, in cui il primo elemento ha un valore esistenziale preminente e fondamentale, e funge da polo di riferimento assoluto della vita umana. Schopenhauer non si è limitato a queste riflessioni, che già da sole assicurerebbero un valore psicologico altissimo alla sua opera filosofica. Nella sua Eudemonologia il filosofo tedesco raccomanda anche di «tenere a freno la fantasia» a tutti i costi. Ecco il testo della massima n. 18 che vale la pena leggere per intero:

Dobbiamo tenere a freno la fantasia in tutte le cose che riguardano il nostro benessere e il nostro malessere, le nostre speranze e i nostri timori. Fantasticando su possibili casi fortunati e sulle loro conseguenze ci rendiamo ancora più indigesta la realtà: costruiamo castelli in aria che in seguito il disinganno ci fa pagare cari. Ma conseguenze ancora peggiori può avere l’immaginare possibili disgrazie: come dice Gracián, può trasformare la fantasia nel nostro carnefice domestico. Se si prendesse il tema delle fantasie funeste da grande distanza, scegliendolo da frammenti sparsi, non potrebbe nuocere, poiché svegliandoci dal sogno sapremmo immediatamente che tutto è puramente inventato e quindi conterrebbe una messa in guardia da disgrazie pur sempre possibili, ma lontane. […] Le cose che riguardano il nostro benessere e il nostro malessere dobbiamo affrontarle solo con la capacità di giudizio, che opera con concetti  in abstracto, in una riflessione fredda e asciutta; la fantasia non vi si deve avvicinare, poiché non sa giudicare; essa ci pone di fronte un’immagine che muove il sentimento in modo inutile e assai penoso. Dunque: tenere a freno la fantasia. 

Per una vita costernata dal dolore e dalla paura, il maestro di Danzica ci fornisce questi preziosissimi suggerimenti che ci permettono di combattere e, perché no, vincere i mali dell’esistenza e assicurarci una certa stabile serenità.

 

L’ansia da cambiamento climatico

Alcuni elementi chiave dell’ansia da cambiamento climatico riguardano la sensazione di incertezza verso il futuro e il fatto che il cambiamento climatico può facilitare la comparsa di disastri ambientali che non sono facilmente prevedibili, e che non esistono quindi modelli capaci di prevedere quando e quanto un determinato evento ambientale colpirà una determinata zona.

 

Introduzione al cambiamento climatico e alle conseguenze sulla salute mentale

 Con il continuo evolversi dei cambiamenti climatici, l’aumento della temperatura globale e l’innalzamento del livello del mare sono eventi destinati ad avvenire nei prossimi anni, facilitando l’avvenimento di disastri naturali, come inondazioni o terremoti (Clayton, 2020). Come già introdotto, il fenomeno del cambiamento globale non ha impatto solamente sull’ambiente, ma anche sul benessere psicofisico delle persone. Tra le varie problematiche mentali che il cambiamento climatico può causare, c’è l’aumento delle preoccupazioni verso il possibile futuro nostro e del nostro pianeta. Recentemente, infatti, è stato osservato un possibile effetto indiretto del cambiamento climatico, ovvero una forte preoccupazione legata alla percezione del cambio del clima, anche tra individui che non hanno vissuto direttamente l’impatto di questo cambiamento.

Una panoramica sull’ansia da cambiamento climatico

Ogni giorno, i media raccontano storie che hanno come tema centrale una forte ansia legata al cambiamento climatico (Clayton, 2020). Il fatto che l’ansia da cambiamento climatico sia diffusa anche tra coloro che non hanno esperito direttamente un disastro naturale si può spiegare grazie al fatto che, proprio per via dell’accessibilità alle notizie su ciò che accade in ogni parte del globo, è possibile reperire informazioni sul cambiamento climatico in ogni momento. Sembra quindi che chiunque sia a conoscenza degli effetti del cambiamento climatico sia esposto al rischio di sviluppare ansia da cambiamento climatico, anche se vive in una zona a basso rischio di disastri naturali. Il motivo di tale impatto sulla salute mentale può essere dovuto alle preoccupazioni inerenti a varie conseguenze legate al cambiamento climatico, come la possibilità di perdere la propria casa o la paura che possa succedere qualcosa ai propri figli o familiari.

Come fattore stressante, il cambiamento climatico ha alcuni attributi distintivi dalle semplici preoccupazioni quotidiane, come il fatto che si tratti di un evento reale, ed è quindi razionale esperire preoccupazione, o il fatto che sia imprevedibile, e che quindi rende molto difficile l’adattarsi a tale cambiamento. Alcuni elementi chiave di questa ansia riguardano la sensazione di incertezza verso il futuro e il fatto che il cambiamento climatico può facilitare la comparsa di disastri ambientali che non sono facilmente prevedibili, e che non esistono quindi modelli capaci di prevedere quando e quanto un determinato evento ambientale colpirà una determinata zona.

È possibile che l’ansia da cambiamento climatico venga incrementata anche da altri fattori legati all’ambiente, come l’eco-ansia, ovvero il terrore dovuto alle informazioni sull’ambiente che parlano di disastri come incendi e terremoti, l’eco-paralisi, ovvero l’inabilità di intervenire su questioni climatiche a causa della percezione che esse siano intrattabili e l’eco-nostalgia, ovvero la percezione che un luogo geografico fosse migliore nel passato (Clayton, 2020).

 Nonostante abbia una funzione adattiva, aiutando l’individuo a rimanere vigile verso possibili minacce, l’ansia può diventare una fonte di disagio nel momento in cui interferisce con la quotidianità di un individuo, divenendo difficile da controllare e causando complicazioni in diversi ambiti di vita, come il sonno o la socialità (Clayton, 2020). Le emozioni negative scaturite dall’ansia per l’interpretazione soggettiva, e spesso catastrofizzata, dei segnali che si possono ricondurre al cambiamento climatico, potrebbero essere, per alcuni individui, intense abbastanza da poter contribuire allo sviluppo di un disturbo mentale (Clayton, 2020). Ad esempio, Ellis e Albrecht (2017) hanno osservato come dei contadini australiani, a seguito di cambiamenti climatici locali, riportassero maggiori livelli depressione e fossero maggiormente soggetti a rischio di suicidio (Ellis & Albrecht, 2017). Invece, Helm e colleghi (2018) hanno osservato come, in un campione di popolazione negli USA, lo stress percepito associato al cambiamento climatico fosse un forte predittore per lo sviluppo di sintomatologia depressiva (Helm et al., 2018).

L’ansia da cambiamento climatico sembra quindi una problematica sempre più diffusa, e la difficoltà nella strutturazione di interventi efficaci risiede proprio nel fatto che il problema del cambiamento climatico deve essere affrontato non solo a livello individuale, ma anche istituzionale e globale (Clayton, 2020).

 

Female sex offender, il fenomeno delle donne abusanti – FluIDsex

Nel corso degli anni in letteratura sono apparse numerose classificazioni allo scopo di differenziare i vari tipi di donne abusanti e i fattori motivazionali associati.

 

 Nell’immaginario collettivo il termine “abuso sessuale” viene automaticamente associato alla figura maschile, ma questo tipo di reato può essere compiuto anche dalle donne, malgrado tipicamente la figura femminile venga raffigurata come madre amorevole e compassionevole. Purtroppo però la letteratura riguardante l’argomento è attualmente esigua, poiché il numero di donne incarcerate per abusi sessuali è molto meno consistente se paragonato al genere maschile (Bunting, 2006). Oltre alla difficoltà nel reperire un campione adeguato per gli studi, l’idea di un abuso sessuale perpetrato da donna è categoricamente negato dalla società, che tendenzialmente raffigura le donne come il sesso più “debole” e provviste di istinto materno innato. Allo stesso tempo, nel caso in cui abusi sessuali perpetrati da donne su minori attirano l’attenzione mediatica, si considera subito la donna come affetta da disturbi psicopatologici o alterazioni psichiche. Così facendo, questo fenomeno non verrà mai approfondito, privando sia le vittime che le responsabili di adeguati trattamenti terapeutici.

La letteratura si riferisce a questo tipo di donne come female sex offender, abuser o molester. Questo fenomeno comporta un comportamento sessuale deviante messo in atto da una donna ai danni di un minore, che sia bambino o adolescente. Secondo Finkelhor and Williams (1988), rispetto agli uomini, le donne abusanti tendono a essere più integrate socialmente, con un livello di educazione più elevato e aventi meno disturbi psicopatologici pregressi rispetto agli uomini, per cui è più difficile che vengano scoperte e incarcerate.

Diversi autori hanno evidenziato una linea comune nel background di tutte le female sex offender, ovvero un abuso sessuale infantile che ha inibito uno sviluppo psicosessuale adeguato, rendendo loro impossibile stabilire relazioni intime con partner coetanei (Briere e Elliott, 1993; Saradjian, 1996).

Female sex offender e abuso intrafamiliare

La maggior parte degli abusi avviene all’interno dell’ambiente familiare, identificando proprio nei parenti delle vittime i/le sex offenders; un abuso all’interno del contesto familiare viene definito intrafamiliare ed è la forma di abuso maggiormente diffusa e con conseguenze più devastanti per la vittima, poiché, trattandosi solitamente di incesto, snatura il rapporto interpersonale figlio/a-genitore. (Caputo et al., 1999).

Hershkowitz e colleghi (2007) hanno individuato dei patterns affini in diverse famiglie incestuose, ovvero la presenza di una struttura familiare patriarcale, uno stile genitoriale autoritario, rigido e aggressivo; la rigidità influenza il livello di apertura al cambiamento e alle novità, rendendo questi nuclei familiari estremamente chiusi e impermeabili all’ambiente esterno. Infatti, un altro fattore risultato rilevante è la mancanza di individualizzazione a carico di tutta la famiglia, così da creare un alto grado di interdipendenza per quanto riguarda il soddisfacimento di bisogni emotivi e sessuali tra i componenti della famiglia; i nuclei familiari aventi questo tipo di struttura vivono l’auto-differenziazione come mancanza di lealtà verso i membri stessi della famiglia, portando all’isolamento sociale e all’assenza di contatto con la comunità di riferimento (Finkelhor e Baron, 1986; Kantor e Lehr, 1975).

Female sex offender e abuso extrafamiliare

Quando invece si parla di sfruttamento sessuale a fini di lucro si tratta di madri che vendono le prestazioni sessuali dei figli in cambio di denaro, per prostituzione o pedopornografia, partecipando più o meno attivamente all’abuso. Il mondo della pedopornografia infatti, ha un enorme ricavo economico. Nel 2003 sono stati scoperti i primi siti di pedopornografia dedicati a un pubblico femminile.

 L’abuso extrafamiliare, invece, è definito come abuso compiuto da un adulto esterno al nucleo familiare e può essere perpetrato dai partner dei genitori, i partner dei fratelli/sorelle, babysitter, insegnanti, conoscenti e sconosciuti. In questo caso, i bambini target provengono da famiglie caotiche e disorganizzate, in cui i genitori sono assenti o disinteressati, come per esempio genitori single, con problemi di salute o dipendenze. L’assenza di una figura di riferimento e di un’adeguata supervisione da parte del caregiver comporta nel minore un forte senso di indipendenza, autonomia e mancanza di responsabilità; queste caratteristiche predispongono a un eccessivo desiderio di attenzioni da parte di adulti anche sconosciuti (Finkelhor, 1984). Contrariamente a quanto avviene per gli abusi intrafamiliari, è proprio l’eccessiva apertura alle influenze esterne a predisporre il minore agli abusi.

È da annoverare anche il fenomeno del turismo sessuale femminile: alcune donne con perversioni sessuali pedofiliche preferiscono andare in località esotiche e lontane, come il sud est asiatico e l’america-latina, per abbandonarsi alla libido (Newman et al., 2011).

Le tipologie di female sex offender

Nel corso degli anni in letteratura sono apparse numerose classificazioni allo scopo di differenziare i vari tipi di donne abusanti (Nathan e Ward, 2001; Sandler e Freeman, 2007; Lambert e Hammond, 2009):

  • Madri/sorelle maggiori incestuose: donne alla ricerca di vicinanza emotiva per evitare la solitudine;
  • Babysitter/sperimentatrice: adolescenti incapaci di avere un rapporto tra pari, attratte dai bambini;
  • Insegnante-amante: donne che abusano della propria posizione o idealizzano l’alunno/a credendo nell’amore reciproco;
  • Male-coerced: donne abusate dai propri partner, ai quali forniscono una vittima o partecipano sotto coercizione agli abusi per evitare di subire ulteriori violenze;
  • Male-accompanied: donne che partecipano attivamente agli abusi sessuali;
  • Incline intergenerazionale: donna abusata in infanzia che, per vari meccanismi cognitivi e motivazionali, infligge a sua volta abusi su minori, così da ricreare un circolo vizioso intergenerazionale;
  • Psicotiche: donne con problemi psichiatrici (in percentuale irrisoria);
  • Omosex: donna che identifica in una bambina il proprio Sé infantile, rivestendolo di attenzioni di cui è stata privata in infanzia.

I fattori motivazionali nelle female sex offender

Alcuni autori hanno provato ad individuare i fattori motivazionali che spingono una donna a commettere un abuso sessuale infantile (Saradjian, 1996; Gannon et al, 2010; Briere e Elliott, 1993).

  • Potere e controllo: dopo essere stata precedentemente vittimizzata, la donna ricerca una posizione di dominio, tentando di scacciare le emozioni negative dovute all’abuso subìto tramite l’acquisizione di potere.
  • Vendetta: ri-perpetrare il ciclo di abusi subito così da soddisfare le proprie fantasie vendicative.
  • Abuso commesso come atto di amore: data l’incapacità di stringere legami con adulti coetanei, i bambini diventano fonte di gratificazione sessuale e ricerca di affetto.
  • Scambiare la ricerca di contatto per desiderio sessuale: alcune donne abusanti si convincono che il minore abusato fosse consenziente o addirittura fosse lui/lei a sedurle, mal interpretando il normale desiderio di vicinanza del bambino.
  • Paura del partner: donne seviziate dal partner, il quale costringe la donna ad abusare il bambino/a da sola o insieme a lui. In alcuni casi è la donna a portare il minore al partner abusante così da evitare di subire ulteriori violenze.
  • Invischiamento in una relazione tossica: necessità di compiacere il partner abusante per timore di essere abbandonate.
  • Rabbia e gelosia: madri insicure e ossessive che tendono a oggettificare i figli come se fossero di loro proprietà.
  • Soldi: vendita di materiale pedopornografico o prostituzione.

Ward e Keenan (1999), hanno teorizzato l’esistenza di una implicit theory (IT), nella quale sono contenute cognizioni e desideri che influenzano l’interpretazione di eventi interpersonali. Gli autori hanno identificato cinque implicit theories nei sex offenders:

  • Bambini come oggetti sessuali: anche i più piccoli siano in grado di provare piacere sessuale;
  • Diritto: alcuni individui sono innatamente superiori ad altri per cui i loro desideri devono essere soddisfatti;
  • Pericolosità del mondo: il mondo è spaventoso e le persone sono malvagie, così che sia l’attacco preventivo che la sottomissione risultano una forma di protezione preventiva;
  • Incontrollabilità: il mondo e gli eventi sono incontrollabili;
  • Natura del danno: alcuni atti lesivi, tra cui quelli sessuali, portano benefici alla vittima.

Per quanto riguarda le vittime, le conseguenze a lungo termine degli abusi risultano essere: bassa autostima, ritiro sociale, disturbi d’ansia e fobie, disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione, disturbi dell’apprendimento, depressioni, fughe, tentati suicidi, circolo vizioso di abusi in cui il bambino diventato adulto ripeterà lo schema di violenze subìto (Shen et al., 2021)

Il trattamento integrato per le dipendenze patologiche (2022) di Nava e Sanavio – Recensione

Il testo edito recentemente da Carocci dal titolo “Il trattamento integrato per le dipendene patologiche” si propone l’ambizioso compito di descrivere gli orientamenti diagnostico-terapeutici fondati sulle evidenze e, quindi, di maggior successo, in uno dei più delicati e complessi settori della sanità odierna.

 

 Il libro nella prima parte presenta gli aspetti neurobiologici e le terapie farmacologiche più utilizzate nel campo delle dipendenze e sicuramente questa introduzione risulta utile in particolare agli psicologi, meno avvezzi per formazione alla conoscenza delle terapie farmacologiche. Si prosegue poi con gli aspetti nosografici includenti anche una descrizione dell’evoluzione dei criteri diagnostici in questo ambito. Particolare attenzione viene data alla modalità operativa che si adotta in ambito cognitivo e comportamentale, quello adottato dagli autori, per giungere ad una diagnosi e formulare un percorso terapeutico. Poi, a partire dal terzo capitolo, gli autori si soffermano a presentare le basi del modello cognitivo e comportamentale, descrivendo il colloquio motivazionale (e la ben nota teoria del cambiamento  di Prochaska e DiClemente che lo sottende), con le principali tecniche di conduzione di tale colloquio: domande aperte, ripetizione, riassunto, riformulazione. Si prosegue con la descrizione degli obiettivi comportamentali e le tecniche adottate per ottenere le modifiche del comportamento. Si parte dall’esperimento di Pavlov per giungere alle tecniche di esposizione, al problem solving sino alla terapia razionale emotiva di Ellis e al modello di Beck. Si tratta di un capitolo centrale, in cui tutte le principali teorie, ormai classiche, sono esposte in modo chiaro e sintetico. Tuttavia, esse vengono presentate nei loro aspetti generali e solo una piccola parte del capitolo è dedicata al campo specifico delle dipendenze. Anche gli esempi clinici fanno più riferimento all’esplicitazione dei modelli generali piuttosto che a casi che riguardano il mondo delle dipendenze. Questo un po’ sorprende visto che entrambi gli autori lavorano da anni nei servizi pubblici e quindi sicuramente posseggono una grossa esperienza ed avranno adottato il loro modello operativo con molti utenti.

Infine, il quarto ed ultimo capitolo è dedicato all’evoluzione recente dei modelli diversi tra loro, ma che in qualche modo condividono la matrice cognitiva e comportamentale, ovvero quelle che sono definite psicoterapie di terza generazione. Di tali approcci innovativi sono valutati sia i limiti che le opportunità che offrono e sono illustrate come possibilità di integrazione dei modelli “storici” descritti nel precedente capitolo. In particolare, sono presentati il lavoro sulla metacognizione, l’apporto della mildfulness, l’utilità del concetto di accettazione nel percorso  di raggiungimento e mantenimento dell’astinenza dalle sostanze, il contributo della Schema Therapy, l’importanza della validazione, come proposta da Linehan. Purtroppo, anche in questo capitolo conclusivo è dedicato più spazio all’esposizione generale di questi approcci e solo parzialmente viene chiarito come applicarli al campo delle dipendenze.

Infine, sono presentate in appendice le linee guida statunitensi e britanniche sulla gestione e cura dei pazienti con disturbo di uso da sostanze.

 La lettura del libro risulta comunque utile e interessante anche se, a mio avviso, vi sono delle criticità. La prima riguarda la sostanziale assenza di differenziazione tra le varie sostanze, mentre invece vi sono profonde differenze tra chi assume prevalentemente eroina, cocaina o tutto il versante delle nuove droghe chimiche, la cui emergenza pone problemi clinici di grande rilievo. Anche la distinzione tra alcolismo e tossicodipendenza è fatta in modo generico e manca una descrizione dei fattori di personalità che spingono verso una dipendenza piuttosto che un’altra. Inoltre, non vi è alcun riferimento, nemmeno indiretto, alle terapie familiari mentre, proprio nell’ambito della tossicodipendenza giovanile, mi sembrano di grande rilievo i modelli che considerano il sintomo come un messaggio relazionale inviato agli altri e innanzitutto alla propria famiglia. Infine, anche se nel titolo compare la parola “integrato”, non è affatto chiarito come secondo gli estensori si integrino le terapie farmacologiche e le psicoterapie, che nel libro sembrano più ambiti separati e autonomi piuttosto che parti di uno stesso progetto terapeutico personalizzato.

Gli autori, entrambi psicoterapeuti, sono Felice Nava, medico, Direttore della U.O. Tutela della salute delle persone con limitazioni della libertà dell’Azienda ULSS 6 Euganea di Padova, direttore del Comitato Scientifico Nazionale di FederSerd, e Francesco Sanavio, psicologo operante nella stessa Unità Operativa veneta.

Le differenze di genere nel perdono disposizionale ed emozioni associate

Data l’importanza del comprendere meglio il fenomeno del perdono anche per applicare interventi e tecniche terapeutiche efficaci, uno studio di Kaleta e Mróz (2021) ha tentato di approfondire il tema, confrontando direttamente uomini e donne nella loro disposizione a perdonare ed esaminando come le variabili emotive siano associate a diversi aspetti del perdono disposizionale.

 

 La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che il perdono è un costrutto complesso, che coinvolge aspetti cognitivi, affettivi, motivazionali, decisionali e interpersonali (Kaleta & Mróz, 2021).

Di solito viene definito come un processo di riduzione dei pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti negativi nei confronti di un trasgressore (ad es, Rye & Pargament, 2002), che può essere accompagnato dall’evocazione di pensieri, sentimenti e azioni positive nei confronti di chi ha fatto il male (Sells & Hargrave, 1998).

I tratti di personalità associati al perdono

Il perdono può essere visto non solo come un singolo atto in seguito ad una particolare offesa, ma anche come una dimensione della personalità (Hill & Allemand, 2010). Quest’ultima (definita anche perdonabilità; Roberts, 1995) può essere definita come la tendenza a perdonare a prescindere dal tempo, dalle relazioni e dalle situazioni ed è principalmente correlata ad altri tratti della personalità, come la gradevolezza (Kamat et al., 2006), il nevroticismo (Allemand et al., 2008), la religiosità (Brown et al., 2004), l’empatia, la ruminazione (Chung, 2014), la gratitudine (Touissant & Friedman, 2009), la flessibilità cognitiva (Thompson et al., 2005) o il narcisismo (Fatfouta et al., 2015). Molte di queste caratteristiche di personalità sono solitamente specifiche del genere, il che suggerisce che anche il perdono disposizionale potrebbe differire a seconda del genere.

Differenze di genere nel perdono

Tuttavia, i risultati degli studi che confrontano il perdono disposizionale negli uomini e nelle donne sono ambigui. Infatti, alcuni autori ritengono che le donne siano generalmente più disposte a perdonare rispetto agli uomini, a causa dei loro tratti di personalità, come la gradevolezza e l’empatia, e della loro capacità di valorizzare le relazioni (Miller et al., 2008). In una revisione meta-analitica di 70 studi condotti su 15.731 individui, Miller et al. (2008) hanno riscontrato una differenza di genere nel perdono con dimensioni dell’effetto da piccole a moderate, mostrando una maggiore disponibilità a perdonare tra gli intervistati di sesso femminile. D’altra parte, Fehr e colleghi (2010), che hanno condotto una meta-analisi di 53 studi con un numero totale di 8.366 partecipanti, non hanno trovato alcuna relazione tra genere e perdono.

Data l’importanza del comprendere meglio il fenomeno del perdono anche per applicare interventi e tecniche terapeutiche efficaci, uno studio di Kaleta e Mróz (2021) ha tentato di colmare questa lacuna, confrontando direttamente uomini e donne nella loro disposizione a perdonare ed esaminando come le variabili emotive siano associate a diversi aspetti del perdono disposizionale.

La scala multidimensionale Heartland Forgiveness Scale (Thompson & Snyder, 2003) è stata utilizzata per valutare il perdono disposizionale ed è composta da due scale che consentono di misurare la capacità di perdonare in due domini distinti: positivo (pensieri, sentimenti e comportamenti benevoli) e negativo (riduzione di pensieri, sentimenti e comportamenti ostili), e da sei sottoscale che distinguono il perdono di sé, degli altri e delle situazioni.

Dai risultati si evince che le donne mostrano una minore propensione al perdono nel punteggio totale e nella sua dimensione negativa. In particolare, sembrano essere meno propense nel perdono verso se stesse e verso le situazioni che non sono sotto il loro controllo, ma non verso le altre persone. Inoltre, non sono state riscontrate differenze significative tra donne e uomini nelle sfaccettature positive del perdono.

 La minore propensione delle donne al perdono, soprattutto verso se stesse e verso le situazioni che sfuggono al loro controllo, potrebbe essere interpretata come una funzione del diverso modo di concepire il sé. Una visione interdipendente del sé caratterizza le donne come focalizzate sul mantenimento del legame con le persone e meno separate dal contesto sociale (Markus & Kitayama, 1991). I loro fallimenti e le loro azioni sbagliate potrebbero essere visti come un disturbo dell’armonia con gli altri e una minaccia per il loro ritratto positivo di sé (Fincham et al., 2004). Di conseguenza, l’auto-costruzione interdipendente rende le donne inclini a provare vergogna (Markus & Kitayama, 1991), che è negativamente correlata al perdono, soprattutto di se stesse (Hall & Fincham, 2008).

La relazione tra perdono ed emozioni

Coerentemente con studi precedenti (ad es, Uysal & Satici, 2014), i risultati hanno dimostrato che l’ansia, il controllo della rabbia e la depressione erano correlati negativamente con la capacità di perdonare, mentre gli affetti positivi erano correlati positivamente al perdono, sia nelle donne che negli uomini. Il genere ha moderato in modo significativo alcune relazioni tra tratti affettivi e perdono, in particolare i legami che coinvolgono il controllo emotivo.

Sono state inoltre riscontrate delle relazioni negative tra ansia, controllo emotivo, compreso il controllo della rabbia e dell’ansia, e disponibilità a perdonare le situazioni, più forti per le donne che per gli uomini. Per gli individui interdipendenti, è importante controllare le esperienze intense di emozioni negative, soprattutto la rabbia, perché minacciano il proprio sé (Markus & Kitayama, 1991). Tuttavia, alla luce dei risultati, gli autori affermano che per le donne che hanno partecipato allo studio un forte controllo emotivo rende difficile il perdono.

A sua volta, il controllo dell’ansia era positivamente correlato al perdono negli uomini. Per i sé indipendenti è importante esprimere emozioni incentrate sul sé e sull’io, come la rabbia o la frustrazione. Il controllo dell’ansia negli uomini potrebbe favorire tale espressione e, di conseguenza, favorire il perdono.

Conclusioni

In conclusione, i risultati dello studio di Kaleta e Mróz (2021) suggeriscono che donne e uomini hanno bisogno di interventi diversi per facilitare il perdono, ipotesi basata anche su altri risultati in letteratura (ad es, Miller & Worthington, 2015). Le donne hanno bisogno di interventi più mirati all’auto-perdono, che liberino l’ansia e promuovano un’espressione più aperta delle emozioni negative nel modo in cui sono in grado di accettarle, ad esempio con una comunicazione costruttiva. Gli uomini necessitano maggiormente un lavoro sulla regolazione delle emozioni, in particolare sul controllo dell’ansia e della rabbia.

 

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