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I metodi alternativi alla sperimentazione animale. Lo stato dell’arte, tra tecnologia ed etica

Ormai da decenni buona parte delle discipline biomediche, unitamente ad importanti movimenti d’opinione che si battono per una maggior coscienza etica nella ricerca scientifica in biologia ed in medicina, auspicano l’affermarsi di metodi alternativi alla sperimentazione su animali. Tali metodologie esistono già e, ad oggi, hanno ormai raggiunto un certo sviluppo.

 

 Quelle di cui diremo sono interamente in vitro ed in silico, cioè effettuate nel primo caso per mezzo di culture cellulari che poi, non di rado, vengono sottoposte a visualizzazione con tecniche di microscopia; nel secondo riguarderanno programmi informatici capaci di simulare, sulla base di calcoli probabilistici, reazioni di tessuti, organi, apparati e complessi biologici. Principalmente due sono le motivazioni allo sviluppo dei metodi alternativi: evitare all’animale una sofferenza spesso pesante e sviluppare modelli più attendibili di quelli ottenibili con la cavia da laboratorio. Infatti, un vecchio adagio, che corre da sempre tra i ricercatori, recita così: “l’essere umano non è un topo grande”, ciò vale a dire che per quanto il modello animale possa essere interessante ai fini dello studio della biologia non potrà mai rappresentare con precisione la complessità fisiologica dell’uomo.

In termini organizzativi ed economici

Prima di proseguire però è opportuno accennare anche, almeno per sommi capi, all’impalcatura istituzionale pubblica e privata che rende possibile in Europa il graduale affermarsi dei metodi alternativi.

Tutti i metodi citati in questa dissertazione sono stati presi in considerazione da ECVAM (European Centre for Validation of Alternative Methods) e –seppur a volte non ancora approvati– sono in fase avanzata di valutazione.

Un altro organismo che dobbiamo considerare, in quanto agisce in stretta relazione con ECVAM, è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che si sta occupando in particolare del riconoscimento delle procedure implicate nella prassi regolatoria del REACH, il protocollo comunitario che impone ai produttori e agli utilizzatori di sostanze chimiche la rivalutazione dei rischi salutistici collegati alle sostanze stesse.

I vari gruppi che “producono” metodi alternativi sono ormai realtà solide e ben strutturate: alcuni sono accreditati a livello internazionale e rappresentano un’autorità indiscussa in tutti i continenti. Citiamo, solo come esempio, l’inglese NC3RS (l’unico finanziato dal governo britannico), “punto di riferimento europeo –come afferma Isabella De Angelis, dell’Istituto Superiore di Sanità– sia per il rigore scientifico che per i finanziamenti” (Notiziario Chimico-Farmaceutico, 2016).

A livello mondiale dal 2012, secondo un Report BBC del 2014, si stanno realizzando investimenti nel settore delle cosiddette NAT (Non-Animal Technologies), miliardi di dollari, con un tasso d’incremento annuo superiore al 14% già solo per i metodi di tossicologia in vitro. Insomma, le industrie del settore farmaceutico –e più estesamente del comparto salute– stanno puntando sui metodi alternativi alla sperimentazione animale perché più convenienti, più agevoli, più economici ed in grado di salvaguardare l’immagine etica dell’azienda, immagine etica che entra come fattore di importanza non trascurabile nei piani di marketing.

In Europa esistono, a quanto mi consta, 38 laboratori, di cui 8 italiani, accreditati ed autorizzati allo sviluppo di metodi alternativi; tutti operano in stretta collaborazione con ECVAM. Questo istituto possiede un suo laboratorio in Italia, punto di riferimento tecnico per tutta la Comunità Europea, con sede ad Ispra, sul Lago Maggiore, in provincia di Varese.

La legislazione italiana ha recepito l’importanza della transazione dai modelli animali ai metodi senza animali soprattutto con il D.L. n. 26 del 4 marzo 2014, là dove all’art. 37, chiama il Ministero della Salute a farsi promotore della ricerca e dello sviluppo dei metodi che non prevedono l’uso di animali, o che consentono una riduzione del numero dei soggetti sperimentali ed il superamento delle procedure stressanti e dolorose. Per questo è stato realizzato il “Centro di Referenza Nazionale per i Metodi Alternativi, Benessere e Cura degli Animali da Laboratorio”, con residenza presso il noto “Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna” (IZSLER), che funge anche da interfaccia tra il mondo della ricerca, l’industria ed ECVAM (www.ibvr.org).

A che punto siamo

Oggi i metodi verificati ed accettati da ECVAM superano la sessantina; ad essi si aggiungono altre decine di procedure validate in altri continenti da organismi equivalenti all’istituto europeo (ICCVAM – USA, JaCVAM – Giappone, BRACVAM – Brasile).

La quasi totalità dei metodi riguarda la reattività tissutale e la tossicologia regolatoria: essi hanno consentito il definitivo superamento sia del Test di irritabilità cutanea di Draize (noto per la storica immagine dell’ulcerazione dell’occhio del coniglio che ha fatto il giro del mondo), che del modello in vivo LD-50 (dose letale al 50%) che prevedeva la morte per intossicazione acuta, indotta dal composto oggetto di studio, del 50% degli animali utilizzati per la procedura.

Per quanto riguarda le ricerche di farmacocinetica e farmacodinamica sulle molecole destinate a diventare possibili farmaci, i metodi alternativi non offrono ancora proposte definitive in grado di sostituire l’animale, anche se è opinione scientifica condivisa che le osservazioni sull’animale risultino essere grossolane e –non di rado– addirittura inutili, in quanto l’attività metabolica e la complessità enzimatica variano molto da specie a specie, anche al di dentro della stessa classe dei mammiferi placentati.

La critica al modello animale, per il meccanismo d’azione delle molecole, ha spinto alla costruzione di due linee di ricerca in vivo/umano: la prima si realizza nel soggetto volontario (human-based) utilizzando “microdosi” ed ipotizzando poi le reazioni a posologia maggiore attraverso programmi informatici predittivi (in silico); la seconda prevede i “modelli fungini” (fungal-model), cioè l’utilizzo di funghi il cui metabolismo riassume molte caratteristiche del metabolismo dei farmaci nei mammiferi, quelle molecole (non poche) che vengono metabolizzate sulla linea enzimatica del citocroma P-450. Di fatto, ad oggi, l’unico fungo già utilizzato con un certo successo è la cunninghamella elegans.

Ai laboratori dell’IZSLER (Zooprofilattico Lombardia Emilia-Romagna) – come dichiara da responsabile Maura Ferrar – per quanto riguarda i metodi alternativi, si perseguono le seguenti attività in vitro:

  • Test di citotossicità.
  • Test di valutazione della capacità inibente l’infettività virale da parte di farmaci, nuove molecole, disinfettanti e trattamenti chimico-fisici.
  • Test di trasformazione cellulare.
  • Determinazione della presenza di contaminanti virali in reagenti di origine animale (siero fetale di bovino ed enzimi proteolitici) utilizzati per la produzione di prodotti biologici.
  • Determinazione di contaminanti virali in prodotti biologici e farmaci, incluse le cellule stromali mesenchimali (CSM) destinati all’uomo ed agli animali.
  • Test di carcinogenicità in vitro.

Dobbiamo ricordare che il processo di validazione di un Test dura di solito diversi anni e, finché il percorso non è giunto al termine, il Test non può essere ufficialmente utilizzato. È a questo punto pertinente la messa in luce del paradosso che vede i Test alternativi validati da “procedure di paragone” effettuate tradizionalmente con modello animale. In altre parole: un test alternativo/sostitutivo è valido se raggiunge gli stessi risultati di una prova con gli stessi fini effettuata sull’animale. Ma chi ha mai validato il Test sull’animale? Nessuno, se non la consuetudine della pratica sperimentale empirica. Questo è appunto un lato debole della sperimentazione tramite modelli animali.

La giornalista scientifica Caterina Lucchini, in un’intervista ad Isabella De Angelis e a Gianni Dal Negro (Notiziario Chimico-Farmaceutico, 2016), rileva come l’attrition rate, cioè il tasso di abbandono dell’esperimento, quindi l’insuccesso del modello animale, sia addirittura attorno al 95%. Ciò vuol dire che centinaia di ore di lavoro – oltre ad una grande quantità di animali – si perdono nel nulla.

Ora vorrei dire qualcosa sui sistemi in silico e sui grandi progetti.

In silico (computer simulation)

I primi tentativi di simulazione informatica nelle discipline biomediche sono abbastanza antichi. Nei primi anni ’50 la Alderson Research Labs creò un modello di  rappresentazione elettromeccanica degli eventi traumatici nel contesto del traffico stradale (Crash Test). Questo Test consentì di risparmiare la vita a centinaia di maiali e di scimmie.

 Negli anni a seguire, con lo sviluppo dei programmi computerizzati, si moltiplicarono i Test di simulazione biologica. Un modello ormai ampiamente usato è il PCM (modello del continuo polarizzabile), prova di chimica computazionale che simula l’interazione tra un gruppo chimico o biochimico e l’ambiente umido in cui è inserito; in altri termini descrive la relazione tra soluto e solvente, praticamente in ogni tipo di preparazione biologica in cui una cultura molecolare sia a contatto con una soluzione ospitante.

Una delle basi di fondo del calcolo computazionale in biologia è la cosiddetta “relazione quantitativa struttura-attività” (Quantitative Structure-Activity Relationship [QSAR]). Di fatto si tratta di un modello matematico/informatico che calcola l’attività biologica di un farmaco in funzione delle sue caratteristiche fisico-chimiche strutturali (polarità, ingombro sterico, energia degli orbitali di frontiera). Ciò è molto utile per valutare la capacità di una molecola di superare una certa membrana cellulare o la capacità di legarsi ad un recettore specifico.

Ancora: un esempio evoluto di metodologia mista in silico/in vitro è rappresentato dalla tossicogenomica, disciplina che unisce tossicologia e genomica al fine di studiare gli effetti della tossicità di un composto sul genoma e, di conseguenza, sull’organismo. Le principali tecnologie tossicogenomiche sono: la trascrittomica e la mRNA, molto utili in oncologia per interpretare la relazione tra espressione genica e composti oncogeni che la modificano. Queste metodiche hanno mostrato grande utilità negli studi sui vaccini in occasione dell’epidemia Covid-19.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), quattordici anni fa, rese ufficiale il rapporto “Test di tossicità nel XXI secolo: una visione e una strategia”, che ha delineato un percorso a lungo termine per trasformare i vecchi Test di tossicità basati sul modello animale (LD-50), ritenendoli troppo lenti, troppo costosi e poco predittivi. Il nuovo percorso indicato è quello della tossicogenomica. Gli elementi strutturali del piano considerano l’uso di analisi predittive, ad alta velocità, basate su cellule di origine umana (toxome umano) per valutare la perturbazione cellulare che si verifica nel contatto tra un gruppo istologico ed un composto chimico (Commissione per i Test di tossicità e valutazione degli agenti ambientali, 2013).

Esempi italiani: spigolando qua e là

Sulla linea ora citata si muove l’attività di diversi laboratori come Biogem, ad Ariano Irpino (Avellino), dove Concetta Ambrosino, ricercatrice all’Università del Sannio, coordina un articolato programma europeo sulla tossicogenomica.

Un’altra ricercatrice italiana che voglio menzionare, punto di riferimento sempre più apprezzato per la partecipazione a vari programmi in vitro/in silico – con cui ho avuto l’onore di discutere personalmente – è Costanza Rovida, operativa al CAAT-Europe (Centro per le Alternative ai Test sugli Animali), legato ad un’università tedesca. Costanza Rovida, sulla base di molti anni di esperienza, afferma con decisione l’efficacia dei Test alternativi nel senso di una loro maggiore e precisa capacità predittiva rispetto alle prove su animali. Costanza fa ora parte del progetto europeo EU-ToxRisk che si impegna a studiare nuove strategie di Test focalizzate allo studio del meccanismo di azione delle sostanze chimiche sull’uomo.

Altro progetto in fase di sviluppo è quello portato avanti da un gruppo di giovani fisici all’Università Aldo Moro di Bari, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Il gruppo, partendo dalla Risonanza Magnetica (RMN) effettuata su 200 soggetti con “lieve indebolimento cognitivo”, ha creato, sulla base di un calcolo probabilistico complesso effettuato al centro di calcolo ReCaS, un modello predittivo per la Malattia di Alzheimer (La rivista New Scientist, del 14 settembre 2017, ha pubblicato parte dello studio).

Perché ho citato questi esempi, tra i mille che avrei potuto menzionarne? I primi due riguardano persone d’eccellenza scientifica che hanno scelto le NAT (tecnologie senza animali) non per una scelta animalista, ma in quanto le ritengono più attendibili e predittive rispetto al modello animale. Nel terzo caso ho voluto indicare l’esempio di un gruppo di giovani connazionali di estrazione non direttamente biomedica –e proprio per questo non avvezzi al modello animale, né alla ricerca biologica di dettaglio – che hanno intravvisto comunque l’opportunità di concentrarsi su un problema sociale e sanitario di primaria importanza: la demenza senile, ed hanno scommesso sull’approccio delle scienze esatte. Si noti che fino ad ora le ricerche sul peptide β-amiloide e sul deficit colinergico, che hanno utilizzato il modello murino (sul topo), non avevano prodotto risultati significativi, né relativamente alla predittività, né alla patogenesi.

Grandi progetti

I progetti attivati, negli ultimi 10 anni, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, sono molti. In questo paragrafo ne citiamo alcuni fra i più importanti, dando anche in nota l’indirizzo dei siti di riferimento per poterli conoscere. Bisogna ricordare che la maggior parte riguardano la tossicologia; ciò vuol dire che ampie fasce della ricerca biomedica risultano essere ancora molto indietro o addirittura totalmente sprovviste di metodi alternativi.

I progetti

EUROECOTOX – European Network for Alternative Testing Strategies in Ecotoxicology

Si tratta di una rete europea per lo studio e la produzione di strategie alternative in ecotossicologia.  È finanziato dal VII PQ/CE (VII Programma Quadro del “programma ambiente” della Commissione Europea). Gli obiettivi prioritari della rete Euroecotox sono: a) contribuire allo sviluppo di Test senza animali di ecotossicità in Europa; b) promuovere la validazione e la regolamentazione di nuovi metodi.

SEURAT – 1

È un programma a medio-lungo termine composto da sei progetti di ricerca concordati tra settanta università ed istituti europei. L’obiettivo è sostituire totalmente la testistica tossicologica tradizionale con metodi che non prevedano la sperimentazione animale.

TOXCAST/2007 e TOX-21

Sono programmi governativi statunitensi ad alta tecnologia, gestiti dalla EPA (United States Environmental Protection Agency). Sono state testate, a livello tossicologico, 10.000 sostanze, con risultati giudicati altamente attendibili. In alcuni anni di attività il programma ha ampiamente dimostrato la totale superiorità dei metodi NAT per ciò che riguarda la celerità, la precisione e la possibilità di standardizzazione dei risultati e dei dati (www.epa.gov/chemical-reseach/toxicology).

AXLR8

AXLR8 può essere definito una “azione di coordinamento” all’interno del VII PQ/CE. La Comunità Europea, con questo progetto, promuove e finanzia realtà consortili (consorzio fra laboratori) che si uniscono al fine di studiare e creare procedure sostitutive.

 

L’intensità di un conflitto interpersonale nel contesto lavorativo

Lo stress negli ambienti lavorativi è una delle lamentele più diffuse tra i dipendenti e può essere causato dal ruolo dell’intensità di un conflitto interpersonale in un contesto lavorativo mediata dalle emozioni negative (Gallup, 2019).

 

Il conflitto interpersonale nel contesto lavorativo

 Alcuni studi hanno scoperto che le persone possono passare tantissimo tempo (fino al 42%) a risolvere conflitti lavorativi e talvolta i manager dedicano il 20% del tempo che hanno a disposizione a risolvere lamentele o conflitti interni, nelle aziende o in altri contesti lavorativi (Gupta et al., 2011). Dal momento che le previsioni per il futuro sono che i livelli di stress e di conflitto aumenteranno sempre di più a causa di una forza lavoro molto diversificata in termini demografici, diversi ricercatori si sono chiesti in che modo lo stress personale fosse collegato a quello sul lavoro, identificando alcuni fattori, tra cui il conflitto interpersonale, che sono strettamente legati alla salute e al lavoro dei dipendenti  (Mulki et al., 2015).

Il conflitto interpersonale è definito come un fattore di stress sociale che misura il disaccordo tra le parti (Spector & Jex, 1998); in ambito lavorativo, l’aggressione sul posto di lavoro include diverse variabili tra cui bullismo, insidia sociale e inciviltà, che possono variare a seconda di alcune caratteristiche tra cui l’intensità. Spesso il conflitto interpersonale è associato a risultati negativi quali basso rendimento e soddisfazione lavorativa, stress, turnover, e a sintomi di scarsa salute fisica (Nixon et al., 2017).

I fattori che hanno un forte impatto sui lavoratori possono essere spiegati mediante un modello incentrato sulle emozioni che fornisce un possibile meccanismo attraverso il quale il conflitto influisce sugli esiti lavorativi; tale modello prevede che le reazioni affettive siano un mediatore all’interno della relazione tra stress personale e lavorativo (Spector & Bruk-Lee, 2008). Questo implica che la valutazione personale che ciascuno dà a un evento stressante sul lavoro porta a reazioni emotive avverse che peggiorano ulteriormente l’evento in sé. Tale concetto è ripreso dalla teoria degli eventi affettivi (AET) che postula che gli incidenti sul lavoro, sia positivi che negativi, portano a stati emotivi che influenzano molti atteggiamenti o comportamenti (Fisher, 2000). Le emozioni si riferiscono a stati affettivi transitori che dipendono dall’ambiente e influenzano diversi esiti sia di salute che di organizzazione (Watson & Clark, 1984). Numerosi sono infatti gli studi che hanno trovato una relazione tra conflitti sul lavoro ed esiti negativi lavorativi, collegati ad un forte disagio psicologico e mediati da reazioni emotive negative (Ilies et al., 2011).

Conflitto interpersonale e aggressività nel contesto lavorativo

L’intensità delle aggressioni sul posto di lavoro varia a seconda della gravità percepita di un comportamento aggressivo contro di sé; diversi studi, infatti, hanno dimostrato che l’intensità modula la relazione tra l’aggressione sul posto di lavoro (comprensiva del conflitto interpersonale), le tensioni psicologiche e gli atteggiamenti organizzativi (Nixon & Spector, 2015). Inoltre, l’intensità all’interno di un conflitto influenza il modo in cui le persone lo valutano e reagiscono ad esso, per esempio alcuni conflitti a bassa intensità sono percepiti come benigni o positivi in circostanze nelle quali è richiesto uno scambio di opinioni (Leon-Pereze et al., 2015).

Uno studio di Burnard e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di esaminare l’intensità del conflitto come moderatore della relazione tra il conflitto interpersonale e lo stress percepito, i sintomi fisici e la soddisfazione lavorativa, attraverso le emozioni negative.

Le ipotesi degli autori erano quindi che il conflitto interpersonale sul lavoro fosse correlato negativamente alla soddisfazione lavorativa e positivamente allo stress percepito e ai sintomi fisici; che le emozioni negative mediassero la relazione tra il conflitto interpersonale, la soddisfazione lavorativa, lo stress percepito e i sintomi fisici; infine che l’intensità percepita moderasse gli effetti del conflitto interpersonale sulla soddisfazione lavorativa, sullo stress percepito e sui sintomi fisici, in modo tale che l’effetto indiretto fosse più forte quando l’intensità era elevata.

Il campione dello studio era composto da 306 dipendenti di varie aziende a cui sono state somministrate: la scala Interpersonal Conflict at Work Scale (ICAWS; Spector & Jex, 1998), per valutare il conflitto interpersonale sul lavoro; la Job-Related Affect Well-Being Scale (JAWS; Van Katwyk et al., 2000) per misurare le emozioni negative sul lavoro; il Physical Symptoms Inventory (PSI; Spector & Jex, 1998) per valutare i sintomi fisici; la Perceived Stress Scale (PSS; Cohen et al., 1983) per lo stress percepito e, infine, la Michigan Organizational Assessment Scale (Cammann et al., 1979) per la soddisfazione lavorativa.

I risultati, come ipotizzato, mostrano che i dipendenti che sperimentano livelli più elevati di conflitto interpersonale sul lavoro riportano reazioni emotive negative, minore soddisfazione lavorativa e un aumento di stress e di sintomi fisici. Inoltre, è emerso che le emozioni negative mediano la relazione tra questi. Infine, sembra che l’intensità del conflitto abbia moderato la relazione indiretta tra il conflitto interpersonale e la soddisfazione lavorativa, lo stress percepito e i sintomi fisici: infatti, quando le esperienze di conflitto erano percepite come moderatamente o altamente sconvolgenti, gli effetti del conflitto sono stati moderati.

Sarebbe importante dunque considerare l’efficacia di diversi stili e strategie di gestione del conflitto nella risoluzione di controversie di diversa intensità e conoscere differenti approcci per gestire al meglio il conflitto e affrontarlo efficacemente al fine di migliorare l’interazione sociale e facilitare le norme di collaborazione all’interno dei contesti organizzativi e lavorativi.

Dipendenza affettiva, gelosia, violenza e sessismo ambivalente tra gli adolescenti

Arbinaga e colleghi del 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di approfondire la dipendenza affettiva all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti e la sua interazione con la violenza o l’abuso, la gelosia, gli atteggiamenti discriminatori e il comportamento nei confronti del partner.

 

La dipendenza affettiva

La dipendenza affettiva nei confronti di un partner implica un attaccamento emotivo disfunzionale ed eccessivo verso l’altro (May, 2000). Una persona dipendente percepisce come negativo un equilibrio relazionale stabile, e prende dunque in considerazione l’idea di finire la relazione senza riuscirci, sebbene non sia dipendente economicamente e non abbia ricevuto minacce intimidatorie dall’altro. Alcuni studi che hanno indagato se esista una relazione tra genere e dipendenza (Urbiola & Estevez, 2015), hanno mostrato che gli uomini avevano punteggi più elevati di dipendenza affettiva; altri studi, invece, non hanno trovato alcuna differenza (Moral Jiménez & Sirvent Ruiz, 2009). Inoltre, la dipendenza affettiva spesso è accompagnata da una percezione della realtà distorta oltre che dall’intolleranza alla solitudine e da un vuoto interiore (May, 2000). Può causare quindi differenti conseguenze emotive come pensieri ossessivi, problemi nel sonno, sintomi ansiosi e depressivi, e ritiro sociale sia nelle attività durante il tempo libero, sia nelle relazioni amicali. Nella dipendenza affettiva le relazioni amorose hanno la priorità su qualunque altro impegno nella vita delle persone, indipendentemente dalla loro qualità (Castellò, 2005).

Durante l’adolescenza spesso i ragazzi hanno relazioni non equilibrate e sono a rischio di fare uso di sostanze, di mettere in atto comportamenti a rischio o di contrarre malattie sessualmente trasmissibili (Centers for Disease Control and Prevention, 2014). La dipendenza affettiva può provocare anche comportamenti aggressivi verso il partner, soprattutto da parte del genere maschile. Diversi studi hanno mostrato come la dipendenza affettiva possa essere alla base delle relazioni violente ed è considerata un precursore della violenza da parte del partner in una relazione di intimità (Kane et al., 2000). Nelle relazioni in cui si manifestano episodi di violenza, la dipendenza affettiva aumenta la tolleranza all’abuso ricevuto e rende ancora più difficile terminare la relazione (Kane et al., 2000). La violenza di coppia è un fenomeno multi causale e indipendente dal genere, anche se spesso sono le donne a subire le conseguenze più gravi. È definita come il tentativo di dominare o controllare il partner psicologicamente, sessualmente o fisicamente, provocando conseguenze negative ai singoli individui e alla relazione (Bonomi et al., 2012).

Durante la scuola superiore, il 72% dei giovani è coinvolto in una relazione sentimentale e tra questi tra il 9 e il 38% dichiara di aver subito violenza almeno una volta nella vita (O’Keefe, 2005). Nel periodo adolescenziale, ancora di più che nelle altre fasi della vita, la violenza è associata a conseguenze negative per la salute sia fisica che mentale. In aggiunta, i ragazzi hanno più probabilità di essere aggressivi con il partner se lo vedono fare dai genitori o dagli amici nelle loro relazioni intime.

Dipendenza affettiva e gelosia

Nella dipendenza affettiva è spesso coinvolta anche la gelosia, che è un’emozione sociale generata dalla minaccia o dalla perdita effettiva di una relazione di valore, generata dall’esistenza di un rivale reale o immaginario per il partner. Può portare a conseguenze relazionali negative come conflitti o violenza domestica (Parker & Wampler, 2003).

Molti studi hanno dimostrato che l’intensità della gelosia aumenta con l’aumentare della dipendenza affettiva e che quest’ultima predice la gelosia (Connor et al., 2017).

Un altro predittore è il sessismo ambivalente che è un costrutto definito come la coesistenza di atteggiamenti positivi e negativi nei confronti delle donne. È suddiviso in sessismo ostile, che comporta la convinzione che le donne siano inferiori agli uomini, e sessismo benevolo, che invece esprime il desiderio dell’uomo di dover proteggere a tutti i costi la donna, svolgendo compiti associati allo stereotipo femminile. Inoltre, la teoria del sessismo ambivalente (AST) distingue tre dimensioni dei due sessismi: il paternalismo che riguarda come è distribuito il potere (dominante in quello ostile e protettivo nel benevolo); la differenziazione di genere (competitiva nell’ostile, complementare nel benevolo); infine la sessualità della donna (assenza di sessualità nell’ostile, sessualità potente percepita come pericolo nel benevolo; Connor et al., 2017).

Gli atteggiamenti sessisti hanno quindi una relazione stretta con la violenza sulle donne, sia psicologica che fisica; sembrerebbe però che, negli adolescenti, il sessismo benevolo e quello ostile diminuiscano con l’aumentare dell’età, probabilmente perché è maggiore la consapevolezza dell’ingiustizia del sessismo.

La dipendenza affettiva negli adolescenti

Arbinaga e colleghi del 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di approfondire la dipendenza affettiva all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti e la sua interazione con la violenza o l’abuso, la gelosia, gli atteggiamenti discriminatori e il comportamento nei confronti del partner.

Un campione formato da 234 adolescenti (69,7% femmine, M= 16,77) è stato incluso nello studio.

Sono stati somministrati loro: la Partner’s Emotional Dependency Scale (PEDS; Camarillo et al., 2020) per determinare il grado di dipendenza emotiva; l’Ambivalent Sexism Inventory (ASI; de Lemus et al., 2008) per stabilire gli atteggiamenti e i comportamenti discriminatori nei confronti delle donne; la Jealousy subscale of the Love Addiction Scale (Retana-Franco & Sánchez-Aragón, 2005) per valutare la gelosia; infine il Conflict in Adolescent Dating Relationship Inventory (CADRI; Wolfe et al., 2001) per valutare la violenza all’interno delle coppie di adolescenti.

I risultati mostrano che il 40,6% del campione ha un’elevata dipendenza affettiva mentre il 14,5% una dipendenza estrema. Inoltre, i ragazzi hanno ottenuto dei punteggi superiori di dipendenza affettiva rispetto alle ragazze. Coloro che sono risultati particolarmente dipendenti hanno mostrato differenze nei punteggi relativi alla violenza (sessuale, relazionale, verbale e fisica), al sessismo ambivalente (ostile, benevolo) e alla gelosia. Quest’ultima sembra avere una maggiore capacità predittiva ed esplicativa rispetto al sessismo ambivalente, in un modello predittivo della dipendenza affettiva. È stato riscontrato inoltre che i punteggi relativi all’ambivalenza sessuale aumentavano man mano che aumentava la dipendenza affettiva. È emerso anche che i ragazzi hanno ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto al sessismo ostile, al sessismo benevolo e al punteggio totale dell’inventario del sessismo ambivalente rispetto alle ragazze. Infine, coloro che avevano un livello più alto di dipendenza affettiva dal partner hanno ottenuto punteggi più elevati nella gelosia, eccezion fatta per gruppi di bassa e moderata dipendenza emotiva che erano simili.

È importante dunque sviluppare relazioni rispettose ed emotivamente equilibrate soprattutto durante l’adolescenza, fase di avvio delle interazioni emotive e di apprendimento; ciò consentirà di alleviare ed evitare circostanze di violenza inter-genere. Anche il contesto familiare ed educativo sono luoghi importanti nei quali individuare e modificare comportamenti e atteggiamenti sbagliati, in quanto sono i primi indicatori di relazioni sbilanciate e squilibrare per i ragazzi adolescenti.

Un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Gelosia (2021) di Jo Nesbo – Recensione

L’autore scandinavo, capostipite della letteratura nordica, torna con un nuovo romanzo, “Gelosia”, in grado di mettere in luce i lati più oscuri dell’animo umano.

 

Dalla sua penna stavolta non incontriamo una nuova indagine condotta dal detective Harry Hole, bensì, analogicamente parlando, l’ingresso in un tunnel entro cui il lettore potrà scegliere se entrare o tenersi a margine di quanto lo attende.

“Gelosia”, edito dalla collana Torinese Einaudi, non rappresenta solo un semplice libro ma un “dizionario” capace di descrivere a più riprese, e sotto svariate sfumature, il significato di questa forte emozione, con la quale ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ha dovuto fare i conti.

Spesso si presenta quale un’emozione sconosciuta, ma che pian piano può tramutare la sua forma nutrendosi della stessa paura di chi la vive e che, pagina dopo pagina, illustra tutta la sua fisionomia e la sua metamorfosi in sette indimenticabili racconti.

Da una semplice passeggera di linea desiderosa di morire, alla rivalità di due gemelli monozigoti, Nesbo illustra l’innesco di tutti i substrati di questa forte emozione, rispetto alla quale convergono non solo aspetti puramente cognitivi e percettivi, ma al contempo un cambiamento psicofisico di cui spesso e volentieri non si ha il controllo.

Ciascun personaggio danza su ogni pagina al ritmo di un crescendo, dove leggerezza e intensità, vuoto e pienezza, gioia e dolore creano il giusto mix di ingredienti per un piatto amaro e difficile da digerire in un sol boccone!

Sin dalla prima pagina ci si sente catturati, incuriositi, ma al contempo in guardia, dinanzi a tutte le sensazioni che, riga dopo riga, vengono descritte e dalle quali non sembra esserci via di scampo.

In ciascun racconto il lettore incontrerà insicurezze, ragionamenti privi di logica e dinamiche comportamentali ricchi di un grande significato: ciascuno fomentato dal ragionevole dubbio del sospetto.

La gelosia, infatti, non solo sembra nutrirsi di fattori astratti e spesso privi di fondamento, ma è essa stessa l’equazione perfetta tra una scarsa autostima e il proprio background esperienziale.

In questa lettura infatti non si incontreranno certezze assolute, bensì contenuti emotivo-percettivi che altro non fanno che fomentare ulteriori insicurezze circa la propria integrità intrapsichica ed interpersonale.

Perché, se da un lato questa emozione così forte è figlia della fragilità e della vulnerabilità individuale, è pur vero che essa presenta una propria stratificazione capace di avvelenare la propria psiche.

Passai per tutti i tormenti della gelosia, dall’incredulità alla disperazione e alla collera, all’autodisprezzo e infine alla depressione” dice uno dei protagonisti, l’ispettore Niko Balli.

E in preda ad essa feci delle cose in cui non mi riconoscevo”, perché la gelosia purtroppo innesca una serie di comportamenti di natura autodistruttivi, rispetto ai quali non sempre si ha la giusta dose di consapevolezza.

Talvolta ci si crede autoimmuni a questo veleno, ma come spesso accade ciò che non si conosce può risultare contagioso più di quanto non si creda.

E in quanto veleno, spesso e volentieri da un singolo pensiero si innesca uno stato mentale vero e proprio, seduttivo e invitante (Siegel, 2001).

Un romanzo davvero consigliato, in grado di fungere da specchio in cui vedere il riflesso delle proprie paure, di quello che è stato o che magari ci si trova a vivere in questo preciso momento!

Nesbo dunque consegna al pubblico in maniera magistrale un copione di quanto spesso è difficile riconoscere, ma che sotto il profilo mitologico rende attuale, un’emozione così forte, presente sin dalla notte dei tempi; presentificando ciò che di ancestrale altri prima di noi hanno vissuto.

Leggere le proprie paure e scoprire pagina dopo pagina qualcosa di nuovo.

Leggere un libro è più di un semplice coinvolgimento di più parti, rappresenta un vero e proprio incontro. Durante la lettura non ci si limita a farsi assorbire cognitivamente dal contenuto, ma si incontra un qualcosa di sconosciuto dal quale ci si lascia leggere (Recalcati, M., 2018).

È un evento in cui i piani dell’attività e della passività si ribaltano e si confondono: “non sono più io che leggo il libro, ma è il libro che mi legge”. Ciò significa che nell’incontro con un libro si incontra sempre una parte di sé stessi, un punto in cui l’enigma più singolare e indecifrabile della propria esistenza viene gradualmente svelato, quasi come la parte più intima dell’individuo emergesse in superficie; pronta ad acquisire un nuovo dono.

Quello di una nuova consapevolezza.

La psichiatria fenomenologica: la prospettiva di Van Den Berg 

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”.

 

Che ne è della soggettività oggi, nel “regime della funzionalità” e nell’”età della tecnica”?

La tecnica, oggi, non è più uno strumento a disposizione dell’uomo: “non più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma la tecnica come condizione che decide il modo di fare esperienza. Qui assistiamo a un capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario” (U. Galimberti, Psiche e techne, p. 354).

La tecnica, però, non è altro che l’espressione della “ragione scientifica” (ivi, p. 384) la quale dissolve “le differenze qualitative tipiche del mondo-della-vita in una quantificabilità universale” (ivi, pp. 385-386).

Nel ’62 de “La crisi delle scienze europee” Husserl scrisse:

La natura fisico-matematica è la natura obiettivamente vera nel senso della scienza naturale galileiana; dev’essere questa la natura che si manifesta nelle apparizioni meramente soggettive. È chiaro, e a questo fatto abbiamo già accennato, che la natura delle scienze esatte non è la natura realmente esperita, la natura del mondo-della-vita. Essa è il prodotto di un’idealizzazione, di un’idea sustruita alla natura realmente intuitiva (p. 243).

Ma se la ragione scientifica non può intendere il mondo se non “in termini di pura quantità”, allora che ne è di “quel ‘fiume eracliteo’ meramente soggettivo e apparentemente inafferabile” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 183) del quale ha parlato Husserl? Che ne è di quel mondo “fluente-costante che ‘abbraccia’ tutti i nostri fini, transitori o permanenti, così come abbraccia preliminarmente la coscienza intenzionale dell’orizzonte”? Che ne è, infine, delle persone “pre-scientifiche”, cioè degli uomini che quotidianamente hanno a che fare con un mondo vario, complesso, sfumato, imprevedibile e ricchissimo di rimandi e chiaroscuri, al quale sono essenzialmente ed intenzionalmente legati nel quale non vigono previsioni, esattezze e modellazioni astratte, ma solo intuizioni meramente soggettivo-relative?

Per rispondere a queste domande cominciamo con il considerare l’interessante riflessione sul “meramente” dell’espressione appena usata:

Il primum reale è l’intuizione “meramente soggettivo-relativa” della vita pre-scientifica nel mondo. Certo, per noi, il “meramente” ha una sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale. Ma nella vita pre-scientifica stessa questa sfumatura scompare; qui il “meramente” sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso. Lo spregio con cui tutto ciò che è “meramente soggettivo-relativo” viene trattato dagli scienziati al servizio di un ideale di obiettività non cambia assolutamente nulla al suo modo d’essere, come del resto non cambia nulla il fatto che agli scienziati stessi questo elemento deve essere di comodo, visto che vi ricorrono tanto spesso e inevitabilmente. (ivi, p. 154).

Anche (forse soprattutto) la psicologia, nel suo tentativo di allinearsi al metodo delle scienze della natura non poté evitare l’eclissi dell’uomo dietro la sua idealizzazione obiettiva e scientifica:

La psicologia doveva fallire perché avrebbe potuto assolvere al suo compito, quello di un’indagine sulla concreta e piena soggettività, soltanto attraverso una riflessione radicale e scevra di pregiudizi, che avrebbe necessariamente dischiuso la dimensione trascendentale-soggettiva (ivi, p. 235).

Ma per giungere a questo, continua Husserl, la psicologia avrebbe dovuto:

[…] interrogare originariamente il che cosa e il come delle anime – innanzitutto delle anime umane – il loro modo di essere nel mondo, nel mondo-della-vita, il modo in cui “animano” i corpi propri, in cui sono localizzate nella spazio-temporalità, il modo in cui ciascuna “vive” psichicamente in quanto ha “coscienza” del mondo in cui vive e in cui è cosciente di vivere; il modo in cui ciascuna esperisce il “suo” corpo non soltanto come un corpo particolare, bensì, in un modo assolutamente peculiare, come il “corpo proprio”, come il sistema degli “organi” che essa muove egologicamente (nel suo agire), il modo in cui essa “interviene” (eingreift) nel mondo circostante di cui è cosciente, nella forma dell’”io spingo”, dell’”io trascino”, dell’”io sollevo”, questo e quello, ecc. (ivi, p. 235).

Tutte queste complesse considerazioni spariscono di fronte a una psicologia che, sul modello delle scienze naturali, “concepì l’anima – cioè il suo tema – come un che di reale nello stesso senso della natura corporea, che era il tema delle scienze della natura” (ivi, p. 236). Il risultato non poteva che essere disastroso:

Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (ivi, p. 35).

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”:

Se Leib deriva dall’antico leiben, da cui leben, cioè “vivere”, non possiamo pensare che il corpo assuma rilevanza psicologica se lo conosciamo cartesianamente come “Pura estensione e movimento” e non come quell’intenzionalità, dalla scienza mai tematizzata che ha nel mondo il suo correlato e il suo indispensabile ambiente (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 23).

Dal passo di Galimberti emerge un fatto drammatico: lo psichiatra e il ‘paziente’ parlano due linguaggi differenti. Lo psichiatra si riferisce ad una idealizzazione scientifica del ‘paziente’ e difatti è sordo alle sue – spesso angosciose – richieste di aiuto. Il ‘paziente’, d’altra parte, non si sente compreso (si rammenti la differenza tra erklären e verstehen di K. Jaspers), perché parla di un corpo, di un mondo e di sensi che lo psichiatra organicista non vuole e non può prendere in considerazione: “nella miseria della nostra vita”, ha scritto Husserl, “questa scienza non ha niente da dirci” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 35):

Essa [scil. la scienza] esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. […] Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto (ivi, pp. 35-36).

Fu J. H. Van Den Berg, nel testo ormai classico “Fenomenologia e psichiatria”, a illustrare con un caso concreto concernente un giovane ‘paziente’ in che senso la prospettiva dell’uomo sofferente e quella della medicina organicista sono radicalmente inconciliabili. Il testo in questione si apre con il racconto della storia di un giovane paziente che accusava una serie di ‘sintomi’ angoscianti e invalidanti. La percezione del mondo esterno era sicuramente distorta: “lo aveva perseguitato un’impressione sempre più intensa che le case fra cui passava fossero sul punto di cadergli addosso; esse gli parevano più scure e più vecchie di quanto le avesse immaginate e malconce come se fossero state devastate”. La strada che percorreva abitualmente gli sembrava larga e vuota e le persone erano percepite come lontanissime e distanti. Una tremenda tachicardia lo angosciava costantemente e una invalidante debolezza e vertigini gli impediscono anche una semplice passeggiata.

Questo caso è emblematico perché permette di convalidare, in modo anche abbastanza chiaro, quanto Husserl ha sostenuto nella “Crisi delle scienze europee”. Inutile spiegare al giovane paziente che la strada non è desolata, che gli altri non sono infinitamente distanti e appena percettibili, che le case non sono sul punto di crollare, che il suo cuore è perfettamente sano e che il suo equilibrio non ha niente che non va. Van Den Berg non può fare a meno di notare che “ciò che per il paziente è realtà irrefutabile, al nostro esame “attento” e “oggettivo” si rivela inesistente” (ivi, p. 18), ma allo stesso tempo non si pone in ‘rotta di collisione’ con le dispercezioni e false assunzioni del paziente ma, al contrario, finge di accettarle e si sforza massimamente di comprenderle a partire dalla sua prospettiva:

Riusciamo invece a gettare uno sguardo nella sua soggettività solo quando lo invitiamo a descrivere gli oggetti, a darci una descrizione del suo mondo. Non del mondo come si rivela a un esame “attento” e “oggettivo”, ma il mondo come appare a quell’altro modo di osservazione immediata, spontanea, quotidiana. L’esame oggettivo e attento distrugge la realtà della nostra esistenza, e ha ostacolato enormemente lo sviluppo della psicologia (ivi, p. 48).

E questo perché:

Nella sua visione del mondo, il paziente rivela la propria condizione. La sua esistenza è veramente sull’orlo di un crollo, ogni cosa che appartiene al suo è vecchia e decrepita; egli vive con i ricordi di un tempo svanito, è un anacronismo vivente. Che strade e piazze gli appaiano grandi e vuote in maniera terrificante è l’espressione letterale del suo stato soggettivo: egli è solo, privo di contatti con la realtà viva, le cose sono distanti, straniere, ostili. Non potrebbe averci descritto meglio, con maggior verità e precisione, la sua malattia psichica (ivi, p. 53).

Lo stesso dicasi del corpo. Lo sguardo del fenomenologo, a differenza di quello dello psichiatra organicista, non si pone di fronte il soggetto sofferente per osservarlo ‘dall’esterno’, non si basa più su quanto dichiarato da amici e parenti, ma si mette al posto suo, nel suo mondo:

Per la prima volta nella storia della psichiatria lo psichiatra non si mette dalla parte del profano, degli amici e dei parenti. Non dà del paziente un giudizio affrettato, ma si mette al suo posto cioè nel suo mondo (ivi, pp. 53-54).

I fenomenologi sanno molto bene che il corpo sentito e vissuto preriflessivamente non è il corpo preso in considerazione dal fisiologo o dal chirurgo:

Incontrando il corpo non come oggetto d’indagine ma come soggetto di vita, il metodo fenomenologico è l’unico che consente di accedere al corpo nella sua specificità psicologica, a cui non possono giungere le scienze naturali per la natura oggettivante del loro metodo (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 196).

È questo il motivo per il quale il paziente di cui parla Van Den Berg (e con lui tutti coloro che vivono situazioni psicologicamente disagevoli e angosciose) ben non comprende le rassicurazioni degli specialisti che gli assicurano che dal punto di vista organico non è stata riscontrata alcuna anormalità e “che non c’è nulla fuori posto”. È vero quello che ha scritto Borgna:

L’ansia e il cuore sono dunque strettamente correlati: non c’è stato d’ansia che non si rispecchi nel cuore: modificandone la frequenza e il ritmo. […] Dall’ansia al cuore, e dal cuore all’ansia, in una circolarità senza fine che esprime fino in fondo, e sigilla, la ragione d’essere psicosomatica del disturbo: nella sua inconfondibile reciprocità di azione che sfida ogni riduzionismo monistico e ogni separazione fra psichico e somatico (E. Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 75).

Ma è altrettanto vero che il cuore di cui parla il paziente di Van Den Berge il cuore di cui parla il cardiologo non sono la stessa cosa:

[…] medico e paziente parlano di due organi completamente diversi. Il paziente parla del cuore di cui si dice che “è a destra” o che non è più lì – mentre il medico non riesce a riscontrare il più lieve spostamento – del cuore che può “saltare in gola”, “cadere”, essere “spezzato” da una parola, un gesto, uno sguardo, mentre il patologo-anatomista non è in grado di trovar traccia di questa terribile rottura; del cuore che può essere “sano” anche quando il cardiologo mostra una faccia preoccupata. E che può benissimo essere “malato” anche quando tutti i cardiologi del mondo assicurano unanimemente che l’organo da loro esaminato è in condizioni perfette (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60).

Nella prospettiva fenomenologica lo psichiatra e il suo ‘paziente’ con-vivono in una medesima dimensione cosicché “la conoscenza dei modi di essere e di soffrire non è la conseguenza di una unilaterale iniziativa (diagnostica) da parte del medico; ma è l’espressione di una contestuale (di una contemporanea) partecipazione da parte del medico e da parte del paziente (della paziente): in una circolarità ermeneutica che trascina medico e paziente in una comune ricostruzione conoscitiva” (E. Borgna, Le figure dell’ansia, p. 183).

Il fenomenologo comprende (verstehen) bene che il cuore del ‘paziente’ è effettivamente malato, nonostante le spiegazioni (erklären) del medico, perché comprende che ad essere afflitto da un male non è l’organo fisico, ma il centro “patico” (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60). Lo psichiatra fenomenologo, inoltre, comprende bene che anche le vertigini e la debolezza affliggono davvero il paziente, nonostante lo scetticismo del neurologo che non trova affatto conferme organiche del male che lo affligge:

Il neurologo non riscontra nessun vizio organico; ma questo è un fatto che non ci sorprende più: il martelletto con cui il medico saggia i riflessi del paziente non batte sulle membra di cui quest’ultimo parla quando dice – in un senso diverso, assai più generale – che gli “mancano le gambe”. Egli non è più capace di “tenersi in piedi” nella vita, la sua “posizione è estremamente instabile”, il suo “equilibrio” è in realtà seriamente compromesso (ivi, p. 61).

Queste profondissime considerazioni di Van Den Berg riconfermano sia quanto L. Binswanger ha sostenuto ne “La concezione eraclitea dell’uomo”: “La scienza dell’uomo, sia che vogliano chiamarla psicologia in senso lato o antropologia esistenziale, non può “scalvare” il fenomeno del mondo” (p. 99):

La psicologia non ha a che fare né con un soggetto privo di mondo (che può essere pensato soltanto come un oggetto), né con la “coscienza in generale”, bensì con l’esistenza umana (ivi, p. 101).

Sia quanto Galimberti ha giustamente scritto sul corpo fenomenologicamente inteso:

Il pensiero assoluto, che oggettiva corpo e mondo riducendoli rispettivamente a idea di corpo e a idea di mondo, è la razionalizzazione astratta di quell’originario sentirsi con un corpo dischiuso a un mondo, è l’idealizzazione di quell’originario accoppiamento del nostro corpo con le cose. È per questo accoppiamento che il mondo è “umano”, non nel senso decadente dell’espressione, ma nel senso che le cose del mondo portano con sé i segni delle intenzioni proiettate dall’uomo, che così cessa di essere un soggetto pensante “acosmico”, perché le condizioni della posizione di un oggetto non sono solo mentali, ma si radicano nella sensazione, nel sentimento, nella volontà, nell’azione, per cui, come scrive K. Koffka: “Un oggetto appare attraente o ripugnante prima di apparire nero o azzurro, circolare o quadrato”.

Questa interazione esistente tra corpo e mondo è ignota al pensiero oggettivo che, attento alla sola dimensione quantitativa, non sa spiegare come le qualità irradino intorno a sé un certo modo d’esistenza, un certo potere ammaliante che condiziona ad esempio l’azione motoria del nostro corpo, per cui il rosso e il giallo sono favorevoli all’abduzione e il verde e il blu all’adduzione, per cui una qualità attrae il corpo, un’altra lo ritrae, una significa sforzo e violenza, l’altra pace e riposo. Questo ci dice che il soggetto, prima di porre gli oggetti, simpatizza con essi; che prima del cielo del geografo c’è il cielo reale che non ispeziono, ma da cui mi lascio assorbire; che prima di un pensiero puro c’è un corpo terreno. (U. Galimberti, Il corpo, p. 122).

Lo sguardo fenomenologico dello psichiatra deve essere in grado di mettere da parte “il formalismo della coscienza” e saper intercettare quelle percezioni soggettive che si danno solo nella camaleontica ed intensa vita quotidiana del corpo impegnato attivamente nel mondo, nel suo mondo. Ecco come la condizione esistenziale del paziente di Van Den Berg risulta, dalla prospettiva fenomenologica, profondamente più comprensibile e decisamente più coerente.

In conclusione si può affermare che la tematizzazione del mondo-della-vita, inteso come “fondamento” delle verità logico-teoretiche (cfr. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 153), ha fissato lo spazio d’azione della pratica psichiatrica che, per risultare davvero terapeutica, dovrà saper guardare oltre le sustruzioni e idealizzazioni delle scienze obiettive mirando alla comprensione di quelle esperienze soggettive, pre-scientifiche e pre-logiche che sostanziano la storia dei vissuti umani.

 

Dislessia: trattamento lessicale o sublessicale? Un importante contributo di Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti, sperimentato con alcune App di RIDInet

Il clinico che rieduca la dislessia con un trattamento orientato al compito di lettura, da sempre, si trova a dover effettuare due scelte: proporre al paziente la lettura di parole (trattamento lessicale) o di sillabe (trattamento sublessicale); presentare questi stimoli (parole o sillabe) all’interno di un brano o singolarmente.

 

Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti, in questo importante ed innovativo articolo, condividono un albero decisionale, che guida il clinico in queste scelte, a partire da un’accurata analisi del profilo di lettura del paziente, emerso dall’assessment. In particolare, riferendosi al modello di lettura a due vie (Coltheart, 1978), gli autori propongono di partire dal confronto delle prestazioni di velocità e accuratezza di lettura del singolo paziente nelle tre prove di lettura di brano, liste di parole e liste di non parole; quindi stabilire quale delle due vie di lettura (lessicale o sublessicale) risulti maggiormente integra e quale maggiormente lesa; infine potenziare la via maggiormente lesa, attraverso l’utilizzazione di stimoli e contesto appropriati. A tal fine, nell’articolo viene esemplificato, attraverso dei casi clinici, come quattro diversi profili di lettura abbiano portato i clinici a scegliere una specifica tra le quattro combinazioni di trattamento attualmente disponibili, rispettivamente:

  • trattamento lessicale in un contesto isolato;
  • trattamento lessicale nel contesto di un brano;
  • trattamento sublessicale in un contesto isolato;
  • trattamento sublessicale nel contesto di un brano.

A questo punto, poiché gli autori hanno deciso di mettere l’articolo a disposizione della comunità clinica, lasceremo l’esplicitazione del ragionamento clinico e dell’albero decisionale alle loro parole nell’articolo stesso, concentrandoci in questa sede sull’utilizzo delle App di RIDInet. Fermo restando che il ragionamento clinico è in ogni caso riproducibile con qualsiasi software che permetta la scelta di sillabe e parole, con presentazione degli stimoli in modalità isolata e nel contesto di un brano.

Sottolineiamo che i tre autori dell’articolo svolgono un ruolo molto importante nella piattaforma di teleriabilitazione RIDInet di Anastasis: sono autori di App e, inoltre, Stella e Zoccolotti sono membri del suo Comitato Scientifico. Nell’implementazione del trattamento dei casi proposti, gli autori hanno quindi utilizzato tre App di RIDInet: Reading Trainer, Rapwords Tachistoscopio e Sillabe 2.

I trattamenti lessicali sono affidati alle App Rapwords – tachistoscopio (Zoccolotti e Burani, 2015) e Reading Trainer 2 (Tressoldi, 2013) con impostazione dell’unità di lettura su parola.

Tachistoscopio propone la lettura di parole, ordinate per difficoltà psicolinguistiche, in presentazione singola con modalità tachistoscopica: il tempo di esposizione è inferiore a quello necessario per iniziare un movimento oculare rapido, o sàccade, quindi non superiore ai 150 msec. In questo modo il bambino legge la parola con un solo ‘colpo d’occhio’ (una sola fissazione oculare). Questa modalità di presentazione stimola la lettura globale di parole intere, ma anche l’utilizzo e lo sviluppo del lessico ortografico. L’auto-adattività consente la modulazione progressiva della difficoltà del compito in base al livello di competenza raggiunta di volta in volta dal bambino. Sono in particolare presenti due sistemi di avanzamento:

  • macro: sulla lunghezza delle parole proposte (da 4 a 9 lettere)
  • micro: sulla complessità morfosintattica delle liste, a parità di lunghezza. Sono infatti presenti liste di parole ad alta frequenza, bassa frequenza, miste, C e G, accenti, iati e dittonghi, morfologicamente complesse

Prima di un macro avanzamento sulla lunghezza della parola (es. da 4 a 5 lettere) sono quindi presenti tutti i micro avanzamenti sulla complessità delle liste (da alta frequenza a parole morfologicamente complesse).

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 1

Reading Trainer 2, con impostazione dell’unità di lettura su parola, propone la lettura di parole all’interno di brani con una sorta di effetto karaoke che evidenzia l’unità di lettura con diverse tipologie di presentazione:

  • unità di Lettura: di volta in volta sullo schermo è presente solo la parola da leggere
  • tutto il testo: il testo compare per intero e resta durante la lettura
  • testo rimanente: il testo compare per intero e, a mano a mano che il bambino avanza nella lettura, lo stimolo scompare

Sono presenti numerose opzioni di personalizzazione: la principale è il funzionamento in manuale o temporizzato. Nella modalità manuale è il bambino stesso a determinare la propria velocità di lettura (ovvero l’avanzamento dell’unità di lettura evidenziata) toccando il monitor (o con la barra spazio nel pc). Nella modalità temporizzata, la scansione avviene automaticamente ed il clinico ne imposta la velocità iniziale in base ai parametri rilevati durante le prove di lettura effettuate in sede di valutazione. In questo caso, l’auto-adattività provvede all’aumento automatico della velocità di 0,1 sillabe/sec dopo un certo numero di esercizi consecutivi (sempre specificato dal clinico stesso) in cui viene raggiunta l’accuratezza richiesta negli obiettivi.

Ulteriori opzioni riguardano la durata della sessione, l’attivazione della sintesi vocale, la lunghezza delle pagine proposte e la presentazione in termini di grandezza di font e spaziatura (per bambini con problemi di affollamento visivo/crowding).

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 2

I trattamenti sublessicali sono affidati alle App Sillabe 2 (Stella, 2013) e Reading Trainer 2 (Tressoldi, 2013) con impostazione dell’unità di lettura su sillaba.

Sillabe 2 propone la lettura veloce di sillabe e morfemi calibrati per difficoltà crescenti in modalità veloce (autoregolata per tempi di presentazione e di elaborazione dello stimolo), con tre modalità di presentazione:

  • a stimolo, in cui è presente solo la sillaba/morfema da leggere
  • a stimolo mascherato, in cui lo stimolo è preceduto e seguito da X
  • con riquadro mobile di lettura, in cui l’unità da leggere è evidenziata da un riquadro che di volta in volta si sposta da sinistra verso destra

La presenza di auto-adattività determina un avanzamento automatico su 116 livelli che riguarda sia la velocità di lettura sia la difficoltà crescente in relazione al numero di lettere presentate e alla frequenza di associazione delle lettere fra di loro.

Oltre ad una taratura iniziale per stabilire il livello di partenza, è presente un pre-training per bambini per cui è consigliabile una fase di riconoscimento delle sillabe prima della denominazione.

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 3

Reading Trainer 2 con impostazione dell’unità di lettura su sillaba propone la lettura di sillabe all’interno di brani, con le tipologie di presentazione precedentemente illustrate.

Lasciamo finalmente la parola agli autori dell’articolo “Dislessia: trattamento lessicale o sublessicale?” Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti: clicca qui per leggere l’abstract ed accedere alla possibilità di scaricare l’articolo completo.

Endometriosi. Il vissuto del partner e le problematiche di coppia

L’endometriosi è una patologia cronica, che colpisce prevalentemente le donne in età fertile, e che può presentare sintomi intensi e severi, che hanno un forte impatto sulla quotidianità. L’articolo presenta alcune riflessioni sulle ripercussioni di tale patologia sulla vita del partner e sulle dinamiche di coppia.

 

Che cos’è l’endometriosi

 L’endometriosi è una patologia benigna cronica, estrogeno-dipendente e di natura infiammatoria. Si caratterizza per la presenza di tessuto endometriale, che può essere costituito da ghiandole e da stroma, in sede ectopica, ovvero al di fuori del sito naturale rappresentato dalla cavità uterina (Melis et al., 2005).

In Italia, le donne con diagnosi certificata di endometriosi sono circa tre milioni, ovvero il 10-15% delle donne in età riproduttiva (ISS, 2019). Questa malattia, che colpisce principalmente le donne in età fertile, può avere delle profonde ripercussioni sulla riproduttività e sulla qualità della vita individuale e di coppia, data l’intensità e la severità dei sintomi che la caratterizzano. Per alcune donne questa malattia può essere asintomatica e venire diagnosticata in occasione di visite routinarie di controllo; nella maggior parte dei casi, invece, si presenta associata a dismenorrea, a dispareunia, a dolore pelvico cronico e a infertilità (Murphy, 2002).

L’impatto di questa malattia sulle dinamiche di coppia, e in particolare sulla sfera sessuale, è rilevante (Fernandez et al., 2006). Sebbene emerga in letteratura una consapevolezza di entrambi i partner riguardo l’impatto che l’endometriosi ha sull’intimità e sulla sessualità della coppia, gli uomini sono più restii rispetto alle donne nel verbalizzare l’effetto che tale impatto esercita sulla coppia stessa.

La maggior parte degli uomini sono consapevoli del dolore che la donna affetta da endometriosi può provare durante i rapporti e questo influenza emozioni e comportamenti sessuali. Nella pratica clinica, e in accordo con la letteratura, quando la donna riceve la diagnosi di endometriosi il partner spesso prova emozioni opposte: sente il sollievo di poter dare un nome al dolore e ai conseguenti disagi sessuali; i sintomi assumono un significato ed è possibile prendere consapevolezza della patologia e del suo impatto (Fernandez et al., 2006). D’altro canto, la diagnosi frequentemente si associa all’emergere di vissuti negativi, come ad esempio colpa, vergogna e frustrazione. Alcuni uomini possono sentirsi in colpa quando hanno rapporti con la compagna, perché temono che il proprio piacere possa suscitare dolore; alcuni provano vergogna per non saper trattenere il desiderio sessuale; altri possono provare frustrazione perché i rapporti sono generalmente sporadici e inferiori di numero rispetto a ciò che vorrebbero.

Di difficile impatto emotivo sono i trattamenti legati all’infertilità: vengono spesso esperite sia una certa pressione rispetto alla pianificazione del concepimento di un bambino, sia la sensazione di essere sottoposti a trattamenti intrusivi per la fertilità, considerati prematuri.

La letteratura riporta come la maggior parte degli uomini tenda a dare priorità al benessere della partner prima del soddisfacimento dei propri bisogni, comprendendo la necessità di un cambiamento all’interno della relazione sessuale e accettando, nel tempo, i risvolti. Molti prediligono mettere in secondo piano i propri vissuti per adottare una posizione supportiva nei confronti della donna (Fernandez et al., 2006), peraltro con un rischio per il proprio benessere psicologico a medio e lungo termine.

La coppia davanti alla diagnosi di endometriosi

Un interessante studio sulle dinamiche di coppia (Butt e Chesla, 2007) osserva cinque modelli relazionali in coppie che si confrontano con la diagnosi di endometriosi, che vengono chiamati “insieme ma da soli”, “combattere l’endometriosi assieme”, “uniti nella disabilità”, “annientati dal caregiving”, “impegnati nella cura reciproca”.

 Il primo pattern, “insieme ma da soli”, descrive un modello di relazione in cui mancano comprensione reciproca, coesione e connessione; ogni individuo ha un forte senso del sé, così come idee e pratiche diverse rispetto alla salute. In queste coppie la malattia può accentuare le differenze già esistenti ed esacerbare i conflitti, conducendo i due partner al distanziamento e all’isolamento reciproco. La donna affetta da endometriosi percepisce una mancanza di accettazione da parte del compagno e di conseguenza si sente sola e isolata nella sua sofferenza; la disconnessione emotiva che divide i partner nel tempo diventa sempre meno sostenibile, fino a determinare la rottura del legame.

Nel secondo modello, “combattere insieme l’endometriosi”, la coppia è unita per debellare la malattia. La comprensione della sintomatologia da parte di entrambi i partner determina la possibilità di gestire la malattia mantenendo l’armonia, che si manifesta anche attraverso la capacità del partner di sostenere la donna nei momenti difficili senza lamentarsi o mostrare risentimento. La coppia affronta assieme le decisioni circa le differenti cure a cui la donna può essere sottoposta, accettando le conseguenze. Tuttavia, gli sforzi per eliminare la malattia, vissuta come un “invasore”, possono prendere il sopravvento sulla quotidianità e farsi estenuanti e logoranti.

Il terzo modello, chiamato “congiunti nella disabilità”, vede la presenza di un partner che a sua volta ha un deficit corporeo. Questa parità apre ciascun individuo a una maggior comprensione, pazienza, e attenzione nei confronti dell’altro e crea uno spazio per costruire insieme una relazione e una vita familiare significativa e vitale. La coppia affronta la vita come una squadra unita, creando un delicato equilibrio tra disabilità e capacità proprie e del partner e trovando il modo di bilanciare i bisogni reciproci. Piuttosto che essere arrabbiati o negativi, i partner riescono a utilizzare modalità positive, come ad esempio ridere assieme, per tollerare e superare i momenti dolorosi.

Nel pattern relazionale “annientati dal caregiving”, il partner sano dà la priorità all’accudimento dell’altra rispetto alla cura di sé e si assume piena responsabilità delle cure, ritenendo che questo agire dia significato e scopo alla propria vita. La donna tende a sviluppare un forte attaccamento al caregiver. Spesso però in queste coppie i confini sono confusi e le due personalità dei singoli si perdono nella diade. Pertanto, questo modello funziona prevalentemente quando è utilizzato per un tempo limitato.

Infine, il modello “impegnati nella cura reciproca” illustra l’accettazione reciproca dell’altro, così come l’integrazione della malattia nella vita quotidiana. A seconda dello status del partner malato e, in modo flessibile, il coniuge aumenta o diminuisce le cure da fornire e si viene a trovare un equilibrio tra la cura del sé e la cura dell’altro. Questo modello risulta sicuramente più sostenibile nel tempo rispetto al precedente, e più sano per i membri della coppia, che riescono a mantenere la loro individualità.

La letteratura, dunque, mette in evidenza come, per affrontare da un punto di vista psicologico le conseguenze di una malattia cronica invalidante come l’endometriosi sia necessario non limitarsi ad offrire un sostegno alla donna che subisce la diagnosi, ma, ove viene manifestato un disagio, aprire uno spazio di ascolto anche ai partner coinvolti ed eventualmente procedere con una presa in carico anche della coppia.

 

Psicofarmacologia come superpotere a Gotham City: l’esperto della salute mentale come cattivo in “Batman”

Lo psichiatra e lo psicologo, essendo conoscitori della mente e dei suoi meccanismi, possono essere dei cattivi molto interessanti e, nell’universo di Gotham City, diventano i principali avversari che Batman si trova ad affrontare.

 

Batman e Gotham City

 Batman, personaggio dei fumetti ideato da Bob Kane e Bill Finger e caposaldo della letteratura illustrata supereroistica statunitense, ha una delle gallerie di nemici più interessanti del panorama fumettistico mondiale. Fra questi si trovano degli psicologi e degli psichiatri che, per vari motivi, sono passati dalla parte del crimine e si trovano ad essere avversari del crociato incappucciato.

In questo articolo si analizzano questi personaggi e le loro dinamiche, utili non solo per delineare meglio il loro ruolo nel mondo del detective mascherato, ma anche per contestualizzare come viene raffigurata la figura dell’esperto della salute mentale nelle vicende che li vedono protagonisti.

Batman è uno dei personaggi più famosi del pantheon supereroistico della casa editrice americana DC ed uno dei personaggi chiave della letteratura illustrata.

Il Cavaliere Oscuro, sin dalla sua prima comparsa sul giornale “Detective Comics”, ha intrattenuto generazioni di lettori, attratti dalle avventure dove Bruce Wayne, per la società di Gotham City un milionario playboy sempre presente sui tabloid, difende la Giustizia da antagonisti appariscenti e pericolosi nella veste di vigilante mascherato.

Le avventure del detective mascherato, a volte accompagnato da personaggi come le varie incarnazioni di Robin, sono particolarmente amate per l’atmosfera cupa e tenebrosa delle sue storie, all’origine più vicine all’impostazione delle storie poliziesche che supereroistiche (Clapham, 2019).

Questa tipologia di atmosfera, a parte la parentesi per tutta la famiglia dettata dal periodo della “Comics Code” (Sergi, 2012), un organo di autocensura che l’industria si è costretta ad attuare in risposta alla paranoia nei confronti del fumetto in America negli anni quaranta, soprattutto grazie allo studio controverso, poi squalificato scientificamente, dello psichiatra Fredric Wertham (Tilley, 2012), è retta grazie anche alla galleria degli avversari che Batman affronta nelle sue storie.

Di fatto, i nemici di Batman, oltre che per i loro eventuali superpoteri e per il concetto tematico che li caratterizza, sono un elemento psicologico fondamentale per le storie di questo supereroe: di fatto, questi, attraverso il loro rapporto con l’alias di Bruce Wayne creano un mezzo per profilare e studiare la sua psiche (Amerongen-Kruisselbrink, 2020), soprattutto i suoi lati più oscuri e direttamente indicabili come disturbi mentali (Hawley, 2006; Riordan, 2018).

Gli avversari di Batman

Come accade spesso nei fumetti, alcuni dei cattivi del mondo narrativo di Gotham City arrivano direttamente dal campo della salute mentale: così Batman affronta anche personaggi che sono esperti professionisti del mondo psicologico e che, per uno o più motivi, si ritrovano ad affrontare il vigilante.

Un personaggio che risalta subito nella galleria è lo Spaventapasseri: Jonathan Crane è un professore di psicologia che, a causa di bullismo subito quando era ragazzo per il suo fisico minuto e sparuto, si interessa ai meccanismi neurocerebrali legati alla paura e sviluppa una tossina che induce un’esperienza allucinante traumatica nel soggetto, portandolo ad avere visioni distorte incentrate su ciò che lo spaventano maggiormente.

Essendosi spinto oltre i confini etici nella vita personale e professionale, Crane abbandona la carriera accademica e si muove nell’ambiente criminale, scontrandosi spesso con il Cavaliere Oscuro (Previewsworld, 2021). Lo Spaventapasseri è un personaggio molto noto nel mondo fumettistico, poiché con i suoi mezzi neurofarmacologici e il suo tema di fondo legato alla paura permette al lettore di entrare nei lati più intimi e più vulnerabili di Batman (Tregonning, 2018).

 Un altro personaggio del mondo di Batman legato al mondo della psicologia è Hugo Strage: uno dei primi nemici che l’uomo pipistrello abbia mai avuto, il dottor Strange è un medico esperto di vari campi, fra i quali la psichiatria e la psicofarmacologia, che ha una ossessione per l’uomo pipistrello. Anticipando lo Spaventapasseri nell’uso di una tossina cha causa paura, il Dottor Strange affronta Batman con l’ossessione per la sua identità, diventando poi uno dei pochi cattivi a scoprirla e, per un periodo, essere il Detective Incappucciato al posto di Bruce Wayne.

Infine, un terzo personaggio e forse il più noto al pubblico generale è Harley Quinn. Apparsa per la prima volta nella serie animata dedicata a Batman della Warner Bros., Harley Quinzell è una psichiatra che svolge l’attività nel manicomio criminale di Arkham, l’istituto dove la maggior parte degli avversari di Batman sono rinchiusi. Qui, la dottoressa Quinzell subisce il fascino malvagio di Joker, il nemico principale del detective mascherato, venendo così manipolata, corrotta e condotta ad avere con lui un rapporto disfunzionale (Reynaud, 2021). Il personaggio è poi diventato uno dei più popolari dell’universo DC, tanto da assumere poi il ruolo di antieroe, abbandonando il Joker ed entrando nella squadra di black-ops denominata Suicide Squad, assumendo un ruolo di rilievo nelle trame DC (Ito, 2016).

La visione negativa dell’esperto della salute mentale

Avendo parlato di questi avversari di Batman, si percepisce subito l’utilizzo narrativo dell’esperto della salute mentale come nemico, assai presente nella narrativa generale (Ahmed, 2020). Di fatto, lo psichiatra e lo psicologo, essendo conoscitori della mente e dei suoi meccanismi, possono essere dei cattivi molto interessanti, usando strategie e tecniche che possono mettere a dura prova l’eroe, permettendo inoltre di vedere quanto sia salda la sua salute mentale e di scoprire meglio la sua vita interiore ed i suoi lati più nascosti e personali (Hopson, 2014).

Questa parte della galleria di Batman permette non solo di capire quanto la figura del Medico della Mente attragga come cattivo, ma anche di arrivare al problema di questa scelta narrativa: il poter influenzare negativamente la reputazione della salute mentale attraverso i mass media. Infatti, sebbene la cura del benessere mentale è oramai una parte salda della società e del mondo della salute, per questioni culturali e stereotipiche in alcune aree della società umana essa è vista con sospetto, aspetto che, unito al fatto che nei media narrativi si utilizzi la figura dello psichiatra e dello psicologo senza aver interesse di divulgarne in maniera realistica l’attività, porta a confusione sull’operato della scienza della salute mentale e spesso ad averne una visione approssimativa e deviata (Ginn, 2015).

Allo stesso modo, per aiutare a divulgare meglio e dare una luce maggiormente positiva al mondo del benessere mentale, si stanno verificando casi opposti, ovvero l’utilizzo del media fumetto ed animato per spiegare meglio la salute psicologica e nel confine della narrativa di dare una visione non negativa dello psicologo e dello psichiatra.

Casi di ciò si possono trovare nella narrativa multimediale giapponese, in opere come “Comic Psychosomatic Medicine” (Sherman, 2014) e la “Psychiatrist Irabu series”.

Il drop-out in psicoterapia (2022) di Vincenzo Auriemma e Valeria Saladino – Recensione

Nato dalla collaborazione di diversi professionisti, il libro “Il drop-out in psicoterapia. Grounded theory e ricerca qualitativa” raccoglie ed analizza informazioni, dati, e riflessioni emersi da un’interessante ricerca circa un fenomeno molto importante cui prestare attenzione: il drop-out in psicoterapia.

 

 Tale lavoro è stato sviluppato all’interno del progetto Perseo, frutto della Società scientifica di psicoterapia strategica, e si propone di incrementare la credibilità della psicoterapia valorizzando i suoi outcome e le sue tecniche, rendendo tale disciplina valutabile e quantificabile a partire da dati e metodologie che ne rispettino la peculiarità, salvaguardandone la scientificità.

All’interno di tale progetto hanno collaborato diversi professionisti come Gennaro Iorio, Filippo Petruccelli, Bernardo Paoli, Francesco Tinacci, Davide Algeri, fabio Leonardi, Cristina Capozzella e Andrea Stramaccioni.

Il fenomeno del drop-out, ossia l’interruzione della psicoterapia da parte del paziente, che ha visto negli anni tanti studi ed approfondimenti, così come tante definizioni, all’interno del lavoro degli autori viene analizzato attraverso un’interessante metodologia di ricerca, ossia la Grounded Theory (GT). Una metodologia più adatta allo studio di tale fenomeno in quanto fondata sui dati e non sulla scelta precostituita di una teoria già esistente. L’assunto di base nella sua costruzione è di tipo induttivo, ossia parte da un concetto per poi estendere le considerazioni che ne emergono verso una teoria generale. La Grounded Theory evita in tal modo influenze e bias del ricercatore, il quale solitamente è portato a indagare un fenomeno a partire da dati precostituiti e già noti e a valutare il risultato di una ricerca basandosi sulla letteratura e su ciò che già conosce in merito al fenomeno studiato.

All’interno del testo, viene offerta un’ampia panoramica circa le metodologie di ricerca in riferimento a fattori di interesse della psicologia, della psicoterapia e della sociologia. Viene inoltre sottolineata l’importanza della promozione di una maggiore transdisciplinarietà, esplorato ed approfondito il concetto di drop-out e diverse variabili in gioco, anche se il focus è maggiormente posto sull’esplorazione del drop-out in riferimento ai due protagonisti del processo terapeutico, ossia paziente e terapeuta.

Vengono illustrate procedure di ricerca, metodologia, ipotesi, obiettivi e risultati, concludendo il testo con un’interessante approfondimento di quest’ultimi.

 Oggi infatti, sappiamo come il drop-out possa dipendere da numerosi fattori e variabili, riguardanti sia caratteristiche emotive, comportamentali, personologiche del paziente, che del terapeuta, così come lo stile comunicativo di quest’ultimo, la relazione terapeutica, l’alleanza terapeutica, il setting, il livello di motivazione, fiducia, sintomi e psicopatologia del paziente.

Nella ricerca riportata nel libro sono state analizzate 30 terapie concluse e caratterizzate da drop-out, alcune sedute videoregistrate ed altre solamente audio registrate. Sono state così individuate e distinte due tipologie di drop-out: non concordato/non comunicato e non concordato/comunicato dal paziente.

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 1

Dall’analisi dei loro dati, gli autori hanno acceso il focus su alcuni fattori che sembrerebbero influenzare in modo più significativo il drop-out, come motivazione e fiducia, elementi che nutrono conseguentemente la relazione terapeutica.

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 2

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 3Un lavoro presentato in modo chiaro ed esaustivo, di scorrevole e piacevole lettura, che analizza e invita a prestare attenzione a un fenomeno molto importante per gli addetti ai lavori. Un utile spazio di riflessione per il professionista lettore, da sfruttare come possibilità volta al miglioramento della qualità del servizio offerto al paziente, al fine di ridurre la possibilità di drop-out o sfruttare lo stesso come possibilità di indagine e crescita.

La mindfulness come strumento per regolare l’uso problematico degli smartphone

L’utilizzo degli smartphone è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni (Regan et al., 2020). Infatti, se nel 2011 solamente il 35% della popolazione negli USA possedeva uno smartphone, nel 2018 circa il 77% ne possiede almeno uno. Avere uno smartphone al giorno d’oggi sembra quasi obbligatorio, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti, dei quali circa il 94% ne è in possesso.

 

 Nonostante gli smartphone abbiano numerosi aspetti positivi (come la comunicazione istantanea, l’apprendimento rapido e lo svago), al giorno d’oggi l’utilizzo di questi strumenti è sempre più continuo e ciò può risultare problematico (Regan et al., 2020). L’uso problematico del telefono è stato definito come l’incapacità di regolare il tempo di utilizzo di uno smartphone e ciò può comportare conseguenze negative nella quotidianità. Alcuni studi riportano che sembra esistere una correlazione tra un uso continuo e incontrollato del telefono e lo sviluppo di disfunzioni emotive e cognitive.

I fattori di rischio che possono portare all’uso problematico dello smartphone

Sono stati identificati numerosi fattori di rischio che possono contribuire allo sviluppo di un uso problematico dello smartphone (Regan et al., 2020).

Uno di questi fattori di rischio sembra essere l’impulsività. Infatti, è stata osservata una correlazione tra alti livelli di impulsività e una maggiore difficoltà nel controllare bisogni e comportamenti automatizzati, come il controllare continuamente il telefono per vedere se ci sono notifiche (Regan et al., 2020).

Un altro fattore è la tendenza alla noia, intesa come una facilità ad esperire una bassa soddisfazione e un forte disagio in situazioni che non forniscono un adeguato stimolo mentale (Regan et al., 2020). Sembra che individui che tendono ad annoiarsi facilmente utilizzino lo smartphone più frequentemente, col fine di evitare l’emozione negativa cercando svago online, con il rischio di passare troppo tempo al telefono (Regan et al., 2020). La tendenza alla noia tende inoltre a rinforzare i comportamenti legati al controllo di notifiche, e sembra essere un fattore di rischio per lo sviluppo di depressione e ansia (Regan et al., 2020). Questo legame suggerisce che la noia può condurre l’individuo ad utilizzare il telefono in modi che possono risultare dannosi per la salute (Regan et al., 2020).

Un altro fattore è la nomofobia, ovvero un’intensa paura, ansia o disagio dovuti al timore che la tecnologia sia inaccessibile (Clayton et al., 2015). Clayton e colleghi (2015) hanno osservato che alcuni individui, quando separati dal proprio telefono per più di cinque minuti, hanno iniziato ad avere un aumento della velocità del battito cardiaco, un incremento della pressione del sangue e una forte ansia. Han e colleghi (2017) suggeriscono che questa ansia da separazione dal telefono potrebbe derivare da un’estensione dell’identità personale nello smartphone, in quanto è uno strumento che contiene applicazioni utili per rimanere in contatto con altre persone e per rimanere aggiornati, come i social media.

Il ruolo della mindfulness

 È stato osservato che la mindfulness –intesa come la pratica dell’autoconsapevolezza, mantenendo uno stile di accettazione, curiosità e apertura verso le esperienze del momento presente– ha avuto diversi effetti benefici, quando integrata nelle terapie per trattare l’abuso di sostanze (Regan et al., 2020). La possibilità di intervenire sulla riduzione dei comportamenti di dipendenza, oltre che alla riduzione dello stress e dell’ansia, sembra suggerire la mindfulness come un valido strumento per diminuire l’uso problematico dello smartphone (Regan et al., 2020).

Liu e colleghi (2018) hanno riscontrato l’esistenza di una correlazione tra lo stress percepito e l’uso problematico dello smartphone (Liu et al., 2018). Questa correlazione era meno significativa in individui il cui uso del telefono era mediato dall’autocontrollo e moderato dalla pratica della mindfulness (Liu et al., 2018). Li e Hao (2019) hanno osservato che l’impatto negativo dell’alessitimia su individui dipendenti dallo smartphone era molto inferiore tra coloro che praticavano abitualmente mindfulness, e ciò può suggerire che la mindfulness può aiutare a moderare l’uso problematico del telefono (Li e Hao, 2019). Regan e colleghi (2018) hanno osservato come la pratica della mindfulness riducesse notevolmente gli effetti nella nomofobia e della tendenza alla noia (Regan et al., 2018).

Sembra quindi che la mindfulness possa aiutare l’individuo a prevenire lo sviluppo di un uso disfunzionale dello smartphone, insegnando la regolazione degli stati interni e aiutando a gestire i pensieri, le emozioni e i comportamenti legati alla dipendenza da telefono (Regan et al., 2020).

Tecnologia persuasiva e comportamenti pro-ambientali: una prospettiva psicologica

La tecnologia persuasiva può essere definita come l’insieme dei sistemi e degli ambienti che sono progettati per modificare l’elaborazione cognitiva, gli atteggiamenti e i comportamenti dell’uomo.

 

 La tecnologia, fin dai tempi più remoti, ha avuto il compito di semplificare la vita dell’umanità. Con il tempo l’applicazione tecnologica ha portato con sé anche una serie di conseguenze negative, tra cui l’aumento dell’inquinamento e degli scarti industriali. Nonostante questo, la tecnologia può essere utilizzata come mezzo per facilitare il conseguimento di un obiettivo. In questo articolo vedremo proprio come la tecnologia possa essere usata per favorire l’adozione di comportamenti pro-ambientali.

Qual è il rapporto che intercorre tra la tecnologia e il comportamento umano?

Le politiche ambientali fanno uso delle nuove tecnologie per ridurre l’impatto ecologico. Il rapporto che intercorre tra tecnologia e comportamento umano è inevitabilmente intrecciato. Basti pensare che qualsiasi tecnologia prima di essere considerata utile e utilizzabile deve essere accolta dal consumatore.

Ad esempio, se consideriamo l’applicazione della tecnologia per ridurre l’inquinamento automobilistico, a partire dalla produzione di automobili sempre più ecosostenibili, notiamo fin da subito che all’aumentare dell’utilizzo della nuova tecnologia viene a ridursi l’effetto “green” della tecnologia stessa (maggiore è l’uso della tecnologia da parte dei consumatori, maggiori saranno gli esemplari prodotti della tecnologia e di conseguenza aumenteranno anche i consumi per produrla).

Questo prende il nome di effetto rimbalzo, cioè, in questo caso, la maggiore efficienza donata dalla tecnologia influenza il comportamento degli automobilisti che tendono a viaggiare maggiormente in auto in virtù della maggiore resa del veicolo (o di qualsiasi altra tecnologia; Midden et al. 2007). Con questo esempio appare chiaro come il consumatore possa essere influenzato nelle scelte sia dal contesto (e.g. norme sociali-tutti acquistano automobili elettriche, quindi, è consigliabile fare lo stesso) sia dall’uso di tecnologie persuasive.

Il tema della tecnologia persuasiva è stato trattato nell’articolo “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” e può essere definito come l’insieme dei sistemi e degli ambienti che sono progettati per modificare l’elaborazione cognitiva, gli atteggiamenti e i comportamenti dell’uomo (Fogg, 2003). Nell’articolo sono state definite tutte le proprietà che rendono le tecnologie molto più persuasive dell’umano e i vari ruoli che possono ricoprire per favorire la persuasione.

Gli stessi principi sono validi anche per la promozione dei comportamenti pro-ambientali.

Il rapporto tra tecnologia e persuasione

La persuasione non ha nulla a che fare con i vari libri che girano in rete sul come “invogliare gli altri a fare quello che si vuole” o “riuscire a influenzare il proprio partner”. La persuasione, in psicologia, è un tema ostico perché non presenta una definizione univoca.

Come già visto nell’articolo “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” è possibile persuadere le persone mediante l’uso di tecnologie. La persuasione attuata dalle tecnologie fa comunque riferimento a forme di influenza sociale utilizzate tra persone, ma si differenzia da queste perché ha l’obiettivo di modificare atteggiamenti e comportamenti di una persona evitando la coercizione o l’utilizzo di inganni (Fogg, 2003).

Le principali forme di influenza sociale sono tre:

  • Compliance. La persona cambia il proprio comportamento in modo temporaneo dopo aver ricevuto un consiglio o una richiesta diretta. Solitamente il cambiamento di comportamento è superficiale (Cialdini e Trost,1998).
  • Obbedienza. Simile alla compliance, ma associata a una figura di potere che viene vista come centrale nell’influenza (per es., un maggiore che dà un ordine). Anche in questo caso, il cambiamento di comportamento è superficiale, ma è fortemente legato alla fonte di potere (Milgram,1974).
  • Conformità. Indica un cambiamento individuale o gruppale, molto profondo che deriva da una pressione esercitata da un gruppo a cui si appartiene o a cui ci si oppone (per es. casi di maggioranza e minoranza, solitamente la maggioranza esprime una maggiore pressione sociale che porta la minoranza a conformarsi, anche se esistono dei casi in cui la minoranza riesce a influenzare la maggioranza; Moscovici,1985).

Le seguenti forme di influenza sociale sono state applicate, in alcuni studi, anche dalle tecnologie con lo scopo di influenzare le persone. I risultati hanno mostrato come tecnologie supportate con questi approcci riuscivano a influenzare maggiormente i soggetti rispetto a tecnologie non supportate (Midden e Ham 2009).

Promuovere comportamenti pro-ambientali mediante la tecnologia

Nell’articolo sulla captology “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” sono state indicate le principali forme attraverso cui le tecnologie possono essere più persuasive:

Tecnologia come attore sociale

La tecnologia che promuove comportamenti pro-ambientali può essere considerata come un attore sociale (parte della socialità, cioè l’interazione sociale può avvenire tra persona e tecnologia) quando:

  • fornisce feedback sociali (riscontri sociali) in tempo reale sul consumo di energia in funzione delle scelte attuate dalla persona (per esempio, quando si sceglie il programma per la lavatrice prima di far partire il lavaggio si potrebbe far presentare un messaggio scritto o vocale in cui si indica se la decisione presa salvaguarda l’ambiente o meno). Infatti, ricevere un feedback sociale negativo porta la persona a elaborare maggiormente l’informazione ricevuta rispetto a un feedback (riscontro) positivo (Baumeister et al. 2001).
  • presenta alcune proprietà umanoidi (corpo umanoide e linguaggio umanoide; Vossen et al. 2010). Bisogna sottolineare “alcune” perché non è necessario che la tecnologia sia estremamente simile all’umano per essere persuasiva. Inoltre, è importante evitare il fenomeno della reattanza psicologica, cioè un’avversione emotiva e comportamentale verso uno stimolo (persone e agenti artificiali). Nel nostro caso può capitare che un messaggio della tecnologia venga percepito come troppo “minaccioso” dalla persona che potrebbe, un po’ per confermare la propria autonomia, fare l’opposto di ciò che è stato consigliato.

Tecnologia come mediatrice di esperienza

Negli ultimi anni i governi mondiali hanno lanciato campagne di comunicazione di massa per sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi ambientali, spesso con risultati deludenti (Bartels e Nelissen 2001).

Infatti, come visto nell’articolo “Cambiamento climatico antropogenico: una prospettiva psicologica”, è molto complesso riuscire a sensibilizzare le persone su tematiche astratte e difficili da immaginare, come con il cambiamento climatico.

 Però attraverso l’uso di tecnologie come mediatrici dell’esperienza è possibile persuadere l’opinione pubblica. Le applicazioni sono tante: è possibile usare le rappresentazioni 3D e multisensoriali per far percepire le possibili esperienze sensoriali (IJsselsteijn, 2004) associate al cambiamento climatico, oppure far visionare contenuti emotivi associati a tematiche ambientali, così da aumentare il coinvolgimento e indurre le persone a informarsi (Meijnders et al. 2001).

Un esempio di tecnologia persuasiva pro-ambiente che possiamo provare sulla nostra pelle è l’utilizzo di luci calde così da percepire, erroneamente, l’ambiente in cui ci troviamo più caldo, così come dimostrato dagli studi di Lu e collaboratori (2015).

Tecnologia come tool

La tecnologia persuasiva per la promozione di comportamenti pro-ambientali può essere usata come tool (applicazione tecnologica o strumento) in due principali modi.

  • Intelligenza ambientale. Con questa espressione si indica l’intera gamma delle tecnologie che ci circonda e che sono connesse tra di loro per coordinarsi così da mettersi a disposizione dell’umano senza risultare invadenti. Questa applicazione tecnologica consente di essere sempre presente nella quotidianità della persona con feedback che indirizzano, in modo persuasivo, il comportamento.
    Un esempio è WaterBot, un tool che misura il consumo d’acqua di una specifica zona della casa (lavandino, doccia etc.) e dà un feedback, in tempo reale, del consumo (Arroyo et al. 2005).
  • Interventi di gruppo. Il principale consumo deriva dalla partecipazione di più persone a uno stesso sistema, di conseguenza è necessario pensare a come si possano usare delle tecnologie persuasive all’interno di un ambiente popolato da più persone.

Uno studio di Midden et al.(2011) ha dimostrato come sia possibile usare un sistema intelligente implementato in due abitazioni simulate nei Paesi bassi (cultura individualista) e in Giappone (cultura collettivista) e ottenere mediante l’uso di feedback individuali e di gruppo sul consumo energetico, una diminuzione dello stesso.

In particolare, i feedback individuali sono stati più efficaci di quelli collettivi nel ridurre il consumo nei Paesi Bassi mentre è accaduto il contrario in Giappone, in cui i feedback di gruppo hanno avuto un maggiore effetto sul consumo, dimostrando come ci sia una differenza culturale nell’efficacia dei feedback forniti.

Conclusioni

Lo sviluppo tecnologico è promotore di importanti passi in avanti per l’umanità. La gestione delle possibili applicazioni della tecnologia dipende esclusivamente da noi. In questo articolo appare chiaro come le tecnologie persuasive possono ricoprire un ruolo importante per la promozione e per la tutela dell’ecosistema. Chiaramente è necessaria ulteriore ricerca anche per far fronte ai possibili problemi etici che possono scaturire dall’utilizzo di queste tecnologie. Nonostante alcuni dubbi sull’uso di questi strumenti, è importante tener presente che le tecnologie, se gestite dall’umano in modo adatto, possono promuovere e supportare nuove opportunità per il mondo che ci circonda.

 

Lo sviluppo sociale

Lo sviluppo sociale indica il modo in cui nel corso della crescita individuale i bambini interagiscono e si relazionano con gli altri e come cambiano i comportamenti, le condotte, gli atteggiamenti, i sentimenti, i concetti, le idee, le emozioni esperite dal bambino.

 

 Fin da quando sono molto piccoli, i bambini manifestano una particolare e innata capacità di pre-adattamento sociale, cioè una predisposizione biologica alla comunicazione sociale, una motivazione molto forte che li spinge a esplorare l’ambiente circostante, a processare gli stimoli sensoriali e a entrare in connessione con gli altri. La forza dinamica e innata che li spinge alla socializzazione e alla scoperta dell’ambiente trova la sua massima espressione intorno al secondo anno di vita, quando i bambini cominciano a relazionarsi tra loro e a interagire con la realtà attraverso il gioco.

Il gioco è un aspetto centrale dello sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e morale del bambino, in quanto nel gioco il bambino apprende nuove modalità di esperire il mondo e di captare gli input esterni. Possiamo distinguere almeno 5 tipologie di gioco, che variano a seconda dell’età di sviluppo del bambino.

Il gioco solitario

Il gioco solitario è tipico dei bambini piccoli, con pochi mesi di vita, che non si pongono in una condizione di reciprocità con gli altri e che pertanto non ancora interagiscono pienamente a livello sociale.

Il gioco simbolico

Compare intorno al 12-15 mese, nel periodo di transizione tra lo stadio sensomotorio e quello preoperatorio, cioè i primi due stadi dello sviluppo cognitivo descritti dallo psicologo Jean Piaget. Secondo Jean Piaget, la cognizione umana è il risultato di un adattamento all’ambiente, alla base del quale si collocano i fenomeni di assimilazione, cioè di acquisizione degli stimoli esterni, e di accomodamento, cioè di adeguamento degli schemi di pensiero alle richieste ambientali. Al termine del primo stadio dello sviluppo cognitivo, intorno al secondo anno di vita, il bambino acquisisce la capacità di simbolizzazione dell’esperienza sensoriale: da questo momento in poi è in grado di operare sul mondo circostante senza averci realmente a che fare, cioè può raffigurarsi mentalmente gli eventi anche senza percepirli direttamente attraverso i sensi. Il simbolo è un’immagine sensoriale interiorizzata, tramite la quale il bambino manipola e trasforma gli eventi e gli oggetti esterni, astraendoli dalla loro dimensione materica e rappresentandoseli nella mente in maniera intuitiva ed immediata, secondo una rudimentale economia cognitiva.

Non solo il bambino diventa abile nell’utilizzo del simbolo, ma anche nel linguaggio e in particolar modo nel gioco: il gioco simbolico, che si sviluppa fino ai sei anni, consente al bambino di decodificare la realtà attraverso l’utilizzo di simboli. È un gioco di finzione, caricato di una forte componente immaginativa, attraverso il quale il bambino utilizza un oggetto per raffigurare qualcos’altro: il bambino ad esempio simula di mangiare da un piatto vuoto o di dormire anche se non ha sonno. Ricrea una scena, mette in atto azioni abituali, concrete e quotidiane, ma al di fuori delle loro circostanze usuali, al fine di intrattenere sé stesso e sfogare la sua creatività. Si tratta, pertanto, di un gioco definalizzato e decontestualizzato.

Il gioco parallelo

Compare tra il primo e il terzo anno di vita, quando il bambino ha ormai sviluppato pienamente la sua attitudine esplorativa. In questo tipo di gioco il bambino mette in atto comportamenti dotati di una forte intenzionalità e comincia ad avere delle interazioni, seppur brevi e isolate, con i coetanei. È una forma di gioco permeata ancora da una certa individualità, in cui tuttavia i bambini si aiutano vicendevolmente.

Il gioco complementare

Compare intorno al terzo anno, quando i bambini cominciano a stringere le primissime amicizie, a selezionare i compagni di gioco e ad interagire maggiormente col gruppo dei pari. I bambini in questo tipo di gioco iniziano a scambiarsi ruoli, oggetti inventati e immagini e le relazioni assumono connotazioni speculari.

Il gioco sociale o sociodrammatico

 Compare nel periodo compreso tra il quarto e il sesto anno di vita e nello specifico nell’età scolare. In questo tipo di gioco i bambini si impegnano in attività ludiche fortemente immaginative, vivaci e a tratti drammatizzate, nelle quali inventano una realtà che esiste solo nel loro animo saturo di brio ed energia e stabiliscono specifici ruoli socio-drammatici. I bambini cominciano ad organizzare in sequenze strutturate le loro attività di intrattenimento, a simulare personaggi riconoscibili e interpretare scene quotidiane e situazioni di vita reale e al contempo cercano di mantenere la medesima struttura di fantasia del compagno di giochi (intercoordinazione).

Attraverso questo tipo di gioco il bambino può soddisfare il suo bisogno recondito di scoperta, di manipolazione dell’ambiente esterno, di esplorazione dinamica del mondo e compartecipazione attiva al ritmo della vita. Inoltre, apprende le principali caratteristiche delle relazioni e dei rapporti; le fondamentali regole della comunicazione umana; i valori morali quali il rispetto, la lealtà, la solidarietà e l’altruismo; sviluppa un senso morale positivo; il concetto di sé come essere unico e distinto dagli altri. Ha modo di entrare in contatto con un complesso spettro emotivo, testare le sue reali potenzialità, le sue competenze e abilità; confrontarsi con gli altri; migliorare i suoi limiti; lanciare sfide ai suoi compagni di gioco, collaborare attivamente con i compagni di gioco; valutare realisticamente le sue capacità; stringere legami interpersonali solidi; scoprire l’importanza dell’amicizia e del calore umano. Grazie al gioco sociale amplia la sua rete di relazioni affettive e attraverso il dialogo veicola le sue idee, le sue intenzioni, le sue sensazioni, i suoi desideri e i suoi schemi di pensiero. Il gioco sociale assolve anche ad un ruolo catartico a livello psichico, in quale consente al bambino di trarre da esso un senso di sollievo psicologico: il bambino vive il gioco come se fosse qualcosa di reale e concreto, nelle attività ludiche proietta sentimenti potenti, forze dinamiche, processi emotivi, energie inconsce, percezioni e impressioni, riversa il suo vissuto interiore e il lato più istintivo di sé, offrendo al mondo esterno la possibilità di decifrare la complessità e l’unicità della sua sensibilità e della sua visione delle cose. Un importante aspetto di questa tipologia di gioco è sicuramente il notevole investimento immaginativo operato dal bambino, il quale dimostra non solo un’abilità di simbolizzazione ma anche una buona capacità riflessiva: l’immaginazione è l’esito dello sviluppo della capacità di mentalizzazione, cioè la facoltà di pensare cosa gli altri pensano, di conoscere i propri processi psichici ma anche la mente altrui e di attribuire a sé e agli altri stati interni, affettivi ed emotivi. L’immaginazione consente al bambino di ottimizzare la qualità del suo gioco, in quanto tramite essa il bambino crea oggetti che non esistono o che non possono essere concretamente percepiti mediante i sensi e immagina caratteristiche che un oggetto non possiede. L’acquisizione dell’immaginazione avviene anche grazie alla mind-mindedness, cioè la capacità della madre di fare sentire il bambino come un essere pensante nella propria mente.

Dismorfismo muscolare: quando l’ideale femminile diventa autodistruttivo

Secondo Pope e collaboratori (1993), tra i primi a studiare il Dismorfismo muscolare, nello sviluppo del disturbo avrebbe un ruolo centrale l’insoddisfazione corporea.

 

 Questo articolo si concentra su quella parte del wellness femminile caratterizzata da una significativa sofferenza psichica dovuta alla propria immagine corporea, nel caso specifico alle dimensioni e alla perfezione dei propri muscoli. Le radici dell’emergere in letteratura di questi temi si legano alle basi culturali sulle quali si costruisce la mente delle donne in questione. Una ricerca dimostra infatti che ad oggi l’ideale di muscolosità sia molto forte tra le donne (Boepple et al., 2016). Questo articolo si sofferma sugli aspetti psicopatologici collegati, sottolineando la grande differenza che c’è tra il coltivare il proprio ideale corporeo, rispetto invece alla vera e propria psicopatologia e il suo possibile sviluppo, dimostrato anche dalle ricerche sul genere femminile. Non è obiettivo di questo articolo individuare le caratteristiche di personalità delle donne considerate, ma esclusivamente la manifestazione di sintomi e disfunzioni significative a cui si può incorrere.

Caratteristiche psicopatologiche del dismorfismo muscolare

Il dismorfismo muscolare  è stata descritta come una variante del disturbo da dismorfismo corporeo, riguardante una forte preoccupazione riguardo la percezione del proprio corpo come non abbastanza magro e muscoloso (McFarland & Karninski, 2008; Pope et al., 2005; Phillips et al., 1997).

In uno studio del 2021 su adolescenti australiani, la prevalenza del dismorfismo muscolare era del 2,2% nei maschi e dell’1,4% nelle femmine, sottolineandone lo sviluppo anche in questa fascia d’età ed in entrambi i generi (Mitchison et al., 2021).

Una ricerca pubblicata quest’anno conferma la possibilità di utilizzare il “Muscle Dysmorphic Disorder Inventory” (Hildebrandt et al., 2004), un questionario che valuta le principali caratteristiche del dismorfismo muscolare, anche nelle donne, confermandone la validità e la possibilità di diagnosticare il disturbo (Nagata et al., 2022). Il questionario è caratterizzato da tre domini individuati statisticamente, la ricerca delle dimensioni, l’intolleranza del proprio aspetto e la compromissione del funzionamento. Ciò è coerente con il fatto che livelli eccessivi di esercizio, nonché steroidi anabolizzanti e altri integratori sono componenti comportamentali chiave del disturbo (Gruber e Pope, 1999, Pope et al., 1997).

Quando si rientra nei criteri patologici di questa diagnosi, il corpo è oggetto di modificazioni dannose. Alcuni fattori principali sono stati messi insieme nel lavoro di Foster e colleghi del 2015, e possono essere la dipendenza dal bodybuilding, il muscle checking, l’uso di sostanze, la presenza di infortuni o l’insoddisfazione muscolare. Questo disturbo fu inizialmente catalogato come anoressia nervosa inversa, per via delle caratteristiche riguardanti il peso corporeo (Pope et al., 1993). Inoltre, sono state identificate caratteristiche parallele al disturbo ossessivo-compulsivo (Phillips, 1998). In sintesi, sembra che questo disturbo si componga di aspetti legati al dismorfismo corporeo, al disturbo ossessivo compulsivo e ai disturbi alimentari (Jones & Morgan, 2010; Maida & Armstrong, 2005; Murray et al., 2010; Nieuwoudt et al., 2012; Pope et al., 1997; Pope et al., 2005). Altri autori hanno considerato il dismorfismo muscolare come un’addiction (Demetrovics & Griffiths, 2012).

Il dismorfismo muscolare è caratterizzata dal pensare per più di tre ore al giorno a come diventare più muscoloso/a, dalla credenza di non avere sufficiente controllo sull’attività di sollevare pesi, dall’interferenza significativa sulla propria vita sociale e lavorativa dell’esercizio fisico e della dieta, dall’evitamento di altre persone dovuto alla preoccupazione di mostrare i propri muscoli, dal controllo costante del proprio corpo allo specchio e/o camuffamento per nasconderlo, ad esempio con vestiti larghi (Tod et al., 2016).

Nel DSM-5 (APA, 2013), il dismorfismo muscolare si colloca come specificatore del disturbo da dismorfismo corporeo, nella sezione “disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati”. Brevemente, i sintomi per soddisfare tale diagnosi sono una preoccupazione per difetti percepiti nell’aspetto fisico non rilevati dagli altri, comportamenti ripetitivi come potrebbe essere il guardarsi allo specchio, preoccupazioni riguardo l’aspetto, il disagio che ne consegue clinicamente significativo in diversi ambiti di vita. Inoltre per il manuale la preoccupazione non si lega ai criteri di un disturbo alimentare, e si valuta il grado di insight delle convinzioni, in questo caso riguardanti i muscoli.

Dal punto di vista comportamentale anche secondo altre ricerche, gran parte della giornata trascorre pensando alla propria muscolatura, con costante monitoraggio ed evitamento sociale (Dèttore et al., 2020; Olivardia, 2001; Phillips & Diaz, 1997).

Secondo Pope e collaboratori (1993), tra i primi a studiare questa psicopatologia, sarebbe l’insoddisfazione corporea ad avere un ruolo centrale per lo sviluppo del disturbo. Tra le motivazioni spicca, oltre all’insoddisfazione corporea, la sua plasticità. Suffolk (2015) mette in evidenza l’importanza per le donne di modificare il corpo come preferiscono, lavorando su quelle parti per le quali sentono maggiormente il bisogno. Il craving potrebbe avere in seguito un ruolo importante. La ricompensa correlata al piacere di mantenere un’immagine corporea ideale può essere ricercata continuamente, allo stesso modo con cui si ricercano certe sostanze psicoattive, in maniera continua e dispendiosa nelle forme patologiche. Foster e colleghi (2015) hanno osservato le seguenti caratteristiche che possono favorire lo sviluppo ed il mantenimento del disturbo con una chiave di lettura legata alle addiction. Questi aspetti sono una totale preoccupazione sulle attività che mantengono l’immagine corporea, i sintomi legati alla dieta, le sostanze assunte, l’eccessiva attività sportiva, la modificazione dell’umore legata al sistema della ricompensa, la tolleranza, la fatica psicologica, la dipendenza dalle endorfine dovuta all’esercizio compulsivo. Anche il piacere di apparire in pubblico durante le competizioni può giocare un ruolo importante (Suffolk, 2015).

 Fabris e colleghi (2018) hanno trovato una correlazione tra il disturbo e stili di attaccamento insicuri, seppur in uno studio sugli uomini. Vi è inoltre un’associazione tra il criticismo genitoriale durante la crescita e il dismorfismo muscolare nelle donne, con un’importante mediazione del sistema di attaccamento (Badenes-Ribera et al., 2021). Questi aspetti sono fattori di rischio nello sviluppo di un’immagine negativa del proprio corpo e la conseguente possibilità di sviluppare un disturbo da dismorfismo corporeo. Soprattutto dall’adolescenza si tende a dare un’importanza rilevante al corpo, in particolar modo nelle giovani donne (Esnaola et al., 2010).

Possono esservi tracce anche di abusi nell’infanzia oppure altri eventi traumatici. Inoltre, la paura di essere vulnerabili gioca un ruolo sul forte investimento sull’apparenza e l’ossessione per il corpo ed i suoi muscoli (Tod et al., 2016).

Aspetti socioculturali ed emotivi correlati

Studi recenti hanno suggerito cambiamenti nell’ideale del corpo femminile che pongono maggiore enfasi sull’essere tonici, in forma o atletici; parallelamente si è notato che le donne hanno una spinta crescente alla muscolatura (Campos et al., 2021). Questo ideale muscolare tonico può essere caratterizzato sia da magrezza (ad esempio, bassa percentuale di grasso corporeo) che da muscolosità ed è percepito –in uno studio su alcuni studenti universitari– come più attraente della magrezza in assenza di definizione muscolare (Bozsik, et al., 2018). Le influenze socioculturali, come una maggiore promozione mediatica del corpo femminile tonico, svolgono un ruolo importante in questi ideali di bellezza e nel desiderio di muscolosità tra alcune donne (de Carvalho et al., 2017, Girard et al., 2018). Nella ricerca di una maggiore muscolatura, gli individui si impegnano patologicamente in attività di costruzione muscolare, come esercizio fisico eccessivo, uso di steroidi anabolizzanti e aderenza a regimi dietetici rigorosi (Pope et al., 1997). Questi comportamenti richiedono tempo e si correlano alla vergogna o alla paura di farsi vedere dagli altri (Olivardia et al., 2000).

Il disgusto verso sé stessi è stato correlato all’ideazione suicidaria, e farebbe da mediatore tra il disturbo dell’immagine corporea e l’ideazione suicidaria stessa. I risultati di questa ricerca evidenziano il ruolo del disgusto di sé nel trattamento dei disturbi dell’immagine corporea e nelle sue conseguenze più dannose (Akram et al., 2022).

Un ultimo studio rileva l’associazione tra l’esercizio fisico eccessivo e il dismorfismo muscolare (Hale et al., 2013). Il collegamento interessante riguarda il ruolo della dipendenza emotiva in questa correlazione, con il bisogno di attirare l’attenzione del partner tra gli aspetti motivanti (Olave et al., 2021).

Conclusioni

Con questo articolo si è cercato di fare chiarezza differenziando il dismorfismo muscolare, intesa come psicopatologia che causa una significativa sofferenza psichica nel soggetto in diversi ambiti di vita, da tutte quelle attività sportive che invece non riguardano il disturbo. Si è inoltre osservata la validità del costrutto anche nelle donne. Non è stato posto come obiettivo la comprensione del motivo per cui alcuni ideali corporei si siano affermati maggiormente piuttosto che altri, considerando che non rappresentano di per sé alcun tipo di problematica nella vita delle persone. Ciò su cui si è soffermato questo articolo è stato il cercare di comprendere quali siano le caratteristiche principali alla base del disturbo nel genere femminile, considerando alcune delle ricerche in letteratura.

Riassumendo, si evince che alcuni dei temi centrali siano l’insoddisfazione del proprio corpo, che può prendere un certo tipo di modificazione a seconda del proprio modello ideale, in questi casi eccessivamente rigido e punitivo, che una volta raggiunto è difficile da mantenere. Un aspetto che può caratterizzare la psicopatologia è la grande sofferenza psichica prodotta dalla distanza esistente tra la percezione di se stessi ed il proprio modello ideale; appena raggiunto tale modello ideale, la persona può tendere svilupparne uno ulteriore, non accontentandosi mai, ma soprattutto con la sperimentazione di dolore psichico ed insoddisfazione, anziché rendere la persona contenta del proprio livello agonistico. Un altro elemento è il rimuginare, per quanto concerne il pensiero, su come diventare maggiormente muscolose o definite. Vi è poi la credenza secondo cui non si abbia sufficiente controllo sul proprio corpo e sulla propria attività, che spinge ad agire. Un altro elemento riguarda la ricerca dello sguardo altrui, di apparire nelle competizioni pubbliche e di attirare l’attenzione delle persone importanti nella propria vita, il che non è un aspetto negativo, ma va sempre considerato nei termini dell’interpretazione mentale che la persona ha degli eventi, correlata alla paura di non aver soddisfatto lo sguardo dell’altro, e le conseguenze che questo può avere sull’atleta. La vulnerabilità e le situazioni che possono causarla vengono considerate pericolose e da evitare. Oltre alla paura, altre emozioni centrali nel disturbo sono il disgusto verso se stessi e la vergogna di mostrare i propri muscoli nonostante il costante lavoro su di essi, collegati anche a pensieri suicidari. Infine il criticismo degli altri appare un nucleo importante sin dalle prime relazioni di attaccamento.

L’influenza dell’innamoramento sul sonno

La ricerca scientifica ha cercato di suddividere le fasi dell’innamoramento, distinguendo tra infatuazione e innamoramento. In particolare l’infatuazione sembra essere maggiormente diffusa tra il primo e l’ottavo mese e porta con sé diverse emozioni che talvolta includono sentimenti di euforia, pensieri intrusivi e desiderio di unione emotiva, con possibili effetti sul sonno.

 

Gli effetti dell’innamoramento in adolescenza

 Durante l’adolescenza i sentimenti sono particolarmente travolgenti. Tra questi, l’innamoramento, una “perturbazione emotiva” a qualsiasi età, può non essere percepito solo come un sentimento positivo, ma causare stress ed effetti negativi. Questo avviene soprattutto se il sentimento non è corrisposto, influenzando così il benessere in molti ambiti della vita dell’adolescente (Stoessel et al., 2011). Alcuni studi hanno trovato infatti che, nelle giovani donne, dopo aver chiesto loro di riflettere sulla relazione sentimentale, l’amore fosse associato a sintomi depressivi, livelli elevati di ansia e a un aumento del livello di colesterolo (Loving et al., 2009).

Siccome amore e innamoramento sono concetti molto ampi e sfaccettati, la ricerca scientifica ha cercato di suddividere le fasi, distinguendo tra infatuazione, che precede le prime fasi dell’amore ed è una passione travolgente verso una persona, e attaccamento, che si sviluppa invece come forma più lenta di amore ed è un legame emotivo più stabile (Langeslag & van Strien, 2016). L’infatuazione sembra quindi essere maggiormente diffusa tra il primo e l’ottavo mese e porta con sé diverse emozioni che talvolta includono sentimenti di euforia, pensieri intrusivi e desiderio di unione emotiva (Fisher, 1998).

L’adolescenza è un periodo caratterizzato da molti cambiamenti: cervello e corpo cambiano molto rapidamente e tipicamente il progresso psicologico e sociale verso l’età adulta è molto più lento. Inoltre, la corteccia prefrontale, completa il suo sviluppo molto tardi e vi sono diversi cambiamenti nello sviluppo dei circuiti di ricompensa del cervello che spesso sono responsabili della mancanza di controllo emotivo ed esecutivo durante l’adolescenza (Galvan, 2010). Queste mancanze sono esacerbate da desideri sessuali e forti emozioni romantiche. Alcune ricerche mostrano infatti come le relazioni romantiche in adolescenza possano provocare sia un peggioramento che un miglioramento nel benessere mentale (Ciairano et al., 2006) e che vi sono alcune differenze tra ragazzi e ragazze, in particolare queste ultime sembrano sperimentare più frequentemente effetti negativi.

Inoltre, durante l’adolescenza avvengono molti cambiamenti ormonali causati dallo sviluppo del cervello e del corpo che influiscono sui sentimenti di innamoramento e di attrazione sessuale. Tra questi, durante la pubertà, variano soprattutto testosterone ed estrogeni, associati a maggiori impulsi sessuali, e vasopressina e ossitocina, implicate nei legami e nell’attaccamento (De Boer et al., 2012). Nelle prime fasi dell’innamoramento sembrerebbe infatti che la secrezione di testosterone aumenti nelle femmine e diminuisca nei maschi, mentre si verifica un aumento del fattore di crescita nervoso (FCN). Tali cambiamenti solitamente diminuiscono con il trascorrere del tempo dall’inizio dell’innamoramento; uno studio ha mostrato infatti che i livelli di FCN e testosterone sono diminuiti drasticamente dopo un follow up di un anno (Emanuele et al., 2006).

In generale, è possibile quindi pensare che i cambiamenti corporei che si verificano nelle ghiandole endocrine e nel cervello, rendono molto facile un rapido innamoramento per un adolescente, che potrebbe non essere pronto per tali emozioni così forti e sperimentare dunque disagio (Carskadon, 2011).

Gli effetti dell’innamoramento sul sonno negli adolescenti

 I cambiamenti adolescenziali possono essere valutati tramite il sonno, il quale solitamente si riduce in quanto i ragazzi tendono ad andare a letto più tardi e la durata del sonno diminuisce (Gradisar et al., 2011). Sembra infatti che sia i cambiamenti biologici che la pressione sociale abbiano un ruolo nell’influenzare gli adolescenti, ma non è ancora noto come l’amore romantico possa condizionare il sonno. Una ricerca precedente ha dimostrato che il sonno di molti ragazzi è diminuito di circa un’ora in corrispondenza delle prime fasi dell’innamoramento, durante le quali, però, sembrava diminuire la sonnolenza diurna (Brand et al., 2007). Il sonno spesso diminuisce poiché l’angoscia per i vissuti emotivi e le difficoltà nel gestire i sentimenti si manifestano con sintomi di insonnia e minore durata del sonno. In questo aspetto vi sono molte differenze tra i sessi, probabilmente causate anche dai diversi ritmi di maturazione puberale, responsabili delle relazioni in età precoce da parte delle femmine (Sisk & Foster, 2004).

Uno studio di Kuula e colleghi del 2020 aveva come obiettivi quello di indagare la durata, la qualità e il tempo del sonno degli adolescenti che vivevano turbolenze emotive dell’infatuazione in fase iniziale, e confrontare il sonno di coloro che hanno riferito di essere nelle prime fasi dell’amore con quello di coloro che non lo erano.

1374 adolescenti (66% ragazze; età media 16,9 anni) sono stati sottoposti a diversi questionari inerenti l’amore romantico, il benessere mentale e il comportamento del sonno. Inoltre, un sottocampione è stato sottoposto a un periodo di registrazione di una settimana dell’actigrafia (GENEActiv Original, Activinsights, Kimbolton, UK), ovvero un esame per lo studio del sonno.

I risultati, come ipotizzato, mostrano che l’11% dei partecipanti ha riferito di essere nelle prime fasi di una relazione romantica; tra questi, gli adolescenti che erano innamorati avevano punteggi molto più elevati di depressione e ansia. Inoltre, le ragazze innamorate hanno riportato tempi di addormentamento più lunghi, una qualità del sonno più scadente e una durata più breve, sia durante la settimana che nel weekend, rispetto a coloro che non si dichiaravano innamorate.

Sembra che, in alcuni casi, l’amore romantico costituisca una criticità per la durata e la qualità del sonno, sebbene i sentimenti di infatuazione siano importanti e possano essere un insegnamento per i ragazzi.

I segni dell’Abuso Sessuale in Età Infantile sull’Eccitazione Sessuale nelle Donne Abusate – FluIDsex

Alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale.

 

 L‘abuso sessuale infantile (Childhood Sexual Abuse; CSA) è un problema sociale che si stima colpisca tra il 22,3% e il 28% della popolazione femminile ed è generalmente definito come contatto sessuale indesiderato tra un bambino e un adulto, che può includere penetrazione orale, vaginale e/o anale con un pene, dita o oggetti estranei, contatto sessuale forzato e rapporti sessuali senza contatto (Pulverman et al., 2018).

Abuso sessuale infantile e disfunzioni sessuali

L’esperienza di abuso sessuale infantile è spesso associata a una serie di problemi nell’età adulta, tra cui la disfunzione sessuale e l’insoddisfazione sessuale (Rellini e Meston, 2011) soprattutto nelle donne (Laumann et al., 1999). L’abuso sessuale infantile è, infatti, uno dei fattori di rischio più salienti per lo sviluppo di problemi con il desiderio sessuale, problemi di eccitazione sessuale, raggiungimento dell’orgasmo, vaginismo, dispareunia e bassa soddisfazione sessuale (Leonard e Follette, 2002). In particolare, rispetto a qualsiasi altro tipo di disfunzione sessuale, sembra esserci un rischio maggiore di disturbo dell’eccitazione sessuale (Laumann et al., 1999). Questo disturbo viene definito dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) come la mancanza o riduzione significativa dell’interesse/eccitazione sessuale per una durata minima di circa sei mesi e che causa disagio clinicamente significativo nell’individuo (American Psychiatric Association, 2014). Generalmente, donne che presentano problemi di eccitazione sessuale, riferiscono la mancanza di eccitazione a qualsiasi stimolo come, ad esempio, leggere qualcosa di erotico, dare piacere al partner, ricevere stimolazione orale, mammaria, genitale o impegnarsi in un rapporto sessuale (Basson et al., 2004).

Come anticipato sopra, alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale con un partner rispetto a donne non maltrattate (Rellini e Meston, 2011). In letteratura, diverse correnti di pensiero hanno tentato di fornire una spiegazione a questa associazione.

Da un punto di vista fisiologico, è stato dimostrato che, le donne con storia di abuso sessuale infantile, hanno livelli più bassi di cortisolo, i quali sono stati associati ad un’iperattivazione del Sistema Nervoso Simpatico (SNS) che aumenta naturalmente durante l’eccitazione sessuale (Rellini e Meston, 2006). Per le donne con storie di abuso sessuale infantile, quindi, l’eccitazione del Sistema Nervoso Simpatico potrebbe già essere così elevata che un ulteriore aumento, che si verifica naturalmente con l’eccitazione sessuale, potrebbe spingere la loro attivazione del SNS oltre l’intervallo ottimale, portando a una funzione sessuale compromessa. Questa compromissione causa una risposta inferiore nelle donne con esperienza di abuso sessuale infantile, ai trattamenti che migliorano direttamente l’eccitazione sessuale genitale rispetto alle donne non abusate (Pulverman et al., 2018).

Le cognizioni sulla sessualità in seguito all’abuso sessuale infantile

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale, invece, l’evidenza empirica e teorica supporta l’esistenza di una relazione clinicamente significativa tra schemi del sé sessuale e disfunzione e insoddisfazione sessuale (Heiman, 2002). Gli schemi sono definiti come filtri attraverso i quali le persone percepiscono, organizzano e comprendono le informazioni rilevanti per il sé. In particolare, è possibile che gli schemi sessuali svolgano un ruolo fondamentale nella funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato abuso sessuale infantile, (Rellini e Meston, 2011). Barlow (1986) spiega questa relazione attraverso un modello che pone l’ansia anticipatoria come aspetto centrale dei problemi di eccitazione sessuale. Questo stato di ansia è il prodotto di aspettative negative che facilita il calo dell’attenzione verso segnali non sessualmente rilevanti. Lo spostamento dell’attenzione lontano da segnali sessualmente rilevanti riduce la stimolazione sessuale necessaria per attivare l’eccitazione sessuale. Quando ciò si verifica, gli schemi del sé sessuale dell’individuo possono essere modificati in modo da mantenere la disfunzione sessuale, poiché il problema verrebbe percepito come un aspetto essenziale del sé. Questo circolo vizioso è facilmente osservabile nelle donne con una storia di abuso sessuale infantile: i traumi sessuali precoci possono influenzare la loro percezione del sesso e di conseguenza possono essere a rischio di sperimentare aspettative negative prima delle attività sessuali, distraendole dall’elaborazione di segnali sessualmente rilevanti necessari per l’eccitazione sessuale. Questo supporta l’ipotesi secondo cui gli schemi del sé sessuale prima degli stimoli sessuali spiegano in parte la minore funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato CSA rispetto alle donne senza storia di abuso (Rellini e Meston, 2011).

 Un’altra ipotesi, avanzata da una prospettiva cognitivo-comportamentale, è che le donne che hanno esperito un abuso sessuale infantile provano un senso di colpa per aver provato desiderio o eccitazione sessuale (Davis e Petretic-Jackson, 2000); questo le porta a evitare le esperienze emotive negative e di conseguenza a ignorare l’aspetto appetitivo dell’esperienza sessuale, avendo così maggiore probabilità di sviluppare difficoltà a eccitarsi sessualmente (Barlow, 1986). Infatti, seppur l’evitamento sia una forza istintuale di base, che può essere funzionale nel breve periodo risolvendo il problema imminente del soggetto, il suo uso protratto nel tempo può portare a risultati negativi, poiché rinforza le convinzioni di paura che potrebbero portare ad altri problemi con effetti negativi a lungo termine (Elliot, 2006; Holtforth, 2008). Nel tempo, l’evitamento potrebbe rinforzare l’associazione tra l’affettività negativa e la stimolazione sessuale e questo porterebbe a disfunzioni sessuali, inclusi problemi di eccitazione sessuale. Questo è ancora più vero per le donne con forme più gravi di abuso sessuale infantile: l’evitamento porta a evitare esperienze sessuali potenzialmente correttive e ciò si traduce nel mantenimento e rafforzamento di ricordi di esperienze sessuali negative vissute durante l’infanzia. Bisogna anche evidenziare che quando si parla di evitamento di esperienze sessuali correttive, non ci si riferisce solo all’astinenza dalle attività sessuali, ma anche all’uso di distrazioni, dissociazioni e sostanze per alterare la consapevolezza durante le attività sessuali per evitare la connessione interpersonale (Staples et al., 2012).

La mindfulness based sex therapy

Un trattamento che ad oggi sembra avere una buona efficacia nella cura delle difficoltà nell’eccitazione sessuale in donne con storia di abuso sessuale infantile è la mindfulness-based sex therapy, che non punta a migliorare direttamente l’eccitazione sessuale genitale, ma orienta alla consapevolezza del trattamento, consentendo alle donne di disconnettersi da cognizioni negative, come i ricordi dell’abuso, e di partecipare pienamente allo stimolo sessuale nel momento presente (Brotto et al., 2012). Anche i trattamenti di scrittura espressiva sembrano essere particolarmente appropriati per le donne con storia di abuso sessuale infantile, in quanto mirano a migliorare la salute mentale attraverso i meccanismi di esposizione e assuefazione dei ricordi traumatici, diminuzione del desiderio di nascondere ricordi traumatici, espressione emotiva e rivalutazione cognitiva (Pennebaker e Chung, 2011).

In conclusione, nonostante vi siano evidenze secondo cui donne con storia di abuso sessuale infantile riportano conseguenze negative nel funzionamento sessuale, in particolare rispetto alla sfera dell’eccitazione, gran parte delle donne con una storia di abuso è comunque in grado di avere esperienze sessuali funzionali e soddisfacenti (Staples et al., 2012).

L’imagery rescripting, teoria e pratica (2022) di Remco van der Wijngaart – Recensione

In questo libro l’autore approfondisce in modo completo e dettagliato l’utilizzo dell’imagery rescripting (IR), sia come procedura diagnostica sia come modalità terapeutica, durante tutte le fasi del trattamento.

 

 Nella prima parte viene descritta la tecnica in tutte le sue componenti, aggiungendo dati scientifici aggiornati relativi alla sua efficacia e vignette di casi clinici che aiutano la comprensione. Nello specifico, l’imagery rescripting è una tecnica terapeutica in grado di intervenire sul contenuto di eventi traumatici del passato, collegati a schemi maladattivi e sintomi dolorosi del presente. Si recupera dalla memoria un evento passato doloroso e/o traumatico e con l’immaginazione si modifica il decorso della rappresentazione mentale di quell’evento direzionandolo verso una conclusione più favorevole.

Negli ultimi anni, l’utilizzo dell’immaginazione come pratica terapeutica è stata utilizzata prevalentemente dalla terapia cognitivo-comportamentale e dalla Schema Therapy, un approccio che integra la terapia cognitiva con l’approccio dinamico, focalizzando l’attenzione sui bisogni precoci insoddisfatti e i traumi d’attaccamento. L’autore, avendo questa formazione, riesce a portare il lettore all’interno del suo metodo di lavoro spiegando dettagliatamente come l’imagery rescripting possa essere utilizzata in fasi diverse del trattamento con scopi e modalità differenti. Ad esempio, può essere usata in fase diagnostica iniziale con lo scopo di comprendere in che modo la sintomatologia attuale del paziente è collegata a bisogni insoddisfatti o traumi del passato; oppure può essere utilizzata come tecnica di intervento vera e propria in una fase più avanzata del trattamento, proprio per favorire l’elaborazione di traumi, soddisfare i bisogni frustrati dell’infanzia e su un piano cognitivo ri-attribuire una cornice di significato ad un evento doloroso. Può essere usata anche nella fase finale della terapia proprio per andare a consolidare le nuove competenze e abilità acquisite dal paziente nel corso del trattamento.

  L’autore spiega ampiamente come, in una prima fase della terapia, sia il terapeuta stesso ad intervenire nell’immagine dolorosa rievocata dal paziente per effettuare il rescripting. In una fase invece più avanzata, quando nel mondo interno del paziente si è consolidata la figura di “adulto sano”, sarà l’immagine del paziente stesso adulto che interviene nel ricordo traumatico e soddisfa i bisogni della propria parte bambina. Questa tecnica può essere applicata anche sugli eventi futuri che generano ansia e disagio nel paziente, attraverso una specifica procedura descritta nel dettaglio.

Negli ultimi capitoli l’autore riassume le specifiche aree di intervento e le trappole che il terapeuta può incontrare nel lavorare con questo approccio, ponendo particolare attenzione alla capacità del terapeuta di sintonizzarsi con il ritmo del paziente, lavorando su consapevolezza ed empatia.

Il manuale presenta un’ampia appendice con indicazioni pratiche molto utili per sintetizzare le modalità di applicazione della tecnica durante tutte le fasi del trattamento.

Quanti sono gli ‘stati del mondo’? Il ruolo del metaverso

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla.

 

Introduzione

 Il metaverso, tra fantascienza e innovazione tecnologica.

Con metaverso si allude a un ecosistema che collega – in rapporto osmotico – la realtà effettiva a quella virtuale e a quella aumentata.

È il web 3.0, bellezze!

Dal termine “universo” unito al prefisso greco “mèta”, il metaverso è un luogo che risale all’idea dello scrittore N. Stephenson. Nel suo romanzo di fantascienza post-cyberpunk del 1992, ‘Snow Crash’ –ambientato a Los Angeles alla fine del XX secolo– egli narrava di un mondo parallelo a quello reale, localizzato nel cyberspazio, all’interno del quale i soggetti si rifugiavano interagendo tramite i propri avatar.

Esiste però una sostanziale diversità fra il metaverso à la Stephenson e il metaverso in fase di sviluppo attualmente –o meglio, i tanti metaversi (infatti, le piattaforme sono molte). Oggi si tratta di un’architettura tecnologica di “realtà miste” (effettiva, virtuale e aumentata) senza soluzione di continuità, in un ambiente 3D (Riva, 2022). Tanto più sarà la capacità immersiva del soggetto e della tecnologia, nonché la credibilità e la personalizzazione dell’avatar tridimensionale, tanto minore la soluzione di continuità fra le realtà del metaverso. Fino ad arrivare al paradosso, come sostengono alcuni pensatori del metaverso, che tale fluidità faccia collassare le varie realtà in una unica. E, allora, quali fra i probabili “stati del mondo” diventa quello certo? Ci immergiamo quindi in un contesto di incertezza pervasiva.

Come si vedrà più avanti, sotto il profilo delle neuroscienze, la “realtà mista” del metaverso cambia il rapporto tra cervello umano e digitale rispetto alle altre esperienze umane nel cyberspazio. Il metaverso, infatti, costituisce una sofisticata tecnologia “trasformativa”, capace di modificare i meccanismi cognitivi dei soggetti e di mutare la loro idea di realtà (Riva, 2022).

Le caratteristiche dei metaversi

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla (oltre al dolo, ci sono ulteriori pericoli collegati all’avatar, come si spiegherà più avanti).

Altra caratteristica fondante il metaverso è una struttura decentralizzata costituita dalla polverizzazione di un gran numero di utenti in tanti spazi, come il mercato immobiliare, settore dei videogiochi, eventi virtuali tra cui matrimoni (tra avatar!), e tutti gli altri segmenti digitali (già attuali o potenziali) che sottendono l’intreccio tra esperienze tratte dal mondo reale, fantasia e creatività.

E, a proposito di matrimoni, ci appaiono ancora alquanto bizzarri (semplice questione di abitudine?) quelli celebrati nel cyber. Dal matrimonio tra il medico giapponese e il suo amatissimo ologramma (Fiocca, 2019) alla più recente unione tra una coppia di avatar indiani, con tanto di avatar invitati –ben 2.000, una cosa in grande– tra i quali spiccava l’avatar del defunto padre della sposa (forse un tantino grotty!).

Considerando un’interpretazione strettamente economico-finanziaria, il metaverso crea nuovi “cyber-mercati”, dove –rispetto ai mercati “tradizionali”, anche di natura digitale– si accrescono notevolmente le interazioni e le opportunità di scambio tra soggetti. Il metaverso crea un mercato parallelo dove i soggetti economici –riflessi dei propri avatar– possono effettuare scambi di oggetti digitali, gli Nft (Not fungible token).

Queste nuove opportunità di transazioni, con la creazione di nuovi mercati e la soddisfazione di una domanda innovativa e tecnologicamente sempre più sofisticata da parte degli “avatar-consumatori-investitori”, costituiscono dei miglioramenti in termini paretiani.

E, naturalmente, dove esiste un mercato, esiste un mezzo di pagamento. Qual è la moneta/valuta nel metaverso? Questo argomento rinvia alle criptovalute.

E, inoltre, come vengono contabilizzate/registrate le transazioni? Questo tema rimanda alla blockchain.

E, ancora, chi regolamenta il mercato metaverso? Tale questione rinvia, almeno in parte e nell’ambito della UE, alla strategia europea per i dati.

Tutti aspetti, questi, al centro dell’attuale dibattito.

Criptovalute, blockchain, regolamentazione dei metaversi

Rispetto al primo punto, fra le principali criptovalute ci limitiamo a citare “Sand” del metaverso “The Sandbox”, un marketplace specializzato in Nft di lusso. Viene utilizzata per partecipare a giochi, acquistare accessori volti a personalizzare gli avatar, per acquistare le cosiddette land, ecc. I metaversi sono appunto divisi in lotti di “terreni” tridimensionali sui quali organizzare eventi e sfruttare opportunità di promozione del proprio brand. Come nel mondo reale, i terreni nei metaversi sono scarsi, e naturalmente la loro scarsità ne determina il valore. Senza la scarsità delle land, molti appezzamenti verrebbero probabilmente abbandonati, con ricadute negative su quello specifico metaverso e sui loro utenti. La scarsità delle terre assolve una duplice funzione: assicurare il valore intertemporale dei terreni e, quindi, mantenere “fertili” questi ultimi. In altri termini, assicurare la competitività e lo sviluppo di quello specifico metaverso. Nel Sandbox, il valore dei terreni è attualmente molto elevato.

Associata alle criptovalute, vi è il modello tecnologico della blockchain. Infatti, gli oggetti acquistati tramite le criptovalute rimangono di proprietà dell’utente acquirente in maniera indelebile, poiché la sua proprietà viene registrata sulla blockchain e rimane accessibile dal wallet dell’utente. Si ottiene in tal modo sia la tracciabilità delle transazioni sia la tracciabilità dei diritti di proprietà rimuovendo la necessità degli intermediari tenuti ad agire come terze parti di fiducia: l’impianto della blockchain concorre fortemente all’architettura decentrata del metaverso.

Aspetto cruciale di una blockchain è la interoperabilità: essa è la potenziale capacità di comunicare tra gli ecosistemi blockchain attraverso la costruzione di catene di collegamento. Queste ultime garantiscono che due diversi meccanismi di blockchain siano in grado di connettersi, interagire, condividere informazioni. Ogni singola blockchain memorizza informazioni diverse; pertanto, la creazione di un sistema interoperabile fa sì che la comunicazione attraverso la blockchain diventi più efficiente. Tramite una serie di catene individuali che lavorano simultaneamente, le capacità dell’ecosistema nel suo complesso risultano potenziate.

Grazie alla tecnologia blockchain, la finanza è naturale deputato alle applicazioni del metaverso-MetaFi (Cafaro, 2022). La finanza decentralizzata, in particolare, è un ecosistema in evoluzione che consente transazioni digitali tra le parti attraverso i cosiddetti smart contract (“contratti intelligenti”), cioè protocolli informatici che verificano l’esecuzione di un contratto, registrati sulla blockchain. Gli utenti sono in grado di effettuare transazioni finanziarie direttamente tra loro, senza il coinvolgimento di un’autorità centrale, di banche o di altre organizzazioni finanziarie tradizionali. Poiché non è necessario un intermediario, le transazioni finanziarie sono considerate più veloci, convenienti ed efficienti; Tuttavia, rimane un nodo centrale, che è la definizione completa del quadro della regolamentazione della finanza decentralizzata.

Ed eccoci arrivati alla questione della regolamentazione –non solo nel campo finanziario, dunque – nei metaversi.

Chi regola il metaverso? È questo tra gli aspetti più delicati –e forse uno dei gangli più deboli dell’intera catena– di tale universo. Un universo connotato da tanti stakeholder portatori di interessi diversi, dalla multidimensionalità, dalla sua frammentazione e decentralizzazione, alla globalizzazione. Tutti fattori che concorrono alla complessità della formulazione di un quadro giuridico del metaverso, con la definizione di responsabilità, tutele, diritti degli utenti. Basti pensare, tra i tanti aspetti, ai rischi di furto di identità e di sostituzione di persona; alla garanzia di protezione dei dati personali. L’interoperabilità stessa tra le varie piattaforme, e con essa la condivisione di informazioni fra utenti e la intensa interazione fra questi ultimi, costituisce sì un valore aggiunto, ma non è priva di rischi e incertezze. E poi, chi proteggerà adeguatamente un segmento di mercato tanto importante e delicato come quello dei giovani, specie dei nativi digitali, specie tra quelli che già oggi accusano disturbi legati alle tecnologie? Inoltre, qualcuno potrebbe ingannarsi pensando di essere un avatar (“illusione dell’incorporazione”), e ciò sarebbe particolarmente rischioso per i soggetti psichiatricamente vulnerabili che potrebbero avere esperienze psicotiche di sdoppiamento. E, ancora, il problema della manipolazione, giacché l’ambiente in cui il soggetto vive modifica la propria percezione del reale e del sé (cfr., ad esempio, Madary-Metzinger, 2016). Tra i rischi, la derealizzazione, depersonalizzazione e, più in generale, il venir meno di una “esperienza cosciente”.

La “strategia europea per i dati” sta mettendo in campo alcune soluzioni che contribuiscono a fornire risposte alle tante perplessità sul metaverso: tra queste l’Intelligence Artificial Act, il Digital Markets Act, il Digital Services Act, il Data Governance Act e il Data Act.

Mondi fluidi, spersonalizzazione del proprio corpo, “stati di natura”

Poiché le interazioni avvengono sulla base delle proprie esperienze, gli individui-avatar vivono simultaneamente – e parallelamente – in un continuum: realtà effettiva-virtuale-aumentata. Allora, il soggetto quanti “stati del mondo/stati di natura” percepisce contemporaneamente?

O tale trilogia può collassare in una sola e unica dimensione: l’esperienza?

Su quest’ultimo punto sembra opportuno richiamare il pensiero del filosofo D. J. Chalmers.

Le realtà virtuali costituiscono realtà a tutti gli effetti? I pensatori del metaverso

Tra i pensatori che hanno contribuito al dibattito sul metaverso (di cui una buona sintesi è in La Trofa, 2022), si cita il filosofo australiano Chalmers, direttore del Center for Mind, Brain and Consciousness della New York University. Il suo volume del 2022, “Reality+: i Mondi Virtuali e i Problemi della Filosofia” esplora enigmi esistenziali ed antichi; pone importanti domande sul significato filosofico della tecnologia virtuale; conia il termine “tecnofilosofia”, ovvero l’approccio interdisciplinare di sollevare domande filosofiche sulla tecnologia e avvalersi della tecnologia per rispondere a domande filosofiche.

Il libro ha come tesi centrale che “la realtà virtuale è realtà genuina”. Sostiene, cioè, l’espansione del nostro senso di realtà.

Nella sua idea sul rapporto tra le realtà e la mente umana, le realtà virtuali costituiscono infatti realtà a tutti gli effetti, poiché esse sono in grado di determinare esperienze significative per un soggetto, come avviene appunto nel mondo fisico corporeo. Per tale ragione, l’evoluzione delle “realtà miste” all’interno del metaverso condurrà ineludibilmente a una separazione meramente fittizia tra reale e digitale.

 Come riconosce l’autore stesso, tali affermazioni vanno però calibrate e stemperate facendo i conti –tra i molteplici fattori– con “l’attitudine” degli individui. E tale attitudine è funzione di numerose variabili, tra cui il gap intergenerazionale. Mentre gli immigrati digitali sono più inclini a considerare i mondi digitali come di seconda classe e non completamente reali, i nativi digitali sono abituati a frequentare le realtà digitali. E anche l’abitudine crea un’attitudine (e viceversa). Per i nativi digitali i mondi virtuali fanno parte della realtà e sono trattati in questo modo. Analogamente, chi ha una attitudine/preferenza fortemente spiccata per la natura tenderà a marginalizzare il mondo digitale.

Di conseguenza, egli aggiunge, è l’importanza che si attribuisce alle cose a renderle davvero reali. Ad esempio, gli Nft, se diventano sempre più importanti nella nostra vita, diventano reali. Si tratta di un reale non di secondo piano, poiché essa nasce all’interno della realtà vera e di fatto la estende. Dunque, l’autore preferisce piuttosto parlare di una realtà di secondo livello, distinguendo la componente reale originale da quella derivativa.

La prospettiva delle neuroscienze

Nel campo delle neuroscienze, le evidenze sperimentali documentano che il tipo di corpo virtuale indossato da un individuo induce in quel soggetto cambiamenti percettivi, attitudinali e comportamentali, includendo anche l’elaborazione cognitiva (Banakou et al., 2018; una buona sintesi è in Riva, 2022). Nel metaverso, questa capacità arriva fino a far entrare un individuo nel corpo digitale di un altro (“illusione di proprietà del corpo”) grazie a sofisticate tecniche immersive.

In particolare, nell’esperimento condotto in un laboratorio di realtà virtuale da Banakou e colleghi (2018), un gruppo di partecipanti ha incarnato il corpo digitale di Einstein (prototipale di una super-intelligenza), mentre il gruppo di controllo incarnava corpi digitali di intelligenza “normale”. Le dimensioni dell’ambiente virtuale e le proporzioni del contenuto erano equivalenti alle dimensioni e alle proporzioni della vita reale e identiche per entrambi i gruppi (“Einstein”, “Normal”). I partecipanti sono stati assegnati casualmente nei due gruppi. Entrando nell’ambiente virtuale, i partecipanti si sono trovati in una stanza virtuale in cui il loro corpo è stato visivamente sostituito dall’Einstein a grandezza naturale o da un corpo di un giovane adulto (“Normal”). Ne è risultato che l’incarnazione di persone in un corpo fortemente associato a capacità cognitive ad elevate prestazioni si traduceva in prestazioni cognitive migliorate. Dunque, l’evidenza empirica tramite lab ha evidenziato l’esistenza dell’“illusione di proprietà del corpo”. Della serie: “Se sono Albert Einstein, devo esserne all’altezza, e le mie capacità mutano di conseguenza”. La manipolazione della proprietà del corpo funziona!

Date le forti implicazioni, si richiama un altro lavoro di Banakou e collaboratori (2016), in cui si dimostra per via sperimentale come l’“illusione di proprietà del corpo” sia in grado di determinare mutamenti nell’attitudine alla discriminazione, al pregiudizio e al ricorso a stereotipi negativi, come quelli razziali o verso gli anziani (questi ultimi si confrontano con forme più o meno implicite di discriminazione di natura anagrafica).

Gli autori hanno condotto la sperimentazione con partecipanti di sesso femminile in cui il corpo virtuale era nero o bianco. Anche in questo caso l’esperimento è stato condotto in un laboratorio di realtà virtuale. Il corpo del partecipante è stato sostituito dal corpo virtuale “Black” o “White”. L’ipotesi dell’esperimento era che l’incarnazione dei bianchi in un corpo virtuale dalla pelle scura avrebbe portato a una riduzione del pregiudizio razziale implicito negativo nei confronti dei neri. I risultati hanno mostrato una diminuzione generale del pregiudizio indipendentemente dal tipo di corpo e che la distorsione implicita diminuiva soprattutto nei partecipanti con il corpo virtuale nero.

Gli autori stessi tuttavia riconoscono i limiti della propria ricerca, sottolineando come vi sia bisogno di ulteriori studi per essere in grado di comprendere gli esatti meccanismi che conducono all’“illusione di proprietà del corpo”.

Alcune conclusioni. Tra vite confusive, trade-off, razionalità e complessità umane

Il metaverso permette di far sperimentare il senso di “presenza” e dell’“esserci”. Ma dove? Queste vite parallele rischiano di diventare confusive?

Emerge così un trade-off tra nuove opportunità e nuovi rischi?

Di fronte a questi progressi digitali, di quanto deve alzarsi l’asticella circa le aspettative sulla razionalità umana affinché vengano evitati forti bias e illusioni –finanche “l’illusione di proprietà del corpo”, che è qualcosa di così immediato e materiale?

Ma, allo stesso tempo, quanto sono in grado queste nuove realtà digitali di rappresentare, simulare, proiettare la complessità umana?

Le conclusioni rimangono solo domande.

 

I gruppi sui social-media come fonte di informazione per le donne in gravidanza

Le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri.

 

La ricerca di informazioni durante la gravidanza

 La nozione di “buona madre” da diversi anni si sente frequentemente nei discorsi sociali e, sebbene talvolta si creda che la maternità e la nascita di un figlio vengano spontanee perché fondate su un istinto biologico innato, al giorno d’oggi tali concezioni idealistiche sono spesso superate (Lagan et al., 2010). Per tali ragioni le future mamme sono alla continua ricerca di ricevere consigli espliciti o informazioni da qualcuno su come educare i propri figli.

Solitamente le principali informazioni o suggerimenti sull’educazione sono trasmesse dagli amici, dalla famiglia, dagli operatori sanitari, dalla letteratura in merito o, più recentemente, dai media (Song et al., 2013). Nel Mondo Occidentale, infatti, molte donne necessitano di ricevere una risposta accurata e precisa alle loro domande ed esigenze, e di ricevere informazioni non contraddittorie durante l’assistenza prenatale (Hildingsson & Radestad, 2005). Numerosi studi, che hanno intervistato alcune ostetriche, confermano che le donne incinte desiderano fare delle scelte consapevoli dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie e aver vagliato le implicazioni delle diverse opzioni proposte. Inoltre, è emerso che le future mamme desiderano poter fare domande non soltanto in momenti di crisi o quando realmente hanno dei dubbi, ma quotidianamente, anche se l’ostetrica o il medico di riferimento non possono riceverle in quel momento (McCarthy et al., 2017). In aggiunta, una review del National Health Service England (NHS England, 2016) ha evidenziato come le donne si aspettino che i servizi di maternità possano dare loro consigli provenienti da più fonti, ma quasi nessuna oggi si ritiene soddisfatta delle informazioni ricevute dai medici e tenta quindi di cercarle altrove.

L’utilizzo di Internet ha permesso a diverse mamme di accedere a informazioni in modo molto rapido, stravolgendo il modo con cui erano solite confrontarsi con gli operatori sanitari. In rete è infatti possibile accedere a qualunque argomento d’interesse, da chiunque sia disposto a cercarlo; le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri (Kennedy et al., 2017). Nella pratica accade che le informazioni non urgenti o semplici di cui le donne hanno bisogno non necessitano di un incontro fisico con un professionista della salute, riducendo drasticamente la necessità si recarsi in centri sanitari o attendere un appuntamento da un privato. In aggiunta, alcuni studi hanno mostrato che l’accesso rapido a internet può apportare anche benefici psicosociali in quanto riequilibra le disuguaglianze di potere tra madri e operatori sanitari (Van de Belt et al., 2010).

La grande quantità di informazioni reperibili ha però anche numerosi difetti tra cui la difficoltà di distinguerne la provenienza e la credibilità; inoltre è estremamente complicato capire quale notizia sia più affidabile tra le numerose proposte e se la visione delle informazioni su Internet sia guidata da motivazioni commerciali (Gao et al., 2013). Gran parte della ricerca affidabile e scientifica disponibile online utilizza un linguaggio troppo difficile e specifico per un pubblico generico, risultando così incomprensibile per la maggior parte delle persone e portandole così a prendere delle decisioni sbagliate.

Nonostante ciò, si ritiene che oggi le donne siano in una posizione privilegiata rispetto ad un tempo per reperire informazioni utili sulla gravidanza e fare scelte consapevoli basate su evidenze scientifiche (NHS England, 2016). Inoltre, con l’aumento dell’utilizzo dei social media, molte di loro sono iscritte a gruppi per donne incinte dove possono incontrare altre madri, scambiare con loro informazioni, condividere esperienze o offrire sostengo emotivo (Eysenbech et al., 2004).

Gravidanza e social media: parlare con i professionisti

Visti i numerosi gruppi online su differenti piattaforme, diversi studiosi si sono chiesti se la presenza di professionisti all’interno di essi potesse essere un’opportunità per le mamme di soddisfare i bisogni informativi delle donne a sostegno della scelta, o per raggiungere una continuità informativa o delle cure attraverso lo scambio di informazioni tra pazienti e professionisti (Heaton et al., 2012).

 Uno studio di McCarthy e colleghi ha esaminato quindi le esperienze delle donne che accedevano a consigli e informazioni sulla gravidanza tramite una piattaforma social-media creata appositamente e mediata da ostetriche, per poterne verificare i vantaggi.

Sono stati quindi creati due gruppi privati su Facebook nei quali sono state inserite due ostetriche qualificate. I dati sono stati raccolti in 35 settimane e includevano 4 focus group, interviste individuali con le partecipanti al gruppo e con le ostetriche; le interazioni postate sulla piattaforma durante l’intervento; infine, alcuni messaggi privati tra le singole partecipanti e le ostetriche. Su tali dati è stata svolta un’analisi tematica secondo il modello di Clarke e Braun (2013).

Dai risultati si evidenzia che le partecipanti hanno trovato molto utile ed efficace il gruppo supervisionato da ostetriche. È emerso infatti che nei gruppi si potessero condividere informazioni e ci si potesse confrontare su temi rilevanti per la gravidanza. Inoltre, le donne hanno dichiarato che la presenza delle ostetriche ha permesso loro di verificare l’attendibilità e la credibilità delle informazioni e ha contribuito a ridurre il sovraccarico di informazioni e la confusione (Jay et al., 2018). Per molte partecipanti il gruppo era considerato la fonte primaria di informazioni sul parto e sulla gravidanza.

In conclusione, i gruppi sui social media supervisionati da ostetriche offrono un modo molto efficace di fornire informazioni personalizzate e sostegno sociale alle donne in gravidanza. L’accesso al gruppo, infatti, non solo ha soddisfatto le esigenze di informazione e supporto delle madri, ma ha dato alle donne una nuova fonte di continuità relazionale, la quale è definita come una relazione terapeutica continuativa tra un paziente e uno o più operatori (Haggerty et al., 2003) ed è una caratteristica fondamentale dell’attuale offerta di assistenza alla maternità.

 

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