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Come le aspettative possono influenzare le emozioni – Intervista al Dott. D. Lo Presti

Sappiamo che un’emozione è la risposta ad uno stimolo, esterno o interno alla mente, che ci coinvolge, ma a dare luogo all’emozione che stiamo provando concorrono in buona parte anche le nostre aspettative

 

Il potere delle aspettative

Facciamo un esempio. Stiamo camminando per strada quando qualcuno ci urta. Immaginiamo due ipotesi: a urtarci è un amico con il quale stiamo passeggiando, in questo caso la nostra reazione sarà probabilmente di sorpresa, ma saremo molto indulgenti verso la distrazione dell’amico e andremo oltre. Seconda ipotesi: a urtarci è una persona incrociata per caso e che, per svariati motivi, non gode della nostra simpatia. In questo caso la nostra reazione sarà di stizza, se non di vera e propria rabbia.

Eppure l’evento che ha innescato queste due reazioni differenti è esattamente lo stesso.

A determinare la nostra reazione è stata l’aspettativa che avevamo nei confronti della persona che ci ha urtati.

Tutti noi abbiamo delle aspettative. Immaginiamo che certe cose vadano in un certo modo, che certe persone si comportino in un certo modo. Prima ancora che le situazioni si concretizzino abbiamo già in mente un quadro preciso di come potranno andare. Spesso questo modo di anticipare gli eventi non è voluto e non è del tutto cosciente e consapevole all’individuo. Prevedere gli sviluppi di una situazione ci aiuta a sentirci più tranquilli, a contrastare la paura dell’ignoto e ad affrontare l’effetto sorpresa che potrebbe spiazzarci facendoci sentire impreparati.

Ma le aspettative hanno anche un altro potere, che spesso ignoriamo ma che risulta potentissimo, quasi magico: hanno il potere di indirizzare il corso degli eventi in modo che quello che abbiamo ipotizzato (nel bene e nel male) finisca veramente per realizzarsi.

Come abbiamo visto nell’esempio di poco fa, se abbiamo un’opinione negativa di qualcuno, questo ci porterà a reagire verso di lui con un atteggiamento ostile che avrà l’effetto di spingerlo a ricambiarci con la stessa moneta. Si produrrà una reazione a catena che ci convincerà della reale cattiva disposizione dell’altro verso di noi.

Intervista a Davide Lo Presti

Su questo affascinante argomento si è lungamente soffermato Davide Lo Presti, psicologo e autore del libro “La profezia che si autorealizza”, al quale abbiamo rivolto qualche domanda:

Intervistatrice (I): Partiamo dalla consapevolezza che le nostre aspettative sono in grado di influenzare le nostre emozioni e i nostri comportamenti fino ad influenzare gli eventi al punto da favorire che quanto abbiamo ipotizzato si realizzi. Come possiamo smascherare le nostre aspettative sbagliate per liberarcene?

Dr  Davide Lo Presti (DLP): L’enorme potere delle aspettative deriva dal fatto che, in maniera spesso inconsapevole, ci spingono all’azione, portandoci così a costruire le convalide relative di quanto ci aspettavamo. Si tratta quindi di meccanismi estremamente ricorsivi, che partono dalle nostre convinzioni e finiscono col rafforzarle sempre più. Come fare quindi per smascherare, ed eventualmente correggere le nostre aspettative sbagliate o disfunzionali, quelle che ci peggiorano la vita? Nel libro propongo diverse tecniche: quella apparentemente più semplice è la tecnica del ‘come se’, che consiste nel pensare e comportarci, ‘come se’, quello che temiamo non fosse davvero così spaventoso. Dunque chiederci: come mi comporterei se non avessi paura di non passare il colloquio di lavoro? In che modo mi preparerei? E il giorno del colloquio, con che umore mi alzerei la mattina? E nell’arrivare in ufficio, come mi rivolgerei alla segretaria e poi a chi mi deve valutare? Sorriderei? In questo modo si crea uno scenario alternativo, lavorando su un livello di fantasia in cui la persona si sente più al sicuro. Un’altra tecnica, che ho elaborato e utilizzato in quattro anni di pratica clinica, è quella che ho chiamato ‘Analisi dell’Oracolo Interiore’. È divisa in tre step. Nel primo step vengono messe in discussione le aspettative e convinzioni della persona; nel secondo step si indaga in che modo certe aspettative condizionano concretamente il suo comportamento; mentre nel terzo step, il più decisivo, si spinge la persona verso una esperienza emozionale correttiva, ovvero verso una esperienza nuova, meglio se piccola, che possa farle toccare con mano come agendo diversamente si ottengono risultati diversi, che smentiscono le aspettative iniziali.

I: Non sempre però le nostre aspettative agiscono da freno. In alcuni casi possono agire da stimolo che ci spinge a valutare positivamente un evento nell’ottica di inseguire degli obiettivi. Cosa può aiutarci a capire se un’aspettativa è realistica oppure no?

DLP: È un argomento sul quale ho riflettuto molto e le mie conclusioni sono queste: provare, provare, provare. L’uomo ha dato prova, nei secoli, di realizzare l’impossibile più e più volte: dalla lampadina di Edison ai viaggi nello spazio. Per cui al riguardo sono molto possibilista, anzi, vedo nell’impossibile una sfida. Quotidianamente, però, un’indicazione che mi sento di dare è questa. Se qualcun altro ha realizzato ciò che tu sogni di realizzare, allora anche tu puoi farcela. Dunque si tratta di un’aspettativa realistica, realizzabile. Ciò non significa che sia semplice: bisogna rimboccarsi le maniche e non arrendersi, perché la sconfitta è dietro l’angolo nel momento in cui rinunciamo e gettiamo la spugna. Ogni impresa richiede grande impegno. Persino quelli che possono sembrare piccoli obiettivi personali richiedono una grande dose di perseveranza. Ma se siamo disposti a lavorare tutti i giorni, ci sono buone possibilità di riuscire. Se invece nessuno ha realizzato ciò che abbiamo in mente… allora in bocca al lupo! Tuttavia, non vorrei dare l’idea che tutte le aspettative siano realizzabili. Ci sono traguardi che magari richiedono sforzi che non siamo disposti a fare, oppure cose tecnicamente impossibili dal punto di vista della fisica. Elon Musk, adotta come criterio per stabilire i limiti dell’impossibile le leggi fisiche, e ciò mi pare molto sensato. Infine, voglio precisare che questa spinta a mettersi alla prova e a sfidare le proprie convinzioni per raggiungere risultati in linea con le nostre aspettative deriva dalla mia pratica clinica, dove troppo spesso vedo persone che si fermano davanti a limiti immaginari e finiscono per rendere impossibile ciò che invece è possibile. Mi auguro quindi di ispirare chi legge a mettersi in gioco, e a scoprire quanto più in là possiamo arrivare se solo abbiamo il coraggio di osare.

I: Un’ultima domanda: è possibile riconoscere quelle situazioni in cui il nostro giudizio è falsato da condizionamenti, più o meno inconsci, delle nostre capacità di giudizio?

DLP: Bisogna considerare tutte le nostre conoscenze come degli apprendimenti culturali da quando nasciamo e per tutto il resto della vita, ci vengono trasmesse conoscenze e significati condivisi (quella che Watzlawick chiama realtà di secondo ordine) che noi sovrapponiamo alla realtà fisica, prendendola per vera. Per cui, tutti i nostri giudizi, sono giudizi culturali, che hanno a che fare con la realtà di secondo ordine. L’esperimento dei vini è sconvolgente perché dimostra che persino la realtà sensoriale viene modificata dal livello dei significati. Per cui non solo questioni sociali come il razzismo, il sessismo, il maschilismo ecc. risentono dei nostri pregiudizi, ma persino le nostre percezioni sono filtrate dalle nostre convinzioni e aspettative. Quindi, per rispondere alla domanda: a mio avviso ogni situazione risente dei nostri condizionamenti inconsci (aspettative e convinzioni). Il punto è come usare ciò in maniera consapevole e costruttiva. Ovvero, è bene imparare a costruire la realtà che vogliamo, mettendo in discussione quelle convinzioni e aspettative disfunzionali in favore di qualcosa di migliore.

Uso del telefono cellulare e aumento di incidenza di gliomi cerebrali: i risultati di un recente studio

Un interessante studio pubblicato su Environment International ha indagato l’associazione tra telefono cellulare e glioblastoma.

 

Per molto tempo si è dibattuto circa la possibilità che le onde elettromagnetiche di radiofrequenze emesse dagli apparecchi di telefonia mobile (telefoni cellulari) potessero causare neoplasie cerebrali (Schüz et al., 2022), correlando l’uso del telefono cellulare con la possibile insorgenza di gliomi.

Con il termine glioma si intende un insieme di neoplasie che presentano caratteristiche diverse a seconda delle cellule del cervello da cui originano (astrociti, oligodendrociti o cellule ependimali). Viene di solito distinto il grado di aggressività (glioma di basso grado, glioma anaplastico, glioblastoma).

Sono tumori primitivi che originano nel parenchima cerebrale. La sintomatologia può essere varia a seconda della localizzazione; sono descritti deficit neurologici focali, encefalopatia o convulsioni.

Un interessante studio pubblicato su “Environment International Vol. 168” ha indagato l’associazione tra telefono cellulare e gliobalstoma (Deltour et al. 2022).

Introduzione

Se un reale aumento del rischio di gliomi è associato all’uso del telefono cellulare, dovrebbe riflettersi nell’incidenza della popolazione esposta nel tempo. Poiché oggigiorno praticamente il 100% della popolazione utilizza un telefono cellulare, questo dovrebbe essere rilevabile nei tassi complessivi della popolazione, essere prima distinguibile nel segmento della popolazione che per primo ha adottato l’uso del telefono cellulare e dovrebbe essere più evidente tra quelli con l’esposizione più pesante. Al contrario, l’assenza di variazioni nell’andamento temporale, dopo un opportuno periodo di latenza, costituirebbe evidenza contro un tale effetto dell’esposizione. I dati del registro dei tumori offrono eccellenti opportunità per analizzare il livello e i cambiamenti nei tassi di incidenza del glioma e sono stati condotti studi di sorveglianza utilizzando dati per i paesi nordici (Deltour et al., 2009, Deltour et al., 2012) e altrove, ad es. (Karipidis et al., 2018, Villeneuve et al., 2021, Sato et al., 2019). Nei paesi nordici, le tendenze di incidenza dei gliomi degli adulti non hanno mostrato un aumento che sarebbe parallelo alla crescente prevalenza dell’uso dei telefoni cellulari senza cambiamenti evidenti nelle tendenze temporali a lungo termine, ma un leggero aumento secolare iniziato ben prima dell’era dei telefoni cellulari (Deltour et al., 2012). La maggior parte degli altri studi non ha riportato aumenti nell’incidenza di gliomi o tumori cerebrali maligni in generale (Villeneuve et al., 2021), o aumenti non correlati ai cambiamenti di popolarità e penetrazione della tecnologia dei telefoni cellulari nella popolazione di (Karipidis et al. , 2018, Sato et al., 2019).

Lo studio

Se il campo elettromagnetico a radiofrequenza (RF EMF) emesso dai telefoni cellulari causasse gliomi, il marcato aumento della prevalenza dell’uso dei telefoni cellulari nella popolazione generale negli ultimi decenni si tradurrebbe in un aumento della comparsa di gliomi nella popolazione esposta.

Consultando i registri nazionali dei tumori di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia è stato ottenuto il numero di gliomi primari in pazienti maschi di età compresa tra 40 e 69 anni al momento della diagnosi nel periodo tra il 1979-2016.

Questo studio si è basato su 18.232 casi di glioma maschile diagnosticati nel periodo 1979-2016 nei paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia).

Gli autori hanno poi raccolto dati annuali a livello nazionale per fasce di età di 5 anni da ciascun paese partecipante. Le dimensioni della popolazione maschile a rischio per queste fasce di età sono state acquisite dai registri nazionali della popolazione per ogni anno solare. Sono stati inclusi tutti i gliomi definiti secondo l’International Classification of Disease for Oncology versione 3, localizzati nel cervello (codice topografico C71), con codici morfologici 938–946, esclusi i tumori misti neuronale-gliali.

Conclusioni

I risultati indicano che le tendenze di incidenza del glioma tra gli uomini di età compresa tra 40 e 59 anni nei paesi nordici non sono coerenti con l’aumento dei rischi di una dimensione dell’effetto moderata (RR > 1,2–1,4) ipotizzando una latenza fino a 20 anni. Ciò significa che l’aumento dei rischi riportati in alcuni studi caso-controllo non è plausibile e probabilmente attribuibile a pregiudizi ed errori nell’uso auto-riferito del telefono cellulare. Tali risultati sono coerenti con i risultati di studi di coorte prospettici che non mostravano alcuna associazione tra l’uso del telefono cellulare e il rischio di glioma.

 

Burnout scolastico: differenze tra studenti italiani e svizzeri

Il burnout scolastico si verifica quando gli studenti si sentono sopraffatti e incapaci di far fronte agli eventi stressanti, portando poi alla manifestazione di comportamenti disadattivi (assenteismo, brutti voti, comportamenti aggressivi).

 

Il burnout scolastico

 Il burnout scolastico condiziona l’atteggiamento degli studenti nei confronti della vita scolastica, che influisce sui loro risultati e sulla successiva carriera accademica. Gli studiosi concordano con il noto modello che descrive il burnout degli studenti attraverso tre dimensioni: esaurimento emotivo, cinismo e senso di inadeguatezza (Salmela-Aro et al., 2008). L’esaurimento è caratterizzato dalla stanchezza emotiva ed è generalmente dovuto a compiti scolastici molto impegnativi. La dimensione del cinismo rappresenta l’atteggiamento negativo verso gli eventi della vita scolastica e le scarse relazioni con insegnanti e compagni. Infine, il senso di inadeguatezza si riferisce a come gli studenti possono affrontare con successo le sfide scolastiche.

Nel complesso, il burnout scolastico si verifica quando gli studenti si sentono sopraffatti e incapaci di far fronte agli eventi stressanti, portando poi alla manifestazione di comportamenti disadattivi (assenteismo, brutti voti, comportamenti aggressivi). Più spesso il burnout scolastico può colpire gli studenti delle scuole secondarie superiori che si trovano ad affrontare, da un lato, elevate aspettative accademiche e, dall’altro, la pressione percepita dai genitori. Lo squilibrio tra la domanda (ad esempio, da parte della famiglia e della scuola) e le risorse interne ed esterne (ad esempio, le caratteristiche psicologiche e il supporto sociale) può portare a un elevato rischio di burnout (Kim et al., 2018). Al contrario, le risorse personali, come l’empatia, l’autoefficacia, la resilienza e l’intelligenza emotiva, possono ridurre significativamente il rischio di burnout (Farina et al., 2020, Anastasiou & Papagianni, 2020).

Confrontare i diversi sistemi scolastici in termini di supporto offerto al benessere degli studenti potrebbe essere utile per comprendere le differenze di grado di burnout in diversi paesi. Con questo intento, uno studio di Gabola e colleghi (2021) ha confrontato il burnout scolastico degli studenti adolescenti italiani e svizzeri dato che questi due condividono valori culturali simili, ma mostrano una differenza fondamentale nei programmi e negli interventi scolastici che promuovono il benessere degli studenti.

Il supporto psicosociale scolastico in Italia e In Svizzera

Ogni dipartimento educativo cantonale, infatti, offre un team sanitario a supporto di ogni scuola (l’infermiere, il mediatore, il medico, lo psicologo). Nel sistema scolastico italiano, invece, non esistono figure sanitarie stabili. A parte alcuni distretti scolastici specifici, il sistema scolastico italiano non offre supporto psicosociale e medico ai propri studenti.

Rispetto alle loro controparti svizzere, gli studenti italiani hanno mostrato livelli di stanchezza e cinismo più elevati nei confronti della vita scolastica, ma non sono state riscontrate differenze nel senso di inadeguatezza degli studenti. Il rischio di burnout, e le sue conseguenze, sono maggiori per gli studenti italiani, sia maschi che femmine.

Tra le varie ragioni che spiegano l’assenza di un effetto di genere in entrambi i Paesi, una prospettiva interessante proviene da Buonomo et al., 2020, che suggerisce che il genere possa svolgere un ruolo di moderazione tra le condizioni di lavoro (assimilabili alle dimensioni scolastiche) e il burnout. In altre parole, non è il fatto di essere femmina o maschio a fare la differenza di per sé, ma il modo in cui i ragazzi e le ragazze interagiscono con le risorse sociali a loro disposizione (ad esempio, insegnanti, operatori) (ad es, Purvanova & Muros, 2010).

I risultati mostrano anche che gli studenti più grandi (17-19 anni) sono più a rischio di burnout scolastico rispetto a quelli più giovani (13-15 anni). Ciò è comprensibile dato che i compiti scolastici diventano più impegnativi per gli studenti da un anno all’altro della loro carriera accademica.

Per quanto riguarda invece l’interconnessione tra il burnout degli studenti e la percezione del supporto sociale, i risultati di una recente meta-analisi (Kim et al., 2018) hanno evidenziato che la relazione tra il burnout complessivo degli studenti e il supporto sociale totale è significativa. È probabile che gli studenti che avvertono un maggiore burnout nei confronti degli studi pensino di essere meno sostenuti dagli altri. Il supporto sociale fornisce un effetto tampone contro lo stress, in quanto un individuo che percepisce un maggiore supporto sociale è anche più resistente allo stress. A questo proposito, le ricerche precedenti hanno dimostrato il ruolo della sensibilità degli insegnanti (Anastasiou & Papagianni, 2020) e dell’intelligenza emotiva (Romano et al., 2020).

Burnout scolastico e competenze emotive dei professori

Le competenze emotive degli insegnanti svolgono un ruolo essenziale in due modi. In primo luogo, gli insegnanti con un buon processo di regolazione delle emozioni nei confronti degli eventi legati al lavoro hanno maggiori probabilità di provare emozioni positive e bassi livelli di burnout. In secondo luogo, gli insegnanti con un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro scolastico diventano essi stessi un valido supporto per i loro studenti, riducendo il rischio di comportamenti disadattivi.

Come già accennato precedentemente, lo studio dimostra che gli studenti italiani presentano un tasso più elevato di burnout scolastico. Alla luce del fatto che i programmi scolastici che promuovono un’educazione positiva possono ridurre il rischio di burnout scolastico negli adolescenti (Ruini et al., 2009), questo risultato potrebbe essere spiegato dal ruolo centrale dei servizi sanitari dedicati agli studenti nel sistema scolastico svizzero. Sono necessari studi futuri con più punti di misurazione per comprendere meglio le differenze tra i livelli di burnout scolastico riportati dagli studenti italiani e svizzeri. Sarebbe importante, in futuro, esaminare cosa rende gli studenti italiani più esausti dei loro coetanei svizzeri.

In conclusione, il supporto generale per prevenire il burnout scolastico dovrebbe essere offerto a tutti gli studenti, poiché, ad esempio, le pratiche educative di supporto (Meylan et al., 2020) e gli insegnanti motivanti (Salmela-Aro et al., 2008), oltre l’attuazione di pratiche che promuovono l’apprendimento socio-emotivo (Elmi, 2020), sono collegati a una riduzione dei sintomi di burnout scolastico e possono contribuire al benessere degli studenti. Inoltre, potrebbe essere proficuo informare i genitori e gli insegnanti riguardo al fatto che insistere troppo e riporre aspettative eccessive negli studenti può avere la stessa probabilità di provocare problemi di benessere e di favorire i risultati nel lungo periodo.

Relazione medico-paziente: studio neuroscientifico sperimentale sulla “cattiva comunicazione” – Comunicato Stampa

Presentato F.I.O.R.E. 2, indagine sperimentale di Fondazione Giancarlo Quarta Onlus con l’Università di Padova e PNC (Padova Neuroscience Center) per misurare gli effetti a livello cerebrale di una cattiva comunicazione nel rapporto terapeutico. Non rispondere ai bisogni emotivi del malato fa male e rompe l’alleanza terapeutica, attivando un meccanismo di fuga e risposta a una minaccia.

Comunicato Stampa

 

Le parole negative possono provocare dolore

Le parole possono far male, letteralmente. Di fronte a parole ma anche a comportamenti che ci offendono, che non rispondono ai nostri bisogni, possiamo provare un dolore che, a livello di attivazioni cerebrali, è sovrapponibile a quello fisico. Questa esperienza ha una precisa sostanza neuroscientifica ed è tanto più importante se osservata in una relazione di cura.

Che cosa succede a livello neurale quando la comunicazione medico – paziente non funziona? Quali effetti possono avere sul malato, parole dure o atteggiamenti non accoglienti? È questo l’oggetto di un innovativo studio sperimentale svolto dalla Fondazione Giancarlo Quarta, Onlus – impegnata da anni nell’indagine del rapporto medico paziente dal punto di vista psicologico, clinico e sociale, con lo scopo di alleviare la sofferenza dei malati – in collaborazione con l’Università di Padova e il PNC (Padova Neuroscience Center).

F.I.O.R.E. 2 (Functional Imaging of Reinforcement Effects), questo il titolo della sperimentazione presentata a maggio a Milano, è il proseguimento di un primo studio che aveva misurato gli effetti a livello cerebrale di una comunicazione rispondente ai bisogni del malato. In questo secondo lavoro, ancora una volta svolto mediante tecniche di neuroimaging (Risonanza Magnetica Funzionale), si è messo a fuoco cosa succede nel cervello quando siamo in una relazione che non funziona.

La ricerca

A 30 soggetti sani (11 maschi e 19 femmine di età compresa tra i 19 e i 33 anni) sono state sottoposte, in scansione cerebrale, una serie di vignette raffiguranti varie situazioni sociali di interazione tra due persone, nelle quali il soggetto riceve tre tipi di stimoli detti “rinforzo”: “rinforzo negativo”, in cui il comportamento dell’altro non risponde al bisogno del soggetto, “neutro/di controllo” e “rinforzo positivo”. Ad esempio: stai salendo sul treno con una valigia pesante e la persona dietro di te sbuffa e non ti aiuta (rinforzo negativo), resta immobile e aspetta che tu salga (neutro), ti sorride e ti aiuta a caricare la valigia (rinforzo positivo). I soggetti, oltre alla risonanza, hanno compilato due test di valutazione della personalità e affettività: il BFQ – Big Five Questionnaire e il QDF – Questionnaire on Daily Frustrations.

Sulla base dei dati raccolti, lo studio ha misurato e analizzato: le risposte di attivazione, ovvero quali aree cerebrali risultano maggiormente attivate dagli stimoli negativi rispetto agli altri stimoli; le risposte di connettività, ovvero come dialogano (o non dialogano) le diverse aree del cervello quando c’è un rinforzo negativo e le correlazioni cervello-comportamento-personalità.

È emerso che ricevere il rinforzo negativo – la parola aggressiva, svalutante, che lascia insoddisfatti – è un’esperienza totalizzante, perché attiva, allo stesso tempo, aree del cervello appartenenti alle sfere cognitiva, emotiva e motoria. A livello di connettività tra le diverse aree del cervello, si è osservato che il rinforzo negativo attiva il network che percepisce ed elabora il dolore con aree sovrapponibili al dolore fisico: la parola negativa, dunque, ferisce. Quando la comunicazione non funziona, si è osservata un’attivazione delle aree motorie, come se il soggetto sentisse minata la propria integrità e fosse pronto a fuggire/reagire; non solo, la parola negativa favorisce un comportamento non sociale, evidenza riscontrabile a livello cerebrale con un minor dialogo tra i due emisferi del cervello.

I risultati della sperimentazione sono stati presentati e discussi il 17 Maggio in un convegno moderato da Luigi Ripamonti, direttore del Corriere Salute. Per la Fondazione sono intervenuti Lucia Giudetti Quarta, Presidente Fondazione Giancarlo Quarta Onlus (FGQ), Alan Pampallona, Direttore generale FGQ e Andrea Di Ciano, Coordinatore Ricerche scientifiche FGQ. Il panel dei relatori ha visto la partecipazione di Fabio Sambataro, Professore del Dipartimento Neuroscienze Università degli Studi di Padova, Pierdante Piccioni, Dirigente Medico – ASST Lodi (Serie tv “Doc – nelle tue mani”), Mauro Moreno, Direttore sanitario – Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Augusto Caraceni, Direttore S.C. Cure palliative, Terapia del dolore e riabilitazione – Istituto Nazionale dei Tumori, Federico d’Amario, Responsabile U.O. Ortopedia protesica e ricostruttiva anca e ginocchio – Humanitas S. Pio X, Alberto Giannini, Direttore S.C. Anestesia e Rianimazione pediatrica Ospedale dei bambini – ASST Spedali Civili, Lorenzo Menicanti, Direttore scientifico, Direttore Area chirurgica cuore – Policlinico S. Donato.

Qualunque atto medico viene realizzato anche attraverso la parola, la quale, come dimostrato da un numero sempre crescente di ricerche scientifiche, è una componente essenziale dell’efficacia dell’atto medico stesso – commenta Andrea Di Ciano, Coordinatore delle ricerche scientifiche FGQ – Pertanto è doveroso e utile avere cura delle parole, di quelle pronunciate, affinché siano di guida e conforto per il paziente, ma anche delle parole non dette nei momenti in cui sarebbero state necessarie. Infatti, non è possibile non comunicare, fare un passo indietro rispetto alla dimensione della parola: ignorare il bisogno del paziente costituisce un rinforzo negativo che può far sentire non considerati e non accolti, sia il paziente in quanto ammalato, sia, soprattutto, il paziente come persona.

 

Il mancato riconoscimento dei bisogni di una persona, e del paziente in particolare, rappresenta una significativa violazione della relazione sociale che causa una reazione emotiva psichica e fisica immediata con attivazione di un importante sistema di allarme che coinvolge un circuito neurale simile a quello del dolore fisico – conclude il professor Fabio Sambataro, Dipartimento Neuroscienze Università degli Studi di Padova – Se il disallineamento bisogno-risposta persiste, la relazione può impoverirsi, perdere di significato e addirittura minare l’autostima e risultare inutile se non addirittura dannosa. Il medico dovrebbe trovare il tempo e il modo o, meglio, i modi, per ascoltare il paziente con i suoi spazi e tempi, accogliendo il suo bisogno di empatia, di riconoscimento per poter garantire una relazione che sia realmente terapeutica.

 

Perché parlare agli anziani fa bene

La conversazione mantiene attivo l’anziano e lo protegge dall’isolamento sociale. In questo contributo voglio farti riflettere su quanto possa essere importante garantire ai nostri anziani delle occasioni di confronto e di “chiacchiera libera”.

 

L’importanza della conversazione per il benessere dell’anziano

Una vera e propria cura per la mente e per il loro benessere psicologico. Parlare con qualcuno è già relazione.

Cosa succede, però, quando i nostri anziani hanno delle difficoltà personali, nel linguaggio o assumono degli atteggiamenti di ritiro sociale?

Possiamo aiutarli a riscoprire il piacere della conversazione, sollecitandoli con alcune domande, dimostrandoci sinceramente interessati, ma soprattutto ascoltandoli.

Considera per loro la parola come nutrimento personale ed emotivo.

Sappiamo quanto siano importanti i bisogni fisici di base per la salute dei nostri cari, ma l’interazione personale è comunque fondamentale per evitare che gli anziani soffrano di solitudine o si abbandonino a risvolti depressivi.

Secondo il National Institutes of Health, ripreso da Rafnsson e colleghi (2017), l’isolamento sociale e la solitudine comportano, pertanto, rischi più elevati sulle varie condizioni fisiche e mentali, tra cui l’ipertensione, le malattie cardiache, l’obesità, l’immunodeficienza, gli attacchi di panico, la depressione, il declino cognitivo, l’Alzheimer e persino la morte.

Le interazioni diventano un fattore protettivo per tutte le sfere personali dei nostri cari, non esclusivamente quella relazionale.

Scopriamo adesso qual è il modo migliore per comunicare con gli anziani. Comunicare correttamente con gli anziani rappresenta già un modo per prendersi cura di loro sotto ogni aspetto.

A volte la conversazione rappresenterà l’unico strumento per verificare che stiano bene, stiano seguendo correttamente la terapia farmacologica, non si stiano trascurando quando sono da soli.

Le risorse principali che possiamo adoperare sono: l’ascolto, l’empatia e una comunicazione caratterizzata da domande aperte e riformulazioni del concetto.

Puoi rendere questi strumenti ancora più potenti con il tuo comportamento!

È poco efficace sicuramente una chiacchierata mentre sei in cucina a lavare i piatti o impegnato a fare altro.

Invece, prendi una sedia, accomodati insieme al tuo anziano e parla in modo chiaro e diretto in modo che ascolti ciò che stai dicendo e possa vedere le espressioni del tuo viso; così puoi vedere anche come sta recependo il messaggio e se ti risponde in modo pertinente.

Trova del tempo di qualità da dedicare alla conversione con i tuoi cari, non solo per comprendere se è tutto sotto controllo, ma per te stesso e la vostra relazione.

I migliori argomenti di conversazione per gli anziani

Sono sicura che hai tanti argomenti di cui parlare e non ti servano dei suggerimenti, ma quelli che ti fornirò brevemente ti potrebbero essere utili per tenere in allenamento il tuo anziano!

A riguardo segnalo un contributo di Preston Ni, pubblicato su “Psychology Today”, sul tema specifico del potere curativo della conversazione per l’anziano, che, sollecitato nel ricordo, ne beneficerebbe in un’aumentata capacità mentale. Nello specifico, si fa riferimento a quelle abilità che, generalmente, sono soggette a deterioramento come la memoria e l’attenzione, il pensiero logico-astratto e le capacità psicomotorie.

Aspetti che si integrano, inoltre, con il bagaglio culturale dell’anziano e che è possibile valutare a partire da un’attenta osservazione delle piccole attività quotidiane e delle competenze linguistiche.

Per tale ragione, stimolare e coinvolgere gli anziani in conversazioni di loro interesse rappresenta, contemporaneamente, una lente privilegiata di osservazione partecipata quanto una cura dolce contro l’isolamento sociale e la solitudine.

A questo punto hai solo l’imbarazzo della scelta.

Fa piacere davvero a tutti, grandi e piccini, raccontare di sé e della storia della propria vita!

Ecco alcune domande per loro particolarmente coinvolgenti:

  • Com’è stata la tua infanzia? Dove sei cresciuto?
  • Chi è stato il tuo primo amore?
  • Ti ricordi la dichiarazione che hai fatto al tuo partner?
  • Qual è stato il tuo lavoro preferito?
  • Se avessi potuto fare tutto ciò che volevi per guadagnarti da vivere, cosa avresti fatto?
  • Quali sono alcuni dei migliori film che tu abbia mai visto?

Mi raccomando non siamo ad un colloquio di lavoro!

Ascolta e preparati a rispondere anche tu alle domande, si tratta pur sempre di uno scambio reciproco.

 

L’efficacia delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasive nel trattamento dei disturbi d’ansia

Vergallito e colleghi (2021) hanno svolto una review sistematica della letteratura esistente sul tema e una analisi quantitativa dell’efficacia della Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) e della Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) nel trattamento dei disturbi d’ansia.

 

Introduzione alle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva

La possibilità di utilizzare tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva per il trattamento dei disturbi psichici sta ricevendo sempre più attenzione sia in ambito scientifico che in ambito clinico applicativo.

In particolare, la Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation (rTMS) – (in italiano Stimolazione magnetica transcranica) e la Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) – (in italiano “stimolazione transcranica a corrente diretta) sono ad oggi riconosciute come tecniche di stimolazione neurofisiologica non invasiva utili per il trattamento del disturbo depressivo maggiore. Nel 2018 infatti la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato la rTMS quale tecnica per il trattamento della depressione maggiore, utilizzando una stimolazione ad alta frequenza (10 Hz) sul lato sinistro dalla corteccia prefrontale dorsolaterale (Hui J, 2019).

Riguardo agli altri disturbi psichici, quali ad esempio la schizofrenia, l’abuso di sostanze, il disturbo ossessivo compulsivo, l’efficacia di tali tecniche, da sole o in combinazione con percorsi psicoterapici, è stata esplorata da alcune review e metanalisi, con alcuni risultati incoraggianti ma ancora preliminari (Kennedy, Lee, Frangou, 2018; Kostova, Cecere, Thut, et al., 2020; Trojak, Sauvaget, Fecteau, et al., 2017; Brunelin, Mondino, Bation, et al., 2018).

Anche considerando i disturbi d’ansia, vi sono tuttora evidenze limitate riguardo all’efficacia di tali tecniche per il trattamento degli stessi. La metanalisi di Vergallito e colleghi (2021) ha l’obiettivo di valutare l’efficacia dei trattamenti di stimolazione cerebrale non invasiva sui disturbi d’ansia. Secondo il DSM-5, tra i disturbi d’ansia si annoverano le fobie specifiche, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo da panico, l’agorafobia e il disturbo d’ansia generalizzata. Lo studio di Vergallito e colleghi ha pertanto preso in considerazione le ricerche effettuate su disturbi sopra specificati (escludendo il PTSD e il DOC che non rientrano tra i disturbi d’ansia secondo il DMS-5).

I principali trattamenti per i disturbi d’ansia, come indicati da diverse linee guida internazionali, consistono in interventi psicoterapici e/o farmacologici, tra cui la terapia cognitivo-comportamentale che è considerata il trattamento di elezione (Bandelow, Lichte, Rudolf, et al., 2015; Katzman, Bleau, Blier, et al., 2014). Tuttavia, un significativo numero di pazienti non risponde in maniera efficace ai trattamenti, manifesta ricadute sintomatologiche e ricorrenza cronica della sintomatologia (Fernandez, Salem, Swift, et al., 2015; Taylor, Abramowitz, McKay, 2012). In tali casi, tra le metodologie alternative, stanno emergendo rapidamente e avanguardisticamente le tecniche di stimolazione cerebrale non invasive, come terapie esclusive o coadiuvanti combinate con percorsi di psicoterapia cognitivo comportamentale (Brunoni, Sampaio-Junior, Moffa, et al. 2019; Sathappan, Luber, Lisanby, 2019).

Gli aspetti neuroscientifici dei disturbi psichiatrici

In termini neuroscientifici, seppure esistano differenze che caratterizzano i singoli disturbi, diverse evidenze in letteratura suggeriscono che i disturbi d’ansia siano caratterizzati da una comune alterazione strutturale e funzionale a carico del pathway limbico mesocorticolale (Duval et al., 2015): l’amigdala, la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore, l’ippocampo e le loro connessioni funzionali giocano un ruolo chiave nell’esordio e nella regolazione della paura, dell’ansia e della rilevazione dei segnali di minaccia. Ad esempio, l’iperattivazione a carico dell’amigdala è una delle evidenze più accreditate in tal senso, con una correlazione positiva tra iperattivazione di tale area cerebrale e gravità dei sintomi ansiosi (Ball, Sullivan, Flagan, et al, 2012; Lipka, Miltner, Straube, 2011). La risposta neurale dell’amigdala ai segnali di minaccia è regolata attraverso connessioni bidirezionali con la corteccia cingolata anteriore e con la corteccia prefrontale ventromediale, e alcuni studi di neuroimaging hanno evidenziato una ipoattivazione della corteccia prefrontale in pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia (Ironside, Browning, Ansari, et al., 2019; Kim, Loucks, Palmer, et al., 2011).

In considerazione di tali premesse, il razionale per l’utilizzo delle tecniche di stimolazione neurofisiologica cerebrale non invasive nel trattamento dei disturbi d’ansia consiste nella possibilità di ribilanciare tale attività disadattiva in termini funzionali e di connettività funzionale tra le diverse specifiche aree cerebrali sopra citate (Vicario, Salehinejad, Felmingham, et al., 2019). In tal senso, vale la pena sottolineare che i disturbi psichici, implicano tra i fattori bio-sociali alla base del loro esordio e mantenimento, anche una plasticità neurale patologicamente alterata che può essere modificata attraverso l’ausilio della stimolazione cerebrale non invasiva (Ziemann U., 2017).

L’uso di rTMS e tDCS nel trattamento dei disturbi d’ansia

Vergallito e colleghi (2021) hanno svolto una review sistematica della letteratura esistente sul tema e una analisi quantitativa dell’efficacia della Repetitive transcranial magnetic stimulation (rTMS) e della transcranial direct current stimulation (tDCS) nel trattamento dei disturbi d’ansia.

La review, in accordo con le linee guida PRISMA, si è basata su uno screening di articoli scientifici peer-reviewed pubblicati in lingua inglese presenti in tre database fino alla fine di febbraio 2020. Gli studi presi in considerazione hanno risposto ai seguenti criteri di inclusione: la presenza di un campione di soggetti clinici con una diagnosi di disturbo d’ansia, l’utilizzo di tecniche di stimolazione neurofisiologica cerebrale non invasiva (rTMS e tDCS), la presenza di un gruppo di controllo, di punteggi di assesment pre-post trattamento e l’uso di questionari validati per la misurazione dei sintomi ansiosi. I criteri di inclusione sono stati particolarmente stringenti e focalizzati, soprattutto nel considerare solo studi in cui si valutava l’utilizzo dalla stimolazione cerebrale non invasiva in comparazione a gruppi di controllo o condizioni sham.

Dallo screening è emerso che 11 ricerche hanno risposto ai criteri di inclusione, per un totale di 154 soggetti assegnati alle condizioni sperimentali di stimolazione cerebrale non invasiva e 164 assegnati a condizioni di trattamento “sham” o di controllo.

Sui dati pubblicati da tali ricerche sono state effettuate due metanalisi per valutare in modo aggregato l’efficacia dell’utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva, calcolando indici quali l’effect size per ciascun disturbo e per i punteggi relativi all’ansia generalizzata. Inoltre, considerando la comorbilità tra disturbi d’ansia e disturbi depressivi, è stata effettuata una terza metanalisi che ha analizzato gli outcomes in termini di efficacia dell’applicazione della rTMS e della tDCS sui sintomi depressivi presenti in comorbilità con i disturbi d’ansia.

Dai risultati delle metanalisi degli studi considerati è emersa un’efficacia statisticamente significativa delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva nella riduzione dei sintomi ansiosi, per come valutata dai questionari, sia per i disturbi d’ansia specifici sia per i punteggi relativi all’ansia generalizzata. Gli autori sottolineano una elevata eterogeneità tra gli studi presi in considerazione, in termini di protocolli di utilizzo delle tecniche di stimolazione cerebrale (tipologia di regioni cerebrali target della stimolazione, durata dell’intervento e altri parametri specifici al protocollo di stimolazione), nonché nell’associazione di altre terapie psicofarmacologiche aggiuntive in combinazione.

Dai risultati della terza metanalisi, tali tecniche sono risultate parimenti efficaci anche nella riduzione della sintomatologia depressiva (presente in comorbilità con i sintomi ansiosi) in confronto alle condizioni di controllo. Questi dati sono in linea con precedenti studi che hanno dimostrato l’efficacia della rTMS nella riduzione dei sintomi ansiosi durante il trattamento di pazienti con diagnosi di depressione (Chen et al., 2019). Tali evidenze trovano ulteriore riscontro in uno studio recente di Maggioni e colleghi (2019) che suggerisce come le similarità cliniche tra depressione maggiore e sintomi ansiosi possano poggiare su una comune base neurale di alterazioni funzionali a carico della corteccia prefrontale (corteccia orbitofrontale sinistra); invece anomalie specifiche per la depressione maggiore si riscontrerebbero nella funzionalità della corteccia frontotemporale, mentre per il disturbo da panico e per l’ansia sociale a livello parietale.

Conclusioni

In conclusione, possiamo affermare che i risultati della metanalisi di Vergallito e colleghi (2021) siano incoraggianti nel sostenere l’efficacia della stimolazione cerebrale non invasiva per migliorare i sintomi ansiosi; tuttavia gli studi presenti in letteratura sono ancora numericamente molto limitati per arrivare a trattare conclusioni solide e indicazioni definitive sull’applicazione di tali tecniche in via esclusiva o combinata per il trattamento dell’ansia.

È auspicabile pertanto che vengano svolti ulteriori studi che includano sia un maggior numero di pazienti clinicamente diagnosticati, sia condizioni di controllo randomizzate; inoltre sarà rilevante analizzare l’efficacia di trattamenti di stimolazione cerebrale non invasiva in combinazione con interventi di psicoterapia e farmacologia o in modalità esclusiva sulla riduzione della sintomatologia ansiosa.

 

Gli adolescenti e la pandemia (2022) di S. Vicari e M. Pontillo – Recensione

Il Professore Stefano Vicari e la dottoressa Maria Pontillo ci conducono per mano nell’universo dei giovani ai tempi del Covid-19, nel loro libro “Gli adolescenti e la pandemia”.

 

 Se è vero che la pandemia ha rappresentato una soluzione di continuità nell’esistenza di ciascuno, certamente la ferita è stata tanto più profonda e lacerante nelle vite di bambini e adolescenti, coloro i quali vivono quel periodo della vita in cui più si cambia e ci si trasforma, nella costruzione della propria identità.

Aprire una breccia per potersi affacciare oltre il muro di cinta che i giovani ergono a loro difesa, d’altro canto, è un privilegio che i ragazzi permettono solo in determinate condizioni di ascolto e comprensione. Il mondo dei giovani ha infatti regole, prospettive, tempi e luoghi diversi da quelli del mondo di noi adulti. “Gli adolescenti e il Covid-19” ci permette di esplorare questo mondo altro attraverso vari capitoli, dispiegati con sguardi e linguaggi diversi. Gli Autori impiegano ora il metodo di un antropologo, curioso e attento nell’osservazione, ora la completezza e la scrupolosità di uno scienziato, supportato da dati e misurazioni, ora amplificano la viva voce dei ragazzi.

I primi due capitoli narrano i cambiamenti avvenuti con la pandemia nella vita degli adolescenti, anche mediante il racconto delle loro storie personali. I successivi capitoli sono dedicati a consigli utili agli insegnanti, ai genitori e agli adolescenti stessi. Ai genitori, ad esempio, viene suggerito di dedicare del tempo ad ascoltare empaticamente i propri figli, accogliendo e legittimandone le emozioni, dando loro il dovuto spazio, contestualmente, per allenare l’indipendenza. Gli ultimi due capitoli, infine, sono fedeli trascrizioni di frammenti dei diari degli adolescenti al tempo della pandemia.

Il punto di forza di questo testo è la capacità di colpire dritto al cuore e alla mente, di suscitare emozioni e contemporaneamente informare, divenendo così un punto di riferimento teorico per quanti siano a contatto con gli adolescenti, sia a titolo puramente affettivo che lavorativo.

 

Come sfiducia e teorie complottiste condizionano la propensione a vaccinarsi contro il COVID-19

Durante il diffondersi del COVID-19, al contrario di quanto è accaduto per i vaccini di altre malattie, sono intervenuti molti altri fattori che hanno aumentato l’esitazione vaccinale; tra questi vi sono la velocità insolitamente rapida dello sviluppo, l’incertezza sulle informazioni mediche e le preoccupazioni sulla sicurezza dei vaccini. 

 

Il vaccino per il COVID-19

Durante il COVID-19, per arrestarne la rapida diffusione, è stata proposta la vaccinazione globale della popolazione. Dopo i primi mesi di pandemia (marzo-aprile 2020), la scienza ha cominciato a studiare rimedi e i governi hanno sostenuto la comunità accademica e l’industria farmaceutica per identificare un vaccino sicuro ed efficace (Kaur e Gupta, 2020). Lo scopo di un vaccino è infatti quello di ridurre l’ospedalizzazione, la trasmissione della malattia e il numero di pazienti ricoverati nelle terapie intensive degli ospedali. Nonostante i numerosi benefici apportati dal vaccino, la vaccinazione globale non è facile da raggiungere in quanto sono necessarie strategie per rassicurare la popolazione generale e promuovere la fiducia nel sistema sanitario, nella ricerca biomedica, nel vaccino e in coloro che lo propongono (Palamenghi et al., 2020). Poiché la trasmissione del COVID-19 è stata molto rapida, le evidenze scientifiche sono state spesso contraddittorie e incerte tanto da portare sfiducia da parte di molte persone nei confronti della conoscenza scientifica.

L’esitazione vaccinale è considerata una delle principali minacce per la salute globale (Sallam et al., 2021) ed è definita come il ritardo, il rifiuto o la riluttanza ad accettare un vaccino nonostante la disponibilità (Mannan e Farhana, 2020). Le persone esitanti si collocano lungo un continuum tra coloro che accettano e coloro che rifiutano totalmente di sottoporsi ad un vaccino (Sato, 2018). Alcuni studi in letteratura hanno mostrato come diversi fattori socio-demografici tra cui il sesso, l’età, il livello di istruzione e le credenze religiose sono associati all’esitazione o al rifiuto dei vaccini (Murphy et al., 2021). Inoltre, la fiducia nei vaccini è influenzata anche da fattori psicologici come lo stress percepito e l’ansia. È noto, infatti, come durante la pandemia siano aumentati notevolmente alcuni sintomi come angoscia, depressione e paura della morte; le persone si sono quindi trovate in una condizione di vulnerabilità e insicurezza che, unite alla rabbia e all’ostilità per le misure di isolamento e quarantena, hanno portato con sé livelli più elevati di fiducia nella vaccinazione contro il COVID-19 (Patelarou et al., 2021). Altri studi, però, dimostrano invece come rabbia ed emozioni negative siano risultate correlate ad una minore accettazione del vaccino e come sintomi psicologici simili possano quindi portare a risposte differenti (Sun et al., 2021). Per comprendere i meccanismi con cui alcune variabili psicologiche aumentano l’esitazione vaccinale mentre altre la riducono, è necessario considerare alcuni fattori come la diffidenza, lo scetticismo e le credenze di cospirazione (Chou e Budenz, 2020).

Fiducia e complottismo in relazione al vaccino

Oltre a ciò, anche la fiducia nella medicina e nella scienza è un fattore che influenza la propensione al vaccino. Nel contesto della vaccinazione, il concetto di fiducia può essere suddiviso in tre livelli: fiducia nel prodotto (e.g. un vaccino), fiducia nel fornitore (e.g. gli operatori sanitari), e infine fiducia nei responsabili politici (e.g. il sistema sanitario). Ciascuno di questi livelli influenza in modo differente la percezione della sicurezza e dell’efficacia del vaccino da parte delle persone e, di conseguenza, l’adesione alle campagne di vaccinazione.

Durante il diffondersi del COVID-19, al contrario di quanto è accaduto per i vaccini di altre malattie, sono intervenuti molti altri fattori che hanno aumentato l’esitazione vaccinale; tra questi vi sono la velocità insolitamente rapida dello sviluppo, l’incertezza sulle informazioni mediche e le preoccupazioni sulla sicurezza dei vaccini. Questi minano la fiducia delle persone nei confronti delle istituzioni e riducono la loro volontà di impegnarsi in comportamenti sanitari preventivi (Chou e Budenz, 2020).

Anche le credenze nelle teorie del complotto sono associate alla sfiducia nella scienza e allo scetticismo; queste sono definite come un “sottoinsieme di false credenze in cui si ritiene che la causa ultima di un evento sia dovuta a un complotto di più attori che lavorano insieme con un obiettivo chiaro in mente, spesso illegalmente e in segreto” (Swami e Furnham, 2014, p. 220). Frequentemente le credenze di cospirazione sono causate da una sfiducia nelle istituzioni pubbliche, che provoca una resistenza negli interventi medici e porta le persone a concentrarsi sul proprio benessere negando il problema e talvolta addirittura l’esistenza del Coronavirus.

Infine, l’ultimo fattore che influenza la diffidenza vaccinale è l’informazione relativa ad un vaccino; relativamente a quello per il COVID-19, sono infatti ancora sconosciuti gli effetti a lungo termine (Sherman et al., 2021). Spesso le persone scettiche usano piattaforme online per sostenere gli effetti negativi della vaccinazione: il 50% dei tweet contiene convinzioni anti-vaccino, e questo aumenta la percezione dei rischi (Hussain et al., 2018). Uno studio di Simione e colleghi del 2021 aveva l’obiettivo di esplorare la propensione al vaccino nella popolazione italiana ed esplorare la sua relazione con le variabili socio-demografiche, psicologiche, e con le credenze errate sul COVID-19. Ad un campione di 374 adulti italiani sono stati somministrati l’Inventario delle credenze sul COVID-19 e dei questionari che misuravano l’ansia e depressione (Kar et al., 2021), l’ansia da morte e malattia (Simione e Gnagnarella, 2020), la somatizzazione (Shigemura et al., 2020), la rabbia (Trnka e Lorencova, 2020), l’ideazione paranoide (Lopes et al., 2020) e i sintomi psicotici (D′Agostino et al., 2021). L’analisi fattoriale esplorativa sulle credenze sul COVID-19 ha evidenziato tre fattori quali credenza nelle teorie cospirative, sfiducia nelle informazioni mediche e sfiducia nella medicina e nella scienza, correlati positivamente con il sesso femminile, le credenze religiose, l’età, le condizioni psichiatriche e i sintomi psicologici; mentre negativamente con il livello di istruzione. Inoltre è emerso che l’ansia da morte, mediata dalla credenza nelle teorie cospirative, riduceva la propensione a vaccinarsi; la paranoia, invece, mediata dalla sfiducia nella scienza riduceva l’adesione alla vaccinazione. Infine, il disagio psicologico ha ridotto la propensione alla vaccinazione aumentando sia le convinzioni di cospirazione che la sfiducia, mentre l’ansia ha avuto l’effetto contrario, diminuendo le convinzioni e la sfiducia.

Conclusioni

In conclusione il seguente studio approfondisce il complesso modello di relazione che lega il disagio psicologico e la paranoia alla diffidenza e quindi all’adesione alle teorie del complotto, evidenziando il ruolo di tali fattori nel predire la propensione al vaccino. Comprendendo tale modello è più semplice combattere le posizioni di sfiducia, riducendo lo stigma e l’isolamento dei sostenitori della cospirazione e aumentando la fiducia nelle organizzazioni scientifiche e nei politici in tempi difficili come la pandemia da Coronavirus.

Witzelsucht: la sindrome di fare battute inappropriate

Un esempio di disturbo dell’umorismo è il Witzelsucht, che comprende due manifestazioni apparentemente paradossali: l’eccessiva produzione inappropriata di battute e l’apprezzamento alterato dell’umorismo.

 

Umorismo e Witzelsucht

 “Si conosce un uomo dal modo in cui ride”. L’aforisma di Dostoevskij ci aiuta a intuire come l’umorismo, e il modo in cui esso si esprime e si percepisce, sia un elemento utile per capire la struttura psichica di un individuo. Tuttavia, la vera difficoltà consiste nel dare una definizione univoca di questo fenomeno, poiché è complesso e multiforme e costituito da numerosi elementi. Dal punto di vista psicologico, molti concordano sul fatto che l’umorismo possa essere descritto come un tratto di personalità relativamente stabile, costituito da diverse dimensioni (Martin & Ford, 2018; Ruch & Raskin, 2008). L’umorismo può essere concettualizzato come un’abilità cognitiva (ad esempio, la capacità di apprezzare e comprendere una barzelletta), come un comportamento abituale (ad esempio, la tendenza a ridere e a far divertire gli altri), come aspetto legato all’espressione delle emozioni (ad esempio, uno stato d’animo abitualmente allegro), come attitudine (ad esempio, avere una visione positiva del mondo) e, infine, come strategia di coping (la capacità di mantenere una prospettiva umoristica di fronte alle avversità; Martin, 2001). Una visione evoluzionistica dell’umorismo ne propone, inoltre, una spiegazione neurobiologica e suggerisce che, in particolari situazioni dovute a malattie neurologiche, possano manifestarsi veri e propri “disturbi dell’umorismo” (Gervais & Wilson, 2005).

Esiste infatti una condizione che induce le persone a raccontare barzellette inappropriate, fare giochi di parole di pessimo gusto e riportare storie inutili, detta “Witzelsucht”. Dunque, non si tratta di una sindrome annoverata nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM; American Psychological Association [APA]), bensì di una manifestazione di una patologia cerebrale organica. Il termine tedesco Witzelsucht significa letteralmente scherzo (Witz) e dipendenza (Sucht), fu coniato dal neurologo tedesco Hermann Oppenheim (1880) per descrivere il comportamento attuato da alcuni suoi pazienti con tumore del lobo frontale destro, che mostravano una tendenza compulsiva a proferire battute sconvenienti ed un eccessivo uso del sarcasmo.

Sebbene umorismo e risata vengano spesso accomunati, si tratta di due processi distinti, che si riflettono anche in patologie conseguentemente diverse. La risata è normalmente un’espressione di allegria con tipici movimenti facciali e contrazioni cloniche dei muscoli respiratori. I disturbi più comuni della risata sono associati alla sindrome (o paralisi) pseudobulbare (PBA), una condizione caratterizzata dall’incapacità di controllare i muscoli del distretto facciale, che si manifesta con involontari, improvvisi e frequenti episodi di risata e/o pianto. Questa condizione può essere innescata da stimoli banali e può essere incongruente rispetto all’emozione sottostante di felicità o tristezza (Miller et al., 2011).

D’altro canto, l’umorismo è un’abilità cognitiva altamente evoluta e, come le altre funzioni cognitive, può essere compromessa da danni cerebrali. I disturbi dell’umorismo includono incapacità di produrre o apprezzare battute e dipendenza dal raccontare barzellette inappropriate (Dionigi & Gremigni, 2010). Un esempio lampante di disturbo dell’umorismo è il Witzelsucht, che comprende due manifestazioni apparentemente paradossali: l’eccessiva produzione inappropriata di battute e l’apprezzamento alterato dell’umorismo.

Precedenti ricerche nelle neuroscienze sull’umorismo, condotte principalmente con la tecnica di Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), hanno mostrato che la rete cerebrale che elabora l’umorismo coinvolge due componenti diverse: la prima è una componente cognitiva, correlata ai meccanismi di rilevamento e risoluzione delle incongruenze, che comprende il linguaggio, la conoscenza semantica e le aree celebrali connesse con la Teoria della Mente; l’altra è una componente emotiva, correlata alla sensazione di allegria o divertimento tipicamente associata a un’esperienza umoristica, che comprende le aree dopaminergiche del mesocorticolimbico, inclusa l’amigdala (Rodden, 2018). La ricerca suggerisce che l’integrazione dell’umorismo si verifica nella regione frontale laterale destra ed è compromessa quando emergono lesioni a questa regione: la lesione orbitofrontale provoca umorismo disinibito, così come anche lesioni al circuito fronto-sottocorticale possono provocare la tendenza ad effettuare battute in maniera compulsiva.

Casi clinici

La sindrome Witzelsucht è una condizione rara, tuttavia diversi articoli scientifici hanno riportato questa condizione quali, ad esempio, Granadillo & Mendez (2016), nel loro studio pubblicato sul The Journal of Neuropsychiatry and Clinical Neurosciences.

Un primo caso riporta la situazione di un uomo di 59 anni che, in seguito ad un’emorragia cerebrale, ha subito lesioni al lobo frontale destro, che sembra essere vitale per la produzione dell’umorismo e per il controllo inibitorio. Dopo tale evento l’uomo aveva iniziato a mostrare comportamenti sessuali disinibiti (come abbracciare ragazze giovani in maniera compulsiva) e commettere furti. Inoltre, il paziente riferiva una continua felicità e impellente bisogno di raccontare le sue barzellette. Era solito svegliare di notte la moglie solo per raccontarle le battute che aveva appena inventato. Quando la moglie, esasperata, gli chiese di smettere di svegliarla, egli iniziò a scrivere le sue freddure su carta, tant’è che quando fu visitato dall’équipe psichiatrica, aveva 50 pagine di battute pronte per l’uso.

 Un secondo caso riportato dagli autori (Granadillo & Mendez, 2016) spiega la condizione di un uomo di 57 anni che si è presentato ai medici a seguito di un continuo peggioramento del comportamento avvenuto nel corso dei tre anni precedenti. Il paziente riferiva di essere diventato un “burlone”, facendo sempre battute o commenti infantili e ridendo facilmente ai propri commenti. Egli riportava anche un aumento della sua disinibizione, dicendo o facendo cose inadeguate e dimostrando un’eccessiva familiarità con gli estranei (ad esempio, entrando senza permesso nella casa del vicino ed iniziando a suonare il piano). La sua storia medica passata non presentava particolari malattie, tranne che per un’appendicectomia e una tonsillectomia, e anche la sua storia familiare non mostrava indicatori interessanti. I risultati dei test neuropsicologici avevano inoltre mostrato che il paziente aveva deficit esecutivi e un ridotto recupero delle informazioni in memoria. Il resto dell’esame neurologico era normale. Questo paziente presentava cambiamenti comportamentali progressivi coerenti con la behavioral variant FTD (bvFTD). La bvFTD è caratterizzata da una precoce e pervasiva modificazione cerebrale nelle regioni che sono state considerate critiche per i processi di cognizione sociale: corteccia orbitofrontale, corteccia prefrontale ventromediale, insula e lobo temporale anteriore (Rascovsky et al., 2007). Nelle successive visite di controllo, il paziente continuò a fare commenti inappropriati comportandosi in modo abbastanza sciocco, infantile e inappropriato. Ad esempio, durante una visita in clinica, afferrò la cravatta dell’esaminatore e quella di un medico di passaggio e iniziò a confrontarle. La sua storia clinica continuò a peggiorare, fino a che non sviluppò la malattia di Parkinson.

Il paradosso del Witzelsucht

Il paradosso di chi soffre di Witzelsucht è che questi pazienti non mostrano apprezzamento se l’umorismo non viene generato da loro stessi. Anche quando sono in grado di riconoscere e comprendere una battuta rimangono impassibili, sembrando insensibili, non mostrando alcuna risposta affettiva, né ridendo. Una possibile spiegazione è che tale sindrome vada ad impattare sulla componente cognitiva coinvolta nella comprensione dell’umorismo, nota anche come teoria dell’incongruità-risoluzione (I-R). È possibile definire l’incongruità come una caratteristica che risulta nell’interazione stimolo-soggetto quando lo stimolo è difforme dal modello cognitivo di riferimento del soggetto (Forabosco, 1992), mentre per risoluzione si intende il processo di problem solving in cui il soggetto cerca di risolvere l’incongruità attraverso una regola cognitiva (Suls, 1972).

Secondo il modello della risoluzione dell’incongruità (I-R), dato uno stimolo umoristico è possibile individuare due momenti cronologicamente successivi. Il soggetto, ascoltando o leggendo la parte iniziale del testo umoristico, definita set-up, attiva delle conoscenze coerenti col testo che gli permettono di crearsi un’aspettativa sul suo prosieguo (prima fase). Procedendo nella lettura e comprensione della rimanente porzione di testo, denominata punch-line, il soggetto incontra un’incongruità rispetto alle aspettative create nella prima fase in merito alla prosecuzione del testo (seconda fase). È in questa seconda fase che egli si confronta con un processo di problem solving, in modo da trovare una regola cognitiva, semantica, logica o esperienziale, che concili le due parti di testo precedentemente percepite come incongrue.

Ad esempio, si consideri la seguente barzelletta:

Lo sai che ho appena bruciato 1000 calorie? 
Davvero?  E come hai fatto?
Ho dimenticato la torta nel forno…

Nella prima fase (incongruità) il soggetto percepisce che c’è una discrepanza tra la prima domanda e la risposta successivamente fornita, ma esiste una regola cognitiva per spiegare l’apparente incongruità data dal doppio senso del “bruciare calorie” che crea una coerenza tra la domanda e il fatto di avere lasciato la torta nel forno troppo a lungo. Se la regola non è rintracciata, lo stimolo non viene percepito come umoristico e produce perplessità (Forabosco, 1992).

I soggetti affetti da Witzelsucht non sono in grado di compiere questo passaggio cognitivo. Tuttavia, forme più semplici di umorismo che non richiedono l’integrazione di un punch-line (ad esempio, la slapstick comedy, un tipo di comicità elementare basata sulla fisicità, con azioni surreali ed esagerate quali cadute, scontri ed inseguimenti) possono comunque essere vissute come divertenti.

 

Psicologo o psicoterapeuta? – Lettera di un lettore

NOTA DELLA REDAZIONE

Pubblichiamo una lettera di un nostro lettore che preferisce rimanere anonimo. Si tratta di una riflessione sul dibattito in corso riguardante il ruolo di psicologi e psicoterapeuti. La lettera rappresenta bene una certa posizione tra quelle in campo, ma non è l’unica possibile, né rappresenta la posizione di State of Mind.

 

 La psicologia è una professione sanitaria e dunque la sua mission è la salute mentale collettiva che viene garantita soltanto se non si fa confusione tra ruoli e competenze regolate dalla legge.

Come spesso accade nelle discussioni pubbliche, il focus della questione viene ribaltato e, puntando su indignazione e sconcerto, si prova a far credere che l’oggettivo sia incredibile. E così anche nel recente dibattito sul ruolo di psicologi e psicoterapeuti, si vuol dipingere come assurdo il fatto che, come previsto e regolato dalla legge, lo psicologo possa svolgere attività di promozione e prevenzione della salute mentale ma non possa effettuare una terapia sui pazienti, competenza che invece spetta allo psicoterapeuta. Vale a dire a chi, dopo la laurea in psicologia, ha scelto di proseguire gli studi per ulteriori quattro anni e ha conseguito una specializzazione che lo ha legittimato alla cura. Equiparare le due figure significherebbe, peraltro, non riconoscere allo psicologo il fondamentale ruolo nella prevenzione del disturbo, tramite consulenza individuale o all’interno di strutture sociali (scuola, lavoro, salute).

Se si fa il paragone con la professione medica, sarebbe come indignarsi del fatto che un laureato in medicina non possa eseguire una TAC su un paziente oncologico, attività riservata agli specializzati in radiologia, o, se si preferisce, come indignarsi che un laureato in medicina non possa curare un paziente con la psicoterapia, se non è specializzato in questa disciplina. Tornando alla psicologia, lo scandalo sarebbe che chi si è specializzato in psicoterapia abbia l’esclusiva sulla terapia e che non possa accedervi, invece, chi non si è specializzato. E non pensa, chi grida allo scandalo, che tale separazione di ruoli, come suggerisce il codice deontologico di psicologi e psicoterapeuti è, al contrario, fondamentale per la tutela del paziente, priorità assoluta nella professione.

Riservare il trattamento e la cura del paziente, come stabilisce la legge, a professionisti che hanno il titolo per farlo è un’opportunità logica e sensata, oltre che di indubbio valore meritocratico: si tratta di studenti che, dopo aver conseguito la laurea in Psicologia ed essersi iscritti all’Ordine degli psicologi, si sono impegnati in una ulteriore formazione quadriennale riconosciuta dal MIUR, per acquisire capacità di valutazione differenziale, disegno e scelta di intervento sul paziente. Ma al di là della seppur ingiusta e ingiustificata equiparazione dei ruoli interni all’ordine, in ballo c’è qualcosa di molto più grave: a rimetterci sarebbe la persona in condizioni di fragilità, la salute della quale dovrebbe essere la mission dell’intera professione. Mantenere distinzione tra le due figure professionali significa farsi carico della responsabilità alla quale la deontologia richiama: il dovere di assicurarsi che i pazienti non siano affidati indistintamente a professionisti specializzati e non specializzati e che, in tal modo, perdano le garanzie di ricevere un trattamento di qualità, idoneo al proprio disagio.

Non è un caso che nel Servizio Sanitario Nazionale, per curare pazienti con psicopatologie, si assumano psicoterapeuti, vale a dire psicologi specializzati e quindi legittimati all’esercizio della psicoterapia, e che non ci sia invece traccia di psicologi che eroghino “terapia psicologica”. Da notare, per inciso, che il termine “terapia psicologica” non compare proprio nella legge 56/89, il cui articolo 3, invece, recita testualmente: “L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia”. Tutto, al contrario, rischia di diventare psicoterapia, a prescindere dal possesso degli strumenti clinici per il trattamento dei disturbi psicopatologici. Strumenti che si acquisiscono solo attraverso una formazione specifica quale rappresenta ad oggi la specializzazione in psicoterapia.

Sono sempre più diffuse iniziative che invitano le persone che soffrono di disturbi psicopatologici a rivolgersi a psicologi, senza nominare l’esistenza di psicoterapeuti e della psicoterapia. Tali iniziative generano una preoccupante confusione nell’opinione pubblica tra il ruolo di psicologo e il ruolo di psicoterapeuta, e certamente non contribuiscono a fare chiarezza sulle competenze dell’una e dell’altra figura professionale. Tutto ciò rischia di tradursi in un approccio sbagliato alla problematica del singolo oltre che in un dispendio economico, da parte della persona o dello Stato, non giustificato da un’attenzione adeguata alla salute del paziente.

Terapie psicologiche a distanza e realtà virtuali

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

 

Introduzione

 Quella che Freud aveva chiamato una talking cure, una cura di parole, sta radicalmente mutando in seguito all’incremento esponenziale dei nuovi sistemi digitali.

Il vorticoso sviluppo delle applicazioni informatiche e la pandemia causata dal diffondersi del Covid-19 hanno avuto un impatto sulla professione dello psicologo, favorendo una migrazione dal setting faccia-a-faccia alla comunicazione a distanza, un cambiamento che per il futuro si prospetta sempre più radicale grazie agli strumenti di virtual reality.

È un percorso che nasce da lontano. Già negli anni Cinquanta, lo psichiatra e psicoanalista statunitense Leon Joseph Saul si era battuto per utilizzare il telefono nella pratica clinica, ma l’idea era stata accolta dallo scetticismo di chi era abituato al tradizionale spazio fisico e relazionale: una stanza tranquilla adeguatamente illuminata, una scrivania, una poltrona, un comodo lettino per il paziente.

La novità dei nostri tempi è costituita dal trattamento tramite videochiamata offerto da applicazioni quali Zoom e Skype. Questi sistemi offrono la possibilità di una comunicazione completa: audio, video e all’occorrenza testo.

Vantaggi e svantaggi della psicoterapia online

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è la possibilità data a un paziente di scegliersi il proprio terapeuta senza farsi condizionare dalla distanza geografica. Con un semplice clic, l’abitante di uno sperduto villaggio di campagna può entrare virtualmente nello studio di uno psicologo del centro di Milano. E una persona disabile che non è in grado di raggiungere autonomamente lo psicologo può farsi seguire a distanza.

Altri vantaggi sono: l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

Tra gli svantaggi, si possono annoverare: la carenza di privacy per il paziente che non ha uno spazio isolato dove mettersi a conversare senza essere spiato o interrotto; la mancanza di un setting chiuso, con la porta che delimita simbolicamente lo spazio dell’incontro; la difficoltà del terapeuta di rispondere rapidamente ed efficacemente quando si verifica una crisi; le adeguate competenze digitali necessarie ad una gestione del rapporto on line.

Psicoterapia online e realtà virtuale

La richiesta di prestazioni psicologiche online è destinata ad aumentare con il tempo, in parallelo alla crescita di confidenza con le nuove tecnologie di comunicazione e la perdita di importanza del territorio fisico. Probabilmente, tra pochi anni assisteremo alla crescita di tecnologie basate sulla realtà virtuale. Gli spazi simulati possono rappresentare un contesto di interazione sociale che permette a un paziente di sperimentare i propri comportamenti disfunzionali come se li stesse provando nella realtà, mentre invece si trova in uno studio clinico. Evidenze scientifiche comprovano l’efficacia dei sistemi di realtà virtuale per indurre reazioni comportamentali, cognitive ed emozionali del tutto simili alle situazioni reali equivalenti.

 Gli ambienti di realtà virtuale, come quelli che prevedono un display montato sulla testa, permettono l’introduzione della profondità stereoscopica che crea l’illusione di vedere oggetti in uno spazio reale. Ciò offre una serie di vantaggi al ricercatore: maggiore controllo sulla presentazione dello stimolo lungo un piano tridimensionale, varietà nelle opzioni di risposta e validità ecologica potenzialmente aumentata. È possibile che il paziente possa interagire con avatar virtuali all’interno di scenari atti a studiare il comportamento sociale. I movimenti nello spazio virtuale e i relativi cambiamenti percettivi sono trattati dal cervello più o meno allo stesso modo di quelli nello spazio reale equivalente. Si potrà misurare un comportamento di aiuto senza doversi fidare di un paziente che riferisce verbalmente cosa avrebbe fatto ipoteticamente in una data situazione.

Un altro ambito di applicazione è la terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’ansia, in quanto la realtà virtuale permette al paziente di affrontare un’esposizione all’oggetto o alla situazione temuta.

Sono solo due dei tanti esempi che dimostrano come la realtà virtuale stia iniziando a svolgere un ruolo importante nella psicologia clinica.

Agli psicologi del futuro sarà richiesta una particolare competenza nell’uso di dispositivi hardware e software che collaborano per creare uno spazio virtuale all’interno del quale interagire con il paziente.

La mente distopica (2022) di Nicola Ghezzani – Recensione del libro

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”.

 

 I fenomeni dissociativi consistono in condizioni caratterizzate dall’esperienza di sintomi neurologici insoliti e da cambiamenti relativi alla consapevolezza ed al senso di identità (Ganslev et al., 2020). Tra tali fenomeni, spicca il disturbo di Depersonalizzazione/Derealizzazione: la prima consiste in una sensazione di distacco dal proprio corpo e dai propri pensieri, emozioni e sensazioni. La Derealizzazione, invece, si manifesta mediante il senso di irrealtà ad estraneità rispetto all’ambiente circostante (Spiegel, 2021).

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”; la prima è caratterizzata dalla tendenza a cogliere i difetti del mondo e ad opporsi ad essi, in virtù di una sensibilità diversa rispetto al resto della popolazione (Ghezzani, 2022). L’angoscia esistenziale, invece, porta ad interrogarsi su argomenti spesso dati per scontati dalla maggior parte delle persone, quali il senso della propria esistenza, della propria essenza e, addirittura, delle proprie relazioni (Ghezzani, 2022). Una prima panoramica su tali caratteristiche permette di intuire l’eccezionale complessità delle sopra-citate condizioni dissociative che, pur essendo state identificate alla fine dell’Ottocento (Coons, 1996) e pur interessando fino all’1,9% della popolazione generale (Yang et al., 2022), risultano tutt’ora di difficile comprensione, persino per gli stessi professionisti della salute mentale, come riferito dallo stesso Nicola Ghezzani (2022), autore dell’opera qui recensita, nonché psicoterapeuta, presidente della SIPSID (Società Italiana di Psicologia Dialettica) e fondatore dell’associazione culturale ASIP (Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni Psichiche).

 Mediante l’opera da lui realizzata, “La mente distopica. Derealizzazione, depersonalizzazione e angoscia esistenziale”, nella quale riporta in modo estremamente coinvolgente la propria esperienza con la Derealizzazione, l’autore permette di superare la nebulosità relativa alla comprensione di tali particolari condizioni cliniche; un aspetto che contribuisce a rendere il volume particolarmente utile e interessante consiste nell’alternarsi di descrizioni ed esempi pratici –spesso resi più semplici dai riferimenti a situazioni e vissuti comuni ad ognuno (come la tendenza a vagare con la mente mentre si guida un’auto)– con nozioni teoriche e strategie/strumenti di intervento (dalla “oggettivizzazione del sintomo”, necessaria per evitare interpretazioni drammatiche delle manifestazioni dissociative, al “cambiamento di contesto”). Il risultato è una lettura scorrevole ed esaustiva, sicuramente interessante per molti, anche se indirizzata prevalentemente ad un pubblico di specialisti e di pazienti, che accompagna il lettore nella comprensione di una manifestazione psicopatologica spesso trascurata, in un continuo e sapiente gioco di integrazione tra la puntualità delle nozioni scientifiche, i vissuti della persona-paziente e i significati e conflitti spesso celati dai sintomi.

Il disprezzo

Il disprezzo sembra avere un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo. È stato osservato che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone (Roseman, 2018).

 

Introduzione al disprezzo

 Nonostante molti non conoscano con esattezza la definizione della parola disprezzo, è sicuramente una delle emozioni più facilmente riconoscibili in gran parte delle culture, per via delle modalità espressive (vocali, facciali e comportamentali) con cui la si manifesta, o per via della facilità nel riconoscere la situazione in cui occorre (Roseman, 2018). Infatti, nonostante sia oggetto di dibattito la sua appartenenza alla classe delle emozioni primarie, è indubbio che il disprezzo sia presente nella vita di tutti i giorni, e che accompagni l’essere umano fin dalla nascita. Può essere esperito sia nei confronti di persone che di oggetti.

Il disprezzo si manifesta con un atteggiamento negativo verso qualcuno o qualcosa che si ritiene inferiore, inutile o non meritevole di rispetto (Roseman, 2018). Come emozione, il disprezzo ha un insieme di componenti:

  • la componente fenomenologica, ovvero l’insieme di pensieri che hanno come contenuto l’inutilità della persona (o oggetto) e quanto essa sia rivoltante;
  • la componente fisiologica ed espressiva, che consiste nel restringimento delle labbra, con un lieve sollevamento dell’angolo in alto delle labbra, solamente da una parte del viso, spesso accompagnandosi a uno sguardo altezzoso;
  • la componente comportamentale, che si manifesta tramite frasi che hanno lo scopo di umiliare l’individuo o mancargli di rispetto, oppure trattarlo come inferiore.

Il disprezzo ha inoltre un obiettivo, ovvero una funzione, ed è quella di trasmettere il fatto di non voler avere nulla a che fare con l’oggetto (o stimolo) dell’emozione, e di avvisare le altre persone che quella persona è immeritevole e deve essere esclusa dal gruppo (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi avere anche un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo (Roseman, 2018). È stato osservato (Roseman, 2018) che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone.

Sono stati osservati due tipi di disprezzo (Roseman, 2018). La persona che prova disprezzo spesso ha un atteggiamento indifferente verso il bersaglio e le sue emozioni, e ciò serve a trasmettere che il target è insignificante e indegno di attenzione. Questo tipo di disprezzo è definito passivo. Il disprezzo attivo invece è l’insieme di comportamenti che l’individuo attua per far capire ad altri che il bersaglio è indegno e immeritevole di avere relazioni con gli altri.

Il disprezzo in diversi contesti

È possibile osservare il disprezzo, e le sue conseguenze, in diversi contesti (Roseman, 2018).

Un esempio potrebbe essere a scuola, dove il disprezzo verso un determinato gruppo etnico può portare a denigrazione, minacce, provocazioni, bullismo, violenza ed esclusione (Roseman, 2018).

 Un altro campo dove è possibile ritrovare il disprezzo è nelle relazioni sentimentali (Roseman, 2018). Katz e Gottman (1993) hanno osservato come frasi con contenuto sprezzante rivolte verso il partner fossero forti predittori di insoddisfazione relazionale e divorzio (Katz e Gottman, 1993).

Il disprezzo si può inoltre ritrovare nel contesto lavorativo, dove è possibile che il datore di lavoro provi disprezzo verso i dipendenti, o che siano i dipendenti stessi a provare disprezzo verso il datore di lavoro; inoltre, è possibile che il disprezzo sia anche diretto verso i clienti (Pelzer, 2005).

Il disprezzo si può anche osservare pure in campo politico, dove è facile che gli individui provino questa emozione verso coloro che votano o sostengono un partito politico opposto al proprio (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi un’emozione con una funzione sociale specifica, ovvero segnalare all’altro che l’oggetto di tale emozione deve essere allontanato dal gruppo (Roseman, 2020). Tuttavia, il disprezzo, se non viene riconosciuto e adeguatamente gestito, può avere ripercussioni negative nella società, come violenza, pregiudizio, razzismo e guerre  (Roseman, 2020).

Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

Dopo aver pubblicato, nello scorso numero, un articolo dedicato al tema della Qualità di Vita nelle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, proponiamo oggi un approfondimento sul tema in riferimento all’ambito più ampio delle disabilità.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 4) Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

 

Il concetto di Qualità di Vita (QdV) ha origini molto antiche, radicate nell’idea di benessere e felicità già argomentate da Platone e Aristotele; ma la sua importanza è cresciuta rapidamente negli ultimi anni, diventando sempre più un focus di attenzione nel campo della ricerca e della pratica in ambito educativo, sanitario, dei servizi sociali e della famiglia (Schalock e Verdugo, 2002). La crescita dell’interesse verso il costrutto di Qualità di Vita nell’ambito delle disabilità è sicuramente in gran parte dovuta alla de-istituzionalizzazione delle persone con disabilità (Verdugo et al., 2005) e alla pubblicazione della Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità (Organizzazione delle Nazioni Unite [ONU], 1975).

Il campo della Disabilità Intellettiva (DI) è fortemente influenzato dal costrutto, ovvero il concetto, di Qualità di Vita (Morisse et al., 2013) e l’importanza di misurarla in questo ambito ha a che fare con due principali ragioni: la prima è che tale costrutto permette una visione integra e multidimensionale della vita di una persona, consentendo di identificare e mettere in atto degli interventi personalizzati senza cadere nel riduzionismo; la seconda ragione, di conseguenza, si riferisce all’orientamento delle azioni attuate dai servizi pubblici e dai professionisti, basato su un importante ruolo attribuito alla persona in quanto beneficiaria di servizi, la cui esperienza deve sempre essere tenuta in considerazione (Verdugo et al., 2005).

Negli ultimi anni si è diffusa, pertanto, una maggiore attenzione agli esiti degli interventi di sostegno e di (ri)abilitazione per persone con disabilità, con un superamento della logica di guarigione, a favore di un’ottica maggiormente orientata al miglioramento della Qualità di Vita e dell’inclusione. In questa prospettiva, la Qualità di Vita rappresenta un obiettivo da conseguire per le persone con disabilità, tanto quanto per quelle senza, così come un indice della qualità delle azioni di sostegno attuate (Coscarelli e Balboni, 2014).

I modelli di QdV

Prima di poter applicare la Qualità di Vita, è però necessario giungere a una concezione condivisa e operativa di tale costrutto, altrimenti si corrono due rischi speculari: da una parte quello di ridurre il costrutto di QdV a una dimensione specifica e, di conseguenza, scarsamente rappresentativa della sua complessità; dall’altro lato, il pericolo è quello di farlo diventare talmente onnicomprensivo e variegato da risultare ripetitivo e difficilmente misurabile (Cottini, 2009).

A tal proposito, sono stati sviluppati vari modelli di Qualità di Vita e, sebbene non vi sia ancora un totale consenso sulle sue componenti (chiamate domini) che la definiscono, vi è accordo sul fatto che si tratti di un costrutto multidimensionale, che si manifesta con indicatori di tipo sia oggettivo che soggettivo, fortemente influenzati da fattori personali e ambientali (Müller e Cannon, 2014). I modelli più rilevanti, citati da Coscarelli e Balboni (2014) in merito alla QdV nel contesto della DI, sono stati elaborati da Felce e Perry (1995), Cummins (2000) e Schalock e Verdugo (2002). Tra questi, il modello di Schalock e Verdugo del (2002) è quello che si è dimostrato essere più valido tra le differenti culture, nonché il principale riferimento teorico utilizzato nell’ambito della DI (Coscarelli e Balboni, 2014).

Il modello di Schalock e Verdugo

Il modello di Qualità di Vita elaborato da Schalock e Verdugo (2002) ha subìto vari cambiamenti nel corso del tempo, integrando sempre più accorgimenti riferiti alla validità sia etica (universale) che emica (culturale) di tale costrutto (Coscarelli e Balboni, 2014), fino a raggiungere l’attuale strutturazione in 8 dimensioni.

Nel 2002 un panel internazionale di esperti nel campo della Qualità di Vita ha pubblicato una sintesi dei princìpi riguardanti il concetto di QdV sui quali era emerso un certo consenso. Tali princìpi evidenziano una certa sensibilità alle caratteristiche soggettive, alla persona in quanto tale (più che alla sua disabilità), al suo punto di vista e all’uguaglianza dei fattori coinvolti nel determinare la Qualità di Vita di una persona con disabilità rispetto a una senza disabilità. Tra questi, inoltre, emerge l’importanza di considerare i fattori culturali e ambientali e la variabilità che può subire la QdV nel corso dell’intero ciclo di vita (Verdugo et al., 2005).

La definizione di Schalock e colleghi (2010) di Qualità di Vita è quella di un fenomeno multidimensionale composto da domini centrali che sono influenzati da caratteristiche personali e ambientali. Tali domini sono gli stessi per tutte le persone, anche se possono variare in valore e importanza. Questi sono inoltre basati su indicatori sensibili alla cultura.

Un buon livello di Qualità di Vita è il risultato di una buona corrispondenza tra i desideri e i bisogni di una persona, e il loro soddisfacimento. Ciò è supportato dai dati, i quali suggeriscono che riducendo la discrepanza esistente tra le risorse individuali e le richieste ambientali, aumenta la QdV di quella persona (Schalock, 2000).

Pertanto, il concetto di Qualità di Vita secondo il modello di Schalock e Verdugo (2002) rappresenta un costrutto multidimensionale latente, sotto al quale sono stati concettualizzati 8 domini che concorrono a spiegarlo, a loro volta definiti da indicatori che ne aiutano l’operazionalizzazione e quindi la misurazione in quanto rappresentano dei comportamenti, delle percezioni e delle condizioni connesse alla QdV (Schalock et al., 2010; Verdugo et al., 2005; Morisse et al., 2013, vedi Tabella 1). Tale struttura si è dimostrata applicabile sia alle diverse culture, che alle varie categorie di partecipanti: individui con Disabilità Intellettiva, familiari e professionisti. È stato in seguito aggiunto un altro livello di strutturazione del modello, costituito da fattori che raccolgono i vari domini in 3 categorie: Indipendenza, Partecipazione sociale e Benessere (Coscarelli e Balboni, 2014).

Qualità di vita - tabella

Tabella 1. Modello concettuale della QdV: fattori, domini e indicatori (adattata da Schalock et al., 2008).

La questione etica

Schalock e colleghi (2002) si sono occupati anche della questione etica relativa alla misurazione della Qualità di Vita, affermando che tale costrutto è importante per tutti gli individui e dovrebbe essere considerato allo stesso modo per persone con o senza disabilità, in quanto esse hanno lo stesso diritto di godere di una vita di qualità. In altre parole, il valore della vita è lo stesso, che la persona sia abile, o disabile. A tal fine, l’applicazione del concetto di QdV per persone con DI dovrebbe basarsi su 5 princìpi (Schalock et al., 2002):

  • L’obiettivo primario è aumentare il benessere individuale;
  • Devono essere tenuti in considerazione il patrimonio culturale ed etnico dela persona;
  • Lo scopo di qualsiasi programma orientato alla QdV dovrebbe essere quello di produrre dei cambiamenti a livello personale, istituzionale, comunitario e nazionale;
  • L’applicazione della QdV dovrebbe aumentare il grado di controllo e opportunità personali;
  • La QdV dovrebbe rivestire un ruolo preponderante nella raccolta degli esiti.

Nel tempo, quindi, la Qualità di Vita è diventata un agente di cambiamento sociale, in cui risulta centrale la predisposizione di sostegni individualizzati, adattati cioè ai bisogni e alle preferenze della persona. È necessario, inoltre, che tali sostegni vengano attuati all’interno di ambienti inclusivi (Schalock et al., 2008). La forza dell’inclusione sta nell’inserimento al 100% della persona con disabilità all’interno del sistema sociale, adattando tale sistema a ogni individuo con o senza disabilità tramite l’eliminazione delle barriere alla piena partecipazione di tutti come ugualmente unici e valorizzati. Ciò non avviene in un’ottica di integrazione, la quale si basa invece su un adattamento al sistema, spesso tramite la creazione di gruppi che, per quanto siano inseriti all’interno del sistema sociale, sono comunque separati da esso, segregati (Eid, 2018).

Misurazione della Qualità di Vita

La misurazione della Qualità di Vita si basa innanzitutto sulla valutazione degli indicatori, i quali rappresentano gli elementi da quantificare al fine di ottenere una misurazione dei domini a cui si riferiscono (Coscarelli e Balboni, 2014). Gli indicatori hanno una connotazione ecologica, ossia devono essere considerati in rapporto al contesto sociale e alla quotidianità della persona; inoltre sono sensibili all’età del soggetto e alle sue condizioni (ad esempio, sviluppo tipico, disturbo mentale, ecc; Cottini, 2009).

La letteratura si mostra discordante sulle modalità di misurazione degli indicatori di Qualità di Vita, i quali possono essere classificati in soggettivi e oggettivi, e sull’utilità di disporre di entrambe le tipologie di risultati. In generale, vengono considerati soggettivi gli indicatori che hanno a che fare con la percezione di (a) soddisfazione per la vita rispetto a standard personali e (b) felicità, in termini di stati affettivi positivi (Cummins, 2000). Vengono invece considerati come oggettivi gli indicatori relativi alle circostanze di vita obiettive, indipendenti quindi dalle percezioni di benessere personali (per esempio, reddito, livello di istruzione). Pertanto, questi ultimi vengono solitamente valutati richiedendo al soggetto di quantificare esperienze e condizioni di vita relative ai domini della Qualità di Vita (es. “disponi di una casa / appartamento / stanza che puoi chiudere a chiave?”: dominio del benessere materiale; Cummins, 2000, p. 10). Gli indicatori soggettivi invece vengono misurati richiedendo di valutare il livello di soddisfazione percepito relativamente ai vari aspetti di vita considerati (es. “Sei importante per la tua famiglia?”: dominio delle relazioni interpersonali; ibidem). Pertanto, la qualità oggettiva o soggettiva degli indicatori rispecchia il contenuto delle domande, non la natura della valutazione che, di per sé, è sempre soggettiva, né la fonte delle informazioni (auto- o etero-valutativa; Hatton e Ager, 2002).

Diverse ricerche hanno mostrato una correlazione medio-bassa tra gli indicatori soggettivi e quelli oggettivi, suggerendo l’utilità di ricorrere a entrambi i tipi di misurazione (Müller e Cannon, 2014). Risulta altresì importante attribuire alle due categorie di indicatori pesi differenti in base agli scopi della misurazione (Verdugo et al., 2005). Per esempio, gli indicatori soggettivi risultano utili nel caso in cui si voglia indagare il livello di soddisfazione di persone con disabilità intellettiva (DI) in confronto a un’altra popolazione; nell’ipotesi in cui i punteggi siano simili, il livello di soddisfazione risulta normativo; altrimenti, conviene indagare quali fattori personali o ambientali possano causare queste differenze. Nel caso in cui si vogliano valutare gli effetti degli interventi e le condizioni ambientali, risulta invece più pertinente il ricorso a indicatori di tipo oggettivo (Verdugo et al., 2005).

Pertanto, i metodi di raccolta dati migliori comprendono questionari e interviste che tengano conto, in maniera indipendente, di entrambe le tipologie di indicatori e che siano progettate per essere completate da utenti con DI o, eventualmente, da informatori che conoscono la persona (detti proxy; Hatton e Ager, 2002).

 

L’ascolto attivo

Dal punto di vista clinico, l’ascolto attivo prevede tre elementi essenziali: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati. 

 

If we could all just learn to listen, everything
else would fall into place.
Listening is the key to being patient centred. 
(Ian McWhinney)

 Durante le ultime settimane a contatto con alcuni pazienti mi sono sentita particolarmente in sintonia con loro da un punto di vista emotivo e mi sono resa conto, dal cambiamento da loro mostrato nei miei confronti a fine seduta, di come, in assenza di specifiche competenze terapeutiche pratiche ancora da sviluppare, il primo passo verso l’altro è la messa in atto di un’abilità difficile da insegnare e da apprendere: l’ascolto attivo. Probabilmente chiunque conosce il significato della parola “ascolto”, definito, cioè, come “processo di ricezione, costruzione di significato e di risposta a messaggi verbali e/o non verbali” e non soltanto mera percezione di un suono attraverso l’udito. Ma chi realmente pratica l’ascolto attivo verso gli altri? Esso è come se si riferisse ad un livello successivo, più profondo, che rimanda ad un’apertura, ad una predisposizione mentale verso l’altro e all’essere emotivamente disposti a condividere il vissuto dell’altro, sia esso di sofferenza o di gioia.

Le teorie inerenti all’ascolto attivo hanno radici nella concettualizzazione dell’ascolto empatico di Rogers (1951), il quale definì l’ascolto empatico come incondizionata accettazione e riflessione imparziale dell’esperienza dell’altro. Dal punto di vista clinico, la maggior parte dei pareri di esperti condivide l’inclusione di tre elementi essenziali nell’ascolto attivo: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati.

Dunque, l’ascolto attivo estende il ruolo terapeutico oltre la semplice raccolta di informazioni e non rimanda necessariamente a lunghe sessioni trascorse esclusivamente ad ascoltare l’altro; finché non si è in grado di dimostrare uno spirito che rispetti genuinamente il valore potenziale dell’individuo, che consideri i suoi punti di vista, non possiamo considerarci ascoltatori efficaci. Secondo Rogers (1957) l’empatia del terapeuta e la capacità di comunicare tale empatia al paziente sono tra le condizioni iniziali necessarie per l’instaurazione di una relazione, ossia per la costruzione dell’alleanza terapeutica, ed il conseguente raggiungimento del cambiamento terapeutico.

In generale, l’ascolto attivo implica la capacità percepita di instaurare interazioni gratificanti. A tal proposito, la letteratura su tale ambito identifica la comprensione, l’esperienza dell’affetto positivo e la costruzione di relazioni soddisfacenti e significative come prodotti del processo di ascolto attivo, sottolineando che le persone preferiscono interazioni che forniscono ricompense reali o percepite, che a loro volta guidano l’interesse delle persone verso interazioni future.

L‘ascolto attivo è, dunque, una capacità comunicativa specifica che consiste nella libera attenzione e che Knights definisce come: “… mettere tutta la propria attenzione e consapevolezza a disposizione di un’altra persona, ascoltare con interesse e apprezzare senza interrompere”. Questo sembra essere un impegno raro e prezioso, poiché la maggior parte delle discussioni implica la competizione per uno spazio in cui parlare. L’ascolto attivo richiede un’intensa concentrazione e attenzione a tutto ciò che la persona sta trasmettendo, sia verbalmente che non verbalmente. Esso richiede che l’ascoltatore si svuoti si preoccupazioni personali, distrazioni e preconcetti.

 Ancora, diceva Carl Rogers nel 1980: “[…] ascoltiamo non solo con le nostre orecchie, ma anche con i nostri occhi, mente, cuore e immaginazione. Ascoltiamo ciò che sta accadendo dentro di noi, così come ciò che sta accadendo nella persona che stiamo ascoltando. Ascoltiamo le parole dell’altro, ma ascoltiamo anche i messaggi e i significati sepolti nelle parole. Ascoltiamo la voce, l’aspetto e il linguaggio del corpo dell’altro… […] senza aggiungere, sottrarre o modificare.” Dare l’opportunità di seguire un filo di pensiero senza interruzioni è sia una convalida dei processi di pensiero (sebbene non necessariamente delle opinioni stesse), sia dell’individuo. Sebbene l’ascoltatore non introduca le proprie opinioni o soluzioni, è tutt’altro che passivo.

Bolton, inoltre, cita nel suo libro “Competenze delle persone” lo psicologo Clark Moustakas: “Etichette e classificazioni che ostacolano l’ascolto attivo fanno sembrare che conosciamo l’altro, quando in realtà abbiamo catturato l’ombra e non la sostanza. Poiché siamo convinti di conoscere noi stessi e gli altri… [noi] non vediamo più cosa sta succedendo davanti a noi e in noi, e, non sapendo di non sapere, non facciamo alcuno sforzo per essere in contatto con il reale”.

È utile, in conclusione, realizzare una riflessione sull’aspetto dell’ascolto, così scontato e sottovalutato ma allo stesso tempo così poco praticato ed essenziale nella definizione della qualità delle relazioni umane.

You can learn to be a better listener, but
learning it is not like learning a skill that is
added to what we know. It is a peeling away
of things that interfere with listening, our
preoccupations, our fears, of how we might
respond to what we hear.
(Ian McWhinney).

 

Sigmund Freud: i principi fondamentali della terapia psicoanalitica

Sigmund Freud (1856 – 1939) fu un neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco, nonché fondatore della psicoanalisi e autore di un’importante teoria dello sviluppo affettivo, cioè la teoria dello sviluppo psicosessuale (o libidico).

 

I principi fondamentali della teoria psicoanalitica freudiana

Freud sosteneva che la mente umana fosse composta da tre istanze fondamentali: l’Io, l’Es e il Super Io.

L’Io è la struttura più razionale, che rende realistiche e accettabili le spinte pulsionali dell’Es, opera secondo un principio di realtà, si adatta all’ambiente sociale, e contiene delle funzioni regolatrici (le difese) tramite cui gestisce istinti e affetti e tiene sotto controllo le pulsioni dell’Es.

L’Es è l’istanza psichica più istintiva e primitiva, il cui obiettivo è la gratificazione pulsionale, la scarica della libido, e l’evitamento del dolore; opera secondo il principio di piacere.

Il Super Io, infine, è il nostro senso morale, comprende i concetti di giusto e sbagliato, di buono e cattivo, proprio come ci vengono insegnati dai genitori o da figure educative significative. Il Super io limita e inibisce le pulsioni dell’Es e spinge l’individuo a perseguire elevati standard morali. Il Super Io si struttura al superamento del Complesso di Edipo/Elettra, quando il bambino interiorizza norme sociali, valori morali, incorpora modelli di condotta genitoriali e assimila codici etici e deontologici. Il Super Io è anche la fonte del senso di colpa e della vergogna, dal momento che comprende due sottosistemi: la coscienza, che punisce il bambino quando mette in atto comportamenti disapprovati dai genitori, e l’ideale dell’Io, che premia il bambino quando mette in atto comportamenti moralmente accettabili, portandolo ad esperire orgoglio.

Secondo Freud, le mente è regolata dal principio di piacere: è esso che guida le azioni umane e che orienta le nostre motivazioni e le nostre condotte. La pulsione per Freud è un processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica o fattore di motricità) che porta l’individuo a protendere verso una meta. La pulsione si compone di quattro dimensioni:

  • una fonte, che è il segnale corporeo che indica un bisogno.
  • un obiettivo, cioè come soddisfare il bisogno.
  • un impeto, che è la dimensione principale delle pulsioni, cioè la spinta che motiva l’individuo all’azione.
  • un oggetto, cioè il mezzo attraverso cui il bisogno viene soddisfatto.

La teoria di Freud sullo sviluppo psicosessuale sottolinea il fatto che la motivazione primaria del comportamento umano sia di natura sessuale (la ricerca di una gratificazione pulsionale) e che lo sviluppo individuale sia un processo largamente inconscio, influenzato dalla nostra sfera emotiva e dalle precoci relazioni oggettuali con figure significative della prima infanzia. In particolar modo, secondo Freud, la personalità è un costrutto dinamico, che evolve modulandosi lungo le cinque fasi che caratterizzano il processo di sviluppo affettivo. Ciascuna di queste cinque fasi – la fase orale, la fase anale, la fase fallica, la fase di latenza e la fase genitale – è caratterizzata da un centro di piacere, rappresentato da una zona erogena, e da un conflitto.

Le fasi dello sviluppo psicosessuale secondo Freud

Nello specifico, il bambino alla nascita è narcisista, cioè agisce unicamente in vista di una gratificazione pulsionale dei propri istinti vitali. Freud definiva il bambino un perverso polimorfo: man mano che cresce, il bambino continua a cercare il piacere sessuale senza uno scopo riproduttivo (perverso), ma comincia a spostare il suo piacere convogliandolo su diverse zone erogene, cioè parti del corpo marcatamente sensibili, al cui contatto il bambino avverte una forte scarica libidica e sensazioni molto piacevoli. Durante le cinque fasi dello sviluppo psicosessuale il bambino è chiamato a risolvere dei conflitti di carattere affettivo, conflitti che vedono contrapposte le esigenze pulsionali e istintuali del bambino (principio di piacere) e le regole e le norme imposte dalla società (principio di realtà): il conflitto, pertanto, è il punto nevralgico della vita affettiva ed emotiva secondo la teoria psicoanalitica di Freud. Se il bambino riesce a superare i conflitti che caratterizzano le varie fasi dello sviluppo, allora può raggiungere un buon livello di maturazione psicobiologica e un equilibrio armonico tra le istanze della sua mente e sviluppare un funzionamento personologico sano. A seconda che le sue pulsioni istintuali siano state esageratamente appagate o frustrate, cioè insoddisfatte, durante il suo percorso di sviluppo evolutivo il bambino può manifestare fissazioni o regressioni. La fissazione avviene quando il bambino, a causa di una frustrazione o di una sovrabbondanza della libido, si blocca ad una fase dello sviluppo psicosessuale, trascinando con sé in epoche successive i suoi desideri libidici. La fissazione spesso porta il bambino a manifestare in età adulta determinati tratti personologici particolarmente accentuati. La regressione, invece, è un meccanismo di difesa, per cui il bambino ritorna a fasi dello sviluppo precedente: quando subentra una regressione, riemergono specifiche esigenze dell’Es e si modifica anche il pensiero del bambino.

Fase orale (nascita-18 mesi): è la prima fase dello sviluppo psicosessuale secondo Freud. In questa fase il bambino stringe la sua primordiale relazione affettiva, cioè la relazione oggettuale con la madre, che funge da prototipo per tutte le future relazioni amorose del bambino. Il legame di attaccamento tra la madre e il bambino, secondo lo psicoanalista, era favorito dal bisogno soddisfatto di cibo: la madre, attraverso il suo seno, gratifica il bambino, appagando il suo bisogno nutritivo. La bocca è la principale zona erogena, nonché fonte di piacere, tramite cui il bambino si relaziona con la madre attraverso il contatto fisico; il seno materno rappresenta l’oggetto di gratificazione pulsionale, divoramento e soddisfacimento sadico orale. Questo stadio termina tipicamente con lo svezzamento, tuttavia una scarsa gratificazione da parte della madre (ad esempio un ritardo nell’esposizione del seno o un’interruzione brusca dell’allattamento) possono frustrare i bisogni libidici del bambino e portarlo a sviluppare una fissazione. La fissazione si traduce in un peculiare pattern personologico, come il pessimismo o angoscia costante o una continuativa brama di gratificazione orale in epoche successive; una fissazione può configurarsi anche come prodotto di un’eccessiva gratificazione orale: in tal caso il bambino farà fatica ad investire altrove la sua libido. Pertanto è importante che il genitore sia in grado di offrire al bambino la giusta dose di gratificazione.

Fase anale (18 mesi-3 anni): in questa seconda fase il centro del piacere è il controllo sfinterico. L’atto di trattenere o espellere le feci è per il bambino metafora di autonomia, indipendenza e controllo sul mondo esterno. La defecazione è un atto su cui il bambino può esercitare un suo controllo, in quanto egli può scegliere se trattenere o rilasciare. In particolar modo, nel momento in cui avverte il bisogno fisiologico di defecare, il bambino può alleviare la tensione che ne deriva mediante la defecazione, procurando a se stesso piacere. Peculiarità di questa fase sono l’ambivalenza dei sentimenti (se da un lato le feci sono qualcosa di buono, cioè da trattenere, dall’altro è sgradevole, e quindi da espellere) e i primi conflitti con l’autorità genitoriale, che sembra pretendere che il bambino impari al più presto ad esercitare un controllo responsabile e consapevole dei propri sfinteri. Il compito educativo dei genitori è molto delicato in questa fase, in quanto un addestramento genitoriale troppo rigido può frustrare i desideri infantili e portare a delle fissazioni istintuali: secondo Freud il bambino che defeca in luoghi e tempi inappropriati, sfuggendo allo sguardo del genitore, potrebbe diventare un adulto irresponsabile, disordinato e poco pratico col denaro, mentre il bambino che assimila in fretta la disciplina genitoriale può diventare stitico e quindi manifestare da adulto tratti di ansietà, eccessivo perfezionismo, ordine, parsimonia.

Fase fallica (3-6 anni): rappresenta la fase dello sviluppo sessuale più importante, in quanto contribuisce in maniera marcata alla formazione della personalità e alla definizione dell’identità sessuale del bambino. Il bambino concentra l’energia pulsionale nella zona genitale, cioè nell’area del fallo, e sceglie come oggetto d’amore la madre, di cui cerca di attirare l’attenzione mediante comportamenti esibizionistici. Bambino e bambina cominciano a definire la loro identità sessuale, in quanto si rendono conto del fatto che tra di loro esistano delle differenze anatomiche e sessuali, e a livello inconscio vagheggiano di unirsi sessualmente col genitore di sesso opposto: è qui che secondo la teoria freudiana subentra il Complesso di Edipo (nel bambino) o di Elettra (nella bambina), che si caratterizza per la presenza di una forte attrazione sessuale per il genitore di sesso opposto e di sentimenti di rivalità e antagonismo per il genitore dello stesso sesso. Il complesso di Edipo si risolve nel momento in cui il bambino sperimenta l’angoscia di castrazione, cioè la paura che il genitore dello stesso sesso possa punirlo per le sue velleità erotiche; il bambino, allora, rinuncia alla madre e si identifica nel padre, assorbendone tratti caratteriali, modelli di giusto e sbagliato, codici etici e deontologici. La dinamica è leggermente diversa al femminile, in quanto nella fase pre edipica la bambina si sente anatomicamente identica al bambino, per cui anche il suo oggetto d’amore è la madre. In seguito, con la scoperta del pene nella fase edipica, la bambina capisce di essere diversa dal bambino ed esperisce un senso di inferiorità e di invidia. Il suo desiderio diventa quello di sostituirsi alla madre e di avere una gravidanza e un rapporto sessuale col padre, tuttavia, per timore di eventuali punizioni da parte della madre, accantona i suoi desideri sessuali e si identifica nel genitore dello stesso sesso. Al superamento del complesso di Edipo/Elettra, il bambino e la bambina strutturano il loro Super Io e acquisiscono il concetto della triangolarità della relazione.

Fase di latenza (6-11 anni): superata la fase fallica, subentra un periodo di tranquillità istintuale, in cui i desideri edipici infantili subiscono l’effetto di alcuni meccanismi di difesa come la formazione reattiva, la sublimazione e la rimozione. Il bambino rimuove il Complesso di Edipo, motivo per cui comincia a stringere legami di amicizia con figure dello stesso sesso con cui formare gruppi, l’identità di genere si rafforza e l’energia libidica viene indirizzata a mete di carattere morale, sociale e intellettuale.

Fase genitale (11 anni in poi): corrisponde all’ultima fase dello sviluppo psicosessuale. I desideri edipici e gli impulsi sessuali che erano stati rimossi nella fase di latenza qui ricompaiono con maggior forza, spingendo l’individuo a focalizzare l’energia pulsionale in un oggetto esterno al nucleo familiare; si consolida la libido oggettuale, la sessualità matura, cioè l’individuo cerca una relazione affettiva e sessuale con un partner esterno. Il centro del piacere è rappresentato dalla zona genitale, al cui primato si assoggettano le zone erogene del passato.

 

Una panoramica sull’uso problematico di Internet e le sue conseguenze

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

 

Introduzione all’uso problematico di Internet

Internet è comparso nelle nostre vite relativamente di recente ma in maniera improvvisa, e da allora se ne è registrato un uso sempre più diffuso (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È considerato un ottimo strumento per poter accedere a praticamente qualsiasi tipo di informazione, oltre che a essere fonte di intrattenimento e di comunicazione facilitata, senza limitazioni temporali o spaziali. Oltre che a fornire servizi ormai indispensabili, come l’accesso all’informazione, all’educazione e alla gestione finanziaria, Internet viene usato anche per svago e divertimento, dato che è possibile videogiocare o chattare con altre persone provenienti da ogni parte del mondo. Inoltre, al giorno d’oggi, Internet viene usato anche per attività come il gioco d’azzardo e la diffusione di sostanze. La possibilità di avere accesso a così tanti contenuti con facilità e immediatezza, in molti casi, è sfociata velocemente in un uso problematico. 

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

Il tempo passato su Internet, tuttavia, non sembra essere un criterio sufficiente per identificare un uso problematico, in quanto è da considerare anche il fine per il quale Internet viene usato (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che molti individui che riportano un uso problematico di Internet passano molto del loro tempo libero a videogiocare, chattare, acquistare prodotti online e navigare su siti pornografici. È stato inoltre osservato che gli utenti possono soddisfare alcuni bisogni attraverso le risorse disponibili su Internet, ciò può causare problematiche come il ritiro sociale e l’isolamento. Nel caso in cui compaiano queste difficoltà, l’utilizzo di Internet viene definito problematico. Gli individui che sembrano più a rischio sono coloro che hanno difficoltà nel controllare gli impulsi, che hanno avuto storie di dipendenze, hanno già sofferto di isolamento sociale, hanno problematiche psicosociali o sono in cerca della propria identità. Alcune ricerche hanno riportato che i disturbi d’ansia, oltre che al disturbo ossessivo-compulsivo, sono quelli con maggiore comorbilità negli individui che abusano di Internet. Inoltre, sembra che chi soffra di uso problematico di Internet riferisca maggiori pensieri depressivi e ideazioni suicidarie.

Complicazioni relazionali dovute all’uso problematico di Internet

Internet è quindi uno strumento che ha un significativo potenziale per influenzare gli atteggiamenti, i comportamenti e le abitudini delle persone, nei contesti amicali, lavorativi e familiari (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Un aumento della socializzazione virtuale può comportare diversi rischi, come la diminuzione delle interazioni nella vita reale, o l’aumento dei fenomeni di isolamento sociale e alienazione dall’ambiente familiare. Infatti, è stato osservato che individui che soffrono di uso problematico di Internet, passando molto del loro tempo libero sulla rete, tendono a trascurare i propri figli, partner e amici. Inoltre, coloro che soffrono di un uso problematico di Internet, tendono ad ignorare le responsabilità lavorative e domestiche, e i loro pensieri sono sempre diretti al computer o al telefono, indipendentemente dal contesto in cui si trovano.

Gli individui con un uso problematico di Internet sono spesso soggetti agli avvertimenti e alle critiche degli altri (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Sembra inoltre che non riescano a gestire correttamente questo intenso interesse verso Internet, e che non possano vivere senza avere a portato di mano il computer o il telefono (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che, quando un individuo con dipendenza da Internet non riesce ad accedere alla rete, tipicamente esperisce una forte rabbia, oltre che sintomi depressivi e svogliatezza (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Infatti, sembra che questi individui, quando privati della possibilità di accedere alla rete, percepiscano un senso di agitazione e minaccia (Chattopadhyay et al., 2020). Al fine di uscire da questi stati d’animo, gli individui con uso problematico di Internet spesso eccedono il tempo passato online, mentono riguardo al tempo passato sulla rete e sono costantemente preoccupati su ciò che può accadere online mentre loro non sono presenti (Chattopadhyay et al., 2020).

L’uso problematico di Internet è una tematica che richiede sempre maggiore attenzione, in quanto sembra comportare conseguenze negative non solo sull’individuo che ne soffre, ma anche alle persone vicine (Candemir Karaburç e Tunc, 2020).

 

Il paradossale fenomeno del Blindsight: definizione e basi neurobiologiche

Il fenomeno del Blindsight, tradotto dall’inglese “visione cieca”, si riferisce alla capacità di un soggetto di saper localizzare uno stimolo visivo nello spazio, seppur situato in una zona di assoluta cecità del suo campo visivo. In altre parole, l’individuo percepisce in maniera inconsapevole la presenza di un oggetto nello spazio, ma di fatto non lo vede.

 

Basi neurobiologiche

Questo strano fenomeno, definito da alcuni come un “sesto senso”, trova in realtà una spiegazione neurobiologica. Il Blindsight infatti, è una sindrome neuropsicologica causata da una lesione che distrugge un’area circoscritta della corteccia visiva primaria (area V1 o area 17), causando uno scotoma, ovvero una zona di cecità all’interno del campo visivo. Nonostante tale cecità venga sperimentata in modo cosciente dal soggetto, questo tipo di lesione non altera la capacità di localizzare gli stimoli nello spazio (Ladavas e Berti, 2020).

I primi a descrivere questo fenomeno furono Poeppel, Held e Frost, che nel 1973 condussero un esperimento con quattro pazienti che presentavano scotomi all’interno dei campi visivi, con lo scopo di studiare la loro capacità di localizzare stimoli bersaglio posti nell’area scotomatica. Dopo aver accuratamente mappato il campo visivo di ciascun occhio per definire con esattezza l’area cieca, ai partecipanti fu chiesto di mantenere gli occhi su un punto fisso e, solo alla comparsa dello stimolo, di “indovinare” la sua posizione direzionando lo sguardo verso di esso. Dato che i pazienti non erano in grado di “vedere” lo stimolo a cui dovevano rispondere, la comparsa di quest’ultimo è stata associata ad un segnale acustico che aveva la funzione di segnalare al paziente quando muovere gli occhi. Dai risultati dello studio è emersa una rilevante correlazione tra la posizione dello stimolo bersaglio e la direzione degli occhi dopo la stimolazione; pertanto il movimento oculare dei soggetti risultava appropriato, nonostante non avessero consapevolezza della presenza dello stimolo.

La spiegazione di questi risultati risale agli anni 1968 e ‘69, quando Trevarthen (1968) e Schneider (1969) avanzarono la teoria dei due sistemi visivi. Secondo gli autori infatti, esistono due sistemi visivi deputati a due funzioni diverse: il primo, il sistema retino-genicolo-striato, si occupa dell’identificazione degli oggetti, mentre il secondo, il sistema retino-collicolo-extrastriato, si occupa della localizzazione degli stimoli nello spazio. Nel caso di pazienti con blindsight, è la prima via ad essere distrutta dalla lesione, mentre la seconda rimane intatta rendendo accessibile, seppur in forma inconsapevole, l’informazione circa la posizione degli oggetti nello spazio.

Diversi studi confermano questa teoria. Nel 1986, Weiskrantz pubblica una monografia basata sull’osservazione del fenomeno del blindsight in un paziente che si era sottoposto ad una rimozione quasi completa del lobo occipitale destro, a causa di un tumore ivi localizzato. L’asportazione aveva provocato un’emianopsia sinistra quasi completa, quindi con conseguente comparsa di uno scotoma nella parte inferiore sinistra del campo visivo. Anche in questo caso, è stato chiesto al paziente di indicare attraverso il movimento oculare la posizione di uno stimolo presentato nella zona scotomica, riscontrando, come negli studi precedenti, una correlazione tra direzione dello sguardo e posizione dello stimolo. Inoltre, quando al paziente è stato chiesto di localizzare lo stimolo anche manualmente, indicandolo puntando con il dito, la correlazione risultava essere più alta. Nonostante la precisione dei risultati, il soggetto riferiva di non vedere assolutamente nulla, e che aveva solamente “indovinato”. Successivamente, Corbetta e collaboratori (1990), grazie a uno studio condotto su quattro pazienti affetti da emianopsia, hanno dimostrato che la capacità di localizzare manualmente uno stimolo posto nella zona scotomica veniva mantenuta solo se al paziente era permesso di dirigere anche lo sguardo verso l’area del campo visivo stimolata; quindi il fenomeno del blindsight non si verifica se il soggetto mantiene lo sguardo sul punto di fissazione mentre indica manualmente la posizione dello stimolo.

Un’importante scoperta deriva dallo studio di Mohler e Wurtz (1977), che hanno addestrato delle scimmie (macachi Rhesus) con scotoma ad eseguire movimenti oculari verso uno stimolo presentato nella loro area cieca. Questi esercizi hanno generato un parziale recupero della sensibilità visiva in quell’area dello scotoma, per cui la scimmia era stata addestrata a eseguire movimenti saccadici. Gli stessi ricercatori hanno poi dimostrato come tale recupero parziale della funzione sia mediato dal ruolo del collicolo superiore: provocando una lesione a quest’ultimo infatti, il deficit si ripresentava. Basandosi su questo studio, Zihl e Von Cramon (1985), hanno addestrato 55 pazienti con scotoma utilizzando gli stessi esercizi: i risultati, nella maggior parte dei casi, sono stati favorevoli. Gli autori hanno ipotizzato una possibile riattivazione del tessuto nervoso che era stato danneggiato in modo reversibile; mentre nei casi dei pazienti che non avevano beneficiato degli esercizi, il recupero della funzione era stato impedito dall’irreversibilità dei danni nel tessuto nervoso coinvolto.

Le ultime scoperte sul blindsight

Recentemente (Berti, 2010), si è scoperto che oltre alla localizzazione degli stimoli nello spazio, i soggetti con blindsight riescono a distinguere lunghezze d’onda diverse, valutare la direzione dei bersagli in movimento e discriminare l’inclinazione di linee. Uno dei soggetti con blindsight più ampiamente studiati (Weiskrantz et al., 1991), riferiva di avere una certa “consapevolezza” di ciò che accadeva nel suo campo visivo affetto da cecità; ed effettivamente questa sensazione coincideva con la presentazione di uno stimolo in rapido movimento in quell’area. Se invece lo stimolo si muoveva lentamente, il paziente non riferiva più la sensazione di consapevolezza. Successivamente, Sahraie e collaboratori (1997) hanno analizzato, attraverso risonanza magnetica funzionale, quali aree del cervello del paziente si attivavano a seguito della presentazione di stimoli in movimento, rapidi e lenti, nel suo campo visivo cieco; quindi secondo la modalità consapevole e inconsapevole. Quando lo stimolo veniva presentato in rapido movimento, nella modalità consapevole, risultava un’attivazione dell’area 46 di Brodmann nell’emisfero destro, e delle aree 18 e 47 in entrambi gli emisferi. Mentre quando lo stimolo veniva presentato in lento movimento, si è registrata un’attivazione del collicolo superiore, di alcune aree frontali mesiali e dell’area 19 ipsilaterale alla lesione. È importante notare che l’area 46 si è attivata anche a seguito della stimolazione del campo visivo intatto, e ciò fa presupporre il coinvolgimento di quest’area nei processi di elaborazione cosciente. La corteccia visiva secondaria invece (aree 18 e 19 di Brodmann), risulta attiva in entrambe le condizioni suggerendo che, nonostante sia necessaria per l’elaborazione visiva, non è sufficiente ad innescare l’elaborazione consapevole. Infine, la stimolazione del campo visivo intatto ha determinato l’attivazione di una zona frontale chiamata Frontal Eye Field (FEF), che potrebbe avere un ruolo nella distinzione tra la visione normale e  la “consapevolezza” di ciò che accade nel campo visivo cieco. Secondo gli autori dello studio, il passaggio dalla modalità consapevole a quella non consapevole sottintende un trasferimento dell’attivazione dalle zone frontali al collicolo superiore (zone sottocorticali).

Gli studi condotti nell’ambito della visione cieca hanno permesso non solo di comprendere meglio la struttura e le funzioni del sistema visivo, ma anche di esplorare i confini della coscienza, spianando la strada verso una possibile spiegazione dei processi di elaborazione inconscia. Ad oggi, grazie alle spiegazioni neuropsicologiche il fenomeno del blindsight appare meno occulto e misterioso; ciononostante, la capacità di percepire ciò che non si può vedere conserva comunque un forte fascino.

 

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