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Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 20

Siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni come ansia e depressione.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 20) Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie

 

Con quest’ultimo numero si chiude il lavoro di analisi del documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione (ISS, 2022), obiettivo di questa rubrica.

Dunque, siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni (DMC; come ansia e depressione).

Raccomandazioni per il Quesito D5: la comunicazione con policy-makers e istituzioni

Quali iniziative si possono assumere per sensibilizzare i decisori e le istituzioni socio-sanitarie a rendere effettivamente disponibili e fruibili le terapie psicologiche per i disturbi d’ansia e depressivi?

Gli Esperti aprono la discussione su questo tema menzionando un famosissimo detto: “prevenire è meglio che curare”, in questo caso non solo in termini di benessere psicologico, ma soprattutto in termini economici. Infatti, sottolineano l’importanza di ricordare ai policy-makers e alle istituzioni che “prevenire costa meno che curare” (ISS, 2022, p. 36), evidenziando i costi diretti e indiretti e spiegando che un investimento economico nelle terapie psicologiche potrebbe ridurre i costi delle spese secondarie dovute ad ansia e depressione non trattate.

Anche la gestione delle condizione subcliniche (ovvero i casi in cui non ci sono i presupposti per porre una diagnosi; per approfondimenti, si consiglia il n.12) risulta una scelta oculata in un’ottica di abbattimento dei costi a lungo termine, poiché spesso tali condizioni possono evolvere in patologie più gravi e, pertanto, implicare una più dispendiosa gestione per il sistema sociale, sanitario ed economico.

A livello comunicativo, secondo gli Esperti, potrebbe essere funzionale creare una infografica che riporti i dati relativi all’efficacia degli interventi psicologici sulle condizioni cliniche e subcliniche, al risparmio derivato dalle azioni di prevenzione, nonché quello dovuto alla corretta gestione dei disturbi ansiosi e depressivi attraverso il modello stepped care (vedi Nr. 11 e Nr. 17).

Inoltre, si rende necessario fornire ad enti e istituzioni, chiare direttive sulle criticità e sulle potenzialità dell’attuale rete sociosanitaria italiana relativamente all’implementazione di attività di prevenzione, promozione e gestione (intesa sia come assistenza che presa in carico) della salute mentale. Pertanto, si raccomanda di investire nell’acquisizione di figure professionali specifiche e nella formazione del personale già operativo.

Alcuni enti destinatari di questa comunicazione, che potrebbero essere interessati alla riduzione dei costi suddetti, possono essere l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), le Commissioni Sanità di Parlamento e Regioni, gli uffici studi della Banca d’Italia, di enti economici, di compagnie assicurative, di sindacati, di Confindustria. Sarebbe utile coinvolgere direttamente tali enti e istituzioni mediante iniziative, –auspicabilmente– supportate dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con associazioni scientifiche nell’ambito della psicologia, come conferenze-stampa, convegni e incontri diretti.

In ultimo, il Tavolo di Lavoro si è occupato di altre questioni ritenute importanti e trasversalmente connesse al tema oggetto di discussione.

Una di queste riguarda le condizioni di sofferenza mentale che non si manifestano necessariamente come disturbi mentali diagnosticabili, ma che necessitano comunque di attenzione e assistenza, ovvero “tutte le reazioni psicologiche che si possono manifestare a seguito di emergenze, come pandemie o terremoti” (ISS, 2022, p. 37). Le eventuali difficoltà riferite dai cittadini sul piano psicologico a seguito di tali eventi e la complessità delle conseguenze, che potrebbero cronicizzarsi, necessitano della figura specifica dello psicologo dell’emergenza, che pertanto deve essere riconosciuta sul piano formativo e lavorativo da parte dell’istituzione sanitaria.

Un’altra questione degna di nota riguarda gli interventi inclusi nel primo livello di cure previsto dal modello stepped care, ovvero quelli di auto-mutuo-aiuto, come quelli presenti nel programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT; Clark, 2017). I gruppi di auto-mutuo-aiuto consistono in tutte quelle iniziative organizzate da gruppi di persone non professioniste, accomunate da un problema, per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una comunità. A questo proposito sembra che, nel nostro Paese, la presenza e il ruolo delle associazioni di malati e familiari sia minimale. Infatti, sembrano esserci poche associazioni specifiche per i DMC; in particolare, sono presenti alcune per l’ansia, come la Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, Agorafobia e attacchi di Panico (LIDAP), che hanno purtroppo un’azione poco significativa, mentre sembrano addirittura non esistere per la depressione.

In conclusione, gli Esperti che hanno partecipato alla Consensus Conference sulle cure psicologiche per i DMC (ISS, 2022) per incrementare l’accesso a tali cure hanno individuato varie strategie praticabili compatibili con l’organizzazione presente sul territorio nazionale. Tuttavia, nell’ottica di ridurre il gap di trattamento (ovvero il divario esistente tra l’elevato numero di persone che soffrono di disturbi d’ansia e depressivi e il ridotto numero di coloro che ricevono un trattamento efficace e specifico) sono necessari provvedimenti concreti da parte dei policy-makers, in quanto il documento finale della Consensus non ha potere attuativo. Perciò, è necessario continuare a divulgare questo documento (o parti di esso) per informare e sensibilizzare l’intera comunità sull’importanza di queste tematiche. Nella speranza –realizzabile e già realizzata in altri Paesi– di migliorare l’organizzazione delle strutture messe a disposizione dal Sistema Sanitario Nazionale per ricevere cure psicologoche adeguate per ansia e depressione, e far sì che i cittadini non siano costretti a ricorrere al mercato privato, generando così, rispetto all’accesso alle cure, “una discriminazione di censo intollerabile in tema di salute e irrispettosa del dettato costituzionale” (ISS, 2022, p. 41).

 

Ghosting: motivazioni, conseguenze e strategie di coping

La pratica del ghosting è comunemente descritta come l’interruzione unilaterale dei contatti con il partner e l’ignoranza dei suoi tentativi di contatto, comunemente attuata attraverso uno o più mezzi tecnologici (Freedman et al., 2019).

 

 Sebbene il ghosting possa avere alcune somiglianze con altre strategie di rottura, ad esempio, Baxter (1982) ha scoperto che il ritiro e l’evitamento sono strategie comuni per porre fine a una relazione, nella società contemporanea è la strategia che potrebbe verificarsi più spesso. Grazie alla comunicazione mediata, le persone possono facilmente respingere i corteggiatori indesiderati cancellando o bloccando l’altra persona o semplicemente non rispondendo (Tong & Walther, 2011). In particolare, ad oggi le app di incontri online (Mobile Dating App [MDA]) creano un’abbondanza di potenziali partner con cui interagire contemporaneamente, spesso estranei alla propria rete sociale (Yeo & Fung, 2016). Quindi, comportamenti che sarebbero stati considerati scortesi in un contesto faccia a faccia (ad esempio, ignorare qualcuno) possono diventare una strategia comune in un contesto di incontri online a causa del relativo anonimato e della facilità offerta dalle forme di comunicazione mediata (Tong & Walther, 2011).

Le ragioni del ghosting

Sulla base di quanto detto, uno studio di Timmermans e colleghi (2021) ha esplorato le ragioni, le conseguenze e i modi per affrontare il ghosting sulle app di incontri mobili, nonché i predittori della valutazione dell’esperienza di ghosting come dolorosa.

É stato chiesto a coloro che hanno subito ghosting (ghostee) di descrivere il motivo per cui pensavano che l’altra persona lo avesse fatto (ghoster). L’analisi ha rivelato che più della metà dei ghostee ha incolpato il ghoster (59%), più di un terzo ha incolpato se stesso (37%) e circa un quinto ha incolpato i vantaggi dell’app (17%). È interessante notare che temi simili sono emersi per i ghosters che hanno riferito le ragioni per cui hanno fatto ghosting: (1) biasimare il ghostee (67%); (2) biasimare se stessi (44%); (3) biasimare le possibilità offerte dall’app (29%); (4) nessun obbligo di comunicare (22%); e (5) preoccupazione per l’altro (16%). Sia i ghostee che i ghosters sono stati più propensi ad attribuire la colpa all’altra persona, ma in entrambi i gruppi una percentuale abbastanza ampia ha attribuito la colpa a se stessi per aver fatto o subito il ghosting.

Mentre i risultati qualitativi sembrano suggerire che le possibilità offerte dalle app di incontri contribuiscono effettivamente al ghosting e all’essere ghostati, le analisi quantitative hanno dimostrato che la frequenza di utilizzo delle app di incontri era associata negativamente al ghosting. In altre parole, più si utilizza un’app di incontri mobile, più diminuisce la probabilità di fare il ghosting.

Una spiegazione potrebbe essere che le persone che hanno appena iniziato a usare un’app di incontri mobile si sentono sopraffatte dall’ampio bacino di incontri a cui hanno improvvisamente accesso e, in alcune app, ricevono anche messaggi non richiesti da persone indesiderate, aumentando così le possibilità di ghosting. Inoltre, dato che anche i frequentatori di siti mobili hanno avuto esperienze negative sulle app di incontri (ad esempio, Thompson, 2018), potrebbero diventare più selettivi nel loro comportamento di swiping e quindi evitare di incontrare partner indesiderati in una fase precedente alla conversazione, che altrimenti sarebbero propensi a fare il ghost.

Le conseguenze del ghosting

 Per quanto concerne le conseguenze del ghosting, molti intervistati hanno riferito che l’esperienza del ghosting ha avuto un impatto negativo sulla loro autostima e sulla fiducia negli altri. Ciò è conforme alla ricerca psicologica, che ha dimostrato che l’autostima può diminuire quando le persone subiscono un rifiuto (Leary et al., 1998). Ciò significa che quando gli intervistati con una bassa autostima vivono molteplici esperienze di ghosting, potrebbero percepire il rifiuto come ancora più doloroso. Inoltre, potrebbero impiegare più tempo a superare questa esperienza dolorosa, poiché le persone con una bassa autostima hanno meno oppioidi naturali (antidolorifici) rilasciati nel cervello dopo un rifiuto rispetto alle persone con un’autostima più elevata (Hsu et al., 2013). Tuttavia, è importante notare che alcuni meccanismi di coping (ad esempio, razionalizzare l’esperienza di ghosting sostenendo che fa parte dell’uso delle app di incontri) possono impedire agli utenti delle app di incontri di sperimentare una riduzione dell’autostima.

La frequenza con cui si è stati ghostati, l’aver avuto un contatto faccia a faccia e una durata maggiore del contatto hanno predetto positivamente il grado in cui gli intervistati hanno valutato la loro esperienza di ghosting come dolorosa, mentre la frequenza con cui hanno ghostato altri ha predetto negativamente la valutazione di dolorosità.

Sorprendentemente, sembra che l’intimità sessuale con il ghoster non renda l’esperienza di ghosting più dolorosa. Una potenziale spiegazione potrebbe essere la normalizzazione percepita del sesso occasionale tra i giovani adulti (Timmermans & Van den Bulck, 2018; Wade, 2017), che potrebbe ridurre le aspettative di mantenere i contatti dopo un’intimità sessuale.

Le strategie intraprese per affrontare questa esperienza negativa sono state: razionalizzare la loro esperienza di ghosting, modificare il loro comportamento e le loro aspettative nei confronti degli altri o delle interazioni future, controllare gli account dei social media del ghoster o contattare la rete sociale del ghoster, trovare conforto con gli amici condividendo l’esperienza di ghosting o cancellare l’app di dating mobile e quindi astenersi dagli incontri online per un po’.

Un dato che colpisce è che diversi ghoster hanno riferito di aver fatto il ghosting per proteggersi, dato che il ghostee si è rifiutato di accettare le ragioni del rifiuto e ha iniziato a mostrare un comportamento aggressivo, come l’invio ripetuto di messaggi non richiesti e il comportamento di stalking. Questa scoperta suggerisce che alcuni individui, come ad esempio gli individui sensibili al rifiuto e con un attaccamento ansioso, potrebbero essere più inclini a subire il ghosting rispetto ad altri.

Conclusioni

In conclusione, lo studio si è rivelato utile per proporre un quadro teorico relativo al ghosting sulle Mobile Dating App, includendo anche diverse implicazioni per l’ambito clinico. In un mondo tecnologico emergente è importante notare che piuttosto che attribuire la colpa a se stessi (ad esempio, “non ero abbastanza attraente”), i terapeuti possono aiutare i loro clienti a capire che le tecnologie di comunicazione che spesso usiamo nella nostra vita quotidiana facilitano anche il comportamento di ghosting, razionalizzando così l’esperienza di ghosting.

 

La grande bellezza. La meraviglia dell’imperfezione

De gustibus non disputandum est, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, o ancora La bellezza è negli occhi di chi guarda.. tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità di ognuno.

 

Che cos’è la bellezza?

  Un concetto che sconvolge le menti di tutti proprio per il suo essere sfuggente e inafferrabile.

De gustibus non disputandum est, così esponeva Giulio Cesare, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, risuona un famoso proverbio. L’inglese David Hume afferma: La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla che è il corrispettivo di La bellezza è negli occhi di chi guarda, tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità e del gusto di ognuno.

Un’intuizione non certo banale, se si considera che nella storia, a partire dagli autori e pensatori più antichi, si poneva tale concetto in una prospettiva assolutamente esterna all’osservatore, cercandone un’ambiziosa oggettività, proprio per la necessità di poterla definire: tutto ciò che non contiene una de-limitazione si perde nel concetto di infinito che può spaventare, che può far sentire l’essere umano troppo piccolo e troppo fragile, che può trascinarlo al di fuori della possibilità di calcolo, di previsione, di esattezza, di verifica empirica che tanto lo rassicura e lo placa.

Ma il termine estetica che significato assume? Etimologicamente deriva dal greco αισθησις, ossia, percezione, sensazione, facoltà di sentire e si riferisce ad un processo altamente complesso che unisce la nostra percezione, come esperienza di elaborazione rispetto alle caratteristiche formali di un oggetto ad una di ordine superiore che ingloba conoscenza, expertise, vissuto emozionale, caratteristiche temperamentali e tratti di personalità. Un’esperienza estetica cattura la nostra attenzione e ci induce a provare emozioni di diverso tipo, non sempre spiegabili. Un’opera d’arte, ad esempio, ci attrae non solo e non sempre per la sua conformazione, ma perché innesca stati d’animo differenti, coinvolgendo totalmente e stimolando il nostro pensiero e la nostra immaginazione.

Il primo a contemplare una visione estetico-matematica del concetto di bellezza fu Pitagora, mettendo in evidenza che l’esistenza di tutte le cose si rispecchia nel loro ordine, ordine che segue le leggi matematiche che ne esaltano la concordanza e, dunque, la bellezza. Platone, riprendendo il pensiero della scuola pitagorica, parte da questa idea di armonia per arrivare a concepire il bello come qualcosa che è direttamente correlato al bene, non appartenente all’arte ma all’eros, ossia all’amore che ha diversi gradi di esistenza, come ben afferma nel Simposio, attraverso le parole della sacerdotessa Diotima, da quello più basso, ossia quello fisico, per passare all’amore per il bene e la giustizia, per le scienze, fino ad arrivare a quell’idea più assoluta e trascendente di bellezza: “Come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé“. Una visione altamente romantica dell’uomo, attratto da questo desiderio naturale di tutto ciò che è bello, una sorta di magnete che lo riconduce ad un corpo armonico, ad uno sguardo penetrante, ma anche ad un tramonto sul mare, ad un arcobaleno, ad un cielo stellato.

Ma oggi il concetto di bellezza permea ancora significati così elevati? Il bello è sempre ricollegato al giusto, alla moralità, a quella kalokagathia, concezione greca di corrispondenza tra bello e buono?

Il concetto giapponese di Iki

Nella cultura orientale, nello specifico giapponese, si parla di iki che unisce un comportamento etico ad uno estetico. Iki ha significato di spontaneità, naturalezza, intelligenza, seduzione, ma anche di rinuncia a quell’attaccamento morboso alle cose materiali. Iki è anche la forza d’animo di tutti coloro che in maniera dignitosa affrontano l’instabilità della vita terrena, troppo attaccata alla fusione dei corpi (eros) e poco alla seduzione, come apertura verso l’altro, senza necessità di unione. Iki, letteralmente, significa cose degne di particolare attenzione; lo scrittore Shuzo Kuki ne parla nel suo saggio “La struttura dell’iki” che ha l’obiettivo di “cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata””. In occidente non esiste una vera e propria corrispondenza a questo termine, occidente che probabilmente predilige il concetto di armonia delle forme quando tratta di esperienza estetica.

La bellezza come armonia

Ma questa armonia rispetta forse le leggi di proporzione e di simmetria? Attualmente l’asse di equilibrio di questi fattori sembra non corrispondere più ai canoni, con una propensione verso l’esagerazione e l’esasperazione. Si assiste ad un tentativo di snaturare le caratteristiche di un modello ordinario e prototipico che si pensava essere il più attraente, con l’idea che alcune parti del corpo possano ricevere maggiore consenso, se di dimensioni più grandi. C’è in effetti una predilezione per labbra più carnose, occhi più grandi, seni di taglia considerevole, ma non solo. Anche in altri domini estetici, come palazzi, torri e campanili vengono esaltate le dimensioni di altezza, quasi per imporsi nello spazio, attraendo un numero sempre maggiore di persone, in quanto visibili a distanze notevoli; si aggiunga poi il fatto che, rivolgendo lo sguardo verso l’alto, si ha la sensazione che queste strutture siano così notevolmente predominanti da togliere il fiato. Una bellezza mozzafiato che aspetto dovrebbe avere? Forse dei tanto amati Barbie e Ken?

Le donne sembrerebbero avere un giudizio più severo degli uomini sul proprio aspetto: solo fino ai sette anni ci sarebbe una sana accettazione di sé stesse, successivamente, proprio in età prepuberale e adolescenziale, ci sarebbe una tendenza a reputarsi in sovrappeso nel 60% dei soggetti e solo un 20% sarebbe soddisfatto del proprio aspetto. Più l’insoddisfazione è accentuata più tende a peggiorare con il passare del tempo, andando ad incidere fortemente sul senso di autostima e di competenza, causando notevoli problematiche nell’ambito non solo personale, ma anche lavorativo (André e Lelord, 1999). Si aggiungono anche, nella donna, altri periodi critici del ciclo vitale, come durante la gravidanza o nel periodo post partum. Se risulta accentuato nel genere femminile, tuttavia non è completamente assente nel mondo maschile, soprattutto in un’era sempre più propensa a ridurre quei segnali di identità sessuale così accentuati fino a qualche decennio fa, a favore di un fluire di caratteristiche che abbandonino il culto dell’uomo muscoloso e permettano ad ognuno la piena libertà di esprimersi.

Ma allora perché tanta risonanza in modelli di riferimento assolutamente irreali?

I modelli irrealistici

Si parla di Sindrome di Barbie e Ken: sempre più persone si rivolgono ad un chirurgo estetico con l’idea e la richiesta ben precisa di assomigliare a bellezze illusorie che passano dal nostro mondo dell’infanzia, ma che poi vengono sempre più proiettate come modelli di riferimento possibili al cinema o nelle pubblicità. E pensare che in un articolo su Psicologia Contemporanea del 2005 si leggeva che avvalersi della chirurgia estetica poteva essere considerato un fenomeno di falsificazione dell’immagine di sé, una vera e propria frode.

Circa un ventennio dopo la maggior parte dell’opinione pubblica sarebbe ancora concorde con una simile affermazione? Evidentemente le cose sono cambiate, ma in questo campo hanno forse preso una piega sbagliata. Il mito dell’uomo e della donna di successo viene sempre più associato al concetto di bello, ma l’idea di bello ha ormai assunto caratteristiche aleatorie e illusorie. Ci si compara sempre più ad attori e attrici di Hollywood, ci si confronta sempre più a modelli ideali altamente improbabili, a causa anche dell’enorme influenza del mondo mediatico. Influenza, influencer, apparire, apparenza, sono termini che siamo ormai abituati a sentire ogni giorno, martellati da ogni parte, spesso con la grave conseguenza di scatenare ansia, senso di inadeguatezza ed incapacità. Ed ecco che l’unico rimedio a tale sofferenza sembra essere quello di prendere un’immagine del nostro idolo e mostrarla al chirurgo come richiesta di aiuto. Si comincia ad età sempre più impensabili, ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni ottengono il consenso dai genitori per prenotare una visita, con la speranza, a volte addirittura con la pretesa, di accontentare le proprie aspettative.

Si vorrebbe essere la fotocopia di qualcun altro, non rendendosi più conto di quanto possa invece essere attraente la nostra unicità, con pregi e difetti che permettono di distaccarci da quel processo patologico di bisogno di omologarsi a modelli che non contengono le nostre caratteristiche genetiche e i nostri vissuti. In effetti l’andamento è proprio quello di assomigliarsi sempre più, nella forma degli occhi, degli zigomi, del volume delle labbra, dei seni, di glutei formosi che rischiano però di deformare quella bellezza che, a mio avviso, rimane autentica nella sua armonia.

In effetti, dalla letteratura presente la bellezza sembrerebbe essere un fattore non compartimentalizzato, ma globale: un viso attraente renderebbe il resto del corpo attraente, soprattutto se presente uno sguardo penetrante. Questo fattore era già noto nell’antichità, vedi per esempio le rappresentazioni egizie, in cui un volto rappresentato di profilo mostrava occhi frontalmente, sicché uno sguardo che fissa direttamente l’interlocutore appare più sicuro e viene percepito maggiormente bello nella sua complessità. Nel 2001 sono stati sottoposti a risonanza magnetica diciotto soggetti, mentre guardavano foto di volti attraenti. I risultati mostravano che nella visione di occhi rivolti verso l’osservatore si registrava un incremento dell’attività cerebrale, in prossimità della zona ventrale del nucleo striato, centro del piacere. Eppure ci si allontana sempre più da questa totalità armonica, per aspirare a dettagli ossessivi di ogni singolo centimetro del viso e del corpo. È possibile solo sentirsi quando ci si sente guardati [..] questa esperienza del corpo si costituisce a partire dal Tu, dalla seconda persona: si tratta del mio corpo “in quanto visto e conosciuto da altri”, così scrive il Prof. Giovanni Stanghellini, a proposito di percezione del proprio Sé. Si vive nella contemporaneità di un’era in cui il corpo che sono si ribalta in un corpo che è esposto alla vista dell’altro, un “pornobody che necessita dello sguardo altrui per prendere coscienza di sé”. E tutto questo sicuramente si ripercuote nella sempre più frequente ossessiva mania del selfie, quindi dell’esposizione di sé stessi in rete per poter essere riconosciuti, ma del riconoscimento finisce che ne rimane ben poco, in quanto ogni autoscatto viene sempre più ritoccato dai filtri. Filtrare, quasi a scremare, cernere, vagliare ogni singola parte del nostro desiderio di apparire, come si fa quando si cerca di far passare un liquido attraverso un filtro per trattenere eventuali particelle solide contenute in sospensione e ricavarne una sostanza depurata.

La chirurgia e la medicina estetica, acconsentendo sempre più a questa propensione al deforme, inteso come processo di snaturalizzazione del nostro essere nel mondo, come interazione di fattori genetici e vissuti, volto ad appagare un’ansia pressante generata da insicurezze e fragilità che porta ad ossessive richieste di intervento e di ritocchi, potrebbe paradossalmente alterare il concetto di bellezza armonica, quella “[La] grande bellezza”, che incornicia un celebre film di Paolo Sorrentino?

Un punto di incontro tra medicina estetica e psicologia

Alla luce di quanto emerso, credo sia necessario un avvicinamento tra medicina estetica e psicologia, con l’intento di trovare il giusto equilibrio per ogni singola persona. Una psicoestetica che permetta un importante lavoro interdisciplinare, con l’intento di rendere complementari bisogno estetico e serenità interiore. Dunque una ricerca e un supporto al volersi vedere bene e al sentirsi a proprio agio, che possa trovare la giusta misura nell’utilizzo di un bisturi o di una iniezione, giusta misura in grado di rispettare la singola persona nel suo essere unico. Per poter ottenere un connubio tra le due discipline, da un lato sarà necessario che il chirurgo estetico sappia valutare consapevolmente le richieste del cliente, per identificare colui che si rivolge alla chirurgia per migliorare un aspetto di sé, percepito come difetto, che evidentemente lo turba e che potrebbe rafforzare la sua autostima nella vita di tutti i giorni, da colui invece che cela dietro ad una richiesta di intervento, le sue più profonde insoddisfazioni, o aspettative irrealistiche, se non addirittura veri e propri disagi psicologici o psichiatrici. Dall’altro sarà necessario avvalersi dell’esperienza e della formazione di uno psicologo, che possa accompagnare il paziente nell’affrontare una decisione importante sull’avvalersi o meno dell’intervento o sul percorso di pre e post operazione, non dando mai per scontato la capacità di abituarsi ad un cambiamento.

Medico e psicologo in una sana collaborazione che tenga sempre presente l’obbiettivo primario di ogni scelta: il benessere psicofisico della persona che si avvale delle loro competenze, nel rispetto non solo deontologico, ma anche e soprattutto umano della sua essenza. Un connubio che esalti la bellezza armonica del singolo, anche a costo, a volte, di dire no.

 

I ritmi biologici in un mondo che impone di correre

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi. 

 

 Siamo davvero padroni delle nostre scelte quotidiane? Quotidianamente svolgiamo una serie di attività abitudinarie, delle quali ormai non sempre siamo consapevoli: ci svegliamo dopo una notte di sonno, facciamo colazione, mangiamo e subito siamo pronti per una nuova giornata.

Ci prepariamo dunque per una sequenza di attività già programmate, rispetto alle quali siamo chiamati a rispondere quasi in maniera automatica, per non dire tempestiva, non consentendo al nostro organismo la libera scelta delle reali attività che si vorrebbero svolgere.

Il tempo chiama e i nostri ritmi biologici son pronti ad eseguire quanto imposto dall’esterno. Il ritmo circadiano (dal latino circa diem) si riferisce non solo alle 24 h ore della giornata, ma sottende un’ampia varietà di funzioni fisiologiche, tra cui il ciclo sonno-veglia, la temperatura corporea, la secrezione degli ormoni, l’attività immunitaria, il comportamento alimentare e non ultimo l’attività cerebrale. Una vera e propria danza dell’organismo, che deve però fare i conti con le richieste della società odierna.

La rigidità psicocorporea a sostegno di uno schema privo di imprevisti

In quanto animale diurno, l’essere umano organizza capziosamente la propria giornata sulla base e in funzione di uno schema pre-programmato, col rischio tuttavia di inficiare il proprio assetto psicosomatico, determinando oltremodo l’innesco di una vera e propria rigidità psicocorporea.

Quest’ultima infatti può determinare ripercussioni sulla produzione ormonale, dei neurotrasmettitori e sull’andamento ritmico cerebrale. Nondimeno, seguendo una visione d’insieme, possono verificarsi disfunzioni inerenti il pancreas (Dibner, Schibler, 2015), il fegato, le surrenali e altri organi fondamentali per il nostro  equilibrio giornaliero: l’intestino, il cuore e i polmoni, ciascuno dei quali esercita, sotto il profilo psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani.

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi che, al contrario, riflettono il lasciapassare per poter partecipare alla vita sociale (Selye, 1973). Tutto questo col rischio di costruire la propria identità in funzione di un ritmo frenetico che sovente non ci appartiene, scivolando gradualmente in una spirale in cui il respiro, il battito cardiaco e la funzione intestinale non hanno altra scelta se non quella di adeguarsi, privandosi pian piano dei propri ritmi.

Un approccio neurobiologico dei ritmi circadiani

La struttura che genera e regola i ritmi circadiani è costituita da uno specifico sistema neuronale, il quale funge da vero e proprio orologio biologico. Quest’ultimo trova la sua collocazione in un piccolo gruppo di neuroni, circa 20.000, sopra il chiasma ottico nell’ipotalamo anteriore, chiamato nucleo soprachiasmatico (Buijs, 2016).

Questi neuroni sono organizzati in una fitta rete intrecciata tra due emisferi e sono peraltro dotati di una proprietà ritmica; infatti qualora vengano isolati dal cervello, continuerebbero ad oscillare e ad attivarsi in maniera autonoma. Quanto emerge è per l’appunto una proprietà intrinseca/autonoma che rispecchia un automatismo, garantito da un complesso ingranaggio di geni detti “clock” (Copinschi, Challet, 2016).

Un vero e proprio macchinario genetico presente in tutte le cellule che va a costituire e consolidare una rete di orologi periferici a loro volta influenzati e orientati dall’orologio centrale.

Al nucleo soprachiasmatico arriva un input dalla retina tramite una speciale via di collegamento, denominata tratto retino-ipotalamico, la quale non trasmette informazioni di natura visiva, ma risulta connessa ai ritmi circadiani stessi (Critchley, 2009). Inoltre dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Grazie a questa fitta rete di segnalazione il nucleo soprachiasmatico va a regolare il ritmo di funzioni fisiologiche cruciali, come la regolazione della temperatura corporea, degli assi neuroendocrini e del sistema neurovegetativo. Al tempo stesso giungono al sistema nervoso centrale informazioni dai nuclei ipotalamici, dall’epitalamo, dagli organi interni e dalle attività dell’organismo.

L’orologio centrale pertanto risulta dunque influenzato dal nostro ritmo genetico ma riflette una sincronizzazione correlata ad una serie di fattori interni ed esterni come la luce, il proprio comportamento alimentare, gli orari del sonno, la pressione arteriosa e infine le attività diurne e notturne (Qian, Scheer, 2016).

I nuclei soprachiasmatici producono centinaia di neuropeptidi a partire da 24 pro-ormoni, assieme alle citochine e ad alcuni neurotrasmettitori come il GABA, il glutammato e l’ossido nitrico.

Si determina così una mappatura dei principali neuropeptidi (Southey, Lee, Zamdbrorgù, 2014) in grado di coinvolgere i diversi livelli del nostro equilibrio psicosomatico: tra questi vi sono infatti il peptide intestinale vasoattivo VIP, l’arginina vasopressina AVP ed infine il peptide che rilascia la gastrina GRP.

 Come sopra accennato l’intestino, il cuore e i polmoni esercitano, sotto il profilo  psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani; nondimeno ciascuno di questi organi è costituito da un proprio ritmo biologico. Ad esempio il cuore presenta un ritmo in grado di evidenziarne la propria vulnerabilità intrinseca, infatti tra le 9 e le 11 del mattino quest’organo presenta la sua massima fluttuazione ritmica, che lo espone, come accennato, ad una maggiore vulnerabilità.

Si delinea così una cronobiologia di quegli organi che quotidianamente sono sottoposti ad uno stress di cui non sempre siamo consapevoli e che nondimeno innesca un contrasto tra i nostri ritmi interni all’organismo e le richieste esterne, relative alla dimensione familiare, lavorativa e sociale.

La fisiologia dello stress crono biologico

Come accennato in precedenza, dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Pertanto il concetto di benessere non può limitarsi ad una sola dimensione corporea e/o biologica, bensì comprende nel suo insieme l’intero organismo. Quest’ultimo infatti rispecchia il nostro stile di vita e soprattutto un tempo che troppo spesso evitiamo di accogliere, finendo così per sottovalutare quanto il corpo ci vuole comunicare. Quello che emerge è dunque un automatismo privo di quelle flessibilità ed elasticità che al contrario consentirebbero l’emergere di un nuovo modo di approcciarsi alle richieste esterne.

A tal riguardo infatti il paradigma dell’allostasi consente di vedere il concetto di stress come una richiesta da parte dell’organismo di riappropriarsi dei propri ritmi (Gaggioni, Maquet, Schmidt, 2014). Sotto stress per l’appunto l’organismo mette in atto modificazioni multi-sistemiche coordinate, fisiologiche e comportamentali, finalizzate al raggiungimento di un nuovo equilibrio, migliore rispetto al precedente, ciascuna delle quali produce delle modificazioni inerenti i vari distretti psicobiologici, con un’ulteriore ricaduta sui rispettivi ritmi crono biologici (McEwen, 2007).

A tal riguardo tuttavia la fase di adattamento presenta un costo, un prezzo vero e proprio da pagare, definito “carico allostatico” (Cannon, 1935), strettamente correlato ad una condizione di stress cronico e/o ripetuto. La ripetitività e la cronicizzazione derivanti da questo nuovo equilibrio provocano viceversa uno squilibrio fisiologico, determinando sia risposte meno adattive, sia una mancanza progressiva dell’elasticità (McEwen, 2000).

A lungo termine possono usurarsi gradualmente i sistemi di regolazione ed autoregolazione, con conseguenze negative sull’intero organismo.

Ad esempio uno stato protratto di ansia ed elevata vigilanza mantiene cronicamente accesa la risposta di arousal, (intensità dell’attivazione psicofisiologica di un organismo) sostenendo così il tono ortosimpatico e l’attività dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene (Wassing, Benjamins, Dekker, 2016).

Questo quadro può compromettere non solo il “nuovo stile di vita” dell’individuo, ma anche i ritmi crono biologici. Ad esempio livelli elevati e persistenti di cortisolo possono determinare disturbi a livello del sistema cardiovascolare, causando il rischio di ipertensione e aterosclerosi (Kanth, Ittaman, Rezkalla, 2013). Nondimeno insorgerebbe una vera e propria difficoltà nel sapersi adattare e rispondere a nuovi fattori stressanti (Sterling, 2012). L’omeostasi viene a configurarsi così in un panorama disfunzionale e disadattivo, nel quale rischiamo di creare la nostra nuova identità: quella del sacrifico, a favore di una maggiore riconoscenza sociale e lavorativa.

Riequilibrare i ritmi al fine di scoprire il proprio crono tipo

A seguito di quanto esposto è stato possibile considerare come i propri ritmi biologici rivestano un ruolo fondamentale per il nostro equilibrio psicosomatico (Hermida, Ayala, Smolensky, 2016).

L’orologio centrale deve quindi essere continuamente monitorato sia in rapporto ai fattori ambientali esterni, sia in rapporto a quelli interni e di natura intrapsichica. A tal riguardo infatti la suddivisione dei cosiddetti sincronizzatori consente una migliore comprensione circa le nostre rispettive interazioni.

Quelli esterni risultano di due tipi: primari e secondari. Se i primi sono circoscritti all’ambiente, quelli secondari invece si correlano al nostro modo di organizzare la nostra vita, sia individuale che sociale. Nondimeno quelli secondari ricoprono un ruolo più incisivo poiché sono direttamente proporzionali tanto alla qualità quanto alla quantità di sonno di ciascun soggetto e più nello specifico al tipo di lavoro svolto.

Perché se siamo in balia delle richieste e delle pressioni esterne, rischiamo di dimenticare ciò che ci caratterizza e che al contrario dovrebbe guidarci anche nel saper scegliere cosa è più giusto per noi: la nostra unicità.

 

La validazione italiana della COVID-19 Anxiety Syndrome Scale 

Mansueto et al. (2022) hanno effettuato una validazione preliminare della versione italiana della scala C-19ASS (creata per valutare le strategie di coping cognitivo-comportamentali in relazione al distress psicologico da COVID-19) e hanno esplorato se la C-19ASS avesse un ruolo di mediazione nella relazione tra i tratti della personalità riferiti al modello del Big-Five e gli outcome psicologici in un campione italiano.

 

Gli effetti della pandemia

 La pandemia da COVID 19 ha apportato un generale aumento di distress, tra cui ansia, preoccupazione, sintomi affettivi, disturbi dell’umore, oltre che sintomatologia post-traumatica, somatizzazioni e abuso di sostanze, come evidenziato da molteplici studi a livello globale. Tale aumento di distress psicologico e il peggioramento della salute mentale durante la pandemia è stato rilevato sia nella popolazione generale che in campioni di soggetti maggiormente fragili e vulnerabili, che includono gli operatori sanitari, i soggetti più anziani e i pazienti psichiatrici.

Parallelamente, le ricerche nell’ambito hanno evidenziato l’insorgenza di strategie di coping disfunzionali in risposta alla paura e al senso di minaccia legato alla pandemia da COVID-19, quali ad esempio comportamenti di evitamento, di controllo, rimuginio e costante monitoraggio dei possibili contesti rischio di contagio da COVID (es. costante verifica della presenza di sintomi COVID, attenzione alle persone che mostravano possibili sintomi del COVID) (Nikčevic et al., 2021; Nikčevic & Spada, 2020). Tali strategie di coping disfunzionali portano la persona a chiudersi in circoli viziosi caratterizzati da stati di minaccia e paura, evitamenti e controlli, compromettendo il ritorno a una normalità della routine quotidiana (Lee, 2020a; Nikčevic & Spada, 2020). Tale compromissione della quotidianità aumenta a sua volta il distress e i sintomi psicopatologici per l’individuo (Duffy & Allington, 2020; Lee, 2020a; Nikčevic & Spada, 2020).

A fronte di tali premesse, da una prospettiva clinica risulta importante avere a disposizione strumenti che consentano ai professionisti della salute mentale e ai ricercatori di valutare e comprendere con precisione a livello individuale la natura e il livello del distress psicologico relativo alla pandemia da COVID-19. Al tempo stesso, risulta necessario identificare attraverso strumenti standardizzati le strategie di coping disfunzionali potenzialmente attuate dalla persona.

La COVID-19 Anxiety Syndrome Scale (C-19ASS)

Già nel 2020, a seguito della prima ondata, Nikčevic e Spada  (2020) hanno sviluppato uno strumento self-report finalizzato a valutare nello specifico le strategie di coping cognitivo-comportamentali in relazione al distress psicologico da COVID-19, inteso come aumentato senso di paura e minaccia del virus. Gli autori hanno definito l’insieme di tali strategie disfunzionali come “COVID-19 anxiety syndrome” e hanno nominato la scala inglese per misurare tale costrutto COVID-19 Anxiety Syndrome Scale (C-19ASS).

La scala C-19ASS è costituita da due fattori:

  • la perseverazione (ad esempio, preoccuparsi di non aver aderito rigorosamente alle linee guida sul distanziamento sociale per il coronavirus, leggere costantemente notizie legate al coronavirus compromettendo l’impegno nel lavoro – ad esempio scrivere email, lavorare su documenti di testo o fogli di calcolo).
  • l’evitamento (ad esempio, evitamento di luoghi pubblici, mezzi di trasporto collettivi, e contatto con oggetti a causa della paura e del senso di minaccia per il COVID-19, Nikčevic & Spada, 2020).

La scala C-19ASS è stata validata dapprima su un campione americano e in seguito in UK (Albery et al., 2021) e in Iran (Akbari, Seydavi, et al., 2021), dimostrandosi uno strumento affidabile e utile per identificare le strategie di coping disfunzionali in tale ambito.

La validazione italiana della COVID-19 Anxiety Syndrome Scale

Entro tale cornice Mansueto et al. (2022) hanno effettuato una validazione preliminare della versione italiana della scala C-19ASS in un campione di popolazione di 271 soggetti, attraverso la valutazione della struttura fattoriale, della validità di costrutto, validità interna e concorrente. Inoltre, lo studio ha avuto l’obiettivo di esplorare se la C-19ASS avesse un ruolo di mediazione nella relazione tra i tratti della personalità riferiti al modello del Big-FIve e gli outcome psicologici in un campione italiano. Per tale obiettivo sono stati coinvolti 484 partecipanti cui sono stati somministrati diversi strumenti self-report, tra cui la versione italiana della C-19ASS e una serie di questionari che misurano l’ansia da COVID-19, la compromissione del funzionamento nella quotidianità, la depressione, l’ansia generalizzata, l’ipocondria; inoltre è stato somministrato Big-Five Inventory-10 (BFI-10; Rammstedt & John, 2007).

 I risultati dell’analisi fattoriale hanno confermato che la versione italiana della C-19ASS è composta da 9 items, divisi in due fattori che corrispondono a due sotto-scale, appunto il fattore “perseveranza” (sei items) e il fattore “evitamento” (3 items). La scala dimostra una buona coerenza interna, validità convergente e validità incrementale. Si comprova quindi uno strumento valido per l’assessment delle strategie di coping disfunzionali legate all’ansia da COVID-19 anche nella popolazione italiana.

Ulteriori analisi statistiche hanno poi evidenziato che il fattore Perseveration della scala C-19ASS media la relazione tra stabilità emotiva e sintomi di outcome a livello psicologico (depressione, ansia generalizzata e ipocondria).

Tale fattore risulterebbe quindi particolarmente critico e più deleterio, in termini di salute mentale rispetto al fattore evitamento, proprio per il fatto che assume una funzione di mediazione, in soggetti con maggiore instabilità emotiva. La presenza di strategie di coping disfunzionale di perseveranza nei soggetti che presentano elevata instabilità emotiva (per come misurata dal BIG5 Inventory-10) porta a peggiori esiti psicopatologici in termini di ansia generalizzata, ipocondria e depressione.

Riguardo alla correlazione tra gli altri fattori di personalità del Big-Five e i sintomi psicopatologici i dati del presente studio confermano le evidenze già presenti in letteratura, ovvero che il fattore coscienziosità rappresenta un fattore protettivo per la depressione e per l’ansia generalizzata ( Koorevaar et al., 2017), mentre l’estroversione lo sarebbe per la depressione (Akbari, Seydavi, et al., 2021; Lyon et al., 2021; Koorevaar et al., 2017). Come già accennato sopra, la stabilità emotiva sarebbe un fattore protettivo per l’ansia generalizzata, l’ipocondria e la depressione (Akbari, Seydavi, et al., 2021; Jylhä & Isometsä, 2006; Nikčevic et al., 2021).

Inoltre, dalle analisi statistiche sono emerse differenze di genere riguardo la scala C-19ASS: I soggetti di genere femminile presentavano punteggi significativamente maggiori nella sottoscala Perseveration della C-19ASS rispetto ai soggetti di genere maschile. Tale risultato è coerente con i dati relativi al campione Iraniano (Akbari, Seydavi, et al., 2021).

Considerazioni conclusive

In conclusione, la versione italiana della C-19ASS si configura come uno strumento valido, affidabile e riconosciuto in letteratura per la valutazione della sindrome d’ansia da COVID-19 e delle strategie di coping disfunzionali ad essa correlate anche in ambito clinico per valutare e quindi intervenire precocemente sugli esiti psicopatologici legati alla pandemia.

 

Benessere psicologico: pensare al futuro, tra guerra e pandemia

La teoria del benessere psicologico propone che esso dipenda dall’esperienza precoce e dalla personalità sottostante, ma le esperienze quotidiane, se sono positive possono aiutare a mantenere un buon livello di benessere psicologico, se sono negative, invece, ne riducono i livelli, portando a scarsi risultati di salute.

 

 Sono numerosi gli studi condotti sul “benessere psicologico (PWB)”, da poter affermare che a garantire una vita equilibrata non sono solo le condizioni di salute, il reddito e lo status sociale, ma soprattutto gli indicatori soggettivi del benessere, ovvero valutazioni che gli individui stessi esprimono sulla percezione del proprio stato di salute, sul grado di soddisfazione espresso per quanto riguarda i risultati conseguiti e le prospettive future (Biswas-Diener et al., 2001).

Le componenti edonica ed eudaimonica del benessere psicologico

A tal proposito si possono distinguere due aspetti importanti del benessere psicologico.

Il primo, è il “benessere edonico”, basato sul concetto che la felicità scaturisca dalla soddisfazione personale e dalla massimizzazione del piacere. Questo aspetto del benessere psicologico viene definito come benessere soggettivo (Diener, 2000) e viene considerato il principale indice di valutazione per la felicità umana, attraverso la valutazione di tre fattori fondamentali: presenza di emozioni positive, assenza di emozioni negative e massima soddisfazione nella vita (De Vivo & Lumera, 2020). Il benessere edonico è costituito da due componenti: una affettiva (alto= affetto positivo e basso= affetto negativo) e l’altra cognitiva (soddisfazione per la vita). Ne deriva, che elevati livelli di affetto positivo e soddisfazione per la vita provochino felicità (Carruthers & Hood, 2004).

Oltre al benessere edonico, esiste anche il “benessere eudaimonico” che intende la felicità come realizzazione del proprio autentico potenziale come essere umano (De Vivo & Lumera, 2020).

Il filone della felicità eudaimonica si è affermata grazie agli studi di Ryff e Singer (1998, 2000, 2004) che hanno introdotto un approccio multidimensionale costituito da sei tipi di benessere psicologico: auto-accettazione (che riflette l’atteggiamento positivo dell’intervistato nei confronti di sé stesso), padronanza ambientale (che indica che la persona fa un uso efficace delle opportunità e ha un senso di padronanza nella gestione dei fattori e delle attività ambientali, inclusa la gestione degli affari quotidiani e creare situazioni a beneficio dei bisogni personali), relazioni positive con gli altri (che riflette l’impegno della persona in relazioni significative con gli altri che includono empatia reciproca, intimità e affetto), crescita personale (che indica che la persona accoglie nuove esperienze e riconosce il miglioramento del comportamento e di sé nel tempo), scopo nella vita (che riflette il forte orientamento all’obiettivo e la convinzione della persona che la vita abbia un significato) e autonomia (che riflette il forte orientamento all’obiettivo e la convinzione della persona che la vita abbia un significato). Attraverso questo diverso approccio c’è stato uno spostamento di attenzione da un benessere inteso come ricerca di piacere ad un concetto di felicità intesa in senso più ampio, quindi sia come sviluppo delle potenzialità individuali, che come integrazione nella società (Ryff e Singer 1998, 2000, 2002, 2004).

Benessere psicologico e stile di vita

Le teorie del benessere psicologico generalmente si concentrano sulla comprensione della sua stessa struttura e delle dinamiche (cioè le cause e le conseguenze della Psychological Well-being, PWB). Inoltre, la scomposizione del benessere psicologico in componente edonica ed eudaimonica ed il modello di Carol Ryff sono teorie ampiamente accettate sulla struttura del benessere psicologico. Il benessere psicologico è relativamente stabile e viene influenzato sia dalle esperienze precedenti (inclusa, ad esempio, l’educazione precoce) che dalla personalità sottostante.

Da diversi studi è emerso che il nostro stile di vita conta molto più della genetica nel determinare lo stato di salute complessivo. Lo confermano “i telomeri”, particolari molecole del nostro organismo, in grado di dirci se siamo maggiormente predisposti a sviluppare una determinata malattia o meno, in quanto svolgono il fondamentale ruolo di “sentinelle della nostra salute”. La scienza considera l’accorciamento dei telomeri come un vero e proprio orologio biologico che determina la durata della vita di una cellula e dunque dell’organismo corrispondente. Questo accorciamento non è dovuto solo ad un processo di crescita naturale, ma è accelerato anche da stili di vita inadeguati e particolari condizioni psicologiche che creano le premesse per la comparsa di malattie e l’invecchiamento precoce. In particolare, lo stress viene considerato uno dei più grandi nemici dei telomeri (De Vivo & Lumera, 2020).

Le persone che vivono esperienze stressanti hanno maggiori probabilità di essere predisposte a disturbi dell’umore e d’ansia (Gladstone, Parker e Mitchell, 2004). Allo stesso tempo, però l’esposizione ad eventi estremamente traumatici può aiutare allo sviluppo della resilienza, proteggendo il benessere psicologico. È stato infatti osservato che personalità più forti e resilienti sono associate a telomeri più lunghi e che l’esposizione ad eventi estremamente traumatici può contribuire alla costruzione della resilienza e dunque alla protezione del benessere psicologico (De Vivo & Lumera, 2020).

Ad esempio, i bambini esposti a eventi moderatamente stressanti sembrano in grado di affrontare meglio i successivi fattori di stress (Khobasa & Maddi, 1999). Lo stesso impatto “inoculante” di eventi stressanti è stato osservato anche negli adulti che lavorano (Soloman, Berger e Ginsberg, 2007).

 Vi sono diverse prove che dimostrano che l’esposizione a lunghi periodi caratterizzati da stress legati al lavoro avrà un impatto negativo sul benessere psicologico. Quindi, mentre brevi periodi di avversità sono utili per lo sviluppo della resilienza, lo stress a lungo termine non contribuisce a mantenere il benessere psicologico dell’individuo, portando allo sviluppo di malattie cardiovascolari, problemi con il controllo della glicemia (es. diabete) e malfunzionamento del sistema immunitario (Chandola et al, 2008).

In sintesi, la teoria del benessere psicologico propone che esso dipenda dall’esperienza precoce e dalla personalità sottostante, ma le esperienze quotidiane, se sono positive possono aiutare a mantenere un buon livello di benessere psicologico, se sono negative, invece, riducono i livelli di benessere psicologico, portando a scarsi risultati di salute.

Il benessere psicologico nella società odierna

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Di conseguenza, la salute sia fisica che mentale è data da fattori biologici, sociali e psicologici che possono influenzare in maniera negativa la qualità di vita degli individui. Diversi avvenimenti accaduti negli ultimi anni (es. guerre, crisi economiche, pandemie etc.), hanno influito sulla qualità della vita e sulla capacità delle persone, soprattutto in età adolescenziale, di riuscire a “pensare al futuro” in modo positivo, con conseguente aumento di situazioni patologiche quali ad esempio stati depressivi, ansia, suicidi, etc.

“Pensare al futuro” è una fondamentale caratteristica cognitiva umana che supporta gli individui nella visione di sé stessi (es., Ricci Bitti, P. E., & Zambianchi, M., 2012). Il pensiero futuro cambia nel corso dello sviluppo poiché fantasia e creatività occupano un ruolo di primo piano nel modellare quest’attività durante l’infanzia, mentre nell’età adulta avviene la pianificazione della vita familiare e professionale. Il pensiero futuro gioca un ruolo particolarmente importante nell’adolescenza, in quanto basato sulle rappresentazioni della realtà e costituisce la componente alla base della struttura dell’identità psicologica che agevola in modo progressivo la transizione verso l’età adulta, in cui gli adolescenti si trovano ad integrare i loro pensieri sul futuro con il loro presente, fissare obiettivi e decisioni che andranno ad influenzare le opportunità successive di vita. Un fallimento in questa fase dello sviluppo corrisponde ad un fattore di rischio significativo per l’abbandono scolastico, la delinquenza e gli esiti negativi della salute mentale. Sebbene i fattori individuali e le determinanti familiari vadano ad influenzare il pensiero futuro degli adolescenti, le contingenze epocali svolgono un ruolo molto importante nel modellare il modo in cui vengono visti gli scenari sociali futuri e i potenziali relativi risultati individuali.

A questo proposito, la visione del futuro degli adolescenti contemporanei a livello globale è apparsa come piuttosto cupa ed incerta.

In prima istanza basti pensare agli effetti della crisi socioeconomica iniziata nel 2008, in cui il Paese, incapace di crescere, alternando periodi di stagnazione e recessione economica, ha affrontato un lungo periodo d’impoverimento. Gli adolescenti che aspirano per il loro futuro ad un miglioramento economico rispetto alle generazioni precedenti e all’affermazione di un ruolo di successo all’interno della società appaiono scoraggiati rispetto al passato poiché nel corso degli ultimi anni questa prospettiva ha ricevuto un duro colpo. L’infrangersi di queste aspirazioni nella rappresentazione di una realtà deludente ha portato ad una visione più pessimistica del futuro, con evidenti ripercussioni sulla salute mentale. In seconda istanza, ad aggravare tale visione pessimistica, ci sono i cambiamenti climatici, percepiti come una minaccia sempre più imminente con conseguenti eventi meteorologici catastrofici e effetti del riscaldamento globale su ghiacciai, raccolti e zone costiere, oggi fenomeni evidenti e iniziative mondiali come Youth for Climate e Fridays for Future confermano quanto i giovani siano consapevoli del problema ambientale. In terza istanza la pandemia da Covid-19 e le sue conseguenze come il lockdown e le successive chiusure scolastiche, hanno esposto gli adolescenti ad uno stress i cui effetti a lunga durata sull’attività mentale sono segnalati sempre di più a livello globale. Inoltre, il conflitto attualmente in corso in Ucraina, ha infranto la progressiva illusione che dopo la prima e la Seconda guerra mondiale il mondo occidentale fosse in qualche modo immune all’opzione della guerra come mezzo per risolvere le varie controversie, nonostante dopo la Seconda guerra mondiale le guerre in tutto il mondo non siano mai cessate. Inoltre, sono di fondamentale importanza anche i potenziali effetti traumatogeni di tali situazioni che sono amplificati dalla continua esposizione mediatica alla violenza e alla disperazione di questi contesti. È fondamentale il ruolo degli eventi per immaginare e plasmare gli scenari del proprio futuro. Ognuno di questi eventi ha generato un particolare fattore di rischio e il loro effetto cumulativo sulla salute mentale si prospetta come ancora più grave, soprattutto in termini di aumento delle manifestazioni psicopatologiche e impatto transgenerazionale (Paredes et al., 2021).

In conclusione, negli ultimi 15 anni, diversi fenomeni a livello globale hanno influito sul pensiero futuro della società, inducendo una visione pessimistica particolarmente atroce per le persone ed in modo particolare per gli adolescenti che, trovandosi in una fase di sviluppo delicata, sono maggiormente influenzati da tale visione futura rispetto a bambini e adulti.

 

Mindful eating on the go (2022) a cura di Paola Iaccarino Idelson – Recensione

Nel testo “Mindful eating on the go” l’autrice affronta la tematica del Mindful Eating, ovvero dell’atteggiamento di consapevolezza da adottare durante i pasti.

 

 Si tratta di togliere il “pilota automatico” ed essere coscientemente presenti, in un’attività che ci impegna almeno tre volte al giorno, bere e/o mangiare.

Il libro contiene diversi esercizi, e per ciascuno è possibile scaricare la relativa traccia audio: per ognuno di essi vengono approfondite le scoperte che sarà possibile compiere, supportate da studi scientifici.

“Mindful Eating on the go” si presta ad essere un libro tascabile, da portare sempre con sé e, di volta in volta, è possibile scegliere un esercizio da fare o, di contro, lo si può leggere tutto d’un fiato.

Alimentarsi è una delle attività più piacevoli per l’uomo, eppure, a volte, essa diviene fonte di sofferenza, risposta automatica al nervosismo, all’agitazione, all’ansia, capro espiatorio del nostro disagio, ed allora si finisce per mangiare al fine di riempire un vuoto emotivo.

Praticare il Mindful Eating conduce a prestare attivamente attenzione a ciò che accade sia dentro di noi, nel corpo, nella mente e nel cuore, sia fuori di noi, nell’ambiente circostante, mentre mangiamo, adottando un atteggiamento non giudicante.

L’autrice illustra le Nove Fami, al fine di raggiungere la consapevolezza di come l’alimentazione sia un’esperienza multisensoriale:

  • Fame degli occhi
  • Fame del tatto
  • Fame delle orecchie
  • Fame del naso
  • Fame della bocca
  • Fame dello stomaco
  • Fame cellulare (fame del corpo)
  • Fame della mente
  • Fame del cuore

Inizialmente è utile allenarsi nel riconoscimento di ciascuna delle nove fami, approcciandosi all’alimento in maniera consapevole, osservandone la consistenza, annusandone l’aroma, ascoltando il rumore che emette, rievocando le emozioni a cui è legato; successivamente sarà possibile mangiare in maniera Mindful ed interrogare ciascuna parte del corpo per capire chi ha fame dentro di noi.

È come un conducente di autobus con nove passeggeri indisciplinati. Ogni passeggero ti dice come guidare (più veloce, più lento) e dove andare (vai al centro commerciale; no, portami a casa). Il conducente dell’autobus non può reagire a tutti questi input emotivamente. Deve ascoltare, soppesare quello che ogni passeggero reclama, e poi prendere una decisione.

Esercitandoci nel Mindful Eating, impareremo ad ascoltare maggiormente i segnali del corpo e a fermarci quando siamo sazi, o anche prima, considerando che il senso di sazietà arriva dopo venti minuti che abbiamo iniziato a mangiare: capita spesso che quando si va a mangiare al ristorante si è sazi dopo la prima o seconda portata, eppure spesso non si resiste ad ordinare il dolce; mentre il nostro stomaco ci implora di fermarci perché avrà tanto lavoro da fare, i nostri occhi, la nostra bocca implorano il tiramisù, la cheesecake o il semifreddo.

 Il segreto del Mindful Eating è rallentare. Del resto, non c’è nulla di nuovo da imparare per mangiare in maniera presente, dal momento in cui anche i bambini sanno farlo; è il retaggio culturale che spinge, negli anni successivi, a finire tutto ciò che è presente nel piatto.

Esercizi interessanti e coinvolgenti sono ad esempio, il mangiare con la mano non dominante, apparecchiare la tavola come in presenza di ospiti, dove l’ospite siamo noi, assaggiare un frutto sconosciuto: occorre riacquisire lo stupore di chi si approccia al cibo per la prima volta, come uno scienziato curioso:

Nel mindful eating, tu sei contemporaneamente uno scienziato, una cavia da sperimentazione e un laboratorio. Mentre la cavia mangia (tu), lo scienziato curioso (tu) osserva e prende nota di ciò che accade nel corpo, nel cuore e nella mente (il laboratorio).

Centrale è l’atteggiamento di gratitudine: prima di assaporare un determinato cibo possiamo interrogarci su come sia arrivato sulla nostra tavola, quante persone, mani, animali, ci hanno lavorato, per generare quell’alimento.

Dopo esserci allenati in solitaria, potremo praticare il Mindful Eating in compagnia.

L’effetto della sensibilità al rifiuto sulla paura dell’intimità nei giovani adulti

Giovazolias e Paschalidi (2022) hanno ipotizzato che la sensibilità al rifiuto fosse associata alla paura dell’intimità attraverso la mediazione dell’ansia interpersonale nelle relazioni intime.

 

 L’intimità è definita dai “sentimenti di vicinanza, connessione e legame nelle relazioni d’amore” (Sternberg, 1997, p. 315) ed è un elemento importante delle relazioni strette. È stato rilevato che influisce sulla qualità delle relazioni, sulla soddisfazione relazionale e sul benessere (Thelen et al., 2000; Weisskirch, 2018).

Le ricerche esistenti sottolineano l’importanza delle relazioni nell’età adulta emergente per il benessere di tutta la vita (ad es., Desjardins & Leadbeater, 2017; Rohner, 2008). Sembra che durante la prima età adulta le relazioni possano avere un impatto maggiore sull’adattamento psicosociale rispetto alle esperienze parentali ricordate, poiché i bisogni di attaccamento tendono a essere trasferiti dalla famiglia ai partner romantici e ai coetanei (Arnett, 2000; Dykas & Siskind, 2018).

Paura dell’intimità, stile di attaccamento e sensibilità al rifiuto

Un fattore significativo che sembra costituire un ostacolo alla formazione di relazioni sentimentali è la paura dell’intimità che si riferisce alla “capacità inibita di un individuo di scambiare pensieri e sentimenti di significato personale con un altro individuo molto apprezzato” (Descutner & Thelen, 1991, p. 219). Ricerche e teorie precedenti si sono concentrate sull’effetto delle prime relazioni di attaccamento sulla capacità di creare relazioni romantiche intime in età adulta (Phillips et al., 2013). I modelli di attaccamento insicuri che si sono sviluppati fin dalla prima infanzia possono portare a diverse difficoltà nel processo di intimità. In particolare, secondo Bartholomew (1990), le persone con un’elevata paura dell’intimità cercano l’intimità ma non hanno le competenze adeguate per raggiungerla, oppure negano il bisogno stesso di relazioni intime.

Un altro costrutto importante in questi processi è la sensibilità al rifiuto introdotto da Downey e Feldman (1996). Secondo il loro modello teorico, le esperienze di rifiuto sistematico interpersonale e (soprattutto) parentale nell’infanzia possono portare a una maggiore sensibilità nell’esperienza del rifiuto. Le persone altamente sensibili al rifiuto tendono ad avere aspettative, percezioni e reazioni più intense alle esperienze di rifiuto (Downey & Feldman, 1996).

Le aspettative di rifiuto sembrano attivarsi in circostanze in cui c’è una maggiore probabilità di una risposta emotiva negativa, come ad esempio il processo di intimità (Zimmer-Gembeck, 2015).

Secondo Montgomery (2005), i giovani adulti che evitano l’intimità cercano di proteggersi dalla possibile esposizione al rifiuto. Si potrebbe per cui pensare che la sensibilità al rifiuto possa portare a un desiderio e a una capacità inibiti di relazioni intime nell’età adulta emergente.

La teoria e la ricerca, inoltre, indicano che l’esperienza del rifiuto, reale o percepito, è legata a un aumento dell’ansia e del disagio interpersonale (Preti et al., 2018). L’ansia interpersonale è definita come una paura diffusa nei contesti relazionali, attivata da stimoli relazionali (Rohner, 2008). L’ansia relazionale è anche legata alla tendenza al ritiro da contesti sociali significativi per lo sviluppo, come il processo di intimità (Shulman & Connolly, 2013).

Sensibilità al rifiuto e paura dell’intimità

Giovazolias e Paschalidi (2022) hanno per cui ipotizzato che la sensibilità al rifiuto fosse associata alla paura dell’intimità attraverso la mediazione dell’ansia interpersonale nelle relazioni intime.

 I risultati del loro studio hanno rilevato che le donne mostrano una maggiore sensibilità al rifiuto e ansia interpersonale rispetto agli uomini, mentre per quanto riguarda la paura dell’intimità questi hanno riportato punteggi più alti delle donne. Questo risultato può essere compreso attraverso il ruolo di genere orientato alla relazione delle donne, che può motivarle a sperimentare l’intimità in misura maggiore rispetto agli uomini (North & Fiske, 2014).

La sensibilità al rifiuto sembra influire sullo sviluppo della paura dell’intimità. Questo risultato conferma l’ipotesi teorica che la paura dell’intimità sia il risultato di rappresentazioni disfunzionali che si sono sviluppate nell’ambito del rifiuto percepito (Cash et al., 2004). L’aspettativa di rifiuto e la ricezione di stimoli di rifiuto potrebbero inibire la capacità di sviluppare relazioni interpersonali intime e strette (Norona et al., 2016).

Un’altra ipotesi confermata nello studio è che l’ansia interpersonale agisce come mediatrice nella relazione tra sensibilità al rifiuto e paura dell’intimità. Questo risultato ha una duplice importanza: da un lato, suggerisce che la presenza di un’elevata sensibilità al rifiuto può prevalere sulla presenza di ansia interpersonale nelle relazioni; dall’altro, propone un modo attraverso il quale essa può portare a un aumento della paura dell’intimità. Infatti, l’ansia interpersonale può portare alla paura dell’intimità, poiché è stato dimostrato che gli individui con un’elevata ansia interpersonale rispondono alle condizioni sociali con pensieri più negativi e adottando comportamenti evitanti nelle relazioni (Afram & Kashdan, 2015).

Per quanto riguarda invece il ricordo del rifiuto paterno e materno, preso in considerazione nelle analisi, non sono state osservate differenze di genere. L’ipotesi che l’accettazione ricordata dai genitori avrebbe moderato le relazioni tra sensibilità al rifiuto, ansia relazionale e paura dell’intimità è stata parzialmente confermata. In particolare, l’analisi di mediazione moderata ha mostrato che l’accettazione materna ricordata può inibire lo sviluppo della paura dell’intimità nei giovani adulti con un’alta sensibilità al rifiuto e un’elevata ansia interpersonale.

L’effetto moderatore dell’accettazione materna sullo sviluppo della paura dell’intimità denota l’esistenza di fattori protettivi specifici che possono ridurre gli effetti collaterali delle rappresentazioni mentali disfunzionali relative al rifiuto. Inoltre, sembrerebbe indicare il ruolo differenziale di ciascun genitore negli obiettivi relazionali (Desjardins & Leadbeater, 2017).

Questo risultato probabilmente riflette in parte il forte ruolo della figura materna nelle famiglie patriarcali. Secondo Georgas et al. (2006), la madre nella famiglia patriarcale possiede il ruolo espressivo, ovvero il sostegno emotivo e la cura dei membri della famiglia. Ricerche pertinenti hanno mostrato che, nelle società patriarcali (come quella greca), l’accettazione materna ricordata può influenzare l’adattamento psicosociale più dell’accettazione paterna ricordata, forse perché le madri sono quelle più attivamente coinvolte nella cura e nella crescita dei figli (Sultana & Khaleque, 2016).

In ogni caso, questo risultato conferma la posizione teorica secondo la quale l’accettazione dei genitori è legata a un migliore adattamento interpersonale (Rohner, 2008). Conferma, inoltre, che la qualità della relazione materna è cruciale per la capacità di esprimere l’intimità (Alperin, 2006; Rohner et al., 2019).

Giornata Nazionale della Psicologia 2022 – Comunicato stampa

In occasione della Giornata nazionale della psicologia 2022, lunedì 10 ottobre alla Casa della Psicologia, a Milano, l’Ordine degli Psicologi della Lombardia promuove un evento dedicato al tema: “I percorsi della resilienza nella sanità lombarda. Dalla psicologia delle cure primarie alle case di comunità”. Con la Presidente dell’Ordine, Laura Parolin, intervengono politici regionali e comunali, docenti e psicologi.

   Milano, 6 ottobre 2022 – Comunicato Stampa

 

 Non c’è salute senza salute mentale. Dalla pandemia si parla molto di resilienza, e persino il PNRR si richiama a questo concetto; un termine che in psicologia indica la capacità di superare un evento traumatico o, più in generale, di affrontare efficacemente un periodo di difficoltà e le sfide della vita.

In un mondo sempre più complesso, dove le situazioni problematiche e le emergenze si moltiplicano, la promozione della resilienza diviene un obiettivo di primaria importanza; non solo a livello di singole persone ma di gruppi, organizzazioni e comunità, perché la resilienza può essere declinata e sviluppata a livello individuale e collettivo.

Al tema della resilienza è dedicata la Giornata Nazionale della Psicologia, in occasione della quale, lunedì 10 ottobre l’Ordine degli psicologi della Lombardia (Opl) ha promosso un evento presso la Casa della psicologia di Milano, in piazza Castello, 2, dal titolo: “I percorsi della resilienza nella sanità lombarda. Dalla psicologia delle cure primarie alle case di comunità”.

L’evento sarà trasmesso anche online su Gotowebinar. Oltre alla Presidente Opl, Laura Parolin, interverranno l’assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti e l’assessore al Welfare e salute del Comune di Milano, Lamberto Bertolè. Con loro ci saranno vari esponenti regionali, docenti e psicologi: Niccolò Carretta, Simona Tironi, Maria Francesca Freda, Ovidio Brignoli, Paola Pedrini, Elena Vegni.

 Migliorare le risorse psicologiche è fondamentale per lo sviluppo della resilienza, per consentire alle persone di avere atteggiamenti e comportamenti costruttivi ed efficaci nelle diverse situazioni, al fine di sviluppare equilibri adattivi positivi e ricostruirli quando necessario. Promuovere la resilienza è quindi una strategia di primaria importanza per la qualità della vita e la salute dei cittadini ma anche per la tutela e la promozione del capitale umano, lo sviluppo e la performance del Paese.

Ecco perché la Giornata Nazionale della Psicologia 2022, promossa dal Consiglio Nazionale Ordine Psicologi e dalla Comunità professionale psicologica vuole quest’anno sottolineare ed approfondire il tema della promozione della resilienza e dei percorsi umani e professionali per il suo sviluppo.

Il momento storico che stiamo vivendo -dichiara Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia- rappresenta un’opportunità per la nostra categoria professionale, quella di una sanità territoriale sempre più sensibile ai bisogni delle cittadine e dei cittadini. Una sanità presente e in ascolto, a tutela della salute psicologica. In questo senso, l’evento che abbiamo organizzato vuole dare voce a quella che credo sia la migliore espressione di questa Giornata Nazionale della Psicologia: quella di una categoria professionale integrata nelle Comunità, che mette a disposizione i suoi strumenti per la prevenzione e l’intervento di sostegno.

Dall’assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti arriva un plauso agli psicologi “per essersi messi generosamente a disposizione della popolazione, dei malati, dei loro familiari, dei giovani e anche degli operatori sanitari”.

La nostra Regione -dichiara Letizia Moratti- ha mostrato di essere resiliente in un momento molto drammatico: eravamo il primo territorio di un Paese occidentale colpito così duramente. Ma la resilienza non è acquisita per sempre, va coltivata e il ruolo degli psicologi è fondamentale: essi, combattendo lo stigma e il pregiudizio che ancora connotano il disagio psichico, possono aiutarci a convincere le persone a chiedere aiuto in modo precoce e tempestivo, spiegando che non bisogna mai vergognarsi di essere in difficoltà e che qualsiasi problema può essere affrontato con fiducia e ottimismo.

Infine, come ricorda l’assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano, Lamberto Bertolé:

La pandemia è stata uno shock, ma anche un’opportunità per comprendere quanto il benessere psicologico e mentale influisce sulla nostra vita e la condiziona. Il nostro compito è capitalizzare la grande attenzione che si è creata intorno a questo tema e lavorare perché si traduca in un cambiamento concreto del nostro sistema sanitario che conferisca alla salute mentale e a quella fisica pari dignità, sfruttando le possibilità che i nuovi strumenti – PNRR e Case di comunità in primis – ci mettono a disposizione.

 

Digital agency e ruolo degli adulti in adolescenza – Psicologia Digitale

Rientrano nell’espressione di agentività digitale tutti quei comportamenti in cui, in modo autonomo e deliberato, si agisce nel mondo digitale in base ad uno scopo autodeterminato. Insomma in parole povere: quando sentiamo di avere il controllo dei mezzi che stiamo utilizzando.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 32) Digital agency e ruolo degli adulti in adolescenza

 

 Essere una figura di riferimento oggi per gli adolescenti vuol dire trasmettere non solo messaggi educativi chiari ma anche fornirgli senso critico e capacità di giudizio.

Genitori, insegnanti, educatori: a loro spetta un compito davvero molto arduo. Accompagnare nel percorso di crescita i giovani è un lavoro complesso che deve adeguarsi all’epoca storica, al contesto socioculturale, alle specificità del gruppo e del singolo.

Richiede quindi di per sé un approccio dinamico e al passo coi tempi. Ma cosa fare quando i tempi corrono davvero veloci e i mezzi a disposizione dei ragazzi evolvono rapidamente?

Per esempio, il social che va di moda oggi tra gli adolescenti potrebbe non esserlo più in un anno o due; potrebbe nascere una nuova app, sito, modalità di scambio che ora non concepiamo neppure. È questa dinamicità uno dei grandi pregi di questa epoca digitale ma, al contempo, è anche uno dei principali fattori di incertezza e in alcuni casi addirittura di rischio: come fare a dare ai più piccoli gli strumenti adatti a gestire e gestirsi in questa moltitudine di stimoli?

L’alfabetizzazione digitale

Non è quindi sostenibile pensare di poter ‘insegnare’ ad usare uno specifico social e risolvere così questo problema (Nesi et al., 2020). Un approccio ‘classico’ è quello di dare delle specifiche direttive su cosa va fatto e cosa no: non condividere informazioni personali con persone che non conosci realmente; rifletti prima di pubblicare un contenuto, soprattutto se personale; non usare dispositivi in certe circostanze o orari; rimani connesso per un massimo di ore al giorno e via dicendo.

Questo non è errato e certamente è un primo, fondamentale passo. In famiglia, a scuola, nei luoghi di ritrovo con adulti che dettano confini utili con empatia e partecipazione: educazione e alfabetizzazione digitale sono importanti ma non bastano.

I messaggi che vengono trasmessi ai ragazzi in maniera esplicita (del tipo di fare o non fare una tale cosa) sono messaggi generici che non sono sempre applicabili.

Utili, corretti, validi, ma non sufficienti perché non flessibili abbastanza di fronte a sfide sempre nuove.

La chiave è non dare solo regole ed indicazioni ma fornire e sostenere la loro autonomia attraverso lo sviluppo di senso critico, capacità di giudizio e agentività.

L’agentività digitale

L’agentività si riferisce al sentirsi agenti attivi, sentire che le proprie intenzioni ed azioni possono avere un impatto. Che si tratti del singolo o di un gruppo, l’intenzionalità e la convinzione di poter avere un impatto sugli eventi sono la base di questo concetto teorizzato da Bandura (1982; 2017). Sentirsi in grado di poter influenzare attivamente contesto ed eventi a sua volta incide sul comportamento che sarà più o meno proattivo appunto perché si può poggiare o meno sulla fiducia nella propria capacità di influire su quello che accade. Così, al contrario, sentire di non avere un controllo sugli eventi incide negativamente sul comportamento che sarà allora più passivo e meno reattivo.

Come applicare questi concetti alla vita digitale?

L’espressione dell’agentività digitale negli adolescenti

L’agentività digitale o digital agency indica questo sentirsi agenti attivi online dove si esprime la propria intenzionalità sul contesto digitale.

Quali sono i comportamenti in cui gli adolescenti manifestano la loro agentività digitale?

Online gli adolescenti possono soddisfare e sperimentare dei bisogni tipici della loro fase di sviluppo: espressione di sé e dei propri interessi e valori, connessione con i coetanei e scoperta del mondo esterno.

La sfida si presenta quando ci si scontra con situazioni in cui tutto questo non dipende solo da se stessi oppure è necessario mediare tra i propri bisogni e quelli altrui. Per esempio quando un contatto pubblica una foto o un video senza autorizzazione; quando le impostazioni della privacy di una app non soddisfano i nostri bisogni di sicurezza, ecc.

Questi sono solo alcuni esempi di situazioni potenzialmente critiche.

Dati interessanti emergono dalla ricerca di Weinstein e James (2022) in cui i partecipanti hanno descritto alcune delle loro abitudini digitali, come ad esempio l’importanza della personalizzazione: del feed, decidendo a quali tipologie di contenuti esporsi; delle notifiche; delle tempistiche (se e quando mettere da parte lo smartphone); verificare post e video prima che vengano pubblicati; impostare filtri per la privacy; condividere o meno la posizione; gli esempi possono essere infiniti.

Rientrano nell’espressione di agentività digitale tutti quei comportamenti in cui, in modo autonomo e deliberato, si agisce nel mondo digitale in base ad uno scopo autodeterminato. Insomma in parole povere: quando sentiamo di avere il controllo dei mezzi che stiamo utilizzando.

Il ruolo degli adulti per costruire sane abitudini digitali

Quando si tratta dei più giovani la cosa più ovvia che viene in mente è che la responsabilità educativa ricade sugli adulti che fanno parte della loro vita quotidiana. In tal senso, sono proprio queste le figure cui fanno riferimento: genitori, insegnanti, educatori sono quelli che prendono decisioni che hanno un impatto sulla vita digitale dei ragazzi, come consentire o limitare l’uso dei dispositivi.

Riconoscere il loro ruolo crea le condizioni per stabilire delle strategie che possono aiutare a supportare la costruzione di un buon senso critico da parte degli adolescenti (Weinstein e James, 2022).

Questo può voler dire tante cose. Piuttosto che focalizzarsi sulla quantità di tempo speso online e porre limitazioni su questo, è più utile concentrarsi su ciò che l’adolescente fa durante questo tempo, esplorare quali sono le motivazioni e gli scopi che guidano le sue azioni, quali sono i suoi obiettivi e cosa gli fa bene e cosa meno; anticipare e discutere diversi scenari in cui potrebbe trovarsi, scenari ambigui, complessi, che possono essere fonte di stress.

Un dialogo aperto e sincero aiuta a diminuire l’ansia, promuove abilità comunicative, fa sentire agenti attivi e dà le basi per sviluppare autonomia.

Di pari passo con la crescita varia il livello di sostegno ed il grado di autonomia di cui i ragazzi hanno bisogno: se per i più piccoli è importante avere delle regole e dei limiti con una supervisione diretta, per i più grandi si può pensare ad un tutoraggio sempre meno legato alle regole in favore di dialogo e spazio per l’esplorazione.

In generale, è auspicabile che ci siano riflessioni a più livelli circa la funzione degli adulti: a loro spetta un ruolo che da un lato tuteli e dall’altro favorisca lo sviluppo di sane abitudini digitali.

 

Il mismatch evoluzionistico: quando biologia e cultura fanno a botte

Il contesto in cui viviamo si è modificato più velocemente di quanto possa aver fatto la nostra biologia, attraverso la selezione naturale; l’esito di tale discrepanza, definito mismatch evoluzionistico (o “ritardo del genoma”) ha reso il mondo in cui viviamo non sempre così “comodo” per le nostre caratteristiche consolidatesi nel corso dell’evoluzione.

 

Tendenze antiche, effetti moderni

Quando facciamo psicoeducazione con i nostri pazienti, spesso spieghiamo loro che le emozioni che provano non sono patologiche ma funzionali. La paura, ad esempio, serve a difendersi dai pericoli e a rimanere quindi in vita.

Se fosse davvero così, però, dovremmo temere ciò che davvero ci uccide: considerato che la principale causa di morte nei paesi industrializzati sono le cardiopatie, favorite da abitudini disfunzionali come la sedentarietà, il fumo, l’obesità e lo stress, oggi dovremmo spaventarci terribilmente di fronte a uno spritz con le patatine, fuggire a gambe levate di fronte a un pacchetto di sigarette, inorridire al solo pensiero di lavorare per ore seduti a una scrivania. Eppure, di fronte a questi elementi, letali per l’esistenza, la nostra fisiologia rimane silente, non percepiamo alcuna sensazione di allarme e di certo non si scatena in noi una reazione di attacco/fuga.

Dunque, ciò che raccontiamo ai pazienti è una sorta di favola ben confezionata?

No, affatto! Il nostro antico modo di reagire a un mondo un tempo più pericoloso, ma con dinamiche estremamente più semplici di quello attuale, perdura anche oggi: ci spaventiamo per un’auto che ci viene incontro, esattamente come avremmo fatto con una tigre dai denti a sciabola; ci disperiamo per una figuraccia e continuiamo a soffrire la solitudine esattamente come l’esclusione dal gruppo metteva a repentaglio la nostra vita centinaia di migliaia di anni fa; tendiamo a essere cooperativi con il nostro gruppo di appartenenza e un po’ più competitivi e timorosi con gli altri gruppi; sobbalziamo quando sentiamo un forte rumore o ci immobilizziamo di fronte a una fune che di primo acchito ci era parsa un serpente. Antichi retaggi della nostra specie continuano a vivere in noi, pur senza averne consapevolezza, e tali retaggi si manifestano in un mondo ben diverso da quello in cui sono emersi. Tendenze ancestrali che nel mondo odierno possono risultare inutili o talvolta dannose.

I nostri geni sono, in qualche misura, burattinai che ci fanno desiderare cose che a volte sono positive per loro ma negative per noi (come le relazioni extraconiugali o il prestigio acquistato a spese della felicità) (Haidt, 2020).

Scimmie culturali

Per milioni di anni, le specie si sono evolute adattandosi, “a rimorchio”, a un ambiente in lento cambiamento. Gli organismi che manifestavano mutazioni genetiche casualmente più adatte sono sopravvissuti e si sono riprodotti. Cambia l’ambiente, cambia la biologia. Ad un certo punto, però, questo equilibrio si è alterato: l’ambiente ha iniziato a modificarsi molto più rapidamente dei ritmi della selezione naturale, e la causa di questo cambio di passo è stato proprio l’essere umano. Infatti, il contesto in cui viviamo si è modificato, attraverso la cultura, più velocemente di quanto possa aver fatto la nostra biologia, attraverso la selezione naturale; l’esito di tale discrepanza, definito mismatch evoluzionistico (o “ritardo del genoma”) ha reso il mondo in cui viviamo non sempre così “comodo” per le nostre caratteristiche consolidatesi nel corso dell’evoluzione (Fistarollo e Faggian, 2022). Siamo pur sempre degli animali, per quanto particolari, che per il 99% del loro percorso evoluzionistico hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori, evolvendosi lentamente in un ambiente, definito Environment of Evolutionary Adaptedness (EEA), il quale ha proposto pressoché le medesime pressioni evoluzionistiche relative all’acquisizione di cibo, all’evitamento dei predatori, ai requisiti di accoppiamento, alla cura della prole e ad altre sfide di sopravvivenza (Tooby e Cosmides, 2008).

La cultura umana, però, ha lo straordinario e unico potere di trasformare l’ambiente, e di conseguenza lo stile di vita degli umani stessi. Il primo enorme cambiamento è avvenuto all’incirca 10.000 anni fa, con la Rivoluzione Agricola: l’Homo Sapiens ha smesso i panni del nomade per iniziare una vita stanziale, basata perlopiù sull’agricoltura e sull’allevamento. Sono nati villaggi, paesi, città. Sono cambiati i ruoli, è iniziata un’organizzazione gerarchica della società. L’uomo ha iniziato a imprimere un’impronta ben visibile sull’ambiente. Ha modificato la propria alimentazione, il rapporto con alcune specie animali, lo stile di vita, la percezione del mondo. “Con l’avvento dell’agricoltura, le preoccupazioni circa il futuro iniziarono a ricoprire un ruolo di primo piano nel teatro della mente umana” (Harari, 2011).

Il secondo cambiamento, decisivo, è avvenuto con la Rivoluzione Industriale. In maniera estremamente rapida, gli esseri umani hanno iniziato a intrattenere un rapporto, costante e intimo, con le macchine. I ritmi della quotidianità si sono adattati a quelli del lavoro, nuove gerarchie e ruoli si sono ulteriormente definiti. È nato il cibo spazzatura, prodotto industrialmente. È esplosa la sedentarietà, le condizioni di lavoro disagevoli. La popolazione mondiale è aumentata a dismisura. È emerso il grave problema dell’igiene, con una nuova consapevolezza. Il contatto con la natura si è progressivamente estinto, fino a oggi. L’essere umano ha scoperto la solitudine; a proposito, ancora Harari (2011), “Milioni di anni di evoluzione ci hanno modellato a vivere e a pensare come membri di una comunità. Nel giro di appena due secoli, siamo diventati individui alienati. Non c’è niente che testimoni meglio di ciò l’incredibile potere della cultura”.

Per dare l’idea di quanto i cambiamenti apportati dalla Rivoluzione Industriale siano recenti, immaginiamo di collocare tutta l’evoluzione umana in una classica giornata di lavoro, dalle 9:00 alle 17:00; ebbene, la Rivoluzione Industriale sarebbe avvenuta all’incirca alle 16:59 e 58 secondi! Lo stile di vita odierno è dunque una recentissima eccezione nel nostro percorso evoluzionistico, a cui non siamo totalmente adatti. “È come se le persone del mondo attuale facessero girare software del ventunesimo secolo su un hardware vecchio di 50.000 anni” (Wright, 2004). Siamo una sorta di ibrido tra animali che lottavano per la sopravvivenza nella savana e animali culturali che sgomitano per un salto di carriera in aziende multinazionali. “Biologicamente, siamo più o meno lo stesso animale che vagava nelle savane del pleistocene: una scimmia africana cacciatrice, da branco. Culturalmente, però, siamo irriconoscibili” (Stewart-Williams, 2018). Abbiamo tendenze antiche collocate in ambienti ipertecnologici. “Viviamo in città e periferie, guardiamo la tv e beviamo birra, mentre siamo spinti da impulsi progettati per diffondere i nostri geni in una piccola popolazione di cacciatori-raccoglitori” (Wright, 1994).

Nuovi modi di stare male

Quali sono gli effetti del mismatch evoluzionistico sulla salute degli esseri umani? Quando assieme alla collega Silvia Faggian abbiamo posto questa domanda agli allievi di Studi Cognitivi, le loro risposte sono state estremamente calzanti! Una volta acquisito il concetto di mismatch, infatti, basta guardarsi attorno per notare come molto del disagio psico-fisico della nostra epoca sia da ricollegarsi al contesto ambientale e allo stile di vita moderno. Ormai da qualche decennio è infatti risaputo che “le malattie da civiltà” generano il 75% di tutte le morti nelle nazioni occidentali, malattie che sono rare tra le persone il cui stile di vita riflette quello dei nostri antenati pre-agricoltura (Eaton et al., 1988) e che una delle ragioni principali per le quali ci ammaliamo è proprio che “i nostri organismi sono impreparati a far fronte agli ambienti moderni” (Nesse, 2020).

Uno degli esempi più evidenti di mismatch evoluzionistico riguarda la grave epidemia di obesità e sovrappeso che, secondo proiezioni della World Obesity Federation, entro il 2025 dovrebbe coinvolgere un terzo della popolazione mondiale e rappresenta un fattore di vulnerabilità per un vasto numero di patologie (quali diabete, demenza, disturbi cardiaci, ecc; Blüher, 2019).

Perché stiamo diventando sempre più grassi?

La risposta è proprio nel mismatch evoluzionistico: centinaia di migliaia di anni fa il nostro meccanismo adattivo ci portava a cercare energia in un ambiente in cui era raramente possibile imbattersi in cibi dolci e ricchi di grasso. L’evoluzione ci ha così portati a percepire tali alimenti come estremamente palatabili e desiderabili, poiché ancestralmente rappresentavano una preziosa fonte di energia. Oggi, la medesima spinta agisce in un ambiente che offre un’estrema disponibilità di dolci industriali, cibi ad alto contenuto di grassi e bevande zuccherate.

Un meccanismo evoluto nel tempo, che aveva una funzione per la sopravvivenza (“mangia qualsiasi roba dolce ti passi sotto mano, non avrai molte occasioni!”), oggi si rivela disfunzionale in un ambiente cambiato troppo rapidamente (zuccheri disponibili ovunque) per consentirne la modifica (Fistarollo e Faggian, 2022).

Mismatch! Senza contare che gli uomini arcaici si muovevano molto più di noi (secondo alcune stime, percorrevano 8-12km al giorno), mentre oggi alcuni professionisti percorrono quotidianamente più strada con le dita sulla tastiera di quanto facciano a piedi (Cregan-Reid, 2018)!

Guardare indietro per guardare avanti

Nonostante siano in aumento le pubblicazioni sul tema dell’Evoluzione, si parla ancora poco di mismatch evoluzionistico (con una punta di orgoglio, il nostro “Come pesci fuor d’acqua” è il primo testo italiano a occuparsene). Come sostenevano gli psicologi evoluzionistici Cosmides e Tooby (1992), “Sebbene la maggior parte degli psicologi fosse vagamente consapevole che gli ominidi avessero vissuto per milioni di anni come cacciatori-raccoglitori, non si resero conto che ciò aveva implicazioni teoriche per il loro lavoro”. E invece le implicazioni ci sono, eccome!

Moltissime forme di sofferenza umana odierna sono esiti di tendenze ancestrali che collidono con la società moderna che abbiamo creato.

Dovremmo dunque tornare nelle caverne?

Rispondiamo con decisione: no!

Dobbiamo invece utilizzare la tecnologia, la conoscenza e il sapere psicologico per promuovere un nuovo equilibrio che ci consenta di godere dei frutti del progresso senza pagarne un prezzo eccessivo.

Da dove iniziare?

Probabilmente ricordandoci che nella nostra storia evolutiva si sono scolpiti dei bisogni ai quali non possiamo voltare le spalle: movimento, contatto con la natura, affrontare avversità, vita di gruppo, senso di appartenenza, ecc. Elementi che da sempre hanno contraddistinto, e continuano a farlo, il nostro benessere.

 

Regolare le emozioni (2021) di Stefano Canali – Recensione

Il libro “Regolare le emozioni” è stato scritto da Stefano Canali, ricercatore, docente universitario presso le Università di Roma Tre, Trieste e Cassino, coordina la Scuola di Neuroetica della SISSA e all’interno di ILAS è Responsabile dell’attività Neuroetica.

 

 Le riflessioni contenute nel libro nascono dal percorso educativo “Emozioni in regola”, realizzato nelle scuole primarie e secondarie di primo grado del Friuli Venezia Giulia e nei centri di aggregazione giovanile. Il percorso è pensato per professionisti di varie formazioni, in quanto è applicabile in diversi contesti, con diversi gruppi e in diversi setting.

Il manuale può essere utilizzato dai professionisti sia per fini di studio o aggiornamento, sia come guida per mettere in atto delle strategie educative innovative, con l’obiettivo di potenziare le funzioni esecutive dei bambini e dei ragazzi, incrementando sia l’abilità di controllo cognitivo che le capacità di autoregolazione emotiva e comportamentale.

Con il termine “funzioni esecutive” si intende quell’insieme di processi psicologici che consentono una gestione più efficace delle proprie emozioni, del proprio comportamento e delle abilità sociali. Promuovere un miglioramento di queste facoltà facilita pertanto lo sviluppo di fattori psicologici e di abilità in grado di prevenire disturbi del comportamento e situazioni di disagio che spesso emergono nei giovani.

A tal fine, il programma comprende una serie di attività mirate a lavorare sulla capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva e dei training esperienziali sull’esecuzione di pratiche contemplative, per esempio della Mindfulness, per allenare l’attenzione, la consapevolezza e il controllo degli stati mentali. Inoltre, sono presenti momenti di formazione con lo scopo di ampliare il bagaglio di conoscenza dei partecipanti sulla struttura e sul funzionamento del sistema nervoso. Una maggior consapevolezza e conoscenza dei meccanismi sottostanti i processi psicologici permette loro una migliore gestione e regolazione delle proprie emozioni e comportamento.

Il manuale è strutturato in due parti: una prima in cui vengono esplorati i principi generali delle scienze e neuroscienze cognitive e una seconda, in cui sono descritte le diverse pratiche contemplative riportando le evidenze sperimentali della loro efficacia e le istruzioni per proporle ed eseguirle.

 Nella prima parte vengono affrontati temi come le emozioni, il controllo del comportamento, i comportamenti prosociali e la mindfulness, ai fini di istruire in merito a questi concetti, che verranno poi applicati dal punto di vista pratico, come spiegato nella seconda parte del manuale. Per quanto riguarda l’attuazione del percorso, il manuale espone in maniera molto completa tutti i vari passaggi: dall’esposizione delle regole del gruppo ai partecipanti, l’indagine delle loro aspettative e le rassicurazioni, agli obiettivi del programma fino alle basi teoriche e le istruzioni complete per mettere in atto ciascuna pratica proposta. Tra le pratiche troviamo quelle introduttive, che si focalizzano sull’alfabetizzazione emotiva, ovvero viene richiesto ad ognuno di descrivere come si sente in quel preciso momento, sul consapevolezza dei processi mentali, per imparare a riconoscere quando la mente si distrae, sull’esplorazione della memoria e altre ancora. A seguire vengono proposte pratiche ancora più specifiche come quelle per sviluppare l’attenzione, l’autoregolazione, l’autocontrollo e il benessere, la consapevolezza delle emozioni, e il potenziamento delle funzioni prosociali. L’autore suggerisce di seguire uno schema basato su incontri settimanali, anche se specifica che il percorso vada realizzato in funzione degli obiettivi dei destinatari.

In conclusione, il libro “Regolare le emozioni” è un vero e proprio strumento di apprendimento e una guida completa per l’attuazione di diverse attività, di cui vengono spiegati a pieno il razionale e descritte, passo a passo, tutte le istruzioni.

 

La sindrome dell’impostore negli studenti di psicologia

Una ricerca di Maftei e colleghi (2021) ha cercato di esplorare la prevalenza e i predittori della sindrome dell’impostore negli studenti di psicologia, scoprendo che vi erano differenze significative tra i partecipanti che hanno ottenuto punteggi elevati nella sindrome dell’impostore e quelli che hanno sperimentato aspetti correlati meno intensi.

 

Che cos’è la sindrome dell’impostore?

 La “sindrome dell’impostore” è uno specifico modello di cognizioni e comportamenti, caratterizzata dalla convinzione errata che gli individui in questione non siano intelligenti e che, anzi, abbiano “ingannato” gli altri, facendoglielo credere. Queste convinzioni sono amplificate dalla paura di essere “scoperti” e dalla tendenza ad attribuire il proprio successo a cause esterne come la fortuna, lo sforzo, il fascino o il trovarsi nel posto giusto al momento giusto (Chrisman et al., 1995; Clance et al., 1995).

Sebbene tale sindrome non sia concettualizzata come un disturbo mentale all’interno del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) o dell’ICD (Classificazione Internazionale delle Malattie), i sintomi clinici più comunemente riportati dalle persone che ne soffrono sono ansia generalizzata, bassa autostima, bassa percezione della propria competenza, autonomia e senso di connessione con gli altri (Schubert e Bowker, 2017).

Per gli individui che sperimentano la sindrome dell’impostore, la paura di fallire o di avere successo sorge di solito quando incontrano nuovi compiti o sfide. Per proteggere la propria autostima, quindi, ricorrono tipicamente a due meccanismi di coping: il perfezionismo e la procrastinazione. Da un lato, tendono a lavorare eccessivamente, alla perfezione, per compensare le loro paure; dall’altro, procrastinano proprio a causa di queste paure (Rohrmann et al., 2016).

La sindrome dell’impostore tra gli studenti di psicologia

Una ricerca di Maftei e colleghi (2021) ha cercato di esplorare la prevalenza e i predittori di questa sindrome negli studenti di psicologia, scoprendo che vi erano differenze significative tra i partecipanti che hanno ottenuto punteggi elevati nella sindrome dell’impostore e quelli che hanno sperimentato aspetti correlati meno intensi.

In primo luogo, i partecipanti che hanno ottenuto punteggi più alti per la sindrome dell’impostore hanno anche presentato livelli più elevati di disagio psicologico (come ansia e depressione, anche subcliniche) in linea con ricerche precedenti (ad es., Wang et al., 2019).

Il legame con la depressione non è stato affatto sorprendente, in quanto gli individui che soffrono di questa sindrome hanno una bassa autostima e una percezione distorta della propria competenza (Schubert e Bowker, 2017), oltre a un umore basso dovuto a pensieri negativi ricorrenti (ad esempio, la convinzione di non poter portare a termine un compito), mancanza di energia e scarso interesse per le attività quotidiane (Clance et al., 1995).

Anche l’ansia appare come un sintomo primario a causa della preoccupazione di mantenere e migliorare la propria immagine sociale. Una preoccupazione costante e incontrollabile, irritabilità e affaticamento sono alcuni aspetti del quadro sintomatologico della sindrome. Inoltre, l’ansia è generata anche da pensieri distorti (non sono in grado di portare a termine un compito) e soprattutto dalla paura delle conseguenze della mancata esecuzione del compito.

I partecipanti con livelli più alti di sindrome dell’impostore mostravano punteggi più elevati anche nella procrastinazione. In altre parole, gli individui che soffrono dei sintomi associati alla sindrome tendono ad adottare uno stile di risoluzione dei compiti procrastinante. Una spiegazione si trova nella teoria di Clane e Imes (1978), secondo cui l’ansia e la paura di svolgere un compito (specialmente uno nuovo), insieme al contesto, sono le cause principali della procrastinazione degli “impostori”. Nel loro caso, i nuovi compiti di solito inducono ansia, soprattutto quando la scadenza è vicina, aumentando le possibilità di adottare uno stile procrastinatorio per risolverli.

Tra procrastinazione e ansia è stata riscontrata una relazione positiva, suggerendo che i partecipanti che soffrono della sindrome dell’impostore tendono a procrastinare maggiormente, aumentando di conseguenza la loro ansia.

I predittori della sindrome dell’impostore

 Nel tentativo di analizzare i predittori della sindrome, è stato scoperto che solo la depressione era significativa; pertanto sembrerebbe che gli individui che hanno un alto livello di depressione tendono a soffrire maggiormente di sindrome dell’impostore. Questo può essere spiegato dal fatto che la depressione (così come l’ansia) può portare a dubitare di sé e sottoporre gli individui a meccanismi di coping disadattivi, come la procrastinazione o l’evitamento e ad una bassa autostima. Questi fattori possono influire in modo sostanziale sull’insorgenza e sullo sviluppo della sindrome dell’impostore, e sono sufficienti pochi pensieri dubbiosi perché si inneschi il circolo vizioso. Contrariamente a quanto gli autori si aspettavano, la procrastinazione non è risultata essere un predittore significativo della sindrome.

Il 56,15% dei partecipanti allo studio sperimenta i sintomi associati alla sindrome dell’impostore, un numero preoccupante in termini di implicazioni sulla vita personale, accademica, sociale e professionale futura di uno studente. Per esempio, uno studente che è quasi costantemente in difficoltà non può certo essere produttivo ed efficiente come potrebbe, a causa del costante disagio mentale. Uno studente che si percepisce come un impostore presterà più attenzione alla sua immagine sociale che al suo stato d’animo generale, alle relazioni sociali o ad altre variabili personali. Inoltre, la carriera professionale dei futuri psicologi potrebbe essere influenzata da questa sindrome: un “impostore” può non dare il massimo rendimento, non chiedere promozioni o sfruttare le opportunità, può avere problemi a parlare in pubblico o a stringere rapporti autentici con i colleghi. Per questo motivo, anche se eccellenti, gli impostori possono rimanere bloccati a un livello di base nel loro campo di lavoro a causa della paura del successo e del fallimento: potrebbero non cercare di assumere posizioni di leadership e in genere non saranno consapevoli del loro effettivo valore. Inoltre, potrebbero soffrire di burnout a un certo punto della loro carriera (Alrayyes et al., 2020).

Riassumendo, gli studenti con elevata sindrome dell’impostore tendono a procrastinare maggiormente, aumentando così anche i livelli di ansia e depressione. I risultati presenti e futuri in letteratura possono essere utili per progettare strategie di intervento efficaci, magari riducendo la procrastinazione attraverso programmi di intervento specifici, come quelli suggeriti da Tuckman e Schouwenburg (2004), incentrati sulla ristrutturazione cognitiva, sull’influenza sociale e sulla formazione. Tuttavia, la ricerca deve ancora svolgere molti passi in avanti per comprenderne le cause, prevenire e intervenire tempestivamente in relazione a questa particolare sindrome.

 

Come sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alle psicoterapie? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 19

Come informare e sensibilizzare le persone rispetto alla possibilità di fruire e beneficiare delle terapie psicologiche? In questo numero analizzeremo le raccomandazioni espresse dagli Esperti proprio in merito a questo aspetto. 

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 19) Come sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alle psicoterapie?

 

Il nucleo centrale del lavoro della Consensus Conference (2022) è quello di ipotizzare delle soluzioni realizzabili per facilitare l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione, ovvero i Disturbi Mentali Comuni (DMC).

Come riportato in molti numeri di questa rubrica (per esempio il n.11 e il n.17), in Italia il problema dello scarso accesso alle cure psicologiche dipende sia dalla scarsa disponibilità di Servizi di salute mentale specifici e qualificati a gestire in modo efficace tali disturbi mentali, sia dalla scarsa richiesta di tali servizi da parte delle persone che ne soffrono. Negli articoli precedenti sono stati affrontati diversi aspetti ritenuti necessari per incrementare la disponibilità di tali Servizi (come l’adozione del modello di trattamento stepped care).

Ma come informare e sensibilizzare le persone rispetto alla possibilità di fruire e beneficiare delle terapie psicologiche? In questo numero analizzeremo le raccomandazioni espresse dagli Esperti proprio in merito a questo aspetto.

La comunicazione con l’opinione pubblica

Quali iniziative si possono assumere per sensibilizzare l’opinione pubblica (e i potenziali utenti) circa l’efficacia e la disponibilità delle terapie psicologiche e per rendere praticabile l’effettiva scelta delle terapie psicologiche rispetto a quelle farmacologiche in chi le preferisse?

Gli Esperti (ISS, 2022) sottolineano che la tempestività della diagnosi psicologica può aiutare a prevenire gli esiti gravi di patologie ansiose o depressive, attraverso l’individuazione delle possibili cause e un progetto corretto di trattamento. Perciò, le terapie psicologiche non dovrebbero essere considerate l’ultima strada percorribile solo nel momento in cui le terapie farmacologiche non risultano efficaci per un dato problema.

Secondo il parere degli Esperti, le persone si informano attraverso quattro principali fonti in merito alle terapie psicologiche:

  • il web (strumento più utilizzato),
  • i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta,
  • le farmacie e le erboristerie, e
  • gli specialisti della salute mentale (come neuropsichiatri, psicologi e psichiatri).

Il web, infatti, oggi è diventato uno dei principali strumenti di conoscenza. L’idea è quindi quella di sfruttare questo canale e creare un portale ufficiale che sia di facile accesso, dove poter condividere anche dei documenti contenenti testi semplificati e abbreviati di documenti importanti e ufficiali (come questa Consensus Conference), per facilitarne la diffusione.

Si potrebbe inoltre sfruttare la popolarità degli altri canali di comunicazione, come stampa, radio, televisione, oltre che a contattare i testimonial più famosi, al fine di riuscire a comunicare con più fasce di popolazione. Infine, sarebbe molto utile anche contattare i medici di base e i pediatri di libera scelta per concordare delle iniziative volte a sensibilizzare e informare la popolazione, per esempio attraverso webinar o seminari.

Raccomandazioni

Le strategie di comunicazione attuabili individuate dagli Esperti per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alle cure per ansia e depressione si articolano su più livelli.

Innanzitutto, la comunicazione deve essere diversificata e specifica in base al target di riferimento, utilizzando i social media presenti sul web (come Instagram e Facebook, ma anche siti web delle istituzioni come quello del Ministero della Salute, ISS, Società scientifiche), la stampa, la radio e la televisione (anche attraverso cartoni animati e pubblicità), coinvolgendo testimonial e influencer.

Gli strumenti di comunicazione per il pubblico generale potrebbero essere la diffusione social di video, podcast, news, spazi virtuali di comunicazione, eventi in presenza e virtuali. Nonché il coinvolgimento delle scuole, in cui proporre programmi di conoscenza e gestione delle emozioni mirati alle fasce di età 12-18. Per gli operatori sanitari, invece, potrebbe essere sfruttato uno spazio istituzionale in cui condividere strumenti di informazione rispetto alla salute mentale, per esempio toolbox relativi alla gestione dello stress.

I contenuti devono essere chiari e rigorosi dal punto di vista scientifico, semplificati e resi accessibili a partire da documenti scientifici affidabili e complessi. È consigliato organizzare webinar in modo che i cittadini possano porre domande e ricevere risposte da esperti riconosciuti anche in chat.

Indipendente temente dal canale, la strategia comunicativa di base deve prevedere coerenza e armonia tra tutte le istituzioni che si occupano di gestione della salute mentale ai diversi livelli, al fine favorire comportamenti corretti che promuovano scelte più appropriate, in modo da ridurre anche lo stigma.

La comunicazione sull’esistenza ed efficacia dei servizi disponibili deve essere continuativa e costante, in modo da contrastare anche le fake news. Deve essere, inoltre, soggetta a monitoraggio (rispetto alle preferenze di popolazione) mediante indagini e ricerche, nonché conseguentemente adattata a contesti ed eventuali cambiamenti.

In conclusione, gli Esperti che hanno partecipato alla Consensus Conference (ISS, 2022) fanno notare che lo scopo primario dell’informazione e della sensibilizzazione riguardo ai DMC è quello di rendere la comunità consapevole dell’esistenza di interventi validati ed efficaci, riducendo lo stigma legato ai disturbi mentali e alle cure psicologiche. Soprattutto, fanno notare che nel caso della salute mentale il “fai-da-te” non è mai la soluzione migliore, in quanto “non si sceglie da soli il tipo di terapia, ma ci si confronta con professionisti formati per valutare tutte le opzioni” (ISS, 2022).

 

Lo sviluppo morale

Lo sviluppo morale è un processo che si snoda dall’infanzia all’età adulta e che risente delle esperienze personali individuali. Esso presuppone cambiamenti a livello di sentimenti, pensieri, comportamenti relativi alla moralità e nelle modalità di percepire i concetti di giusto e sbagliato.

 

La teoria di Kohlberg sullo sviluppo morale

Lo sviluppo morale ha una dimensione intrapersonale, che regolamenta le attività di una persona quando non è impegnata in attività sociali, e una dimensione interpersonale, che regola le interazioni sociali e arbitra i conflitti tra le posizioni morali tra le persone. 

Lo psicologo Kohlberg propose una teoria sullo sviluppo morale secondo cui esso sarebbe un processo innato e universale, dal momento che tutto il genere umano condivide le strutture mentali che sottendono il ragionamento morale. Nello specifico, Kohlberg effettuò delle ricerche, basate sull’utilizzo dei dilemmi morali, come il dilemma di Heinz, per identificare tre livelli di ragionamento morale, suddivisi in due stadi ciascuno, per un totale di sei stadi sequenziali. Il dilemma morale è una situazione in cui si delinea una contrapposizione tra esigenze sociali e giuridiche e il desiderio individuale di soddisfare alcuni bisogni fondamentali di carattere puramente personale. Tale contrasto genera un conflitto cognitivo, che l’individuo sarebbe stimolato a risolvere attraverso le sue abilità di ragionamento morale. Il passaggio da uno stadio di pensiero corrente ad un livello di ragionamento superiore avviene quando l’individuo risolve il conflitto cognitivo derivante dalla contrapposizione descritta nel dilemma morale e sviluppa l’abilità di role taking, cioè la capacità di assumere una prospettiva più empatica, un punto di vista aperto, reversibile e diplomatico, condizione necessaria per lo sviluppo di un senso morale positivo.

I tre livelli di ragionamento morale secondo Kohlberg sono il livello 1 (pre-convenzionale), il livello 2 (convenzionale) e il livello 3 (post-convenzionale). Il dilemma di Heinz è sicuramente il più noto tra i dilemmi morali impiegati da Kohlberg per delineare i tre livelli di ragionamento morale. La situazione descritta dal dilemma morale di Heinz è la seguente: in Europa, una donna era ormai prossima alla morte a causa di una particolare forma di cancro. L’unica medicina che potesse salvarla, un composto a base di radio, era stata scoperta recentemente da un farmacista della medesima città. Avendo la medicina elevati costi di fabbricazione, il farmacista aveva deciso di farla pagare dieci volte tanto quello che gli era venuta a costare, cioè 4000 dollari in totale. Il marito della donna malata, Heinz, riuscì a ottenere attraverso i suoi sforzi e dei prestiti la metà del prezzo complessivo della medicina, per cui spiegò al farmacista la sua drammatica situazione e lo supplicò di vendergli il farmaco a un costo minore o di accettare l’idea che lo pagasse in seguito. Il farmacista non ascoltò minimamente le parole di Heinz, che, colto dalla disperazione, comincia a meditare di introdursi furtivamente nel negozio e di rubare il farmaco per salvare la moglie. La domanda sorge spontanea: Heinz dovrebbe rubare il farmaco?

I tre livelli di ragionamento morale descritti da Kohlberg

Livello pre-convenzionale: prevale nei bambini di età inferiore ai 10 anni, è un pensiero morale ancora piuttosto acerbo. Il bambino valuta il comportamento umano e i concetti di giusto e sbagliato in termini di premi e punizioni: chi rispetta la legge si comporta bene e merita di essere premiato, a chi la infrange spetta una punizione. È diviso in due sottostadi:

  • stadio I (moralità eteronoma): il bambino comprende che le leggi siano sacre e inviolabili, è una concezione della morale per cui la validità di un fondamento è garantita unicamente da un’autorità esterna ed è strettamente connessa all’idea della giustizia retributiva e alla logica dell’espiazione delle colpe. Il bambino pensa che Heinz dovrebbe lasciar morire la moglie, altrimenti sarà nei guai.
  • stadio II (individualismo): la morale è regolata dai concetti di scambio equo e strumentale e di individualismo. È giusto quel che implica uno scambio equo (“se Heinz venisse preso, dovrebbe restituire il farmaco e non sconterebbe una lunga pena probabilmente”). La morale ha ancora un taglio utilitaristico: il bambino pensa che gli individui tendano a perseguire i loro scopi e interessi, consentendo agli altri di comportarsi allo stesso modo.

Livello convenzionale: caratteristico della mentalità adolescenziale, plasmata da una forte motivazione al rispetto della legge e da concetti appresi tramite strutture sociali complesse, come la famiglia, lo Stato o gli amici, ma privi di soggettività. Gli individui si identificano in obblighi e convenzioni e ragionano attraverso principi morali stabiliti da qualcun altro. È diviso in due sottostadi:

  • stadio III (aspettative interpersonali reciproche, relazioni e conformità interpersonale): il giudizio morale si fonda su concetti di lealtà, altruismo, rispetto, bontà e fiducia. In questa fase gli adolescenti pensano che le intenzioni e le condotte di Heinz siano giustificate dall’amore nei confronti della moglie.
  • stadio IV (moralità volta al mantenimento del sistema sociale): la morale si fonda sulla comprensione dell’ordine sociale, sul dovere e sulla giustizia. Gli individui pensano che leggi e doveri vadano sempre adempiuti. Il furto di Heinz, quindi, non è moralmente sbagliato ma la legge è un sistema complesso che non è fatto per prestare attenzione a ogni caso particolare.

Livello post convenzionale: è il livello di ragionamento morale più elevato, che emerge nell’età adulta. È diviso in due sottostadi:

  • stadio V (contratto sociale o utilità o diritti individuali): a questo punto, gli individui tendono a pensare che il fatto che la moglie di Heinz sia gravemente malata giustifichi l’uomo a rubare il farmaco; il rispetto della legge è meno impellente del diritto alla vita umana. È in questa fase che gli individui si rendono conto che l’aderenza al codice legislativo sia un concetto relativo: seppur sia importante contribuire a mantenere un buon funzionamento del sistema sociale, non possono essere ignorati, negati o messi in discussione valori quali il diritto alla vita e alla libertà.
  • stadio VI (principi etici universali): lo stadio più alto della teoria in assoluto, quello in cui l’individuo apprende che ogni singola vita umana è sacra e ha la precedenza sugli altri valori. In questa fase vengono assimilati principi etici universali, i concetti di solidarietà, reciprocità, equità, uguaglianza e il rispetto della dignità di tutti; l’uomo comincia a scendere a patti con la legge, a mettere in atto condotte morali alternative, a osservare la realtà nella sua interezza e opera sulla base di un codice morale personale conforme alla sua sensibilità.

 

La Gabbia dei Matti – Recensione del Podcast

“La Gabbia dei Matti” è un podcast originale Storytel scritto e raccontato dal giornalista Gabriele Cruciata, che ha avuto la forza ed il coraggio di narrare in sei puntate un tema altamente scottante, ossia il disagio mentale in Italia, ripercorrendo la storia dei manicomi nel nostro paese, in modo particolare di uno di questi, il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio di Europa, in funzione tra il 1904 e il 1999.

 

 Questa narrazione accompagna la creazione di una serie di quadri terrificanti, assolutamente autentici, con molti particolari non certo contornati da fantasie o scene romanzate, ma assolutamente veritieri, in quanto forniti da chi davvero ha vissuto in prima linea una delle forme più crudeli e disumane di esperienza, ossia il trattamento della malattia mentale, trattamento che segna il destino di centinaia di persone, compresi tanti bambini, molti dei quali con l’unico “vizio” di essere troppo vivaci.

Si pensa erroneamente che la storia del disagio mentale nasca immediatamente correlato alla scienza, in realtà tutto comincia capitanato dalla religione, la quale considerava il vizio di mente come conseguenza di un peccato da espiare con la punizione e con la purga e non con un trattamento, al pari dei delinquenti rinchiusi nel medesimo posto, come se fosse un carcere per tutti, senza alcuna distinzione, carcere che però non aveva altro che carattere di segregazione e di condanna.

Alla religione, con il passare del tempo, si interseca anche la società stessa che cerca in tutti i modi di operare una forma di controllo su quella che viene considerata una forma di devianza: i folli sono considerati pericolosi e quindi è necessario rinchiuderli in quelle che Goffman definisce istituzioni totali, ossia strutture assolutamente appartate ed isolate dal resto del mondo, costretti a rimanervi giorno e notte, attenendosi a giornate sempre uguali, con rigide regole da seguire. Goffman parla di perdita del Sé, della propria identità, costretti ad essere degli attori in una scena teatrale assolutamente raccapricciante.

La legge Giolitti del 1904 sancisce il principio di internamento, rendendo effettivo un regolamento di carattere assolutamente repressivo: si entra in manicomio non perché affetti da un disagio mentale, ma per il principio di pericolosità sociale, pericolosità verso sé stessi e gli altri, non prendendo, però, assolutamente in considerazione né la durata di permanenza né il malato stesso, che perde ogni diritto civile dopo il suo ricovero, se ricovero si può chiamare. Si entra in manicomio e non se ne esce quasi mai.

Ritorniamo al Santa Maria della Pietà, oggetto di studio e di visite del giornalista Gabriele Cruciata: ha avuto diverse sedi a seconda dei diversi periodi e delle diverse disposizioni, fino ad approdare definitivamente nel quadrante nord della città tra Monte Mario e Monte Olimpico: una vera e propria cittadella di “matti”, una gabbia fatta di padiglioni con porte e finestre chiuse, una città nella città, raggiungibile solo con il prolungamento della linea 35, una sorta di muraglione a forma di U e attorno solo strada sterrata e campagna. Quelle mura nascondono segreti ignobili, schiacciano la sofferenza di tante persone lasciate vivere nella sporcizia, tra le proprie urine e feci, abbandonate a sé stesse e non solo, perché arriva anche la scienza, quella scienza che permette di sperimentare una macchina infernale: l’elettroshock. La società si evolve e, così, anche il sapere scientifico, con due nomi, negli anni’30, Ugo Cerletti e Lucio Bini, neurologi, l’uno fautore della teoria secondo cui le scariche elettriche potessero dare benefici non solo a pazienti con diagnosi di schizofrenia, ma anche per sindromi maniaco-depressive, l’altro costruttore di quella macchina che avrebbe dovuto scaricare impulsi elettrici in maniera controllata, ma che di controllato inizialmente aveva ben poco: i pazienti si ritrovano con molte bruciature alle tempie e con denti saltati, soprattutto a Collegno, dove Giorgio Coda, che sarà soprannominato “L’elettricista di Collegno”, applicò la terapia elettroconvulsiva a circa cinquemila pazienti, senza applicare gel isolante e senza anestesia: cinquemila pazienti avevano davvero bisogno di questo trattamento e soprattutto, come si può pensare che un uomo, per di più medico, potesse applicare una simile tortura ad un altro essere umano? La sua assoluta convinzione era quella che tali dolori disumani potessero far guarire il paziente: chi era davvero folle in questa dinamica infernale? Ed in questo podcast ce lo raccontano gli stessi infermieri e pazienti: verità cucite per anni trovano il modo di emergere in superficie e di raccontare una verità terribile, che ad ascoltarla è impossibile non fermare momentaneamente l’audio del podcast. Si parla di bambini considerati troppo vivaci o abbandonati dalle famiglie, si parla di omossessuali, di tossicodipendenti, di alcolisti, di masturbatori, si arriva a parlare di tutti coloro che venivano rinchiusi in manicomio, tutti indistintamente costretti a subire, come cavie, gli effetti di tale macchinario. Rimangono impresse le parole di uno di questi pazienti sopravvissuti: Alberto Paolini, che ha poi scritto il libro “Avevo solo le mie tasche”, entrato in manicomio nel 1948 a soli 16 anni, dopo un’infanzia infelice, dopo una guerra, con l’illusione di aver visto le crudeltà più assurde a causa di una madre che lo picchiava e lo legava al letto e che, invece, si dovette ricredere, perché il peggio lo avrebbe visto in manicomio; vi rimane per quarant’anni, senza avere alcuna diagnosi. Alberto ricorda quella brutta sensazione di ogni singolo paziente di “essere risucchiati di tutte le energie vitali” e non solo: svestiti, privati di ogni oggetto personale, perfino degli occhiali, delle penne, dei diari, della loro vita. E si aggiungono i farmaci, allora non dosati, utilizzati indistintamente come mezzo più di protezione degli operatori che di cura per i malati, uno stordimento generalizzato per sedare anche l’ultimo spiraglio di vitalità, non concesso, anzi combattuto.

Ma queste atrocità quanto tempo dovranno perdurare? Purtroppo si devono attendere gli anni ’60 per attenzionare l’opinione pubblica, per portare allo scoperto l’assurdità di un sistema illegale, disumano, ripugnante. Una serie di movimenti studenteschi e testi come “Manicomi come lager” di Angelo del Boca risvegliano da quel torpore durato per decine di anni: arriva in Parlamento la Legge Mariotti, nascono i CIM, centri di igiene mentale. Per quanto questi movimenti non vengano inizialmente supportati nella giusta misura si comincia a sentire un forte brusio di sottofondo: cominciano a stillarsi sempre più dubbi tra le persone, si comincia a bisbigliare anche nei corridoi del Santa Maria della Pietà, tra gli operatori. E da Gorizia, una piccola cittadina isolata e quasi emarginata, iniziano ad esserci i veri cambiamenti, grazie alla tenacia, alla volontà, all’impegno del Prof. Franco Basaglia, un uomo che riesce a segnare la storia nell’ambito della cura dei disturbi mentali: alto, colto, con un forte accento veneto, è riuscito a far approvare nel 1978 a Ferrara una legge in Parlamento che tutti noi oggi conosciamo come Legge Basaglia n.180. Si arriva alla fine di un percorso durato per vent’anni, con il triste destino per il Prof. veneto di non poter nemmeno vedere appieno i frutti del suo movimento: si spegne solo due anni dopo, a causa di un tumore al cervello.

Ma questo lungo percorso al Santa Maria della Pietà quando davvero comincia?

 Ce lo racconta Gabriele Cruciata attraverso le interviste all’ex infermiere Adriano Pallotta: comincia da solo tre operatori, lui compreso, il 18 dicembre 1974, una data che segna quella che può essere ben definita una rivoluzione, nel senso di evoluzione, di sconvolgimento di abitudini, oltre che di manifestazione di protesta: si redige un documento firmato dal Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Due, il primo vero passo verso il processo di deistituzionalizzazione. Finalmente gli operatori possono lavorare insieme, si cominciano a compilare dei registri dove, accanto alle annotazioni cliniche, compaiono annotazioni di carattere umano. I pazienti possono mangiare in uniche tavolate, uomini e donne, che finalmente rientrano in possesso dei propri oggetti personali, come gli occhiali. Un episodio significativo che mi ha davvero commossa è stato quello partito dal Padiglione 16, dove lavorava Adriano Pallotta: viene fatta volontariamente sparire l’unica chiave che permetteva la chiusura della porta del padiglione. Insomma, tutto quello che, ad oggi, ci sembra nella normalità, solo quarant’anni fa era una novità, una conquista importante per tutti, ma soprattutto per i pazienti, per decenni sotto la morsa della disumanità.

Ma davvero è stata una conquista chiudere i manicomi? Se lo chiede in maniera provocatoria Gabriele Cruciata, all’alba del giorno dopo, nell’ultimo episodio del Podcast. Si parte da un episodio eclatante: nel 2021 ad Ardea un uomo esce dalla propria casa e uccide a sangue freddo due bimbi e un anziano, uomo che, pur avendo ricevuto un TSO, gira libero ed armato per le strade. Tutto questo come può essere possibile? Che cosa ne è rimasto della rivoluzione basagliana dopo oltre quarant’anni? Si prende spunto da queste scottanti domande per ripercorrere insieme a Ignazio Marino, senatore, celebre chirurgo dei trapianti, che ha effettuato visite a sorpresa in alcuni dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la chiusura degli stessi. Il senatore da questi controlli ne ricava dei racconti spaventosi, come quello di un uomo trovato completamente nudo in un letto provvisto di un buco da cui far uscire le proprie urine e feci. Ma come si possono rinchiudere delle persone in strutture assolutamente non in grado di offrire loro delle cure adeguate? Si parla di ergastolo bianco, di una violenza fredda, come la definisce Enzo Traverso, più subdola, perché ha stretto contatto con “la logistica, con un intero sistema del tutto razionale, ben rodato, oleato, per consentire la violenza” (Gabriele Cruciata).

Anche le chiusure degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) subiscono un processo lento e difficile che approda nelle REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dovrebbero avere funzione terapeutica e riabilitativa, ma che purtroppo, per alcune di loro, ancora rimane solo sulla carta. Oggi ne esistono circa trenta, ma il più delle volte, proprio per una disorganizzazione di fondo, hanno solo il potere di metter un rattoppo ad un problema, senza risolverlo. Ci sono stati troppi tagli alla sanità da rendere inefficienti molti servizi territoriali.

Ma oggi cosa ne rimane del Santa Maria della Pietà? Alcuni padiglioni sono adibiti ad ambulatori veterinari dell’Asl, altri sono stati momentaneamente adibiti ad iniziative interessanti, come gli Ostelli della Gioventù, in occasione del Giubileo del 2015, ma poi ben presto riportati ad uno stato di completo degrado e abbandono.

E che ne rimane di quella fontana così poco conosciuta che fu costruita dentro il Santa Maria della Pietà, con scarti di materiali, come mattonelle rotte ricavate dai bagni, assolutamente priva di canoni estetici, ma fortemente intrisa di significato? Un vero simbolo della voglia di libertà, di riconquista della propria dignità, di possibilità, di vita? Considerata brutta e non assolutamente paragonabile alle altre fontane ben note in Roma è stata abbattuta, distrutta. Hanno sradicato una testimonianza importante, ma probabilmente troppo ingombrante e troppo discordante da quello che oggi la società ci offre come modello di perfezione illusoria. Ma davvero noi esseri umani possiamo dimenticare una storia di orrori di questo tipo? Non lo dobbiamo e non lo possiamo fare anche grazie ad un racconto come questo che, se pur difficile da ascoltare tutto d’un fiato per la crudeltà dei contenuti, merita l’interesse di ognuno di noi, come spunto di riflessione per non cercare la via di fuga, ma avere il coraggio di affrontare con l’informazione e la consapevolezza. Si scappa spesso per scansare, per schivare situazioni scomode, ma questo è solo sinonimo di codardia. Per rispetto di tutti coloro che hanno vissuto in prima persona quell’orrore e per rispetto di coloro che ancora non ricevono le cure necessarie, non possiamo far finta che nulla sia successo. Si è parlato di rivoluzione per la chiusura dei manicomi e degli OPG, ma si deve altrettanto parlare di apertura verso maggiori possibilità di sostegno al disagio.

Ringrazio, come ha sempre fatto l’autore del podcast, alla fine di ogni episodio, il dott. Bruno Tagliacozzi, la dott.ssa Daniela Pezzi e il Prof. Ignazio Marino, grazie anche ad Adriano Pallotta, Alberto Paolini, al Prof. Natale Calderaro e a Massimiliano Taggi. E, non per ultimo, ringrazio te, Gabriele Cruciata, per questa assoluta, doverosa riflessione su una realtà che ci appartiene.

L’ autostima misurata in centimetri: la fitspiration e i suoi esiti psicologici su adolescenti e giovani adulti

La letteratura ci ha mostrato che le adolescenti di sesso femminile sono più vulnerabili dei maschi agli esiti psicologici negativi legati alla fitspiration (Easton et al., 2018), e che le giovani donne con bassa autostima, tratti ossessivi e perfezionismo rappresentano spesso le tipiche utenti che interagiscono con questi trend.

 

Social network e fitspiration

 Ad oggi, molti social media sono utilizzati come fonte di informazione per gli ideali di fitness (Smith e Sanderson, 2015, Goldstraw e Keegan, 2016) e, anche se tale fenomeno riguarda circa tutte le fasce d’età, è particolarmente comune tra gli adolescenti (10-19 anni) e i giovani adulti (20-24 anni) (Vaterlaus et al., 2015).

Nonostante siano già stati sottolineati gli aspetti positivi legati ai social media, non è da trascurare il possibile ruolo negativo dei social nella vita delle persone, soprattutto quando queste vengono continuamente esposte ad immagini corporee irrealistiche e irraggiungibili e confrontano il loro aspetto fisico con quello di coetanei e modelli (Tiggemann e Zaccardo, 2015)

Molto in voga ad oggi è l’emergere di nuove tendenze inerenti il fitness online, come la “fitspiration” (che nasce dall’unione di “fitness” e “inspiration”). La fitspiration è nata inizialmente su Instagram per poi diffondersi su altri social media; i contenuti tipici includono selfie, rappresentazione di corpi “prima e dopo”, che sottolineano i cambiamenti fisici in risposta all’esercizio fisico o ad altri comportamenti specifici quali l’alimentazione (Carrotte et al., 2017).

Prima del fenomeno della fitspiration, due tendenze simili sui social, note come “thinspiration” e “bonespiration”, erano stati molto criticati perché potenzialmente in grado di promuovere l’anoressia, data l’enfasi posta sull’estrema magrezza (Talbot et al., 2017).

Si potrebbe dire che, in una certa misura, la fitspiration è emersa come alternativa più salutare promuovendo messaggi come la cura di sé, una dieta salutare e motivando gli utenti a essere in forma (Tiggemann e Zaccardo, 2015, Talbot et al., 2017), invece di sostenere l’ideale di un’immagine fisica magra in sé.

Un’analisi del contenuto di Instagram relativa alla fitspiration ha riscontrato che la maggior parte delle immagini postate (63,7%) rappresentavano persone, soprattutto donne; il 25% delle immagini ritraeva soggetti che svolgevano attività fisica, il 19% conteneva cibi sani come frutta o frullati proteici, mentre le immagini rimanenti consistevano in citazioni positive, attrezzature da palestra e abbigliamento per l’esercizio fisico (Tiggemann e Zaccardo, 2018).

Gli aspetti negativi della fitspiration

Prichard e colleghi (2018) hanno sottolineato gli aspetti dannosi di questi fenomeni, riscontrando una diminuzione della soddisfazione corporea e un aumento dell’umore negativo in un campione di giovani partecipanti di sesso femminile, che era proporzionale al tempo trascorso con tali contenuti. Questo può essere dovuto al fatto che le tendenze di fitspiration sui social media sono associate alla promozione di corpi irrealistici e apparentemente sani che sono attraenti per gli occhi, che però non sembrano promuovere l’esercizio fisico per questioni legate alla salute, ma piuttosto per questioni di apparenza (Pilgrim e Bohnet-Joschko, 2019).

La letteratura ci ha mostrato che le adolescenti di sesso femminile sono più vulnerabili dei maschi agli esiti psicologici negativi legati alla fitspiration (Easton et al., 2018), e che le giovani donne con bassa autostima, tratti ossessivi e perfezionismo rappresentano spesso le tipiche utenti che interagiscono con questi trend.

Una revisione della letteratura a cura di Cataldo e colleghi (2021) ha cercato di riassumere tutti i dati disponibili in letteratura inerenti i potenziali effetti delle tendenze di fitspiration sulla salute mentale di adolescenti e giovani adulti, portando alla luce dei temi fondamentali tra cui quello dell’esercizio compulsivo. Sembra infatti che gli utenti di fitspiration riportino comportamenti disfunzionali come allenarsi anche quando ci si sente molto stanchi, malati o si è infortunati, e un conseguente senso di colpa quando la routine atletica viene interrotta (Blackstone e Herrmann, 2018).

I post pubblicati suggeriscono spesso di spingersi oltre il limite, ignorare il dolore o convertirlo in piacere, trasformando quindi il dolore in una qualche forma di motivazione (Deighton-Smith e Bell, 2018). Queste caratteristiche possono sottolineare il rischio di un esercizio fisico problematico e, insieme all’uso di farmaci potenzianti, sono state oggetto di attenzione.

Il 10% delle giovani donne che hanno partecipato a questi studi era infatti a rischio di “dipendenza da esercizio fisico”, a sua volta correlato a disturbi alimentari, ansia e altre forme di dipendenza (Colledge et al., 2020).

Fitspiration e insoddisfazione corporea

 Un altro elemento cardine è la relazione tra fitspiration e insoddisfazione corporea, che sembra generare di conseguenza umore negativo. La preoccupazione per l’immagine corporea e l’aspetto fisico rappresentano una caratteristica fondamentale del Disturbo Dismorfico Corporeo e della Dismorfia Muscolare (Cuzzolaro, 2018). È importante notare che le caratteristiche cliniche di tali condizioni sembrano sovrapporsi ad alcune tematiche promosse da fitspiration, come la preoccupazione per l’aspetto fisico e l’intenso desiderio di muscolarità (Cuzzolaro, 2018). Di conseguenza, alcuni fattori legati alla fitspiration, possono essere considerati come elementi potenzialmente in grado di contribuire allo sviluppo di disturbi dell’immagine corporea clinicamente rilevanti.

La pressione legata alla fitspiration per ottenere forme corporee irrealistiche e irraggiungibili contribuisce inoltre a generare un senso di inadeguatezza nel momento in cui gli individui non riescono a raggiungere tali obiettivi (Raggatt et al., 2018) generando diminuzione dell’autostima, depressione e ansia: “Quando vedo account di fitness in cui tutte le ragazze sono snelle e toniche, penso: ‘È difficile amarmi quando ho questo aspetto‘ ” (Easton et al., 2018).

Altri elementi considerevoli legati a questo movimento sono la preoccupazione per il consumo di cibo sano e l’alimentazione restrittiva, il monitoraggio delle calorie e digiuni che possono portare a un’alimentazione inadeguata, con conseguente compromissione del funzionamento quotidiano e l’utilizzo di sostanze e integratori (per il miglioramento delle prestazioni e dell’immagine), spesso in assenza di controllo medico.

In ultimo, quando l’attività fisica diventa non solo una priorità, ma un comportamento compulsivo, la sfera sociale può essere influenzata negativamente a causa di conflitti interpersonali o isolamento, portando a una diminuzione della qualità della vita attraverso tutti gli aspetti discussi in precedenza.

Conclusioni

In conclusione, i risultati suggeriscono che le tendenze di fitspiration espongono i giovani all’auto-oggettivazione e a comportamenti non sicuri, aumentando il rischio di sviluppare sintomi psicopatologici e condizioni clinicamente significative come disturbi alimentari, disturbi dell’umore e dell’ansia, abuso di sostanze. A causa delle potenziali conseguenze negative che la fitspiration può avere sugli sugli adolescenti, è importante sviluppare interventi specifici per questa età, sostenendo gli aspetti positivi della fitspiration, come il miglioramento della salute, delle prestazioni fisiche e riducendo la pressione legata all’immagine corporea.

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