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La discriminazione digitale verso i più anziani, il digital ageism – Psicologia Digitale

L’ageismo digitale riguarda tutti i pregiudizi verso gli over 50 nel mondo digitale. Questi pregiudizi possono essere impliciti (“gli anziani non sanno usare le tecnologie”) o espliciti (in fase di ricerca, sviluppo e test di nuove applicazioni non vengono considerate alcune fasce d’età). 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 33) La discriminazione digitale verso i più anziani, il digital ageism

 

Il numero delle persone anziane che utilizzano le tecnologie digitali è in costante crescita; nonostante questo la ricerca presenta ancora bias e pregiudizi.

Le tecnologie digitali offrono innumerevoli vantaggi per tutti, a qualsiasi età. Con strumenti ed utilizzi diversi, ma pur sempre alla portata di tutti, dai più piccoli ai più anziani. Proprio per questi ultimi si parla di “approccio age-tech”, ovvero di tutte le soluzioni tecnologiche dedicate agli over 50. Un approccio age-tech (o agetech) alla tecnologia vuol dire progettare, produrre, distribuire una tecnologia tenendo conto di specifiche caratteristiche di una fetta di mercato, quello appunto degli over 50, e di possibili loro limitazioni fisiche e/o cognitive, come di udito, della vista o della mobilità (Orlov, 2021).

La linea di separazione tra l’interesse per specifiche condizioni e la discriminazione in realtà è sottile: anche se più frequenti in età avanzata, questi problemi possono presentarsi a qualsiasi età. Così come, viceversa, dare per scontato che l’età sia una barriera nell’uso di tecnologie è un’altra forma di discriminazione.

Che cos’è l’ageismo digitale

La parola “ageismo” (dall’inglese “ageism”) si riferisce “agli stereotipi, ai pregiudizi e alla discriminazione nei confronti degli altri o di se stessi sulla base dell’età” (World Health Organization, 2022).

Il termine, coniato dallo psichiatra e geriatra americano Robert Butler nel 1969, è poi diventato di uso comune solo recentemente (Accademia della Crusca, 2022). Questa forma di discriminazione può manifestarsi in modo più o meno sottile come quando, per esempio, si ironizza sul fatto che alcune attività (uscire con amici o fare un aperitivo) non siano per anziani oppure in annunci di lavoro in cui viene richiesto un certo limite di età.

Tra le forme più implicite – ma non per questo meno spiacevoli – c’è quello digitale.

L’ageismo digitale riguarda tutti i pregiudizi verso gli over 50 nel mondo digitale. Questi pregiudizi possono essere impliciti (“gli anziani non sanno usare le tecnologie”) o espliciti (in fase di ricerca, sviluppo e test di nuove applicazioni non vengono considerate alcune fasce d’età).

L’ageismo digitale nella ricerca tecnologica

L’ageismo digitale si riferisce a stereotipi, pregiudizi e discriminazioni che funzionano “per sottrazione”, per “non inclusione” più che maniferstarsi in modo diretto ed esplicito.

La quasi totalità degli studi sulle pratiche digitali non include nei loro campioni gli anziani. Gli over 50 sono sottorapresentati anche perché vengono ritenuti meno interessati alle applicazioni digitali sulla base, ancora una volta, di un pregiudizio e non di dati e ricerche in merito. Inoltre, la maggior parte degli approcci considera gli anziani secondo lo stereotipo di persone poco o per nulla competenti in materia di tecnologia (Rosales e Fernández-Ardèvol, 2020).

Si ipotizza che questo sia dovuto ad un bias di categorizzazione in chi commissiona e attua ricerca e sviluppo in ambito tecnologico: per motivi storici e culturali, attualmente si tratta di under 35/40. Secondo alcuni (ad esempio McPherson et al., 2001; Kretchmer, 2017) il punto è che c’è una forte tendenza all’omofilia, quindi a considerare gruppi simili al proprio piuttosto che diversificando il campione, andando di fatto ad escludere i più anziani.

La ricerca tecnologica non è nuova a bias del genere: diversi studi hanno rilevato per esempio sistemi di riconoscimento facciale meno accurati nel riconoscere persone di colore. Questo avviene perché chi progetta esclude a priori alcune categorie, di fatto discriminandole (Buolamwini e Gebru, 2018).

Andare oltre le discriminazioni

Escludere in fase di progettazione un’intera categoria implica creare tecnologie che non ne prendono in considerazione le specifiche.

Creare algoritmi più inclusivi vuol dire includere pratiche culturali, sociali, ma anche aspetti e caratteristiche cognitive, di segmenti più ampi della popolazione.

Vuol dire, per esempio, che nel realizzare sistemi biometrici si tenga conto dei cambiamenti corporei che si verificano con l’invecchiamento: per esempio, i sistemi biometrici basati sulle impronte digitali non tengono conto del fatto che esse possono alterarsi con l’età.

Ancora, i captcha (Completely Automated Public Turing test to tell Computers and Humans Apart) ) sono utilizzati per identificare se il soggetto che cerca di accedere ad una piattaforma digitale sia un umano o un bot. Questa verifica avviene tramite alcuni piccoli test che un bot in teoria non sarebbe in grado di fare: trascrizione di testi distorti o di brevi audio, identificazione di particolari elementi in un’immagine. Alcuni studi hanno mostrato come i captcha possono contenere elementi discriminanti in quanto testi, audio e immagini tendono a riflettere i contenuti culturali occidentali oppure possono essere più difficili per chi ha difficoltà di apprendimento o per chi deve affrontare il naturale declino fisico, come gli anziani (Rosales e Fernández-Ardèvol, 2020).

È rilevante comprendere come funzionano questi meccanismi di discriminazione ed introdurre queste conoscenze nella progettazione di algoritmi più inclusivi.

L’ageismo digitale non ha ricevuto molta attenzione fino ad ora; probabilmente col tempo e con l’aumento degli over 50 connessi diventerà un argomento più rilevante. Del resto, i nativi digitali di oggi saranno gli anziani digitali di domani.

 

Autostima: tra life skills e strutture cerebrali

L’autostima, a seconda del suo livello alto o basso, influenza l’atteggiamento e il modo in cui un individuo affronta gli eventi di vita stressanti. 

 

 L’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra l’immagine che l’individuo ha di sé e l’immagine di ciò che vorrebbe essere. Le persone che si valutano positivamente riconoscono di avere sia pregi che difetti, nutrono fiducia nelle proprie capacità e si impegnano maggiormente per migliorare le proprie debolezze. Possedere un’alta autostima è una risorsa fondamentale, sia per la salute fisica che mentale, poiché consente di sviluppare capacità di regolazione emotiva e capacità di adattamento e di resistenza alle situazioni di forte stress. A tal proposito, essa può essere considerata una strategia di coping, che aiuta a ripristinare le risorse vitali, esaurite dalle situazioni avverse, che mettono a repentaglio il benessere fisico e psicologico dell’individuo (Pyszczynski et al., 2004).

Le persone che si autovalutano negativamente, invece, possiedono una bassa autostima, che può condurre a demotivazione, disimpegno e disinteresse, inficiando gravemente sulle capacità di azione, riuscita e adattamento. Tali individui tendono ad arrendersi facilmente, dopo un fallimento si colpevolizzano per mancanza di capacità e abilità, e sono più vulnerabili ai fattori di stress psicosociali. La combinazione di questi fattori rappresenta un fattore di rischio, conducendo alla possibile comparsa di condizioni invalidanti sia mediche che psicologiche.

Fattori che influenzano l’autostima

L’autostima sembra essere influenzata da due ordini di fattori: uno psicologico e l’altro neuroanatomico, seppur vi sia un numero limitato di studi pubblicati in questo campo.

Fattori psicologici

Da un punto di vista psicologico, gli studi riportano come l’autostima possa essere influenzata, potenziata e supportata promuovendo le life skills (OMS, 1993).

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le life skills sono tutte quelle abilità e competenze cognitive, emotive e relazionali, necessarie per agire in modo efficace sia sul piano individuale che su quello sociale e relazionale. L’educazione allo sviluppo socio-emozionale è essenziale all’implementazione dell’efficacia personale e collettiva, e quindi allo sviluppo e al mantenimento dell’agio psicosociale (Svenson, 2002), consentendo di vivere una vita produttiva e di qualità, di sviluppare al massimo il proprio potenziale, e di avere a disposizione le risorse sufficienti per affrontare efficacemente situazioni stressanti e fallimentari della vita quotidiana.

Nel documento del 1993, l’OMS identificava un nucleo di dieci competenze:

  • Decision making: capacità di prendere le decisioni in diversi momenti e circostanze di vita.
  • Problem solving: capacità di risolvere i problemi della vita in modo costruttivo.
  • Pensiero creativo: capacità di considerare le opzioni disponibili e le conseguenze che derivano dal prendere una scelta, permette di essere flessibili e di adattarsi alle situazioni di vita quotidiana.
  • Pensiero critico: capacità di analizzare le situazioni in maniera costruttiva.
  • Comunicazione efficace: capacità di sapersi esprimere attraverso un linguaggio verbale e non verbale, adattandosi alle regole vigenti nella cultura e società di appartenenza.
  • Capacità di relazioni interpersonali: capacità di creare rapporti sociali, interagire positivamente con gli altri e di supportarsi a vicenda; rappresenta una fonte di benessere mentale.
  • Autoconsapevolezza: capacità di riconoscere i propri punti di forza, le proprie qualità, ma anche punti di debolezza e vulnerabilità.
  • Empatia: capacità di supportare e sostenere una persona in momenti avversi della vita, anche in situazioni non familiari.
  • Gestione delle emozioni: capacità di riconoscere le emozioni proprie e altrui e di individuarne le cause; permette di adattare il proprio comportamento al contesto al fine di rendere prevedibile quello altrui.
  • Gestione dello stress: capacità di riconoscere la fonte dello stress e sviluppare strategie adattive per farvi fronte.

Le politiche socioeducative dovrebbero pertanto realizzare training di prevenzione, d’integrazione e di promozione dell’educazione alle life skills, attraverso cui incrementare il livello di autostima degli individui (Muafi e Gusaptono, 2010) e di conoscenza dell’abilità insegnata (Papacharisis, 2005)

Fattori neuroanatomici

Il contributo delle neuroscienze descrive una correlazione diretta tra autostima e volume di materia grigia di una regione cerebrale, l’ippocampo (Pruessner, 2005). Misurando il volume della materia grigia (GM) dell’ippocampo mediante la morfometria basata sui voxel (VBM) è emerso che, persone con bassa autostima, possiedono un volume ippocampale ridotto (Pruessner et al., 2005; 2010). Il volume ridotto di tale struttura cerebrale è associato a una maggiore vulnerabilità allo stress e a minori capacità di resilienza, e costituisce un fattore di rischio per alcune malattie organiche come il diabete di tipo 2 (Sigal et al., 2006), malattie cardiovascolari (Fletcher, 1996) e malattie respiratorie (Garcia-Aymerich et al., 2006).

Diversamente, persone con alta autostima presentano un volume ippocampale più grande, dotato di più estese connessioni neuronali.

È stato osservato che lo stress cronico attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, rilasciando nel sangue l’ormone cortisolo, che può avere effetti significativi sul cervello: riduce il volume dell’ippocampo, con conseguenze negative sulla memoria episodica e sulla regolazione del tono dell’umore (McEwen et al., 2016).

 Nella pratica scientifica, diversi studi hanno dimostrato una correlazione positiva tra lo svolgimento di attività fisica e l’aumento dell’autostima globale. Tra i vari benefici dell’attività sportiva vi sono, oltre all’innalzamento dell’autostima, miglioramenti sul benessere fisico, cognitivo e sociale (Liu et al., 2015). Tali benefici vi sono quando l’attività motoria, intesa come combinazione di esercizi aerobici, di forza e di equilibrio, è svolta in maniera regolare, moderata e costante nel tempo, per almeno 150 min a settimana negli gli adulti, e per almeno 60 min al giorno in bambini e adolescenti (OMS, 2020).

Studi più recenti riportano la presenza di un fattore neurofisiologico, legato all’attività fisica, che potrebbe influenzare il livello di autostima: il BDNF (fattore neurotrofico cerebrale; Anderson & Shivakumar, 2013; Szhuany et al., 2015).

Il BDNF è una proteina che favorisce la nascita di nuovi neuroni e rafforza quelli esistenti, aumenta la plasticità cerebrale, permette di imparare più velocemente, di ricordare meglio, e di godere di eccellenti prestazioni cerebrali. Tale proteina, inoltre, agisce come antidepressivo naturale, contrasta gli effetti negativi dello stress sul cervello, modula sia il tono dell’umore che la qualità del parenting (Verburgh et al., 2013). Il processo di neurogenesi avviene principalmente nell’ippocampo che, quando sottoposto all’influenza del BDNF (Wrann et al., 2013), mostra cambiamenti morfologici nelle connessioni tra le cellule e un aumento di volume (Greenberg et al., 2009; Park & Poo, 2013). Carenze di BDNF a livello dell’ippocampo sembrerebbero essere correlate a una riduzione nel suo volume, a bassi livelli di autostima e a stati depressivi e ansiosi (Kojima et al., 2019).

Il volume della materia grigia di una regione cerebrale sembrerebbe essere malleabile in seguito a un periodo di training sportivo (Draganski et al., 2004), pertanto, valutando con risonanza magnetica funzionale il volume della materia grigia nella regione che correla con l’autostima, è possibile verificare l’efficacia dei trattamenti.

L’attività fisica risulta così essere un fattore protettivo e una risorsa nel garantire il benessere fisico, psicologico, cognitivo e sociale, contribuendo a ridurre la sintomatologia di alcune patologie come, ad esempio, la depressione (Verburgh et al., 2013; Tan et al., 2016).

Vi sono numerose evidenze del fatto che chi conduce una vita attiva ottenga punteggi elevati in test che misurano il tono dell’umore (O’Connor, 2000; O’Neal Chambliss et al., 2000) o il grado di soddisfazione per la propria vita (Speltini, 1991; Steptoe & Butler, 1996; Hassmen, 2000), e bassi punteggi in quelli che misurano ansia e depressione (Raglin et al., 1985; Petruzzello, 1991; Bodin & Martinsen, 2004; Blumenthal at al., 1982).

Sarebbe opportuno incrementare il livello di autostima, anche attraverso un training sportivo, così da ottenere risultati sul benessere fisico, psicologico e relazionale.

 

Controvento – Riflessioni sull’adolescenza (2022) di A. Di Stanislao – Recensione

Il libro “Controvento – Riflessioni sull’adolescenza”, scritto dal Dott. Augusto Di Stanislao, accompagna il lettore alla comprensione dell’adolescenza, fase di vita cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità. 

 

 Il libro Controvento – Riflessioni sull’adolescenza, edito Duende, è stato scritto dal Dott. Augusto Di Stanislao, Psicologo-psicoterapeuta, Docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso il corso di laurea in infermieristica e Docente di Clinica dell’attaccamento presso la scuola di Specializzazione in psicologia clinica dell’Università di L’Aquila, scrittore. Il manuale accompagna il lettore alla comprensione dell’adolescenza, fase di vita cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità.

Il manuale si propone di fornire una panoramica sul continuo divenire adolescenziale e le sue peculiarità, dunque di accompagnare il lettore alla comprensione di questa fase della vita considerata uno snodo cruciale per lo sviluppo e l’acquisizione dell’identità. Si tratta di uno strumento utile a chiunque voglia informarsi su cosa comporti essere adolescente e, ancora di più, ai genitori di ragazzi adolescenti per fornire loro conoscenze su come attraversare questa delicata fase, o alle altre figure che si occupano di loro. Nel manuale vengono infatti illustrati concetti come cosa sia l’adolescenza, quanto dura, che cambiamenti comporta, che sfide prevede, come possono comportarsi i genitori e quali stili educativi possono adottare. In breve, funge da guida per capire cosa accade in questa fase evolutiva e mostra come molti comportamenti che possono sembrare strani sono in realtà normali.

L’adolescenza è stata concettualizzata da vari studiosi negli anni: da Anna Freud (1895-1982) che l’ha definita un disturbo evolutivo, una “lotta emotiva” che interrompe una crescita serena, e impedisce il mantenimento di un equilibrio, a Winnicott (1896-1971), il quale ritiene che l’adolescenza abbia bisogno di cura, e con ciò intende che è necessario raggiungere gradualmente la maturazione, fino a che emergerà l’età adulta. Negli anni ‘60 l’adolescenza è stata concettualizzata come una fase di crescita umana, che si contraddistingue per compiti evolutivi e sfide, ma che non necessariamente deve comportare una crisi. Successivamente, verso metà degli anni ‘80, è stata data maggiore rilevanza al contesto sociale, includendo le figure genitoriali e familiari come partecipanti attivi del cambiamento evolutivo in adolescenza.

L’autore parte dal concetto dell’essere “controvento”, che ritiene sia caratteristico dell’adolescenza: ma che significa?

 L’adolescente, nella visione comune, si pone sempre in contrasto con il resto, è sempre “contro”. Questo aspetto viene spesso considerato problematico poiché difficile da gestire, tuttavia, non è necessariamente così. Infatti, se si considera la fase adolescenziale come una metamorfosi, è necessario accettare la presenza di trasgressione e opposizione, che svolgono un ruolo positivo e funzionale alla crescita e al cambiamento. La fase adolescenziale comporta un significativo disagio e senso di impotenza, sia nel singolo adolescente sia nel sistema familiare; si tratta di un periodo in cui si possono manifestare anche problematiche psicologiche e l’esordio di diverse patologie psichiche. Proprio per questo diventa fondamentale la vicinanza degli adulti che sappiano rimanere in ascolto, che siano presenti senza essere eccessivamente invadenti. Si tratta di concretizzare una presenza costante, un ascolto non giudicante, che possono trasformarsi in dialogo quando è l’adolescente ad avvicinarsi.

I bisogni dell’adolescente devono essere capiti, affrontati e risolti mediante un rapporto di reciprocità generazionale, mettendo anche in discussione ruoli e funzioni dati per certi, fissi e immutabili. Crescere assieme è di estrema importanza, ma è anche essenziale non confondere i ruoli genitore-figlio. In questo percorso i genitori hanno il compito importante di accogliere l’adolescente all’interno del processo di individuazione-separazione, comprendendolo nel suo tentativo di conquistare la propria autonomia e di trovare una sua identità.

Al giorno d’oggi l’adolescenza sembra durare di più, sia per motivazioni economiche, sia perché si rimane più a lungo nel sistema educazionale (scuola e università). Questo è in linea anche con le evidenze scientifiche secondo le quali la maturità psicologica non viene raggiunta durante l’adolescenza, bensì più tardi, intorno ai 25 anni o, comunque, quando si esce dalla dimensione domestica.

 

Covid-19 e disagio psichico: l’impatto delle misure restrittive 

Thompson e colleghi (2022) hanno indagato se e in che modo l’impatto delle restrizioni imposte dai governi e l’esposizione al virus Covid-19 avessero avuto effetti sulla salute mentale dei cittadini.

 

Le misure restrittive legate al Covid-19

 A inizio 2020, dopo i primi casi accertati di Covid-19, i governi di diverse nazioni hanno messo in atto delle misure restrittive per contenere il diffondersi dei contagi. L’adozione di tali misure ha portato gli esperti in materia (ma anche i meno esperti) a riflettere sull’impatto delle stesse sulla salute mentale dei cittadini e a chiedersi se la soluzione per arginare l’emergenza medica, non fosse in realtà portatrice di ulteriori problematiche di natura psichica.

Uno studio longitudinale pubblicato di recente, condotto da Thompson e colleghi (2022), fornirebbe una risposta agli interrogativi nati dal dibattito sulle misure restrittive. La ricerca ha indagato se e in che modo l’impatto delle restrizioni imposte dai governi e l’esposizione al virus, sia diretta (ad esempio, malattia fisica o conoscenza di qualcuno che è morto per Covid-19) che indiretta (basata sulle informazioni trasmesse dai media), avessero avuto effetti sulla salute mentale dei cittadini.

Nel periodo che va dal 18 marzo 2020 al 18 aprile 2020 e dal 9 settembre 2020 al 16 ottobre 2020, sono state raccolte informazioni su un campione rappresentativo di adulti statunitensi (N = 5.594) in merito alle lore risposte psicologiche alla pandemia da Covid-19 e all’esposizione personale diretta e indiretta al virus. Parallelamente è stato indagato l’andamento, per ogni Stato, della situazione pandemica e della sua gravità, attraverso l’analisi del numero di decessi a livello nazionale e il rigore delle misure restrittive adottate da ogni Stato nel tempo.

Gli effetti psicologici del Covid-19

Per quanto riguarda i risvolti psicologici della pandemia, i partecipanti hanno risposto a quesiti sui sintomi di angoscia, di solitudine e di stress traumatico sperimentati nel corso dell’ultima settimana. Hanno inoltre fornito informazioni sull’esposizione al virus, ovvero se avessero contratto o meno il Covid-19, se conoscessero qualcuno malato o morto per via del Covid, e quante ore al giorno avessero trascorso mediamente – nell’ultima settimana – a informarsi sui media (sia tradizionali che online) in merito alla situazione pandemica.

 Nel complesso i dati hanno messo in luce livelli molto alti di solitudine e disagio psichico, come depressione e ansia, sebbene questo non sia risultato associato alle misure restrittive adottate nei vari stati.

La gravità dei sintomi psicologici è invece risultata correlata alle esperienze di esposizione diretta e indiretta al virus: le persone che si sono ammalate di Covid-19 e/o hanno conoscenti contagiati e/o deceduti per via del virus, e coloro che hanno trascorso parecchio tempo informandosi sui media riguardo al virus, hanno avuto maggiori probabilità di sperimentare angoscia, solitudine e sintomi di stress traumatico.

L’esposizione personale al Covid-19 sarebbe dunque la variabile più fortemente correlata all’insorgenza di sintomi psicologici, rispetto alle restrizioni imposte dai governi per contenere il virus. I risultati dello studio potrebbero mostrarsi utili nella pianificazione di interventi a livello politico nel caso – si spera più remoto possibile – di presenza di nuovi focolai e/o future emergenze sanitarie.

 

Il disturbo della balbuzie come “conflitto” della parola

Descrivendo la balbuzie, Fenichel (1945) la definisce un fenomeno isterico pregenitale a mezzo del quale il bambino gestisce un conflitto avente ad oggetto l’impulso ad esprimersi, derivante dall’Es, e l’ostacolo di una censura impeditiva, dettata dall’istanza superegoica, in questa fase già particolarmente dominante.

 

La balbuzie

 La balbuzie è un disturbo del linguaggio caratterizzato dall’emissione di una fluenza verbale stentata e disarmonica, in associazione ad una mimica spasmodica di natura neurologico-muscolare, finalizzata a ripristinare il ritmo verbale a seguito di un blocco espressivo. La difficoltà di pronuncia può manifestarsi all’inizio del discorso attraverso interruzioni seguite da lunghi silenzi: in questo caso si parla di balbuzie tonica. Al contrario, se l’inceppo si focalizza sulle sillabe di una parola o di un gruppo di fonemi che vengono coattivamente ripetuti si parla di balbuzie clonica.

Per quanto un fattore di familiarità risulti parzialmente influente nell’insorgenza della balbuzie, sembra possibile ipotizzarne l’origine non prettamente organica. L’impossibilità di esprimersi con fluenza verbale normotipica sembra dunque attribuibile a fattori di natura soggettiva e ambientale che, tradotti in bagaglio esperienziale, possono rivelarsi una fonte agevolatrice del disturbo (Fenichel, 1945; Horner, 1993). Rispetto ai casi in cui non sono presenti difetti relativi all’apparato fonatorio, né altre disfunzionalità clinicamente riscontrabili, l’ipotesi dell’eziologia non organica viene avvalorata dalla tendenza –tipica del disturbo– ad amplificarsi nei contesti ad elevato impatto emotivo e stressogeno (Gaddini, 1980).

L’eziologia del disturbo e il modello psicodinamico

Il modello psicodinamico interpreta la balbuzie come l’esito di un processo evolutivo disfunzionale, in cui la normale acquisizione dello strumento verbale, legata allo sviluppo di competenze biologiche innate, viene ostacolata da vissuti psichici di disagio, intercorsi in un’età precoce, tipicamente, prima dei 3 anni (Horner, 1993).

Descrivendo la balbuzie, Fenichel (1945) la definisce un fenomeno isterico pregenitale a mezzo del quale il bambino gestisce un conflitto avente ad oggetto l’impulso ad esprimersi, derivante dall’Es, e l’ostacolo di una censura impeditiva, dettata dall’istanza superegoica, in questa fase già particolarmente dominante. Quello che si verifica nella balbuzie –come in ogni altro caso di conversione isterica– è un conflitto tra pulsioni, la cui gestione viene affidata alla creazione di un sintomo somatico compiacente, una manifestazione patologica che limita la funzione senza nessun coinvolgimento organico: in questo caso la parola è dunque presente, ma in una forma stentata e disarmonica, perché ostacolata da meccanismi inconsci censuranti (Freud, 1892-1895) .

E se questo appare il vantaggio primario del disturbo, un possibile vantaggio secondario potrebbe essere identificato nel ricevere maggiore attenzione che, proprio grazie alle sue difficoltà espressive, il balbuziente riesce ad ottenere. L’inceppo, quindi, potrebbe risultare un inconscio attivatore ambientale, grazie al quale egli riesce a rendersi visibile, manifestando una presenza che altrimenti passerebbe inosservata (Crocetti, 2022).

Se per i soggetti normotipici la dimestichezza con lo strumento verbale viene automatizzata e vissuta in una condizione emotiva neutrale, il balbuziente effettua un iperinvestimento nel linguaggio, rendendolo un elemento saliente della propria identità, oltre che un mezzo di auto conferma (Fenichel, 1945). Egli medita continuamente sulla parola più giusta da dire, in un rimuginio quasi ossessivo con cui cerca di reperire, all’interno del suo repertorio semantico, il termine foneticamente più “vantaggioso”, perché in grado di evitare l’interruzione della fluenza. Ma, al di là del vantaggio fonetico, una così intensa ricerca semantica potrebbe celare l’intento di scegliere la parola contenutisticamente più appropriata e meno criticabile da parte degli interlocutori. Il balbuziente nutre infatti una profonda convinzione di inadeguatezza che lo spinge a reputarsi inferiore agli altri, o comunque mai all’altezza delle aspettative.

Questa componente perfezionistica della personalità –di cui la ricerca ossessiva della parola costituisce l’esito disfunzionale– deriva da un’istanza superegoica particolarmente censurante, a sua volta generata da un ambiente evolutivo ipercritico e intransigente, in cui l’istanza genitoriale risulta contaminata da intenzionalità punitive più che educative e supportive.

Il bambino balbuziente viene reso oggetto di critiche e squalifiche costanti, che alimentano in lui un’autopercezione di inadeguatezza e manchevolezza (Bonnard, 1963). Non si tratta di gestire un vissuto traumatico: ciò che il balbuziente deve fronteggiare è piuttosto lo stato ansiogeno dato da un continuo attacco identitario, che lo costringe a rivalutare in senso limitativo tutte le sue pulsioni, le sue capacità, le sue potenzialità (Fenichel, 1932).

L’ambiente familiare e lo stile educativo: possibili fattori predisponenti

L’ambiente familiare del balbuziente disegna un contesto in cui la parola costituisce uno strumento di valutazione intransigente, privo di una valenza emotiva ed educativa, il cui unico messaggio risiede nella irrimediabilità dell’errore.

Il bambino teme il giudizio, ed è consapevole di non poter sbagliare. Per questo si pone al perenne servizio di un perfezionismo che, dalla sfera espressiva, si trasferisce a quella esistenziale, coinvolgendone ogni aspetto. Il rimprovero o la critica del genitore diventano per lui un mezzo valutativo censurante che, una volta interiorizzato, si trasforma in un legislatore interno altrettanto severo che dà vita a una condizione collusiva ansiogena dagli effetti profondamente austosvalutanti.

Nel contesto familiare del balbuziente la valenza emotiva verbale è fortemente deficitaria. L’espressività genitoriale non si focalizza sull’analisi degli stati mentali del bambino, né dei propri. L’aspetto comunicativo è limitato alla trasmissione di messaggi concreti la cui attenzione è tutta rivolta all’aspetto formale delle parole, piuttosto che al significato emotivo e meta-emotivo delle stesse. L’IO desiderante viene depauperato da questa presenza genitoriale normotica, concreta e affettivamente refrattaria, che spinge a vergognarsi di sé e del Sé, in un circolo vizioso costruito sulle basi dell’impotenza, del perfezionismo, della mortificazione silenziosa e inesprimibile (Bollas, 1989).

Il disagio che ne consegue è visibile anche sul lungo termine. Non sono pochi i bambini che, in comorbilità con il disturbo dell’espressione, manifestano disturbi internalizzanti –legati a patologie dell’ansia o dell’umore– e la più tipica lalofobia, inerente fobia specifica dell’espressione verbale. Molti sono ostaggio di un vissuto autoisolante e depressivo, favorito da un’incapacità di costruire relazioni amicali delle quali non si sentono all’altezza. In ambito scolastico il loro difetto di pronuncia tende ad essere accolto con scarsa empatia, soprattutto da parte dei pari, che tendono a mortificarli, talvolta anche crudelmente, consolidando il percetto di inadeguatezza ed impotenza già instauratosi nel contesto familiare (Tomaiuoli, 2015).

La personalità del balbuziente

Il mondo del balbuziente è caratterizzato da una difficoltà adattiva che, al di là dell’espressione verbale, coinvolge trasversalmente ogni dimensione esistenziale, caratterizzandola patologicamente: egli può presentare:

  • tratti di personalità narcisistica ipervigile, sviluppati a causa delle mortificazioni subite in ambito affettivo e sociale;
  • tratti di perfezionismo, posto come strumento difensivo alla mortificazione del Sé;
  • vissuto evitante e inconsciamente ostile verso un ambiente percepito come rifiutante;
  • tratti depressivi, generati dalla scarsa fiducia nel sé e nel mondo affettivo oggettuale che lo circonda.

Essendo rimasti fissi ad una fase anale conflittuale, molto spesso si tratta di soggetti testardi, caratterizzati da aggressività passiva, spiccato senso del dovere, ostinazione e intensa componente superegoica, cui soggiace una latente pulsione oppositiva volta a compensare le umiliazioni di un Sé percepito al contempo fragile e onnipotente. Malgrado la presenza di mortificazioni affettive reiterate, il sano narcisismo del balbuziente non ha infatti subìto una totale amputazione. Si trova piuttosto in una condizione emotiva conflittuale, che vede la contrapposizione tra una visione del Sé desiderosa di riconoscimento e una umile e impotente che ambisce soltanto a nascondersi (Sigurtà, 1955; 1970).

Questa tendenza alla dicotomia determina la formazione di una struttura psichica in cui l’espressione emotiva non ha trovato regolazione né canalizzazione simbolica, e ha dato vita ad uno stile espressivo egualmente conflittuale, disorganizzato, disregolato.

 La parola ha perduto, nel balbuziente, una potenzialità creativa e relazionale, divenendo piuttosto il condensato simbolico di lotte conflittuali tra pulsioni polarizzate e tuttavia compresenti, quali libertà e dipendenza, volontà di apparire e di nascondersi, pulsione relazionale e di isolamento, ma soprattutto volontà di compiacere il proprio narcisismo o quello dei genitori, per usufruire della loro presenza affettiva e sentirsi apprezzato.

Non è un caso se la balbuzie si manifesta nel periodo anale, quello in cui il bambino avverte la necessità di raggiungere gratificazioni autonomiche, pur beneficiando della presenza di un supporto genitoriale costante e attendibile. È esattamente in questa fase evolutiva che il linguaggio può divenire un mezzo di espressione e di conferma del Sé, tramite il quale l’infans manifesta i propri vissuti emotivi, ancorché connotati di oppositività verso la volontà del genitore.

Nasce il linguaggio contrastivo, il fascino irresistibile del “NO”, che, al di là di una negazione, rappresenta un mezzo di costruzione, riconoscimento e conferma dell’identità. Il bambino ha necessità di contrapporsi al genitore, e il genitore è chiamato ad accogliere questo contrasto come un segnale evolutivo da potenziare, anziché da inibire tramite condotte inibitorie e punitive. Eventualità, quest’ultima, in cui la parola non assumerà la preziosa funzione di incontro e relazione che le è propria, ma diverrà un contesto saturato di significati eteroimposti, un terreno di scontro inibito, di critica, di aggressività passiva, verso i quali il bambino dovrà mostrare una dolorosa ma inevitabile compiacenza (Freud, 1963). Si crea così il terreno fertile per un disturbo espressivo che, nei casi normotipici, si risolve con l’esaurirsi della fase anale.

La balbuzie come angoscia del reale

L’Io del balbuziente teme le proprie pulsioni non per una decisione maturata autonomamente, ma a causa di una educazione proibitiva che gliene ha impedito il soddisfacimento, connotandole di un vissuto superegoico iperinvestito (Freud, 1936). La sua potrebbe essere definita un’angoscia del reale, perché legata al timore di esprimere tutte quelle pulsioni che, per quanto innate e naturali, sono state oggetto di una pressante censura educativa.

Persino attività come mangiare, dormire, masticare, risultano circondate da un’aura di non praticabilità, quasi di vergogna, che ha indotto il bambino ad associare alle stesse un insopprimibile senso di colpa.

Il genitore ha instaurato in lui un un senso imperante di vergogna, spingendolo a nascondere, a trattenere, a celare con pudore mortificante la propria espressività, verbale così come somatica. Sotto quest’ottica, l’inceppo verbale non è che una parte del blocco supergoico da cui il balbuziente si sente invaso, e la paura di parlare non è che il riflesso metaforico di una ben più profonda paura di apparire, di esternalizzare il proprio mondo interiore, risultare visibile e giudicabile dagli altri, nella convinzione che questo comporterebbe l’ennesima mortificazione.

Il balbuziente non ha paura di parlare, ma di dire. Dire ciò che ha internalizzato e che percepisce come pericoloso, ostile, minaccioso. La balbuzie diventa un limite insuperabile, un difetto imperdonabile nel quale il soggetto si riconosce e da cui si lascia dominare, riflettendovi la sua intera identità. Invalidato da un sintomo da cui non riesce a separarsi, in una collusione difensiva inscindibile, egli condensa nella parola il proprio vissuto di frustrazione pulsionale, di impotenza e incapacità, rendendola lo specchio di un fallimento esistenziale per certi aspetti ineludibile (Klein, 1923).

Ma solo fino a che la parola viene attribuita al Sé: uno scostamento tra la produzione verbale e l’identità del parlante determina un cambiamento, talvolta notevole, della capacità espressiva, limitandone la disfunzionalità. A testimonianza di ciò si veda come le prestazioni verbali, solitamente scadenti in questi soggetti, subiscano un subitaneo miglioramento nei contesti in cui l’espressione verbale viene svincolata dal Sè: ad esempio interpretazioni teatrali, in cui viene vestito il ruolo di qualcun altro, o prestazioni verbali di gruppo, in cui l’identità risulta diluita con quella di altri individui, dando luogo ad una desoggettivizzazione in grado di sbloccare l’impasse isterica e liquidare il senso di colpa insito nell’espressività verbale (Tomaiuoli, 2015).

Proprio questo aspetto è servito alla strutturazione di programmi terapeutici aventi ad oggetto una rieducazione alla parola, nei quali il balbuziente può riacquistare il piacere dello strumento verbale grazie a un’autorivalutazione più indulgente e gratificante e a un più adeguato investimento relazionale.

In conclusione, la balbuzie è un sintomo che si origina quando capacità innate, come quella inerente lo sviluppo del linguaggio, vengono rese oggetto di esperienze evolutive limitanti che vanno a ledere la dimensione dell’identità e dell’autostima (Hartmann, 1939). Proprio questo aspetto ha contribuito a consolidare l’ipotesi di una natura non organica del disturbo, attualmente identificato con l’esito di un disagio che affonda le radici in un contesto evolutivo affettivamente povero, inadeguato e caratterizzato da elevate componenti stressogeno-conflittuali.

 

Victim Blaming: il caso del terremoto dell’Aquila

Il concetto di “colpevolizzazione della vittima” è stato coniato da William Ryan nel 1971, con la pubblicazione del suo libro “Blaming the victim” (Ryan, 1971). Un caso particolare di victim blaming, più di tipo istituzionale, è quello accaduto proprio ultimamente ad alcune vittime del terremoto dell’Aquila del 2009.

 

Il fenomeno del victim blaming

 Il victim blaming è un processo di tipo psicologico che riguarda la tendenza a colpevolizzare le vittime. La colpevolizzazione avviene, in toto o in parte, per i trattamenti e le cose successe alle stesse vittime. Tale fenomeno è maggiormente osservabile in caso di crimini di natura sessuale o violenti.

Questo fenomeno avviene come reazione molto rapida a fatti di cronaca. L’esigenza di creare questa etichetta è data dalla rapidità delle comunicazioni. Infatti, spesso queste tendono a essere sintetiche ed estremiste, portando le opinioni dei singoli ad essere totalmente a favore di una parte o dell’altra, senza compromessi. Invece, come spesso accade, la realtà è diversa ed è anche più complessa.

L’ipotesi o credenza del mondo giusto di Lerner (1980) ci aiuta a comprendere meglio tale processo psicologico. Infatti, secondo Lerner le persone hanno la tendenza a pensare che tutti ricevano ciò che si meritano, così da mantenere nella loro mente l’idea di vivere in un mondo giusto.

Di solito la maggioranza tende a prendere le parti della vittima, ma è stato dimostrato come vi siano soggetti che tendono a prendere le parti dell’aggressore o comunque a colpevolizzare la parte lesa, per l’appunto.

Il victim blaming non avviene in ogni contesto. Generalmente avviene più spesso per fenomeni di natura sessuale o violenta. Più nello specifico, di solito, si rifà a casi di cronaca come lo stupro. Quindi, l’abuso sessuale è il reato che più di tutti rischia di innescare meccanismi di colpevolizzazione della vittima. Tra gli altri accaduti che possono innescare tale fenomeno vediamo i casi di Revenge Porn, ossia la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (Gravelin et al., 2019).

Un caso particolare di victim blaming, più di tipo istituzionale, è quello accaduto proprio ultimamente ad alcune vittime del terremoto dell’Aquila del 2009.

Il caso del terremoto dell’Aquila

Qualche giorno fa, il 9 ottobre 2022, il Tribunale dell’Aquila ha definito una “condotta incauta” il comportamento di alcuni abitanti di una palazzina dell’Aquila, quella di via Campo di Fossa 6b. I cittadini, infatti, rimasero nelle proprie case la sera del terremoto e morirono sotto le macerie. Questo comportamento è stato definito dal Tribunale come concorso di colpa delle stesse vittime del crollo, quantificando i risarcimenti con una riduzione del 30%. Il Tribunale dichiara infatti che le vittime non sarebbero dovute restare a dormire.

Ma partiamo un po’ dall’inizio. L’edificio in questione era costituito da due palazzine gemelle che quella notte ebbero la sorte opposta: il civico 6a restò in piedi, il 6b si ridusse in polvere, sgretolandosi su sé stesso. Gli abitanti del primo civico sopravvissero tutti, nel secondo palazzo furono 27 i morti, 27 morti dei 309 che morirono l’orribile notte del 6 aprile 2009.

 La scossa che distrusse l’edificio era di magnitudo tra 5.9 e 6.3, delle 3.32. Un mainshock di uno sciame sismico iniziato già nel dicembre 2008. Infatti, nei giorni precedenti la scossa devastante delle 3.32, la preoccupazione aumentò, in quanto le scosse erano diventate molte, continue e più violente. La settimana precedente le scosse si susseguirono sempre in modo più intenso, in particolare il 30 marzo ci fu una scossa di magnitudo 4.0, la più violenta di uno sciame iniziato qualche mese prima. In quell’occasione in migliaia corsero in strada e alcuni decisero di passare addirittura la notte in macchina.

Il giorno dopo fu indetta una riunione della Commissione Grande Rischi in Abruzzo, per tranquillizzare la popolazione. Dichiararono infatti che lo sciame sismico avrebbe rappresentato una forma di rilascio graduale di energia. Quindi, la Commissione rassicurò la popolazione e dichiarò di non preoccuparsi eccessivamente, in quanto quello scarico di energia non poteva che essere positivo, permettendo di evitare una grossa scossa distruttiva.

Perciò, si potrebbe dire che la notte del 6 aprile la popolazione aquilana dormiva nelle proprie case rassicurata da una Commissione formata da scienziati e sismologi italiani, e gli stessi abitanti di via Campo di Fossa 6b non si trovavano incautamente in casa, ma rimasero al loro interno dopo le ripetute rassicurazioni degli esperti.

Nelle diverse precedenti pronunce in Tribunale del terremoto, quella del giudice Croci è l’unica a definire questo tipo di ripartizione di colpa. E, trattandosi di un giudizio di primo grado, si potrà fare ricorso ed è probabile che la decisione verrà modificata in appello.

Il problema di una sentenza come questa, che colpevolizza le vittime in questo contesto, è soprattutto di tipo politico. Infatti, incolpando i cittadini vittime di questa tragedia, ciò porta i cittadini di oggi a diffidare delle istituzioni e perciò di chi dovrebbe vigilare sulla sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture.

La giustizia dovrebbe basarsi più sui fatti che sulle ipotesi, per garantire un risultato più giusto possibile. I tribunali, perciò, dovrebbero avere l’obiettivo di dimostrare se esiste colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Cosa che ovviamente non usa l’opinione pubblica.

Il fatto che tale fenomeno sia emerso proprio da un tribunale, che dovrebbe garantire un giusto risultato, è ad oggi preoccupante.

Questo particolare caso di victim blaming istituzionale può non essere un’eccezione, ma ci si augura che lo sia.

 

Il caleidoscopio. Metafora per concettualizzare il modello sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale – Report

In occasione del 30° anniversario delle attività di formazione della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare (S.R.P.F.), si è tenuto a Todi (13-15 Ottobre 2022) un importante Convegno che ha visto protagonisti diversi tra i più autorevoli esponenti del mondo sistemico relazionale italiano, dal titolo “Il caleidoscopio. Metafora per concettualizzare il modello sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale”.

 

 La Scuola Romana di Psicoterapia Familiare, che ha promosso il Convegno, è diretta da Carmine Saccu, neuropsichiatra infantile, già professore associato nella clinica diretta da Giovanni Bollea, dal 1975 impegnato in attività didattica nella formazione dei terapeuti sistemico-relazionali, cofondatore dell’Istituto di Terapia Familiare di via Reno, insieme a Maurizio Andolfi, Anna Nicolò e Paolo Menghi, che ha editato la rivista “Terapia familiare”. Il Dottor Saccu possiede uno stile terapeutico particolarmente creativo e innovativo, in cui dà spazio al gioco e all’umorismo, che mette al centro le emozioni del terapeuta, coniugando la visione sistemica con la sua formazione psicoanalitica originaria. Particolarmente importante il suo lavoro con i bambini psicotici e, da qualche anno, a riprova della sua originalità e desiderio di esplorare strade nuove, ama lavorare in “coterapia” con Mafalda, la carlina che raramente si separa da lui. In tanti anni di lavoro, non è venuta mai meno la sua fiducia nella capacità trasformativa delle famiglie. Anche come didatta pone particolare attenzione affinché l’allievo sia attento alle proprie aree di risonanza, allo scopo di scoprire proprie potenzialità creative e nuovi spazi di rapporto. Anche nelle situazioni più difficili, laddove la maggior parte dei terapeuti è inevitabilmente concentrata sui limiti e le carenze, lui riesce a vedere capacità insospettate e con ridefinizioni originali crea inediti modelli relazionali.

La Scuola Romana periodicamente organizza eventi formativi in cui possono incontrarsi allievi ed ex allievi delle sedi di Roma, Napoli, Cagliari e Crotone. Stavolta, dopo Orvieto, è stato scelto Todi come luogo ospitante. L’idea, rivelatasi vincente, alla base del Convegno è stata quella di invitare i relatori a presentare il loro modello di lavoro dedicato esclusivamente alla prima seduta, portando videoregistrazioni o mostrando simulate. Così i partecipanti hanno avuto modo di vedere dal vivo lo stile clinico di diversi grandi terapeuti e ampio spazio è stato dato alla discussione in tavole rotonde, in cui i relatori hanno dialogato tra loro e con il pubblico.

Oltre a Carmine Saccu sono interventi a Todi altri prestigiosi terapeuti, rappresentanti di diverse scuole di matrice sistemico relazionale: Umberta Telfener (recentemente nominata Presidente della European Family Therapy Association [EFTA]), Alfredo Canevaro, Camillo Loriedo, Pietro Barbetta, Rossella Aurilio e Fabio Bassoli. Altre relazioni sono state presentate da quattro didatti interni della S.R.P.F.: Antonio Acerra, Paolo Bucci, Stefano Fantozzi e Alberto Vito. Infine, nell’ultima giornata il Dr. Pakman ha condotto una supervisione in collegamento video dall’Argentina. Tutte le sessioni sono risultate molto vivaci, ricche di stimoli, mai noiose. Non si è solo parlato in astratto a proposito della “prima seduta”, ma i relatori hanno mostrato concretamente come lavorano nel primo incontro con le famiglie, facendo emergere sia punti di contatto che differenze nello stile personale nell’approccio alla famiglia.

 Il Convegno è stato anche l’occasione per presentare due recenti prodotti editoriali: il nuovo libro di Carmine Saccu, dedicato ai “Sommi sacerdoti”, come lui ama definire con una metafora i bambini affetti da gravi deficit relazionali, che reputa maestri nell’attivare le aree fantasmatiche del terapeuta, e il numero zero della rivista “Deutero”, che raccoglie nove contributi di didatti della scuola, che hanno rielaborato i loro seminari clinici svolti nel 2022.

Carmine Saccu, affetto dal virus del viaggiatore che lo ha portato a lavorare in mezzo mondo, ama ripetere che occorre sempre unire l’utile al dilettevole. Per questo, il Convegno è stato organizzato a Todi proprio in concomitanza della disfida di San Fortunato, festa dedicata al patrono della città che si svolge in stile medioevale. Così, i numerosi partecipanti, finite le ore di sessioni congressuali, hanno potuto assistere a gare di arcieri, cortei storici con tamburini e, chi lo ha desiderato, vestirsi in abiti medievali per prendere parte a una cena d’epoca dedicata ai terapeuti nel Palazzo del Popolo, finita tra musiche argentine e balli.

 

Le strategie di coping nella gestione del lutto in persone dipendenti da sostanze

A seguito di una perdita, l’elaborazione del lutto può avvenire in vari modi, ma sempre seguendo il naturale decorso del dolore, fino ad arrivare all’accettazione di quanto accaduto. In alcune situazioni però, è possibile che il lutto non venga elaborato adeguatamente, a causa di una mancata gestione dell’evento stressante in maniera funzionale. 

 

Le strategie di coping

 Le modalità con cui si affrontano e ci si adatta a eventi di vita di vario tipo, che possono risultare stressanti o dolorosi, sono definite come strategie di coping (Lazarus & Folkman, 1984). Tuttavia, non sempre si riescono a mettere in atto strategie adeguate alla situazione che ci si trova a fronteggiare e questo può avere diversi risvolti negativi a livello sia psicologico che sociale.

L’abuso di sostanze, per esempio, è una delle strategie di coping disadattiva più diffusa, proprio perché dà momentaneamente una sensazione di sollievo dalla sofferenza, tuttavia non consente minimamente di fronteggiare e superare una difficoltà in modo funzionale (Dashora et al., 2011).

Nel momento in cui ci si trova ad affrontare un evento doloroso come la perdita di una persona cara, è necessario utilizzare le proprie risorse per fronteggiare l’accaduto ed elaborare il lutto ma, se vengono messe in atto strategie controproducenti, si rischia di aggravare il proprio malessere psicologico, impedendo il normale decorso del dolore; in questo caso, si parla di “disturbo da lutto persistente complicato”, come definito dal DSM-5, ovvero un prolungamento del periodo di sofferenza dovuto a una perdita, e la conseguente incapacità di superare un momento di vita doloroso (APA, 2013). Secondo alcuni autori questo processo sarebbe influenzato proprio dall’utilizzo di strategie di coping disadattive, che non facilitano l’individuo nell’adattamento a una nuova situazione di vita, rendendo così più complesso il percorso di “guarigione”, soprattutto se correlato ad abuso di sostanze (Masferrer et al., 2017).

La gestione del lutto

Uno studio di Caparrós e Masferrer (2021) ha analizzato le diverse strategie di gestione del lutto in persone che abusano di sostanze, partendo dal presupposto che esse siano più vulnerabili e possano avere maggiori difficoltà nell’affrontare la perdita di una persona cara. In questo studio, infatti, viene tenuto in considerazione il disturbo indicato sul DSM-5 (APA, 2013) come disturbo da lutto persistente complicato, che è comunemente definito come un’esperienza emotiva fortemente intensa, negativa e persistente, che si discosta da quello che è comunemente concettualizzato come un normale periodo di lutto a seguito di una perdita (APA, 2013; Newson et al., 2011). In ogni caso, l’abuso di sostanze è spesso usato come strategia disadattiva per affrontare eventi traumatici ma, allo stesso tempo, può rallentare o impedire una corretta elaborazione del lutto (Lombardo et al., 2014).

L’articolo in questione pone l’attenzione sull’identificazione delle strategie di coping utilizzate, in un contesto di disturbo da lutto persistente e complicato, dalle persone che abusano di sostanze, proprio perché queste persone tendono a sviluppare più frequentemente un disturbo da lutto persistente. Nel momento in cui si possiedono scarse o inefficaci capacità di coping, è più probabile incorrere in complicanze nell’elaborazione del lutto.

Questo studio si pone diversi scopi: analizzare il rapporto tra lutto persistente e le numerose strategie di coping, sondare le possibili differenze tra modalità più o meno adattive di gestire il dolore della perdita, valutando un collegamento con i diversi tipi di abusi di sostanze, e, infine, identificare le strategie di coping che caratterizzano il lutto persistente in persone con dipendenze.

Gestione del lutto e dipendenza da sostanze

 Tra i 196 partecipanti allo studio, tutti affetti da dipendenze, ben il 34,2% aveva sviluppato il disturbo da lutto persistente a seguito di una perdita e solo il 36,7% era in grado di svolgere un’attività lavorativa. Sono emerse delle differenze tra il gruppo di partecipanti in grado di gestire il lutto in maniera adattiva e quelli che invece hanno sviluppano una forma di lutto complesso e duraturo: i partecipanti aventi una forma di lutto persistente hanno ottenuto punteggi significativamente più alti in tutte quelle strategie di coping che si possono riassumere come negative, ovvero l’autocriticismo, il ritiro sociale e il pensiero desiderante (concetto che presuppone la volontà di fuggire dalla realtà oggettiva per rifugiarsi in un mondo di fantasia basato sui propri desideri; Masferren et al., 2017).

L’evitamento dei propri sentimenti negativi di sofferenza, il pensiero desiderante, il ritiro sociale e l’autocriticismo sono risultate strategie correlate allo sviluppo di una forma di lutto persistente (Coriale et al, 2012). Quanto emerso può essere motivato dal fatto che, a seguito di una perdita, le persone in lutto attraversano anche una fase di negazione dell’accaduto, di incapacità di accettazione della morte, rendendo così il normale decorso del lutto più complesso e prolungato (McLean et al., 2022). Inoltre, i partecipanti aventi una forma di lutto persistente utilizzano maggiormente strategie come il criticismo e la colpa verso sé stessi, non permettendosi una più naturale elaborazione del lutto.

È stato interessante notare che il tipo di sostanza utilizzata non è risultato avere un impatto sulla forma di lutto sviluppata.

In conclusione, strategie di evitamento e autocolpevolizzazione inficiano notevolmente il processo di elaborazione del lutto in persone con problemi di abuso di sostanze (Taquir et al., 2020). In generale, sia il lutto persistente che l’abuso di sostanze impediscono una lucida gestione di situazioni stressanti e possono essere concettualizzate come strategie maladattive di coping.

La responsabilità della psicologia nel sistema delle cure

Proponiamo ai nostri lettori un estratto della lettera scritta da Maria Simonetta Spada e Margherita Papa e pubblicata su Quotidianosanità.it che invita a riflettere su un tema di particolare importanza e attualità, ovvero la responsabilità della psicologia nel sistema delle cure.

 

31 OTT – Gentile Direttore,

in questo momento storico, dopo un lavoro di ricognizione che ha palesato la disomogeneità italiana relativamente alla presenza della Psicologia nelle organizzazioni sanitarie, è in fase di costituzione il Coordinamento dei Direttori di Struttura Complessa di Psicologia e, proprio da questo vertice osservativo, riteniamo utile partecipare al dibattito in corso.

Risulta superfluo qui sottolineare come, specie nella fase post pandemica, i bisogni psicologici siano fortemente rappresentati in tutte le fasce di età e, con loro, la richiesta di una risposta da parte del SSN.

Si rende quindi sempre più necessario un lavoro di intercettazione precoce dei bisogni psicologici all’interno di un sistema che operi una funzione che va dal sostegno alla salute, ispirato al welfare di comunità, che contempla anche il benessere organizzativo, fino al livello di intervento specialistico, in ambito di patologia acuta o cronica non necessariamente psichica. Teniamo conto infatti dell’importanza della componente psicologica nel processo di cura e di assistenza di tante malattie fisiche e problemi di salute di salute, sino ad arrivare al tema del dolore e delle cure palliative.

 

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Lo psichiatra E. Zanalda sul caso di Assago: “Non etichettiamo subito come malato psichiatrico l’autore del reato” – Comunicato Stampa

Enrico Zanalda, Presidente psichiatri forensi: “Non stigmatizziamo e non etichettiamo subito e in modo semplicistico l’autore del reato come malato psichiatrico”. L’esperto commenta così le prime reazioni a seguito del drammatico episodio di cronaca al Centro commerciale di Assago dal triste bilancio di 5 feriti accoltellati e 1 morto 

Comunicato Stampa

 

Milano, 28 ottobre 2022 – Un fatto drammatico e increscioso quello consumato nella sera del 27 Ottobre che sta suscitando paure e allarmi che meritano il commento e le raccomandazioni di Enrico Zanalda, psichiatra e Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense (SIPF).

Siamo veramente costernati per quanto accaduto ad Assago, ma non vorrei che questa tragedia aumentasse a dismisura l’incremento dello stigma e della paura nei confronti della psichiatria. Non generalizziamo quindi – interviene Enrico Zanalda, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense – né la condizione di paziente psichiatrico, né quella di depresso con un collegamento semplicistico e stigmatizzante che determina allarme sociale e paura dei nostri pazienti. Sarà la perizia psichiatrica ad attribuire la responsabilità della persona. Lo stigma verso la salute mentale è dannoso quanto lo scarso finanziamento dei servizi di salute mentale a distanza di oltre 40 anni dalla legge Basaglia. Al fine di attuare completamente la riforma psichiatrica del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG), sarebbe opportuno che la Società Italiana di Psichiatria Forense partecipasse anche nell’ottica della prevenzione, all’attuazione pratica della riforma determinata dalla L 81/2014 superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

È riduttivo etichettarlo in modo automatico come psichiatrico

Senza dubbio appare doveroso sottolineare la probabile mancanza di equilibrio psichico dell’autore dei gravissimi fatti di Assago – continua Zanalda – ma etichettarlo come malato psichiatrico o attribuire alla depressione la causa del comportamento, è riduttivo e stigmatizzante. Questa enfasi non può che aumentare la paura della gente nei confronti delle numerosissime persone che soffrono di depressione o sono ricoverate in ambiente psichiatrico.

Non sottovalutiamo chi sta seguendo percorsi di riabilitazione

Il soggetto pare fosse anche disoccupato e chissà quali altre caratteristiche emergeranno nei prossimi giorni dalla sua biografia. I comportamenti delle persone sono sempre pluri-determinati e dipendono da molteplici fattori: cultura, personalità, educazione, circostanze ambientali, stato di equilibrio mentale dell’autore del reato e vanno soppesati nell’ottica psichiatrico-forense. Etichettarlo come malato psichiatrico in automatico – ribadisce Zanalda – è ingeneroso verso tutte quelle persone che si curano e lottano per il proprio equilibrio psichico e che, dopo questo episodio se etichettato non correttamente, troveranno maggiori difficoltà nei percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale che tutti i giorni i dipartimenti di salute mentale si impegnano a realizzare.

Il timore di emulazione

Nell’immediato, il ritiro dei coltelli dai supermercati come sta succedendo in queste ore, può rassicurare i clienti come operazione di marketing più che di incremento reale della sicurezza del pubblico. L’emulazione – conclude Zanalda – è un fenomeno molto evidente e noto soprattutto in ambito suicidario. Lo è meno nei casi di omicidi di massa, definitivi “mass murder”, anche se il clamore mediatico attira personalità predisposte ad agire scatenando la rabbia incontenibile che provano nei confronti di particolari comunità o della società.

La salute mentale dei migranti

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

 

La salute mentale di migranti e rifugiati

 Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Quest’anno il tema generale è stato: “Rendere la salute mentale e il benessere una priorità globale per tutti”.

Il Parlamento Europeo, a tal proposito, ha focalizzato l’attenzione su migranti e rifugiati, la cui salute mentale viene spesso trascurata o tralasciata. In realtà, il viaggio che si è costretti a intraprendere, l’insediamento in un paese straniero e l’integrazione con una cultura sconosciuta, mettono a rischio prima di tutto la stabilità psichica di donne e uomini che, già segnati da esperienze difficili quali guerre, sfollamenti forzati e rotte migratorie durissime, possono non essere in grado di gestire la portata di emozioni che questo comporta.

La mappatura delle politiche a favore della salute mentale dei migranti pubblicata a luglio 2022 dall’European Migration Network, mette in luce le sfide per gli Stati membri in merito all’accesso ai servizi primari da parte di chi è straniero. Se sulla carta il diritto alla cura è lo stesso messo a disposizione dei cittadini europei, nella realtà dei fatti migranti e rifugiati si trovano di fronte a ulteriori, e non di rado insormontabili, difficoltà, quali le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni, la difficoltà di accesso ai servizi integrati, i costi elevati e le lunghe liste di attesa, la mancanza di consapevolezza e fiducia, gli svantaggi socio-economici. Dunque, l’integrazione dei migranti passa dallo sviluppo di politiche e strategie che pongano attenzione anche alla formazione del personale addetto, affinché possa avere competenze specifiche per sostenere e aiutare chi parla una lingua diversa e ha radici culturali lontane.

Quali difficoltà incontrano migranti e rifugiati?

Nel 2007 Franco Voltaggio, medico e filosofo della scienza, tenne presso l’ospedale Sandro Pertini di Roma una lectio magistralis intorno alla psichiatria transculturale, che studia e cura tutti quei disturbi riconducibili all’ambiente culturale di insorgenza e non ascrivibili a categorie patologiche riconosciute o condivise. In quell’occasione vennero alla luce problematiche ed esigenze ancora oggi di difficile soluzione: “Mentre i nostri politici decidevano che cosa fare di se stessi, che cosa fare da grandi, se continuare la prima o fare la seconda repubblica, l’Italia, considerata a torto o a ragione una sorta di “eldorado”, venne investita da un grande flusso migratorio. […] Da questa novità, e cioè dall’entrare in contatto finalmente con le cose vere –con gli uomini, le donne, i bambini– sono stati in prima istanza i medici, e ancor prima ovviamente gli psichiatri, che hanno dovuto confrontarsi con le conseguenze della migrazione, scoprendo diverse cose. La prima assomiglia alla scoperta del cavallo, dell’acqua calda, dell’ombrello, della carta vetrata: quando si parla di integrazione non si dovrebbe pensare all’integrazione degli altri nella società italiana, ma a una reciproca integrazione che parte dagli italiani e viene ripresa dagli ospiti” (Scaringi, 2008).

Questi ultimi, però, sono spesso infelici: “prima di tutto perché non trovano lavoro facilmente, perché non trovano alloggio, perché le condizioni di lavoro (quando le trovano) sono condizioni orrende. Ma sono infelici anche per una sindrome che io chiamerei spaesamento: il giovane migrante, che viene in Italia e che viene accolto da quelli che eufemisticamente vengono chiamati Centri di Prima Accoglienza (ma che in realtà sono dei campi di concentramento), è spaesato perché si trova in un posto che non è il suo e sente una malinconia profondissima, una nostalgia forte per il paese che ha lasciato. Però, per quanto possa sembrare paradossale, questa nostalgia, confondendo passato e futuro e presente, la prova anche nei confronti della terra di approdo” (Scaringi, 2008). Sì, perché è la terra dell’abbondanza; e lo straniero, sapendo che se ne dovrà andare anche dalla nuova patria, sperimenta una sorta di nostalgia anticipata: egli “lascia le proprie radici, ma una volta entrato in quella specie di inferno paradisiaco che sarebbe l’Italia, ne recide delle altre” (Scaringi, 2008).

Il primo Rapporto Mondiale sulla salute dei rifugiati e dei migranti, lanciato lo scorso luglio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, parte dall’analisi di numeri quasi raddoppiati rispetto a dieci anni fa, con un 281 milioni di persone in movimento nel solo 2020.

Nonostante le difficoltà attuali, una persona ogni 30 nel mondo vive al di fuori del proprio Paese: i 281 milioni di migranti internazionali incidono infatti per il 3,6% sulla popolazione mondiale. Le donne rappresentano circa il 48% dei migranti internazionali. Le principali aree di partenza sono Asia (111 milioni) ed Europa (67 milioni); seguite da America (47 milioni, di cui 43 milioni Sud America), Africa (41 milioni) e Oceania (2 milioni). Il primo Paese di partenza è l’India (17,9 milioni di emigrati), seguita da Messico (11,2 milioni), Federazione russa (10,8 milioni), Cina (10,5 milioni) e Siria (8,5 milioni). Martoriata dalla guerra civile ancora in corso la Siria vede emigrata la metà della nazione (48,3%). Tassi di emigrazione particolarmente alti si registrano in altri Paesi storicamente sconvolti dai conflitti, come Palestina (78,9%), Bosnia Erzegovina (51,4%) e Armenia (32,3%), ma anche in Paesi tradizionalmente a forte pressione emigratoria, come Portorico, Suriname, Samoa, Giamaica, Capo Verde, ecc. Tra il 20-30% si distingue, inoltre, una folta pattuglia di Paesi dell’Europa mediterranea o centro-orientale: Albania, Macedonia, Moldavia, Croazia, Bulgaria, Lituania, Malta, Georgia, Montenegro, Portogallo e Romania (IDOS, 2021, p. 20).

Questi i dati che emergono dall’edizione 2021 del Dossier Statistico Immigrazione, pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Idos.

Il 59,0% dei migranti internazionali si è insediato in uno dei Paesi del Nord del mondo. Il primo continente di destinazione è l’Europa con 93 milioni di migranti internazionali, seguita da Asia (79 milioni), America (74 milioni), Africa (25 milioni) e Oceania (9 milioni). A livello di aree continentali, un quinto è insediato nell’Ue-27 (19,6%) e un altro quinto in America settentrionale (20,9%). L’incidenza sulla popolazione raggiunge il 12,3% nell’Ue, ma arriva al 15,5% nell’Asia occidentale, al 15,9% nell’America settentrionale e al 22,0% in Oceania. Nei Paesi a sviluppo umano molto alto, l’incidenza degli immigrati raggiunge il livello record del 13,8%, contribuendo così anche al perseguimento di un Pil pro capite molto alto (44.835 dollari annui). Metà dei migranti internazionali si concentra in dieci Paesi: Stati Uniti (50,6 milioni di immigrati), Germania (15,8 milioni), Arabia Saudita (13,5 milioni), Federazione Russa (11,6 milioni), Regno Unito (9,4 milioni), Emirati Arabi Uniti (8,7 milioni), Francia (8,5 milioni), Canada (8,0 milioni), Australia (7,7 milioni) e Spagna (6,8 milioni). L’Italia si colloca all’undicesimo posto, con 6,4 milioni (IDOS, 2021, p. 21).

Secondo l’OMS, sebbene rifugiati e migranti siano colpiti dagli stessi determinanti sanitari della popolazione autoctona, “il loro status migratorio può rappresentare esso stesso un determinante sanitario che, combinato con l’altro individuo (genetica, genere, comportamento personale ed età) e sociale ed economico (istruzione, alfabetizzazione sanitaria, reddito e stato sociale, occupazione, reti di sostegno sociale ecc.), svolge un ruolo nelle diverse fasi del ciclo migratorio e le rende particolarmente vulnerabili dal punto di vista sanitario” (INMP, 2022). A essere maggiormente a rischio di violenze fisiche e sessuali sono soprattutto le donne, il cui status, se associato al fatto di avere titoli di studio bassi e occupazioni instabili, assume un valore rilevante per gli effetti sulla salute; ma anche i minori non accompagnati sono vulnerabili al rischio di subire violenze e soffrire di disturbi mentali causati dal disagio vissuto, anche in relazione all’interruzione del ciclo scolastico dovuta alla migrazione. Infine, l’insicurezza economica e l’impiego in lavori spesso pericolosi e impegnativi, oltre alla residenza in alloggi non sicuri o sovraffollati, influiscono inevitabilmente sulla salute dei migranti.

L’incidenza dei disturbi mentali in migranti e autoctoni

 Parlando di disturbi mentali, “la prevalenza della depressione e dell’ansia può essere maggiore tra rifugiati e migranti nelle diverse fasi dello sfollamento e della migrazione, in base a vari fattori individuali, sociali e ambientali. Il disturbo da stress post-traumatico è frequentemente osservato nei bambini e negli adolescenti rifugiati colpiti da conflitti” (cfr. INMP, 2022). Molti sono infatti i fattori che incidono sull’insorgere di problematiche mentali: una storia di separazione familiare per affrontare un lungo viaggio, essere vedovi o avere un’esperienza di divorzio alle spalle, il recente arrivo in un paese straniero di cui si ha difficoltà a imparare la lingua e a esprimersi, aver subito violenze e abusi sessuali oppure esperienze discriminatorie mai comunicate. In Europa, l’incidenza del disturbo da ansia è in qualche modo simile tra i rifugiati (13%) e la popolazione generale (9%); diverso il caso dei disturbi depressivi che incidono rispettivamente per il 32% contro il 4%. Uno studio sui giovani migranti in Svezia, di età compresa fra i 19 e i 25 anni, ha evidenziato come la prevalenza dei disturbi mentali diminuisca con un più elevato livello di istruzione e che il rischio di sviluppare stress post-traumatico sia associato a una maggiore permanenza nel paese ospitante (cfr. WHO, 2022, p. 125). Per quanto riguarda schizofrenia e disordini psicotici, le popolazioni migranti sono maggiormente esposte, soprattutto in base alle regioni di origine e di destinazione, oltre alla loro combinazione; un ruolo significativo nell’insorgenza di tali disturbi lo hanno fattori quali la separazione dai genitori durante l’infanzia e la discriminazione e la densità etnica nel paese di arrivo. La prevalenza di alcune condizioni mentali rispetto ad altre varia quindi rispetto a fattori sociali e ambientali, oltre che all’accesso ai servizi di cura e diagnosi. Tuttavia, il rischio di sviluppare patologie o dell’aggravarsi di malattie già conclamate risulta essere più alto per i migranti rispetto alla popolazione autoctona. Analizzando, ad esempio, i profili dei pazienti che, in Qatar, arrivano al pronto soccorso in seguito ad atti di autolesionismo e tentato suicidio, la quota più alta (35,5%) può essere ascritta agli espatriati (i qatarioti arrivano al 21,4%). Tra gli adolescenti palestinesi, invece, che vivono nei territori occupati, il 25,6% ha espresso tendenze suicidarie, uso di cannabis e tabacco, mancanza di amici intimi, disordini alimentari e insonnia indotta dalle preoccupazioni (cfr. WHO, 2022, p. 127).

Promuovere la salute di migranti e rifugiati, riorientare le politiche sanitarie, rafforzare le competenze degli operatori del settore, migliorare i sistemi informativi per la raccolta, l’analisi e la condivisione dei dati, significa garantire un diritto fondamentale, anche in linea con l’obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile a non lasciare indietro nessuno, promuovendo la salute mentale e il benessere di tutti.

 

I contraccettivi ormonali e i loro effetti sulla popolazione femminile, maschile e transgender -FluIDsex

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019), ma è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore.

 

I metodi contraccettivi

 I metodi contraccettivi, sia ormonali che non, sono presenti fin dagli egizi. Dai metodi arcaici siamo però arrivati negli ultimi anni ad avere una vasta opzione di scelta per quanto riguarda il controllo delle nascite. È noto come circa il 44% delle donne vada incontro a gravidanze inaspettate e che 2/3 di tali gravidanze sono conseguenti all’uso di metodi contraccettivi non affidabili o alla mancanza di metodi contraccettivi in generale (Abbe et al., 2020).

Ad oggi è possibile scegliere tra diversi metodi contraccettivi, alcuni dei quali in tabella:

Contraccettivi ormonali effetti in individui femminili maschili e transgender Imm 1

Ovviamente ciascuno di questi metodi ha un’efficacia variabile, quelli più efficaci rimangono gli impianti sottocutanei e i dispositivi intrauterini, mentre i contraccettivi ormonali (HC) sono certamente efficaci, ma possono comportare, in alcuni casi, effetti collaterali per quanto riguarda la regolazione emotiva (McCloskey et al., 2021).

È noto come alcune donne possano essere particolarmente sensibili ai cambiamenti d’umore conseguenti alle fluttuazioni ormonali (Rubinow e Schmidt, 2019). Tuttavia, è attualmente in discussione l’effettivo impatto che l’assunzione di contraccettivi ormonali può avere sullo sviluppo di disturbi dell’umore in soggetti che ne fanno uso; i dati che ne risultano sono controversi (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020).

I contraccettivi femminili

Tenuto conto dell’impatto che gli steroidi sessuali hanno sia sul ciclo mestruale che su emozioni e comportamenti, è importante esplorare l’impatto che una terapia di questo tipo può avere (Robakis et al., 2019). Il mondo della ricerca è diviso riguardo agli effetti negativi dei contraccettivi orali (OC): da un lato ci sono studi che riportano una non-associazione tra l’utilizzo di contraccettivi orali e sintomatologie psichiatriche (Toffol et al., 2011, 2012), altri studi invece hanno trovato come donne che usavano contraccettivi orali riportavano un minor numero di sintomi depressivi e un minor numero di tentati suicidi (Keyes et al., 2013). Infine, ci sono studi che correlano l’uso di contraccettivi orali con un maggior rischio di uso di antidepressivi e di diagnosi di depressione (Skovlund et al., 2016).

Andando invece ad approfondire l’interazione dei contraccettivi ormonali con alcuni specifici disturbi troviamo anche qui dati contrastanti.

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è un disturbo endocrino caratterizzato da iperandrogenemia, ciclo mestruale irregolare, insulino-resistenza, possibile infertilità e multiple cisti ovariche (Robakis et al., 2019), questi sono sintomi che di per sé causano stress psicologico. Associato a tale disturbo abbiamo studi in cui i casi di depressione erano minori nei soggetti con PCOS trattati con contraccettivi ormonali (Rasgon et al., 2003), mentre in un altro studio non erano riportati benefici significativi (Cinar et al., 2012).

Il disturbo disforico premestruale (PMDD) comporta una destabilizzazione dell’umore durante la fase luteale, in questa fase i livelli di estrogeni e progesteroni aumentano rapidamente per poi diminuire durante il mese, ciò che cambia non è quindi la concentrazione assoluta degli ormoni, ma la rapidità dei cambiamenti che seguono (Robakis et al., 2019). All’interno di questo quadro diagnostico i soggetti che soffrono di disturbo disforico premestruale trovano beneficio in una regolazione del flusso di ormoni che l’uso di contraccettivi orali, o combinazioni di essi, comporta (Robakis et al., 2019).

Per i soggetti post-partum è sì consigliato l’uso di contraccettivi per evitare gravidanze involontarie, ma rimane una questione aperta quando si parla invece di allattamento al seno (Robakis et al., 2019). Detto ciò, in uno studio si è notato come l’uso di contraccettivi contenenti etonogestrel è associato a un maggior rischio di uso di antidepressivi, mentre l’uso di contraccettivi contenenti noretindrone è associato a un minor rischio di uso di antidepressivi e a diagnosi di depressione, similmente all’uso di dispositivi intrauterini con rilascio di levonorgestrel (Roberts e Hansen, 2017).

Gli effetti negativi sull’umore sono di maggior impatto tra gli adolescenti, in popolazione psichiatrica o con trascorsi psicopatologici (Fruzzetti e Fidecicchi, 2020), sebbene, anche per quanto riguarda gli adolescenti, i dati sono anch’essi controversi (McKetta e Keyes, 2019). Altri effetti negativi possono comprendere ciclo mestruale irregolare, libido ridotta, aumento del peso e ipersensibilità al seno, è quindi sempre necessario adattarsi al quadro clinico del soggetto (Thirumalai & Page, 2019).

I metodi contraccettivi maschili

 Per quanto riguarda i metodi contraccettivi maschili, fino ad ora era stato possibile scegliere solamente tra i preservativi, che da un lato proteggono anche da malattie sessualmente trasmissibili, ma dall’altro posseggono una percentuale d’efficacia più aleatoria rispetto ad altri metodi contraccettivi, e la vasectomia, una procedura chirurgica che è sì reversibile, ma che risulta essere invasiva, costosa e poco accessibile (Thirumalai e Page, 2019). Un contraccettivo ormonale maschile è tuttavia teoricamente possibile e diversi studi cercano di arrivare alla distribuzione al pubblico (Thirumalai e Page, 2019). I primi studi prevedevano l’uso di dosi sovrafisiologiche di testosterone (T; Contraceptive efficacy of testosterone-induced azoospermia in normal men, 1990). Tra gli effetti collaterali di questa terapia basata su sovradosi di T è stato però notato lo sviluppo di acne ed eritrocitosi; a ciò si deve sommare la possibilità di sviluppare disturbi conseguenti a un’esposizione prolungata ad alte dosi di androgeni (Thirumalai e Page, 2019); sarà inoltre necessario comprendere i possibili effetti negativi sulla psiche. Si è quindi passati a un trattamento che prevedeva la riduzione del dosaggio di T tramite l’aggiunta di progestinici; sebbene la concentrazione sia minore, si è riusciti a mantenere un’efficacia maggiore del 95% (Nieschlag, 2010). Questi trattamenti sono tuttavia ancora fermi alle prime fasi sperimentali, è quindi plausibile ipotizzare lo sviluppo di una “pillola maschile” nel corso del prossimo decennio (Thirumalai e Page, 2019).

I metodi contraccettivi nella popolazione transgender

Per quanto riguarda l’utilizzo di metodi contraccettivi all’interno della popolazione transgender, il discorso si dirama in più direzioni. Escludendo coloro che si sottopongono a operazioni chirurgiche alla zona genitale, che comporta una perdita permanente delle capacità riproduttive, coloro che si sottopongono a un Gender-Affirming Hormonal Treatments (GAHTs) possono subire un variabile grado di reversibilità per quanto riguarda la perdita delle capacità riproduttive, non è infatti raro che uomini trans debbano affrontare una gravidanza non desiderata (Mancini et al., 2021). Tenuto conto della particolare situazione che i soggetti di questa popolazione devono affrontare, in termini di trattamenti ormonali e di cambiamenti radicali sia dal punto di vista fisico che degli equilibri interni, non è possibile escludere che contraccettivi ormonali possano avere effetti sull’umore non ancora ben esplorati. Una delle sfide che si presenta in questa situazione è legata proprio alla somministrazione del contraccettivo; è infatti necessario tenere in conto che determinate metodologie potrebbero accrescere, per il soggetto, il senso di disforia (Mancini et al., 2021).

 

La fine della coscienza? (2022) di Ciuffardi e Perissi – Recensione

La tesi sostenuta nel libro La fine della coscienza?” è che bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa dell’esperienza cosciente.

 

 Il sistema di credenze di ognuno cerca di dare significato al mondo e alle grandi questioni irrisolte che riguardano anche la coscienza.

Per affrontare questo tema gli autori di “La fine della coscienza? Dalla mente bicamerale all’intelligenza artificiale” fanno riferimento al contributo di Julian Jaynes, illustrato nel saggio “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, ripreso da autori di grande prestigio quali Zemir Zeki, Eric Kandel e Richard Dawkins.

La prospettiva con la quale Ciuffardi e Perissi affrontano il tema è fenomenologica e considera i fenomeni della coscienza come “prodotti culturali e a loro modo rappresentativi della modalità complessa e multidimensionale con la quale il cervello si fa mente e l’uomo si fa società, cultura e infine storia”.

Il modello epistemologico preso in considerazione è il costruttivismo – la distanza, però, da un costruttivismo radicale per il quale esistono solo le mappe e non il territorio è netto – che può consentire di comprendere il rapporto tra osservato e osservatore e favorire il salto di paradigma che serve per rendere conto di anomalie da studiare pensando in maniera diversa rispetto a quanto fatto sino ad ora.

Grandi intuizioni nascono, infatti, da osservazioni apparentemente banali o da curiosità attinte da discipline differenti. Studiare “cose strane e particolari” in quest’ottica può essere molto utile per far avanzare il sapere.

Il libro si apre con un capitolo dedicato alla storia della coscienza.

Il nostro cervello ha sviluppato l’emisfero sinistro a discapito dell’emisfero destro senza soppiantarlo del tutto.  La metà sinistra è deputata alla razionalità, alla spiegazione scientifica, quella destra volta alla trascendenza e alla dimensione artistica.

Prima che nascesse la coscienza intesa in senso moderno i due emisferi si parlavano alla pari, mentre oggi la focalizzazione dei processi mentali elimina tutto ciò che non è oggetto di essi, perciò non siamo più guidati da voci interiori di esseri soprannaturali e non consideriamo ogni fenomeno intenzionale e dotato di libero arbitrio.

Molti neuroscienziati considerano la coscienza moderna nient’altro che l’epifenomeno dell’attività elettrica e biochimica del cervello. Il linguaggio, pertanto, assume un ruolo dominante nel definire che cosa sia cosciente oppure no.

Ciuffardi e Perissi riportano una serie di controesempi per mettere in discussione questa tesi, e nel ripercorrere le tappe della storia del concetto di coscienza, facendo riferimento a Kandel, Fodor, Dennet, Metzinger, Damasio, concludono che “se l’intero flusso di coscienza può essere interpretato nei termini di un “presente ricordato” (Edelman, 2007), essenziale per intrecciare le varie percezioni in un’unità dotata di senso e coerenza, la mente bicamerale potrebbe essere allora intesa come l’impronta di un passato ancestrale che non muore mai, capace di far ritorno ricorsivamente nel presente sotto forma di immagini senza tempo, strane reminiscenze e percezioni extracorporee alle quali noi attribuiamo un significato paranormale, dai poteri della mente agli avvistamenti dei dischi volanti, ai fenomeni di difficile comprensione come le esperienze di premorte”.

La coscienza rimane comunque uno dei grandi misteri irrisolti poiché non sappiamo spiegare come emerga dal livello microscopico sottostante, il modo in cui si forma l’esperienza soggettiva, l’autoconsapevolezza che rende conto del libero arbitrio.

La tesi del libro è che proprio per questo bisognerebbe adottare una prospettiva epistemologica ampia, capace di recuperare la dimensione prettamente qualitativa (qualia) dell’esperienza cosciente, inevitabilmente diversa per ciascun osservatore.

E qui, nel secondo e terzo capitolo, i riferimenti sono Maturana, Varela, Heidegger contro la prospettiva eliminativista di Dennet e contro l’emergere dell’intelligenza artificiale cui erroneamente, almeno per il momento, qualcuno attribuisce la capacità di raggiungere e persino superare le facoltà più propriamente umane.

Il quarto capitolo si apre con la domanda: In quale punto si colloca il confine tra la coscienza e la realtà “esterna”?

All’epoca della mente bicamerale il rapporto era caratterizzato da un realismo ingenuo, tutto ciò che veniva percepito era considerato come la realtà effettiva. In seguito si è fatta largo una percezione orientata da credenze e pregiudizi per lo più inconsapevoli, e da quella che Bessel definisce equazione personale.

Il fenomeno della coscienza si sviluppa proprio a partire dalla percezione più o meno distorta della realtà intorno a noi, determinando una dimensione parallela che si sovrappone al mondo fisico e, come sostiene Erwin Schrödinger, citato dagli autori, “la sola possibilità è di accettare l’esperienza immediata che la coscienza sia un singolare di cui non si conosce il plurale”.

Il processo di continua costruzione e attribuzione di significato sembra valere anche per la psichiatria e per la psicoterapia, giacché possiedono una valenza diversa a seconda della teoria o modello di riferimento.

Nel quinto capitolo s’illustrano una serie di evidenze, non ancora spiegate, che mettono in evidenza come la coscienza consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite.

 Ma la tendenza a bypassare la coscienza, presente anche in alcuni approcci psicoterapeutici manualizzati con protocolli specifici che non tengono conto della singolarità con la quale si percepisce la realtà in collegamento con l’ambiente, tanto da far avanzare l’ipotesi di una mente estesa e distribuita, non limitata al cervello umano, ma ampliata fino a diventare un tutto unico con l’ambiente circostante (Sheldrake), andrebbe a produrre un disadattamento evolutivo.

I due autori citano una serie di fatti a dimostrazione della tesi: il brusco calo nell’elaborazione degli stimoli da parte del cervello a causa dell’uso eccessivo della tecnologia; l’aumento di procedure meccanizzate e soluzioni standardizzate; l’effetto Flynn nei paesi più sviluppati; il dilagare dei disturbi dell’apprendimento; la pervasività del fenomeno della droga e di altre forme di dipendenza; l’abuso degli psicofarmaci, la demenza digitale, ecc..

D’altra parte Ciuffardi e Perissi continuano nei capitoli successivi del libro a mostrare, con una serie di esempi riguardanti lesioni del cervello che dovrebbero comportare la perdita di funzioni, ma che inopinatamente e inspiegabilmente non si verificano, quanto lo schema della profezia che si autoavvera, cioè le assunzioni che facciamo sulla nostra esperienza che in qualche misura la strutturano e la orientano verso conseguenze che lungi dall’essere inevitabili fanno leva sulla nostra spesso inconsapevole complicità, siano determinanti nella produzione di senso sia in termini negativi, sia positivi.

L’essere dotati di una coscienza, o almeno il credere di esserlo, consente alle persone comuni di attribuire un significato alle proprie azioni e comportamenti, sviluppando una visione soggettiva della realtà e la capacità di agire su di essa, che può comprendere anche l’aver vissuto esperienze strane, atipiche o insolite. Ma se la coscienza costituisce un tratto adattivo transitorio, il cui sviluppo è avvenuto in risposta a un ambiente mutevole, rischia di fare la fine di altri adattamenti che in natura si sono estinti perché diventati perfettamente inutili, superflui o ridondanti.

Già i resti dell’antica mente bicamerale, secondo Jaynes, è possibile intravederli tutt’intorno a noi, come se stessimo visitando un sito archeologico.

Maghi, astrologi, cultori dei fenomeni paranormali persino psichiatri e psicologi forniscono visioni del mondo strutturate per trovare esattamente ciò che cercano, operando in modo antitetico al principio di falsificazione di Popper.

Nel corso dei millenni, siamo passati dall’impossibilità che la mente bicamerale aveva nel discernere fra fatti veri e leggende, alla concezione opposta, in base alla quale verità e finzione narrativa sono due poli inconciliabili.

I misteri spesso si collocano negli occhi di chi guarda piuttosto che all’interno di quanto osservato, negando l’evidenza dei dati a disposizione, ma anche all’opposto producendo una mole infinita di dati, nella convinzione che essa esaurisca ogni discorso.

È, quindi, necessario formulare teorie e modelli in grado di essere falsificati andando alla ricerca, in maniera contro-intuitiva, non delle prove a favore, bensì di quelle sfavorevoli e contrarie.

Gli autori ritengono che attraverso un’indagine seria delle anomalie e delle cose strane che a volte si verificano nella realtà, sia possibile imparare moltissimo sulle modalità di funzionamento della mente in condizioni normali.

Questa visione ha una caduta anche sulla psicoterapia, che per gli autori consiste in un’attività artistica con basi scientifiche che, tenendo conto delle tecniche e del setting clinico, cambia ogni volta che il saper fare e il saper essere del terapeuta entrano in risonanza con ogni singolo paziente.

Il modello clinico, sviluppato a partire dalla mente bicamerale, mira proprio a incrementare il livello di coscienza delle persone, portandole a riflettere sugli eventi accaduti, anche su quelli presunti, e sul senso di sé, in modo da attivare le capacità di ragionamento critico e altre risorse interiori, affinché sia possibile trarre un significato personale da una storia anche strana.

In questo senso ci sembra che Ciuffardi e Perissi evidenzino la necessità di coniugare il rigore del metodo scientifico, gli aspetti di una coscienza bicamerale ancora presente con funzioni evolutive e adattive e volta a tener conto degli aspetti di singolarità, e una riflessività e autoconsapevolezza che non può rischiare di eclissarsi, a favore di una coscienza moderna che fa coincidere il funzionamento biochimico ed elettrico del cervello con la mente.

 

Che impatto ha la depressione genitoriale sulla regolazione emotiva dei figli?

Lo studio condotto da Davis e colleghi (2022), ha esaminato la relazione tra la depressione genitoriale, la socializzazione emotiva e lo sviluppo della regolazione emotiva dei bambini nella prima e nella seconda infanzia.

 

Genitorialità e regolazione emotiva infantile

 La socializzazione emotiva si riferisce alla modalità dei genitori di discutere e reagire alle emozioni nel contesto relazionale genitore-bambino (Eisenberg et al., 1998).

I genitori influenzano il modo in cui i bambini esperiscono le loro emozioni, fornendo strategie di regolazione emotiva che i bambini apprendono e successivamente usano (Katz & Gottman, 1997; Morris et al., 2007). Inoltre, essi svolgono un ruolo di risoluzione di esperienze di turbamento per il bambino. Questa capacità è legata a una competenza di regolazione emotiva generale (Criss et al., 2016; Denham et al., 1997; Shortt et al., 2010) e all’acquisizione di strategie di regolazione emotiva più specifiche come le strategie di problem solving (Eisenberg et al., 1996; Meyer et al., 2014).

Reazioni poco supportive, quali la punizione o la minimizzazione, sono associate invece a competenze minori di regolazione emotiva (Barnett et al., 2010; Hughes & Ensor, 2006) e al conseguente uso di strategie disadattive da parte dei bambini (quali l’evitamento, usato per alleviare le emozioni negative; Eisenberg et al., 1996).

La depressione genitoriale

I genitori con diagnosi di depressione hanno una minor capacità di supporto alle emozioni del bambino (Leinonen et al., 2003; Rutter, 1990), poiché la persistente negatività, l’irritabilità e l’apatia li portano a rispondere in modo inefficiente alle richieste di sostegno emozionale dei figli (Conger et al., 1993).

Alcuni studiosi (Lovejoy et al., 2000) hanno preso in considerazione gli effetti della depressione genitoriale sulla regolazione emotiva dei bambini. È stato riscontrato che le madri affette da depressione hanno più probabilità di influenzare i bambini all’apprendimento di risposte inappropriate alle esperienze negative (Denham et al., 1994) e di controllare i bambini con la coercizione (Conger et al., 1995), utilizzando più frequentemente risposte punitive con i loro figli (questo dovuto alla propensione dei genitori affetti da depressione di valutare positivamente un’educazione rigida e severa; Field et al., 1985). Inoltre, i genitori affetti da depressione tendono a utilizzare risposte che richiedono un basso impegno emotivo (come il rifiuto), minimizzando le emozioni dei bambini (Downey & Coyne, 1990).

Il collegamento tra depressione genitoriale, socializzazione emozionale e risposte emotive dei bambini deve prendere in considerazione anche il contesto di sviluppo, poiché le interferenze sullo sviluppo della regolazione emozionale nei bambini possono differire in base all’età. Purtroppo pochi studi hanno isolato la relazione tra le diverse età.

Alla luce di queste lacune lo studio condotto da Davis e colleghi (2022), ha esaminato la relazione tra la depressione genitoriale, la socializzazione emotiva e lo sviluppo della regolazione emotiva dei bambini nella prima e nella seconda infanzia, valutando l’influenza dei sintomi depressivi dei genitori su queste dinamiche e confrontando i dati nelle due diverse fasce di età.

Depressione genitoriale e regolazione emotiva del bambino

I primi risultati riguardano le differenze nella regolazione emotiva considerando le differenze di età. I bambini più grandi hanno riportato l’utilizzo maggiore di evitamento cognitivo e di soppressione espressiva; i bambini più piccoli invece tendono a utilizzare maggiormente la ricerca di supporto sociale.

 Riguardo all’associazione tra la socializzazione emotiva genitoriale e le competenze di regolazione emotiva, i risultati hanno mostrato che una socializzazione supportiva genitoriale sembra legata ad abilità maggiori di regolazione emotiva dei bambini. La socializzazione genitoriale non supportiva, di cui fanno parte le reazioni punitive e minimizzanti, è stata identificata come ostacolante per lo sviluppo di capacità di regolazione nei bambini. Per i bambini più piccoli, le reazioni di rifiuto e le reazioni punitive hanno predetto una ricerca di supporto sociale, mentre per i bambini più grandi hanno predetto un minore uso di cambiamenti in base all’obiettivo e di ricerca di supporto sociale.

Successivamente sono state considerate le conseguenze riferite alla depressione genitoriale riscontrando un collegamento tra depressione e socializzazione emotiva e tra depressione e specifici aspetti di competenze di regolazione emotiva dei bambini: la severità dei sintomi depressivi genitoriali ha predetto reazioni di minimizzazione con i bambini più piccoli; questi risultati sono coerenti con le osservazioni rispetto alle quali i genitori depressi utilizzano reazioni che richiedono minor energia e minor impegno, come le reazioni di minimizzazione e di rifiuto (Downey & Coyne, 1990).

Le conseguenze della depressione genitoriale si estendono alle competenze di regolazione emotiva dei bambini. I bambini con genitori depressi possono percepire le emozioni più intensamente ed esprimerle in modo più disregolato rispetto agli altri bambini della stessa età.

L’ultimo aspetto sottolineato riguarda le conseguenze dei deficit di regolazione emotiva riscontrati nei bambini, che possono comportare difficoltà nel funzionamento emotivo: queste difficoltà si ritiene siano alla base dello sviluppo di psicopatologie, tra cui la depressione e i disturbi del comportamento dirompente (Carter et al., 2001; Cole et al., 1994; Gross, s.d.; Wright et al., 2000).

 

Le terapie psicologiche efficaci: report dal convegno del 26 ottobre a Venezia

Il 26 ottobre si è svolto a Venezia sull’isola di San Servolo il convegno “Le terapie psicologiche per l’ansia e la depressione: nuove forme di integrazione clinica e organizzativa“, evento presieduto dal prof. Paolo Michielin e dalla dott.ssa Novara e organizzato dalla Consensus Conference sulle terapie psicologiche per l’ansia e la depressione, un gruppo di lavoro fondato dal professor Enzo Sanavio che sta diffondendo la conoscenza e la promozione delle buone pratiche di psicoterapia fondate su prove di fatto tra gli operatori della salute mentale e gli utenti: psicologi, psichiatri, medicina territoriale, associazioni di familiari e così via.

Il principale intervento del convegno è stato quello del Prof. David Clark della Oxford University e Consulente del Programma IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) un programma sanitario che ha svolto un’analoga funzione della Consensus nel servizio sanitario britannico. Nella sua presentazione Clark ha descritto il percorso storico dello IATP, programma che ha ricevuto ricchissimi finanziamenti statali ed è stato progettato in maniera specifica per il servizio sanitario inglese. Dopo averlo descritto, Clark ha raccomandato di considerare lo IATP un’ispirazione e non un modello da imitare pedestramente. Sicuramente lo IATP ha raggiunto un livello di realizzazione unico, avendo avuto il pieno sostegno statale, mentre la Consensus svolge più una funzione di promozione, incoraggiamento e diffusione di una cultura che dia fiducia alla psicoterapia di provata efficacia.
Prima di Clark ha parlato il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Prof. Silvio Brusaferro, che a sua volta ha descritto con ricchezza di informazione il percorso storico e gli obiettivi della Consensus. Nata da un convegno organizzato dal prof. Ezio Sanavio e dedicato al tema dell’efficacia provata in psicoterapia, la Consensus ha visto i partecipanti a quel congresso consolidarsi in un gruppo di lavoro. Dopo lo sguardo al Regno Unito e all’Italia infine l’intervento del Dott. Roberto Mezzina del Program Development World Federation for Mental Health ha offerto una visione dei programmi e dei report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla salute mentale nel mondo.

Gli interventi successivi hanno presentato varie ragioni e dati a favore dell’adozione e della diffusione di queste buone pratiche nel servizio sanitario italiano. Il Prof. Giovanni de Girolamo del Fatebenefratelli di Brescia ha parlato del grado di conferma delle psicoterapie di efficacia sostenuta da prove di fatto (evidence-based). La sua è stata la sola voce in parte dissonante, esprimendo alcuni argomenti critici contro le prove di fatto provenienti dalla letteratura del paradigma relazionale-contestuale così come lo ha battezzato il prof. Bruce Wampold, paradigma che sembra opporsi a quello medico-empirico che da Beck e Clark in poi invece sostiene la bontà delle prove di fatto. Per la verità Di Girolamo ha finito per criticare anche il cavallo di battaglia del paradigma relazionale-contestuale, ovvero la centralità dell’alleanza terapeutica. Il suo intervento è quindi risultato critico a 360 gradi, atteggiamento che da una parte stimola sicuramente il pensiero appunto critico e l’intelligenza ma che forse non era del tutto adatto a un convegno che doveva promuovere la crescita nella fiducia nelle prove di fatto empiriche a favore delle psicoterapie di provata efficacia.

Più centrata sugli obiettivi del convegno la relazione del Dott. Giuseppe Nicolò del Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale che ha descritto lo stato attuale di adozione delle buone pratiche nel servizio sanitario italiano. Analoghi interventi ma dedicati alle popolazioni dell’infanzia e dell’adolescenza hanno svolto la Prof.ssa Renata Tambelli del Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute dell’Università “Sapienza” di Roma, la Dott.ssa Maria Antonella Costantino dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e la Prof.ssa Alessandra Simonelli dell’Università degli studi di Padova.

Il convegno si è chiuso con una tavola rotonda con alcuni interventi sia di operatori sanitari che di associazioni di utenti e pazienti. Durante la tavola rotonda il Dott. Moreno De Rossi del Collegio dei medici psichiatri e dei clinici universitari di psichiatria del Veneto ha raccontato quali sono i punti di forza del modello medico-psichiatrico e psicologico-clinico del servizio sanitario italiano, ovvero la multidisciplinarietà, ovvero la presenza di specializzazioni diverse intorno al paziente, la capillarità, ovvero la diffusione sul territorio di queste specializzazioni e la transmuralità, ovvero la facile comunicazione tra queste diverse specializzazioni.

Accanto agli operatori hanno poi parlato anche i rappresentanti di associazioni di pazienti e familiari che hanno espresso le loro richieste di un servizio più diffuso e più puntuale, come l’Associazione italiana per la tutela della salute mentale, l’Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale, la Lega italiana contro i disturbi d’ansia, d’agorafobia e da attacchi di panico e l’Associazione di volontari per la salute mentale. Ha chiuso infine il convegno il Prof. Sanavio, esponente centrale della Consensus, che ha confermato la missione e lo scopo centrale della Consensus, ovvero diffondere e promuovere tra gli operatori e gli utenti la cultura della psicoterapia di provata efficacia. Oltre a questo convegno, la Consensus ha pubblicato un lavoro online che raccoglie lo stato dell’arte della sua missione e che potete trovare qui: https://www.iss.it/documents/20126/0/Consensus_1_2022_IT.pdf

 

Il cervello rettiliano esiste? Limiti del modello del cervello trino 

LEGGI ANCHE LA PRIMA PARTE DI QUESTO EDITORIALE

Nell’articolo esaminiamo gli aspetti a nostro avviso critici dell’applicazione del modello neuroscientifico del cervello trino alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, osservando in particolare i limiti del modello di MacLean.

 

Mentre nella prima parte di questo articolo abbiamo esplorato l’applicazione del modello neuroscientifico del cervello trino alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, in questa seconda parte esaminiamo quelli che sono a nostro avviso gli aspetti critici di questa operazione. Prima di tutto osserviamo che già il modello in sé ha i suoi limiti. Già secondo Terrence Deacon (1990), ricerche successive a MacLean hanno rivelato che la premessa di base di MacLean che i sistemi cerebrali sono stati aggiunti per accrescimento nel corso dell’evoluzione è discutibile. Gli organi non si evolvono per aggiunte successive. Per Deacon Il modello di MacLean ha promosso storicamente la comprensione del cervello in termini evolutivi, ma scientificamente era fuorviante.

Per la neurologa Lisa Feldman Barrett (2019), l’idea che i nostri cervelli siano delle matrioske l’una dentro l’altra è un concetto avvincente ma ingannevole. Il cervello della maggior parte dei vertebrati è costituito dagli stessi tipi di neuroni. È il numero di neuroni e la loro disposizione che differiscono da specie a specie. I progressi nelle tecniche di sequenziamento genico hanno permesso di scoprire che la maggior parte dei cervelli dei vertebrati sono fatti degli stessi identici ingredienti; che non ci sono parti recenti e primitive del cervello.

La miglior sintesi di queste perplessità la si trova in una rassegna di Steffen, Hedges e Matheson, che dopo aver esaminato la letteratura scientifica concludono che sarebbe meglio sostenere che il cervello è adattivo e non trino. Non vi è una netta suddivisione tra funzioni e stati ad alta e bassa controllabilità consapevole ma una capacità, di certo plastica ed epigeneticamente modellata, ovvero variabile a seconda delle circostanze e delle storie personali degli individui, di regolare gli stati emotivi a diversi gradi di efficienza. Questa regolazione effettivamente tende ad avvenire a un livello indiretto e metacognitivo ovvero processuale, non per azione immediata, ma avviene in termini diffusi e non secondo barriere più o meno invalicabili. Insomma, emozione e cognizione sono interdipendenti e lavorano insieme.

Le obiezioni alla teoria del cervello trino

 Steffen, Hedges e Matheson (2022) discutono tre diverse classi di obiezioni per la teoria del cervello trino. In primo luogo, il cervello non si è evoluto in fasi successive come ipotizzato da MacLean (1990). L’idea che l’evoluzione dei vertebrati sia consistita in strutture cerebrali più nuove sovrapposte sopra e sopra strutture cerebrali antiche non è evolutivamente giustificabile (Cesario, Johnson e Eisthen, 2020). In realtà, le regioni neurali di base sono condivise tra tutti i vertebrati. Inoltre non vi è necessariamente una progressione lineare dal rettile all’uomo (Striedter, 2005).

In secondo luogo, le strutture cerebrali non funzionano indipendentemente l’una dall’altra (Heimer e Van Hoesen, 2006). Durante le risposte emotive, c’è attività nell’amigdala e nel sistema limbico, ma c’è anche attività nelle aree corticali e nel tronco cerebrale (LeDoux, 2012). Il sistema limbico non è un centro puramente emotivo nel cervello. L’ippocampo è considerato parte del sistema limbico ma che non è una regione cerebrale essenzialmente emotiva ma è più strettamente associato alla memoria (Ledoux, 2012). Insomma, l’emozione e la cognizione non sono eventi indipendenti corrispondenti ad architetture cerebrali separate. Piuttosto, sono funzioni interconnesse che lavorano di concerto. Per questo il termine “sistema limbico” non è più un termine comunemente usato per descrivere come funziona il cervello (Bush et al., 2002; Shackman et al. 2011). Il “sistema limbico” perde la sua utilità anche in ambito clinico; poiché l’affetto è il culmine di un’ampia gamma di processi correlati che non possono essere ridotti a stati di impulsività incontrollabile come rischia di suggerire l’ipotesi del cervello trino (Barrett, 2017).

In terzo luogo, gli attuali risultati della ricerca neuroscientifica forniscono ulteriori obiezioni alla teoria del cervello trino. La ricerca sulla paura fornisce un esempio. Non esiste un circuito cerebrale della paura che si accenda durante una risposta alla paura, ma per il resto giace dormiente. Le reti cerebrali hanno sempre un certo livello di attività che influisce sul modo in cui elaborano le informazioni (Barrett, 2017). Ciò che cambia è l’attività relativa delle diverse reti cerebrali, con le reti attivate in modo differenziato in base al bisogno (Anticevic et al., 2011; Corbetta et al., 2008; Fox et al., 2005; Raichle et al., 2001).

Una teoria evolutiva più esplicativa su come funziona il cervello ha bisogno di integrare una conoscenza accurata della struttura e della funzione del cervello. L’adattamento, la sopravvivenza e la riproduzione sono al centro della teoria evolutiva e le reti cerebrali interdipendenti si sono evolute per aumentare l’adattamento per poter sopravvivere e riprodursi. Inoltre, i risultati emergenti suggeriscono che il cervello utilizza le informazioni enterocettive ed esterocettive per prevedere le condizioni future e ha bisogno di consentire un adattamento ottimale agli ambienti interni ed esterni in continuo cambiamento (Quigley et al., 2021; Brossschot et al., 2018; Thayer e Lane, 2009; Van den Bergh et al., 2021). Sulla base di una migliore comprensione di come funziona il cervello, Steffen, Hedges e Matheson propongono di sostituire “cervello trino” con un termine che cattura meglio l’attuale comprensione della funzione cerebrale: il cervello adattivo. In questo modello, il termine cervello adattivo sottolinea l’interdipendenza e la plasticità delle regioni cerebrali e la capacità del cervello di prevedere e adattarsi ai bisogni e alle condizioni future. Invece di tre regioni cerebrali relativamente indipendenti le reti cerebrali lavorano insieme in modo interdipendente; invece di circuiti emotivi o circuiti cognitivi puri, il cervello utilizza reti interconnesse per ottimizzare il mantenimento dello stato interno del corpo, delle emozioni e della cognizione per adattarsi a bisogni in continua evoluzione (Barrett, 2017).

È interessante notare le analogie tra questo modello di cervello adattivo e non trino e i modelli processuali. Come nei modelli processuali, non siamo in presenza di strutture separate ma di funzioni intrecciate e interdipendenti come avviene nel funzionalismo processuale cognitivo. Sarebbe ancora più intrigante esplorare se anche in questo cervello adattivo neuroscientifico la disfunzione non dipende da barriere architettoniche che bloccano definitivamente le comunicazioni dissociando le strutture cerebrali ma da disfunzioni che limitano in un uso rigido ma non lesionato le funzioni mentali.

 

Prisma, Prima Stagione (2022) – Recensione della Serie TV

Prisma ha i numeri per sfondare e rappresenta una novità affascinante per il pubblico a cui si rivolge, affamato come non mai di stimoli e opportunità, anche identificative.

 

 Latina, ai giorni nostri. Una location insolita e già per questo invitante, che fa da sfondo alla storia di Andrea e Marco, gemelli diversi, in questa nuovissima serie drammatica disponibile su Prime Video dal 21 Settembre, dove i due adolescenti sono interpretati (fatto divertente), dal medesimo attore, il promettente Mattia Carrano.

L’aver fatto coincidere le riprese con il lockdown ha messo a disposizione del regista Luigi Bessegato, scorci cittadini ripuliti dal caos (a tutto favore dell’atmosfera), che insieme alle dune di sabbia e ai luoghi del mito di Circe, creano lo scenario in cui i personaggi vivono la gravità dei loro diciassette anni.

Marco, introverso e schiacciato dagli obiettivi, dorme in stanza con Andrea, sfacciato e provocatorio. Dopo un gesto di autolesionismo del primo, Andrea inizia a tenerlo d’occhio con piglio da “fratello maggiore”. Ma Andrea ha una preoccupazione più grande: la sua identità. O una sua parte ad essere precisi, che lo porta a fantasticare in un futuro altrove.

Ci sono poi gli amici, il liceo, le feste, lo sport, la trap e quando l’occhio clinico vuole la sua parte, l’incessante lavorio narcisistico di accomodamento, tra manifestazioni di grandiosità, nelle sue mille sfaccettature e manovre di svalutazione.

Una chiara nota di merito va all’attualità della narrazione: temi LGBTQ a fare da substrato, la sessualità (forse vista con eccessiva tenerezza se rapportata al reale, con amplessi fiabeschi e una certa indulgenza ad accedere all’erotismo), i legami amorosi, tutto sviluppato attraverso dinamiche di fiducia e lealtà, di cameratismo, del segreto, del mostrare per nascondersi.

Poi, il bisogno di affermazione attraverso la visibilità, che è compensatorio di quella inferiorità percepita, anche d’organo (per ricordare Adler), come appare nel personaggio di Carola, con buona intuizione scenica, ma in modo un po’ idealizzato e monocorde di un concetto ormai super sdoganato di resilienza.

Prisma è una ventata di novità e carisma che fa dell’identità e della sua ridefinizione il cardine per esprimere come le vecchie concezioni di bianco e nero, maschio e femmina, normale e anormale, siano più che mai grossolane interpretazioni del mondo intimo delle nuove generazioni, del tutto insufficienti a comprenderne la realtà.

Otto puntate in cui l’onnipresente texting rivela sullo schermo le chat private che i personaggi si scambiano, mostrando la relazionalità tipica delle giovani generazioni e attraendo anche lo spettatore-genitore curioso.

Tra le trame narrative non resta spazio per il sempre poco attenzionato (e poco attraente) tema dell’esclusione sociale – piuttosto ironicamente – appena abbozzato dalla presenza di Fabio “Coccolino”, stereotipo del ragazzo bullizzato perché manchevole di ogni abilità sociale, protagonista solo di un tenero omaggio a fine stagione.

Occupano invece un piccolo spazio i genitori, che non rubando mai la scena ai figli, finiscono per essere soltanto un supporto necessario alla trama, e che siano attenti (la madre di Carola), assenti (la madre di Nina), o censori (i genitori dei gemelli), non vengono mai visti da dentro, anzi sono così al margine, tranne che in un’occasione sul finire della stagione, da non avere nomi propri.

Un assetto volutamente ricercato, un peccato veniale per una serie indirizzata ai giovani, ma anche un’opportunità sfumata, sia per spiegare molto meglio al giovane spettatore la ricaduta dinamica dei legami di attaccamento, sia per invogliare un pubblico adulto che non sia solo il genitore attratto dallo “spiare dal buco della serratura” la vita che i figli non raccontano.

Gli indizi utili a collegare la personalità e lo stile dei genitori al carattere dei figli, sono talmente sporadici che si ha l’impressione che siano capitati accidentalmente nella sceneggiatura.

 Al contrario, il lavoro per rendere credibile l’attore principale in due ruoli differenti, mediante una serie di accorgimenti tecnici, è talmente riuscito che neanche con uno sforzo razionale sembra possibile credere che si tratti della stessa persona. Merito di tutto il comparto tecnico e naturalmente di una regia e di una recitazione che risultano drammatiche e mai pesanti, spinte alla loro massima intensità dalle note di una colonna sonora che rivela da subito la miscela azzeccata di immagini e sonorità rock ed elettroniche, ma che spaziano da successi anni novanta a Franco Califano e Luigi Tenco.

Questo titolo, con l’indicazione +16 anni, avverte con l’alert “uso di alcol, contenuto sessuale, scene con fumatori, violenza, linguaggio volgare, nudità, uso di stupefacenti”, ed è tale da allarmare il genitore medio, ma si tratta di una produzione casta e pervasa di romanticismo.

La trasgressione inscenata mediante l’uso di un linguaggio volgare e l’abuso di droghe e alcool, è tenera e vulnerabile, incapsulata nella narrazione e senza rischi di una emulazione pericolosa, contrariamente ad altre ben note produzioni italiane che hanno reso appetibile il comportamento criminale.

Siamo ad anni luce dalla violenza insensata dei truci giochi di Squid Game per intenderci. I ragazzi di Prisma non sono né deviati, né violenti. Appaiono soltanto nelle loro fragilità.

La presenza di un adulto serve semmai a difendere il concetto che non bisogna necessariamente essere belli e svegli come i personaggi dei film per andare bene. Oppure, ancora meglio, come opportunità per riconoscere nella precocità, anche sessuale e sensuale dei giovani (e giovanissimi) di oggi, l’opportunità per dialogare e quindi proteggere, per dimostrare che l’unica cosa davvero pericolosa è ciò che non si conosce, che non si può dire o che non si capisce.

Prisma ha i numeri per sfondare e rappresenta una novità affascinante per il pubblico a cui si rivolge, affamato come non mai di stimoli e opportunità, anche identificative.

Il target dei giovani è facile da sedurre, si sa, ma il regista non esagera con gli espedienti e a parte la necessità cinematografica di ammantare di charme i personaggi, fa del realismo e della bravura degli attori i suoi punti di forza.

Per concludere, la lente proposta da Prisma illustra finalmente ad un pubblico ampio qualcosa che da sempre è esistito, ma che il nostro tessuto sociale e morale ha sempre mutilato, chiudendo quegli spazi che oggi appaiono più disponibili per esprimersi liberamente. Oltre l’intrattenimento, ma senza arrivare all’entusiasmo propagandistico di chi parla di Generazione Prisma, questa serie può raggiungere l’invidiabile traguardo dell’utilità, soprattutto per quegli adolescenti che mostrano problemi di evitamento e di socialità, a patto di spegnere la tv e trovare il coraggio di vivere le proprie esperienze.

L’uso problematico di Internet e il suo impatto sulla soddisfazione relazionale

Con la comparsa e la diffusione di Internet, fino ad arrivare ad un uso problematico di internet, alcune difficoltà relazionali si sono intensificate, con conseguenze a livello di coppia e familiare.

 

 Come già osservato, l’uso problematico di Internet è un fenomeno in rapido aumento, che può comportare numerose complicazioni nella vita quotidiana di un individuo, oltre che a impattare sugli ambiti lavorativi, sociali, familiari e relazionali (Candemir Karaburç & Tunc, 2020).

Proprio in tema relazioni di tipo romantico (relazioni sentimentali), l’utilizzo di Internet ha avuto un grande impatto (Chattopadhyay et al., 2020). Al giorno d’oggi è possibile incontrare il proprio partner online, velocizzando molto il processo di ricerca grazie a diversi programmi che permettono di incontrare le presunte anime gemelle semplicemente selezionando quali caratteristiche ricercare. Tuttavia, l’uso eccessivo di Internet può causare molte difficoltà nelle coppie, soprattutto in quelle sposate o conviventi.

L’impatto di Internet sulla coppia

Uno dei motivi principali per i quali le persone intrattengono relazioni sentimentali stabili è trovare un supporto che sia reciproco, in termini biologici, sociali e psicologici (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Considerando i fattori di benessere della coppia, sia in termini sociali che in termini economici, si può ipotizzare che i partner dovrebbero soddisfare a vicenda i propri bisogni, al fine di assicurare una stabilità relazionale. Infatti, la soddisfazione dei bisogni gioca un ruolo fondamentale nella stabilità della coppia. Fattori come la fiducia, l’autonomia, la fedeltà, l’autorealizzazione, l’amare e sentirsi amati sono tutti elementi chiave per una vita di coppia felice e pacifica.

Tuttavia, con la comparsa e la diffusione di Internet, alcune difficoltà relazionali si sono intensificate (Chattopadhyay et al., 2020). Ad esempio, il fenomeno del tradimento, che da sempre mina la stabilità relazionale, è diventato molto più diffuso, proprio grazie al fatto che al giorno d’oggi è possibile che si verifichi un fenomeno chiamato cyber infedeltà, ovvero l’avere una relazione extraconiugale che si svolge solamente online. Molti siti, infatti, forniscono l’opportunità di trovare online dei nuovi partner, e ciò favorisce la possibilità di avere una relazione extraconiugale sul web. Inoltre, molti individui cercano il proprio ex partner sul web, semplicemente per interesse o per tentare un’altra relazione.

Un altro ambito che può venire colpito dall’utilizzo problematico di Internet riguarda la sfera sessuale della coppia (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Infatti, individui che mostrano un uso problematico della rete tendono spesso a soddisfare i propri bisogni sessuali attraverso siti web espliciti. Il risultato è il fatto che l’individuo si senta meno energico e abbia meno desiderio sessuale verso il proprio partner, comportando così un calo nella soddisfazione relazionale.

L’impatto di Internet a livello familiare

 È inoltre possibile che gli individui con un uso problematico di Internet tendano a considerare poco i propri familiari, a causa del troppo tempo passato sulla rete (Candemir Karaburç & Tunc, 2020). Come conseguenze di ciò, è possibile che il proprio partner e i figli vengano trascurati, o che l’individuo eviti le responsabilità domestiche o addirittura non soddisfi i bisogni dei familiari, diminuendo così la soddisfazione relazionale, fino ad arrivare alla rottura della coppia. L’insoddisfazione e il malessere causati dal trascurare l’ambiente familiare, con conseguente aumento di carico di lavoro per il partner, insieme all’indebolimento dei legami familiari, possono risultare nel burnout della coppia, inteso come stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale nella coppia, causato dall’incompatibilità tra le aspettative e la realtà.

Sembra quindi che con l’aumentare del tempo trascorso sul web, e il diminuire del tempo passato in famiglia o col partner, è possibile che nella coppia compaiano insoddisfazione, disagio e sensazione di essere rifiutati (Chattopadhyay et al., 2020). Una possibile strategia per gestire l’impatto dell’uso problematico di Internet sulla soddisfazione relazionale potrebbe essere la sensibilizzazione sull’argomento, al fine di informare il partner che si tratta di una vera difficoltà. Inoltre, sarebbero utili anche strategie di prevenzione.

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