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I segni dell’Abuso Sessuale in Età Infantile sull’Eccitazione Sessuale nelle Donne Abusate – FluIDsex

Alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale.

 

 L‘abuso sessuale infantile (Childhood Sexual Abuse; CSA) è un problema sociale che si stima colpisca tra il 22,3% e il 28% della popolazione femminile ed è generalmente definito come contatto sessuale indesiderato tra un bambino e un adulto, che può includere penetrazione orale, vaginale e/o anale con un pene, dita o oggetti estranei, contatto sessuale forzato e rapporti sessuali senza contatto (Pulverman et al., 2018).

Abuso sessuale infantile e disfunzioni sessuali

L’esperienza di abuso sessuale infantile è spesso associata a una serie di problemi nell’età adulta, tra cui la disfunzione sessuale e l’insoddisfazione sessuale (Rellini e Meston, 2011) soprattutto nelle donne (Laumann et al., 1999). L’abuso sessuale infantile è, infatti, uno dei fattori di rischio più salienti per lo sviluppo di problemi con il desiderio sessuale, problemi di eccitazione sessuale, raggiungimento dell’orgasmo, vaginismo, dispareunia e bassa soddisfazione sessuale (Leonard e Follette, 2002). In particolare, rispetto a qualsiasi altro tipo di disfunzione sessuale, sembra esserci un rischio maggiore di disturbo dell’eccitazione sessuale (Laumann et al., 1999). Questo disturbo viene definito dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) come la mancanza o riduzione significativa dell’interesse/eccitazione sessuale per una durata minima di circa sei mesi e che causa disagio clinicamente significativo nell’individuo (American Psychiatric Association, 2014). Generalmente, donne che presentano problemi di eccitazione sessuale, riferiscono la mancanza di eccitazione a qualsiasi stimolo come, ad esempio, leggere qualcosa di erotico, dare piacere al partner, ricevere stimolazione orale, mammaria, genitale o impegnarsi in un rapporto sessuale (Basson et al., 2004).

Come anticipato sopra, alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale con un partner rispetto a donne non maltrattate (Rellini e Meston, 2011). In letteratura, diverse correnti di pensiero hanno tentato di fornire una spiegazione a questa associazione.

Da un punto di vista fisiologico, è stato dimostrato che, le donne con storia di abuso sessuale infantile, hanno livelli più bassi di cortisolo, i quali sono stati associati ad un’iperattivazione del Sistema Nervoso Simpatico (SNS) che aumenta naturalmente durante l’eccitazione sessuale (Rellini e Meston, 2006). Per le donne con storie di abuso sessuale infantile, quindi, l’eccitazione del Sistema Nervoso Simpatico potrebbe già essere così elevata che un ulteriore aumento, che si verifica naturalmente con l’eccitazione sessuale, potrebbe spingere la loro attivazione del SNS oltre l’intervallo ottimale, portando a una funzione sessuale compromessa. Questa compromissione causa una risposta inferiore nelle donne con esperienza di abuso sessuale infantile, ai trattamenti che migliorano direttamente l’eccitazione sessuale genitale rispetto alle donne non abusate (Pulverman et al., 2018).

Le cognizioni sulla sessualità in seguito all’abuso sessuale infantile

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale, invece, l’evidenza empirica e teorica supporta l’esistenza di una relazione clinicamente significativa tra schemi del sé sessuale e disfunzione e insoddisfazione sessuale (Heiman, 2002). Gli schemi sono definiti come filtri attraverso i quali le persone percepiscono, organizzano e comprendono le informazioni rilevanti per il sé. In particolare, è possibile che gli schemi sessuali svolgano un ruolo fondamentale nella funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato abuso sessuale infantile, (Rellini e Meston, 2011). Barlow (1986) spiega questa relazione attraverso un modello che pone l’ansia anticipatoria come aspetto centrale dei problemi di eccitazione sessuale. Questo stato di ansia è il prodotto di aspettative negative che facilita il calo dell’attenzione verso segnali non sessualmente rilevanti. Lo spostamento dell’attenzione lontano da segnali sessualmente rilevanti riduce la stimolazione sessuale necessaria per attivare l’eccitazione sessuale. Quando ciò si verifica, gli schemi del sé sessuale dell’individuo possono essere modificati in modo da mantenere la disfunzione sessuale, poiché il problema verrebbe percepito come un aspetto essenziale del sé. Questo circolo vizioso è facilmente osservabile nelle donne con una storia di abuso sessuale infantile: i traumi sessuali precoci possono influenzare la loro percezione del sesso e di conseguenza possono essere a rischio di sperimentare aspettative negative prima delle attività sessuali, distraendole dall’elaborazione di segnali sessualmente rilevanti necessari per l’eccitazione sessuale. Questo supporta l’ipotesi secondo cui gli schemi del sé sessuale prima degli stimoli sessuali spiegano in parte la minore funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato CSA rispetto alle donne senza storia di abuso (Rellini e Meston, 2011).

 Un’altra ipotesi, avanzata da una prospettiva cognitivo-comportamentale, è che le donne che hanno esperito un abuso sessuale infantile provano un senso di colpa per aver provato desiderio o eccitazione sessuale (Davis e Petretic-Jackson, 2000); questo le porta a evitare le esperienze emotive negative e di conseguenza a ignorare l’aspetto appetitivo dell’esperienza sessuale, avendo così maggiore probabilità di sviluppare difficoltà a eccitarsi sessualmente (Barlow, 1986). Infatti, seppur l’evitamento sia una forza istintuale di base, che può essere funzionale nel breve periodo risolvendo il problema imminente del soggetto, il suo uso protratto nel tempo può portare a risultati negativi, poiché rinforza le convinzioni di paura che potrebbero portare ad altri problemi con effetti negativi a lungo termine (Elliot, 2006; Holtforth, 2008). Nel tempo, l’evitamento potrebbe rinforzare l’associazione tra l’affettività negativa e la stimolazione sessuale e questo porterebbe a disfunzioni sessuali, inclusi problemi di eccitazione sessuale. Questo è ancora più vero per le donne con forme più gravi di abuso sessuale infantile: l’evitamento porta a evitare esperienze sessuali potenzialmente correttive e ciò si traduce nel mantenimento e rafforzamento di ricordi di esperienze sessuali negative vissute durante l’infanzia. Bisogna anche evidenziare che quando si parla di evitamento di esperienze sessuali correttive, non ci si riferisce solo all’astinenza dalle attività sessuali, ma anche all’uso di distrazioni, dissociazioni e sostanze per alterare la consapevolezza durante le attività sessuali per evitare la connessione interpersonale (Staples et al., 2012).

La mindfulness based sex therapy

Un trattamento che ad oggi sembra avere una buona efficacia nella cura delle difficoltà nell’eccitazione sessuale in donne con storia di abuso sessuale infantile è la mindfulness-based sex therapy, che non punta a migliorare direttamente l’eccitazione sessuale genitale, ma orienta alla consapevolezza del trattamento, consentendo alle donne di disconnettersi da cognizioni negative, come i ricordi dell’abuso, e di partecipare pienamente allo stimolo sessuale nel momento presente (Brotto et al., 2012). Anche i trattamenti di scrittura espressiva sembrano essere particolarmente appropriati per le donne con storia di abuso sessuale infantile, in quanto mirano a migliorare la salute mentale attraverso i meccanismi di esposizione e assuefazione dei ricordi traumatici, diminuzione del desiderio di nascondere ricordi traumatici, espressione emotiva e rivalutazione cognitiva (Pennebaker e Chung, 2011).

In conclusione, nonostante vi siano evidenze secondo cui donne con storia di abuso sessuale infantile riportano conseguenze negative nel funzionamento sessuale, in particolare rispetto alla sfera dell’eccitazione, gran parte delle donne con una storia di abuso è comunque in grado di avere esperienze sessuali funzionali e soddisfacenti (Staples et al., 2012).

L’imagery rescripting, teoria e pratica (2022) di Remco van der Wijngaart – Recensione

In questo libro l’autore approfondisce in modo completo e dettagliato l’utilizzo dell’imagery rescripting (IR), sia come procedura diagnostica sia come modalità terapeutica, durante tutte le fasi del trattamento.

 

 Nella prima parte viene descritta la tecnica in tutte le sue componenti, aggiungendo dati scientifici aggiornati relativi alla sua efficacia e vignette di casi clinici che aiutano la comprensione. Nello specifico, l’imagery rescripting è una tecnica terapeutica in grado di intervenire sul contenuto di eventi traumatici del passato, collegati a schemi maladattivi e sintomi dolorosi del presente. Si recupera dalla memoria un evento passato doloroso e/o traumatico e con l’immaginazione si modifica il decorso della rappresentazione mentale di quell’evento direzionandolo verso una conclusione più favorevole.

Negli ultimi anni, l’utilizzo dell’immaginazione come pratica terapeutica è stata utilizzata prevalentemente dalla terapia cognitivo-comportamentale e dalla Schema Therapy, un approccio che integra la terapia cognitiva con l’approccio dinamico, focalizzando l’attenzione sui bisogni precoci insoddisfatti e i traumi d’attaccamento. L’autore, avendo questa formazione, riesce a portare il lettore all’interno del suo metodo di lavoro spiegando dettagliatamente come l’imagery rescripting possa essere utilizzata in fasi diverse del trattamento con scopi e modalità differenti. Ad esempio, può essere usata in fase diagnostica iniziale con lo scopo di comprendere in che modo la sintomatologia attuale del paziente è collegata a bisogni insoddisfatti o traumi del passato; oppure può essere utilizzata come tecnica di intervento vera e propria in una fase più avanzata del trattamento, proprio per favorire l’elaborazione di traumi, soddisfare i bisogni frustrati dell’infanzia e su un piano cognitivo ri-attribuire una cornice di significato ad un evento doloroso. Può essere usata anche nella fase finale della terapia proprio per andare a consolidare le nuove competenze e abilità acquisite dal paziente nel corso del trattamento.

  L’autore spiega ampiamente come, in una prima fase della terapia, sia il terapeuta stesso ad intervenire nell’immagine dolorosa rievocata dal paziente per effettuare il rescripting. In una fase invece più avanzata, quando nel mondo interno del paziente si è consolidata la figura di “adulto sano”, sarà l’immagine del paziente stesso adulto che interviene nel ricordo traumatico e soddisfa i bisogni della propria parte bambina. Questa tecnica può essere applicata anche sugli eventi futuri che generano ansia e disagio nel paziente, attraverso una specifica procedura descritta nel dettaglio.

Negli ultimi capitoli l’autore riassume le specifiche aree di intervento e le trappole che il terapeuta può incontrare nel lavorare con questo approccio, ponendo particolare attenzione alla capacità del terapeuta di sintonizzarsi con il ritmo del paziente, lavorando su consapevolezza ed empatia.

Il manuale presenta un’ampia appendice con indicazioni pratiche molto utili per sintetizzare le modalità di applicazione della tecnica durante tutte le fasi del trattamento.

Quanti sono gli ‘stati del mondo’? Il ruolo del metaverso

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla.

 

Introduzione

 Il metaverso, tra fantascienza e innovazione tecnologica.

Con metaverso si allude a un ecosistema che collega – in rapporto osmotico – la realtà effettiva a quella virtuale e a quella aumentata.

È il web 3.0, bellezze!

Dal termine “universo” unito al prefisso greco “mèta”, il metaverso è un luogo che risale all’idea dello scrittore N. Stephenson. Nel suo romanzo di fantascienza post-cyberpunk del 1992, ‘Snow Crash’ –ambientato a Los Angeles alla fine del XX secolo– egli narrava di un mondo parallelo a quello reale, localizzato nel cyberspazio, all’interno del quale i soggetti si rifugiavano interagendo tramite i propri avatar.

Esiste però una sostanziale diversità fra il metaverso à la Stephenson e il metaverso in fase di sviluppo attualmente –o meglio, i tanti metaversi (infatti, le piattaforme sono molte). Oggi si tratta di un’architettura tecnologica di “realtà miste” (effettiva, virtuale e aumentata) senza soluzione di continuità, in un ambiente 3D (Riva, 2022). Tanto più sarà la capacità immersiva del soggetto e della tecnologia, nonché la credibilità e la personalizzazione dell’avatar tridimensionale, tanto minore la soluzione di continuità fra le realtà del metaverso. Fino ad arrivare al paradosso, come sostengono alcuni pensatori del metaverso, che tale fluidità faccia collassare le varie realtà in una unica. E, allora, quali fra i probabili “stati del mondo” diventa quello certo? Ci immergiamo quindi in un contesto di incertezza pervasiva.

Come si vedrà più avanti, sotto il profilo delle neuroscienze, la “realtà mista” del metaverso cambia il rapporto tra cervello umano e digitale rispetto alle altre esperienze umane nel cyberspazio. Il metaverso, infatti, costituisce una sofisticata tecnologia “trasformativa”, capace di modificare i meccanismi cognitivi dei soggetti e di mutare la loro idea di realtà (Riva, 2022).

Le caratteristiche dei metaversi

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla (oltre al dolo, ci sono ulteriori pericoli collegati all’avatar, come si spiegherà più avanti).

Altra caratteristica fondante il metaverso è una struttura decentralizzata costituita dalla polverizzazione di un gran numero di utenti in tanti spazi, come il mercato immobiliare, settore dei videogiochi, eventi virtuali tra cui matrimoni (tra avatar!), e tutti gli altri segmenti digitali (già attuali o potenziali) che sottendono l’intreccio tra esperienze tratte dal mondo reale, fantasia e creatività.

E, a proposito di matrimoni, ci appaiono ancora alquanto bizzarri (semplice questione di abitudine?) quelli celebrati nel cyber. Dal matrimonio tra il medico giapponese e il suo amatissimo ologramma (Fiocca, 2019) alla più recente unione tra una coppia di avatar indiani, con tanto di avatar invitati –ben 2.000, una cosa in grande– tra i quali spiccava l’avatar del defunto padre della sposa (forse un tantino grotty!).

Considerando un’interpretazione strettamente economico-finanziaria, il metaverso crea nuovi “cyber-mercati”, dove –rispetto ai mercati “tradizionali”, anche di natura digitale– si accrescono notevolmente le interazioni e le opportunità di scambio tra soggetti. Il metaverso crea un mercato parallelo dove i soggetti economici –riflessi dei propri avatar– possono effettuare scambi di oggetti digitali, gli Nft (Not fungible token).

Queste nuove opportunità di transazioni, con la creazione di nuovi mercati e la soddisfazione di una domanda innovativa e tecnologicamente sempre più sofisticata da parte degli “avatar-consumatori-investitori”, costituiscono dei miglioramenti in termini paretiani.

E, naturalmente, dove esiste un mercato, esiste un mezzo di pagamento. Qual è la moneta/valuta nel metaverso? Questo argomento rinvia alle criptovalute.

E, inoltre, come vengono contabilizzate/registrate le transazioni? Questo tema rimanda alla blockchain.

E, ancora, chi regolamenta il mercato metaverso? Tale questione rinvia, almeno in parte e nell’ambito della UE, alla strategia europea per i dati.

Tutti aspetti, questi, al centro dell’attuale dibattito.

Criptovalute, blockchain, regolamentazione dei metaversi

Rispetto al primo punto, fra le principali criptovalute ci limitiamo a citare “Sand” del metaverso “The Sandbox”, un marketplace specializzato in Nft di lusso. Viene utilizzata per partecipare a giochi, acquistare accessori volti a personalizzare gli avatar, per acquistare le cosiddette land, ecc. I metaversi sono appunto divisi in lotti di “terreni” tridimensionali sui quali organizzare eventi e sfruttare opportunità di promozione del proprio brand. Come nel mondo reale, i terreni nei metaversi sono scarsi, e naturalmente la loro scarsità ne determina il valore. Senza la scarsità delle land, molti appezzamenti verrebbero probabilmente abbandonati, con ricadute negative su quello specifico metaverso e sui loro utenti. La scarsità delle terre assolve una duplice funzione: assicurare il valore intertemporale dei terreni e, quindi, mantenere “fertili” questi ultimi. In altri termini, assicurare la competitività e lo sviluppo di quello specifico metaverso. Nel Sandbox, il valore dei terreni è attualmente molto elevato.

Associata alle criptovalute, vi è il modello tecnologico della blockchain. Infatti, gli oggetti acquistati tramite le criptovalute rimangono di proprietà dell’utente acquirente in maniera indelebile, poiché la sua proprietà viene registrata sulla blockchain e rimane accessibile dal wallet dell’utente. Si ottiene in tal modo sia la tracciabilità delle transazioni sia la tracciabilità dei diritti di proprietà rimuovendo la necessità degli intermediari tenuti ad agire come terze parti di fiducia: l’impianto della blockchain concorre fortemente all’architettura decentrata del metaverso.

Aspetto cruciale di una blockchain è la interoperabilità: essa è la potenziale capacità di comunicare tra gli ecosistemi blockchain attraverso la costruzione di catene di collegamento. Queste ultime garantiscono che due diversi meccanismi di blockchain siano in grado di connettersi, interagire, condividere informazioni. Ogni singola blockchain memorizza informazioni diverse; pertanto, la creazione di un sistema interoperabile fa sì che la comunicazione attraverso la blockchain diventi più efficiente. Tramite una serie di catene individuali che lavorano simultaneamente, le capacità dell’ecosistema nel suo complesso risultano potenziate.

Grazie alla tecnologia blockchain, la finanza è naturale deputato alle applicazioni del metaverso-MetaFi (Cafaro, 2022). La finanza decentralizzata, in particolare, è un ecosistema in evoluzione che consente transazioni digitali tra le parti attraverso i cosiddetti smart contract (“contratti intelligenti”), cioè protocolli informatici che verificano l’esecuzione di un contratto, registrati sulla blockchain. Gli utenti sono in grado di effettuare transazioni finanziarie direttamente tra loro, senza il coinvolgimento di un’autorità centrale, di banche o di altre organizzazioni finanziarie tradizionali. Poiché non è necessario un intermediario, le transazioni finanziarie sono considerate più veloci, convenienti ed efficienti; Tuttavia, rimane un nodo centrale, che è la definizione completa del quadro della regolamentazione della finanza decentralizzata.

Ed eccoci arrivati alla questione della regolamentazione –non solo nel campo finanziario, dunque – nei metaversi.

Chi regola il metaverso? È questo tra gli aspetti più delicati –e forse uno dei gangli più deboli dell’intera catena– di tale universo. Un universo connotato da tanti stakeholder portatori di interessi diversi, dalla multidimensionalità, dalla sua frammentazione e decentralizzazione, alla globalizzazione. Tutti fattori che concorrono alla complessità della formulazione di un quadro giuridico del metaverso, con la definizione di responsabilità, tutele, diritti degli utenti. Basti pensare, tra i tanti aspetti, ai rischi di furto di identità e di sostituzione di persona; alla garanzia di protezione dei dati personali. L’interoperabilità stessa tra le varie piattaforme, e con essa la condivisione di informazioni fra utenti e la intensa interazione fra questi ultimi, costituisce sì un valore aggiunto, ma non è priva di rischi e incertezze. E poi, chi proteggerà adeguatamente un segmento di mercato tanto importante e delicato come quello dei giovani, specie dei nativi digitali, specie tra quelli che già oggi accusano disturbi legati alle tecnologie? Inoltre, qualcuno potrebbe ingannarsi pensando di essere un avatar (“illusione dell’incorporazione”), e ciò sarebbe particolarmente rischioso per i soggetti psichiatricamente vulnerabili che potrebbero avere esperienze psicotiche di sdoppiamento. E, ancora, il problema della manipolazione, giacché l’ambiente in cui il soggetto vive modifica la propria percezione del reale e del sé (cfr., ad esempio, Madary-Metzinger, 2016). Tra i rischi, la derealizzazione, depersonalizzazione e, più in generale, il venir meno di una “esperienza cosciente”.

La “strategia europea per i dati” sta mettendo in campo alcune soluzioni che contribuiscono a fornire risposte alle tante perplessità sul metaverso: tra queste l’Intelligence Artificial Act, il Digital Markets Act, il Digital Services Act, il Data Governance Act e il Data Act.

Mondi fluidi, spersonalizzazione del proprio corpo, “stati di natura”

Poiché le interazioni avvengono sulla base delle proprie esperienze, gli individui-avatar vivono simultaneamente – e parallelamente – in un continuum: realtà effettiva-virtuale-aumentata. Allora, il soggetto quanti “stati del mondo/stati di natura” percepisce contemporaneamente?

O tale trilogia può collassare in una sola e unica dimensione: l’esperienza?

Su quest’ultimo punto sembra opportuno richiamare il pensiero del filosofo D. J. Chalmers.

Le realtà virtuali costituiscono realtà a tutti gli effetti? I pensatori del metaverso

Tra i pensatori che hanno contribuito al dibattito sul metaverso (di cui una buona sintesi è in La Trofa, 2022), si cita il filosofo australiano Chalmers, direttore del Center for Mind, Brain and Consciousness della New York University. Il suo volume del 2022, “Reality+: i Mondi Virtuali e i Problemi della Filosofia” esplora enigmi esistenziali ed antichi; pone importanti domande sul significato filosofico della tecnologia virtuale; conia il termine “tecnofilosofia”, ovvero l’approccio interdisciplinare di sollevare domande filosofiche sulla tecnologia e avvalersi della tecnologia per rispondere a domande filosofiche.

Il libro ha come tesi centrale che “la realtà virtuale è realtà genuina”. Sostiene, cioè, l’espansione del nostro senso di realtà.

Nella sua idea sul rapporto tra le realtà e la mente umana, le realtà virtuali costituiscono infatti realtà a tutti gli effetti, poiché esse sono in grado di determinare esperienze significative per un soggetto, come avviene appunto nel mondo fisico corporeo. Per tale ragione, l’evoluzione delle “realtà miste” all’interno del metaverso condurrà ineludibilmente a una separazione meramente fittizia tra reale e digitale.

 Come riconosce l’autore stesso, tali affermazioni vanno però calibrate e stemperate facendo i conti –tra i molteplici fattori– con “l’attitudine” degli individui. E tale attitudine è funzione di numerose variabili, tra cui il gap intergenerazionale. Mentre gli immigrati digitali sono più inclini a considerare i mondi digitali come di seconda classe e non completamente reali, i nativi digitali sono abituati a frequentare le realtà digitali. E anche l’abitudine crea un’attitudine (e viceversa). Per i nativi digitali i mondi virtuali fanno parte della realtà e sono trattati in questo modo. Analogamente, chi ha una attitudine/preferenza fortemente spiccata per la natura tenderà a marginalizzare il mondo digitale.

Di conseguenza, egli aggiunge, è l’importanza che si attribuisce alle cose a renderle davvero reali. Ad esempio, gli Nft, se diventano sempre più importanti nella nostra vita, diventano reali. Si tratta di un reale non di secondo piano, poiché essa nasce all’interno della realtà vera e di fatto la estende. Dunque, l’autore preferisce piuttosto parlare di una realtà di secondo livello, distinguendo la componente reale originale da quella derivativa.

La prospettiva delle neuroscienze

Nel campo delle neuroscienze, le evidenze sperimentali documentano che il tipo di corpo virtuale indossato da un individuo induce in quel soggetto cambiamenti percettivi, attitudinali e comportamentali, includendo anche l’elaborazione cognitiva (Banakou et al., 2018; una buona sintesi è in Riva, 2022). Nel metaverso, questa capacità arriva fino a far entrare un individuo nel corpo digitale di un altro (“illusione di proprietà del corpo”) grazie a sofisticate tecniche immersive.

In particolare, nell’esperimento condotto in un laboratorio di realtà virtuale da Banakou e colleghi (2018), un gruppo di partecipanti ha incarnato il corpo digitale di Einstein (prototipale di una super-intelligenza), mentre il gruppo di controllo incarnava corpi digitali di intelligenza “normale”. Le dimensioni dell’ambiente virtuale e le proporzioni del contenuto erano equivalenti alle dimensioni e alle proporzioni della vita reale e identiche per entrambi i gruppi (“Einstein”, “Normal”). I partecipanti sono stati assegnati casualmente nei due gruppi. Entrando nell’ambiente virtuale, i partecipanti si sono trovati in una stanza virtuale in cui il loro corpo è stato visivamente sostituito dall’Einstein a grandezza naturale o da un corpo di un giovane adulto (“Normal”). Ne è risultato che l’incarnazione di persone in un corpo fortemente associato a capacità cognitive ad elevate prestazioni si traduceva in prestazioni cognitive migliorate. Dunque, l’evidenza empirica tramite lab ha evidenziato l’esistenza dell’“illusione di proprietà del corpo”. Della serie: “Se sono Albert Einstein, devo esserne all’altezza, e le mie capacità mutano di conseguenza”. La manipolazione della proprietà del corpo funziona!

Date le forti implicazioni, si richiama un altro lavoro di Banakou e collaboratori (2016), in cui si dimostra per via sperimentale come l’“illusione di proprietà del corpo” sia in grado di determinare mutamenti nell’attitudine alla discriminazione, al pregiudizio e al ricorso a stereotipi negativi, come quelli razziali o verso gli anziani (questi ultimi si confrontano con forme più o meno implicite di discriminazione di natura anagrafica).

Gli autori hanno condotto la sperimentazione con partecipanti di sesso femminile in cui il corpo virtuale era nero o bianco. Anche in questo caso l’esperimento è stato condotto in un laboratorio di realtà virtuale. Il corpo del partecipante è stato sostituito dal corpo virtuale “Black” o “White”. L’ipotesi dell’esperimento era che l’incarnazione dei bianchi in un corpo virtuale dalla pelle scura avrebbe portato a una riduzione del pregiudizio razziale implicito negativo nei confronti dei neri. I risultati hanno mostrato una diminuzione generale del pregiudizio indipendentemente dal tipo di corpo e che la distorsione implicita diminuiva soprattutto nei partecipanti con il corpo virtuale nero.

Gli autori stessi tuttavia riconoscono i limiti della propria ricerca, sottolineando come vi sia bisogno di ulteriori studi per essere in grado di comprendere gli esatti meccanismi che conducono all’“illusione di proprietà del corpo”.

Alcune conclusioni. Tra vite confusive, trade-off, razionalità e complessità umane

Il metaverso permette di far sperimentare il senso di “presenza” e dell’“esserci”. Ma dove? Queste vite parallele rischiano di diventare confusive?

Emerge così un trade-off tra nuove opportunità e nuovi rischi?

Di fronte a questi progressi digitali, di quanto deve alzarsi l’asticella circa le aspettative sulla razionalità umana affinché vengano evitati forti bias e illusioni –finanche “l’illusione di proprietà del corpo”, che è qualcosa di così immediato e materiale?

Ma, allo stesso tempo, quanto sono in grado queste nuove realtà digitali di rappresentare, simulare, proiettare la complessità umana?

Le conclusioni rimangono solo domande.

 

I gruppi sui social-media come fonte di informazione per le donne in gravidanza

Le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri.

 

La ricerca di informazioni durante la gravidanza

 La nozione di “buona madre” da diversi anni si sente frequentemente nei discorsi sociali e, sebbene talvolta si creda che la maternità e la nascita di un figlio vengano spontanee perché fondate su un istinto biologico innato, al giorno d’oggi tali concezioni idealistiche sono spesso superate (Lagan et al., 2010). Per tali ragioni le future mamme sono alla continua ricerca di ricevere consigli espliciti o informazioni da qualcuno su come educare i propri figli.

Solitamente le principali informazioni o suggerimenti sull’educazione sono trasmesse dagli amici, dalla famiglia, dagli operatori sanitari, dalla letteratura in merito o, più recentemente, dai media (Song et al., 2013). Nel Mondo Occidentale, infatti, molte donne necessitano di ricevere una risposta accurata e precisa alle loro domande ed esigenze, e di ricevere informazioni non contraddittorie durante l’assistenza prenatale (Hildingsson & Radestad, 2005). Numerosi studi, che hanno intervistato alcune ostetriche, confermano che le donne incinte desiderano fare delle scelte consapevoli dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie e aver vagliato le implicazioni delle diverse opzioni proposte. Inoltre, è emerso che le future mamme desiderano poter fare domande non soltanto in momenti di crisi o quando realmente hanno dei dubbi, ma quotidianamente, anche se l’ostetrica o il medico di riferimento non possono riceverle in quel momento (McCarthy et al., 2017). In aggiunta, una review del National Health Service England (NHS England, 2016) ha evidenziato come le donne si aspettino che i servizi di maternità possano dare loro consigli provenienti da più fonti, ma quasi nessuna oggi si ritiene soddisfatta delle informazioni ricevute dai medici e tenta quindi di cercarle altrove.

L’utilizzo di Internet ha permesso a diverse mamme di accedere a informazioni in modo molto rapido, stravolgendo il modo con cui erano solite confrontarsi con gli operatori sanitari. In rete è infatti possibile accedere a qualunque argomento d’interesse, da chiunque sia disposto a cercarlo; le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri (Kennedy et al., 2017). Nella pratica accade che le informazioni non urgenti o semplici di cui le donne hanno bisogno non necessitano di un incontro fisico con un professionista della salute, riducendo drasticamente la necessità si recarsi in centri sanitari o attendere un appuntamento da un privato. In aggiunta, alcuni studi hanno mostrato che l’accesso rapido a internet può apportare anche benefici psicosociali in quanto riequilibra le disuguaglianze di potere tra madri e operatori sanitari (Van de Belt et al., 2010).

La grande quantità di informazioni reperibili ha però anche numerosi difetti tra cui la difficoltà di distinguerne la provenienza e la credibilità; inoltre è estremamente complicato capire quale notizia sia più affidabile tra le numerose proposte e se la visione delle informazioni su Internet sia guidata da motivazioni commerciali (Gao et al., 2013). Gran parte della ricerca affidabile e scientifica disponibile online utilizza un linguaggio troppo difficile e specifico per un pubblico generico, risultando così incomprensibile per la maggior parte delle persone e portandole così a prendere delle decisioni sbagliate.

Nonostante ciò, si ritiene che oggi le donne siano in una posizione privilegiata rispetto ad un tempo per reperire informazioni utili sulla gravidanza e fare scelte consapevoli basate su evidenze scientifiche (NHS England, 2016). Inoltre, con l’aumento dell’utilizzo dei social media, molte di loro sono iscritte a gruppi per donne incinte dove possono incontrare altre madri, scambiare con loro informazioni, condividere esperienze o offrire sostengo emotivo (Eysenbech et al., 2004).

Gravidanza e social media: parlare con i professionisti

Visti i numerosi gruppi online su differenti piattaforme, diversi studiosi si sono chiesti se la presenza di professionisti all’interno di essi potesse essere un’opportunità per le mamme di soddisfare i bisogni informativi delle donne a sostegno della scelta, o per raggiungere una continuità informativa o delle cure attraverso lo scambio di informazioni tra pazienti e professionisti (Heaton et al., 2012).

 Uno studio di McCarthy e colleghi ha esaminato quindi le esperienze delle donne che accedevano a consigli e informazioni sulla gravidanza tramite una piattaforma social-media creata appositamente e mediata da ostetriche, per poterne verificare i vantaggi.

Sono stati quindi creati due gruppi privati su Facebook nei quali sono state inserite due ostetriche qualificate. I dati sono stati raccolti in 35 settimane e includevano 4 focus group, interviste individuali con le partecipanti al gruppo e con le ostetriche; le interazioni postate sulla piattaforma durante l’intervento; infine, alcuni messaggi privati tra le singole partecipanti e le ostetriche. Su tali dati è stata svolta un’analisi tematica secondo il modello di Clarke e Braun (2013).

Dai risultati si evidenzia che le partecipanti hanno trovato molto utile ed efficace il gruppo supervisionato da ostetriche. È emerso infatti che nei gruppi si potessero condividere informazioni e ci si potesse confrontare su temi rilevanti per la gravidanza. Inoltre, le donne hanno dichiarato che la presenza delle ostetriche ha permesso loro di verificare l’attendibilità e la credibilità delle informazioni e ha contribuito a ridurre il sovraccarico di informazioni e la confusione (Jay et al., 2018). Per molte partecipanti il gruppo era considerato la fonte primaria di informazioni sul parto e sulla gravidanza.

In conclusione, i gruppi sui social media supervisionati da ostetriche offrono un modo molto efficace di fornire informazioni personalizzate e sostegno sociale alle donne in gravidanza. L’accesso al gruppo, infatti, non solo ha soddisfatto le esigenze di informazione e supporto delle madri, ma ha dato alle donne una nuova fonte di continuità relazionale, la quale è definita come una relazione terapeutica continuativa tra un paziente e uno o più operatori (Haggerty et al., 2003) ed è una caratteristica fondamentale dell’attuale offerta di assistenza alla maternità.

 

Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 20

Siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni come ansia e depressione.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 20) Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie

 

Con quest’ultimo numero si chiude il lavoro di analisi del documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione (ISS, 2022), obiettivo di questa rubrica.

Dunque, siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni (DMC; come ansia e depressione).

Raccomandazioni per il Quesito D5: la comunicazione con policy-makers e istituzioni

Quali iniziative si possono assumere per sensibilizzare i decisori e le istituzioni socio-sanitarie a rendere effettivamente disponibili e fruibili le terapie psicologiche per i disturbi d’ansia e depressivi?

Gli Esperti aprono la discussione su questo tema menzionando un famosissimo detto: “prevenire è meglio che curare”, in questo caso non solo in termini di benessere psicologico, ma soprattutto in termini economici. Infatti, sottolineano l’importanza di ricordare ai policy-makers e alle istituzioni che “prevenire costa meno che curare” (ISS, 2022, p. 36), evidenziando i costi diretti e indiretti e spiegando che un investimento economico nelle terapie psicologiche potrebbe ridurre i costi delle spese secondarie dovute ad ansia e depressione non trattate.

Anche la gestione delle condizione subcliniche (ovvero i casi in cui non ci sono i presupposti per porre una diagnosi; per approfondimenti, si consiglia il n.12) risulta una scelta oculata in un’ottica di abbattimento dei costi a lungo termine, poiché spesso tali condizioni possono evolvere in patologie più gravi e, pertanto, implicare una più dispendiosa gestione per il sistema sociale, sanitario ed economico.

A livello comunicativo, secondo gli Esperti, potrebbe essere funzionale creare una infografica che riporti i dati relativi all’efficacia degli interventi psicologici sulle condizioni cliniche e subcliniche, al risparmio derivato dalle azioni di prevenzione, nonché quello dovuto alla corretta gestione dei disturbi ansiosi e depressivi attraverso il modello stepped care (vedi Nr. 11 e Nr. 17).

Inoltre, si rende necessario fornire ad enti e istituzioni, chiare direttive sulle criticità e sulle potenzialità dell’attuale rete sociosanitaria italiana relativamente all’implementazione di attività di prevenzione, promozione e gestione (intesa sia come assistenza che presa in carico) della salute mentale. Pertanto, si raccomanda di investire nell’acquisizione di figure professionali specifiche e nella formazione del personale già operativo.

Alcuni enti destinatari di questa comunicazione, che potrebbero essere interessati alla riduzione dei costi suddetti, possono essere l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), le Commissioni Sanità di Parlamento e Regioni, gli uffici studi della Banca d’Italia, di enti economici, di compagnie assicurative, di sindacati, di Confindustria. Sarebbe utile coinvolgere direttamente tali enti e istituzioni mediante iniziative, –auspicabilmente– supportate dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con associazioni scientifiche nell’ambito della psicologia, come conferenze-stampa, convegni e incontri diretti.

In ultimo, il Tavolo di Lavoro si è occupato di altre questioni ritenute importanti e trasversalmente connesse al tema oggetto di discussione.

Una di queste riguarda le condizioni di sofferenza mentale che non si manifestano necessariamente come disturbi mentali diagnosticabili, ma che necessitano comunque di attenzione e assistenza, ovvero “tutte le reazioni psicologiche che si possono manifestare a seguito di emergenze, come pandemie o terremoti” (ISS, 2022, p. 37). Le eventuali difficoltà riferite dai cittadini sul piano psicologico a seguito di tali eventi e la complessità delle conseguenze, che potrebbero cronicizzarsi, necessitano della figura specifica dello psicologo dell’emergenza, che pertanto deve essere riconosciuta sul piano formativo e lavorativo da parte dell’istituzione sanitaria.

Un’altra questione degna di nota riguarda gli interventi inclusi nel primo livello di cure previsto dal modello stepped care, ovvero quelli di auto-mutuo-aiuto, come quelli presenti nel programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT; Clark, 2017). I gruppi di auto-mutuo-aiuto consistono in tutte quelle iniziative organizzate da gruppi di persone non professioniste, accomunate da un problema, per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una comunità. A questo proposito sembra che, nel nostro Paese, la presenza e il ruolo delle associazioni di malati e familiari sia minimale. Infatti, sembrano esserci poche associazioni specifiche per i DMC; in particolare, sono presenti alcune per l’ansia, come la Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, Agorafobia e attacchi di Panico (LIDAP), che hanno purtroppo un’azione poco significativa, mentre sembrano addirittura non esistere per la depressione.

In conclusione, gli Esperti che hanno partecipato alla Consensus Conference sulle cure psicologiche per i DMC (ISS, 2022) per incrementare l’accesso a tali cure hanno individuato varie strategie praticabili compatibili con l’organizzazione presente sul territorio nazionale. Tuttavia, nell’ottica di ridurre il gap di trattamento (ovvero il divario esistente tra l’elevato numero di persone che soffrono di disturbi d’ansia e depressivi e il ridotto numero di coloro che ricevono un trattamento efficace e specifico) sono necessari provvedimenti concreti da parte dei policy-makers, in quanto il documento finale della Consensus non ha potere attuativo. Perciò, è necessario continuare a divulgare questo documento (o parti di esso) per informare e sensibilizzare l’intera comunità sull’importanza di queste tematiche. Nella speranza –realizzabile e già realizzata in altri Paesi– di migliorare l’organizzazione delle strutture messe a disposizione dal Sistema Sanitario Nazionale per ricevere cure psicologoche adeguate per ansia e depressione, e far sì che i cittadini non siano costretti a ricorrere al mercato privato, generando così, rispetto all’accesso alle cure, “una discriminazione di censo intollerabile in tema di salute e irrispettosa del dettato costituzionale” (ISS, 2022, p. 41).

 

Ghosting: motivazioni, conseguenze e strategie di coping

La pratica del ghosting è comunemente descritta come l’interruzione unilaterale dei contatti con il partner e l’ignoranza dei suoi tentativi di contatto, comunemente attuata attraverso uno o più mezzi tecnologici (Freedman et al., 2019).

 

 Sebbene il ghosting possa avere alcune somiglianze con altre strategie di rottura, ad esempio, Baxter (1982) ha scoperto che il ritiro e l’evitamento sono strategie comuni per porre fine a una relazione, nella società contemporanea è la strategia che potrebbe verificarsi più spesso. Grazie alla comunicazione mediata, le persone possono facilmente respingere i corteggiatori indesiderati cancellando o bloccando l’altra persona o semplicemente non rispondendo (Tong & Walther, 2011). In particolare, ad oggi le app di incontri online (Mobile Dating App [MDA]) creano un’abbondanza di potenziali partner con cui interagire contemporaneamente, spesso estranei alla propria rete sociale (Yeo & Fung, 2016). Quindi, comportamenti che sarebbero stati considerati scortesi in un contesto faccia a faccia (ad esempio, ignorare qualcuno) possono diventare una strategia comune in un contesto di incontri online a causa del relativo anonimato e della facilità offerta dalle forme di comunicazione mediata (Tong & Walther, 2011).

Le ragioni del ghosting

Sulla base di quanto detto, uno studio di Timmermans e colleghi (2021) ha esplorato le ragioni, le conseguenze e i modi per affrontare il ghosting sulle app di incontri mobili, nonché i predittori della valutazione dell’esperienza di ghosting come dolorosa.

É stato chiesto a coloro che hanno subito ghosting (ghostee) di descrivere il motivo per cui pensavano che l’altra persona lo avesse fatto (ghoster). L’analisi ha rivelato che più della metà dei ghostee ha incolpato il ghoster (59%), più di un terzo ha incolpato se stesso (37%) e circa un quinto ha incolpato i vantaggi dell’app (17%). È interessante notare che temi simili sono emersi per i ghosters che hanno riferito le ragioni per cui hanno fatto ghosting: (1) biasimare il ghostee (67%); (2) biasimare se stessi (44%); (3) biasimare le possibilità offerte dall’app (29%); (4) nessun obbligo di comunicare (22%); e (5) preoccupazione per l’altro (16%). Sia i ghostee che i ghosters sono stati più propensi ad attribuire la colpa all’altra persona, ma in entrambi i gruppi una percentuale abbastanza ampia ha attribuito la colpa a se stessi per aver fatto o subito il ghosting.

Mentre i risultati qualitativi sembrano suggerire che le possibilità offerte dalle app di incontri contribuiscono effettivamente al ghosting e all’essere ghostati, le analisi quantitative hanno dimostrato che la frequenza di utilizzo delle app di incontri era associata negativamente al ghosting. In altre parole, più si utilizza un’app di incontri mobile, più diminuisce la probabilità di fare il ghosting.

Una spiegazione potrebbe essere che le persone che hanno appena iniziato a usare un’app di incontri mobile si sentono sopraffatte dall’ampio bacino di incontri a cui hanno improvvisamente accesso e, in alcune app, ricevono anche messaggi non richiesti da persone indesiderate, aumentando così le possibilità di ghosting. Inoltre, dato che anche i frequentatori di siti mobili hanno avuto esperienze negative sulle app di incontri (ad esempio, Thompson, 2018), potrebbero diventare più selettivi nel loro comportamento di swiping e quindi evitare di incontrare partner indesiderati in una fase precedente alla conversazione, che altrimenti sarebbero propensi a fare il ghost.

Le conseguenze del ghosting

 Per quanto concerne le conseguenze del ghosting, molti intervistati hanno riferito che l’esperienza del ghosting ha avuto un impatto negativo sulla loro autostima e sulla fiducia negli altri. Ciò è conforme alla ricerca psicologica, che ha dimostrato che l’autostima può diminuire quando le persone subiscono un rifiuto (Leary et al., 1998). Ciò significa che quando gli intervistati con una bassa autostima vivono molteplici esperienze di ghosting, potrebbero percepire il rifiuto come ancora più doloroso. Inoltre, potrebbero impiegare più tempo a superare questa esperienza dolorosa, poiché le persone con una bassa autostima hanno meno oppioidi naturali (antidolorifici) rilasciati nel cervello dopo un rifiuto rispetto alle persone con un’autostima più elevata (Hsu et al., 2013). Tuttavia, è importante notare che alcuni meccanismi di coping (ad esempio, razionalizzare l’esperienza di ghosting sostenendo che fa parte dell’uso delle app di incontri) possono impedire agli utenti delle app di incontri di sperimentare una riduzione dell’autostima.

La frequenza con cui si è stati ghostati, l’aver avuto un contatto faccia a faccia e una durata maggiore del contatto hanno predetto positivamente il grado in cui gli intervistati hanno valutato la loro esperienza di ghosting come dolorosa, mentre la frequenza con cui hanno ghostato altri ha predetto negativamente la valutazione di dolorosità.

Sorprendentemente, sembra che l’intimità sessuale con il ghoster non renda l’esperienza di ghosting più dolorosa. Una potenziale spiegazione potrebbe essere la normalizzazione percepita del sesso occasionale tra i giovani adulti (Timmermans & Van den Bulck, 2018; Wade, 2017), che potrebbe ridurre le aspettative di mantenere i contatti dopo un’intimità sessuale.

Le strategie intraprese per affrontare questa esperienza negativa sono state: razionalizzare la loro esperienza di ghosting, modificare il loro comportamento e le loro aspettative nei confronti degli altri o delle interazioni future, controllare gli account dei social media del ghoster o contattare la rete sociale del ghoster, trovare conforto con gli amici condividendo l’esperienza di ghosting o cancellare l’app di dating mobile e quindi astenersi dagli incontri online per un po’.

Un dato che colpisce è che diversi ghoster hanno riferito di aver fatto il ghosting per proteggersi, dato che il ghostee si è rifiutato di accettare le ragioni del rifiuto e ha iniziato a mostrare un comportamento aggressivo, come l’invio ripetuto di messaggi non richiesti e il comportamento di stalking. Questa scoperta suggerisce che alcuni individui, come ad esempio gli individui sensibili al rifiuto e con un attaccamento ansioso, potrebbero essere più inclini a subire il ghosting rispetto ad altri.

Conclusioni

In conclusione, lo studio si è rivelato utile per proporre un quadro teorico relativo al ghosting sulle Mobile Dating App, includendo anche diverse implicazioni per l’ambito clinico. In un mondo tecnologico emergente è importante notare che piuttosto che attribuire la colpa a se stessi (ad esempio, “non ero abbastanza attraente”), i terapeuti possono aiutare i loro clienti a capire che le tecnologie di comunicazione che spesso usiamo nella nostra vita quotidiana facilitano anche il comportamento di ghosting, razionalizzando così l’esperienza di ghosting.

 

La grande bellezza. La meraviglia dell’imperfezione

De gustibus non disputandum est, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, o ancora La bellezza è negli occhi di chi guarda.. tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità di ognuno.

 

Che cos’è la bellezza?

  Un concetto che sconvolge le menti di tutti proprio per il suo essere sfuggente e inafferrabile.

De gustibus non disputandum est, così esponeva Giulio Cesare, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, risuona un famoso proverbio. L’inglese David Hume afferma: La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla che è il corrispettivo di La bellezza è negli occhi di chi guarda, tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità e del gusto di ognuno.

Un’intuizione non certo banale, se si considera che nella storia, a partire dagli autori e pensatori più antichi, si poneva tale concetto in una prospettiva assolutamente esterna all’osservatore, cercandone un’ambiziosa oggettività, proprio per la necessità di poterla definire: tutto ciò che non contiene una de-limitazione si perde nel concetto di infinito che può spaventare, che può far sentire l’essere umano troppo piccolo e troppo fragile, che può trascinarlo al di fuori della possibilità di calcolo, di previsione, di esattezza, di verifica empirica che tanto lo rassicura e lo placa.

Ma il termine estetica che significato assume? Etimologicamente deriva dal greco αισθησις, ossia, percezione, sensazione, facoltà di sentire e si riferisce ad un processo altamente complesso che unisce la nostra percezione, come esperienza di elaborazione rispetto alle caratteristiche formali di un oggetto ad una di ordine superiore che ingloba conoscenza, expertise, vissuto emozionale, caratteristiche temperamentali e tratti di personalità. Un’esperienza estetica cattura la nostra attenzione e ci induce a provare emozioni di diverso tipo, non sempre spiegabili. Un’opera d’arte, ad esempio, ci attrae non solo e non sempre per la sua conformazione, ma perché innesca stati d’animo differenti, coinvolgendo totalmente e stimolando il nostro pensiero e la nostra immaginazione.

Il primo a contemplare una visione estetico-matematica del concetto di bellezza fu Pitagora, mettendo in evidenza che l’esistenza di tutte le cose si rispecchia nel loro ordine, ordine che segue le leggi matematiche che ne esaltano la concordanza e, dunque, la bellezza. Platone, riprendendo il pensiero della scuola pitagorica, parte da questa idea di armonia per arrivare a concepire il bello come qualcosa che è direttamente correlato al bene, non appartenente all’arte ma all’eros, ossia all’amore che ha diversi gradi di esistenza, come ben afferma nel Simposio, attraverso le parole della sacerdotessa Diotima, da quello più basso, ossia quello fisico, per passare all’amore per il bene e la giustizia, per le scienze, fino ad arrivare a quell’idea più assoluta e trascendente di bellezza: “Come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé“. Una visione altamente romantica dell’uomo, attratto da questo desiderio naturale di tutto ciò che è bello, una sorta di magnete che lo riconduce ad un corpo armonico, ad uno sguardo penetrante, ma anche ad un tramonto sul mare, ad un arcobaleno, ad un cielo stellato.

Ma oggi il concetto di bellezza permea ancora significati così elevati? Il bello è sempre ricollegato al giusto, alla moralità, a quella kalokagathia, concezione greca di corrispondenza tra bello e buono?

Il concetto giapponese di Iki

Nella cultura orientale, nello specifico giapponese, si parla di iki che unisce un comportamento etico ad uno estetico. Iki ha significato di spontaneità, naturalezza, intelligenza, seduzione, ma anche di rinuncia a quell’attaccamento morboso alle cose materiali. Iki è anche la forza d’animo di tutti coloro che in maniera dignitosa affrontano l’instabilità della vita terrena, troppo attaccata alla fusione dei corpi (eros) e poco alla seduzione, come apertura verso l’altro, senza necessità di unione. Iki, letteralmente, significa cose degne di particolare attenzione; lo scrittore Shuzo Kuki ne parla nel suo saggio “La struttura dell’iki” che ha l’obiettivo di “cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata””. In occidente non esiste una vera e propria corrispondenza a questo termine, occidente che probabilmente predilige il concetto di armonia delle forme quando tratta di esperienza estetica.

La bellezza come armonia

Ma questa armonia rispetta forse le leggi di proporzione e di simmetria? Attualmente l’asse di equilibrio di questi fattori sembra non corrispondere più ai canoni, con una propensione verso l’esagerazione e l’esasperazione. Si assiste ad un tentativo di snaturare le caratteristiche di un modello ordinario e prototipico che si pensava essere il più attraente, con l’idea che alcune parti del corpo possano ricevere maggiore consenso, se di dimensioni più grandi. C’è in effetti una predilezione per labbra più carnose, occhi più grandi, seni di taglia considerevole, ma non solo. Anche in altri domini estetici, come palazzi, torri e campanili vengono esaltate le dimensioni di altezza, quasi per imporsi nello spazio, attraendo un numero sempre maggiore di persone, in quanto visibili a distanze notevoli; si aggiunga poi il fatto che, rivolgendo lo sguardo verso l’alto, si ha la sensazione che queste strutture siano così notevolmente predominanti da togliere il fiato. Una bellezza mozzafiato che aspetto dovrebbe avere? Forse dei tanto amati Barbie e Ken?

Le donne sembrerebbero avere un giudizio più severo degli uomini sul proprio aspetto: solo fino ai sette anni ci sarebbe una sana accettazione di sé stesse, successivamente, proprio in età prepuberale e adolescenziale, ci sarebbe una tendenza a reputarsi in sovrappeso nel 60% dei soggetti e solo un 20% sarebbe soddisfatto del proprio aspetto. Più l’insoddisfazione è accentuata più tende a peggiorare con il passare del tempo, andando ad incidere fortemente sul senso di autostima e di competenza, causando notevoli problematiche nell’ambito non solo personale, ma anche lavorativo (André e Lelord, 1999). Si aggiungono anche, nella donna, altri periodi critici del ciclo vitale, come durante la gravidanza o nel periodo post partum. Se risulta accentuato nel genere femminile, tuttavia non è completamente assente nel mondo maschile, soprattutto in un’era sempre più propensa a ridurre quei segnali di identità sessuale così accentuati fino a qualche decennio fa, a favore di un fluire di caratteristiche che abbandonino il culto dell’uomo muscoloso e permettano ad ognuno la piena libertà di esprimersi.

Ma allora perché tanta risonanza in modelli di riferimento assolutamente irreali?

I modelli irrealistici

Si parla di Sindrome di Barbie e Ken: sempre più persone si rivolgono ad un chirurgo estetico con l’idea e la richiesta ben precisa di assomigliare a bellezze illusorie che passano dal nostro mondo dell’infanzia, ma che poi vengono sempre più proiettate come modelli di riferimento possibili al cinema o nelle pubblicità. E pensare che in un articolo su Psicologia Contemporanea del 2005 si leggeva che avvalersi della chirurgia estetica poteva essere considerato un fenomeno di falsificazione dell’immagine di sé, una vera e propria frode.

Circa un ventennio dopo la maggior parte dell’opinione pubblica sarebbe ancora concorde con una simile affermazione? Evidentemente le cose sono cambiate, ma in questo campo hanno forse preso una piega sbagliata. Il mito dell’uomo e della donna di successo viene sempre più associato al concetto di bello, ma l’idea di bello ha ormai assunto caratteristiche aleatorie e illusorie. Ci si compara sempre più ad attori e attrici di Hollywood, ci si confronta sempre più a modelli ideali altamente improbabili, a causa anche dell’enorme influenza del mondo mediatico. Influenza, influencer, apparire, apparenza, sono termini che siamo ormai abituati a sentire ogni giorno, martellati da ogni parte, spesso con la grave conseguenza di scatenare ansia, senso di inadeguatezza ed incapacità. Ed ecco che l’unico rimedio a tale sofferenza sembra essere quello di prendere un’immagine del nostro idolo e mostrarla al chirurgo come richiesta di aiuto. Si comincia ad età sempre più impensabili, ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni ottengono il consenso dai genitori per prenotare una visita, con la speranza, a volte addirittura con la pretesa, di accontentare le proprie aspettative.

Si vorrebbe essere la fotocopia di qualcun altro, non rendendosi più conto di quanto possa invece essere attraente la nostra unicità, con pregi e difetti che permettono di distaccarci da quel processo patologico di bisogno di omologarsi a modelli che non contengono le nostre caratteristiche genetiche e i nostri vissuti. In effetti l’andamento è proprio quello di assomigliarsi sempre più, nella forma degli occhi, degli zigomi, del volume delle labbra, dei seni, di glutei formosi che rischiano però di deformare quella bellezza che, a mio avviso, rimane autentica nella sua armonia.

In effetti, dalla letteratura presente la bellezza sembrerebbe essere un fattore non compartimentalizzato, ma globale: un viso attraente renderebbe il resto del corpo attraente, soprattutto se presente uno sguardo penetrante. Questo fattore era già noto nell’antichità, vedi per esempio le rappresentazioni egizie, in cui un volto rappresentato di profilo mostrava occhi frontalmente, sicché uno sguardo che fissa direttamente l’interlocutore appare più sicuro e viene percepito maggiormente bello nella sua complessità. Nel 2001 sono stati sottoposti a risonanza magnetica diciotto soggetti, mentre guardavano foto di volti attraenti. I risultati mostravano che nella visione di occhi rivolti verso l’osservatore si registrava un incremento dell’attività cerebrale, in prossimità della zona ventrale del nucleo striato, centro del piacere. Eppure ci si allontana sempre più da questa totalità armonica, per aspirare a dettagli ossessivi di ogni singolo centimetro del viso e del corpo. È possibile solo sentirsi quando ci si sente guardati [..] questa esperienza del corpo si costituisce a partire dal Tu, dalla seconda persona: si tratta del mio corpo “in quanto visto e conosciuto da altri”, così scrive il Prof. Giovanni Stanghellini, a proposito di percezione del proprio Sé. Si vive nella contemporaneità di un’era in cui il corpo che sono si ribalta in un corpo che è esposto alla vista dell’altro, un “pornobody che necessita dello sguardo altrui per prendere coscienza di sé”. E tutto questo sicuramente si ripercuote nella sempre più frequente ossessiva mania del selfie, quindi dell’esposizione di sé stessi in rete per poter essere riconosciuti, ma del riconoscimento finisce che ne rimane ben poco, in quanto ogni autoscatto viene sempre più ritoccato dai filtri. Filtrare, quasi a scremare, cernere, vagliare ogni singola parte del nostro desiderio di apparire, come si fa quando si cerca di far passare un liquido attraverso un filtro per trattenere eventuali particelle solide contenute in sospensione e ricavarne una sostanza depurata.

La chirurgia e la medicina estetica, acconsentendo sempre più a questa propensione al deforme, inteso come processo di snaturalizzazione del nostro essere nel mondo, come interazione di fattori genetici e vissuti, volto ad appagare un’ansia pressante generata da insicurezze e fragilità che porta ad ossessive richieste di intervento e di ritocchi, potrebbe paradossalmente alterare il concetto di bellezza armonica, quella “[La] grande bellezza”, che incornicia un celebre film di Paolo Sorrentino?

Un punto di incontro tra medicina estetica e psicologia

Alla luce di quanto emerso, credo sia necessario un avvicinamento tra medicina estetica e psicologia, con l’intento di trovare il giusto equilibrio per ogni singola persona. Una psicoestetica che permetta un importante lavoro interdisciplinare, con l’intento di rendere complementari bisogno estetico e serenità interiore. Dunque una ricerca e un supporto al volersi vedere bene e al sentirsi a proprio agio, che possa trovare la giusta misura nell’utilizzo di un bisturi o di una iniezione, giusta misura in grado di rispettare la singola persona nel suo essere unico. Per poter ottenere un connubio tra le due discipline, da un lato sarà necessario che il chirurgo estetico sappia valutare consapevolmente le richieste del cliente, per identificare colui che si rivolge alla chirurgia per migliorare un aspetto di sé, percepito come difetto, che evidentemente lo turba e che potrebbe rafforzare la sua autostima nella vita di tutti i giorni, da colui invece che cela dietro ad una richiesta di intervento, le sue più profonde insoddisfazioni, o aspettative irrealistiche, se non addirittura veri e propri disagi psicologici o psichiatrici. Dall’altro sarà necessario avvalersi dell’esperienza e della formazione di uno psicologo, che possa accompagnare il paziente nell’affrontare una decisione importante sull’avvalersi o meno dell’intervento o sul percorso di pre e post operazione, non dando mai per scontato la capacità di abituarsi ad un cambiamento.

Medico e psicologo in una sana collaborazione che tenga sempre presente l’obbiettivo primario di ogni scelta: il benessere psicofisico della persona che si avvale delle loro competenze, nel rispetto non solo deontologico, ma anche e soprattutto umano della sua essenza. Un connubio che esalti la bellezza armonica del singolo, anche a costo, a volte, di dire no.

 

I ritmi biologici in un mondo che impone di correre

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi. 

 

 Siamo davvero padroni delle nostre scelte quotidiane? Quotidianamente svolgiamo una serie di attività abitudinarie, delle quali ormai non sempre siamo consapevoli: ci svegliamo dopo una notte di sonno, facciamo colazione, mangiamo e subito siamo pronti per una nuova giornata.

Ci prepariamo dunque per una sequenza di attività già programmate, rispetto alle quali siamo chiamati a rispondere quasi in maniera automatica, per non dire tempestiva, non consentendo al nostro organismo la libera scelta delle reali attività che si vorrebbero svolgere.

Il tempo chiama e i nostri ritmi biologici son pronti ad eseguire quanto imposto dall’esterno. Il ritmo circadiano (dal latino circa diem) si riferisce non solo alle 24 h ore della giornata, ma sottende un’ampia varietà di funzioni fisiologiche, tra cui il ciclo sonno-veglia, la temperatura corporea, la secrezione degli ormoni, l’attività immunitaria, il comportamento alimentare e non ultimo l’attività cerebrale. Una vera e propria danza dell’organismo, che deve però fare i conti con le richieste della società odierna.

La rigidità psicocorporea a sostegno di uno schema privo di imprevisti

In quanto animale diurno, l’essere umano organizza capziosamente la propria giornata sulla base e in funzione di uno schema pre-programmato, col rischio tuttavia di inficiare il proprio assetto psicosomatico, determinando oltremodo l’innesco di una vera e propria rigidità psicocorporea.

Quest’ultima infatti può determinare ripercussioni sulla produzione ormonale, dei neurotrasmettitori e sull’andamento ritmico cerebrale. Nondimeno, seguendo una visione d’insieme, possono verificarsi disfunzioni inerenti il pancreas (Dibner, Schibler, 2015), il fegato, le surrenali e altri organi fondamentali per il nostro  equilibrio giornaliero: l’intestino, il cuore e i polmoni, ciascuno dei quali esercita, sotto il profilo psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani.

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi che, al contrario, riflettono il lasciapassare per poter partecipare alla vita sociale (Selye, 1973). Tutto questo col rischio di costruire la propria identità in funzione di un ritmo frenetico che sovente non ci appartiene, scivolando gradualmente in una spirale in cui il respiro, il battito cardiaco e la funzione intestinale non hanno altra scelta se non quella di adeguarsi, privandosi pian piano dei propri ritmi.

Un approccio neurobiologico dei ritmi circadiani

La struttura che genera e regola i ritmi circadiani è costituita da uno specifico sistema neuronale, il quale funge da vero e proprio orologio biologico. Quest’ultimo trova la sua collocazione in un piccolo gruppo di neuroni, circa 20.000, sopra il chiasma ottico nell’ipotalamo anteriore, chiamato nucleo soprachiasmatico (Buijs, 2016).

Questi neuroni sono organizzati in una fitta rete intrecciata tra due emisferi e sono peraltro dotati di una proprietà ritmica; infatti qualora vengano isolati dal cervello, continuerebbero ad oscillare e ad attivarsi in maniera autonoma. Quanto emerge è per l’appunto una proprietà intrinseca/autonoma che rispecchia un automatismo, garantito da un complesso ingranaggio di geni detti “clock” (Copinschi, Challet, 2016).

Un vero e proprio macchinario genetico presente in tutte le cellule che va a costituire e consolidare una rete di orologi periferici a loro volta influenzati e orientati dall’orologio centrale.

Al nucleo soprachiasmatico arriva un input dalla retina tramite una speciale via di collegamento, denominata tratto retino-ipotalamico, la quale non trasmette informazioni di natura visiva, ma risulta connessa ai ritmi circadiani stessi (Critchley, 2009). Inoltre dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Grazie a questa fitta rete di segnalazione il nucleo soprachiasmatico va a regolare il ritmo di funzioni fisiologiche cruciali, come la regolazione della temperatura corporea, degli assi neuroendocrini e del sistema neurovegetativo. Al tempo stesso giungono al sistema nervoso centrale informazioni dai nuclei ipotalamici, dall’epitalamo, dagli organi interni e dalle attività dell’organismo.

L’orologio centrale pertanto risulta dunque influenzato dal nostro ritmo genetico ma riflette una sincronizzazione correlata ad una serie di fattori interni ed esterni come la luce, il proprio comportamento alimentare, gli orari del sonno, la pressione arteriosa e infine le attività diurne e notturne (Qian, Scheer, 2016).

I nuclei soprachiasmatici producono centinaia di neuropeptidi a partire da 24 pro-ormoni, assieme alle citochine e ad alcuni neurotrasmettitori come il GABA, il glutammato e l’ossido nitrico.

Si determina così una mappatura dei principali neuropeptidi (Southey, Lee, Zamdbrorgù, 2014) in grado di coinvolgere i diversi livelli del nostro equilibrio psicosomatico: tra questi vi sono infatti il peptide intestinale vasoattivo VIP, l’arginina vasopressina AVP ed infine il peptide che rilascia la gastrina GRP.

 Come sopra accennato l’intestino, il cuore e i polmoni esercitano, sotto il profilo  psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani; nondimeno ciascuno di questi organi è costituito da un proprio ritmo biologico. Ad esempio il cuore presenta un ritmo in grado di evidenziarne la propria vulnerabilità intrinseca, infatti tra le 9 e le 11 del mattino quest’organo presenta la sua massima fluttuazione ritmica, che lo espone, come accennato, ad una maggiore vulnerabilità.

Si delinea così una cronobiologia di quegli organi che quotidianamente sono sottoposti ad uno stress di cui non sempre siamo consapevoli e che nondimeno innesca un contrasto tra i nostri ritmi interni all’organismo e le richieste esterne, relative alla dimensione familiare, lavorativa e sociale.

La fisiologia dello stress crono biologico

Come accennato in precedenza, dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Pertanto il concetto di benessere non può limitarsi ad una sola dimensione corporea e/o biologica, bensì comprende nel suo insieme l’intero organismo. Quest’ultimo infatti rispecchia il nostro stile di vita e soprattutto un tempo che troppo spesso evitiamo di accogliere, finendo così per sottovalutare quanto il corpo ci vuole comunicare. Quello che emerge è dunque un automatismo privo di quelle flessibilità ed elasticità che al contrario consentirebbero l’emergere di un nuovo modo di approcciarsi alle richieste esterne.

A tal riguardo infatti il paradigma dell’allostasi consente di vedere il concetto di stress come una richiesta da parte dell’organismo di riappropriarsi dei propri ritmi (Gaggioni, Maquet, Schmidt, 2014). Sotto stress per l’appunto l’organismo mette in atto modificazioni multi-sistemiche coordinate, fisiologiche e comportamentali, finalizzate al raggiungimento di un nuovo equilibrio, migliore rispetto al precedente, ciascuna delle quali produce delle modificazioni inerenti i vari distretti psicobiologici, con un’ulteriore ricaduta sui rispettivi ritmi crono biologici (McEwen, 2007).

A tal riguardo tuttavia la fase di adattamento presenta un costo, un prezzo vero e proprio da pagare, definito “carico allostatico” (Cannon, 1935), strettamente correlato ad una condizione di stress cronico e/o ripetuto. La ripetitività e la cronicizzazione derivanti da questo nuovo equilibrio provocano viceversa uno squilibrio fisiologico, determinando sia risposte meno adattive, sia una mancanza progressiva dell’elasticità (McEwen, 2000).

A lungo termine possono usurarsi gradualmente i sistemi di regolazione ed autoregolazione, con conseguenze negative sull’intero organismo.

Ad esempio uno stato protratto di ansia ed elevata vigilanza mantiene cronicamente accesa la risposta di arousal, (intensità dell’attivazione psicofisiologica di un organismo) sostenendo così il tono ortosimpatico e l’attività dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene (Wassing, Benjamins, Dekker, 2016).

Questo quadro può compromettere non solo il “nuovo stile di vita” dell’individuo, ma anche i ritmi crono biologici. Ad esempio livelli elevati e persistenti di cortisolo possono determinare disturbi a livello del sistema cardiovascolare, causando il rischio di ipertensione e aterosclerosi (Kanth, Ittaman, Rezkalla, 2013). Nondimeno insorgerebbe una vera e propria difficoltà nel sapersi adattare e rispondere a nuovi fattori stressanti (Sterling, 2012). L’omeostasi viene a configurarsi così in un panorama disfunzionale e disadattivo, nel quale rischiamo di creare la nostra nuova identità: quella del sacrifico, a favore di una maggiore riconoscenza sociale e lavorativa.

Riequilibrare i ritmi al fine di scoprire il proprio crono tipo

A seguito di quanto esposto è stato possibile considerare come i propri ritmi biologici rivestano un ruolo fondamentale per il nostro equilibrio psicosomatico (Hermida, Ayala, Smolensky, 2016).

L’orologio centrale deve quindi essere continuamente monitorato sia in rapporto ai fattori ambientali esterni, sia in rapporto a quelli interni e di natura intrapsichica. A tal riguardo infatti la suddivisione dei cosiddetti sincronizzatori consente una migliore comprensione circa le nostre rispettive interazioni.

Quelli esterni risultano di due tipi: primari e secondari. Se i primi sono circoscritti all’ambiente, quelli secondari invece si correlano al nostro modo di organizzare la nostra vita, sia individuale che sociale. Nondimeno quelli secondari ricoprono un ruolo più incisivo poiché sono direttamente proporzionali tanto alla qualità quanto alla quantità di sonno di ciascun soggetto e più nello specifico al tipo di lavoro svolto.

Perché se siamo in balia delle richieste e delle pressioni esterne, rischiamo di dimenticare ciò che ci caratterizza e che al contrario dovrebbe guidarci anche nel saper scegliere cosa è più giusto per noi: la nostra unicità.

 

La validazione italiana della COVID-19 Anxiety Syndrome Scale 

Mansueto et al. (2022) hanno effettuato una validazione preliminare della versione italiana della scala C-19ASS (creata per valutare le strategie di coping cognitivo-comportamentali in relazione al distress psicologico da COVID-19) e hanno esplorato se la C-19ASS avesse un ruolo di mediazione nella relazione tra i tratti della personalità riferiti al modello del Big-Five e gli outcome psicologici in un campione italiano.

 

Gli effetti della pandemia

 La pandemia da COVID 19 ha apportato un generale aumento di distress, tra cui ansia, preoccupazione, sintomi affettivi, disturbi dell’umore, oltre che sintomatologia post-traumatica, somatizzazioni e abuso di sostanze, come evidenziato da molteplici studi a livello globale. Tale aumento di distress psicologico e il peggioramento della salute mentale durante la pandemia è stato rilevato sia nella popolazione generale che in campioni di soggetti maggiormente fragili e vulnerabili, che includono gli operatori sanitari, i soggetti più anziani e i pazienti psichiatrici.

Parallelamente, le ricerche nell’ambito hanno evidenziato l’insorgenza di strategie di coping disfunzionali in risposta alla paura e al senso di minaccia legato alla pandemia da COVID-19, quali ad esempio comportamenti di evitamento, di controllo, rimuginio e costante monitoraggio dei possibili contesti rischio di contagio da COVID (es. costante verifica della presenza di sintomi COVID, attenzione alle persone che mostravano possibili sintomi del COVID) (Nikčevic et al., 2021; Nikčevic & Spada, 2020). Tali strategie di coping disfunzionali portano la persona a chiudersi in circoli viziosi caratterizzati da stati di minaccia e paura, evitamenti e controlli, compromettendo il ritorno a una normalità della routine quotidiana (Lee, 2020a; Nikčevic & Spada, 2020). Tale compromissione della quotidianità aumenta a sua volta il distress e i sintomi psicopatologici per l’individuo (Duffy & Allington, 2020; Lee, 2020a; Nikčevic & Spada, 2020).

A fronte di tali premesse, da una prospettiva clinica risulta importante avere a disposizione strumenti che consentano ai professionisti della salute mentale e ai ricercatori di valutare e comprendere con precisione a livello individuale la natura e il livello del distress psicologico relativo alla pandemia da COVID-19. Al tempo stesso, risulta necessario identificare attraverso strumenti standardizzati le strategie di coping disfunzionali potenzialmente attuate dalla persona.

La COVID-19 Anxiety Syndrome Scale (C-19ASS)

Già nel 2020, a seguito della prima ondata, Nikčevic e Spada  (2020) hanno sviluppato uno strumento self-report finalizzato a valutare nello specifico le strategie di coping cognitivo-comportamentali in relazione al distress psicologico da COVID-19, inteso come aumentato senso di paura e minaccia del virus. Gli autori hanno definito l’insieme di tali strategie disfunzionali come “COVID-19 anxiety syndrome” e hanno nominato la scala inglese per misurare tale costrutto COVID-19 Anxiety Syndrome Scale (C-19ASS).

La scala C-19ASS è costituita da due fattori:

  • la perseverazione (ad esempio, preoccuparsi di non aver aderito rigorosamente alle linee guida sul distanziamento sociale per il coronavirus, leggere costantemente notizie legate al coronavirus compromettendo l’impegno nel lavoro – ad esempio scrivere email, lavorare su documenti di testo o fogli di calcolo).
  • l’evitamento (ad esempio, evitamento di luoghi pubblici, mezzi di trasporto collettivi, e contatto con oggetti a causa della paura e del senso di minaccia per il COVID-19, Nikčevic & Spada, 2020).

La scala C-19ASS è stata validata dapprima su un campione americano e in seguito in UK (Albery et al., 2021) e in Iran (Akbari, Seydavi, et al., 2021), dimostrandosi uno strumento affidabile e utile per identificare le strategie di coping disfunzionali in tale ambito.

La validazione italiana della COVID-19 Anxiety Syndrome Scale

Entro tale cornice Mansueto et al. (2022) hanno effettuato una validazione preliminare della versione italiana della scala C-19ASS in un campione di popolazione di 271 soggetti, attraverso la valutazione della struttura fattoriale, della validità di costrutto, validità interna e concorrente. Inoltre, lo studio ha avuto l’obiettivo di esplorare se la C-19ASS avesse un ruolo di mediazione nella relazione tra i tratti della personalità riferiti al modello del Big-FIve e gli outcome psicologici in un campione italiano. Per tale obiettivo sono stati coinvolti 484 partecipanti cui sono stati somministrati diversi strumenti self-report, tra cui la versione italiana della C-19ASS e una serie di questionari che misurano l’ansia da COVID-19, la compromissione del funzionamento nella quotidianità, la depressione, l’ansia generalizzata, l’ipocondria; inoltre è stato somministrato Big-Five Inventory-10 (BFI-10; Rammstedt & John, 2007).

 I risultati dell’analisi fattoriale hanno confermato che la versione italiana della C-19ASS è composta da 9 items, divisi in due fattori che corrispondono a due sotto-scale, appunto il fattore “perseveranza” (sei items) e il fattore “evitamento” (3 items). La scala dimostra una buona coerenza interna, validità convergente e validità incrementale. Si comprova quindi uno strumento valido per l’assessment delle strategie di coping disfunzionali legate all’ansia da COVID-19 anche nella popolazione italiana.

Ulteriori analisi statistiche hanno poi evidenziato che il fattore Perseveration della scala C-19ASS media la relazione tra stabilità emotiva e sintomi di outcome a livello psicologico (depressione, ansia generalizzata e ipocondria).

Tale fattore risulterebbe quindi particolarmente critico e più deleterio, in termini di salute mentale rispetto al fattore evitamento, proprio per il fatto che assume una funzione di mediazione, in soggetti con maggiore instabilità emotiva. La presenza di strategie di coping disfunzionale di perseveranza nei soggetti che presentano elevata instabilità emotiva (per come misurata dal BIG5 Inventory-10) porta a peggiori esiti psicopatologici in termini di ansia generalizzata, ipocondria e depressione.

Riguardo alla correlazione tra gli altri fattori di personalità del Big-Five e i sintomi psicopatologici i dati del presente studio confermano le evidenze già presenti in letteratura, ovvero che il fattore coscienziosità rappresenta un fattore protettivo per la depressione e per l’ansia generalizzata ( Koorevaar et al., 2017), mentre l’estroversione lo sarebbe per la depressione (Akbari, Seydavi, et al., 2021; Lyon et al., 2021; Koorevaar et al., 2017). Come già accennato sopra, la stabilità emotiva sarebbe un fattore protettivo per l’ansia generalizzata, l’ipocondria e la depressione (Akbari, Seydavi, et al., 2021; Jylhä & Isometsä, 2006; Nikčevic et al., 2021).

Inoltre, dalle analisi statistiche sono emerse differenze di genere riguardo la scala C-19ASS: I soggetti di genere femminile presentavano punteggi significativamente maggiori nella sottoscala Perseveration della C-19ASS rispetto ai soggetti di genere maschile. Tale risultato è coerente con i dati relativi al campione Iraniano (Akbari, Seydavi, et al., 2021).

Considerazioni conclusive

In conclusione, la versione italiana della C-19ASS si configura come uno strumento valido, affidabile e riconosciuto in letteratura per la valutazione della sindrome d’ansia da COVID-19 e delle strategie di coping disfunzionali ad essa correlate anche in ambito clinico per valutare e quindi intervenire precocemente sugli esiti psicopatologici legati alla pandemia.

 

Benessere psicologico: pensare al futuro, tra guerra e pandemia

La teoria del benessere psicologico propone che esso dipenda dall’esperienza precoce e dalla personalità sottostante, ma le esperienze quotidiane, se sono positive possono aiutare a mantenere un buon livello di benessere psicologico, se sono negative, invece, ne riducono i livelli, portando a scarsi risultati di salute.

 

 Sono numerosi gli studi condotti sul “benessere psicologico (PWB)”, da poter affermare che a garantire una vita equilibrata non sono solo le condizioni di salute, il reddito e lo status sociale, ma soprattutto gli indicatori soggettivi del benessere, ovvero valutazioni che gli individui stessi esprimono sulla percezione del proprio stato di salute, sul grado di soddisfazione espresso per quanto riguarda i risultati conseguiti e le prospettive future (Biswas-Diener et al., 2001).

Le componenti edonica ed eudaimonica del benessere psicologico

A tal proposito si possono distinguere due aspetti importanti del benessere psicologico.

Il primo, è il “benessere edonico”, basato sul concetto che la felicità scaturisca dalla soddisfazione personale e dalla massimizzazione del piacere. Questo aspetto del benessere psicologico viene definito come benessere soggettivo (Diener, 2000) e viene considerato il principale indice di valutazione per la felicità umana, attraverso la valutazione di tre fattori fondamentali: presenza di emozioni positive, assenza di emozioni negative e massima soddisfazione nella vita (De Vivo & Lumera, 2020). Il benessere edonico è costituito da due componenti: una affettiva (alto= affetto positivo e basso= affetto negativo) e l’altra cognitiva (soddisfazione per la vita). Ne deriva, che elevati livelli di affetto positivo e soddisfazione per la vita provochino felicità (Carruthers & Hood, 2004).

Oltre al benessere edonico, esiste anche il “benessere eudaimonico” che intende la felicità come realizzazione del proprio autentico potenziale come essere umano (De Vivo & Lumera, 2020).

Il filone della felicità eudaimonica si è affermata grazie agli studi di Ryff e Singer (1998, 2000, 2004) che hanno introdotto un approccio multidimensionale costituito da sei tipi di benessere psicologico: auto-accettazione (che riflette l’atteggiamento positivo dell’intervistato nei confronti di sé stesso), padronanza ambientale (che indica che la persona fa un uso efficace delle opportunità e ha un senso di padronanza nella gestione dei fattori e delle attività ambientali, inclusa la gestione degli affari quotidiani e creare situazioni a beneficio dei bisogni personali), relazioni positive con gli altri (che riflette l’impegno della persona in relazioni significative con gli altri che includono empatia reciproca, intimità e affetto), crescita personale (che indica che la persona accoglie nuove esperienze e riconosce il miglioramento del comportamento e di sé nel tempo), scopo nella vita (che riflette il forte orientamento all’obiettivo e la convinzione della persona che la vita abbia un significato) e autonomia (che riflette il forte orientamento all’obiettivo e la convinzione della persona che la vita abbia un significato). Attraverso questo diverso approccio c’è stato uno spostamento di attenzione da un benessere inteso come ricerca di piacere ad un concetto di felicità intesa in senso più ampio, quindi sia come sviluppo delle potenzialità individuali, che come integrazione nella società (Ryff e Singer 1998, 2000, 2002, 2004).

Benessere psicologico e stile di vita

Le teorie del benessere psicologico generalmente si concentrano sulla comprensione della sua stessa struttura e delle dinamiche (cioè le cause e le conseguenze della Psychological Well-being, PWB). Inoltre, la scomposizione del benessere psicologico in componente edonica ed eudaimonica ed il modello di Carol Ryff sono teorie ampiamente accettate sulla struttura del benessere psicologico. Il benessere psicologico è relativamente stabile e viene influenzato sia dalle esperienze precedenti (inclusa, ad esempio, l’educazione precoce) che dalla personalità sottostante.

Da diversi studi è emerso che il nostro stile di vita conta molto più della genetica nel determinare lo stato di salute complessivo. Lo confermano “i telomeri”, particolari molecole del nostro organismo, in grado di dirci se siamo maggiormente predisposti a sviluppare una determinata malattia o meno, in quanto svolgono il fondamentale ruolo di “sentinelle della nostra salute”. La scienza considera l’accorciamento dei telomeri come un vero e proprio orologio biologico che determina la durata della vita di una cellula e dunque dell’organismo corrispondente. Questo accorciamento non è dovuto solo ad un processo di crescita naturale, ma è accelerato anche da stili di vita inadeguati e particolari condizioni psicologiche che creano le premesse per la comparsa di malattie e l’invecchiamento precoce. In particolare, lo stress viene considerato uno dei più grandi nemici dei telomeri (De Vivo & Lumera, 2020).

Le persone che vivono esperienze stressanti hanno maggiori probabilità di essere predisposte a disturbi dell’umore e d’ansia (Gladstone, Parker e Mitchell, 2004). Allo stesso tempo, però l’esposizione ad eventi estremamente traumatici può aiutare allo sviluppo della resilienza, proteggendo il benessere psicologico. È stato infatti osservato che personalità più forti e resilienti sono associate a telomeri più lunghi e che l’esposizione ad eventi estremamente traumatici può contribuire alla costruzione della resilienza e dunque alla protezione del benessere psicologico (De Vivo & Lumera, 2020).

Ad esempio, i bambini esposti a eventi moderatamente stressanti sembrano in grado di affrontare meglio i successivi fattori di stress (Khobasa & Maddi, 1999). Lo stesso impatto “inoculante” di eventi stressanti è stato osservato anche negli adulti che lavorano (Soloman, Berger e Ginsberg, 2007).

 Vi sono diverse prove che dimostrano che l’esposizione a lunghi periodi caratterizzati da stress legati al lavoro avrà un impatto negativo sul benessere psicologico. Quindi, mentre brevi periodi di avversità sono utili per lo sviluppo della resilienza, lo stress a lungo termine non contribuisce a mantenere il benessere psicologico dell’individuo, portando allo sviluppo di malattie cardiovascolari, problemi con il controllo della glicemia (es. diabete) e malfunzionamento del sistema immunitario (Chandola et al, 2008).

In sintesi, la teoria del benessere psicologico propone che esso dipenda dall’esperienza precoce e dalla personalità sottostante, ma le esperienze quotidiane, se sono positive possono aiutare a mantenere un buon livello di benessere psicologico, se sono negative, invece, riducono i livelli di benessere psicologico, portando a scarsi risultati di salute.

Il benessere psicologico nella società odierna

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Di conseguenza, la salute sia fisica che mentale è data da fattori biologici, sociali e psicologici che possono influenzare in maniera negativa la qualità di vita degli individui. Diversi avvenimenti accaduti negli ultimi anni (es. guerre, crisi economiche, pandemie etc.), hanno influito sulla qualità della vita e sulla capacità delle persone, soprattutto in età adolescenziale, di riuscire a “pensare al futuro” in modo positivo, con conseguente aumento di situazioni patologiche quali ad esempio stati depressivi, ansia, suicidi, etc.

“Pensare al futuro” è una fondamentale caratteristica cognitiva umana che supporta gli individui nella visione di sé stessi (es., Ricci Bitti, P. E., & Zambianchi, M., 2012). Il pensiero futuro cambia nel corso dello sviluppo poiché fantasia e creatività occupano un ruolo di primo piano nel modellare quest’attività durante l’infanzia, mentre nell’età adulta avviene la pianificazione della vita familiare e professionale. Il pensiero futuro gioca un ruolo particolarmente importante nell’adolescenza, in quanto basato sulle rappresentazioni della realtà e costituisce la componente alla base della struttura dell’identità psicologica che agevola in modo progressivo la transizione verso l’età adulta, in cui gli adolescenti si trovano ad integrare i loro pensieri sul futuro con il loro presente, fissare obiettivi e decisioni che andranno ad influenzare le opportunità successive di vita. Un fallimento in questa fase dello sviluppo corrisponde ad un fattore di rischio significativo per l’abbandono scolastico, la delinquenza e gli esiti negativi della salute mentale. Sebbene i fattori individuali e le determinanti familiari vadano ad influenzare il pensiero futuro degli adolescenti, le contingenze epocali svolgono un ruolo molto importante nel modellare il modo in cui vengono visti gli scenari sociali futuri e i potenziali relativi risultati individuali.

A questo proposito, la visione del futuro degli adolescenti contemporanei a livello globale è apparsa come piuttosto cupa ed incerta.

In prima istanza basti pensare agli effetti della crisi socioeconomica iniziata nel 2008, in cui il Paese, incapace di crescere, alternando periodi di stagnazione e recessione economica, ha affrontato un lungo periodo d’impoverimento. Gli adolescenti che aspirano per il loro futuro ad un miglioramento economico rispetto alle generazioni precedenti e all’affermazione di un ruolo di successo all’interno della società appaiono scoraggiati rispetto al passato poiché nel corso degli ultimi anni questa prospettiva ha ricevuto un duro colpo. L’infrangersi di queste aspirazioni nella rappresentazione di una realtà deludente ha portato ad una visione più pessimistica del futuro, con evidenti ripercussioni sulla salute mentale. In seconda istanza, ad aggravare tale visione pessimistica, ci sono i cambiamenti climatici, percepiti come una minaccia sempre più imminente con conseguenti eventi meteorologici catastrofici e effetti del riscaldamento globale su ghiacciai, raccolti e zone costiere, oggi fenomeni evidenti e iniziative mondiali come Youth for Climate e Fridays for Future confermano quanto i giovani siano consapevoli del problema ambientale. In terza istanza la pandemia da Covid-19 e le sue conseguenze come il lockdown e le successive chiusure scolastiche, hanno esposto gli adolescenti ad uno stress i cui effetti a lunga durata sull’attività mentale sono segnalati sempre di più a livello globale. Inoltre, il conflitto attualmente in corso in Ucraina, ha infranto la progressiva illusione che dopo la prima e la Seconda guerra mondiale il mondo occidentale fosse in qualche modo immune all’opzione della guerra come mezzo per risolvere le varie controversie, nonostante dopo la Seconda guerra mondiale le guerre in tutto il mondo non siano mai cessate. Inoltre, sono di fondamentale importanza anche i potenziali effetti traumatogeni di tali situazioni che sono amplificati dalla continua esposizione mediatica alla violenza e alla disperazione di questi contesti. È fondamentale il ruolo degli eventi per immaginare e plasmare gli scenari del proprio futuro. Ognuno di questi eventi ha generato un particolare fattore di rischio e il loro effetto cumulativo sulla salute mentale si prospetta come ancora più grave, soprattutto in termini di aumento delle manifestazioni psicopatologiche e impatto transgenerazionale (Paredes et al., 2021).

In conclusione, negli ultimi 15 anni, diversi fenomeni a livello globale hanno influito sul pensiero futuro della società, inducendo una visione pessimistica particolarmente atroce per le persone ed in modo particolare per gli adolescenti che, trovandosi in una fase di sviluppo delicata, sono maggiormente influenzati da tale visione futura rispetto a bambini e adulti.

 

Mindful eating on the go (2022) a cura di Paola Iaccarino Idelson – Recensione

Nel testo “Mindful eating on the go” l’autrice affronta la tematica del Mindful Eating, ovvero dell’atteggiamento di consapevolezza da adottare durante i pasti.

 

 Si tratta di togliere il “pilota automatico” ed essere coscientemente presenti, in un’attività che ci impegna almeno tre volte al giorno, bere e/o mangiare.

Il libro contiene diversi esercizi, e per ciascuno è possibile scaricare la relativa traccia audio: per ognuno di essi vengono approfondite le scoperte che sarà possibile compiere, supportate da studi scientifici.

“Mindful Eating on the go” si presta ad essere un libro tascabile, da portare sempre con sé e, di volta in volta, è possibile scegliere un esercizio da fare o, di contro, lo si può leggere tutto d’un fiato.

Alimentarsi è una delle attività più piacevoli per l’uomo, eppure, a volte, essa diviene fonte di sofferenza, risposta automatica al nervosismo, all’agitazione, all’ansia, capro espiatorio del nostro disagio, ed allora si finisce per mangiare al fine di riempire un vuoto emotivo.

Praticare il Mindful Eating conduce a prestare attivamente attenzione a ciò che accade sia dentro di noi, nel corpo, nella mente e nel cuore, sia fuori di noi, nell’ambiente circostante, mentre mangiamo, adottando un atteggiamento non giudicante.

L’autrice illustra le Nove Fami, al fine di raggiungere la consapevolezza di come l’alimentazione sia un’esperienza multisensoriale:

  • Fame degli occhi
  • Fame del tatto
  • Fame delle orecchie
  • Fame del naso
  • Fame della bocca
  • Fame dello stomaco
  • Fame cellulare (fame del corpo)
  • Fame della mente
  • Fame del cuore

Inizialmente è utile allenarsi nel riconoscimento di ciascuna delle nove fami, approcciandosi all’alimento in maniera consapevole, osservandone la consistenza, annusandone l’aroma, ascoltando il rumore che emette, rievocando le emozioni a cui è legato; successivamente sarà possibile mangiare in maniera Mindful ed interrogare ciascuna parte del corpo per capire chi ha fame dentro di noi.

È come un conducente di autobus con nove passeggeri indisciplinati. Ogni passeggero ti dice come guidare (più veloce, più lento) e dove andare (vai al centro commerciale; no, portami a casa). Il conducente dell’autobus non può reagire a tutti questi input emotivamente. Deve ascoltare, soppesare quello che ogni passeggero reclama, e poi prendere una decisione.

Esercitandoci nel Mindful Eating, impareremo ad ascoltare maggiormente i segnali del corpo e a fermarci quando siamo sazi, o anche prima, considerando che il senso di sazietà arriva dopo venti minuti che abbiamo iniziato a mangiare: capita spesso che quando si va a mangiare al ristorante si è sazi dopo la prima o seconda portata, eppure spesso non si resiste ad ordinare il dolce; mentre il nostro stomaco ci implora di fermarci perché avrà tanto lavoro da fare, i nostri occhi, la nostra bocca implorano il tiramisù, la cheesecake o il semifreddo.

 Il segreto del Mindful Eating è rallentare. Del resto, non c’è nulla di nuovo da imparare per mangiare in maniera presente, dal momento in cui anche i bambini sanno farlo; è il retaggio culturale che spinge, negli anni successivi, a finire tutto ciò che è presente nel piatto.

Esercizi interessanti e coinvolgenti sono ad esempio, il mangiare con la mano non dominante, apparecchiare la tavola come in presenza di ospiti, dove l’ospite siamo noi, assaggiare un frutto sconosciuto: occorre riacquisire lo stupore di chi si approccia al cibo per la prima volta, come uno scienziato curioso:

Nel mindful eating, tu sei contemporaneamente uno scienziato, una cavia da sperimentazione e un laboratorio. Mentre la cavia mangia (tu), lo scienziato curioso (tu) osserva e prende nota di ciò che accade nel corpo, nel cuore e nella mente (il laboratorio).

Centrale è l’atteggiamento di gratitudine: prima di assaporare un determinato cibo possiamo interrogarci su come sia arrivato sulla nostra tavola, quante persone, mani, animali, ci hanno lavorato, per generare quell’alimento.

Dopo esserci allenati in solitaria, potremo praticare il Mindful Eating in compagnia.

L’effetto della sensibilità al rifiuto sulla paura dell’intimità nei giovani adulti

Giovazolias e Paschalidi (2022) hanno ipotizzato che la sensibilità al rifiuto fosse associata alla paura dell’intimità attraverso la mediazione dell’ansia interpersonale nelle relazioni intime.

 

 L’intimità è definita dai “sentimenti di vicinanza, connessione e legame nelle relazioni d’amore” (Sternberg, 1997, p. 315) ed è un elemento importante delle relazioni strette. È stato rilevato che influisce sulla qualità delle relazioni, sulla soddisfazione relazionale e sul benessere (Thelen et al., 2000; Weisskirch, 2018).

Le ricerche esistenti sottolineano l’importanza delle relazioni nell’età adulta emergente per il benessere di tutta la vita (ad es., Desjardins & Leadbeater, 2017; Rohner, 2008). Sembra che durante la prima età adulta le relazioni possano avere un impatto maggiore sull’adattamento psicosociale rispetto alle esperienze parentali ricordate, poiché i bisogni di attaccamento tendono a essere trasferiti dalla famiglia ai partner romantici e ai coetanei (Arnett, 2000; Dykas & Siskind, 2018).

Paura dell’intimità, stile di attaccamento e sensibilità al rifiuto

Un fattore significativo che sembra costituire un ostacolo alla formazione di relazioni sentimentali è la paura dell’intimità che si riferisce alla “capacità inibita di un individuo di scambiare pensieri e sentimenti di significato personale con un altro individuo molto apprezzato” (Descutner & Thelen, 1991, p. 219). Ricerche e teorie precedenti si sono concentrate sull’effetto delle prime relazioni di attaccamento sulla capacità di creare relazioni romantiche intime in età adulta (Phillips et al., 2013). I modelli di attaccamento insicuri che si sono sviluppati fin dalla prima infanzia possono portare a diverse difficoltà nel processo di intimità. In particolare, secondo Bartholomew (1990), le persone con un’elevata paura dell’intimità cercano l’intimità ma non hanno le competenze adeguate per raggiungerla, oppure negano il bisogno stesso di relazioni intime.

Un altro costrutto importante in questi processi è la sensibilità al rifiuto introdotto da Downey e Feldman (1996). Secondo il loro modello teorico, le esperienze di rifiuto sistematico interpersonale e (soprattutto) parentale nell’infanzia possono portare a una maggiore sensibilità nell’esperienza del rifiuto. Le persone altamente sensibili al rifiuto tendono ad avere aspettative, percezioni e reazioni più intense alle esperienze di rifiuto (Downey & Feldman, 1996).

Le aspettative di rifiuto sembrano attivarsi in circostanze in cui c’è una maggiore probabilità di una risposta emotiva negativa, come ad esempio il processo di intimità (Zimmer-Gembeck, 2015).

Secondo Montgomery (2005), i giovani adulti che evitano l’intimità cercano di proteggersi dalla possibile esposizione al rifiuto. Si potrebbe per cui pensare che la sensibilità al rifiuto possa portare a un desiderio e a una capacità inibiti di relazioni intime nell’età adulta emergente.

La teoria e la ricerca, inoltre, indicano che l’esperienza del rifiuto, reale o percepito, è legata a un aumento dell’ansia e del disagio interpersonale (Preti et al., 2018). L’ansia interpersonale è definita come una paura diffusa nei contesti relazionali, attivata da stimoli relazionali (Rohner, 2008). L’ansia relazionale è anche legata alla tendenza al ritiro da contesti sociali significativi per lo sviluppo, come il processo di intimità (Shulman & Connolly, 2013).

Sensibilità al rifiuto e paura dell’intimità

Giovazolias e Paschalidi (2022) hanno per cui ipotizzato che la sensibilità al rifiuto fosse associata alla paura dell’intimità attraverso la mediazione dell’ansia interpersonale nelle relazioni intime.

 I risultati del loro studio hanno rilevato che le donne mostrano una maggiore sensibilità al rifiuto e ansia interpersonale rispetto agli uomini, mentre per quanto riguarda la paura dell’intimità questi hanno riportato punteggi più alti delle donne. Questo risultato può essere compreso attraverso il ruolo di genere orientato alla relazione delle donne, che può motivarle a sperimentare l’intimità in misura maggiore rispetto agli uomini (North & Fiske, 2014).

La sensibilità al rifiuto sembra influire sullo sviluppo della paura dell’intimità. Questo risultato conferma l’ipotesi teorica che la paura dell’intimità sia il risultato di rappresentazioni disfunzionali che si sono sviluppate nell’ambito del rifiuto percepito (Cash et al., 2004). L’aspettativa di rifiuto e la ricezione di stimoli di rifiuto potrebbero inibire la capacità di sviluppare relazioni interpersonali intime e strette (Norona et al., 2016).

Un’altra ipotesi confermata nello studio è che l’ansia interpersonale agisce come mediatrice nella relazione tra sensibilità al rifiuto e paura dell’intimità. Questo risultato ha una duplice importanza: da un lato, suggerisce che la presenza di un’elevata sensibilità al rifiuto può prevalere sulla presenza di ansia interpersonale nelle relazioni; dall’altro, propone un modo attraverso il quale essa può portare a un aumento della paura dell’intimità. Infatti, l’ansia interpersonale può portare alla paura dell’intimità, poiché è stato dimostrato che gli individui con un’elevata ansia interpersonale rispondono alle condizioni sociali con pensieri più negativi e adottando comportamenti evitanti nelle relazioni (Afram & Kashdan, 2015).

Per quanto riguarda invece il ricordo del rifiuto paterno e materno, preso in considerazione nelle analisi, non sono state osservate differenze di genere. L’ipotesi che l’accettazione ricordata dai genitori avrebbe moderato le relazioni tra sensibilità al rifiuto, ansia relazionale e paura dell’intimità è stata parzialmente confermata. In particolare, l’analisi di mediazione moderata ha mostrato che l’accettazione materna ricordata può inibire lo sviluppo della paura dell’intimità nei giovani adulti con un’alta sensibilità al rifiuto e un’elevata ansia interpersonale.

L’effetto moderatore dell’accettazione materna sullo sviluppo della paura dell’intimità denota l’esistenza di fattori protettivi specifici che possono ridurre gli effetti collaterali delle rappresentazioni mentali disfunzionali relative al rifiuto. Inoltre, sembrerebbe indicare il ruolo differenziale di ciascun genitore negli obiettivi relazionali (Desjardins & Leadbeater, 2017).

Questo risultato probabilmente riflette in parte il forte ruolo della figura materna nelle famiglie patriarcali. Secondo Georgas et al. (2006), la madre nella famiglia patriarcale possiede il ruolo espressivo, ovvero il sostegno emotivo e la cura dei membri della famiglia. Ricerche pertinenti hanno mostrato che, nelle società patriarcali (come quella greca), l’accettazione materna ricordata può influenzare l’adattamento psicosociale più dell’accettazione paterna ricordata, forse perché le madri sono quelle più attivamente coinvolte nella cura e nella crescita dei figli (Sultana & Khaleque, 2016).

In ogni caso, questo risultato conferma la posizione teorica secondo la quale l’accettazione dei genitori è legata a un migliore adattamento interpersonale (Rohner, 2008). Conferma, inoltre, che la qualità della relazione materna è cruciale per la capacità di esprimere l’intimità (Alperin, 2006; Rohner et al., 2019).

Giornata Nazionale della Psicologia 2022 – Comunicato stampa

In occasione della Giornata nazionale della psicologia 2022, lunedì 10 ottobre alla Casa della Psicologia, a Milano, l’Ordine degli Psicologi della Lombardia promuove un evento dedicato al tema: “I percorsi della resilienza nella sanità lombarda. Dalla psicologia delle cure primarie alle case di comunità”. Con la Presidente dell’Ordine, Laura Parolin, intervengono politici regionali e comunali, docenti e psicologi.

   Milano, 6 ottobre 2022 – Comunicato Stampa

 

 Non c’è salute senza salute mentale. Dalla pandemia si parla molto di resilienza, e persino il PNRR si richiama a questo concetto; un termine che in psicologia indica la capacità di superare un evento traumatico o, più in generale, di affrontare efficacemente un periodo di difficoltà e le sfide della vita.

In un mondo sempre più complesso, dove le situazioni problematiche e le emergenze si moltiplicano, la promozione della resilienza diviene un obiettivo di primaria importanza; non solo a livello di singole persone ma di gruppi, organizzazioni e comunità, perché la resilienza può essere declinata e sviluppata a livello individuale e collettivo.

Al tema della resilienza è dedicata la Giornata Nazionale della Psicologia, in occasione della quale, lunedì 10 ottobre l’Ordine degli psicologi della Lombardia (Opl) ha promosso un evento presso la Casa della psicologia di Milano, in piazza Castello, 2, dal titolo: “I percorsi della resilienza nella sanità lombarda. Dalla psicologia delle cure primarie alle case di comunità”.

L’evento sarà trasmesso anche online su Gotowebinar. Oltre alla Presidente Opl, Laura Parolin, interverranno l’assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti e l’assessore al Welfare e salute del Comune di Milano, Lamberto Bertolè. Con loro ci saranno vari esponenti regionali, docenti e psicologi: Niccolò Carretta, Simona Tironi, Maria Francesca Freda, Ovidio Brignoli, Paola Pedrini, Elena Vegni.

 Migliorare le risorse psicologiche è fondamentale per lo sviluppo della resilienza, per consentire alle persone di avere atteggiamenti e comportamenti costruttivi ed efficaci nelle diverse situazioni, al fine di sviluppare equilibri adattivi positivi e ricostruirli quando necessario. Promuovere la resilienza è quindi una strategia di primaria importanza per la qualità della vita e la salute dei cittadini ma anche per la tutela e la promozione del capitale umano, lo sviluppo e la performance del Paese.

Ecco perché la Giornata Nazionale della Psicologia 2022, promossa dal Consiglio Nazionale Ordine Psicologi e dalla Comunità professionale psicologica vuole quest’anno sottolineare ed approfondire il tema della promozione della resilienza e dei percorsi umani e professionali per il suo sviluppo.

Il momento storico che stiamo vivendo -dichiara Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia- rappresenta un’opportunità per la nostra categoria professionale, quella di una sanità territoriale sempre più sensibile ai bisogni delle cittadine e dei cittadini. Una sanità presente e in ascolto, a tutela della salute psicologica. In questo senso, l’evento che abbiamo organizzato vuole dare voce a quella che credo sia la migliore espressione di questa Giornata Nazionale della Psicologia: quella di una categoria professionale integrata nelle Comunità, che mette a disposizione i suoi strumenti per la prevenzione e l’intervento di sostegno.

Dall’assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti arriva un plauso agli psicologi “per essersi messi generosamente a disposizione della popolazione, dei malati, dei loro familiari, dei giovani e anche degli operatori sanitari”.

La nostra Regione -dichiara Letizia Moratti- ha mostrato di essere resiliente in un momento molto drammatico: eravamo il primo territorio di un Paese occidentale colpito così duramente. Ma la resilienza non è acquisita per sempre, va coltivata e il ruolo degli psicologi è fondamentale: essi, combattendo lo stigma e il pregiudizio che ancora connotano il disagio psichico, possono aiutarci a convincere le persone a chiedere aiuto in modo precoce e tempestivo, spiegando che non bisogna mai vergognarsi di essere in difficoltà e che qualsiasi problema può essere affrontato con fiducia e ottimismo.

Infine, come ricorda l’assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano, Lamberto Bertolé:

La pandemia è stata uno shock, ma anche un’opportunità per comprendere quanto il benessere psicologico e mentale influisce sulla nostra vita e la condiziona. Il nostro compito è capitalizzare la grande attenzione che si è creata intorno a questo tema e lavorare perché si traduca in un cambiamento concreto del nostro sistema sanitario che conferisca alla salute mentale e a quella fisica pari dignità, sfruttando le possibilità che i nuovi strumenti – PNRR e Case di comunità in primis – ci mettono a disposizione.

 

Digital agency e ruolo degli adulti in adolescenza – Psicologia Digitale

Rientrano nell’espressione di agentività digitale tutti quei comportamenti in cui, in modo autonomo e deliberato, si agisce nel mondo digitale in base ad uno scopo autodeterminato. Insomma in parole povere: quando sentiamo di avere il controllo dei mezzi che stiamo utilizzando.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 32) Digital agency e ruolo degli adulti in adolescenza

 

 Essere una figura di riferimento oggi per gli adolescenti vuol dire trasmettere non solo messaggi educativi chiari ma anche fornirgli senso critico e capacità di giudizio.

Genitori, insegnanti, educatori: a loro spetta un compito davvero molto arduo. Accompagnare nel percorso di crescita i giovani è un lavoro complesso che deve adeguarsi all’epoca storica, al contesto socioculturale, alle specificità del gruppo e del singolo.

Richiede quindi di per sé un approccio dinamico e al passo coi tempi. Ma cosa fare quando i tempi corrono davvero veloci e i mezzi a disposizione dei ragazzi evolvono rapidamente?

Per esempio, il social che va di moda oggi tra gli adolescenti potrebbe non esserlo più in un anno o due; potrebbe nascere una nuova app, sito, modalità di scambio che ora non concepiamo neppure. È questa dinamicità uno dei grandi pregi di questa epoca digitale ma, al contempo, è anche uno dei principali fattori di incertezza e in alcuni casi addirittura di rischio: come fare a dare ai più piccoli gli strumenti adatti a gestire e gestirsi in questa moltitudine di stimoli?

L’alfabetizzazione digitale

Non è quindi sostenibile pensare di poter ‘insegnare’ ad usare uno specifico social e risolvere così questo problema (Nesi et al., 2020). Un approccio ‘classico’ è quello di dare delle specifiche direttive su cosa va fatto e cosa no: non condividere informazioni personali con persone che non conosci realmente; rifletti prima di pubblicare un contenuto, soprattutto se personale; non usare dispositivi in certe circostanze o orari; rimani connesso per un massimo di ore al giorno e via dicendo.

Questo non è errato e certamente è un primo, fondamentale passo. In famiglia, a scuola, nei luoghi di ritrovo con adulti che dettano confini utili con empatia e partecipazione: educazione e alfabetizzazione digitale sono importanti ma non bastano.

I messaggi che vengono trasmessi ai ragazzi in maniera esplicita (del tipo di fare o non fare una tale cosa) sono messaggi generici che non sono sempre applicabili.

Utili, corretti, validi, ma non sufficienti perché non flessibili abbastanza di fronte a sfide sempre nuove.

La chiave è non dare solo regole ed indicazioni ma fornire e sostenere la loro autonomia attraverso lo sviluppo di senso critico, capacità di giudizio e agentività.

L’agentività digitale

L’agentività si riferisce al sentirsi agenti attivi, sentire che le proprie intenzioni ed azioni possono avere un impatto. Che si tratti del singolo o di un gruppo, l’intenzionalità e la convinzione di poter avere un impatto sugli eventi sono la base di questo concetto teorizzato da Bandura (1982; 2017). Sentirsi in grado di poter influenzare attivamente contesto ed eventi a sua volta incide sul comportamento che sarà più o meno proattivo appunto perché si può poggiare o meno sulla fiducia nella propria capacità di influire su quello che accade. Così, al contrario, sentire di non avere un controllo sugli eventi incide negativamente sul comportamento che sarà allora più passivo e meno reattivo.

Come applicare questi concetti alla vita digitale?

L’espressione dell’agentività digitale negli adolescenti

L’agentività digitale o digital agency indica questo sentirsi agenti attivi online dove si esprime la propria intenzionalità sul contesto digitale.

Quali sono i comportamenti in cui gli adolescenti manifestano la loro agentività digitale?

Online gli adolescenti possono soddisfare e sperimentare dei bisogni tipici della loro fase di sviluppo: espressione di sé e dei propri interessi e valori, connessione con i coetanei e scoperta del mondo esterno.

La sfida si presenta quando ci si scontra con situazioni in cui tutto questo non dipende solo da se stessi oppure è necessario mediare tra i propri bisogni e quelli altrui. Per esempio quando un contatto pubblica una foto o un video senza autorizzazione; quando le impostazioni della privacy di una app non soddisfano i nostri bisogni di sicurezza, ecc.

Questi sono solo alcuni esempi di situazioni potenzialmente critiche.

Dati interessanti emergono dalla ricerca di Weinstein e James (2022) in cui i partecipanti hanno descritto alcune delle loro abitudini digitali, come ad esempio l’importanza della personalizzazione: del feed, decidendo a quali tipologie di contenuti esporsi; delle notifiche; delle tempistiche (se e quando mettere da parte lo smartphone); verificare post e video prima che vengano pubblicati; impostare filtri per la privacy; condividere o meno la posizione; gli esempi possono essere infiniti.

Rientrano nell’espressione di agentività digitale tutti quei comportamenti in cui, in modo autonomo e deliberato, si agisce nel mondo digitale in base ad uno scopo autodeterminato. Insomma in parole povere: quando sentiamo di avere il controllo dei mezzi che stiamo utilizzando.

Il ruolo degli adulti per costruire sane abitudini digitali

Quando si tratta dei più giovani la cosa più ovvia che viene in mente è che la responsabilità educativa ricade sugli adulti che fanno parte della loro vita quotidiana. In tal senso, sono proprio queste le figure cui fanno riferimento: genitori, insegnanti, educatori sono quelli che prendono decisioni che hanno un impatto sulla vita digitale dei ragazzi, come consentire o limitare l’uso dei dispositivi.

Riconoscere il loro ruolo crea le condizioni per stabilire delle strategie che possono aiutare a supportare la costruzione di un buon senso critico da parte degli adolescenti (Weinstein e James, 2022).

Questo può voler dire tante cose. Piuttosto che focalizzarsi sulla quantità di tempo speso online e porre limitazioni su questo, è più utile concentrarsi su ciò che l’adolescente fa durante questo tempo, esplorare quali sono le motivazioni e gli scopi che guidano le sue azioni, quali sono i suoi obiettivi e cosa gli fa bene e cosa meno; anticipare e discutere diversi scenari in cui potrebbe trovarsi, scenari ambigui, complessi, che possono essere fonte di stress.

Un dialogo aperto e sincero aiuta a diminuire l’ansia, promuove abilità comunicative, fa sentire agenti attivi e dà le basi per sviluppare autonomia.

Di pari passo con la crescita varia il livello di sostegno ed il grado di autonomia di cui i ragazzi hanno bisogno: se per i più piccoli è importante avere delle regole e dei limiti con una supervisione diretta, per i più grandi si può pensare ad un tutoraggio sempre meno legato alle regole in favore di dialogo e spazio per l’esplorazione.

In generale, è auspicabile che ci siano riflessioni a più livelli circa la funzione degli adulti: a loro spetta un ruolo che da un lato tuteli e dall’altro favorisca lo sviluppo di sane abitudini digitali.

 

Il mismatch evoluzionistico: quando biologia e cultura fanno a botte

Il contesto in cui viviamo si è modificato più velocemente di quanto possa aver fatto la nostra biologia, attraverso la selezione naturale; l’esito di tale discrepanza, definito mismatch evoluzionistico (o “ritardo del genoma”) ha reso il mondo in cui viviamo non sempre così “comodo” per le nostre caratteristiche consolidatesi nel corso dell’evoluzione.

 

Tendenze antiche, effetti moderni

Quando facciamo psicoeducazione con i nostri pazienti, spesso spieghiamo loro che le emozioni che provano non sono patologiche ma funzionali. La paura, ad esempio, serve a difendersi dai pericoli e a rimanere quindi in vita.

Se fosse davvero così, però, dovremmo temere ciò che davvero ci uccide: considerato che la principale causa di morte nei paesi industrializzati sono le cardiopatie, favorite da abitudini disfunzionali come la sedentarietà, il fumo, l’obesità e lo stress, oggi dovremmo spaventarci terribilmente di fronte a uno spritz con le patatine, fuggire a gambe levate di fronte a un pacchetto di sigarette, inorridire al solo pensiero di lavorare per ore seduti a una scrivania. Eppure, di fronte a questi elementi, letali per l’esistenza, la nostra fisiologia rimane silente, non percepiamo alcuna sensazione di allarme e di certo non si scatena in noi una reazione di attacco/fuga.

Dunque, ciò che raccontiamo ai pazienti è una sorta di favola ben confezionata?

No, affatto! Il nostro antico modo di reagire a un mondo un tempo più pericoloso, ma con dinamiche estremamente più semplici di quello attuale, perdura anche oggi: ci spaventiamo per un’auto che ci viene incontro, esattamente come avremmo fatto con una tigre dai denti a sciabola; ci disperiamo per una figuraccia e continuiamo a soffrire la solitudine esattamente come l’esclusione dal gruppo metteva a repentaglio la nostra vita centinaia di migliaia di anni fa; tendiamo a essere cooperativi con il nostro gruppo di appartenenza e un po’ più competitivi e timorosi con gli altri gruppi; sobbalziamo quando sentiamo un forte rumore o ci immobilizziamo di fronte a una fune che di primo acchito ci era parsa un serpente. Antichi retaggi della nostra specie continuano a vivere in noi, pur senza averne consapevolezza, e tali retaggi si manifestano in un mondo ben diverso da quello in cui sono emersi. Tendenze ancestrali che nel mondo odierno possono risultare inutili o talvolta dannose.

I nostri geni sono, in qualche misura, burattinai che ci fanno desiderare cose che a volte sono positive per loro ma negative per noi (come le relazioni extraconiugali o il prestigio acquistato a spese della felicità) (Haidt, 2020).

Scimmie culturali

Per milioni di anni, le specie si sono evolute adattandosi, “a rimorchio”, a un ambiente in lento cambiamento. Gli organismi che manifestavano mutazioni genetiche casualmente più adatte sono sopravvissuti e si sono riprodotti. Cambia l’ambiente, cambia la biologia. Ad un certo punto, però, questo equilibrio si è alterato: l’ambiente ha iniziato a modificarsi molto più rapidamente dei ritmi della selezione naturale, e la causa di questo cambio di passo è stato proprio l’essere umano. Infatti, il contesto in cui viviamo si è modificato, attraverso la cultura, più velocemente di quanto possa aver fatto la nostra biologia, attraverso la selezione naturale; l’esito di tale discrepanza, definito mismatch evoluzionistico (o “ritardo del genoma”) ha reso il mondo in cui viviamo non sempre così “comodo” per le nostre caratteristiche consolidatesi nel corso dell’evoluzione (Fistarollo e Faggian, 2022). Siamo pur sempre degli animali, per quanto particolari, che per il 99% del loro percorso evoluzionistico hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori, evolvendosi lentamente in un ambiente, definito Environment of Evolutionary Adaptedness (EEA), il quale ha proposto pressoché le medesime pressioni evoluzionistiche relative all’acquisizione di cibo, all’evitamento dei predatori, ai requisiti di accoppiamento, alla cura della prole e ad altre sfide di sopravvivenza (Tooby e Cosmides, 2008).

La cultura umana, però, ha lo straordinario e unico potere di trasformare l’ambiente, e di conseguenza lo stile di vita degli umani stessi. Il primo enorme cambiamento è avvenuto all’incirca 10.000 anni fa, con la Rivoluzione Agricola: l’Homo Sapiens ha smesso i panni del nomade per iniziare una vita stanziale, basata perlopiù sull’agricoltura e sull’allevamento. Sono nati villaggi, paesi, città. Sono cambiati i ruoli, è iniziata un’organizzazione gerarchica della società. L’uomo ha iniziato a imprimere un’impronta ben visibile sull’ambiente. Ha modificato la propria alimentazione, il rapporto con alcune specie animali, lo stile di vita, la percezione del mondo. “Con l’avvento dell’agricoltura, le preoccupazioni circa il futuro iniziarono a ricoprire un ruolo di primo piano nel teatro della mente umana” (Harari, 2011).

Il secondo cambiamento, decisivo, è avvenuto con la Rivoluzione Industriale. In maniera estremamente rapida, gli esseri umani hanno iniziato a intrattenere un rapporto, costante e intimo, con le macchine. I ritmi della quotidianità si sono adattati a quelli del lavoro, nuove gerarchie e ruoli si sono ulteriormente definiti. È nato il cibo spazzatura, prodotto industrialmente. È esplosa la sedentarietà, le condizioni di lavoro disagevoli. La popolazione mondiale è aumentata a dismisura. È emerso il grave problema dell’igiene, con una nuova consapevolezza. Il contatto con la natura si è progressivamente estinto, fino a oggi. L’essere umano ha scoperto la solitudine; a proposito, ancora Harari (2011), “Milioni di anni di evoluzione ci hanno modellato a vivere e a pensare come membri di una comunità. Nel giro di appena due secoli, siamo diventati individui alienati. Non c’è niente che testimoni meglio di ciò l’incredibile potere della cultura”.

Per dare l’idea di quanto i cambiamenti apportati dalla Rivoluzione Industriale siano recenti, immaginiamo di collocare tutta l’evoluzione umana in una classica giornata di lavoro, dalle 9:00 alle 17:00; ebbene, la Rivoluzione Industriale sarebbe avvenuta all’incirca alle 16:59 e 58 secondi! Lo stile di vita odierno è dunque una recentissima eccezione nel nostro percorso evoluzionistico, a cui non siamo totalmente adatti. “È come se le persone del mondo attuale facessero girare software del ventunesimo secolo su un hardware vecchio di 50.000 anni” (Wright, 2004). Siamo una sorta di ibrido tra animali che lottavano per la sopravvivenza nella savana e animali culturali che sgomitano per un salto di carriera in aziende multinazionali. “Biologicamente, siamo più o meno lo stesso animale che vagava nelle savane del pleistocene: una scimmia africana cacciatrice, da branco. Culturalmente, però, siamo irriconoscibili” (Stewart-Williams, 2018). Abbiamo tendenze antiche collocate in ambienti ipertecnologici. “Viviamo in città e periferie, guardiamo la tv e beviamo birra, mentre siamo spinti da impulsi progettati per diffondere i nostri geni in una piccola popolazione di cacciatori-raccoglitori” (Wright, 1994).

Nuovi modi di stare male

Quali sono gli effetti del mismatch evoluzionistico sulla salute degli esseri umani? Quando assieme alla collega Silvia Faggian abbiamo posto questa domanda agli allievi di Studi Cognitivi, le loro risposte sono state estremamente calzanti! Una volta acquisito il concetto di mismatch, infatti, basta guardarsi attorno per notare come molto del disagio psico-fisico della nostra epoca sia da ricollegarsi al contesto ambientale e allo stile di vita moderno. Ormai da qualche decennio è infatti risaputo che “le malattie da civiltà” generano il 75% di tutte le morti nelle nazioni occidentali, malattie che sono rare tra le persone il cui stile di vita riflette quello dei nostri antenati pre-agricoltura (Eaton et al., 1988) e che una delle ragioni principali per le quali ci ammaliamo è proprio che “i nostri organismi sono impreparati a far fronte agli ambienti moderni” (Nesse, 2020).

Uno degli esempi più evidenti di mismatch evoluzionistico riguarda la grave epidemia di obesità e sovrappeso che, secondo proiezioni della World Obesity Federation, entro il 2025 dovrebbe coinvolgere un terzo della popolazione mondiale e rappresenta un fattore di vulnerabilità per un vasto numero di patologie (quali diabete, demenza, disturbi cardiaci, ecc; Blüher, 2019).

Perché stiamo diventando sempre più grassi?

La risposta è proprio nel mismatch evoluzionistico: centinaia di migliaia di anni fa il nostro meccanismo adattivo ci portava a cercare energia in un ambiente in cui era raramente possibile imbattersi in cibi dolci e ricchi di grasso. L’evoluzione ci ha così portati a percepire tali alimenti come estremamente palatabili e desiderabili, poiché ancestralmente rappresentavano una preziosa fonte di energia. Oggi, la medesima spinta agisce in un ambiente che offre un’estrema disponibilità di dolci industriali, cibi ad alto contenuto di grassi e bevande zuccherate.

Un meccanismo evoluto nel tempo, che aveva una funzione per la sopravvivenza (“mangia qualsiasi roba dolce ti passi sotto mano, non avrai molte occasioni!”), oggi si rivela disfunzionale in un ambiente cambiato troppo rapidamente (zuccheri disponibili ovunque) per consentirne la modifica (Fistarollo e Faggian, 2022).

Mismatch! Senza contare che gli uomini arcaici si muovevano molto più di noi (secondo alcune stime, percorrevano 8-12km al giorno), mentre oggi alcuni professionisti percorrono quotidianamente più strada con le dita sulla tastiera di quanto facciano a piedi (Cregan-Reid, 2018)!

Guardare indietro per guardare avanti

Nonostante siano in aumento le pubblicazioni sul tema dell’Evoluzione, si parla ancora poco di mismatch evoluzionistico (con una punta di orgoglio, il nostro “Come pesci fuor d’acqua” è il primo testo italiano a occuparsene). Come sostenevano gli psicologi evoluzionistici Cosmides e Tooby (1992), “Sebbene la maggior parte degli psicologi fosse vagamente consapevole che gli ominidi avessero vissuto per milioni di anni come cacciatori-raccoglitori, non si resero conto che ciò aveva implicazioni teoriche per il loro lavoro”. E invece le implicazioni ci sono, eccome!

Moltissime forme di sofferenza umana odierna sono esiti di tendenze ancestrali che collidono con la società moderna che abbiamo creato.

Dovremmo dunque tornare nelle caverne?

Rispondiamo con decisione: no!

Dobbiamo invece utilizzare la tecnologia, la conoscenza e il sapere psicologico per promuovere un nuovo equilibrio che ci consenta di godere dei frutti del progresso senza pagarne un prezzo eccessivo.

Da dove iniziare?

Probabilmente ricordandoci che nella nostra storia evolutiva si sono scolpiti dei bisogni ai quali non possiamo voltare le spalle: movimento, contatto con la natura, affrontare avversità, vita di gruppo, senso di appartenenza, ecc. Elementi che da sempre hanno contraddistinto, e continuano a farlo, il nostro benessere.

 

Regolare le emozioni (2021) di Stefano Canali – Recensione

Il libro “Regolare le emozioni” è stato scritto da Stefano Canali, ricercatore, docente universitario presso le Università di Roma Tre, Trieste e Cassino, coordina la Scuola di Neuroetica della SISSA e all’interno di ILAS è Responsabile dell’attività Neuroetica.

 

 Le riflessioni contenute nel libro nascono dal percorso educativo “Emozioni in regola”, realizzato nelle scuole primarie e secondarie di primo grado del Friuli Venezia Giulia e nei centri di aggregazione giovanile. Il percorso è pensato per professionisti di varie formazioni, in quanto è applicabile in diversi contesti, con diversi gruppi e in diversi setting.

Il manuale può essere utilizzato dai professionisti sia per fini di studio o aggiornamento, sia come guida per mettere in atto delle strategie educative innovative, con l’obiettivo di potenziare le funzioni esecutive dei bambini e dei ragazzi, incrementando sia l’abilità di controllo cognitivo che le capacità di autoregolazione emotiva e comportamentale.

Con il termine “funzioni esecutive” si intende quell’insieme di processi psicologici che consentono una gestione più efficace delle proprie emozioni, del proprio comportamento e delle abilità sociali. Promuovere un miglioramento di queste facoltà facilita pertanto lo sviluppo di fattori psicologici e di abilità in grado di prevenire disturbi del comportamento e situazioni di disagio che spesso emergono nei giovani.

A tal fine, il programma comprende una serie di attività mirate a lavorare sulla capacità di autocontrollo e di regolazione emotiva e dei training esperienziali sull’esecuzione di pratiche contemplative, per esempio della Mindfulness, per allenare l’attenzione, la consapevolezza e il controllo degli stati mentali. Inoltre, sono presenti momenti di formazione con lo scopo di ampliare il bagaglio di conoscenza dei partecipanti sulla struttura e sul funzionamento del sistema nervoso. Una maggior consapevolezza e conoscenza dei meccanismi sottostanti i processi psicologici permette loro una migliore gestione e regolazione delle proprie emozioni e comportamento.

Il manuale è strutturato in due parti: una prima in cui vengono esplorati i principi generali delle scienze e neuroscienze cognitive e una seconda, in cui sono descritte le diverse pratiche contemplative riportando le evidenze sperimentali della loro efficacia e le istruzioni per proporle ed eseguirle.

 Nella prima parte vengono affrontati temi come le emozioni, il controllo del comportamento, i comportamenti prosociali e la mindfulness, ai fini di istruire in merito a questi concetti, che verranno poi applicati dal punto di vista pratico, come spiegato nella seconda parte del manuale. Per quanto riguarda l’attuazione del percorso, il manuale espone in maniera molto completa tutti i vari passaggi: dall’esposizione delle regole del gruppo ai partecipanti, l’indagine delle loro aspettative e le rassicurazioni, agli obiettivi del programma fino alle basi teoriche e le istruzioni complete per mettere in atto ciascuna pratica proposta. Tra le pratiche troviamo quelle introduttive, che si focalizzano sull’alfabetizzazione emotiva, ovvero viene richiesto ad ognuno di descrivere come si sente in quel preciso momento, sul consapevolezza dei processi mentali, per imparare a riconoscere quando la mente si distrae, sull’esplorazione della memoria e altre ancora. A seguire vengono proposte pratiche ancora più specifiche come quelle per sviluppare l’attenzione, l’autoregolazione, l’autocontrollo e il benessere, la consapevolezza delle emozioni, e il potenziamento delle funzioni prosociali. L’autore suggerisce di seguire uno schema basato su incontri settimanali, anche se specifica che il percorso vada realizzato in funzione degli obiettivi dei destinatari.

In conclusione, il libro “Regolare le emozioni” è un vero e proprio strumento di apprendimento e una guida completa per l’attuazione di diverse attività, di cui vengono spiegati a pieno il razionale e descritte, passo a passo, tutte le istruzioni.

 

La sindrome dell’impostore negli studenti di psicologia

Una ricerca di Maftei e colleghi (2021) ha cercato di esplorare la prevalenza e i predittori della sindrome dell’impostore negli studenti di psicologia, scoprendo che vi erano differenze significative tra i partecipanti che hanno ottenuto punteggi elevati nella sindrome dell’impostore e quelli che hanno sperimentato aspetti correlati meno intensi.

 

Che cos’è la sindrome dell’impostore?

 La “sindrome dell’impostore” è uno specifico modello di cognizioni e comportamenti, caratterizzata dalla convinzione errata che gli individui in questione non siano intelligenti e che, anzi, abbiano “ingannato” gli altri, facendoglielo credere. Queste convinzioni sono amplificate dalla paura di essere “scoperti” e dalla tendenza ad attribuire il proprio successo a cause esterne come la fortuna, lo sforzo, il fascino o il trovarsi nel posto giusto al momento giusto (Chrisman et al., 1995; Clance et al., 1995).

Sebbene tale sindrome non sia concettualizzata come un disturbo mentale all’interno del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) o dell’ICD (Classificazione Internazionale delle Malattie), i sintomi clinici più comunemente riportati dalle persone che ne soffrono sono ansia generalizzata, bassa autostima, bassa percezione della propria competenza, autonomia e senso di connessione con gli altri (Schubert e Bowker, 2017).

Per gli individui che sperimentano la sindrome dell’impostore, la paura di fallire o di avere successo sorge di solito quando incontrano nuovi compiti o sfide. Per proteggere la propria autostima, quindi, ricorrono tipicamente a due meccanismi di coping: il perfezionismo e la procrastinazione. Da un lato, tendono a lavorare eccessivamente, alla perfezione, per compensare le loro paure; dall’altro, procrastinano proprio a causa di queste paure (Rohrmann et al., 2016).

La sindrome dell’impostore tra gli studenti di psicologia

Una ricerca di Maftei e colleghi (2021) ha cercato di esplorare la prevalenza e i predittori di questa sindrome negli studenti di psicologia, scoprendo che vi erano differenze significative tra i partecipanti che hanno ottenuto punteggi elevati nella sindrome dell’impostore e quelli che hanno sperimentato aspetti correlati meno intensi.

In primo luogo, i partecipanti che hanno ottenuto punteggi più alti per la sindrome dell’impostore hanno anche presentato livelli più elevati di disagio psicologico (come ansia e depressione, anche subcliniche) in linea con ricerche precedenti (ad es., Wang et al., 2019).

Il legame con la depressione non è stato affatto sorprendente, in quanto gli individui che soffrono di questa sindrome hanno una bassa autostima e una percezione distorta della propria competenza (Schubert e Bowker, 2017), oltre a un umore basso dovuto a pensieri negativi ricorrenti (ad esempio, la convinzione di non poter portare a termine un compito), mancanza di energia e scarso interesse per le attività quotidiane (Clance et al., 1995).

Anche l’ansia appare come un sintomo primario a causa della preoccupazione di mantenere e migliorare la propria immagine sociale. Una preoccupazione costante e incontrollabile, irritabilità e affaticamento sono alcuni aspetti del quadro sintomatologico della sindrome. Inoltre, l’ansia è generata anche da pensieri distorti (non sono in grado di portare a termine un compito) e soprattutto dalla paura delle conseguenze della mancata esecuzione del compito.

I partecipanti con livelli più alti di sindrome dell’impostore mostravano punteggi più elevati anche nella procrastinazione. In altre parole, gli individui che soffrono dei sintomi associati alla sindrome tendono ad adottare uno stile di risoluzione dei compiti procrastinante. Una spiegazione si trova nella teoria di Clane e Imes (1978), secondo cui l’ansia e la paura di svolgere un compito (specialmente uno nuovo), insieme al contesto, sono le cause principali della procrastinazione degli “impostori”. Nel loro caso, i nuovi compiti di solito inducono ansia, soprattutto quando la scadenza è vicina, aumentando le possibilità di adottare uno stile procrastinatorio per risolverli.

Tra procrastinazione e ansia è stata riscontrata una relazione positiva, suggerendo che i partecipanti che soffrono della sindrome dell’impostore tendono a procrastinare maggiormente, aumentando di conseguenza la loro ansia.

I predittori della sindrome dell’impostore

 Nel tentativo di analizzare i predittori della sindrome, è stato scoperto che solo la depressione era significativa; pertanto sembrerebbe che gli individui che hanno un alto livello di depressione tendono a soffrire maggiormente di sindrome dell’impostore. Questo può essere spiegato dal fatto che la depressione (così come l’ansia) può portare a dubitare di sé e sottoporre gli individui a meccanismi di coping disadattivi, come la procrastinazione o l’evitamento e ad una bassa autostima. Questi fattori possono influire in modo sostanziale sull’insorgenza e sullo sviluppo della sindrome dell’impostore, e sono sufficienti pochi pensieri dubbiosi perché si inneschi il circolo vizioso. Contrariamente a quanto gli autori si aspettavano, la procrastinazione non è risultata essere un predittore significativo della sindrome.

Il 56,15% dei partecipanti allo studio sperimenta i sintomi associati alla sindrome dell’impostore, un numero preoccupante in termini di implicazioni sulla vita personale, accademica, sociale e professionale futura di uno studente. Per esempio, uno studente che è quasi costantemente in difficoltà non può certo essere produttivo ed efficiente come potrebbe, a causa del costante disagio mentale. Uno studente che si percepisce come un impostore presterà più attenzione alla sua immagine sociale che al suo stato d’animo generale, alle relazioni sociali o ad altre variabili personali. Inoltre, la carriera professionale dei futuri psicologi potrebbe essere influenzata da questa sindrome: un “impostore” può non dare il massimo rendimento, non chiedere promozioni o sfruttare le opportunità, può avere problemi a parlare in pubblico o a stringere rapporti autentici con i colleghi. Per questo motivo, anche se eccellenti, gli impostori possono rimanere bloccati a un livello di base nel loro campo di lavoro a causa della paura del successo e del fallimento: potrebbero non cercare di assumere posizioni di leadership e in genere non saranno consapevoli del loro effettivo valore. Inoltre, potrebbero soffrire di burnout a un certo punto della loro carriera (Alrayyes et al., 2020).

Riassumendo, gli studenti con elevata sindrome dell’impostore tendono a procrastinare maggiormente, aumentando così anche i livelli di ansia e depressione. I risultati presenti e futuri in letteratura possono essere utili per progettare strategie di intervento efficaci, magari riducendo la procrastinazione attraverso programmi di intervento specifici, come quelli suggeriti da Tuckman e Schouwenburg (2004), incentrati sulla ristrutturazione cognitiva, sull’influenza sociale e sulla formazione. Tuttavia, la ricerca deve ancora svolgere molti passi in avanti per comprenderne le cause, prevenire e intervenire tempestivamente in relazione a questa particolare sindrome.

 

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