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Battito animale: anche le scimmie percepiscono il proprio cuore

Ad oggi, il modello animale più diffuso nel campo delle neuroscienze psichiatriche è quello dei roditori, ma l’enterocezione nell’uomo è radicalmente differente da quella nei ratti e si avvicina maggiormente a quella delle scimmie rhesus.

 

Amy (nome di fantasia) non sembra particolarmente infastidita dagli elettrodi che la dottoressa Bliss-Moreau le ha applicato sul corpo. I fili dell’elettrocardiografo forse sono un po’ una scocciatura, ma niente di insopportabile. La sua curiosa testolina fa capolino dal foro sulla parete superiore della scatola trasparente in cui è rinchiusa. I suoi occhietti vispi guizzano rapidi mentre, rapita, cerca di seguire sul monitor le figure che rimbalzano da una parte all’altra dello schermo: forme gialle e rosa si susseguono e rincorrono a velocità diverse, dando vita a un’allegra danza colorata.

Eppure, non tutte le figure catturano l’attenzione di Amy, simpatica scimmietta rhesus. Alcune infatti sono degne solo di una breve sbirciatina: sono quelle che danzano al ritmo del suo cuore. Le altre invece sono di gran lunga più interessanti per Amy e i suoi tre allegri compagni di gioco, tanto che si soffermano in media 0,83 secondi in più sulle figure che si muovono più velocemente e 0,68 secondi in più sulle figure che si muovono meno rapidamente rispetto al loro battito cardiaco.

Lo studio condotto da Bliss-Moreau et Al. (2022) fornisce quindi la prova che “come gli esseri umani, le scimmie rhesus sono in grado di percepire i segnali enterocettivi e di integrare questi segnali con le informazioni sensoriali esterocettive”. Insomma, le scimmie, proprio come noi, sono in grado di percepire il loro cuore pulsare e di integrare queste informazioni fisiologiche con segnali esterni! Non è incredibile?!

Ma perché tutto questo entusiasmo? Chiederete voi.

L’enterocezione, cioè la percezione dei segnali provenienti dal nostro corpo, è coinvolta in un ampio numero di funzioni, tra cui l’omeostasi e la coscienza di sé, influenza i processi cognitivi ed emotivi, gioca un ruolo determinante in diverse condizioni, come ansia, depressione, disturbo di panico, disturbi alimentari, disturbo correlato a uso di sostanze, disturbi dello spettro autistico.

Ad oggi, il modello animale più diffuso nel campo delle neuroscienze psichiatriche è quello dei roditori. Tuttavia, l’elaborazione enterocettiva nell’uomo e nei ratti, per non dire nei topi, è radicalmente differente.

Nei roditori sono coinvolte proiezioni dirette dal nucleo parabrachiale all’insula e alla corteccia prefrontale ventromediale assenti nei primati, mentre nelle scimmie (e nell’uomo) le informazioni enterocettive sono elaborate attraverso un sistema anatomico filogeneticamente nuovo che comprende l’insula, la lamina del tratto spinotalamico e il nucleo talamico ventromediale, consentendo la proiezione diretta di segnali enterocettivi sui circuiti talamocorticali.

Inoltre, l’insula dei primati è ben più complessa di quella dei roditori, è dotata di neuroni sensibili ai barocettori, i recettori presenti nei vasi sanguigni e nel cuore coinvolti nei meccanismi di mantenimento della pressione sanguigna a livelli costanti, e alcuni studi hanno mostrato come le scimmie possano influenzarli modificando così la propria frequenza cardiaca o pressione sanguigna in risposta a stimoli esterni, proprio come noi.

L’esperimento di Bliss-Moreau e colleghi (2022) aggiunge un nuovo elemento al quadro: le scimmie reshus integrano le informazioni enterocettive cardiache e le sensazioni esterne in modo molto simile agli esseri umani.

Per questo i primati come modello animale rappresentano il miglior candidato per lo studio dell’enterocezione, altro che topi! Si tratta di un modello animale più accurato, che ben si presta a manipolazioni del sistema nervoso sia centrale sia periferico anche attraverso modalità non invasive, e che potrebbe quindi segnare una rivoluzione nel campo della ricerca psichiatrica umana.

 

La dissociazione nel Disturbo da Stress Post-Traumatico: dati da una recente revisione

La revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricerca della Sigmund Freud University di Milano, e pubblicata sul Journal of Trauma and Dissociation, ha analizzato 13 studi svolti con l’applicazione di una particolare tecnica statistica nota come Latent Profile Analysis (LPA), molto utile per lo studio di fenomeni clinici altamente complessi ed eterogenei come il PTSD.

 

Introduzione

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD) è una diagnosi dalla storia complessa, caratterizzata da molte modifiche e controversie (North et al., 2016). Tra le principali motivazioni alla base dei dibattiti degli ultimi anni sul PTSD troviamo, nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), l’aggiunta del sottotipo di PTSD “con sintomi dissociativi” (American Psychiatric Association [APA], 2013/2014, pag. 315), che riprende il dilemma su quale sia la natura della relazione tra eventi traumatici e dissociazione e la definizione stessa di dissociazione (Nijenhuis, 2014; Schimmenti e Caretti, 2014). Questo complica ulteriormente il quadro di una diagnosi già di per sé grave, che colpisce adulti e bambini (Forresi et al., 2020) ed è accompagnata da effetti deleteri su plasticità sinaptica e funzionamento cognitivo (Lamanna et al., 2021).

In breve, per Disturbo da Stress Post-Traumatico Dissociativo (Dissociative Post-Traumatic Stress Disorder [D-PTSD]) si intende un quadro clinico in cui, accanto alle caratteristiche “tradizionali” del PTSD (sintomi intrusivi, evitamento, alterazioni cognitivo-emotive negative e iper-reattività), il paziente presenta depersonalizzazione (esperienza di distacco dal proprio corpo) e/o derealizzazione (esperienza di irrealtà dell’ambiente circostante; APA, 2013/2014, pag. 315). La prevalenza di questo disturbo varia molto in letteratura, con valori che raggiungono quasi il 50% a seconda del metodo di analisi e del campione studiato (Misitano et al., 2022; White et al., 2022). L’inclusione di questo sottotipo tra le diagnosi ufficiali è stata supportata da diverse fonti: in primo luogo, studi neuroscientifici, che nei pazienti con Disturbo da Stress Post-Traumatico Dissociativo evidenziano pattern di connettività funzionale caratterizzati da una iperattivazione delle zone prefrontali e dall’ipoattivazione delle aree limbiche (Lanius et al., 2018). Inoltre, l’inclusione di questo sottotipo è supportata da analisi psicometriche, al centro di una revisione sistematica di recente pubblicazione (Misitano et al., 2022).

Lo studio

La revisione sistematica della letteratura in questione, condotta da un gruppo di ricerca della Sigmund Freud University di Milano e pubblicata sul Journal of Trauma and Dissociation (la rivista ufficiale della Società Internazionale degli Studi sul Trauma e sulla Dissociazione), ha analizzato 13 studi svolti con l’applicazione di una particolare tecnica statistica nota come Latent Profile Analysis (LPA). Questa tecnica, a partire da variabili continue, suddivide il campione di partenza in diversi sottogruppi (o profili) sulla base di caratteristiche condivise. Pertanto, si rivela molto utile per lo studio di fenomeni clinici altamente complessi ed eterogenei come il PTSD (Galatzer-Levy e Bryant, 2013).

Complessivamente, lo studio (Misitano et al., 2022) rivela che la letteratura, in campioni dalle più varie caratteristiche e utilizzando strumenti di valutazione molto diversi, individua costantemente un sottogruppo di persone che presentano livelli significativamente più alti di sintomi dissociativi rispetto agli altri profili, anche se per quel che riguarda i sintomi centrali del PTSD la gravità è del tutto comparabile. Inoltre, la percentuale di individui appartenenti a questo profilo dissociativo è risultata essere attorno al 17%, dato molto simile a quanto ottenuto in un altro studio (23%; White et al., 2022).

Tuttavia, come in parte accennato poco sopra, dalla revisione della letteratura risulta evidente una notevole eterogeneità negli studi. Infatti, gli studi sono stati svolti su campioni estratti dalla popolazione generale esposti ad eventi potenzialmente traumatici così come su pazienti o veterani di guerra con PTSD, conducendo interviste cliniche o questionari autosomministrati e analizzando sintomi dissociativi che non sempre si limitavano a depersonalizzazione e derealizzazione. Quest’ultimo dato è particolarmente rilevante, in quanto alcuni studi hanno individuato un profilo dissociativo non solo differente in quei due sintomi, ma per altri sintomi quali problemi di consapevolezza e memoria o dispercezioni sensoriali (Misitano et al., 2022).

Conclusioni

In conclusione, lo studio (Misitano et al., 2022) conferma la solidità della Latent Profile Analysis nell’individuare un sottogruppo di soggetti esposti ad eventi potenzialmente traumatici caratterizzati da una risposta sintomatica dissociativa. Tuttavia, avere campioni dalle caratteristiche molto diverse (e non sempre nemmeno diagnosticati con PTSD, che sarebbe un prerequisito necessario per l’individuazione del sottotipo), analizzare sintomi – dissociativi e non – con strumenti differenti e valutare il numero e il tipo di eventi potenzialmente traumatici in un modo non sistematico impedisce un confronto approfondito tra i vari studi, così come una caratterizzazione più accurata del D-PTSD. Studi futuri dovranno porre rimedio a questi limiti; così facendo, sapranno dare indicazioni molto più precise per il trattamento, psicoterapeutico o farmacologico.

 

La mindfulness come strumento per affrontare il burnout

Il burnout si manifesta con una sintomatologia varia, ma il sintomo più comune sembra essere un forte senso di affaticamento, accompagnato da un esaurimento emotivo.

 

 Nel contesto lavorativo, le problematiche legate alla salute mentale sono diventate una delle cause principali dell’assenteismo sul luogo di lavoro e dal pensionamento anticipato in ormai tutti i paesi industrializzati (Micklitz et al., 2021). Le conseguenze non impattano solamente l’individuo o l’organizzazione, ma provocano un danno enorme anche all’economia dei paesi e alla società. In Unione Europea, è stato stimato che il costo totale della ridotta produttività causata da motivazioni legate alla salute mentale è di circa 136 miliardi di euro all’anno. Nel Regno Unito, tra il 2009 e il 2013, il numero totale di giorni di malattia dovuti a stress, depressione e ansia è aumentato del 24%. Tra le varie problematiche di salute mentale legate al mondo del lavoro, il burnout sembra essere quella più prevalente tra le professioni sanitarie. Infatti, in uno studio condotto nel Regno Unito, circa il 31,5% dei medici totali partecipanti allo studio ha riportato sintomi di burnout.

Introduzione al Burnout

Il burnout si manifesta con una sintomatologia varia, ma il sintomo più comune sembra essere un forte senso di affaticamento, accompagnato da un esaurimento emotivo (Leiter et al., 2014). Inoltre, sono state identificate altre due dimensioni altrettanto importanti, ovvero la depersonalizzazione e un forte senso di inefficacia personale. Le conseguenze del burnout sono molte, tra cui la perdita di creatività, un ridotto impegno lavorativo, aggressività nei confronti dei colleghi e dei clienti, sofferenza fisica ed emotiva e una sensazione generale di vuoto. Maggiore è il livello di burnout, maggiore è la possibilità che l’individuo possa involontariamente attuare dei comportamenti negativi verso sé stesso, i clienti, i colleghi o l’organizzazione.

Inoltre, è stato osservato che i lavoratori che esperiscono burnout tendono ad attuare più frequentemente comportamenti di assenteismo sul lavoro, ridotta produttività e riportano una maggiore propensione a lasciare l’organizzazione (Leiter et al., 2014). Il burnout si associa a problematiche sia fisiche che mentali, come difficoltà emotive, rigidità cognitiva, cinismo interpersonale, irritabilità, depressione, ansia, insonnia e bassa autostima (Leiter et al., 2014). Inoltre, sono frequenti deterioramenti relazionali sociali e familiari.

La mindfulness come trattamento per il burnout

 Dato che il burnout è un fenomeno diffuso e con effetti disastrosi, le organizzazioni stanno implementando sempre più strategie per gestirlo, e una di queste è l’utilizzo della mindfulness (Choi et al., 2022). La mindfulness ha dimostrato una buona efficacia nel gestire i sintomi del burnout. A livello individuale, la mindfulness ha effetti positivi sull’autoregolazione emotiva, sulle funzioni cognitive e sul benessere psicofisiologico dell’individuo. È stato osservato che la mindfulness aumenta la flessibilità cognitiva, riduce la ruminazione e il senso di inefficacia, grazie alle tecniche di rilassamento e meditazione proposte.

Per quanto concerne il contesto lavorativo, la mindfulness sembra avere numerosi effetti positivi sulla motivazione e sul comportamento dei lavoratori, incoraggiando le relazioni tra colleghi, aumentando la resilienza e riducendo l’impulsività e la rigidità verso stimoli percepiti come minacciosi, come le richieste dei superiori o i rimproveri (Choi et al., 2022). Altri effetti lavorativi positivi sono una maggiore frequenza di comportamenti prosociali, un impegno lavorativo maggiore e un incremento nella produttività, oltre alla riduzione di comportamenti negativi come l’assenteismo.

Sembra quindi che gli individui che praticano mindfulness abbiamo un bagaglio di skills più ampio per affrontare stress e difficoltà lavorative rispetto ai non praticanti, disponendo di strategie utili per gestire al meglio situazioni sfidanti, aumentando così il senso di competenza e di autonomia (Grover et al., 2017).

 

Nature-Based Therapy: i trattamenti psicosociali per la salute mentale basati sulla natura

L’articolo è un’introduzione alla Nature-Based Therapy (o Nature-Assisted Therapy), che consiste in trattamenti psicosociali per la salute mentale basati sulla natura.

 

 Secondo recenti studi più del 90% della nostra esistenza è passata in ambienti chiusi (Chalquist, 2009). Se questo dato poteva sembrare eccessivo prima della pandemia, purtroppo le condizioni di vita attuali rendono questo dato facilmente accertabile per la maggior parte di noi.

D’altronde non potrebbe essere diverso. Lo stile di vita cittadino ci costringe, a parte qualche breve parentesi nei mesi primaverili ed estivi, a vivere quasi tutte le ore della quotidianità negli spazi chiusi della casa e dell’ufficio; le palestre sono luoghi dove l’attività fisica è praticata per lo più al chiuso; usciamo con gli amici e con i colleghi per raggiungere luoghi dove poter mangiare, bere, ascoltare musica, vedere un film etc., per lo più al chiuso.

Insomma, conduciamo stili di vita coltivati entro spazi delimitati, in ambienti artificiali.

Ma non è stato sempre così. Per la maggior parte della propria storia, che possiamo far risalire fino alla comparsa dei primati circa 65 milioni di anni fa, l’uomo ha sempre vissuto a stretto contatto con la natura e probabilmente tutti gli adattamenti che abbiamo sviluppato, dal punto di vista biologico, anatomico e psicologico, hanno visto il proprio innesco in funzione della sopravvivenza alle sfide ricorrenti poste dagli ambienti naturali (foreste, pianure, colline, montagne, coste) e dai pericoli che presentava (Orians, 1980; Tomasello, 1999).

Le città vere e proprie vedono invece la propria nascita in epoca estremamente recente rispetto alla storia dell’umanità, andando indietro nel tempo per quel che ne sappiamo fino a 10-13000 anni fa (si vedano le datazioni di Aleppo, Gerico, Matera). Anche se dopo Darwin permangono ancora sacche di incredulità di fronte all’ipotesi evoluzionistica, si può dare per scontato che essa sia la spiegazione più comunemente accettata per spiegare come l’essere umano sia giunto ad essere ciò che è. La conseguenza per il nostro discorso è che la vita urbana è uno sviluppo talmente recente nella storia dell’umanità che sarebbe difficile poter dire, rispetto ai tempi lunghi dell’evoluzione (milioni di anni), come avremmo potuto sviluppare adattamenti ulteriori per lo stile di vita urbano, in così poco tempo.

Benessere individuale e vita urbana

Vuol dire che non siamo ‘tagliati’ per la vita di città? Assolutamente no.

Ma i dati sulla relazione tra benessere individuale, sanità pubblica e vita urbana pongono degli interrogativi in questo senso.

Ad esempio tra gli abitanti delle città sembra essere presente una maggiore prevalenza di disturbi dell’umore e disturbi d’ansia (Peen, Schoevers, Beekman & Dekker, 2010) e l’incidenza della schizofrenia è più elevata per persone nate e cresciute in ambienti cittadini (Krabbendam & van Os, 2005).

Se in questo quadro provvisorio consideriamo che almeno la metà della popolazione mondiale vive nelle città (Dye, 2008), la relazione tra salute e contesto urbano è certamente degna di essere studiata per trovare dei modi con i quali migliorare il benessere delle persone che vivono in città senza stravolgerne le routine e lo stile di vita (si vedano per esempio le linee guida dell’OMS sulla ‘Healthy City”).

Nel contesto del trattamento dei disturbi mentali e di forme di disagio più o meno gravi, i trattamenti basati sulla natura (Nature Therapy, oppure Nature-Based Therapy, oppure Nature-Assisted Therapy) sono interventi di tipo psicosociale che si propongono di sfruttare elementi del contesto naturale per curare o prevenire lo stato di malattia (Song, Ikei & Miyazaki, 2016).

Le ipotesi alla base della loro efficacia possono essere inquadrate nella cornice bio-psico-sociale (Engel, 1977) e si fondano sull’idea che l’esposizione alla natura abbia un intrinseco effetto salutotropo.

In letteratura prevalgono alcune ipotesi:

  • Ipotesi della savana (Orians, 1980): i meccanismi adattivi sviluppati nel corso dell’evoluzione sono vincolati alla scelta degli habitat idonei alla sopravvivenza (in origine: la savana africana) e ciò in parte si riflette nella preferenza e nella qualità positiva dell’esperienza vissuta a contatto con gli ambienti naturali;
  • Ipotesi della biofilia (Kellert & Wilson, 1993): gli stimoli naturali hanno la qualità intrinseca di affascinare l’osservatore, catturandone e concentrandone l’attenzione sulle diverse forme di vita, e stimolando in lui/lei la partecipazione empatica nei confronti di esse;
  • Teoria del recupero dallo stress (Ulrich, 1983): gli esseri umani, soprattutto quando sono sotto stress, possiedono un’alta reattività a base biologica -che determina un orientamento automatico dell’attenzione- per gli ambienti naturali. L’esposizione ad essi comporta conseguenze positive a livello emotivo e fisiologico;
  • Teoria dell’attenzione rigenerata (Kaplan, 1995): l’attenzione diretta e prolungata verso un compito o degli obiettivi attuali comporta fatica e consumo di risorse. Il recupero può essere supportato dal contatto con le peculiari caratteristiche degli ambienti naturali e dalle esperienze che ne derivano: fascinazione (che fornisce occasioni di riflessione), estensione (la varietà e l’intima coerenza degli ambienti naturali permette il distacco da sé), compatibilità (tra l’ambiente naturale, gli intenti e le inclinazioni della persona). Questi aspetti concorrono al recupero attentivo e al sentirsi rigenerati (restorative experience).

Queste prospettive, da punti di vista diversi, convergono alla conclusione che, se la persona si sente stressata, l’incontro con l’ambiente naturale, relativamente docile e sicuro nei confronti dell’uomo, avrà un influsso rigenerativo e comporterà una riduzione dello stress e dei suoi effetti avversi.

Interventi psicosociali basati sulla natura

Dal punto di vista operativo, esercitare un’attività di qualsiasi tipo a contatto con la natura dovrebbe determinare effetti terapeutici a livello:

  • biologico: direttamente o indirettamente (per mezzo dell’attività fisica) su parametri rilevanti per la salute fisica (pressione cardiaca, variabilità della frequenza cardiaca, livelli di glucosio e colesterolo nel sangue, funzione immunitaria, biomarker dello stress etc.);
  • psicologico: sui livelli di disagio, benessere percepito, emozionalità negativa, psicopatologia e funzioni cognitive (ad es. attenzione);
  • sociale: condivisione di attività e spazi come stimolo alla socializzazione e occasione per reperire risorse di supporto sociale.

La letteratura sull’impatto positivo dell’ interazione con la natura ormai è molto ampia, con un alto livello di attenzione corrisposto da parte dei ricercatori di contesto orientale, probabilmente a causa di riferimenti culturali per noi meno immediati. Un esempio forse più noto di altri è l’attività di ‘Shinrin-yoku’ o ‘Forest Bathing’, ovvero passeggiare nei boschi per periodi di tempo prolungati, che comporta in chi la pratica livelli inferiori di stress (Antonelli, Barbieri & Donelli, 2019) e di disagio emotivo (Kotera, Richardson & Sheffield, 2022) rispetto a chi non la pratica.

 Le ricerche sul tema prevedono una varietà di trattamenti che vanno dall’inserire elementi di interazione con la natura nel contesto psicoterapeutico (Corazon, Stigsdotter, Moeller, & Rasmussen, 2012) o al di fuori di esso (Raanaas, Patil, & Hartig, 2012), all’intervenire con programmi di attività nella natura (giardinaggio, orticultura, passeggiate tematiche etc.; Moeller, King, Burr, Gibbs, & Gomersall, 2018), fino a interventi più o meno marcati di modifica dell’architettura urbana (Carter & Horwitz, 2014).

La letteratura esistente conferma l’impatto positivo del contatto con la natura a livello:

  • biologico: aumento dei livelli di attività fisica (Jia, & Fu, 2014), diminuzione dei biomarker dello stress (Bay-Richter, Träskman-Bendz, Grahn, & Brundin, 2012);
  • psicologico: miglioramento del tono dell’umore (Mao et al., 2012), diminuzione dei livelli di nevroticismo e aumento dei livelli di benessere psicologico (Marselle, Warber, & Irvine, 2019), miglioramento delle funzioni cognitive (Park, Lee, Park, & Lee, 2019), miglioramento degli indici di psicopatologia (Shanahan et al., 2016), tra le altre cose;
  • sociale: benefici dati dalla condivisione di spazi, attività e socializzazione (de Boer et al., 2017).

Conclusioni

Cosa ricavare da questa breve introduzione?

Per i clinici potrebbe essere utile integrare come coadiuvante al trattamento attività che presuppongano l’esposizione sistematica alla natura e alle aree verdi.

Per i ricercatori potrebbe essere interessante notare, cosa non scontata, che alcuni studi evidenziano tra l’esposizione all’ambiente naturale e i benefici a livello fisico e psicologico una relazione dose-risposta (Shanahan, et al. 2016), in base alla quale più è prolungata l’esposizione all’ambiente naturale, maggiori sono i cambiamenti rilevabili dai questionari e dai test; oltre all’abbondanza di studi che presentano carenze metodologiche di qualche tipo (minacce alla validità interna, carenza di potenza statistica etc.).

In ottica di intervento si segnala l’abbondanza di rassegne sistematiche cui corrisponde, a livello italiano, la relativa mancanza di programmi di intervento implementati sul territorio, probabilmente sotto l’assunto che siano propriamente attinenti all’area pedagogico-sociale. Questo è probabilmente vero date le caratteristiche degli interventi (avvengono all’aperto, si basano spesso su attività fisica e manuale, spesso prevedono attività laboratoriali ed educative), ma non per i loro effetti, di cui si è parlato fino adesso e rilevabili soprattutto con gli strumenti della psicologia.

Infine, per tutti quanti, fare conoscenza di questi benefici può essere uno stimolo a mettere in discussione uno stile di vita prevalentemente orientato al consumo appiattito materialisticamente -poco attento a ciò che è diverso, ai valori e all’altro da sé- per scoprire quel qualcosa in più che un più frequente contatto con la natura può dare all’esistenza.

 

Genitori in trance – Intervista al produttore del podcast Giacomo Zito – FluIDsex

Intervista a Giacomo Zito, produttore del podcast Genitori in trance, dedicato ai genitori di persone transgender, al loro vissuto e a quello de* loro figl*.

Intervista a cura di Greta Riboli, Luca Daminato, Clinica Età Evolutiva di Milano

 

Genitori in trance, è il nuovo podcast prodotto da gli Ascoltabili, uscito a fine giugno 2022, scritto da Giacomo Zito e da Giuseppe Paternò Raddusa, e condotto dal neuropsichiatra infantile Furio Ravera, il quale farà conoscere al grande pubblico il vissuto di genitori di persone transgender e di conseguenza l’esperienza e le esigenze delle persone transgender stesse. Ognuno dei sei episodi racconta una storia diversa, ricca di sfaccettature emotive, e accompagnata dall’importante bisogno di rassicurazione, comprensione e informazione, che i genitori portano al dottor Ravera.

Genitori in trance può accompagnare tutti i genitori che si trovano nella trance, e sensibilizzare il pubblico sul vissuto transgender.

La sofferenza delle persone transgender è ben documentata in letteratura, così i timori dei protagonisti Tecla, Ranieri, Orlando, Paola, Amina e Angelo possono essere le storie dei genitori che si recano in terapia insieme ai propri figli per affrontare questo complesso percorso

Buon ascolto!

Intervistatore (I): Potrebbe spiegare al nostro pubblico di cosa parla “genitori in trance”?

Giacomo Zito (GZ): Genitori in trance è una serie in audio pensata e prodotta da Gli Ascoltabili che si concentra su un triplo livello narrativo. Ci sono persone giovanissime, alle prese con un’identità di genere differente rispetto al sesso assegnato loro alla nascita. Ci sono i genitori, che per paura o ignoranza non sanno come comportarsi rispetto alle decisioni de* figl*. Noi abbiamo deciso di raccontarle, queste paure, per combatterle e annientarle. Lo facciamo con il neuropsichiatra Furio Ravera, alla guida del “terzo livello”, che interagisce con i due piani più “familiari”.

I: Com’è nata l’idea di questo podcast?

GZ: Per combattere paure e pregiudizi. Spesso si guarda alle questioni dell’identità di genere – e a quelle, più in generale, dei corpi – come se si trattasse di capricci o di qualcosa di cui vergognarsi. Tutto “esplode” nella relazione tra genitore e figl*. Molto spesso si pensa a questi ultimi come “oggetti”, come “proprietà”. Non è questione di “tutela e affetto” non più di quanto sia smania di possesso e poca elasticità. Manca la volontà, da parte dei genitori, di lasciarsi educare da chi, seppur giovane, può avere piena autonomia nel capire cosa desidera per sé. È stata una scommessa, per noi de Gli Ascoltabili. Ma siamo molto felici di averlo fatto.

I: Da dove nasce il nome “genitori in trance”?

GZ: La trance, a volte, paralizza. Immobilizza. Questi genitori sono come “incantati” da quello che i ragazzi e le ragazze sentono di volere. L’identità di genere è qualcosa che ognuno di noi deve sentire autentica, autonoma, vera. Non possono esserci incursioni o interferenze. E per molti genitori sentirsi dire determinate cose come “sono non binario”, “sono una ragazza trans” è terrorizzante. Ma perché? Bisogna risalire alle origini di tutto questo. Nessuno nasce edotto su queste tematiche ma, senza salire sul piedistallo e giudicare, si può imparare tanto. Ma “dalla trance”, come ripete il dottor Furio Ravera, “si può uscire”.

I: Cosa vi ha spinto a ideare e poi registrare questo podcast? E perché proprio questo formato?

GZ: Con Gli Ascoltabili sperimentiamo tutte le opportunità che i contenuti audio possono offrire, combinandole agli input che il mondo ci dà, rielaborandole – lo facciamo da sempre – in forma narrativa. Genitori in trance non fa eccezione. Abbiamo riscritto i “flussi emotivi” dei genitori, mettendoli in dialogo con il dottor Ravera. Loro si lasciano andare alle loro paure e alle insicurezze, Ravera interviene e spiega dove sbagliano e come possono migliorare. Il podcast, in questo senso, è il formato perfetto: ti permette di entrare nei temi senza avere altro a distrarti. Ci sono solo le parole e i pensieri.

I: Chi dovrebbe ascoltare questo podcast?

GZ: Quando facciamo un podcast speriamo sempre che arrivi a tutti e tutte. Non c’è un target preciso. Sì, è chiaro: parliamo ai genitori e li rassicuriamo – anche se non c’è niente da rassicurare, non si può pensare di formare la propria identità di genere su misura della felicità di mamma e papà. Però si può imparare: Ravera convince i protagonisti a sgrossarsi da ogni pregiudizio. Il problema è che nel mondo di oggi i pregiudizi non ce li hanno solo i genitori, ma molte altre persone. Ci si spaventa a usare i pronomi corretti, si prendono cantonate pazzesche, si insulta, alle volte. Si preferisce non conoscere piuttosto che concentrarsi un attimo e imparare. Con Giuseppe Paternò Raddusa, che ha scritto la serie insieme a me, ci siamo immersi in storie vere, abbiamo letto, abbiamo visto… Il grave problema è che spesso manca la volontà.

I: C’è una puntata che preferisce rispetto alle altre? Se si, perché?

GZ: Quella di Orlando, un padre molto religioso che non comprende perché sua figlia, cui è stato assegnato il sesso maschile alla nascita, non si identifichi nel genere che Orlando –e la società tradizionalista– vorrebbero. È interessante perché ci sono tanti temi complessi e interessanti (la religione, la possibilità di iniziare un percorso di transizione, etc.) che Ravera tratta con grande autorevolezza. Si parla anche di questioni di identità di genere in culture lontane dalla nostra, che per certi aspetti sanno essere più avanti di noi.

I: Che ruolo ha il dottor Ravera nel podcast?

GZ: Ravera è un neuropsichiatra, lavora con gli adolescenti da un sacco di tempo, insieme abbiamo fatto un podcast che si chiama, Gli adolescenti si fanno male, dedicato alle dipendenze e alle debolezze dei più giovani. Era inevitabile, per noi, tornare a lavorare insieme. Furio è una persona estremamente competente, e questo lo dimostrano i numerosi saggi e il suo percorso professionale longevo e intenso. Ma ha anche una dimensione umana di ascolto e di profondità che sono fondamentali per aiutare i genitori “in trance” a superare l’incertezza.

I: Pensate che questo podcast possa essere utile a coinvolgere la società nella comprensione del vissuto delle persone transgender e dei loro familiari?

GZ: Certo. Un podcast non “salva”, è chiaro, ma se può illuminare anche solo una persona, è di per sé un risultato straordinario. Le persone transgender, in Italia, vivono ancora ben lontano da una situazione di normalità e regolarità. La transfobia è un tema che –al di là delle leggi che vengono e non vengono fatte– affligge numerose branche della nostra società. E non so quanto le scuole, e le famiglie, portino direzioni decisive per combatterla. Non è importante essere persone trans per ribellarsi a narrazioni stantie, a pensieri stereotipati e simili. Ma basta essere esseri umani civili per rendersi conto di come il vissuto delle persone transgender, nel nostro Paese, si scontra con momenti discriminatori e problematici. Il podcast è uno strumento centrale, ma di passi da fare ce ne sono ancora molti.

Chi è Giacomo Zito

Giacomo Zito è attore, speaker e imprenditore della comunicazione e nel 2018 ha fondato la piattaforma podcast Gli Ascoltabili (www.gliascoltabili.it), un progetto di Cast Edutainment. Gli Ascoltabili è una piattaforma che ha lanciato serie di successo come Demoni Urbani, La mia storia, Gli adolescenti si fanno male e Genitori in trance, condotto dal neuropsichiatra Furio Ravera.

 

La supervisione (2022) di Nancy McWilliams – Recensione del libro

Il nuovo lavoro di Nancy McWilliams, La supervisione”, propone una prospettiva inedita sulla supervisione clinica, individuale e di gruppo, soffermandosi sulla Gestalt della supervisione e sul suo ruolo nel promuovere la crescita personale, la sicurezza e il sentimento di padronanza nel terapeuta.

 

Al suo meglio, fare supervisione significa aiutare gli studenti a integrare l’eredità esperienziale della pratica clinica con quello che hanno studiato nel corso della formazione accademica (XII, McWilliams, 2022).

 Il testo affonda le sue radici in una tradizione psicodinamica psicoanalitica; le conoscenze teoriche e di ricerca esposte vengono arricchite da una grande esperienza sul campo, veicolata mediante suggestivi esempi clinici.

Pur adottando una prospettiva psicodinamica, l’autrice si propone di offrire un contributo di qualità a professionisti della salute mentale che prediligono diverse prospettive, fermamente convinta che la qualità di qualsiasi supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto (McWilliams, 2022), così come l’efficacia della terapia è determinata da fattori di matrice relazionale più che dalla mera etichetta del trattamento.

Il riduzionismo formativo che traduce il momento di supervisione all’insegnamento di particolari procedure e competenze è contrario alla visione di supervisione presentata in questo libro che si fonda sull’importanza di una buona alleanza terapeutica, sulla condivisione di chiari obiettivi del trattamento, sulla comprensione delle aspettative e degli esiti del processo terapeutico nei rispettivi ruoli di clinico e paziente.

In particolare, il testo si apre offrendo dei contributi storici e generali all’argomento, per poi giungere, nel corso dei nove capitoli, a riflessioni più attuali e specifiche.

Il primo capitolo propone un’analisi degli obiettivi e dei processi implicati nella supervisione psicoanalitica, evidenziando l’importanza di offrire un supporto ai clinici, promuovere l’onestà e la sensibilità etica, condividere informazioni, prevenire pericolosi momenti di burnout e trasmettere alcune competenze essenziali del lavoro psicoanalitico, come stabilire una buona alleanza terapeutica, attuare processi non verbali di ascolto e di contenimento, porre dei chiari confini, gestire le comunicazioni verbali, tra cui le espressioni di sintonizzazione, gli inviti a elaborare, la chiarificazione dei problemi, l’esposizione ai pattern controproducenti e l’interpretazione dei significati (McWilliams, 2022).

L’autrice si sofferma sull’importanza della tempistica, del tono e del contenuto dei commenti, destinati a comunicare empatia, affrontare le difese, stabilire connessioni di senso o fare inferenze sul significato del materiale portato dal paziente. In particolare, evidenzia il potere delle parole, in grado di far sentire le persone profondamente comprese, commosse, desiderose di apprendere di più, stimolate a diventare la versione migliore di loro stesse, ma al contempo segnala il rischio delle stesse parole di ferire l’altro, di far sentire il paziente umiliato, colpevole o trattato in modo condiscendente, di limitare processi di autoesplorazione e autoesposizione. McWilliams (2022) evidenzia come si possa essere perspicaci e brillanti senza essere per niente terapeutici, in quanto il progresso clinico ha davvero poco a che fare con “l’essere nel giusto”, e questa consapevolezza è difficile da elaborare per i giovani clinici in supervisione, che hanno riscosso precedenti successi accademici dall’aver dimostrato ai docenti di conoscere la “risposta giusta”.

I clinici principianti hanno bisogno di sapere che ciò che i pazienti soddisfatti ricordano e considerano del loro trattamento non riguarda le interpretazioni brillanti del loro terapeuta. Piuttosto, rammentano l’attitudine complessiva di calore, speranza, interesse e rispetto da parte del terapeuta (McWilliams, 2022, p.26).

Il secondo capitolo traccia un excursus storico della supervisione psicoanalitica, dalle intuizioni di Freud sino alle teorie relazionali più recenti sull’alleanza di supervisione. Ci si interroga soprattutto su alcune tematiche, in tensione permanente, ovvero se si debba “insegnare o trattare” i clinici in supervisione e se vada riposta una maggiore enfasi all’impartire conoscenze e insegnare tecniche o al promuovere un processo di maturazione professionale complessiva (Watkins, 2011).

Nel sostenere i propri allievi a espandere i loro orizzonti, McWilliams non enfatizza la trasmissione di specifiche tecniche o competenze, ma la maturazione di una serie di atteggiamenti e la nascita di valori personali quali: “onestà emotiva, rispetto per i pazienti, curiosità e apertura mentale, empatia autentica (opposta a un tipo di partecipazione empatica più artificiale), una capacità di mentalizzare anche i pazienti che non attirano le simpatie del terapeuta, un’integrazione della loro conoscenza clinica nel loro stile più autentico di personalità, un accrescimento delle competenze attraverso l’esposizione ad aspetti teorici esterni alla propria formazione, umiltà, sensibilità etica, apertura a riconoscere i propri errori, e sapere dove rivolgersi per cercare aiuto” (p. 49, 2022).

Il terzo capitolo esplora il concetto di “progresso” in terapia, proponendo dieci segni vitali di cambiamento psicologico da monitorare nel corso delle sedute: maggiore sicurezza nell’attaccamento; accresciuta costanza di sé e dell’oggetto; maggiore senso di agency; maturazione di un’autostima più affidabile e realistica; maggiore resilienza e accresciuta capacità di regolazione degli affetti; migliore capacità di riflettere su di sé e mentalizzare le altre persone; accresciuto benessere in contesti individuali e collettivi; un più solido senso di vitalità; sviluppo di più mature capacità di accettazione, perdono e gratitudine; e infine, più ampie capacità di amare, lavorare e giocare, come obiettivo generale del trattamento (McWilliams, 2022).

È chiaro come le dieci capacità psicologiche sopra esposte vadano ben oltre la riduzione dei sintomi comportamentali del paziente, in quanto alla base del benessere psicologico globale.

Per citare Winnicott (1968): “Noi tutti ci auguriamo che i nostri pazienti concludano la terapia e si dimentichino di noi, e che trovino nella vita stessa la loro terapia dotata di senso” (p. 712).

L’autrice passa in rassegna le dieci aree di maturazione clinica e di cura adottando una prospettiva psicodinamica arricchita da uno sguardo ad altri modelli alternativi (approccio cognitivo-comportamentale, approccio umanistico e psicologia positiva).

Per esempio, risulta particolarmente robusta la cornice teorica di riferimento per cogliere le caratteristiche psicologiche di quegli individui che mancano di vitalità e sembrano stare al mondo senza vivere pienamente la loro vita: si è parlato di “personalità come se” (Deutsch, 1942), di “falso sé” (Winnicott, 1960), di “normopatia” (McDougall, 1980), di psicologie “normotipiche” (Bollas, 1987), di dissociazione della vita affettiva (Stern, 2009), di assenza di godimento per i lacaniani, di “complesso della madre morta” di Green (Kohon, 1999; Mucci, 2018), di “agnosia affettiva” (Lane, Weihs, Herring et al., 2015).

Il quarto capitolo delinea gli elementi generali relativi alla costruzione di una buona alleanza di supervisione e alla conduzione della supervisione individuale, mentre il quinto affronta il tema della supervisione e consultazione di gruppo. Nel quarto, vengono presi in esame alcuni costrutti fondanti, come il contratto di supervisione, la formulazione di obiettivi realistici nel trattamento e la promozione di una maggiore franchezza e onestà nella diade di supervisione; successivamente, vengono affrontate alcune resistenze e complicazioni insite al processo di cambiamento e proposte alcune soluzioni alternative ai problemi clinici; infine, dopo l’introduzione di alcuni argomenti generali di natura etica, vengono poste alcune osservazioni sui benefici del lavoro di supervisione con gruppi di terapeuti e counselor e viene posta una particolare enfasi sul valore della psicoterapia personale del clinico in supervisione (McWilliams, 2022).

Il quinto capitolo propone una serie di osservazioni e questioni insite alla supervisione di gruppo, in virtù della decennale esperienza dell’autrice come conduttrice di gruppi per clinici, nonché come partecipante; a tal proposito, ella riporta come la formazione clinica di più alto valore che abbia mai ricevuto sia stato partecipare al gruppo di supervisione basato sul transfert diretto da Arthur Robbins (vedi, per esempio, 1988) a New York (McWilliams, 2022).

 Se l’obiettivo primario di una supervisione di gruppo resta quello di accrescere le competenze terapeutiche dei suoi membri, essa offre anche ulteriori benefici, in quanto promuove la costituzione di nuovi rapporti di amicizia e reti di collaborazione, offre momenti di condivisione su tematiche di pertinenza clinica all’interno di una piacevole cornice collettiva. Per dirla con le parole della McWilliams (2022): “Costituisce un raro tempio in cui i terapeuti possono rilassarsi, lamentarsi, ridere, paragonare le loro esperienze e trovare conforto” (p. 111).

Il sesto capitolo offre alcune riflessioni sull’etica clinica, sul diritto del paziente di conoscere le informazioni appropriate (come la formazione teorica del clinico, il “funzionamento” della terapia e i limiti del trattamento), sulla responsabilità dei clinici nei confronti della comunità più allargata e della società. A tal proposito, Nancy McWilliams sottolinea la centralità del supervisore quale esempio di sensibilità morale e integrità professionale.

Il settimo capitolo affronta la complessità e le sfide peculiari della supervisione dei clinici in formazione presso istituti di formazione psicoanalitica, proponendo una revisione della letteratura sulle soddisfazioni e sulle sfide uniche del lavoro in questi contesti.

I candidati degli istituti di psicoanalisi tendono a essere curiosi, intellettualmente raffinati, più motivati a impegnarsi in un percorso di formazione che scavi in profondità, e più formati dello studente medio che inizia a studiare per diventare terapeuta. Possono interessarsi ad approfondire svariate materie e possono avere delle conoscenze di base in filosofia, teologia, arti, scienze umane e scienze sociali. Sono attratti dalla complessità e dalla profondità (p. 165, McWilliams, 2022).

Alcune delle tematiche esplorate riguardano questioni inerenti l’identità psicoanalitica, le problematiche derivanti dai fenomeni di idealizzazione, svalutazione e scissione, le dinamiche regressive, le conseguenze della self-disclosure nei termini delle eventuali inibizioni dei supervisori nel rivelarsi, e altri stress che operano a livello sistemico (McWilliams, 2022).

Con una serie di vignette cliniche, l’ottavo capitolo affronta le dinamiche che gravano sulla diade di supervisione, con un’approfondita disamina di alcune tendenze che caratterizzano le psicologie depressiva e masochistica, paranoide, schizoide, isterica, ossessivo-compulsiva, post traumatica, narcisistica e psicopatica, e degli effetti di queste dinamiche sulla supervisione stessa.

L’autrice sottolinea l’alta prevalenza di tratti depressivi-masochistici tra i terapeuti, per cui è comune in una diade di supervisione che sia il mentore sia il supervisionato presentino uno stile di personalità depressivo; tra le dinamiche più frequenti, si evidenziano processi introiettivi e formazioni reattive nei confronti di potenziali aggressori, che si manifestano con una tendenza profondamente radicata a sperimentare sensi di colpa, con gli autorimproveri e una pressione interna a dare priorità ai bisogni e alle prospettive degli altri a spese proprie Inoltre, l’autrice evidenzia come gli individui con una psicologia schizoide siano spesso attratti dalla vocazione psicoanalitica, in quanto particolarmente riflessivi e sensibili agli affetti, e come molte persone scelgano di diventare terapeuti al fine di cercare di comprendere e fare i conti con una personale storia traumatica (McWilliams, 2022).

In aggiunta alle concettualizzazioni diagnostiche, ci sono altri aspetti legati all’individualità che potrebbero influenzare la relazione di supervisione; in particolare, fattori come il genere, l’orientamento sessuale, influenze e identificazioni etniche e razziali, credenze e background spirituali o religiosi, orientamento politico e altre condizioni di unicità e marginalità (McWilliams, 2022).

Infine, l’ultimo capitolo presenta un taglio diverso dai precedenti in quanto esplora ciò che la supervisione al suo meglio può fare per la crescita professionale e personale di ciascun clinico, con alcuni consigli diretti al fine di indicare ai giovani professionisti in supervisione la strada per ottenere il massimo dalle loro esperienze di formazione.

Secondo Nancy McWilliams, “i principali obiettivi della supervisione si potrebbero sintetizzare in due punti: (1) sviluppare una voce guida di supervisore interno e (2) imparare a capire quando si ha bisogno del supporto della supervisione e come ricercarla nel corso della propria carriera” (p.6, 2022).

 

I benefici della spesa prosociale nelle relazioni sentimentali

Una ricerca di Li e colleghi (2022) ha studiato se e come la spesa pro-sociale possa apportare maggiore benessere per chi spende e per chi riceve all’interno delle relazioni sentimentali.

 

Le spese prosociali nelle relazioni di coppia

 Il denaro è una risorsa preziosa per le relazioni strette. Infatti, se da un lato le tensioni finanziarie possono abbassare la qualità coniugale evocando interazioni di coppia negative (Williamson et al., 2013), dall’altro, la spesa pro-sociale, ad esempio spendere soldi per il proprio partner, può giovare al benessere di entrambe le parti.

La letteratura ci ha dimostrato che le persone possono trarre gioia dal dare (Aknin et al., 2013). Questo effetto di potenziamento della spesa prosociale ha ricevuto un sostegno consistente (Aknin et al., 2012;  Whillans et al., 2016) in diversi comportamenti (dai regali alle donazioni) e in diversi indicatori di benessere (dalla felicità auto-riferita alla salute cardiovascolare). Il beneficio appare maggiore se il denaro viene speso per stringere forti legami sociali (Aknin et al., 2011).

Inoltre, chi spende può migliorare la propria valutazione della relazione percependo i propri atti di spesa prosociale come segni di forte sentimento (Lemay, 2014).

È importante però sottolineare che la misura in cui la spesa prosociale può contribuire al benessere di entrambe le parti può dipendere dal modo in cui il denaro viene speso.

Studi precedenti hanno distinto gli acquisti esperienziali da quelli materiali (Gilovich & Gallo, 2020; Van Boven, 2005). L’acquisto esperienziale si riferisce alla “spesa di denaro con l’intenzione primaria di acquisire un’esperienza di vita – un evento o una serie di eventi che si vivono personalmente”, mentre l’acquisto materiale si riferisce a “spendere denaro con l’intenzione di acquisire un bene materiale – un oggetto tangibile che si possiede e si conserva nel tempo” (p. 1194, Van Boven & Gilovich, 2003). Rispetto all’acquisto materiale, è più probabile che l’acquisto esperienziale favorisca le connessioni sociali (Caprariello & Reis, 2012; Yamaguchi et al., 2015)

La maggior parte degli studi precedenti si è concentrata sui benefici personali dal punto di vista di chi spende o del destinatario. Nel tentativo di esaminare entrambe le prospettive contemporaneamente, uno studio di Li e colleghi (2022) ha studiato se e come la spesa pro-sociale possa apportare maggiore benessere per chi spende e per chi riceve all’interno di una relazione sentimentale.

Regali materiali e regali esperienziali nella coppia

I risultati di questo studio hanno rivelato che spendere per il proprio partner romantico, in particolare per aspetti esperienziali, ha giovato al benessere quotidiano (sia personale che relazionale) di entrambi. Ancora più importante, la percezione di reattività del partner da parte del ricevente ha mediato l’effetto di potenziamento della spesa pro-sociale di chi spende sul suo benessere quotidiano. I risultati suggeriscono quindi che quando si spendono soldi per il proprio partner, entrambe le parti si sentono più soddisfatte in generale e della loro relazione in particolare. E soprattutto, l’aumento dei benefici psicologici per il destinatario può essere mediato dalla percezione della reattività di chi spende quando riceve la spesa pro-sociale.

È inoltre degno di nota il fatto che non sono state riscontrate alcune differenze di genere negli effetti della spesa prosociale, il che è coerente con studi precedenti che hanno dimostrato l’egualitarismo nelle relazioni sentimentali moderne (Lever et al., 2015; Pedersen et al., 2011).

 I nostri risultati suggeriscono che gli acquisti esperienziali per il partner sembrano migliorare maggiormente il benessere di entrambe le parti rispetto all’acquisto materiale e questo effetto di potenziamento sembra essere mediato dalla percezione di reattività del partner, suggerendo quindi che la percezione di reattività nel proprio partner è la chiave del beneficio percepito.

Oltre all’acquisto esperienziale generale, un altro elemento che ha apportato benessere alla coppia è lo spendere soldi per il cibo. Il cibo è un’esperienza non solo perché ha un valore edonico (ad es, Van Boven & Gilovich, 2003), ma anche perché consente scambi sociali piacevoli e gratificanti.

Data la sua importanza nel rafforzare i legami sociali (Rozin, 2005), non sorprende che gli acquisti di cibo rappresentino da soli il 72% degli acquisti complessivi dichiarati nel campione di questo studio.

È lecito domandarsi se gli effetti benefici degli acquisti di cibo possano essere confusi con la piacevolezza del trascorrere del tempo insieme (ad es, cenare insieme). In questo studio non è stato possibile testare il ruolo di moderazione di queste variabili, perciò gli studi futuri potrebbero indagare questo aspetto.

Infine, i risultati hanno dimostrato che la spesa prosociale attraverso l’acquisto di beni materiali non ha favorito il benessere quotidiano di nessuna delle due parti.

Le ricerche sul dono (ad es, Gino & Flynn, 2011; Kupor et al., 2017) suggeriscono che, nonostante il desiderio di spendere per l’altro partner e quindi l’intenzione benevola del donatore, spesso non si riesce a soddisfare i gusti o le preferenze del destinatario. In linea con questa ricerca, la spesa prosociale attraverso l’acquisto di beni materiali può fallire nel trasmettere la reattività e nel promuovere il benessere.

Conclusioni

In conclusione, i risultati dello studio rimarcano la possibilità che le spese prosociali nelle relazioni sentimentali possono conferire un aumento del benessere personale e relazionale per entrambi i membri della coppia attraverso il ruolo fondamentale della reattività percepita all’interno della relazione. Come menzionato precedentemente, non tutte le spese all’interno della coppia ottengono il medesimo risultato; gli effetti dei diversi tipi di acquisto suggeriscono che la spesa prosociale abbinata all’acquisto esperienziale sia il modo migliore per rendere felici entrambi i partner.

 

Il rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 16

In questo e nei prossimi articoli ci occuperemo di ripercorrere il lavoro operato dagli Esperti del Tavolo D, che ha interessato le tematiche relative alle risorse e all’organizzazione necessarie per facilitare l’accesso delle persone alle terapie psicologiche.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 16) Il rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche

 

Il Tema D si è suddiviso in cinque sotto-temi, che hanno specificamente riguardato il rapporto costi/benefici legato alle terapie psicologiche (Tema D1), le strategie organizzative per facilitare l’accesso alle terapie (Tema D2), il ruolo della tecnologia nel migliorare l’accessibilità alle cure psicologiche (Tema D3), nonché le iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica (Tema D4) e i policy-makers (Tema D5) rispetto alla disponibilità di efficaci terapie psicologiche disponibili per la cura dei Disturbi Mentali Comuni (DMC, come ansia e depressione).

Quesito D1: il rapporto costi/benefici

Nella letteratura specialistica internazionale si hanno prove di un favorevole rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche, anche in termini strettamente economici (assenze dal lavoro, maggiori costi sanitari e sociali, stress lavoro correlato, ecc.). Quali stime realistiche si potrebbero fare per il contesto italiano?

È stato calcolato che in Europa, nel 2010, il costo complessivo per i disturbi d’ansia è stato di 74,4 miliardi di euro e per i disturbi dell’umore di 113,4 miliardi di euro (Olesen et al. 2012).

Per quanto riguarda la Depressione maggiore, l’impatto sul sistema previdenziale è notevole. Secondo i dati dal 2009 al 2015, i beneficiari di prestazioni previdenziali sono stati 10.500; il 90% di essi beneficia di un Assegno Ordinario di Invalidità (AOI), con una spesa totale di 550 milioni di euro, mentre il 10% beneficia di una Pensione di Inabilità, con una spesa di 93 milioni di euro. Inoltre, il trend dei costi a carico del sistema previdenziale, che ha visto una crescita di +70% tra il 2006 e il 2015, sembra destinato a crescere.

In aggiunta, ansia e depressione comportano delle problematiche nell’ambito lavorativo. Sono infatti tra le principali cause di costi indiretti, ovvero assenza dal lavoro e perdita di produttività (che si traducono in una perdita di circa 4 miliardi di euro annui). Infatti, solamente per la depressione, sembra che il costo stimato sia di € 7.140 a persona, in termini di costi indiretti. A questo riguardo, numerosi studi hanno mostrato effetti positivi della psicoterapia per quanto riguarda i tassi di occupazione e ciò comporta, di conseguenza, una riduzione dei costi indiretti (Fournier et al., 2015).

Per quanto riguarda i costi diretti, ovvero spese mediche e di assistenza sanitaria a carico dell’utente e del Servizio Sanitario Nazionale, sembra che i comuni trattamenti biologici (come i farmaci) per ansia e depressione siano molto più costosi della psicoterapia, anche se quest’ultima fosse un intervento a lungo termine (per esempio, Cuijpers et al., 2010; Hollon et al, 2006; Wampold, 2007, 2010).

Riguardo ai benefici della psicoterapia sui costi che ricadono sul sistema sanitario, numerose metanalisi hanno riferito che la psicoterapia aiuta a ridurre le spese mediche e i tempi di ospedalizzazione, oltre che a ridurre disabilità, morbilità, mortalità e ricoveri in reparti psichiatrici (Linehan et al., 2006; Pallak et al., 1995). Se integrata nelle cure primarie, la psicoterapia sembra ridurre il costo di spese mediche di circa il 20-30% (Cummings et al., 2003). Inoltre, è interessante notare come circa il 50% dei pazienti preferisca la psicoterapia ai trattamenti farmacologici, a causa dei possibili effetti collaterali negativi di questi ultimi. Sarebbe ragionevole pensare che, qualora si proponesse la psicoterapia a pazienti che la preferiscono, ci sarebbe una maggiore aderenza al trattamento (Deacon & Abramowitz, 2005; Paris, 2008; Patterson, 2008; Solomon et al., 2008; Vocks et al., 2010).

A seguito della pandemia, è verosimile pensare che i costi diretti e indiretti siano aumentati, e un incremento, anche se ridotto, dei tassi di guarigione aiuterebbe a coprire costose e vaste iniziative in ottica di miglioramento dell’accessibilità alle cure psicologiche, come supportato dall’esperienza inglese con il programma Improving Access to Psychological Therapies (IAPT; Clark, 2017) più volte citato in questa Consensus.

Raccomandazioni D1

Dato il positivo rapporto costi/benefici evidenziato rispetto ai costi diretti e indiretti, gli Esperti raccomandano di “promuovere l’utilizzo di terapie psicologiche basate sulle prove di efficacia come interventi di prima linea per gli utenti affetti da ansia e/o depressione lieve o moderata” (ISS, 2022, p. 100). Ciò, dunque, consentirebbe –come detto spesso in questa Consensus Conference– non solo di fornire cure psicologiche adeguate migliorando così la qualità di vita delle persone, ma anche di ridurre i costi diretti e indiretti generati dai DMC, quindi incrementare le ore di produttività e diminuire le spese mediche.

 

Mangio che mi passa. Quando il cibo aiuta a gestire le emozioni – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Mangio che mi passa. Quando il cibo aiuta a gestire le emozioni”.

 

 Le emozioni, sia quelle piacevoli sia quelle più dolorose, svolgono una funzione adattiva. A volte, però, possiamo avere difficoltà a riconoscerle e, di conseguenza, facciamo fatica a gestirle. In questo contesto il rapporto con il cibo può giocare un ruolo determinante.

Mangiare in eccesso, per esempio, può essere un modo per distrarsi dagli eventi negativi e dai problemi che ci preoccupano o una strategia per attenuare stati emotivi intensi giudicati intollerabili.

Mangiare di meno, al contrario, può farci credere, in maniera illusoria, di poter controllare eventi che percepiamo invece fuori dal controllo.

Durante l’incontro verrà analizzato il rapporto tra emozioni e cibo e verranno date indicazioni per un trattamento efficace.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

La coscienza in un’ottica evolutiva e interpersonale: Neuman e Liotti due autori a confronto

La coscienza è un processo di ordine superiore in quanto sovraintende alle principali funzioni psichiche, come la discriminazione, l’integrazione, l’autoriflessione, la consapevolezza di sé, inoltre presiede i meccanismi volontari, orienta l’attenzione e consente la vigilanza. Il suo opposto è l’inconscio (non conscio) le cui istanze sfuggono al controllo dell’individuo. Ma da dove origina la coscienza?

 

Le coscienza secondo Neuman

 Neuman, in una prospettiva ontogenetica, ha individuato le tappe che precorrono la nascita e lo sviluppo della coscienza. Egli affianca la storia personale dell’individuo a quella transpersonale della storia dell’umanità (filogenesi) poiché ogni individuo è governato dalle medesime immagini primordiali (archetipi di Jung). All’origine vi è la Grande madre che è la dimensione transpersonale della madre nella sua componente divina e terrena. In essa è contenuta anche l’immagine riflessa del padre (la sua componente maschile). Nella Grande madre gli opposti coincidono, essa è raffigurata come Uroboro, ossia il serpente che si morde la coda. L’Uroboro è la dimensione inconscia dell’individuo in cui egli è ancora fuso e confuso con la madre, ma in seguito alla separazione da quest’ultima il bambino diverrà un individuo cosciente di sé stesso. Da questa prima separazione si origina una forma primordiale di coscienza grazie alla quale l’uomo diviene capace di discriminare gli opposti piacere-dolore, anima-animus, madre buona e madre terrifica, che prima giacevano indistinti nel ventre della Grande madre. Neuman fa una distinzione fra la coscienza matriarcale che è intrinseca alla dimensione originaria e che ne rappresenta la componente maschile e spirituale (la Sophia) che è rappresentata simbolicamente dalla luna e la coscienza patriarcale che nasce dalla separazione dalla madre originaria ed è rappresentata dal sole. Per l’autore la coscienza matriarcale è il cuore e la coscienza patriarcale è la testa. Al centro di questa coscienza illuminata vi è l’Io. Dunque il processo d’individuazione/separazione dell’Io è il processo attraverso il quale l’Io riconosce di essere distinto dalla sua origine, e dunque un individuo consapevole di sé.

L’uomo non ha però compiuto il suo processo di maturazione. Infatti, è necessario un percorso inverso (centroversione) di integrazione fra la coscienza e l’inconscio. Una coscienza senza la dimensione inconscia è fredda e razionale, priva della sua dimensione creativa ed emotiva. Neuman individua due percorsi evolutivi diversi per l’uomo e per la donna: l’uomo dovrà tornare nell’uroboro per combattere la dimensione terrifica della madre affrontando la lotta contro il drago (la componente divorante e distruttiva della madre) unitamente alla sua nuova compagna (la sposa terrena) che rappresenta la Sophia, mentre la donna unendosi sponsalmente con l’uomo terreno è fecondata dal sole divino, che le conferirà la coscienza nella dimensione maschile.

Al centro di questa forma più evoluta di coscienza (la psiche) vi è il Sé.

La coscienza, dunque, origina dall’inconscio ed è il frutto di una prima separazione da esso, è la fuoriuscita dal caos primordiale, dall’oscurità dell’inconscio. Ne consegue una prima scissione degli opposti (madre buona e madre terrifica, ma anche anima/animus) che prima giacevano indistinti nel grembo della Grande madre. La maturazione della coscienza è favorita nell’individuo nel suo percorso ontogenetico dall’incontro con il padre nella sua funzione normativa ed esplorativa, dove l’individuo impara a procrastinare i propri bisogni, in favore dell’approvazione sociale, è la nascita della “persona”, ma anche la nascita dell’ombra, che è il lato oscuro, rimosso, dell’individuo, quello a cui è tenuto a rinunciare per avere l’approvazione dell’altro da sé. Questo, afferma Neuman, è solo un primo passo del processo di maturazione. A questa forma di coscienza primordiale, definita da Neuman coscienza egoica, segue un processo di integrazione che l’individuo deve compiere per realizzare sé stesso, ossia il recupero dell’inconscio, di quella parte di sé da cui inizialmente si è separato e a cui ritorna, per recuperare quello cui ha rinunciato per inseguire la sua maturazione (il tesoro del labirinto di Teseo, custodito da Minosse). Egli torna in modo attivo per non essere fagocitato dell’aspetto terrifico dell’inconscio, non è dunque una regressione, ma una centroversione.

In quest’ottica la maturazione della coscienza è un processo orizzontale, ossia la coscienza si origina dall’inconscio che la precede e si sviluppa, attraversando diversi stadi, con l’evolversi dell’individuo nella relazione con la figura materna e paterna.

La coscienza secondo Liotti

Liotti, rifacendosi ad Edelman, nella “Dimensione interpersonale della coscienza”, distingue una coscienza primaria, caratterizzata da mappe percettive e mnemoniche che appartengono alla dimensione inconscia dell’attività mentale (scene) e una coscienza secondaria che organizza i contenuti inconsci in sequenze narrative attraverso il linguaggio. La coscienza primaria si connota di immagini ed emozioni, mentre la coscienza secondaria si caratterizza per pensieri verbalizzati (Liotti 2011).

Liotti si sofferma sulla dimensione interpersonale della coscienza, ossia sulla sua origine all’interno della relazione fra conspecifici, in primis sotto forma di emozione (l’emozione è determinata dall’interazione strutturale fra l’individuo e il suo mutevole mondo) ed immagini mentali, successivamente sotto forma di linguaggio ed attribuzione di significato.

 Dal punto di vista dell’evoluzione della specie, osserva che nei primati è presente una prima forma di coscienza, i mammiferi sono infatti capaci di comunicazione sociale (emotiva, non verbale), di riprodurre l’azione esplicita osservata nell’altro (neuroni specchio) e di comprendere la natura della relazione fra conspecifici (gerarchia, sistema di rango). Il salto tra l’animale e l’uomo è dato dalla capacità dell’uomo di comprendere l’intenzionalità dell’altro (capacità riflessiva , Tommasello – 1999) e anche dalla prontezza del sistema motivazionale cooperativo (Liotti 2001), presente nell’uomo più che in ogni altra specie di mammiferi. Il sistema motivazionale cooperativo, a differenza degli altri sistemi, richiede la posizione fianco a fianco, diversamente dagli altri sistemi, in cui ci si pone di fronte o al più l’uno avanti all’altro, per dirigere l’attenzione verso una stessa meta.

I sistemi motivazionali, che sono i sistemi presenti sia nell’uomo che nell’animale, regolano il comportamento, le emozioni e le relazioni nella direzione del raggiungimento di un obiettivo e si dispongono in senso gerarchico su un continuum caratteristico dell’evoluzione della specie da un punto di vista filogenetico e la maturazione dell’individuo da un punto di vista ontogenetico.

ln un primo livello si situano i sistemi finalizzati alla difesa dai pericoli ambientali, all’esplorazione dell’ambiante e alla regolazione dei bisogni corporei (bisogni omeostatici). In un secondo livello comprende i sistemi che regolano le relazioni sociali basilari, sistema motivazionale di attaccamento/accudimento, agonistico, sessuale e cooperativo. Quest’ultimo è un sistema più evoluto, è particolarmente attivo nell’uomo, è l’unico sistema paritetico e si innesca, nel bambino, fra i nove mesi e i due anni, ogni volta che non è attivo il sistema dell’attaccamento/accudimento e conduce ad una solida rappresentazione di pariteticità (l’altro come simile a me nell’intenzionalità diretta e al raggiungimento di un obiettivo comune).

Nell’ontogenesi, dunque, la coscienza nasce dalle prime relazioni in cui l’individuo è immerso, come frutto di un rispecchiamento, della capacità di leggere e riconoscere nell’altro le proprie emozioni (… Se Adamo sorride ad Eva ed Eva in risposta imita tale sorriso … Eva saprà dalle informazioni endogene prodotte dai muscoli attivi cosa si prova quando si sorride…Liotti 2011). È questa una coscienza primaria le cui prime rappresentazioni sono inaccessibili all’esperienza soggettiva narrabile perché costituiti da emozioni e immagini.

La memoria di queste emozioni costituirà la base dei contenuti e dei processi della coscienza di ordine superiore che maturerà più tardi, con l’acquisizione del linguaggio che, per la sua stessa natura sequenziale (sintassi), organizza tali rappresentazioni in pensieri verbalizzati. Così Adamo ed Eva potranno impegnarsi a tradurre in una sequenza comunicativa ordinata le proprie reciproche intuizioni e da tale tentativo prenderà forma l’aspetto sintattico del linguaggio”.

Dunque per Liotti, come per Neuman, la nascita della coscienza di ordine superiore è frutto di un processo di maturazione/crescita e la qualità della coscienza attuale dipende dalle caratteristiche delle prime relazioni interiorizzate.

Aggiunge Liotti (2011) che l’isolamento sociale per lunghi periodi può dar luogo ad alterazioni della coscienza interpretabili come parziali “regressioni” verso la coscienza primaria. L’ancor più prolungata assenza di scambi relazionali concreti può tradursi nell’alterazione delle funzioni più antiche della coscienza primaria, e oggi più che mai, ne abbiamo una dimostrazione concreta.

 

Gli effetti dell’educazione musicale nello sviluppo e nella promozione di alcune “social skills” nei bambini

Alcuni studi hanno dimostrato che l’educazione musicale influenza la plasticità cerebrale in quanto può favorire la connessione tra i neuroni dell’area frontale, che è a sua volta implicata nei processi di memorizzazione e attenzione.

 

Gli effetti positivi della musica e dell’educazione musicale

 L’educazione musicale contribuisce allo sviluppo e alla promozione di alcune “life skills” tra cui abilità sociali e scolastiche, che sono essenziali durante l’infanzia tanto da essere considerate un fattore protettivo per uno sviluppo soddisfacente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1997) indica tra le sue linee guida diverse attività artistiche, tra cui l’educazione musicale, che, durante le prime fasi del ciclo di vita, favoriscono l’inclusione sociale ed educativa di bambini e adolescenti.

La musica sembra infatti giocare un ruolo fondamentale per il neurosviluppo dei bambini e delle loro funzioni cognitive. L’educazione musicale, che prevede un processo di costruzione della conoscenza utile a sviluppare la sensibilità, la creatività, il senso del ritmo, memoria, concentrazione, immaginazione, attenzione, autodisciplina, rispetto per gli altri, socializzazione e azione, contribuisce anche alla consapevolezza del corpo e del movimento (Costa-Giomi, 2001).

Alcuni studi hanno dimostrato che l’educazione musicale influenza la plasticità cerebrale in quanto può favorire la connessione tra i neuroni dell’area frontale, che è a sua volta implicata nei processi di memorizzazione e attenzione, e stimola la comunicazione tra i due lati del cervello (Zatorre, 2005). Per tali ragioni è associata anche al ragionamento, alla matematica, all’apprendimento di un’abilità motoria, al linguaggio e ad altre tipologie di cognizioni tramite l’attivazione di diverse aree cerebrali. È noto, infatti, che la pratica musicale faccia lavorare il cervello attivando una rete di connessioni: leggendo uno spartito, per esempio, le persone trasferiscono le informazioni in forma visiva al cervello, il quale trasmette i movimenti necessari alle mani trasformandolo quindi in tatto, e, successivamente, l’udito identifica se il movimento risulta corretto. L’apprendimento musicale è quindi connesso ad entrambi gli emisferi, nonostante la percezione della musica sia localizzata principalmente nell’emisfero destro del cervello poiché dipende da altre funzioni cerebrali come il linguaggio verbale, la memoria e l’analisi e risoluzione di problemi (Nogueira, 2011).

Inoltre sembra che l’educazione musicale possa rendere il contesto scolastico favorevole all’apprendimento, migliorando il rendimento e la concentrazione individuale, oltre che stimolando le varie capacità degli studenti (Snyders et al., 1992).

Le abilità sociali contribuiscono alla promozione della salute nell’infanzia e nell’adolescenza, e la musica è associata alle relazioni interpersonali nella vita quotidiana, essendo utilizzata anche come tecnica di intervento per i processi comportamentali e la gestione degli stati emotivi (Ilari, 2006).

Gli insegnanti di musica, con altri professionisti come logopedisti e psicologi, possono quindi contribuire a promuovere tali abilità tramite lo sviluppo di tecniche che ottimizzino il repertorio sociale in modo efficace.

Educazione musicale e social skills

 Uno studio di Said e Abramides del 2020, aveva come obiettivo quello di indagare l’effetto dell’educazione musicale sul repertorio di abilità scolastiche e sociali dei bambini sottoposti e non all’educazione musicale. In particolare, gli autori volevano confrontare il repertorio di abilità scolastiche dei bambini nel gruppo sperimentale prima e dopo l’intervento di educazione musicale. Il loro campione era quindi composto da 80 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni suddivisi in due gruppi: 40 sottoposti a educazione musicale e 40 non sottoposti. Sono stati somministrati loro il Social Skills Rating System (SSRS-BR; Gresham, 1990), per valutare la frequenza e l’importanza delle Social Skills, la frequenza dei comportamenti problematici e la competenza accademica degli scolari; inoltre è stato somministrato il questionario School Performance Test (SPT; Stein, 1994) per valutare le capacità di rendimento scolastico degli studenti. I risultati mostrano una differenza statisticamente significativa tra i gruppi, evidenziando un notevole miglioramento del rendimento scolastico e delle competenze accademiche nei bambini sottoposti a educazione musicale. Si può affermare quindi che i benefici apportati dall’apprendimento musicale associato a diverse aree dell’educazione e della salute sono di grande rilevanza, rappresentando una strategia efficace nella pratica inclusiva e nella promozione della salute mentale dei bambini.

Inaugurazione Scuola di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini, 30 Settembre 2022 – Comunicato Stampa

Venerdì 30 settembre 2022 alle ore 16 si terrà l’inaugurazione della Scuola di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini, sita in Corso d’Augusto 115. L’evento si terrà presso la Sala del Giudizio dei Musei Comunali di Rimini, in via Luigi Tonini 1.

Comunicato Stampa

 

Sarà presente per l’apertura dei lavori l’Assessore alle Politiche per la Salute Dott. Kristian Gianfreda. È previsto un intervento della Dott.ssa Sandra Sassaroli, Presidente e fondatrice del Gruppo Studi Cognitivi, che illustrerà alcuni elementi fondanti del modello di cura che viene insegnato nella scuola di specializzazione: “Formulazione del caso LIBET e strategie di intervento: un caso clinico”.

Seguirà una tavola rotonda che vedrà importanti esponenti della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria italiana confrontarsi sul tema “Percorsi per la salute mentale: verso una direzione condivisa”. Il dibattito sarà un interessante momento di scambio e confronto in cui la cura della salute mentale entra in relazione con i servizi attualmente offerti dal territorio romagnolo. Si esaminerà il contributo della psicoterapia cognitivo-comportamentale nel mondo della salute mentale e l’importanza della costruzione e del mantenimento del networking tra le realtà presenti sul territorio.

L’evento è organizzato da Studi Cognitivi Formazione, che coordina l’attività di un gruppo di scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal Ministero Università e Ricerca. Il Gruppo Studi Cognitivi è leader in Italia nel campo della psicoterapia. Il gruppo è specializzato primariamente nell’alta formazione, nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nell’erogazione di servizi clinici nel campo della salute mentale.

La mission di Studi Cognitivi Formazione è di elevare il livello della psicoterapia nei territori in cui opera grazie alla sinergia di ricerca scientifica, didattica e pratica clinica.

Il progetto didattico di Studi Cognitivi Formazione si avvale di un gruppo di ricerca di fama internazionale che ha all’attivo numerose pubblicazioni e che continua a contribuire allo sviluppo della disciplina.

Presso la sede della scuola in affancamento dell’attività didattica, è anche attivo Il Centro Clinico Studi Cognitivi, punto di riferimento per il trattamento dei disturbi psicologici ed emotivi della città di Rimini e provincia. Al suo interno opera un pool di professionisti esperti nel campo della salute psicoemotiva, psicologi e psicoterapeuti qualificati nello svolgere colloqui psicologici, attività psicodiagnostica, trattamenti psicoterapeutici.

I servizi offerti sono rivolti a tutte le fasce della popolazione, dai bambini ed adolescenti al supporto della salute mentale nella terza età. I percorsi di cura seguono le più aggiornate e riconosciute linee guida internazionali coerentemente con una visione della psicoterapia efficace e fondata sulle evidenze scientifiche.

 

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Programma della Giornata

ORE 16.00 – APERTURA LAVORI a cura dell’ Assessore Kristian Gianfreda – Assessore Politiche per la salute, Protezione sociale, Politiche per la casa, Governance degli organismi partecipati non societari – Comune di Rimini

a seguire

INTERVENTO DI SANDRA SASSAROLI: “Formulazione del caso LIBET e strategie di intervento: un caso clinico”

DALLE 17:30 ALLE 19:00 – TAVOLA ROTONDA: “Percorsi per la Salute Mentale: verso una direzione condivisa”

Interverranno al dibattito:

  • dott. Andrea Tullini – Direttore di Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche – Ausl Romagna – Rimini
  • dott. Riccardo Sabatelli – Direttore CSM Centro Salute Mentale – Ausl Romagna – Rimini
  • dott.ssa Cinzia Giulianelli – Responsabile Struttura Semplice Neuropsichiatria Infantile Ospedale Infermi – Rimini
  • dott. William Giardi – Direttore Unità Operativa Complessa Servizio Minori I.S.S. di San Marino
  • dott. Gabriele Raimondi – Presidente Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna
  • dott. Marco Menchetti – Professore associato di Psichiatria Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’ Università di Bologna
  • dott.ssa Sara Giovagnoli – Psicologa e Professoressa Associata del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna
  • dott.ssa Sandra Sassaroli – Presidente del Gruppo Studi Cognitivi e Direttore del Dipartimento di Psicologia Sigmund Freud University – Milano
  • dott. Gabriele Caselli – Direttore della Scuola di Specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive, Professore di Psicologia Clinica, Sigmund Freud University

Introducono i quesiti:

  • dott.ssa Roberta Stoppa – Psicologa, Psicoterapeuta CBT. Direzione organizzazione e sviluppo delle Scuole del Gruppo di Studi Cognitivi. Consigliera di indirizzo generale in Enpap
  • dott.ssa Valeria Valenti – Psicologa Psicoterapeuta CBT Referente formativo STCC Rimini

ORE 19:00 – BRINDISI E BUFFET

L’evento si terrà presso Sala del Giudizio – Museo della Città di Rimini (Via L.Tonini, 1)

 

 

Rimuginio e ruminazione: in che relazione sono con i disturbi del comportamento alimentare? 

La relazione tra processi cognitivi quali il rimuginio e la ruminazione e i disturbi del comportamento alimentare è complessa e per certi versi ancora un tema ancora controverso in letteratura.

 

Rimuginio e ruminazione

 Il rimugino è definito come una catena di pensieri e immagini incontrollabili (Borkoveck et al., 1983). È un tentativo di problem-solving a livello mentale relativamente a problemi il cui esito è sconosciuto, ma include la possibilità che possa essere negativo.

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi, dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

La ruminazione è definita come pensieri che focalizzano ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991). La ruminazione è quindi un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo (Nolen-Hoeksema, 1991).

Il rimugino è solitamente focalizzato sulla risoluzione dei problemi ed è più orientato al futuro, mentre la ruminazione in genere si concentra sui problemi passati (Olatunji et al., 2013)

In letteratura il termine Repetitive Negative Thinking (RNT) fa riferimento a un processo cognitivo caratterizzato da una forma di pensiero ripetitivo, frequente e focalizzato sul sé, che include sia il rimuginio che la ruminazione (Segerstrom, Stanton, Alden, Shortridge, 2003; Ehring, Watkins, 2008; Watkins, 2008)

Una grande mole di ricerche hanno suggerito e dimostrato che il rimuginio e la ruminazione, e quindi in generale, il Repetivive Negative Thinking, sarebbero processi cognitivi presenti in molteplici disturbi psicopatologici (Ehring, Watkins, 2008).

Disturbi alimentari e Repetitive Negative Thinking

In relazione ai disturbi alimentari, è ampiamente riconosciuta come caratteristica chiave della psicopatologia la presenza di una elevata preoccupazione e controllo del peso e della forma fisica (Fairburn, Cooper, Shafran, 2003).

Pertanto, è facilmente immaginabile che gli individui che hanno un disturbo alimentare presentino una maggiore tendenza verso il Repetitive Negative Thinking.

Ad esempio, una metanalisi recente di Smith, Mason e Lavender (Smith, Mason & Lavender, 2018) ha evidenziato che la ruminazione è correlata con patologie legate ai disturbi alimentari e che i soggetti con un disturbo del comportamento alimentare mostrano livelli maggiori di ruminazione rispetto a soggetti di controllo.

Parimenti, in letteratura si riscontrano alcuni studi che riportano maggiori livelli di rimuginio in pazienti con disturbi alimentari rispetto alla popolazione generale (Sassaroli et al., 2005; Sternheim et al., 2012).

La meta-analisi di Palmieri, Mansueto e colleghi, pubblicata nel 2021, ha come obiettivo quello di mettere a fuoco e di chiarire il ruolo che nel complesso i processi di pensiero ripetitivo negativo, che includano quindi sia il rimuginio che la ruminazione, possono giocare in termini di fattori di moderazione, nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi del comportamento alimentare.

La meta-analisi ha preso in esame 43 studi che si sono occupati di questo tema, andando a includere attraverso PubMed e PsychInfo studi scientifici pubblicati utilizzando come parole chiave “eating disorder/anorexia/bulimia/binge eating disorder” AND “worry/rumination/brooding/repetitive thinking”. La meta-analisi è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

Dai risultati della meta-analisi è emerso che il “Repetitive Negative Thinking” (RNT) è significativamente correlato a condizioni sintomatiche di disturbi alimentari, quali anoressia nervosa, bulimia nervosa e binge eating disorder (BED), con l’evidenza che i pazienti con diagnosi di disturbo alimentare presentano livelli maggiori di Repetitive Negative Thinking rispetto alla popolazione generale. Inoltre, I risultati suggeriscono che la magnitudo di tale relazione non sarebbe influenzata dall’età dei partecipanti.

 Ma in che modo il Repetitive Negative Thinking gioca un ruolo nella sintomatologia alimentare? Emozioni e credenze negative possono agire come trigger del Repetitive Negative Thinking, che una volta attivato a sua volta mantiene nel tempo tali stati negativi. In questa direzione il modello teorico Self-Regulatory Executive Function (S-REF model) (Wells, Matthews, 1996) assume che il Repetitive Negative Thinking è una tra le forme disadattive di coping che mantiene il distress psicologico, facendo perdurare stati affettivi-cognitivi negativi (Cognitive Attentional Syndrome” (CAS) (Wells, 2000).

Parimenti, è ampiamente riconosciuto in letteratura che, in un quadro di disturbi alimentari, sintomi alimentari quali le diete, così come il binge-eating, possono essere una strategia di coping a fronte di stati cognitivo-affettivi negativi, in tal modo ingenerando circoli viziosi disadattivi tra Repetitive Negative Thinking, stati emotivi negativi perduranti e comportamenti alimentari disfunzionali.

I dati hanno inoltre evidenziato un effetto di moderazione della variabile “sottotipo di sintomo di disturbo alimentare”, evidenziando che vi sarebbero differenze in termini di intensità di correlazione tra Repetitive Negative Thinking e tipologia di sintomo alimentare. In particolare, l’associazione tra Repetitive Negative Thinking e sintomi alimentari sarebbe più forte nella condizione sintomatica di Anoressia Nervosa rispetto alla Bulimia Nervosa e al Binge Eating Disdorder. Questo risultato è in linea con una recente review sistematica (Palmieri et al., 2021) in cui le credenze metacognitive disadattive sembrano essere più rilevanti nell’anoressia nervosa rispetto ad altre tipologie di disturbo alimentare.

Conclusioni

In conclusione, è importante evidenziare che dalla meta-analisi è stato confermato che sia il rimuginio che la ruminazione sarebbero quindi processi disfunzionali transdiagnostici, entrambi presenti in misura maggiore in pazienti con disturbo alimentare rispetto alla popolazione generale non clinica.

Alla luce di tale review, sono da prendere in considerazione alcune implicazioni importanti per la pratica clinica, tra cui l’assessment focalizzato sul Repetitive Negative Thinking, così come interventi specifici evidence-based che vadano a regolare la frequenza e l’intensità del Repetitive Negative Thinking nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare.

Il cervello ha una mente propria (2022): una mappa (meta)teorica per le psicoterapie – Recensione

Obiettivo esplicito del volume “Il cervello ha una mente propria” non è semplicemente quello di colmare le intenzioni del padre della psicoanalisi, quanto invece, di estenderle e ristrutturarle, al passo coi nostri tempi.

 

Abstract

 Il nuovo volume di Holmes, intitolato “Il cervello ha una mente propria: attaccamento, neurobiologia e la nuova scienza della psicoterapia”, tenta di integrare la psicoanalisi (e più in generale la psicoterapia) con le scoperte derivanti dalla moderna neurofisiologia, ricorrendo ad un’ottica complessa ed interdisciplinare, tale da tenere assieme la fisica quantistica, la teoria della probabilità, i modelli evoluzionistici, quelli neurocomputazionali e molto – davvero, molto – altro.

A seguire sarà proposta una sintesi critica ed approfondita del volume, densa di riflessioni contestuali in linea con gli argomenti trattati.

Introduzione: mappare una nuova scienza per la psicoterapia

A prima vista il libro di Holmes – professionista noto soprattutto per i suoi contributi alla teoria dell’attaccamento – sembrerebbe l’ennesimo tentativo di concludere lo sforzo incompiuto, che Freud iniziò ad abbozzare nel 1895 all’interno del “Progetto di una psicologia”, sperando di conferire alla nascente psicoanalisi un solido terreno neuroscientifico e metateorico; compito, questo, poi comprensibilmente sfumato – soprattutto alla luce delle conoscenze teoriche e delle metodologie di ricerca, a cui le scienze psicologiche possono attualmente fare ricorso. D’altronde, l’ambizione di strutturare una metapsicologia rappresentava per lo stesso Freud una impresa assai ardua. Non a caso, ad oggi, non si è ancora giunti ad una sua soddisfacente e comune ridefinizione (Imbasciati, 2010; Solms, 2022).

È da queste premesse che muove, per l’appunto, la digressione di Holmes, ironicamente intitolata “Il cervello ha una mente propria”, vale a dire: una logica tutta sua.

Obiettivo esplicito del volume non è semplicemente quello di colmare le intenzioni del padre della psicoanalisi, quanto invece, di estenderle e ristrutturarle, al passo coi nostri tempi.

Il volume di Holmes, infatti, tenta di integrare le scoperte derivanti dalla neurofisiologia attuale con la psicoanalisi (e più in generale con la psicoterapia), ricorrendo ad una ottica molto complessa e interdisciplinare, tale da tenere assieme la fisica quantistica, la teoria della probabilità, i modelli evoluzionistici, quelli neuro computazionali e molto – davvero, molto – altro. Il tutto, a detta di chi scrive, pare condensarsi in un interessante contributo.

Nella prefazione del volume, Alessandro Zennaro, chiarisce come l’autore non si rifaccia praticamente mai, nel corso delle pagine, a concetti di tipo pratico e, tanto meno, mai giunga a delle conclusioni definitive; l’intero volume, in tal senso, dovrebbe essere inteso non come un viaggio ma come una mappa; dalla quale potersi spostare, cambiare prospettive e camminare in direzioni nuove ed originali, su strade, in parte, già battute e segnate da Holmes – in attesa d’esser ulteriormente esplorate.

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Il cervello ha una mente propria 2022 di J Holmes Recensione del libro Imm 1

Seppur ostico, questo libro, lo consiglierei proprio per la ricchezza dei rimandi bibliografici e degli stimoli inediti; tuttavia, a detta di chi scrive, un certo amaro potrebbe restare in bocca, dettato da quel tentativo – permettetemi – probabilmente poco coraggioso di voler salvaguardare a tutti i costi alcuni concetti psicoanalitici classici, del tutto obsoleti se rapportati sia alle neuroscienze attuali che (soprattutto) agli interessanti spunti avanzati, di pagina in pagina, dallo stesso Holmes.

Quasi un autosabotaggio – quasi! – considerando quanto scrive l’autore (p.7, Holmes, 2022):

Gabbard e Odgen, riprendendo forse inconsciamente Totem e Tabù di Freud hanno descritto il paradossale percorso dei membri del clan psicoanalitico, i quali devono contemporaneamente uccidere il padre e onorare i propri antenati. Con questo spirito la mia trattazione è al contempo un omaggio a Freud e, in parte, una ricerca di un paradigma post-psicoanalitico.

La probabilità curva le forme che usiamo per pensare: l’omeostasi nei sistemi dinamici complessi

Dettagli a parte, il concetto cardine che Holmes introduce all’interno del suo libro è quello di FEP – free energy principle: il Principio di Energia Libera (il corrispettivo di libido, in chiave 2.0), secondo cui, l’energia (in senso lato), non andrebbe intesa come uno specifico fenomeno fisico, bensì come una categoria sovraordinata, alla stregua della forza di gravità.

Gli agenti biologici (ad es. gli esseri umani), in linea con la teoria dei sistemi dinamici complessi (Seligman, 2005; Verdesca, 2018b), tenderebbero a legare – o, in termini Freudiani, ad investire – la propria energia, al fine di contrastare il disordine (l’entropia) che altrimenti ne conseguirebbe.

Secondo la teoria avanzata da Holmes, difatti, la prima funzione del cervello (a) sarebbe quella di organizzare e garantire l’omeostasi, destreggiandosi tra il bombardamento di stimoli sensoriali eterocettivi e propriocettivi. Tale omeostasi (equivalente al principio di costanza Freudiana in chiave moderna) si raggiungerebbe per mezzo di un costante processo di selezione e previsione dei dati in entrata (ossia del qui ed ora, e cioè, del presente) a partire dai dati in possesso (ossia l’esperienza già acquisita nel passato). A tal proposito Holmes scrive (p.15) che “il passato è l’unica guida per il futuro”.  L’autore, in maniera più semplice, va riferendosi in tal senso al concetto di aspettative, organizzate in modelli generativi e predittivi del mondo (Neisser, 1997).

Questo processo previsionale, illustrabile facendo ricorso alla teoria della probabilità di Bayes, punterebbe a minimizzare quanto più possibile le eventuali deviazioni dallo stato implicitamente previsto – in tal senso: desiderato – dal quel soggetto, alla luce della sua biografia.

D’altronde, il modo in cui il cervello costruisce la propria realtà sarebbe basato su bias ed euristiche, tese ad approssimazioni, distorsioni, interpolazioni. Tali operazioni, secondo Holmes, costituirebbero di fatto “il sistema immunitario psichico” del soggetto – ossia, il ventaglio delle sue difese psicodinamiche (ibidem, p.96). In merito, scrive Holmes (p.49):

Se i disturbi mentali sono malattie del cervello sociale, verosimilmente l’evoluzione avrà elaborato dei meccanismi di riparazione spontanei e culturalmente mediati in grado di renderli reversibili o di mitigarli. Per evitare l’entropia, gli organismi viventi hanno strutturato alcune difese che li aiutano a contrastare il caos, a mantenere una struttura, nonché a incrementare l’adattamento e le probabilità di sopravvivenza. Negli esseri umani, le difese operano “a tutti i livelli”, da quello cellulare del sistema immunitario, attraverso le dinamiche interpersonali di attaccamento, per arrivare alle strutture che definiscono l’organizzazione di una società e che spaziano dall’assistenza sociale, alle dighe foranee, agli armamenti militari. Questi meccanismi difensivi, al pari dei sistemi che devono proteggere, sono inizialmente involontari e automatici ma, quando vengono potenziati mediante interventi diretti e intenzionali, diventano formazioni destinate a uno scopo socialmente determinato.

In altre parole: “La probabilità curva le forme che usiamo per pensare (p.13, ibidem)”. Non a caso, l’autore, ha pensato bene di definire l’equilibrio omeostatico e idiosincratico, peculiare ad ogni individuo, come equilibrio allostatico. La realtà, dunque, è plasmata, manipolata, sulla scorta dei desideri propri del soggetto, il quale tenderebbe ad assimilare gli eventi in base alle forme dei propri schemi e delle proprie categorie, di volta in volta (pre)messe in conto – una sorta di profezia che tenderebbe ad autodeterminarsi tramite prove ed errori, conferme e disconferme (Waztlawick et al, 2011; Piaget, 2017). Tuttavia “la minimizzazione dell’errore di previsione [in gergo PEM] non è mai completa o esatta. Essa straripa sempre” (Holmes, 2022, p.75).

Le mappe, insomma, raramente coinciderebbero con il territorio (Korzybski, 1958), analogamente a come le aspettative sarebbero sovrapponibili alla realtà.

In sintesi, il primo compito del sistema mentale – parafrasando Holmes – sarebbe quello di garantire una percezione di sicurezza e di controllo ambientale quanto più possibile vicina alle proprie aspettative, se volete, inconsce; non a caso, a livello cognitivo-affettivo, tale concetto, trova riscontro in quello di Internal Working Model e, più in generale, nella teoria dell’attaccamento, campo di studi molto caro ad Holmes (ad es. 1993; 1994; Verdesca, 2018; 2020; 2022).

Ridurre la discrepanza tra aspettative e realtà restituirebbe, dunque, al soggetto un senso di stabilità e coerenza, permettendogli – per mezzo di opportune operazioni difensive – il lusso di poter semplificare l’infinita complessità cui il mondo e il flusso informativo dell’ambiente circostante consiste – con gli intrinseci vantaggi e rischi evolutivi connessi a tale operazione mentale.

La realtà di cui facciamo esperienza è per definizione virtuale, in questi termini, creata in maniera dinamica dal teatro della mente (p.90)”.

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Il cervello ha una mente propria 2022 di J Holmes Recensione del libro Imm 2

Home sweet home, ovvero, (r)esistere nell’entropia restando “a casa”

Tornando a noi, quanto detto consisterebbe nella (b) seconda funzione cui il cervello contribuirebbe: quella di resistere attivamente all’entropia. “Le cose possono andare male in molti modi differenti. In primo luogo, vi è il costante pericolo di un trauma. Nonostante le nostre migliori strategie, interferenze ambientali imprevedibili, inaspettate e deleterie possono sopraffare la PEM (p.41)”. È una questione di economia psichica, difatti “se qualcosa è del tutto improbabile, allora è sorprendente (p.13)”. In altre parole, potenzialmente, traumatica.

In linea di massima, sarebbe però possibile per il cervello garantire tale risultato – quello di tendere ad una continua riconferma delle proprie aspettative – ricorrendo a tutta una serie di inferenze attive (razionalizzazione, proiezione ecc) con il fine ultimo di condurre l’essere umano verso attrattori stabili, stati psico-somatici percepibili come familiari, situabili all’interno della propria comfort zone o, in altri termini, della propria nicchia ecologica. Insomma, sarebbe un po’ come sentirsi a casa – sia essa una splendente regia o una angusta capanna; poco importa: home sweet home, per intenderci – soprattutto quando l’ambiente da esplorare è percepito come pieno zeppo di minacce!

 In sintesi, e fuor di metafora, i soggetti, creerebbero attivamente – e cioè si metterebbero nella situazione di rivivere – sempre le stesse storie; modellando in maniera allostatica l’ambiente relazionale, tale da renderlo quanto più assimilabile alle caratteristiche delle esperienze passate – tale processo è noto in psicoanalisi interpersonale come identificazione proiettiva. È per questo che un soggetto preferirebbe aggrapparsi alla propria visione del mondo, anche se considerevolmente svantaggiosa e disfunzionale, anziché compiere azioni per disconfermarla, poiché farlo potrebbe comportare molti rischi, nella misura in cui potrebbe esporre il soggetto all’incertezza dell’ignoto – ad es. a nuove attività quotidiane, conversazioni terapeutiche e propositive, ecc.

L’inconscio e la psicoterapia secondo la (meta)teoria di Holmes

Il corpus teorico, sintetizzato sin qui, corrisponde sostanzialmente al primo capitolo del volume in oggetto; nel corso dei capitoli, Holmes, tenterà di applicare le proprie digressioni al mondo della psicopatologia. L’autore espanderà il suo modello ramificandolo con temi di matrice psicoanalitica, con le neuroscienze relazionali (ad es. con le evidenze empiriche derivanti dal campo della sincronia biocomportamentale, con la mentalizzazione, la teoria polivagale e la psicologia culturale, il filone della teoria dell’attaccamento, ecc.) giungendo, infine, alle implicazioni che l’intero corpus da lui delineato avrebbe sul funzionamento stesso della psicoterapia.

Essa, la psicoterapia, equivarrebbe alla riapertura di un periodo sensibile, tale da permettere al paziente una rimodulazione affettivo-viscerale della propria esperienza vitale, consentendogli una ristrutturazione (una convalida o una disconferma) delle proprie premesse interpretative (Beck, 1984; Siegel, 2019; Verdesca, 2018a; 2020c;). Gli interventi psicoterapeutici avrebbero, dunque, il fine di disaccoppiare, decondizionare, le credenze e gli automatismi senso-motori disfunzionali, non solo rendendoli consci ma sostituendoli con nuove modalità interattive inedite, all’insegna della sicurezza interpersonale, dell’intimità e della fiducia. Il terapeuta dovrebbe, dunque, garantire la funzione di holding, divenendo una mente in prestito per il paziente (Winnicott, 1960; Holmes, 2022). L’esito di quanto detto sarebbe quello di individuare ed interrompere i pensieri veloci ed automatici disfunzionali (siano essi credenze inconsce, immagini preconsce, attivazioni sensomotorie, ecc) che la mente tenterebbe puntualmente di agire e performare in cerca di sicurezza (Beck, 1984; Kahneman, 2012;). L’obiettivo di tali interventi sarebbe quello di aprirsi al cambiamento – senza più limitarsi fisiologicamente a resistere ad esso.

L’inconscio, nell’accezione di Holmes – e come suggerito dalla scelta del titolo conferito al libro – costituirebbe un processo vasto e implicitamente (molto più cognitivo) di quanto la psicoanalisi classica in definitiva sostenesse, retto da una logica propria e ben articolata; logica, evidentemente molto complessa, ma non per questo necessariamente complicata se ben inquadrata.

In conclusione, dunque: “Il fondamento relazionale della psicoterapia aiuta i clienti a tollerare la sorpresa e a sopravvivervi e quindi a trovare modalità nuove e più sane di legare l’energia mentale (Holmes, 2022; p. 95)”, espandendo e moltiplicando le possibilità interpretative e operative della realtà.

Note a margine: verso una teoria contestuale ed integrata del cambiamento

Holmes, in chiusura del volume, esplicita la teoria del cambiamento alla base della sua proposta (meta)teorica:

Il mio entusiasmo per il FEP proviene anche dalla prospettiva dell’integrazione in psicoterapia che afferma che gli aspetti murativi di quest’ultima derivano da fattori comuni, che comprendono la relazione terapeutica stessa, una cornice teorica coerente e degli interventi che promuovono il cambiamento. La prospettiva di questo approccio è basata sui fattori comuni (Wampold, 2015). Se la salute psicologica è associata alla necessità di legare l’energia libera e minimizzare l’errore di previsione, allora tutti gli interventi che promuovono questo saranno probabilmente di grande aiuto, indipendentemente dal nome con cui vengono chiamati. Tra questi: riattivare la capacità di agency; incrementare il campionamento sensoriale attraverso gli “esperimenti” cognitivo-comportamentali o le libere associazioni psicoanalitiche; ampliare il ventaglio delle possibili ipotesi top-down mediante l’analisi e l’interpretazione dei sogni e “l’immaginazione attiva”; promuovere una tristezza che attivi il cambiamento; modificare gli a priori alla luce dell’esperienza (Holmes, 2022, pp.94-95).

Infine, è altrettanto interessante mettere in evidenza come l’autore – in chiave contestuale e costruttivista – concepisca la psicoterapia quale frattale di un processo più generale orientato al cambiamento:

(…) la psicoterapia, anziché essere un intruglio esoterico, costituisce l’esempio di una “tipologia naturale”, una forma specializzata di un fenomeno culturale più generale, sempre più necessaria in contesti che cambiano continuamente e in modo imprevedibile. Molti aspetti della vita culturale (il gioco, lo sport, la recitazione, l’iconografia) dipendono dal “disaccoppiamento” dei processi top-down e bottom-up, unito alla meta cognizione che favorisce la PEM che, a sua volta, promuove la salute. Un’opera di Shakespeare o un concerto rock liberano energie erotiche e distruttive ma, al termine dello spettacolo, nessuno ha subito danni o violenze (o almeno si spera), come dimostrano l’inchino degli artisti e l’applauso degli spettatori. L’omeostasi psicologica essenziale per una vita libera è per sua natura vulnerabile alle forze dell’entropia. Apprendere dall’esperienza, tollerare l’errore di previsione e risolverlo dipende in larga misura dalle possibilità generative delle relazioni intime. Le società che suscitano ansia, passività, disuguaglianza, isolamento e insicurezza compromettono lo sviluppo della capacità di legare questa energia libera nel bambino in via di sviluppo (ibidem, pp.94-95).

 

Il legame tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti

Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative.

 

Il senso di solitudine tra gli adolescenti

 La solitudine è spesso legata ad un bias attentivo caratterizzato da un eccessivo monitoraggio dei segnali sociali (Spithoven et al., 2017). Questo implica che le persone sono eccessivamente focalizzate sulle informazioni sociali e sensibili sia agli stimoli negativi che indicano una minaccia, sia a quelli positivi che talvolta possono essere percepiti come possibilità di connessione sociale (Qualter et al., 2015). Alcuni studi della letteratura hanno dimostrato che sia gli adulti sia gli adolescenti sono soliti ricordare più facilmente le informazioni sociali, sia positive che negative, sebbene sembra che nelle espressioni facciali riconoscano meglio le emozioni negative come tristezza, paura e rabbia (Vanhalst et al., 2017).

La solitudine è caratterizzata da emozioni negative sperimentate a causa di una discrepanza tra le relazioni sociali desiderate e quelle effettive (Perlman & Peplau, 1981); se da un lato quindi provare solitudine può motivare le persone a cercare di riallacciare alcuni rapporti e a riconnettersi con gli altri, dall’altro l’ipervigilanza nei confronti dei segnali emessi dalle persone può provocare isolamento e ritiro sociale. Le persone, per superare gli effetti negativi e tornare a relazionarsi con gli altri, spesso si ritirano per valutare la loro situazione attuale sociale fino a che la solitudine attiva processi cognitivi che generano risposte comportamentali volte a evitare ulteriori danni e ad aumentare l’inclusione e la connessione sociale. Per tale ragione i segnali sociali vengono privilegiati rispetto a quelli non sociali, poiché ci aiutano a reagire più rapidamente e a fare scelte sulla base delle intenzioni degli altri (Spithoven et al., 2017). Questi bias di attenzione agli stimoli sociali nelle persone sole si attivano rapidamente e il loro decorso varia a seconda della fase dello sviluppo di una persona.

Ai fini di comprendere gli effetti delle alterazioni dell’attenzione delle persone sole sull’elaborazione delle informazioni sociali, alcuni studi hanno utilizzato volti di bassa o alta intensità emotiva trovando che spesso la solitudine risultava associata ad una maggiore accuratezza nel riconoscimento emotivo di volti arrabbiati (ma non di volti paurosi, tristi o felici). Uno studio di Vanhalst e colleghi (2017) ha riscontrato invece che gli adolescenti soli erano maggiormente in grado di rilevare nei volti la tristezza e la paura, seguite dalla felicità. Questi risultati suggeriscono che gli individui soli possono mostrare una maggiore capacità di identificare le espressioni facciali negative.

Solitudine e riconoscimento della prosodia

Sono poche, tuttavia, le informazioni relative all’associazione tra solitudine e altri segnali socio-emotivi non verbali come, ad esempio, la prosodia verbale, che include il ritmo e l’intonazione delle parole. La codifica delle intenzioni emotive nella voce degli altri ha infatti un percorso di sviluppo diverso rispetto al riconoscimento delle espressioni facciali, e probabilmente impegna processi cognitivi diversi (Morningstar et al., 2018). Il tono di voce fornisce infatti indicazioni importanti relative allo stato emotivo e agli atteggiamenti sociali di un interlocutore (Johnstone & Scherer, 2000). Mentre nei volti sono presenti in qualsiasi momento informazioni per il riconoscimento delle emozioni, la prosodia vocale spesso richiede l’integrazione di diverse informazioni, che nel corso del tempo variano rapidamente. Un solo studio ha esaminato l’associazione tra riconoscimento emotivo (Emotional Recognition; ER) vocale e solitudine, trovando una minore accuratezza solo nel riconoscimento emotivo vocale quando era presente anche un marcato livello di ansia per le prestazioni sociali (Knowles et al., 2015).

 Sembrerebbe inoltre che l’abilità di riconoscere i segnali vocali delle emozioni sia anch’essa differente in base alla fase dello sviluppo, migliorando fino a metà adolescenza. Quest’ultima è un periodo caratterizzato da maggiore coinvolgimento con i coetanei e maggiore sensibilità agli indizi di rifiuto o di affiliazione sociale (Nelson et al., 2005). I ragazzi che faticano a interpretare segnali come il tono di voce, possono quindi avere difficoltà ad entrare in contatto con gli altri. Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative. 122 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni hanno quindi tentato di identificare l’espressione trasmessa nelle rappresentazioni uditive di cinque emozioni di base (felicità, tristezza, paura, rabbia e disgusto) e delle espressioni sociali “cattiveria” e “cordialità”. Queste ultime due espressioni possono essere concettualizzate rispettivamente come spunti di rifiuto e affiliazione, e hanno dimostrato di differire acusticamente e percettivamente (Morningstar et al., 2018) dalle altre emozioni di base. Inoltre, poiché l’ansia sociale è associata al riconoscimento emotivo vocale nei bambini (McClure & Nowicki, 2001) e anche il sesso e l’età influenzano tale legame, gli autori hanno tenuto in considerazione queste tre variabili nelle loro analisi. I giovani hanno compilato il questionario Loneliness and Aloneness Scale for Children and Adolescents per misurare la solitudine (Marcoen et al., 1987); il Social Anxiety Measures for Children and Adolescents (La Greca & Stone, 1993) per l’ansia sociale e infine hanno svolto un compito di riconoscimento emotivo vocale che comprendeva registrazioni audio prodotte da attori con diversi toni di voce emotivi (Morningstar et al., 2017).

Solitudine e riconoscimento emotivo

I risultati mostrano che, controllando l’ansia sociale, l’età e il sesso, il legame tra la solitudine e l’accuratezza del riconoscimento risultava essere specifico per ciascuna emozione: la solitudine era associata ad uno scarso riconoscimento della paura, ma a un migliore riconoscimento della cordialità. Una possibile spiegazione potrebbe essere che la motivazione che spinge gli individui soli a evitare la minaccia può interferire con il riconoscimento della paura, ma la loro sintonia con gli indizi di affiliazione può promuovere l’identificazione della cordialità nei suoni. Essere sensibili agli indizi di amicizia può quindi promuovere opportunità di riconnessione per le persone sole e rappresentare una componente adattiva del sistema di monitoraggio sociale.

È possibile quindi strutturare interventi per incoraggiare gli adolescenti a utilizzare questa loro distorsione attentiva in modo funzionale, ai fini di superare la solitudine e aiutarli a concentrarsi sugli indizi di affiliazione sociale piuttosto che su quelli di paura nella voce degli altri.

 

Cosa è il modello Triple-P?

Il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze della famiglia con diversi livelli di supporto.

 

Il modello Triple P – Positive Parenting Program

 Il modello Triple P, che sta per Positive Parenting Program (programma per la genitorialità positiva), è stato sviluppato da Sanders e colleghi (2002) e prevede programmi evidence-based (ovvero basati sull’evidenza scientifica) sia di intervento specifico su particolari difficoltà, sia focalizzati sul concetto generale di genitorialità e per problematiche comuni nell’infanzia. Il programma mira al sostegno familiare e della genitorialità, alla promozione delle competenze sociali dei figli, e alla prevenzione dei disturbi comportamentali ed emotivi di livello grave nei bambini.

In particolare, il Positive Parenting Program si propone di promuovere le relazioni positive all’interno della famiglia, tra genitori e figli, e di aiutare i genitori nello sviluppo e nell’apprendimento di strategie di gestione efficaci per affrontare le problematiche comportamentali di sviluppo comuni. In questa ottica, un obiettivo è quello di aumentare il senso di competenza delle proprie capacità genitoriali, migliorando la comunicazione all’interno della coppia sulla genitorialità e riducendo lo stress genitoriale. L’ acquisizione di tali competenze specifiche può permettere una migliore comunicazione familiare e una riduzione del conflitto, che a sua volta, può portare a una riduzione del rischio di sviluppo di problemi comportamentali ed emotivi nei figli. È stato inoltre osservato che i principi di apprendimento sociale, come ad esempio il supporto positivo per promuovere comportamenti prosociali e adattivi dei figli e i processi all’interno della famiglia, svolgono un ruolo rilevante per la remissione dei sintomi anche per altri disturbi dell’infanzia come depressione, ansia, difficoltà di alimentazione, abitudini disfunzionali (per es., suzione del pollice) e sindromi dolorose ricorrenti (per es., emicranie, dolori addominali ricorrenti; Sanders et al., 2002).

Il modello Triple P si basa sul principio di sufficienza. Che cosa significa? Ogni coppia genitoriale è diversa dall’altra nella modalità con cui si preoccupa per il comportamento del proprio figlio, e questo è attribuibile alle differenze individuali di ogni persona. In base a esse, può esserci una valutazione della gravità, una motivazione e un accesso al sostegno diverso, altrettanto differente sarà la presenza di stress familiare che può essere precedente, contingente o conseguente all’insorgenza di difficoltà del bambino (Sanders et al., 2002). Sulla base di questo presupposto, il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze con diversi livelli di supporto. Il sistema multilivello, dunque, permette di adattare l’intensità dell’intervento alle esigenze e preferenze valutate per ciascuna famiglia (Sanders et al., 2002). A livello pratico, il principio di sufficienza prevede che, per la stessa problematica (per esempio la gestione di problematiche comportamentali attraverso un piano genitoriale specifico) possa essere fornito un programma di skill training e una tipologia di supporto differente, come una serie di suggerimenti scritti e un video illustrativo della strategia, piuttosto che accompagnate da maggiori prove comportamentali, in cui i genitori vengono osservati durante l’interazione con i loro bambini e ricevono feedback da professionisti per implementare le loro capacità genitoriali, e incontri con un professionista.

Quali sono i livelli del modello Triple-P?

Sanders (2012) teorizza 5 principali livelli di intervento nel Positive Parenting Program.

  • Livello 1. Lo step informativo. Permette ai genitori interessati di accedere a informazioni utili riguardo la genitorialità positiva. Vengono utilizzati siti web, programmi televisivi, media, radio, giornali, con lo scopo di aumentare la consapevolezza delle tematiche genitoriali, di destigmatizzare e incoraggiare la partecipazione ai programmi di parent training.
  • Livello 2. Prevede seminari sulla genitorialità oppure 1-2 consultazioni individuali per promuovere uno sviluppo sano del bambino, fornendo una guida evolutiva anticipatoria per i genitori di bambini con lievi difficoltà comportamentali (per es., difficoltà del sonno).
  • Livello 3. È rivolto ai genitori con preoccupazioni specifiche che hanno bambini con difficoltà comportamentali da lievi a moderate. Può prevedere un breve programma di 3-4 incontri individuali, in cui vengono forniti consigli, prove e auto-valutazioni per insegnare loro a gestire le difficoltà dei bambini; oppure sessioni di gruppo riguardo a tematiche comuni (per es., disobbedienza).
  • Livello 4. Prevede un programma più intensivo, individuale o di gruppo, con un maggior numero di incontri con lo scopo di migliorare l’interazione tra genitori e bambini con difficoltà comportamentali più gravi, e di apprendere e mettere in atto le capacità genitoriali.
  • Livello 5. Consiste in un intervento familiare comportamentale (Behavioral Family Intervention, BFI) di intensità maggiore rispetto ai precedenti ed è rivolto alle famiglie in cui le difficoltà dei genitori, nella gestione dei bambini con problematiche comportamentali, sono complicate da altre fonti di disagio familiare (per es., relazioni conflittuali, depressione genitoriale, alti livelli di stress).

Il modello Triple P efficace?

 Una recente revisione sistematica e metanalisi (Sanders et al., 2014) si è occupata di verificare l’efficacia del modello Triple P. I risultati mostrano che tale intervento genitoriale è efficace, sia a breve che a lungo termine, e che è funzionale sia come intervento preventivo che come trattamento. È stato osservato un miglioramento degli aspetti sociali, emotivi e comportamentali (social, emotional, behavioral; detti “SEB”) nei bambini, e sono stati riscontrati anche benefici a livello genitoriale in termini di strategie, fiducia e relazione genitoriale. È importante evidenziare come anche gli interventi brevi e di bassa intensità, come il Livello 1, possono avere un impatto positivo sui risultati di esito sia per i bambini che per i genitori.

Questo sistema di intervento multilivello può essere fornito in diverse modalità: individuale, di gruppo, auto-diretto, online, tramite supporto telefonico. In tutte le modalità è stato riscontrato un miglioramento significativo per quanto riguarda gli aspetti SEB dei bambini, e le pratiche genitoriali, la soddisfazione e l’efficacia genitoriale. In particolare, la somministrazione online ha avuto un maggiore livello di efficacia rispetto alle altre modalità di erogazione dei vari interventi proposti dal Positive Parenting Program. Tale aspetto è di fondamentale importanza poiché permette di raggiungere anche famiglie che non possono accedere ai servizi in modo diretto, e garantisce un sistema di intervento efficace nel caso in cui si presentino altre condizioni emergenziali a livello sociale che comportino una limitazione alla possibilità di svolgere prestazioni in presenza.

 

I social media e la divulgazione psicologica

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui un qualsiasi tipo di divulgazione  dovrebbe basarsi su letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche, ma sui social network il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

 

I social media per la diffusione di notizie

 L’avvento dei social media e la loro diffusione a macchia d’olio, verificatasi a partire dagli ultimi due decenni, ha sensibilmente rivoluzionato le vite di gran parte degli abitanti del nostro pianeta, in particolar modo quelli dei paesi occidentali.

L’utilizzo in larga scala delle varie comunità digitali, di pari passo con la diffusione e l’avanzamento della rete internet nel mondo, ha accorciato le distanze tra le persone. Questo, di conseguenza, ha permesso a ogni individuo di poter accedere a una quantità e ad una varietà di informazioni come mai si era potuto fare prima.

I vari ambiti professionali, tra cui quello della psicologia, ne hanno avuto giovamento attraverso la creazione di canali di scambio tra colleghi, che hanno dato vita con più facilità a incontri, progetti, canali scientifici e di divulgazione, favorendo sempre più una rete di comunicazione. Tutto questo attraverso lo sviluppo di interessanti strategie comunicative che hanno coinvolto un pubblico sempre più interessato, preparato e consapevole. Anche società scientifiche hanno aperto pagine istituzionali nei vari social. Insomma, discipline come psicologia, psicoterapia e affini hanno aperto le porte al pubblico mostrando aspetti della professione sui quali vigevano false credenze, stereotipi e fantasie ispirate a contesti come quello di una distratta cinematografia o un semplice passaparola, restituendo un’immagine di umanità ai professionisti e sdoganando l’accesso alle cure e ai processi di crescita personale agli utenti.

La maggior presenza dei temi riguardanti la salute mentale sui social media ha portato e sta portando con sé sia aspetti positivi sia aspetti negativi, la gran parte dei quali, tuttavia, non potrà trovare spazio in questo articolo.

La salute mentale sui social media: gli aspetti positivi e i rischi

Cercando di affrontare sinteticamente gli aspetti positivi che hanno riguardato i temi relativi alla salute mentale, c’è stata in primo luogo la possibilità di poter affrontare temi culturalmente considerati tabù in diverse società e culture. A supporto di questo, hanno avuto un ruolo importante anche i numerosi coming out che personaggi dello sport e dello spettacolo hanno fatto proprio attraverso questi canali dove hanno condiviso le proprie esperienze di difficoltà e di sofferenza e il loro affrontarle in percorsi con professionisti. Non è infrequente che tali personaggi abbiano reso pubbliche, nel modo che loro ritenevano migliore, le proprie esperienze di difficoltà e psicoterapia. Ad esempio, in Italia abbiamo l’emblematico caso dei coniugi Chiara Ferragni (imprenditrice e influencer) e Fedez (cantante e influencer), che non hanno mai fatto segreto del proprio percorso di psicoterapia di coppia, arrivando a mostrare questa intimità in una serie dal nome The Ferragnez. Questo a dimostrazione di come una delle caratteristiche dei social media sia proprio quella di ridurre sensibilmente la distanza tra le persone, in tal modo diventa possibile per i personaggi famosi, fino a quel momento distanti, patinati e inarrivabili, entrare più in intimità con i loro seguaci, i loro follower, mostrando che la fragilità è una cosa di cui si può parlare.

Una conseguenza di questo fenomeno è stata quella di portare le persone che utilizzano maggiormente queste piattaforme, ragazzi e ragazze appartenenti alla generazione Millennial (nati tra il 1981 e il 1996) e alla generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), a una grande esposizione di questo genere di contenuti su queste piattaforme. Non dovrebbe meravigliare, dunque, che proprio gli appartenenti a queste generazioni siano coloro i quali si mostrano più sensibili ai temi riguardanti la salute mentale e, di conseguenza, meno restii a chiedere aiuto (si veda ad esempio, Bethune, 2019; O’Reilly et al., 2018).

Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Come sappiamo, i social e il mondo digitale più in generale, non sempre ci mostrano un lato esclusivamente positivo (Ceron et al., 2014). Così come oggi, in modo semplice e accessibile, la buona pratica usufruisce di questo potente strumento, allo stesso modo può avere accesso anche la cattiva pratica. Per cattiva pratica intendiamo tutto ciò che, applicato o divulgato, può creare cattiva informazione o addirittura compromettere in diversi modi la salute del prossimo, promuovendo interventi dannosi, confondendo sull’accesso alle giuste cure di cui si potrebbe necessitare, o addirittura stigmatizzare il malessere che rischierebbe di non essere portato alla luce.

Uno dei fenomeni di cattiva pratica in grado di portare a conseguenze negative, spesso anche gravi, è dato dalla possibilità che informazioni non opportunamente verificate si diffondano: le cosiddette fake news. Può facilmente balzare all’occhio di chiunque la pericolosità della circolazione di tali notizie, tanto che anche il sito del Ministero della Salute ci ha tenuto a sottolineare quanto “Bufale e disinformazione sono molto pericolose quando riguardano la salute e spesso non è facile distinguerle tra milioni di informazioni” (Fake News, n.d.). In che modo il tema delle informazioni inesatte, non supportate da fonti autorevoli, può essere legato alla divulgazione e alla condivisione di contenuti riguardanti la salute mentale?

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui una qualsiasi informazione dovrebbe essere passata in rassegna dalla letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche. In un mondo, come quello dei social media, in cui qualsiasi informazione non ha la necessità di essere riconducibile a una fonte attendibile, il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

Un caso specifico

Un esempio riguarda uno dei temi caldi dei social media, quello relativo al costrutto di narcisismo, che è proprio quello di cui abbiamo voluto occuparci in questo articolo, la cui idea nasce da un gruppo di professionisti presenti sui social che ritiene sempre più urgente una promozione di specifici principi volti alla tutela della professione e dell’utenza. L’episodio scatenante è il seguente: sulla pagina del CNOP è stato condiviso un articolo pubblicato su un sito di divulgazione psicologica.

La problematica che viene presentata, sicuramente sempre attuale e interessante, tratta il tema delle relazioni vissute con sofferenza e i possibili malesseri che ne derivano. Fin qui nulla di strano. Non è infrequente, infatti per un clinico ricevere richieste legate a momenti di vita in cui una persona è da poco uscita o fa fatica ad uscire da una relazione che la mette a dura prova. Queste sono quelle che la folk psychology, la psicologia pop o ingenua, definisce “relazioni tossiche”. Un clinico, invece, in base alle circostanze, potrebbe definire tali dinamiche di relazione in diversi modi, ad esempio dipendenza affettiva. La dinamica in linea di massima nasce dalla persona che, nella speranza di vivere un idillio amoroso, è divenuta partecipante di una relazione che l’ha esposta a vivere e ad affrontare delle condizioni tutt’altro che piacevoli, spesso con un individuo che non ha corrisposto alle sue aspettative o quanto meno l’ha fatto solo in una fase iniziale della relazione.

Proseguendo, l’articolo in questione descrive questa dinamica in termini nefasti. Una persona rappresentata come una persona disponibile, comprensiva, aperta al dialogo, insomma una persona “buona”, incontra sulla sua strada una persona “predatrice”, cieca ai bisogni altrui, estremamente egocentrica, insomma una persona “cattiva”, definita impropriamente “narcisista”. Lo scopo di quest’ultima è quello di “vampirizzare” le risorse energetiche dell’altro attraverso una serie di capacità manipolative che terranno il/la malcapitato/a in una relazione dalla quale uscire sarà quasi impossibile. Inoltre, nel suddetto articolo vengono fornite una serie di indicazioni da seguire per permettere alla persona di allontanarsi da questa situazione spiacevole.

Questo articolo solleva diverse questioni, sulle quali troviamo giusto, proprio a fede del rigore scientifico di cui parlavamo, condividere alcune delle nostre riflessioni.

L’autore del suddetto articolo inquadra questa situazione definendola con il nome di “abuso narcisistico”.

La letteratura è praticamente piena di questi studi. Insomma, chi non desidererebbe vivere una relazione sana e appagante? Tutti tranne quelli che stanno bene da soli anche senza una relazione sana e appagante.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Punto primo, nessuno ha mai negato che la relazione con una persona affetta da disturbo narcisistico non possa essere dannosa per il proprio benessere e la propria qualità di vita. Difatti, il termine stesso di Disturbo di Personalità sottoscrive anche la descrizione di come gli aspetti funzionali di una persona, le sue capacità relazionali, il suo potenziale di maturazione nella vita e la capacità di perseguire obiettivi sani e realistici, sono elementi compromessi, in gradi più o meno diversi. L’incapacità di poter vivere relazioni appaganti e sane purtroppo rientra tra le problematiche. Questo però non è una prerogativa solo del disturbo narcisistico di personalità. Purtroppo le relazioni, per le persone affette da disturbo di personalità, sono circostanze dove l’intimità e la vicinanza richiamano con molta facilità, dinamiche legate ad aspetti della propria sofferenza personale. Avviene quindi che il soggetto si trova a dover fronteggiare contenuti legati alla sua storia personale e ai processi evolutivi, per i quali spesso egli non ha né la giusta consapevolezza né tantomeno i giusti strumenti che gli permetterebbero di avere buone dinamiche relazionali.

Nel leggere l’articolo in questione, invece, le cose sembrano presentate da un punto di vista differente che inquadra sostanzialmente due protagonisti. Da una parte i narcisisti, visti come persone che hanno ben pensato di sviluppare un simile disturbo con lo scopo ultimo di andare a rendere difficile la vita altrui per nutrirsi della sofferenza distillata dal malessere che sono in grado di generare; dall’altra una vittima, la cui unica colpa è quella di essere “empatica” che, braccata dal narcisista, viene ingannata, manipolata e annullata all’interno di una relazione dalla quale ne uscirà con un disturbo post traumatico da stress (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD).

Il tutto veniva racchiuso sotto la definizione di “Sindrome da abuso narcisistico”.

Ma dove risiede l’errore? Intanto iniziamo a chiederci per chi la fine di una storia non è collegata a una sofferenza? Per nessuno. Siamo mammiferi e quando le nostre relazioni significative si interrompono per qualche motivo noi soffriamo, anche se chiudiamo la relazione per stare meglio. È innegabile che, se all’interno di tale relazione ci sono state delle dinamiche di svalutazione e di violenza, se ne esce con delle ferite. Premesso questo, tuttavia, è importante, alla conclusione di una relazione così devastante, farsi una domanda molto semplice, ma fondamentale: “Come ci sono finito/a?”. Qui forse l’ipotesi di essere semplicemente “empatici” potrebbe essere un po’ debole, oltre che poco utile da un punto di vista clinico.

In effetti, essere vittime di maltrattamento e di svalutazione in una relazione è una tematica sicuramente importante, ma affermare che il problema reale sia la diagnosi di una terza persona è molto lontano da un piano terapeutico utile e reale. Infatti, quello che si rischia di perdere di vista innanzitutto è il reale obiettivo del trattamento terapeutico, ovvero aiutare la persona non solo a superare il momento attuale di sofferenza, ma soprattutto a sviluppare un’adeguata conoscenza e capacità di padroneggiare dei propri pattern relazionali, con l’obiettivo di non trovarsi più in situazioni del genere.

Da qui ci colleghiamo ad un altro aspetto centrale sollevato dall’articolo in questione. Non viene considerato minimamente il ruolo della persona descritta come “vittima” nella costruzione e nel mantenimento di una dinamica relazionale di sofferenza. Come abbiamo visto, questo rischia di essere dannoso poiché non aiuta la persona a comprendere di essere parte attiva del proprio cambiamento e, di conseguenza, della propria evoluzione.

 Un altro aspetto molto importante è quello della “diagnosi per procura”. Ovvero il fatto che l’autore dell’articolo, utilizzando i racconti della “vittima”, formulava impropriamente un termine diagnostico. È importante sottolineare che non è possibile dare una definizione diagnostica a una persona con la quale non si ha interagito in prima persona. A tal proposito, vogliamo citare la regola Goldwater, dell’American Psychiatric Association (APA), in cui si afferma che gli psichiatri non dovrebbero esprimere un’opinione professionale su personaggi pubblici che non hanno esaminato di persona e dai quali non hanno ottenuto il consenso per discutere della loro salute mentale in dichiarazioni pubbliche. Lo stesso codice deontologico degli psicologi italiani, nell’articolo 25, afferma che “lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone”.

Per giunta, impostare un trattamento basandosi sulla diagnosi di una terza persona che non è il paziente, potrebbe portare a un percorso infruttuoso, se non dannoso.

Ultima osservazione sulla diagnosi per procura, ma non meno importante, è che la descrizione del disturbo narcisistico viene estrapolata dai criteri presenti sul Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorder; DSM), ma il tutto viene infarcito da una serie di descrizioni e attribuzioni che non sono proprie della diagnosi del disturbo. Queste, infatti, appartengono a ben altra problematica conosciuta in letteratura, tutt’ora oggetto di studio e sotto dibattito scientifico, che prende il nome di “triade oscura”, in cui una somma di aspetti sotto il nome di machiavellismo, psicoticismo e narcisismo si combinano delineando qualcosa che è ben diversa da quello che potremmo definire disturbo di Personalità Narcisistica.

Oltre agli aspetti che abbiamo illustrato finora, è interessante notare che i diversi colleghi che hanno provato a commentare l’a-scientificità dell’articolo condiviso dal CNOP, sono stati assaliti da insulti, commenti svalutanti e addirittura minacce. Molti di questi erano legati al fatto di sentirsi delegittimati dal proprio ruolo di vittima, come se mettere in dubbio l’affermazione “abuso narcisistico” togliesse credibilità alla sofferenza che queste persone avevano vissuto.

Questo episodio pone il CNOP in una posizione scomoda. Difatti, una folta comunità di colleghi ha manifestato sui social il proprio dissenso in quanto non si è sentita rappresentata da una comunicazione che non rispetta la natura scientifica della psicologia stessa. La risposta ufficiale del CNOP a tale critica è stata quella di voler prediligere una posizione neutrale volta a mantenere un dibattito.

Ciò che poi vogliamo dire avviandoci alla conclusione, è che noi psicologi possiamo dibattere, ma su idee scientifiche. Difatti, molti di noi sono iscritti a società scientifiche proprio per questo motivo. È possibile in tal senso discutere su una procedura di ricerca, su un modo diverso di interpretare i dati alla luce di altri dati di letteratura ecc., ma non è possibile discutere di argomenti presentati sotto forma di opinioni, anche ispirate a vissuti personali, che non rispettano i dovuti criteri scientifici necessari.

Conclusioni

In conclusione, lo scopo di questo articolo non è quello di fare sterile polemica, ma sollevare problematiche importanti e cercare di aprire dibattiti che possano portare a confronti produttivi.

Per tale motivo vorremmo chiudere con delle proposte che hanno lo scopo di salvaguardare, all’interno dei social media, i principi etici e professionali della psicologia in quanto scienza, via di cura e di benessere per l’individuo.

Una prima proposta è quella di creare in Italia delle linee guida per un corretto utilizzo dei social media per gli psicologi. Di riferimento possono essere quelle stilate dall’American Psychological Association (American Psychological Association, 2021) per l’uso ottimale dei social media nella pratica psicologica professionale.

In aggiunta, pensiamo che la creazione di un comitato etico e scientifico che possa ricoprire la funzione di supervisione e salvaguardia costituirebbe sicuramente una grande tutela dell’immagine professionale e della qualità dell’informazione.

Nella realizzazione di queste proposte si potrebbero creare dei tavoli di dibattito presso i quali le società scientifiche presenti sul territorio nazionale potrebbero partecipare con i propri rappresentanti offrendo un contributo di non poco valore.

Restando realisti, comprendiamo che l’oceano della divulgazione digitale è assai vasto e complesso, ma proprio per tale motivo, è necessario che l’imprescindibile presenza di una categoria professionale che si occupa di salute e benessere, si ispiri ai principi professionali che la rappresentano e che quindi sono necessari degli interventi tempestivi a tal merito.

Insomma, se è una cosa che deve portare del bene allora, va fatta bene.

 

Regolare le emozioni attraverso la scrittura 

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere.

 

Siamo arrabbiati e non troviamo il modo di sfogarci? Delusi o rattristati e facciamo fatica a riconoscere la causa del nostro malessere? A volte un aiuto importante può arrivarci da due semplici elementi: un foglio e una penna. La scrittura, infatti, si rivela una valida alleata per superare le situazioni di stress e riprendere il controllo delle nostre emozioni.

Che cosa dice la scienza

Matthew Lieberman, ricercatore dell’Università della California, ha condotto uno studio (2007) che ha osservato che la scrittura riduce l’attività di quella parte del cervello che si attiva quando siamo sottoposti a situazioni di paura e stress grave. Scrivere può avere anche effetti benefici sul sistema immunitario in quanto influenza positivamente il nostro modo di pensare, influenzando indirettamente la nostra risposta psicofisica.

Il metodo del diario creativo

Lo psicoterapeuta americano Ira Progoff (1992) è conosciuto per il suo metodo del diario creativo. Ai partecipanti dei suoi corsi di diario viene consegnato un quaderno di 24 pagine colorate divise in diverse sezioni. L’intenzione è che la sua struttura possa fornire a chi lo utilizza un equivalente del suo spazio interiore, in cui muoversi per sperimentare quello che sarà poi utile riportare nella vita reale.

Secondo questo metodo, tenere un diario deve comprendere la scrittura progressiva di ciò che accade per evocare nuove idee e aprire nuove opportunità di comprensione. Le diverse sezioni del diario possono riferirsi a diversi aspetti della nostra vita, non solo fatti, ma anche stati d’animo, emozioni, scelte, progetti, desideri. È utile che comprendano anche una sezione periodica, che potremmo identificare in un appuntamento trimestrale, volta a rileggere quanto appuntato nel periodo e portare a un’autovalutazione di se stessi e del proprio percorso.

I benefici della scrittura

Indipendentemente da chi siamo e che cosa facciamo, la scrittura può essere fonte di grandi benefici, aiutandoci a razionalizzare le emozioni, a calmarci, persino a migliorare la nostra salute fisica e mentale abbassando i livelli di stress, ansia e depressione.

Ci aiuta a vedere più chiaramente quello che vogliamo dire grazie alla ricerca delle parole giuste che ci obbliga a sforzarci di dare un senso logico ai nostri pensieri, a focalizzare i punti salienti di ciò che vogliamo comunicare e a dare loro il giusto peso.

Esistono diverse forme di scrittura, alcune vengono fatte per essere condivise, per esempio quando scriviamo una lettera e diciamo a un amico, presumibilmente lontano, che cosa ci sta accadendo. Possiamo anche trovarci a scrivere per un pubblico più ampio, per esempio se stiamo pensando di scrivere un libro. Altre forme di scrittura sono rivolte solamente a noi stessi, come il diario.

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere. Imparare ad affrontarle ci consente un’elaborazione cognitiva dei ricordi, in particolare di quelli che ci hanno causato angoscia o stress, aiutandoci a scendere a patti con essi e a superarli più facilmente. Attraverso l’uso del diario riusciamo a semplificare le difficoltà che incontriamo nell’esprimere i nostri sentimenti creando una sorta di complicità con noi stessi.

Prendiamo una penna, un pezzo di carta, rilassiamoci e allontaniamo dalla nostra mente tutto il resto. Lasciamo che la penna scorra liberamente sulla carta trasferendo i pensieri che la nostra mente decide di selezionare e trasmettere alla mano che sta scrivendo. Ed ecco che un diario può diventare un buon amico.

A cosa serve un diario

Tenere un diario è un po’ come avere un amico che sa ascoltare: raccoglie le nostre confidenze, le rielabora e ci dà consigli. Ma non va considerato come un’alternativa per chi non ha un amico “vero” con cui condividere i propri pensieri, è piuttosto un “amico aggiuntivo”, con lui ci si può aprire senza freni, a lui si può dire tutto, anche affrontare quelle parti più intime di noi che potremmo aver paura di rivelare agli altri.

Scrivere un diario è un modo per dedicare tempo a noi stessi e diventare osservatori della nostra vita e dei suoi cambiamenti.

In un diario scriviamo i nostri interessi, i nostri desideri, fissiamo gli obiettivi che vorremmo realizzare e, nel cercare di renderli chiari, ci impegniamo anche a immaginare una strategia plausibile per raggiungerli. Una volta che tutte queste cose sono messe su carta, la nostra possibile pigrizia o riluttanza a impegnarci diventerà difficile da giustificare persino a noi stessi, con l’effetto di spingerci ad agire in modo costruttivo.

Come abbiamo detto, mentre scriviamo dobbiamo fare uno sforzo per trasformare i nostri pensieri in parole che li rappresentino e dare loro un significato esaustivo. Questo processo ci aiuta a chiarire i nostri pensieri e confrontarli vedendoli sotto una nuova luce. Ci permette di avere una visione più lucida e distaccata della situazione che stiamo raccontando.

È sicuramente un ottimo sfogo per l’ansia e la rabbia, ma non è solo questo, e non necessariamente dobbiamo scrivere di problemi o travagli interiori che ci opprimono.

Una pratica interessante può essere quella di stabilire periodicamente una lista di obiettivi in modo da verificare se sappiamo essere costanti nelle nostre idee e se siamo in grado di mettere in atto un comportamento efficace per raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati.

Per godere dei benefici della scrittura non c’è dubbio che sia preferibile scrivere a mano. Secondo uno studio pubblicato nel 2021 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tokyo, è stato osservato che scrivere con il computer porta a essere più sintetici, con il risultato di trattare ciò che si sta comunicando in modo meno dettagliato. Scrivere a mano aiuta a ricordare le informazioni e a conservare i ricordi, tutti elementi che apportano benefici al nostro cervello. Richiede un maggiore controllo del movimento e del pensiero che lo controlla, pensiamo alla mano che tiene la penna e alle dita che ne indirizzano il movimento sulla carta. Questo attiva una serie di aree cerebrali che, al contrario, non sono attivate dall’uso di una tastiera.

Rileggere, una preziosa opportunità

Come abbiamo accennato, l’importanza del diario non si esaurisce nella fase di scrittura. In effetti, possiamo dire che la scrittura è solo un primo passo, preparatorio a quello che è il vero scopo del diario: il momento in cui, dopo più o meno tempo, rileggeremo quello che abbiamo scritto.

Naturalmente, più a lungo abbiamo tenuto il nostro diario e più costantemente ci siamo dedicati a esso, più utile e completa risulterà essere la rilettura.

Sarà in quel momento che avremo modo di ripercorrere i nostri stati d’animo con il necessario distacco per guardarli più chiaramente e da una nuova prospettiva. Ci renderemo conto di quali sono stati i nostri stati d’animo ricorrenti in un certo momento, di ciò che ci ha fatto soffrire e di ciò che ci ha reso felici. Rileggeremo i nostri desideri e le nostre speranze e capiremo se siamo stati in grado di realizzarli o meno. Potremo anche cercare di capire che cosa ci ha impedito di raggiungerli, e lavorare su questo per invertire la rotta e imparare ad avere successo dove in precedenza avevamo fallito.

 

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