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Terapie psicologiche a distanza e realtà virtuali

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

 

Introduzione

 Quella che Freud aveva chiamato una talking cure, una cura di parole, sta radicalmente mutando in seguito all’incremento esponenziale dei nuovi sistemi digitali.

Il vorticoso sviluppo delle applicazioni informatiche e la pandemia causata dal diffondersi del Covid-19 hanno avuto un impatto sulla professione dello psicologo, favorendo una migrazione dal setting faccia-a-faccia alla comunicazione a distanza, un cambiamento che per il futuro si prospetta sempre più radicale grazie agli strumenti di virtual reality.

È un percorso che nasce da lontano. Già negli anni Cinquanta, lo psichiatra e psicoanalista statunitense Leon Joseph Saul si era battuto per utilizzare il telefono nella pratica clinica, ma l’idea era stata accolta dallo scetticismo di chi era abituato al tradizionale spazio fisico e relazionale: una stanza tranquilla adeguatamente illuminata, una scrivania, una poltrona, un comodo lettino per il paziente.

La novità dei nostri tempi è costituita dal trattamento tramite videochiamata offerto da applicazioni quali Zoom e Skype. Questi sistemi offrono la possibilità di una comunicazione completa: audio, video e all’occorrenza testo.

Vantaggi e svantaggi della psicoterapia online

Tra i vantaggi della psicoterapia online c’è la possibilità data a un paziente di scegliersi il proprio terapeuta senza farsi condizionare dalla distanza geografica. Con un semplice clic, l’abitante di uno sperduto villaggio di campagna può entrare virtualmente nello studio di uno psicologo del centro di Milano. E una persona disabile che non è in grado di raggiungere autonomamente lo psicologo può farsi seguire a distanza.

Altri vantaggi sono: l’ottimizzazione del tempo da parte del cliente, poiché non è necessario spostarsi da casa e, dal punto di vista dello psicologo, la possibilità di aprirsi a quel mondo adolescenziale che vive perennemente connesso e non si recherebbe in studio.

Tra gli svantaggi, si possono annoverare: la carenza di privacy per il paziente che non ha uno spazio isolato dove mettersi a conversare senza essere spiato o interrotto; la mancanza di un setting chiuso, con la porta che delimita simbolicamente lo spazio dell’incontro; la difficoltà del terapeuta di rispondere rapidamente ed efficacemente quando si verifica una crisi; le adeguate competenze digitali necessarie ad una gestione del rapporto on line.

Psicoterapia online e realtà virtuale

La richiesta di prestazioni psicologiche online è destinata ad aumentare con il tempo, in parallelo alla crescita di confidenza con le nuove tecnologie di comunicazione e la perdita di importanza del territorio fisico. Probabilmente, tra pochi anni assisteremo alla crescita di tecnologie basate sulla realtà virtuale. Gli spazi simulati possono rappresentare un contesto di interazione sociale che permette a un paziente di sperimentare i propri comportamenti disfunzionali come se li stesse provando nella realtà, mentre invece si trova in uno studio clinico. Evidenze scientifiche comprovano l’efficacia dei sistemi di realtà virtuale per indurre reazioni comportamentali, cognitive ed emozionali del tutto simili alle situazioni reali equivalenti.

 Gli ambienti di realtà virtuale, come quelli che prevedono un display montato sulla testa, permettono l’introduzione della profondità stereoscopica che crea l’illusione di vedere oggetti in uno spazio reale. Ciò offre una serie di vantaggi al ricercatore: maggiore controllo sulla presentazione dello stimolo lungo un piano tridimensionale, varietà nelle opzioni di risposta e validità ecologica potenzialmente aumentata. È possibile che il paziente possa interagire con avatar virtuali all’interno di scenari atti a studiare il comportamento sociale. I movimenti nello spazio virtuale e i relativi cambiamenti percettivi sono trattati dal cervello più o meno allo stesso modo di quelli nello spazio reale equivalente. Si potrà misurare un comportamento di aiuto senza doversi fidare di un paziente che riferisce verbalmente cosa avrebbe fatto ipoteticamente in una data situazione.

Un altro ambito di applicazione è la terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dell’ansia, in quanto la realtà virtuale permette al paziente di affrontare un’esposizione all’oggetto o alla situazione temuta.

Sono solo due dei tanti esempi che dimostrano come la realtà virtuale stia iniziando a svolgere un ruolo importante nella psicologia clinica.

Agli psicologi del futuro sarà richiesta una particolare competenza nell’uso di dispositivi hardware e software che collaborano per creare uno spazio virtuale all’interno del quale interagire con il paziente.

La mente distopica (2022) di Nicola Ghezzani – Recensione del libro

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”.

 

 I fenomeni dissociativi consistono in condizioni caratterizzate dall’esperienza di sintomi neurologici insoliti e da cambiamenti relativi alla consapevolezza ed al senso di identità (Ganslev et al., 2020). Tra tali fenomeni, spicca il disturbo di Depersonalizzazione/Derealizzazione: la prima consiste in una sensazione di distacco dal proprio corpo e dai propri pensieri, emozioni e sensazioni. La Derealizzazione, invece, si manifesta mediante il senso di irrealtà ad estraneità rispetto all’ambiente circostante (Spiegel, 2021).

Coloro che vivono episodi di depersonalizzazione e/o di dissociazione sono spesso accomunati dal possedere una “Mente Distopica” e dal vivere esperienze di “Angoscia esistenziale”; la prima è caratterizzata dalla tendenza a cogliere i difetti del mondo e ad opporsi ad essi, in virtù di una sensibilità diversa rispetto al resto della popolazione (Ghezzani, 2022). L’angoscia esistenziale, invece, porta ad interrogarsi su argomenti spesso dati per scontati dalla maggior parte delle persone, quali il senso della propria esistenza, della propria essenza e, addirittura, delle proprie relazioni (Ghezzani, 2022). Una prima panoramica su tali caratteristiche permette di intuire l’eccezionale complessità delle sopra-citate condizioni dissociative che, pur essendo state identificate alla fine dell’Ottocento (Coons, 1996) e pur interessando fino all’1,9% della popolazione generale (Yang et al., 2022), risultano tutt’ora di difficile comprensione, persino per gli stessi professionisti della salute mentale, come riferito dallo stesso Nicola Ghezzani (2022), autore dell’opera qui recensita, nonché psicoterapeuta, presidente della SIPSID (Società Italiana di Psicologia Dialettica) e fondatore dell’associazione culturale ASIP (Associazione per lo Studio delle Iperdotazioni Psichiche).

 Mediante l’opera da lui realizzata, “La mente distopica. Derealizzazione, depersonalizzazione e angoscia esistenziale”, nella quale riporta in modo estremamente coinvolgente la propria esperienza con la Derealizzazione, l’autore permette di superare la nebulosità relativa alla comprensione di tali particolari condizioni cliniche; un aspetto che contribuisce a rendere il volume particolarmente utile e interessante consiste nell’alternarsi di descrizioni ed esempi pratici –spesso resi più semplici dai riferimenti a situazioni e vissuti comuni ad ognuno (come la tendenza a vagare con la mente mentre si guida un’auto)– con nozioni teoriche e strategie/strumenti di intervento (dalla “oggettivizzazione del sintomo”, necessaria per evitare interpretazioni drammatiche delle manifestazioni dissociative, al “cambiamento di contesto”). Il risultato è una lettura scorrevole ed esaustiva, sicuramente interessante per molti, anche se indirizzata prevalentemente ad un pubblico di specialisti e di pazienti, che accompagna il lettore nella comprensione di una manifestazione psicopatologica spesso trascurata, in un continuo e sapiente gioco di integrazione tra la puntualità delle nozioni scientifiche, i vissuti della persona-paziente e i significati e conflitti spesso celati dai sintomi.

Il disprezzo

Il disprezzo sembra avere un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo. È stato osservato che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone (Roseman, 2018).

 

Introduzione al disprezzo

 Nonostante molti non conoscano con esattezza la definizione della parola disprezzo, è sicuramente una delle emozioni più facilmente riconoscibili in gran parte delle culture, per via delle modalità espressive (vocali, facciali e comportamentali) con cui la si manifesta, o per via della facilità nel riconoscere la situazione in cui occorre (Roseman, 2018). Infatti, nonostante sia oggetto di dibattito la sua appartenenza alla classe delle emozioni primarie, è indubbio che il disprezzo sia presente nella vita di tutti i giorni, e che accompagni l’essere umano fin dalla nascita. Può essere esperito sia nei confronti di persone che di oggetti.

Il disprezzo si manifesta con un atteggiamento negativo verso qualcuno o qualcosa che si ritiene inferiore, inutile o non meritevole di rispetto (Roseman, 2018). Come emozione, il disprezzo ha un insieme di componenti:

  • la componente fenomenologica, ovvero l’insieme di pensieri che hanno come contenuto l’inutilità della persona (o oggetto) e quanto essa sia rivoltante;
  • la componente fisiologica ed espressiva, che consiste nel restringimento delle labbra, con un lieve sollevamento dell’angolo in alto delle labbra, solamente da una parte del viso, spesso accompagnandosi a uno sguardo altezzoso;
  • la componente comportamentale, che si manifesta tramite frasi che hanno lo scopo di umiliare l’individuo o mancargli di rispetto, oppure trattarlo come inferiore.

Il disprezzo ha inoltre un obiettivo, ovvero una funzione, ed è quella di trasmettere il fatto di non voler avere nulla a che fare con l’oggetto (o stimolo) dell’emozione, e di avvisare le altre persone che quella persona è immeritevole e deve essere esclusa dal gruppo (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi avere anche un ruolo sociale, ovvero quello di cercare di unire in gruppo tutti coloro che provano disprezzo verso un determinato stimolo (Roseman, 2018). È stato osservato (Roseman, 2018) che, più forte è la manifestazione del disprezzo, più è facile che venga riconosciuto e condiviso da altre persone.

Sono stati osservati due tipi di disprezzo (Roseman, 2018). La persona che prova disprezzo spesso ha un atteggiamento indifferente verso il bersaglio e le sue emozioni, e ciò serve a trasmettere che il target è insignificante e indegno di attenzione. Questo tipo di disprezzo è definito passivo. Il disprezzo attivo invece è l’insieme di comportamenti che l’individuo attua per far capire ad altri che il bersaglio è indegno e immeritevole di avere relazioni con gli altri.

Il disprezzo in diversi contesti

È possibile osservare il disprezzo, e le sue conseguenze, in diversi contesti (Roseman, 2018).

Un esempio potrebbe essere a scuola, dove il disprezzo verso un determinato gruppo etnico può portare a denigrazione, minacce, provocazioni, bullismo, violenza ed esclusione (Roseman, 2018).

 Un altro campo dove è possibile ritrovare il disprezzo è nelle relazioni sentimentali (Roseman, 2018). Katz e Gottman (1993) hanno osservato come frasi con contenuto sprezzante rivolte verso il partner fossero forti predittori di insoddisfazione relazionale e divorzio (Katz e Gottman, 1993).

Il disprezzo si può inoltre ritrovare nel contesto lavorativo, dove è possibile che il datore di lavoro provi disprezzo verso i dipendenti, o che siano i dipendenti stessi a provare disprezzo verso il datore di lavoro; inoltre, è possibile che il disprezzo sia anche diretto verso i clienti (Pelzer, 2005).

Il disprezzo si può anche osservare pure in campo politico, dove è facile che gli individui provino questa emozione verso coloro che votano o sostengono un partito politico opposto al proprio (Roseman, 2018).

Il disprezzo sembra quindi un’emozione con una funzione sociale specifica, ovvero segnalare all’altro che l’oggetto di tale emozione deve essere allontanato dal gruppo (Roseman, 2020). Tuttavia, il disprezzo, se non viene riconosciuto e adeguatamente gestito, può avere ripercussioni negative nella società, come violenza, pregiudizio, razzismo e guerre  (Roseman, 2020).

Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

Dopo aver pubblicato, nello scorso numero, un articolo dedicato al tema della Qualità di Vita nelle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, proponiamo oggi un approfondimento sul tema in riferimento all’ambito più ampio delle disabilità.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 4) Il Concetto di Qualità di Vita nell’ambito della disabilità

 

Il concetto di Qualità di Vita (QdV) ha origini molto antiche, radicate nell’idea di benessere e felicità già argomentate da Platone e Aristotele; ma la sua importanza è cresciuta rapidamente negli ultimi anni, diventando sempre più un focus di attenzione nel campo della ricerca e della pratica in ambito educativo, sanitario, dei servizi sociali e della famiglia (Schalock e Verdugo, 2002). La crescita dell’interesse verso il costrutto di Qualità di Vita nell’ambito delle disabilità è sicuramente in gran parte dovuta alla de-istituzionalizzazione delle persone con disabilità (Verdugo et al., 2005) e alla pubblicazione della Dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità (Organizzazione delle Nazioni Unite [ONU], 1975).

Il campo della Disabilità Intellettiva (DI) è fortemente influenzato dal costrutto, ovvero il concetto, di Qualità di Vita (Morisse et al., 2013) e l’importanza di misurarla in questo ambito ha a che fare con due principali ragioni: la prima è che tale costrutto permette una visione integra e multidimensionale della vita di una persona, consentendo di identificare e mettere in atto degli interventi personalizzati senza cadere nel riduzionismo; la seconda ragione, di conseguenza, si riferisce all’orientamento delle azioni attuate dai servizi pubblici e dai professionisti, basato su un importante ruolo attribuito alla persona in quanto beneficiaria di servizi, la cui esperienza deve sempre essere tenuta in considerazione (Verdugo et al., 2005).

Negli ultimi anni si è diffusa, pertanto, una maggiore attenzione agli esiti degli interventi di sostegno e di (ri)abilitazione per persone con disabilità, con un superamento della logica di guarigione, a favore di un’ottica maggiormente orientata al miglioramento della Qualità di Vita e dell’inclusione. In questa prospettiva, la Qualità di Vita rappresenta un obiettivo da conseguire per le persone con disabilità, tanto quanto per quelle senza, così come un indice della qualità delle azioni di sostegno attuate (Coscarelli e Balboni, 2014).

I modelli di QdV

Prima di poter applicare la Qualità di Vita, è però necessario giungere a una concezione condivisa e operativa di tale costrutto, altrimenti si corrono due rischi speculari: da una parte quello di ridurre il costrutto di QdV a una dimensione specifica e, di conseguenza, scarsamente rappresentativa della sua complessità; dall’altro lato, il pericolo è quello di farlo diventare talmente onnicomprensivo e variegato da risultare ripetitivo e difficilmente misurabile (Cottini, 2009).

A tal proposito, sono stati sviluppati vari modelli di Qualità di Vita e, sebbene non vi sia ancora un totale consenso sulle sue componenti (chiamate domini) che la definiscono, vi è accordo sul fatto che si tratti di un costrutto multidimensionale, che si manifesta con indicatori di tipo sia oggettivo che soggettivo, fortemente influenzati da fattori personali e ambientali (Müller e Cannon, 2014). I modelli più rilevanti, citati da Coscarelli e Balboni (2014) in merito alla QdV nel contesto della DI, sono stati elaborati da Felce e Perry (1995), Cummins (2000) e Schalock e Verdugo (2002). Tra questi, il modello di Schalock e Verdugo del (2002) è quello che si è dimostrato essere più valido tra le differenti culture, nonché il principale riferimento teorico utilizzato nell’ambito della DI (Coscarelli e Balboni, 2014).

Il modello di Schalock e Verdugo

Il modello di Qualità di Vita elaborato da Schalock e Verdugo (2002) ha subìto vari cambiamenti nel corso del tempo, integrando sempre più accorgimenti riferiti alla validità sia etica (universale) che emica (culturale) di tale costrutto (Coscarelli e Balboni, 2014), fino a raggiungere l’attuale strutturazione in 8 dimensioni.

Nel 2002 un panel internazionale di esperti nel campo della Qualità di Vita ha pubblicato una sintesi dei princìpi riguardanti il concetto di QdV sui quali era emerso un certo consenso. Tali princìpi evidenziano una certa sensibilità alle caratteristiche soggettive, alla persona in quanto tale (più che alla sua disabilità), al suo punto di vista e all’uguaglianza dei fattori coinvolti nel determinare la Qualità di Vita di una persona con disabilità rispetto a una senza disabilità. Tra questi, inoltre, emerge l’importanza di considerare i fattori culturali e ambientali e la variabilità che può subire la QdV nel corso dell’intero ciclo di vita (Verdugo et al., 2005).

La definizione di Schalock e colleghi (2010) di Qualità di Vita è quella di un fenomeno multidimensionale composto da domini centrali che sono influenzati da caratteristiche personali e ambientali. Tali domini sono gli stessi per tutte le persone, anche se possono variare in valore e importanza. Questi sono inoltre basati su indicatori sensibili alla cultura.

Un buon livello di Qualità di Vita è il risultato di una buona corrispondenza tra i desideri e i bisogni di una persona, e il loro soddisfacimento. Ciò è supportato dai dati, i quali suggeriscono che riducendo la discrepanza esistente tra le risorse individuali e le richieste ambientali, aumenta la QdV di quella persona (Schalock, 2000).

Pertanto, il concetto di Qualità di Vita secondo il modello di Schalock e Verdugo (2002) rappresenta un costrutto multidimensionale latente, sotto al quale sono stati concettualizzati 8 domini che concorrono a spiegarlo, a loro volta definiti da indicatori che ne aiutano l’operazionalizzazione e quindi la misurazione in quanto rappresentano dei comportamenti, delle percezioni e delle condizioni connesse alla QdV (Schalock et al., 2010; Verdugo et al., 2005; Morisse et al., 2013, vedi Tabella 1). Tale struttura si è dimostrata applicabile sia alle diverse culture, che alle varie categorie di partecipanti: individui con Disabilità Intellettiva, familiari e professionisti. È stato in seguito aggiunto un altro livello di strutturazione del modello, costituito da fattori che raccolgono i vari domini in 3 categorie: Indipendenza, Partecipazione sociale e Benessere (Coscarelli e Balboni, 2014).

Qualità di vita - tabella

Tabella 1. Modello concettuale della QdV: fattori, domini e indicatori (adattata da Schalock et al., 2008).

La questione etica

Schalock e colleghi (2002) si sono occupati anche della questione etica relativa alla misurazione della Qualità di Vita, affermando che tale costrutto è importante per tutti gli individui e dovrebbe essere considerato allo stesso modo per persone con o senza disabilità, in quanto esse hanno lo stesso diritto di godere di una vita di qualità. In altre parole, il valore della vita è lo stesso, che la persona sia abile, o disabile. A tal fine, l’applicazione del concetto di QdV per persone con DI dovrebbe basarsi su 5 princìpi (Schalock et al., 2002):

  • L’obiettivo primario è aumentare il benessere individuale;
  • Devono essere tenuti in considerazione il patrimonio culturale ed etnico dela persona;
  • Lo scopo di qualsiasi programma orientato alla QdV dovrebbe essere quello di produrre dei cambiamenti a livello personale, istituzionale, comunitario e nazionale;
  • L’applicazione della QdV dovrebbe aumentare il grado di controllo e opportunità personali;
  • La QdV dovrebbe rivestire un ruolo preponderante nella raccolta degli esiti.

Nel tempo, quindi, la Qualità di Vita è diventata un agente di cambiamento sociale, in cui risulta centrale la predisposizione di sostegni individualizzati, adattati cioè ai bisogni e alle preferenze della persona. È necessario, inoltre, che tali sostegni vengano attuati all’interno di ambienti inclusivi (Schalock et al., 2008). La forza dell’inclusione sta nell’inserimento al 100% della persona con disabilità all’interno del sistema sociale, adattando tale sistema a ogni individuo con o senza disabilità tramite l’eliminazione delle barriere alla piena partecipazione di tutti come ugualmente unici e valorizzati. Ciò non avviene in un’ottica di integrazione, la quale si basa invece su un adattamento al sistema, spesso tramite la creazione di gruppi che, per quanto siano inseriti all’interno del sistema sociale, sono comunque separati da esso, segregati (Eid, 2018).

Misurazione della Qualità di Vita

La misurazione della Qualità di Vita si basa innanzitutto sulla valutazione degli indicatori, i quali rappresentano gli elementi da quantificare al fine di ottenere una misurazione dei domini a cui si riferiscono (Coscarelli e Balboni, 2014). Gli indicatori hanno una connotazione ecologica, ossia devono essere considerati in rapporto al contesto sociale e alla quotidianità della persona; inoltre sono sensibili all’età del soggetto e alle sue condizioni (ad esempio, sviluppo tipico, disturbo mentale, ecc; Cottini, 2009).

La letteratura si mostra discordante sulle modalità di misurazione degli indicatori di Qualità di Vita, i quali possono essere classificati in soggettivi e oggettivi, e sull’utilità di disporre di entrambe le tipologie di risultati. In generale, vengono considerati soggettivi gli indicatori che hanno a che fare con la percezione di (a) soddisfazione per la vita rispetto a standard personali e (b) felicità, in termini di stati affettivi positivi (Cummins, 2000). Vengono invece considerati come oggettivi gli indicatori relativi alle circostanze di vita obiettive, indipendenti quindi dalle percezioni di benessere personali (per esempio, reddito, livello di istruzione). Pertanto, questi ultimi vengono solitamente valutati richiedendo al soggetto di quantificare esperienze e condizioni di vita relative ai domini della Qualità di Vita (es. “disponi di una casa / appartamento / stanza che puoi chiudere a chiave?”: dominio del benessere materiale; Cummins, 2000, p. 10). Gli indicatori soggettivi invece vengono misurati richiedendo di valutare il livello di soddisfazione percepito relativamente ai vari aspetti di vita considerati (es. “Sei importante per la tua famiglia?”: dominio delle relazioni interpersonali; ibidem). Pertanto, la qualità oggettiva o soggettiva degli indicatori rispecchia il contenuto delle domande, non la natura della valutazione che, di per sé, è sempre soggettiva, né la fonte delle informazioni (auto- o etero-valutativa; Hatton e Ager, 2002).

Diverse ricerche hanno mostrato una correlazione medio-bassa tra gli indicatori soggettivi e quelli oggettivi, suggerendo l’utilità di ricorrere a entrambi i tipi di misurazione (Müller e Cannon, 2014). Risulta altresì importante attribuire alle due categorie di indicatori pesi differenti in base agli scopi della misurazione (Verdugo et al., 2005). Per esempio, gli indicatori soggettivi risultano utili nel caso in cui si voglia indagare il livello di soddisfazione di persone con disabilità intellettiva (DI) in confronto a un’altra popolazione; nell’ipotesi in cui i punteggi siano simili, il livello di soddisfazione risulta normativo; altrimenti, conviene indagare quali fattori personali o ambientali possano causare queste differenze. Nel caso in cui si vogliano valutare gli effetti degli interventi e le condizioni ambientali, risulta invece più pertinente il ricorso a indicatori di tipo oggettivo (Verdugo et al., 2005).

Pertanto, i metodi di raccolta dati migliori comprendono questionari e interviste che tengano conto, in maniera indipendente, di entrambe le tipologie di indicatori e che siano progettate per essere completate da utenti con DI o, eventualmente, da informatori che conoscono la persona (detti proxy; Hatton e Ager, 2002).

 

L’ascolto attivo

Dal punto di vista clinico, l’ascolto attivo prevede tre elementi essenziali: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati. 

 

If we could all just learn to listen, everything
else would fall into place.
Listening is the key to being patient centred. 
(Ian McWhinney)

 Durante le ultime settimane a contatto con alcuni pazienti mi sono sentita particolarmente in sintonia con loro da un punto di vista emotivo e mi sono resa conto, dal cambiamento da loro mostrato nei miei confronti a fine seduta, di come, in assenza di specifiche competenze terapeutiche pratiche ancora da sviluppare, il primo passo verso l’altro è la messa in atto di un’abilità difficile da insegnare e da apprendere: l’ascolto attivo. Probabilmente chiunque conosce il significato della parola “ascolto”, definito, cioè, come “processo di ricezione, costruzione di significato e di risposta a messaggi verbali e/o non verbali” e non soltanto mera percezione di un suono attraverso l’udito. Ma chi realmente pratica l’ascolto attivo verso gli altri? Esso è come se si riferisse ad un livello successivo, più profondo, che rimanda ad un’apertura, ad una predisposizione mentale verso l’altro e all’essere emotivamente disposti a condividere il vissuto dell’altro, sia esso di sofferenza o di gioia.

Le teorie inerenti all’ascolto attivo hanno radici nella concettualizzazione dell’ascolto empatico di Rogers (1951), il quale definì l’ascolto empatico come incondizionata accettazione e riflessione imparziale dell’esperienza dell’altro. Dal punto di vista clinico, la maggior parte dei pareri di esperti condivide l’inclusione di tre elementi essenziali nell’ascolto attivo: coinvolgimento emotivo ed espressione non verbale di tale coinvolgimento, astensione da giudizi e parafrasi del messaggio dell’oratore in favore di un’autoriflessione, presa di coscienza ed elaborazione dei contenuti emotivi riportati.

Dunque, l’ascolto attivo estende il ruolo terapeutico oltre la semplice raccolta di informazioni e non rimanda necessariamente a lunghe sessioni trascorse esclusivamente ad ascoltare l’altro; finché non si è in grado di dimostrare uno spirito che rispetti genuinamente il valore potenziale dell’individuo, che consideri i suoi punti di vista, non possiamo considerarci ascoltatori efficaci. Secondo Rogers (1957) l’empatia del terapeuta e la capacità di comunicare tale empatia al paziente sono tra le condizioni iniziali necessarie per l’instaurazione di una relazione, ossia per la costruzione dell’alleanza terapeutica, ed il conseguente raggiungimento del cambiamento terapeutico.

In generale, l’ascolto attivo implica la capacità percepita di instaurare interazioni gratificanti. A tal proposito, la letteratura su tale ambito identifica la comprensione, l’esperienza dell’affetto positivo e la costruzione di relazioni soddisfacenti e significative come prodotti del processo di ascolto attivo, sottolineando che le persone preferiscono interazioni che forniscono ricompense reali o percepite, che a loro volta guidano l’interesse delle persone verso interazioni future.

L‘ascolto attivo è, dunque, una capacità comunicativa specifica che consiste nella libera attenzione e che Knights definisce come: “… mettere tutta la propria attenzione e consapevolezza a disposizione di un’altra persona, ascoltare con interesse e apprezzare senza interrompere”. Questo sembra essere un impegno raro e prezioso, poiché la maggior parte delle discussioni implica la competizione per uno spazio in cui parlare. L’ascolto attivo richiede un’intensa concentrazione e attenzione a tutto ciò che la persona sta trasmettendo, sia verbalmente che non verbalmente. Esso richiede che l’ascoltatore si svuoti si preoccupazioni personali, distrazioni e preconcetti.

 Ancora, diceva Carl Rogers nel 1980: “[…] ascoltiamo non solo con le nostre orecchie, ma anche con i nostri occhi, mente, cuore e immaginazione. Ascoltiamo ciò che sta accadendo dentro di noi, così come ciò che sta accadendo nella persona che stiamo ascoltando. Ascoltiamo le parole dell’altro, ma ascoltiamo anche i messaggi e i significati sepolti nelle parole. Ascoltiamo la voce, l’aspetto e il linguaggio del corpo dell’altro… […] senza aggiungere, sottrarre o modificare.” Dare l’opportunità di seguire un filo di pensiero senza interruzioni è sia una convalida dei processi di pensiero (sebbene non necessariamente delle opinioni stesse), sia dell’individuo. Sebbene l’ascoltatore non introduca le proprie opinioni o soluzioni, è tutt’altro che passivo.

Bolton, inoltre, cita nel suo libro “Competenze delle persone” lo psicologo Clark Moustakas: “Etichette e classificazioni che ostacolano l’ascolto attivo fanno sembrare che conosciamo l’altro, quando in realtà abbiamo catturato l’ombra e non la sostanza. Poiché siamo convinti di conoscere noi stessi e gli altri… [noi] non vediamo più cosa sta succedendo davanti a noi e in noi, e, non sapendo di non sapere, non facciamo alcuno sforzo per essere in contatto con il reale”.

È utile, in conclusione, realizzare una riflessione sull’aspetto dell’ascolto, così scontato e sottovalutato ma allo stesso tempo così poco praticato ed essenziale nella definizione della qualità delle relazioni umane.

You can learn to be a better listener, but
learning it is not like learning a skill that is
added to what we know. It is a peeling away
of things that interfere with listening, our
preoccupations, our fears, of how we might
respond to what we hear.
(Ian McWhinney).

 

Sigmund Freud: i principi fondamentali della terapia psicoanalitica

Sigmund Freud (1856 – 1939) fu un neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco, nonché fondatore della psicoanalisi e autore di un’importante teoria dello sviluppo affettivo, cioè la teoria dello sviluppo psicosessuale (o libidico).

 

I principi fondamentali della teoria psicoanalitica freudiana

Freud sosteneva che la mente umana fosse composta da tre istanze fondamentali: l’Io, l’Es e il Super Io.

L’Io è la struttura più razionale, che rende realistiche e accettabili le spinte pulsionali dell’Es, opera secondo un principio di realtà, si adatta all’ambiente sociale, e contiene delle funzioni regolatrici (le difese) tramite cui gestisce istinti e affetti e tiene sotto controllo le pulsioni dell’Es.

L’Es è l’istanza psichica più istintiva e primitiva, il cui obiettivo è la gratificazione pulsionale, la scarica della libido, e l’evitamento del dolore; opera secondo il principio di piacere.

Il Super Io, infine, è il nostro senso morale, comprende i concetti di giusto e sbagliato, di buono e cattivo, proprio come ci vengono insegnati dai genitori o da figure educative significative. Il Super io limita e inibisce le pulsioni dell’Es e spinge l’individuo a perseguire elevati standard morali. Il Super Io si struttura al superamento del Complesso di Edipo/Elettra, quando il bambino interiorizza norme sociali, valori morali, incorpora modelli di condotta genitoriali e assimila codici etici e deontologici. Il Super Io è anche la fonte del senso di colpa e della vergogna, dal momento che comprende due sottosistemi: la coscienza, che punisce il bambino quando mette in atto comportamenti disapprovati dai genitori, e l’ideale dell’Io, che premia il bambino quando mette in atto comportamenti moralmente accettabili, portandolo ad esperire orgoglio.

Secondo Freud, le mente è regolata dal principio di piacere: è esso che guida le azioni umane e che orienta le nostre motivazioni e le nostre condotte. La pulsione per Freud è un processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica o fattore di motricità) che porta l’individuo a protendere verso una meta. La pulsione si compone di quattro dimensioni:

  • una fonte, che è il segnale corporeo che indica un bisogno.
  • un obiettivo, cioè come soddisfare il bisogno.
  • un impeto, che è la dimensione principale delle pulsioni, cioè la spinta che motiva l’individuo all’azione.
  • un oggetto, cioè il mezzo attraverso cui il bisogno viene soddisfatto.

La teoria di Freud sullo sviluppo psicosessuale sottolinea il fatto che la motivazione primaria del comportamento umano sia di natura sessuale (la ricerca di una gratificazione pulsionale) e che lo sviluppo individuale sia un processo largamente inconscio, influenzato dalla nostra sfera emotiva e dalle precoci relazioni oggettuali con figure significative della prima infanzia. In particolar modo, secondo Freud, la personalità è un costrutto dinamico, che evolve modulandosi lungo le cinque fasi che caratterizzano il processo di sviluppo affettivo. Ciascuna di queste cinque fasi – la fase orale, la fase anale, la fase fallica, la fase di latenza e la fase genitale – è caratterizzata da un centro di piacere, rappresentato da una zona erogena, e da un conflitto.

Le fasi dello sviluppo psicosessuale secondo Freud

Nello specifico, il bambino alla nascita è narcisista, cioè agisce unicamente in vista di una gratificazione pulsionale dei propri istinti vitali. Freud definiva il bambino un perverso polimorfo: man mano che cresce, il bambino continua a cercare il piacere sessuale senza uno scopo riproduttivo (perverso), ma comincia a spostare il suo piacere convogliandolo su diverse zone erogene, cioè parti del corpo marcatamente sensibili, al cui contatto il bambino avverte una forte scarica libidica e sensazioni molto piacevoli. Durante le cinque fasi dello sviluppo psicosessuale il bambino è chiamato a risolvere dei conflitti di carattere affettivo, conflitti che vedono contrapposte le esigenze pulsionali e istintuali del bambino (principio di piacere) e le regole e le norme imposte dalla società (principio di realtà): il conflitto, pertanto, è il punto nevralgico della vita affettiva ed emotiva secondo la teoria psicoanalitica di Freud. Se il bambino riesce a superare i conflitti che caratterizzano le varie fasi dello sviluppo, allora può raggiungere un buon livello di maturazione psicobiologica e un equilibrio armonico tra le istanze della sua mente e sviluppare un funzionamento personologico sano. A seconda che le sue pulsioni istintuali siano state esageratamente appagate o frustrate, cioè insoddisfatte, durante il suo percorso di sviluppo evolutivo il bambino può manifestare fissazioni o regressioni. La fissazione avviene quando il bambino, a causa di una frustrazione o di una sovrabbondanza della libido, si blocca ad una fase dello sviluppo psicosessuale, trascinando con sé in epoche successive i suoi desideri libidici. La fissazione spesso porta il bambino a manifestare in età adulta determinati tratti personologici particolarmente accentuati. La regressione, invece, è un meccanismo di difesa, per cui il bambino ritorna a fasi dello sviluppo precedente: quando subentra una regressione, riemergono specifiche esigenze dell’Es e si modifica anche il pensiero del bambino.

Fase orale (nascita-18 mesi): è la prima fase dello sviluppo psicosessuale secondo Freud. In questa fase il bambino stringe la sua primordiale relazione affettiva, cioè la relazione oggettuale con la madre, che funge da prototipo per tutte le future relazioni amorose del bambino. Il legame di attaccamento tra la madre e il bambino, secondo lo psicoanalista, era favorito dal bisogno soddisfatto di cibo: la madre, attraverso il suo seno, gratifica il bambino, appagando il suo bisogno nutritivo. La bocca è la principale zona erogena, nonché fonte di piacere, tramite cui il bambino si relaziona con la madre attraverso il contatto fisico; il seno materno rappresenta l’oggetto di gratificazione pulsionale, divoramento e soddisfacimento sadico orale. Questo stadio termina tipicamente con lo svezzamento, tuttavia una scarsa gratificazione da parte della madre (ad esempio un ritardo nell’esposizione del seno o un’interruzione brusca dell’allattamento) possono frustrare i bisogni libidici del bambino e portarlo a sviluppare una fissazione. La fissazione si traduce in un peculiare pattern personologico, come il pessimismo o angoscia costante o una continuativa brama di gratificazione orale in epoche successive; una fissazione può configurarsi anche come prodotto di un’eccessiva gratificazione orale: in tal caso il bambino farà fatica ad investire altrove la sua libido. Pertanto è importante che il genitore sia in grado di offrire al bambino la giusta dose di gratificazione.

Fase anale (18 mesi-3 anni): in questa seconda fase il centro del piacere è il controllo sfinterico. L’atto di trattenere o espellere le feci è per il bambino metafora di autonomia, indipendenza e controllo sul mondo esterno. La defecazione è un atto su cui il bambino può esercitare un suo controllo, in quanto egli può scegliere se trattenere o rilasciare. In particolar modo, nel momento in cui avverte il bisogno fisiologico di defecare, il bambino può alleviare la tensione che ne deriva mediante la defecazione, procurando a se stesso piacere. Peculiarità di questa fase sono l’ambivalenza dei sentimenti (se da un lato le feci sono qualcosa di buono, cioè da trattenere, dall’altro è sgradevole, e quindi da espellere) e i primi conflitti con l’autorità genitoriale, che sembra pretendere che il bambino impari al più presto ad esercitare un controllo responsabile e consapevole dei propri sfinteri. Il compito educativo dei genitori è molto delicato in questa fase, in quanto un addestramento genitoriale troppo rigido può frustrare i desideri infantili e portare a delle fissazioni istintuali: secondo Freud il bambino che defeca in luoghi e tempi inappropriati, sfuggendo allo sguardo del genitore, potrebbe diventare un adulto irresponsabile, disordinato e poco pratico col denaro, mentre il bambino che assimila in fretta la disciplina genitoriale può diventare stitico e quindi manifestare da adulto tratti di ansietà, eccessivo perfezionismo, ordine, parsimonia.

Fase fallica (3-6 anni): rappresenta la fase dello sviluppo sessuale più importante, in quanto contribuisce in maniera marcata alla formazione della personalità e alla definizione dell’identità sessuale del bambino. Il bambino concentra l’energia pulsionale nella zona genitale, cioè nell’area del fallo, e sceglie come oggetto d’amore la madre, di cui cerca di attirare l’attenzione mediante comportamenti esibizionistici. Bambino e bambina cominciano a definire la loro identità sessuale, in quanto si rendono conto del fatto che tra di loro esistano delle differenze anatomiche e sessuali, e a livello inconscio vagheggiano di unirsi sessualmente col genitore di sesso opposto: è qui che secondo la teoria freudiana subentra il Complesso di Edipo (nel bambino) o di Elettra (nella bambina), che si caratterizza per la presenza di una forte attrazione sessuale per il genitore di sesso opposto e di sentimenti di rivalità e antagonismo per il genitore dello stesso sesso. Il complesso di Edipo si risolve nel momento in cui il bambino sperimenta l’angoscia di castrazione, cioè la paura che il genitore dello stesso sesso possa punirlo per le sue velleità erotiche; il bambino, allora, rinuncia alla madre e si identifica nel padre, assorbendone tratti caratteriali, modelli di giusto e sbagliato, codici etici e deontologici. La dinamica è leggermente diversa al femminile, in quanto nella fase pre edipica la bambina si sente anatomicamente identica al bambino, per cui anche il suo oggetto d’amore è la madre. In seguito, con la scoperta del pene nella fase edipica, la bambina capisce di essere diversa dal bambino ed esperisce un senso di inferiorità e di invidia. Il suo desiderio diventa quello di sostituirsi alla madre e di avere una gravidanza e un rapporto sessuale col padre, tuttavia, per timore di eventuali punizioni da parte della madre, accantona i suoi desideri sessuali e si identifica nel genitore dello stesso sesso. Al superamento del complesso di Edipo/Elettra, il bambino e la bambina strutturano il loro Super Io e acquisiscono il concetto della triangolarità della relazione.

Fase di latenza (6-11 anni): superata la fase fallica, subentra un periodo di tranquillità istintuale, in cui i desideri edipici infantili subiscono l’effetto di alcuni meccanismi di difesa come la formazione reattiva, la sublimazione e la rimozione. Il bambino rimuove il Complesso di Edipo, motivo per cui comincia a stringere legami di amicizia con figure dello stesso sesso con cui formare gruppi, l’identità di genere si rafforza e l’energia libidica viene indirizzata a mete di carattere morale, sociale e intellettuale.

Fase genitale (11 anni in poi): corrisponde all’ultima fase dello sviluppo psicosessuale. I desideri edipici e gli impulsi sessuali che erano stati rimossi nella fase di latenza qui ricompaiono con maggior forza, spingendo l’individuo a focalizzare l’energia pulsionale in un oggetto esterno al nucleo familiare; si consolida la libido oggettuale, la sessualità matura, cioè l’individuo cerca una relazione affettiva e sessuale con un partner esterno. Il centro del piacere è rappresentato dalla zona genitale, al cui primato si assoggettano le zone erogene del passato.

 

Una panoramica sull’uso problematico di Internet e le sue conseguenze

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

 

Introduzione all’uso problematico di Internet

Internet è comparso nelle nostre vite relativamente di recente ma in maniera improvvisa, e da allora se ne è registrato un uso sempre più diffuso (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È considerato un ottimo strumento per poter accedere a praticamente qualsiasi tipo di informazione, oltre che a essere fonte di intrattenimento e di comunicazione facilitata, senza limitazioni temporali o spaziali. Oltre che a fornire servizi ormai indispensabili, come l’accesso all’informazione, all’educazione e alla gestione finanziaria, Internet viene usato anche per svago e divertimento, dato che è possibile videogiocare o chattare con altre persone provenienti da ogni parte del mondo. Inoltre, al giorno d’oggi, Internet viene usato anche per attività come il gioco d’azzardo e la diffusione di sostanze. La possibilità di avere accesso a così tanti contenuti con facilità e immediatezza, in molti casi, è sfociata velocemente in un uso problematico. 

L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard e Wolf, 2001).

Il tempo passato su Internet, tuttavia, non sembra essere un criterio sufficiente per identificare un uso problematico, in quanto è da considerare anche il fine per il quale Internet viene usato (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che molti individui che riportano un uso problematico di Internet passano molto del loro tempo libero a videogiocare, chattare, acquistare prodotti online e navigare su siti pornografici. È stato inoltre osservato che gli utenti possono soddisfare alcuni bisogni attraverso le risorse disponibili su Internet, ciò può causare problematiche come il ritiro sociale e l’isolamento. Nel caso in cui compaiano queste difficoltà, l’utilizzo di Internet viene definito problematico. Gli individui che sembrano più a rischio sono coloro che hanno difficoltà nel controllare gli impulsi, che hanno avuto storie di dipendenze, hanno già sofferto di isolamento sociale, hanno problematiche psicosociali o sono in cerca della propria identità. Alcune ricerche hanno riportato che i disturbi d’ansia, oltre che al disturbo ossessivo-compulsivo, sono quelli con maggiore comorbilità negli individui che abusano di Internet. Inoltre, sembra che chi soffra di uso problematico di Internet riferisca maggiori pensieri depressivi e ideazioni suicidarie.

Complicazioni relazionali dovute all’uso problematico di Internet

Internet è quindi uno strumento che ha un significativo potenziale per influenzare gli atteggiamenti, i comportamenti e le abitudini delle persone, nei contesti amicali, lavorativi e familiari (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Un aumento della socializzazione virtuale può comportare diversi rischi, come la diminuzione delle interazioni nella vita reale, o l’aumento dei fenomeni di isolamento sociale e alienazione dall’ambiente familiare. Infatti, è stato osservato che individui che soffrono di uso problematico di Internet, passando molto del loro tempo libero sulla rete, tendono a trascurare i propri figli, partner e amici. Inoltre, coloro che soffrono di un uso problematico di Internet, tendono ad ignorare le responsabilità lavorative e domestiche, e i loro pensieri sono sempre diretti al computer o al telefono, indipendentemente dal contesto in cui si trovano.

Gli individui con un uso problematico di Internet sono spesso soggetti agli avvertimenti e alle critiche degli altri (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Sembra inoltre che non riescano a gestire correttamente questo intenso interesse verso Internet, e che non possano vivere senza avere a portato di mano il computer o il telefono (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). È stato osservato che, quando un individuo con dipendenza da Internet non riesce ad accedere alla rete, tipicamente esperisce una forte rabbia, oltre che sintomi depressivi e svogliatezza (Candemir Karaburç e Tunc, 2020). Infatti, sembra che questi individui, quando privati della possibilità di accedere alla rete, percepiscano un senso di agitazione e minaccia (Chattopadhyay et al., 2020). Al fine di uscire da questi stati d’animo, gli individui con uso problematico di Internet spesso eccedono il tempo passato online, mentono riguardo al tempo passato sulla rete e sono costantemente preoccupati su ciò che può accadere online mentre loro non sono presenti (Chattopadhyay et al., 2020).

L’uso problematico di Internet è una tematica che richiede sempre maggiore attenzione, in quanto sembra comportare conseguenze negative non solo sull’individuo che ne soffre, ma anche alle persone vicine (Candemir Karaburç e Tunc, 2020).

 

Il paradossale fenomeno del Blindsight: definizione e basi neurobiologiche

Il fenomeno del Blindsight, tradotto dall’inglese “visione cieca”, si riferisce alla capacità di un soggetto di saper localizzare uno stimolo visivo nello spazio, seppur situato in una zona di assoluta cecità del suo campo visivo. In altre parole, l’individuo percepisce in maniera inconsapevole la presenza di un oggetto nello spazio, ma di fatto non lo vede.

 

Basi neurobiologiche

Questo strano fenomeno, definito da alcuni come un “sesto senso”, trova in realtà una spiegazione neurobiologica. Il Blindsight infatti, è una sindrome neuropsicologica causata da una lesione che distrugge un’area circoscritta della corteccia visiva primaria (area V1 o area 17), causando uno scotoma, ovvero una zona di cecità all’interno del campo visivo. Nonostante tale cecità venga sperimentata in modo cosciente dal soggetto, questo tipo di lesione non altera la capacità di localizzare gli stimoli nello spazio (Ladavas e Berti, 2020).

I primi a descrivere questo fenomeno furono Poeppel, Held e Frost, che nel 1973 condussero un esperimento con quattro pazienti che presentavano scotomi all’interno dei campi visivi, con lo scopo di studiare la loro capacità di localizzare stimoli bersaglio posti nell’area scotomatica. Dopo aver accuratamente mappato il campo visivo di ciascun occhio per definire con esattezza l’area cieca, ai partecipanti fu chiesto di mantenere gli occhi su un punto fisso e, solo alla comparsa dello stimolo, di “indovinare” la sua posizione direzionando lo sguardo verso di esso. Dato che i pazienti non erano in grado di “vedere” lo stimolo a cui dovevano rispondere, la comparsa di quest’ultimo è stata associata ad un segnale acustico che aveva la funzione di segnalare al paziente quando muovere gli occhi. Dai risultati dello studio è emersa una rilevante correlazione tra la posizione dello stimolo bersaglio e la direzione degli occhi dopo la stimolazione; pertanto il movimento oculare dei soggetti risultava appropriato, nonostante non avessero consapevolezza della presenza dello stimolo.

La spiegazione di questi risultati risale agli anni 1968 e ‘69, quando Trevarthen (1968) e Schneider (1969) avanzarono la teoria dei due sistemi visivi. Secondo gli autori infatti, esistono due sistemi visivi deputati a due funzioni diverse: il primo, il sistema retino-genicolo-striato, si occupa dell’identificazione degli oggetti, mentre il secondo, il sistema retino-collicolo-extrastriato, si occupa della localizzazione degli stimoli nello spazio. Nel caso di pazienti con blindsight, è la prima via ad essere distrutta dalla lesione, mentre la seconda rimane intatta rendendo accessibile, seppur in forma inconsapevole, l’informazione circa la posizione degli oggetti nello spazio.

Diversi studi confermano questa teoria. Nel 1986, Weiskrantz pubblica una monografia basata sull’osservazione del fenomeno del blindsight in un paziente che si era sottoposto ad una rimozione quasi completa del lobo occipitale destro, a causa di un tumore ivi localizzato. L’asportazione aveva provocato un’emianopsia sinistra quasi completa, quindi con conseguente comparsa di uno scotoma nella parte inferiore sinistra del campo visivo. Anche in questo caso, è stato chiesto al paziente di indicare attraverso il movimento oculare la posizione di uno stimolo presentato nella zona scotomica, riscontrando, come negli studi precedenti, una correlazione tra direzione dello sguardo e posizione dello stimolo. Inoltre, quando al paziente è stato chiesto di localizzare lo stimolo anche manualmente, indicandolo puntando con il dito, la correlazione risultava essere più alta. Nonostante la precisione dei risultati, il soggetto riferiva di non vedere assolutamente nulla, e che aveva solamente “indovinato”. Successivamente, Corbetta e collaboratori (1990), grazie a uno studio condotto su quattro pazienti affetti da emianopsia, hanno dimostrato che la capacità di localizzare manualmente uno stimolo posto nella zona scotomica veniva mantenuta solo se al paziente era permesso di dirigere anche lo sguardo verso l’area del campo visivo stimolata; quindi il fenomeno del blindsight non si verifica se il soggetto mantiene lo sguardo sul punto di fissazione mentre indica manualmente la posizione dello stimolo.

Un’importante scoperta deriva dallo studio di Mohler e Wurtz (1977), che hanno addestrato delle scimmie (macachi Rhesus) con scotoma ad eseguire movimenti oculari verso uno stimolo presentato nella loro area cieca. Questi esercizi hanno generato un parziale recupero della sensibilità visiva in quell’area dello scotoma, per cui la scimmia era stata addestrata a eseguire movimenti saccadici. Gli stessi ricercatori hanno poi dimostrato come tale recupero parziale della funzione sia mediato dal ruolo del collicolo superiore: provocando una lesione a quest’ultimo infatti, il deficit si ripresentava. Basandosi su questo studio, Zihl e Von Cramon (1985), hanno addestrato 55 pazienti con scotoma utilizzando gli stessi esercizi: i risultati, nella maggior parte dei casi, sono stati favorevoli. Gli autori hanno ipotizzato una possibile riattivazione del tessuto nervoso che era stato danneggiato in modo reversibile; mentre nei casi dei pazienti che non avevano beneficiato degli esercizi, il recupero della funzione era stato impedito dall’irreversibilità dei danni nel tessuto nervoso coinvolto.

Le ultime scoperte sul blindsight

Recentemente (Berti, 2010), si è scoperto che oltre alla localizzazione degli stimoli nello spazio, i soggetti con blindsight riescono a distinguere lunghezze d’onda diverse, valutare la direzione dei bersagli in movimento e discriminare l’inclinazione di linee. Uno dei soggetti con blindsight più ampiamente studiati (Weiskrantz et al., 1991), riferiva di avere una certa “consapevolezza” di ciò che accadeva nel suo campo visivo affetto da cecità; ed effettivamente questa sensazione coincideva con la presentazione di uno stimolo in rapido movimento in quell’area. Se invece lo stimolo si muoveva lentamente, il paziente non riferiva più la sensazione di consapevolezza. Successivamente, Sahraie e collaboratori (1997) hanno analizzato, attraverso risonanza magnetica funzionale, quali aree del cervello del paziente si attivavano a seguito della presentazione di stimoli in movimento, rapidi e lenti, nel suo campo visivo cieco; quindi secondo la modalità consapevole e inconsapevole. Quando lo stimolo veniva presentato in rapido movimento, nella modalità consapevole, risultava un’attivazione dell’area 46 di Brodmann nell’emisfero destro, e delle aree 18 e 47 in entrambi gli emisferi. Mentre quando lo stimolo veniva presentato in lento movimento, si è registrata un’attivazione del collicolo superiore, di alcune aree frontali mesiali e dell’area 19 ipsilaterale alla lesione. È importante notare che l’area 46 si è attivata anche a seguito della stimolazione del campo visivo intatto, e ciò fa presupporre il coinvolgimento di quest’area nei processi di elaborazione cosciente. La corteccia visiva secondaria invece (aree 18 e 19 di Brodmann), risulta attiva in entrambe le condizioni suggerendo che, nonostante sia necessaria per l’elaborazione visiva, non è sufficiente ad innescare l’elaborazione consapevole. Infine, la stimolazione del campo visivo intatto ha determinato l’attivazione di una zona frontale chiamata Frontal Eye Field (FEF), che potrebbe avere un ruolo nella distinzione tra la visione normale e  la “consapevolezza” di ciò che accade nel campo visivo cieco. Secondo gli autori dello studio, il passaggio dalla modalità consapevole a quella non consapevole sottintende un trasferimento dell’attivazione dalle zone frontali al collicolo superiore (zone sottocorticali).

Gli studi condotti nell’ambito della visione cieca hanno permesso non solo di comprendere meglio la struttura e le funzioni del sistema visivo, ma anche di esplorare i confini della coscienza, spianando la strada verso una possibile spiegazione dei processi di elaborazione inconscia. Ad oggi, grazie alle spiegazioni neuropsicologiche il fenomeno del blindsight appare meno occulto e misterioso; ciononostante, la capacità di percepire ciò che non si può vedere conserva comunque un forte fascino.

 

“Sexual Functioning” in Adolescenti e Giovani Adulti Sopravvissuti al Cancro – FluIDsex

Il rischio di disfunzioni sessuali in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è elevato a causa delle conseguenze psico-fisiche e dei trattamenti medici, seppur questo possa variare in base all’età della diagnosi, alla tipologia di cancro e alla modalità e intensità del trattamento.

 

Introduzione

 Sebbene ad oggi le malattie oncologiche risultino essere responsabili di circa il 10% delle morti annue, progressi in ambito medico in termini di screening, diagnosi precoce e miglioramenti nelle terapie di cura, hanno aumentato significativamente il tasso di sopravvivenza a 5 anni (Shapiro, 2018). In particolare, in Europa, si denota che il 79% degli adolescenti e giovani adulti (adolescent and young adult [AYA]; tra i 15 e i 39 anni) sopravvive al cancro (Trama et al., 2016). La sopravvivenza al cancro è una condizione in cui l’individuo, a seguito di una diagnosi di tumore maligno, è in completa remissione della malattia oncologica, ovvero non presentando segni della malattia da almeno cinque anni, acquisisce un’uguale probabilità di morte di soggetti sani (Verdecchia et al., 2007).

Con tale aumento dei tassi di sopravvivenza al cancro, un interesse scientifico sempre maggiore è stato posto sulle conseguenze della malattia oncologica vissuta, siano queste positive o negative, sulla qualità di vita (quality of life; QoL) dei sopravvissuti (Sedmak et al., 2020). La qualità di vita è un concetto all-inclusive, che include tutti quei fattori che impattano la vita di un individuo (Torrance, 1987). Uno degli aspetti centrali della qualità di vita nella popolazione di adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è il funzionamento sessuale: l’adolescenza e la giovane età adulta rappresentano infatti un periodo di grandi cambiamenti sia fisici che psicosociali che includono la maturazione fisica, la formazione di relazioni sentimentali e lo sviluppo dell’identità sessuale (Cherven et al., 2021). Questo processo di sviluppo normativo negli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro è più complesso (Murphy et al., 2015), a causa di sfide non normative che l’esperienza della malattia oncologica genera negli aspetti quotidiani della loro vita (Zebrack e Isaacson et al., 2012).

Ma che cosa si intende per funzionamento sessuale? Il funzionamento sessuale comprende fattori fisici, psicosociali e dello sviluppo che contribuiscono alla salute sessuale di un individuo (Cherven et al., 2021). Un funzionamento sessuale ottimale è complesso e richiede l’interazione normativa di diversi domini, tra cui il desiderio, l’eccitazione, la lubrificazione, l’orgasmo, la soddisfazione e il dolore (Metzger et al., 2013). L’interruzione di una o più di queste componenti può portare a disfunzioni sessuali che possono avere un impatto negativo sul benessere di adolescenti e giovani adulti (Cherven et al., 2021). Il rischio di disfunzioni sessuali è ancora più elevato in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro a causa delle conseguenze psico-fisiche e dei trattamenti medici, seppur questo possa variare in base all’età della diagnosi, alla tipologia di cancro e alla modalità e intensità del trattamento (Metzger et al., 2013).

Disfunzioni sessuali nei giovani sopravvissuti al cancro

Nonostante il ridotto numero di studi presenti in letteratura scientifica, questi mostrano che generalmente più della metà degli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro presenta una compromissione del funzionamento sessuale, con tassi più elevati di disfunzioni sessuali rispetto ai controlli (Cherven et al., 2021). Questo viene anche percepito soggettivamente dai sopravvissuti al cancro, che riportano infatti una minor soddisfazione riguardo al loro funzionamento sessuale (Olsson et al., 2018).

 Si evidenziano inoltre differenze sia quantitative sia qualitative di disfunzioni sessuali tra maschi e femmine. Dal punto di vista quantitativo, le donne adolescenti o giovani adulte sopravvissute al cancro riportano generalmente percentuali più elevate di disfunzioni sessuali rispetto ai sopravvissuti maschi (Geue et al., 2015). Questo maggiore impoverimento del funzionamento sessuale nelle donne, potrebbe essere spiegato da un maggior impatto delle sequele psicologiche ed emotive (come depressione, sintomi di disturbo da stress post-traumatico, sentirsi poco attraenti, problemi di comunicazione con i partner romantici) a seguito dell’esperienza di malattia (Olsson et al., 2018). Dal punto di vista qualitativo, differenze nel genere corrispondono a differenze nella tipologia di disfunzioni sessuali.

Differenze di genere

In particolare, donne adolescenti e giovani adulte sopravvissute al cancro potrebbero presentare dispareunia superficiale e poca o nessuna lubrificazione, seppur questi problemi fisici non differiscono significativamente tra le donne sopravvissute e i controlli. Ciò che invece differisce in modo statisticamente significativo è una frequenza inferiore di orgasmo durante l’attività sessuale (Olsson et al., 2018). Avere orgasmi meno frequenti generalmente nelle donne determina una diminuzione della soddisfazione sessuale la quale può essere anche influenzata da preoccupazioni per l’immagine corporea: le sopravvissute, infatti, tendono maggiormente a sentirsi poco attraenti e in difficoltà nell’esporre le proprie cicatrici durante situazioni intime (Cherven et al., 2021). Una bassa soddisfazione sessuale nelle donne sembrerebbe inoltre essere correlata ad un basso desiderio sessuale e predetta dalla depressione (Olsson et al., 2018).

Anche negli uomini adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, la scarsa soddisfazione sessuale sembra essere associata a una sensazione di non attrattività e depressione. Tuttavia, diversamente dalle donne, anche l’eiaculazione precoce, l’età più giovane e i problemi di erezione hanno un impatto su questa disfunzione sessuale. Seppur uomini sopravvissuti possono riferire problemi fisici, quali eiaculazione precoce, mancata eiaculazione, problemi nell’ottenere l’erezione e frequenza inferiore di orgasmo, questi non differiscono significativamente tra gli uomini sopravvissuti e i controlli (Olsson et al., 2018). Ciò che invece differisce in modo statisticamente significativo è un minore desiderio sessuale (Olsson et al., 2018), soprattutto nei sopravvissuti a tumori delle cellule germinali dei testicoli (Jonker-Pool, 2001).

Conclusioni

Dunque, sebbene ci sia l’evidenza di un funzionamento sessuale generalmente compromesso in adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, la presenza di queste disfunzioni sessuali non sembrerebbero ostacolare il desiderio di relazioni sentimentali e il grado di soddisfazione delle relazioni di coppia dei sopravvissuti (Geue et al., 2015). Adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro tendono comunque a riportare una buona qualità di vita, equiparabile a quella di soggetti sani (Sedmak et al., 2020).

In conclusione, dato il crescente numero di sopravvissuti al cancro adolescenti o giovani adulti, il ridotto numero di articoli scientifici circa la loro salute sessuale e la mancanza di interventi o strategie testati per affrontare la disfunzione sessuale tra gli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro, maggiori studi risultano necessari (Cherven et al., 2021). Questi consentirebbero di acquisire informazioni maggiori e più mirate per rispondere alla necessità di creare interventi adeguati allo sviluppo, che tengano conto di fattori biologici e psicosociali per migliorare la funzione sessuale degli adolescenti e giovani adulti sopravvissuti al cancro (Carter et al., 2018).

 

Adolescenti. L’età delle opportunità (2015) di Laurence Steinberg – Recensione

L’autore di “Adolescenti. L’età delle opportunità”, Laurence Steinberg, principale studioso di riferimento in tema di adolescenza, affronta il cambiamento di paradigma avvenuto nella scienza dello sviluppo. 

 

 Lo studio scientifico dell’adolescenza è iniziato intorno alla metà degli anni Settanta e, grazie alle scoperte avallate dalle neuroscienze, ad oggi gli anni della transizione dall’infanzia all’età adulta, non vengono più visti come unicamente fonte di pericoli e rischi, ma, al contrario costituiscono l’età delle opportunità, come sottolineato dal titolo del libro.

Ad oggi parlando di adolescenza si considerano gli anni che vanno dai 10 ai 25: l’anticipazione della pubertà ha ridotto i tempi dell’infanzia, e il prolungamento dell’istruzione ha ritardato l’ingresso nel mondo del lavoro. L’allungarsi del periodo di dipendenza dalle famiglie di origine, tipico del mondo occidentale, ha ritardato l’acquisizione dell’indipendenza, favorita dal matrimonio e dalla genitorialità.

Steinberg sottolinea, a tal proposito, come “l’adolescenza inizia con la biologia e finisce con la cultura”.

Nello specifico, il caso italiano è stato definito the Italian latest-late, detenendo il primato della maggiore durata del periodo adolescenziale, rispetto agli altri paesi europei.

Un’importante scoperta sul cervello adolescente riguarda la neuroplasticità: esattamente come nel periodo zero-tre anni, anche durante l’adolescenza l’esperienza è in grado di plasmare lo sviluppo cerebrale.

La malleabilità del cervello adolescente ha risvolti sia positivi che negativi, per cui la plasticità è un’arma a doppio taglio. L’adolescenza è un periodo di enormi potenzialità, ma anche di grandi rischi: se inseriti in ambienti positivi e favorevoli, i giovani fioriranno; se esposti ad ambienti dannosi, invece, soffriranno in modo profondo e duraturo.

Il cervello in adolescenza possiede qualcosa di speciale: ciò che accade in quel periodo della vita viene rievocato con maggiore facilità. Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare questo fenomeno, considerando il gran numero di “prime volte”, il carico emotivo delle esperienze e lo sviluppo di un senso integrato di identità. In realtà, tutte queste ipotesi, non sono corrette: è stata coniata un’espressione per spiegare tale fenomeno, picco di reminiscenza: gli eventi adolescenziali sono banali, ordinari; infatti a qualsiasi età si ricordano vividamente accadimenti particolari, fortemente emotivi, o che capitano per la prima volta, mentre è semplice ripescare dal cassettino della memoria semplici ed ordinari episodi del periodo di transizione, che riemergono in tutta la loro vividezza, esattamente come se si rivivesse quell’istante avvenuto lì e allora, nel qui ed ora.

I cambiamenti cerebrali che occorrono all’inizio dell’adolescenza rendono più inclini all’eccitazione, più emotivi e più soggetti alla rabbia o al turbamento.

I sistemi che a questa età rispondono in misura maggiore agli stimoli, ma anche quelli che possono essere più facilmente danneggiati, sono “le tre R dello sviluppo cerebrale adolescenziale”: il circuito della ricompensa, delle relazioni interpersonali e della regolazione.

Il libro affronta i temi cruciali dello sviluppo durante l’adolescenza offrendo un quadro della disciplina psicologica più aggiornato, arricchito di esempi tratti dall’esperienza dell’autore.

In linea con la visione dell’adolescenza che si dispiega tra rischio e opportunità, l’intento è spostare l’attenzione dalla prevenzione del disagio alla promozione del benessere e del successo dei giovani, fornendo strumenti alle principali istituzioni educative, genitori e insegnanti, oltre che stimolare la riflessione nei legislatori, al fine di intraprendere iniziative mirate.

 Lo stile educativo maggiormente adeguato a favorire lo sviluppo dell’autoregolazione in adolescenza risulta lo stile autorevole che, a differenza di uno stile autoritario, improntato al rispetto delle regole, e di uno stile permissivo, eccessivamente indulgente, trova il giusto equilibrio tra comunicazione affettiva e controllo. Esattamente come un bambino piccolo deve essere guidato nell’acquisizione dell’autonomia che gli permetterà di alimentarsi, camminare, comunicare, così un adolescente necessita di un ambiente affettuoso, risoluto e incoraggiante, che gli permetta di acquisire consapevolezza di sé.

Considerando nello specifico il setting americano, l’autore riflette su quanto sia necessario un cambiamento nella scuola secondaria: ad oggi non è più sufficiente una conoscenza accademica, ma bisogna equipaggiare i giovani ad affrontare la vita adulta. Al fine di sviluppare l’autocontrollo diviene propedeutico l’insegnamento e la pratica di discipline quali la mindfulness, l’esercizio aerobico, l’educazione socioemotiva, per conoscere e regolare le proprie emozioni.

È importante soddisfare tre requisiti, al fine di rendere gli insegnamenti proficui:

  • le attività devono essere stimolanti;
  • l’allenamento deve basarsi su strategie di scaffolding;
  • è essenziale la pratica ponderata.

In sostanza, occorre intervenire sulla zona di sviluppo prossimale dei ragazzi, per potenziarne le capacità, senza sopraffarli, dotandoli della giusta guida.

 

Il suicidio assistito nei pazienti psichiatrici: una revisione sistematica

La prima revisione sistematica con l’obiettivo di identificare e descrivere i dati disponibili relativi ai pazienti che hanno ricevuto o richiesto l’eutanasia o il suicidio assistito (pEAS) è stata condotta da Calati e colleghi nel 2020.

 

 Nei Paesi Bassi, in Belgio, in Lussemburgo e in Svizzera, l’eutanasia o suicidio assistito (EAS) non è limitata ai pazienti con malattie organiche, ma anche a pazienti psichiatrici. Per esempio, nei Paesi del Benelux, la “sofferenza insopportabile” dovuta a condizioni mediche (somatiche o mentali) che “non possono essere alleviate” è tra i requisiti di ammissibilità per ottenerla (in assenza di ragionevoli alternative). In effetti, il dolore psicologico/mentale può diventare intollerabile e presenta substrati neuroanatomici sovrapponibili a quelli del dolore fisico (Eisenberger, 2012).

Nei paesi in cui questa procedura è consentita, le persone che la richiedono sono in progressivo aumento. Un’indagine condotta su 1456 medici ha rilevato che il 2% di tutte le richieste proveniva da pazienti psichiatrici (Van der Heide et al., 2012), e questa stima sembra destinata a crescere.

Malattia mentale e suicidio assistito

Nonostante il suicidio assistito per persone con malattie mentali sia una pratica limitata, la sua crescente frequenza solleva preoccupazioni etiche e legali (Lopez-Castroman, 2017), in particolare a causa dell’assenza di criteri di ammissibilità specifici o aggiuntivi per i pazienti psichiatrici. Infatti, il requisito di ammissibilità della sofferenza mentale insopportabile è una condizione comunemente sperimentata anche dai pazienti psichiatrici a rischio di suicidio (Ducasse et al., 2018).

La prima revisione sistematica con l’obiettivo di identificare e descrivere i dati disponibili relativi ai pazienti psichiatrici che hanno ricevuto o richiesto l’eutanasia o il suicidio assistito (pEAS) è stata condotta da Calati e colleghi nel 2020. Lo studio, inoltre, ha cercato di descrivere i punti eticamente salienti che emergono dalla letteratura empirica su questo argomento.

Ciò che questa revisione ha dimostrato è che, come già anticipato, l’eutanasia o il suicidio assistito per pazienti psichiatrici (pEAS) è in progressivo aumento nei Paesi in cui è consentita. Nei Paesi Bassi, la percentuale di pEAS è aumentata dal 6,8% all’8,7% nel periodo 2013-2017. In Belgio, la pEAS è aumentata dallo 0% al 2,2% nel periodo 2002-2013. Per quanto riguarda la Svizzera, il tasso di pEAS è del 2,1%.

Complessivamente, i pazienti che hanno ricevuto la pEAS erano per lo più donne (70-77%), presentavano almeno due disturbi psichiatrici (56-97%) o comorbilità medica (22-23%). Solo in Belgio la maggior parte (71%) aveva una sola diagnosi.

Nei Paesi analizzati, i disturbi dell’umore erano la diagnosi principale (55-71%), seguiti dai disturbi di personalità (50-64%). In una serie di casi provenienti dal Belgio è stata riscontrata un’alta percentuale di disturbi dello spettro autistico.

Non è un caso che i pazienti psichiatrici che hanno ottenuto o richiesto il pEAS avevano spesso una sintomatologia particolarmente grave, con un alto tasso di comorbidità psichiatriche e fisiche; è noto che le comorbilità sono particolarmente frequenti in coloro che tentano li suicidio, soprattutto nei tentativi reiterati (Blasco-Fontecilla et al., 2016). Inoltre, è stato riportato il ruolo del dolore fisico nei pensieri e nei comportamenti suicidari (Calati et al., 2017).

La percentuale maggiore di donne è un dato interessante poiché, seppure in linea con i dati di frequenza dei tentativi di suicidio tra i due generi, riporta numeri opposti alle stime di prevalenza dei decessi per suicidio (dovuto anche al fatto che gli uomini utilizzano mezzi più letali provocandosi la morte; Bachmann, 2018).

Una spiegazione a questo dato potrebbe risiedere nel fatto che il pEAS possa essere preso in considerazione dalle donne nel tentativo di porre fine alle loro vite, dato che è un mezzo letale. Infatti, nello studio che confronta i suicidi assistiti e non assistiti in Svizzera, il tasso di suicidi non assistiti era più alto negli uomini che nelle donne, mentre il tasso di suicidi assistiti era simile in entrambi i sessi.

 Altre spiegazioni potrebbero risiedere nella preponderanza delle donne con diagnosi di depressione (Hyde & Mezulis, 2020), una delle principali diagnosi che hanno ricorso all’pEAS, oppure alle diverse aspettative e norme sociali in relazione alla mascolinità tradizionale (Moller-Leimkuhler, 2003), che potrebbero non essere associate alle rappresentazioni relative al suicidio assistito. Questi soggetti sono notevolmente simili ai soggetti che si tolgono la vita per suicidio “tradizionale”. Infatti, la psicopatologia, in particolare i disturbi dell’umore e della personalità, e le malattie fisiche concomitanti sono tra i fattori che influenzano il rischio di suicidio (Turecki & Brent, 2016).

Le caratteristiche cliniche di suicidio e suicidio assistito

Date le caratteristiche cliniche che si sovrappongono a quelle dei suicidi non assistiti, il rischio attuale potrebbe essere quello di convertire i suicidi “tradizionali” in pEAS o di aumentare la mortalità per suicidio dando accesso a metodi letali ai pazienti.

Le persone che muoiono a causa di malattie mediche e che ricevono l’eutanasia o suicidio assistito tendono a essere persone dotate di autodeterminazione, capacità di scelta e controllo; i pazienti psichiatrici nella fase acuta della loro malattia potrebbero non avere queste caratteristiche (American Association of Suicidology, 2017), e questo potrebbe rappresentare un grave problema, dato che è consentita in presenza di “sofferenze insopportabili” e in assenza di alternative ragionevoli.

Lavorare sulla sofferenza psicologica insopportabile è un obiettivo per la prevenzione del suicidio nella pratica quotidiana della psicoterapia.

Ci troviamo di fronte a un paradosso: la “sofferenza psicologica insopportabile” è un criterio richiesto per l’eutanasia o suicidio assistito e al tempo stesso è considerato un fattore che può invalidare la capacità individuale di autodeterminazione e di controllo, rendendo impossibile per i pazienti essere eleggibili per l’eutanasia o suicidio assistito. La presenza di un’intensa sofferenza mentale in pazienti con una condizione psichiatrica/psicologica potrebbe limitare la loro capacità di prevedere alternative praticabili e potrebbe indurre il desiderio di morire.

Inoltre, un paziente può percepire la propria sofferenza insopportabile come irrimediabile, ma in realtà alcuni correlati della sofferenza, ad esempio problemi economici o di accesso alle risorse, potrebbero cambiare nel tempo (Verhofstadt et al., 2017). La questione della sofferenza irrimediabile/irreversibile deve essere considerata anche in relazione all’alta percentuale di pazienti che non desiderano più morire e/o ritirano la richiesta di pEAS, indicando la possibile natura transitoria della sofferenza mentale insopportabile e la sua complessità (Caceda et al., 2017).

In conclusione, anche se la psicopatologia non implica automaticamente la mancanza di capacità mentale del paziente, è molto probabile che influenzi il suo processo decisionale o aumenti il rischio di incapacità. Riflettere e comprendere se e in quali condizioni la pEAS possa essere accettata per le persone con disturbi psichiatrici rimarrà un elemento cruciale in questo ambito.

 

Gioco d’azzardo patologico, comorbilità e metacognizione – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo Gioco d’azzardo patologico, comorbilità e metacognizione”.

 

La seconda presentazione della prima giornata di Forum della Ricerca in Psicoterapia, 6 maggio 2022, ha riguardato lo studio sul Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), condotto dagli allievi di Studi Cognitivi di Genova N. Delfino, B. Giagnorio, F. Loffredo, E. M. Fiabane e dai didatti G. Caselli e G. Mansueto. La ricerca in questione si propone di esplorare il ruolo della metacognizione, del pensiero desiderante e della flessibilità psicologica rispetto al Gioco d’Azzardo Patologico e alle psicopatologie più frequentemente osservate in comorbilità.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Dunning-Kruger, Socrate e il miglioramento continuo

L’effetto Dunning-Kruger consiste nel pregiudizio cognitivo secondo cui le persone sopravvalutano erroneamente la loro conoscenza o capacità in un campo specifico.

 

 Una delle citazioni più attuali di sempre è quella di Socrate: “Io so di non sapere”. La lungimiranza di questo concetto, apparentemente banale, è la chiave di una crescita personale continua. Sì, perché la costante voglia di migliorarsi può nascere da esigenze personali e/o dalla consapevolezza di una mancanza. La cognizione di non sapere può diventare il motivo principale del desiderio di conoscenza.

Questa consapevolezza è una sfida molto complessa, a volte la si vive addirittura come una sconfitta o, peggio, come un’umiliazione, complicando così il processo di accettazione. È qui che l’effetto Dunning-Kruger pone le sue radici. Nel 1999, gli psicologi Dunning e Kruger hanno spiegato il pregiudizio cognitivo secondo cui le persone sopravvalutano erroneamente la loro conoscenza o capacità in un campo specifico. Ciò è dovuto al fatto che esiste una forte mancanza di consapevolezza di sé, in grado di impedire loro di valutare adeguatamente le proprie competenze (Gibbs et al. 2017).

Da questa definizione si evincono due importanti aspetti: la prima è che spesso ci si crede migliori in qualcosa rispetto a ciò che siamo realmente; la seconda è che la sovrastima ci impedisce di vedere questa “incompetenza”. Qui torna di attualità –ma non ha mai smesso di esserlo– il filosofo Socrate. La sua più celebre frase può essere il punto di partenza per prendere coscienza dei propri limiti e provare a superarli.

Ciò che affascina di questo effetto è anche l’altro lato della medaglia.

Effetto Dunning Kruger Socrate e il miglioramento continuo Imm 1

Come mostra il grafico, dopo un picco di sopravvalutazione delle proprie competenze connesse a una inadeguata conoscenza della materia, all’aumentare della conoscenza, diminuirà la fiducia in noi stessi. Perciò, chi ha una conoscenza media della tematica, penserà di non avere le competenze adeguate ad affrontarla.

Superati questi due aspetti dannosi e opposti, si arriva allo stadio finale: una conoscenza approfondita della materia che comporta una fiducia in sé stessi e nei propri mezzi adeguata (Coutinho et al. 2021).

 E allora perché continuare a citare Socrate? La risposta adesso sembra evidente: è stato in grado di andare oltre questo pregiudizio cognitivo in ogni sua fase. La sua grandezza è stata quella di non sentirsi mai il migliore, così da avere stimoli per continuare a imparare, nonostante la consolidata consapevolezza nei suoi mezzi.

In conclusione, nella società di oggi, dove sono sempre più richiesti dei profili specializzati, l’effetto Dunning-Kruger è un volano che, non facendoci sentire appagati, ci permette una crescita continua fatta di curiosità e ricerca del sapere, permettendoci di progredire nell’ultima parte del grafico. Fiducia e conoscenza sono un binomio importante nella crescita personale e per la società in generale. L’umiltà di volersi continuamente migliorare è forse l’unica difesa che abbiamo per evitare di essere vittime dell’effetto Dunning-Kruger.

I metodi alternativi alla sperimentazione animale. Lo stato dell’arte, tra tecnologia ed etica

Ormai da decenni buona parte delle discipline biomediche, unitamente ad importanti movimenti d’opinione che si battono per una maggior coscienza etica nella ricerca scientifica in biologia ed in medicina, auspicano l’affermarsi di metodi alternativi alla sperimentazione su animali. Tali metodologie esistono già e, ad oggi, hanno ormai raggiunto un certo sviluppo.

 

 Quelle di cui diremo sono interamente in vitro ed in silico, cioè effettuate nel primo caso per mezzo di culture cellulari che poi, non di rado, vengono sottoposte a visualizzazione con tecniche di microscopia; nel secondo riguarderanno programmi informatici capaci di simulare, sulla base di calcoli probabilistici, reazioni di tessuti, organi, apparati e complessi biologici. Principalmente due sono le motivazioni allo sviluppo dei metodi alternativi: evitare all’animale una sofferenza spesso pesante e sviluppare modelli più attendibili di quelli ottenibili con la cavia da laboratorio. Infatti, un vecchio adagio, che corre da sempre tra i ricercatori, recita così: “l’essere umano non è un topo grande”, ciò vale a dire che per quanto il modello animale possa essere interessante ai fini dello studio della biologia non potrà mai rappresentare con precisione la complessità fisiologica dell’uomo.

In termini organizzativi ed economici

Prima di proseguire però è opportuno accennare anche, almeno per sommi capi, all’impalcatura istituzionale pubblica e privata che rende possibile in Europa il graduale affermarsi dei metodi alternativi.

Tutti i metodi citati in questa dissertazione sono stati presi in considerazione da ECVAM (European Centre for Validation of Alternative Methods) e –seppur a volte non ancora approvati– sono in fase avanzata di valutazione.

Un altro organismo che dobbiamo considerare, in quanto agisce in stretta relazione con ECVAM, è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che si sta occupando in particolare del riconoscimento delle procedure implicate nella prassi regolatoria del REACH, il protocollo comunitario che impone ai produttori e agli utilizzatori di sostanze chimiche la rivalutazione dei rischi salutistici collegati alle sostanze stesse.

I vari gruppi che “producono” metodi alternativi sono ormai realtà solide e ben strutturate: alcuni sono accreditati a livello internazionale e rappresentano un’autorità indiscussa in tutti i continenti. Citiamo, solo come esempio, l’inglese NC3RS (l’unico finanziato dal governo britannico), “punto di riferimento europeo –come afferma Isabella De Angelis, dell’Istituto Superiore di Sanità– sia per il rigore scientifico che per i finanziamenti” (Notiziario Chimico-Farmaceutico, 2016).

A livello mondiale dal 2012, secondo un Report BBC del 2014, si stanno realizzando investimenti nel settore delle cosiddette NAT (Non-Animal Technologies), miliardi di dollari, con un tasso d’incremento annuo superiore al 14% già solo per i metodi di tossicologia in vitro. Insomma, le industrie del settore farmaceutico –e più estesamente del comparto salute– stanno puntando sui metodi alternativi alla sperimentazione animale perché più convenienti, più agevoli, più economici ed in grado di salvaguardare l’immagine etica dell’azienda, immagine etica che entra come fattore di importanza non trascurabile nei piani di marketing.

In Europa esistono, a quanto mi consta, 38 laboratori, di cui 8 italiani, accreditati ed autorizzati allo sviluppo di metodi alternativi; tutti operano in stretta collaborazione con ECVAM. Questo istituto possiede un suo laboratorio in Italia, punto di riferimento tecnico per tutta la Comunità Europea, con sede ad Ispra, sul Lago Maggiore, in provincia di Varese.

La legislazione italiana ha recepito l’importanza della transazione dai modelli animali ai metodi senza animali soprattutto con il D.L. n. 26 del 4 marzo 2014, là dove all’art. 37, chiama il Ministero della Salute a farsi promotore della ricerca e dello sviluppo dei metodi che non prevedono l’uso di animali, o che consentono una riduzione del numero dei soggetti sperimentali ed il superamento delle procedure stressanti e dolorose. Per questo è stato realizzato il “Centro di Referenza Nazionale per i Metodi Alternativi, Benessere e Cura degli Animali da Laboratorio”, con residenza presso il noto “Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna” (IZSLER), che funge anche da interfaccia tra il mondo della ricerca, l’industria ed ECVAM (www.ibvr.org).

A che punto siamo

Oggi i metodi verificati ed accettati da ECVAM superano la sessantina; ad essi si aggiungono altre decine di procedure validate in altri continenti da organismi equivalenti all’istituto europeo (ICCVAM – USA, JaCVAM – Giappone, BRACVAM – Brasile).

La quasi totalità dei metodi riguarda la reattività tissutale e la tossicologia regolatoria: essi hanno consentito il definitivo superamento sia del Test di irritabilità cutanea di Draize (noto per la storica immagine dell’ulcerazione dell’occhio del coniglio che ha fatto il giro del mondo), che del modello in vivo LD-50 (dose letale al 50%) che prevedeva la morte per intossicazione acuta, indotta dal composto oggetto di studio, del 50% degli animali utilizzati per la procedura.

Per quanto riguarda le ricerche di farmacocinetica e farmacodinamica sulle molecole destinate a diventare possibili farmaci, i metodi alternativi non offrono ancora proposte definitive in grado di sostituire l’animale, anche se è opinione scientifica condivisa che le osservazioni sull’animale risultino essere grossolane e –non di rado– addirittura inutili, in quanto l’attività metabolica e la complessità enzimatica variano molto da specie a specie, anche al di dentro della stessa classe dei mammiferi placentati.

La critica al modello animale, per il meccanismo d’azione delle molecole, ha spinto alla costruzione di due linee di ricerca in vivo/umano: la prima si realizza nel soggetto volontario (human-based) utilizzando “microdosi” ed ipotizzando poi le reazioni a posologia maggiore attraverso programmi informatici predittivi (in silico); la seconda prevede i “modelli fungini” (fungal-model), cioè l’utilizzo di funghi il cui metabolismo riassume molte caratteristiche del metabolismo dei farmaci nei mammiferi, quelle molecole (non poche) che vengono metabolizzate sulla linea enzimatica del citocroma P-450. Di fatto, ad oggi, l’unico fungo già utilizzato con un certo successo è la cunninghamella elegans.

Ai laboratori dell’IZSLER (Zooprofilattico Lombardia Emilia-Romagna) – come dichiara da responsabile Maura Ferrar – per quanto riguarda i metodi alternativi, si perseguono le seguenti attività in vitro:

  • Test di citotossicità.
  • Test di valutazione della capacità inibente l’infettività virale da parte di farmaci, nuove molecole, disinfettanti e trattamenti chimico-fisici.
  • Test di trasformazione cellulare.
  • Determinazione della presenza di contaminanti virali in reagenti di origine animale (siero fetale di bovino ed enzimi proteolitici) utilizzati per la produzione di prodotti biologici.
  • Determinazione di contaminanti virali in prodotti biologici e farmaci, incluse le cellule stromali mesenchimali (CSM) destinati all’uomo ed agli animali.
  • Test di carcinogenicità in vitro.

Dobbiamo ricordare che il processo di validazione di un Test dura di solito diversi anni e, finché il percorso non è giunto al termine, il Test non può essere ufficialmente utilizzato. È a questo punto pertinente la messa in luce del paradosso che vede i Test alternativi validati da “procedure di paragone” effettuate tradizionalmente con modello animale. In altre parole: un test alternativo/sostitutivo è valido se raggiunge gli stessi risultati di una prova con gli stessi fini effettuata sull’animale. Ma chi ha mai validato il Test sull’animale? Nessuno, se non la consuetudine della pratica sperimentale empirica. Questo è appunto un lato debole della sperimentazione tramite modelli animali.

La giornalista scientifica Caterina Lucchini, in un’intervista ad Isabella De Angelis e a Gianni Dal Negro (Notiziario Chimico-Farmaceutico, 2016), rileva come l’attrition rate, cioè il tasso di abbandono dell’esperimento, quindi l’insuccesso del modello animale, sia addirittura attorno al 95%. Ciò vuol dire che centinaia di ore di lavoro – oltre ad una grande quantità di animali – si perdono nel nulla.

Ora vorrei dire qualcosa sui sistemi in silico e sui grandi progetti.

In silico (computer simulation)

I primi tentativi di simulazione informatica nelle discipline biomediche sono abbastanza antichi. Nei primi anni ’50 la Alderson Research Labs creò un modello di  rappresentazione elettromeccanica degli eventi traumatici nel contesto del traffico stradale (Crash Test). Questo Test consentì di risparmiare la vita a centinaia di maiali e di scimmie.

 Negli anni a seguire, con lo sviluppo dei programmi computerizzati, si moltiplicarono i Test di simulazione biologica. Un modello ormai ampiamente usato è il PCM (modello del continuo polarizzabile), prova di chimica computazionale che simula l’interazione tra un gruppo chimico o biochimico e l’ambiente umido in cui è inserito; in altri termini descrive la relazione tra soluto e solvente, praticamente in ogni tipo di preparazione biologica in cui una cultura molecolare sia a contatto con una soluzione ospitante.

Una delle basi di fondo del calcolo computazionale in biologia è la cosiddetta “relazione quantitativa struttura-attività” (Quantitative Structure-Activity Relationship [QSAR]). Di fatto si tratta di un modello matematico/informatico che calcola l’attività biologica di un farmaco in funzione delle sue caratteristiche fisico-chimiche strutturali (polarità, ingombro sterico, energia degli orbitali di frontiera). Ciò è molto utile per valutare la capacità di una molecola di superare una certa membrana cellulare o la capacità di legarsi ad un recettore specifico.

Ancora: un esempio evoluto di metodologia mista in silico/in vitro è rappresentato dalla tossicogenomica, disciplina che unisce tossicologia e genomica al fine di studiare gli effetti della tossicità di un composto sul genoma e, di conseguenza, sull’organismo. Le principali tecnologie tossicogenomiche sono: la trascrittomica e la mRNA, molto utili in oncologia per interpretare la relazione tra espressione genica e composti oncogeni che la modificano. Queste metodiche hanno mostrato grande utilità negli studi sui vaccini in occasione dell’epidemia Covid-19.

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), quattordici anni fa, rese ufficiale il rapporto “Test di tossicità nel XXI secolo: una visione e una strategia”, che ha delineato un percorso a lungo termine per trasformare i vecchi Test di tossicità basati sul modello animale (LD-50), ritenendoli troppo lenti, troppo costosi e poco predittivi. Il nuovo percorso indicato è quello della tossicogenomica. Gli elementi strutturali del piano considerano l’uso di analisi predittive, ad alta velocità, basate su cellule di origine umana (toxome umano) per valutare la perturbazione cellulare che si verifica nel contatto tra un gruppo istologico ed un composto chimico (Commissione per i Test di tossicità e valutazione degli agenti ambientali, 2013).

Esempi italiani: spigolando qua e là

Sulla linea ora citata si muove l’attività di diversi laboratori come Biogem, ad Ariano Irpino (Avellino), dove Concetta Ambrosino, ricercatrice all’Università del Sannio, coordina un articolato programma europeo sulla tossicogenomica.

Un’altra ricercatrice italiana che voglio menzionare, punto di riferimento sempre più apprezzato per la partecipazione a vari programmi in vitro/in silico – con cui ho avuto l’onore di discutere personalmente – è Costanza Rovida, operativa al CAAT-Europe (Centro per le Alternative ai Test sugli Animali), legato ad un’università tedesca. Costanza Rovida, sulla base di molti anni di esperienza, afferma con decisione l’efficacia dei Test alternativi nel senso di una loro maggiore e precisa capacità predittiva rispetto alle prove su animali. Costanza fa ora parte del progetto europeo EU-ToxRisk che si impegna a studiare nuove strategie di Test focalizzate allo studio del meccanismo di azione delle sostanze chimiche sull’uomo.

Altro progetto in fase di sviluppo è quello portato avanti da un gruppo di giovani fisici all’Università Aldo Moro di Bari, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Il gruppo, partendo dalla Risonanza Magnetica (RMN) effettuata su 200 soggetti con “lieve indebolimento cognitivo”, ha creato, sulla base di un calcolo probabilistico complesso effettuato al centro di calcolo ReCaS, un modello predittivo per la Malattia di Alzheimer (La rivista New Scientist, del 14 settembre 2017, ha pubblicato parte dello studio).

Perché ho citato questi esempi, tra i mille che avrei potuto menzionarne? I primi due riguardano persone d’eccellenza scientifica che hanno scelto le NAT (tecnologie senza animali) non per una scelta animalista, ma in quanto le ritengono più attendibili e predittive rispetto al modello animale. Nel terzo caso ho voluto indicare l’esempio di un gruppo di giovani connazionali di estrazione non direttamente biomedica –e proprio per questo non avvezzi al modello animale, né alla ricerca biologica di dettaglio – che hanno intravvisto comunque l’opportunità di concentrarsi su un problema sociale e sanitario di primaria importanza: la demenza senile, ed hanno scommesso sull’approccio delle scienze esatte. Si noti che fino ad ora le ricerche sul peptide β-amiloide e sul deficit colinergico, che hanno utilizzato il modello murino (sul topo), non avevano prodotto risultati significativi, né relativamente alla predittività, né alla patogenesi.

Grandi progetti

I progetti attivati, negli ultimi 10 anni, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, sono molti. In questo paragrafo ne citiamo alcuni fra i più importanti, dando anche in nota l’indirizzo dei siti di riferimento per poterli conoscere. Bisogna ricordare che la maggior parte riguardano la tossicologia; ciò vuol dire che ampie fasce della ricerca biomedica risultano essere ancora molto indietro o addirittura totalmente sprovviste di metodi alternativi.

I progetti

EUROECOTOX – European Network for Alternative Testing Strategies in Ecotoxicology

Si tratta di una rete europea per lo studio e la produzione di strategie alternative in ecotossicologia.  È finanziato dal VII PQ/CE (VII Programma Quadro del “programma ambiente” della Commissione Europea). Gli obiettivi prioritari della rete Euroecotox sono: a) contribuire allo sviluppo di Test senza animali di ecotossicità in Europa; b) promuovere la validazione e la regolamentazione di nuovi metodi.

SEURAT – 1

È un programma a medio-lungo termine composto da sei progetti di ricerca concordati tra settanta università ed istituti europei. L’obiettivo è sostituire totalmente la testistica tossicologica tradizionale con metodi che non prevedano la sperimentazione animale.

TOXCAST/2007 e TOX-21

Sono programmi governativi statunitensi ad alta tecnologia, gestiti dalla EPA (United States Environmental Protection Agency). Sono state testate, a livello tossicologico, 10.000 sostanze, con risultati giudicati altamente attendibili. In alcuni anni di attività il programma ha ampiamente dimostrato la totale superiorità dei metodi NAT per ciò che riguarda la celerità, la precisione e la possibilità di standardizzazione dei risultati e dei dati (www.epa.gov/chemical-reseach/toxicology).

AXLR8

AXLR8 può essere definito una “azione di coordinamento” all’interno del VII PQ/CE. La Comunità Europea, con questo progetto, promuove e finanzia realtà consortili (consorzio fra laboratori) che si uniscono al fine di studiare e creare procedure sostitutive.

 

L’intensità di un conflitto interpersonale nel contesto lavorativo

Lo stress negli ambienti lavorativi è una delle lamentele più diffuse tra i dipendenti e può essere causato dal ruolo dell’intensità di un conflitto interpersonale in un contesto lavorativo mediata dalle emozioni negative (Gallup, 2019).

 

Il conflitto interpersonale nel contesto lavorativo

 Alcuni studi hanno scoperto che le persone possono passare tantissimo tempo (fino al 42%) a risolvere conflitti lavorativi e talvolta i manager dedicano il 20% del tempo che hanno a disposizione a risolvere lamentele o conflitti interni, nelle aziende o in altri contesti lavorativi (Gupta et al., 2011). Dal momento che le previsioni per il futuro sono che i livelli di stress e di conflitto aumenteranno sempre di più a causa di una forza lavoro molto diversificata in termini demografici, diversi ricercatori si sono chiesti in che modo lo stress personale fosse collegato a quello sul lavoro, identificando alcuni fattori, tra cui il conflitto interpersonale, che sono strettamente legati alla salute e al lavoro dei dipendenti  (Mulki et al., 2015).

Il conflitto interpersonale è definito come un fattore di stress sociale che misura il disaccordo tra le parti (Spector & Jex, 1998); in ambito lavorativo, l’aggressione sul posto di lavoro include diverse variabili tra cui bullismo, insidia sociale e inciviltà, che possono variare a seconda di alcune caratteristiche tra cui l’intensità. Spesso il conflitto interpersonale è associato a risultati negativi quali basso rendimento e soddisfazione lavorativa, stress, turnover, e a sintomi di scarsa salute fisica (Nixon et al., 2017).

I fattori che hanno un forte impatto sui lavoratori possono essere spiegati mediante un modello incentrato sulle emozioni che fornisce un possibile meccanismo attraverso il quale il conflitto influisce sugli esiti lavorativi; tale modello prevede che le reazioni affettive siano un mediatore all’interno della relazione tra stress personale e lavorativo (Spector & Bruk-Lee, 2008). Questo implica che la valutazione personale che ciascuno dà a un evento stressante sul lavoro porta a reazioni emotive avverse che peggiorano ulteriormente l’evento in sé. Tale concetto è ripreso dalla teoria degli eventi affettivi (AET) che postula che gli incidenti sul lavoro, sia positivi che negativi, portano a stati emotivi che influenzano molti atteggiamenti o comportamenti (Fisher, 2000). Le emozioni si riferiscono a stati affettivi transitori che dipendono dall’ambiente e influenzano diversi esiti sia di salute che di organizzazione (Watson & Clark, 1984). Numerosi sono infatti gli studi che hanno trovato una relazione tra conflitti sul lavoro ed esiti negativi lavorativi, collegati ad un forte disagio psicologico e mediati da reazioni emotive negative (Ilies et al., 2011).

Conflitto interpersonale e aggressività nel contesto lavorativo

L’intensità delle aggressioni sul posto di lavoro varia a seconda della gravità percepita di un comportamento aggressivo contro di sé; diversi studi, infatti, hanno dimostrato che l’intensità modula la relazione tra l’aggressione sul posto di lavoro (comprensiva del conflitto interpersonale), le tensioni psicologiche e gli atteggiamenti organizzativi (Nixon & Spector, 2015). Inoltre, l’intensità all’interno di un conflitto influenza il modo in cui le persone lo valutano e reagiscono ad esso, per esempio alcuni conflitti a bassa intensità sono percepiti come benigni o positivi in circostanze nelle quali è richiesto uno scambio di opinioni (Leon-Pereze et al., 2015).

Uno studio di Burnard e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di esaminare l’intensità del conflitto come moderatore della relazione tra il conflitto interpersonale e lo stress percepito, i sintomi fisici e la soddisfazione lavorativa, attraverso le emozioni negative.

Le ipotesi degli autori erano quindi che il conflitto interpersonale sul lavoro fosse correlato negativamente alla soddisfazione lavorativa e positivamente allo stress percepito e ai sintomi fisici; che le emozioni negative mediassero la relazione tra il conflitto interpersonale, la soddisfazione lavorativa, lo stress percepito e i sintomi fisici; infine che l’intensità percepita moderasse gli effetti del conflitto interpersonale sulla soddisfazione lavorativa, sullo stress percepito e sui sintomi fisici, in modo tale che l’effetto indiretto fosse più forte quando l’intensità era elevata.

Il campione dello studio era composto da 306 dipendenti di varie aziende a cui sono state somministrate: la scala Interpersonal Conflict at Work Scale (ICAWS; Spector & Jex, 1998), per valutare il conflitto interpersonale sul lavoro; la Job-Related Affect Well-Being Scale (JAWS; Van Katwyk et al., 2000) per misurare le emozioni negative sul lavoro; il Physical Symptoms Inventory (PSI; Spector & Jex, 1998) per valutare i sintomi fisici; la Perceived Stress Scale (PSS; Cohen et al., 1983) per lo stress percepito e, infine, la Michigan Organizational Assessment Scale (Cammann et al., 1979) per la soddisfazione lavorativa.

I risultati, come ipotizzato, mostrano che i dipendenti che sperimentano livelli più elevati di conflitto interpersonale sul lavoro riportano reazioni emotive negative, minore soddisfazione lavorativa e un aumento di stress e di sintomi fisici. Inoltre, è emerso che le emozioni negative mediano la relazione tra questi. Infine, sembra che l’intensità del conflitto abbia moderato la relazione indiretta tra il conflitto interpersonale e la soddisfazione lavorativa, lo stress percepito e i sintomi fisici: infatti, quando le esperienze di conflitto erano percepite come moderatamente o altamente sconvolgenti, gli effetti del conflitto sono stati moderati.

Sarebbe importante dunque considerare l’efficacia di diversi stili e strategie di gestione del conflitto nella risoluzione di controversie di diversa intensità e conoscere differenti approcci per gestire al meglio il conflitto e affrontarlo efficacemente al fine di migliorare l’interazione sociale e facilitare le norme di collaborazione all’interno dei contesti organizzativi e lavorativi.

Dipendenza affettiva, gelosia, violenza e sessismo ambivalente tra gli adolescenti

Arbinaga e colleghi del 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di approfondire la dipendenza affettiva all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti e la sua interazione con la violenza o l’abuso, la gelosia, gli atteggiamenti discriminatori e il comportamento nei confronti del partner.

 

La dipendenza affettiva

La dipendenza affettiva nei confronti di un partner implica un attaccamento emotivo disfunzionale ed eccessivo verso l’altro (May, 2000). Una persona dipendente percepisce come negativo un equilibrio relazionale stabile, e prende dunque in considerazione l’idea di finire la relazione senza riuscirci, sebbene non sia dipendente economicamente e non abbia ricevuto minacce intimidatorie dall’altro. Alcuni studi che hanno indagato se esista una relazione tra genere e dipendenza (Urbiola & Estevez, 2015), hanno mostrato che gli uomini avevano punteggi più elevati di dipendenza affettiva; altri studi, invece, non hanno trovato alcuna differenza (Moral Jiménez & Sirvent Ruiz, 2009). Inoltre, la dipendenza affettiva spesso è accompagnata da una percezione della realtà distorta oltre che dall’intolleranza alla solitudine e da un vuoto interiore (May, 2000). Può causare quindi differenti conseguenze emotive come pensieri ossessivi, problemi nel sonno, sintomi ansiosi e depressivi, e ritiro sociale sia nelle attività durante il tempo libero, sia nelle relazioni amicali. Nella dipendenza affettiva le relazioni amorose hanno la priorità su qualunque altro impegno nella vita delle persone, indipendentemente dalla loro qualità (Castellò, 2005).

Durante l’adolescenza spesso i ragazzi hanno relazioni non equilibrate e sono a rischio di fare uso di sostanze, di mettere in atto comportamenti a rischio o di contrarre malattie sessualmente trasmissibili (Centers for Disease Control and Prevention, 2014). La dipendenza affettiva può provocare anche comportamenti aggressivi verso il partner, soprattutto da parte del genere maschile. Diversi studi hanno mostrato come la dipendenza affettiva possa essere alla base delle relazioni violente ed è considerata un precursore della violenza da parte del partner in una relazione di intimità (Kane et al., 2000). Nelle relazioni in cui si manifestano episodi di violenza, la dipendenza affettiva aumenta la tolleranza all’abuso ricevuto e rende ancora più difficile terminare la relazione (Kane et al., 2000). La violenza di coppia è un fenomeno multi causale e indipendente dal genere, anche se spesso sono le donne a subire le conseguenze più gravi. È definita come il tentativo di dominare o controllare il partner psicologicamente, sessualmente o fisicamente, provocando conseguenze negative ai singoli individui e alla relazione (Bonomi et al., 2012).

Durante la scuola superiore, il 72% dei giovani è coinvolto in una relazione sentimentale e tra questi tra il 9 e il 38% dichiara di aver subito violenza almeno una volta nella vita (O’Keefe, 2005). Nel periodo adolescenziale, ancora di più che nelle altre fasi della vita, la violenza è associata a conseguenze negative per la salute sia fisica che mentale. In aggiunta, i ragazzi hanno più probabilità di essere aggressivi con il partner se lo vedono fare dai genitori o dagli amici nelle loro relazioni intime.

Dipendenza affettiva e gelosia

Nella dipendenza affettiva è spesso coinvolta anche la gelosia, che è un’emozione sociale generata dalla minaccia o dalla perdita effettiva di una relazione di valore, generata dall’esistenza di un rivale reale o immaginario per il partner. Può portare a conseguenze relazionali negative come conflitti o violenza domestica (Parker & Wampler, 2003).

Molti studi hanno dimostrato che l’intensità della gelosia aumenta con l’aumentare della dipendenza affettiva e che quest’ultima predice la gelosia (Connor et al., 2017).

Un altro predittore è il sessismo ambivalente che è un costrutto definito come la coesistenza di atteggiamenti positivi e negativi nei confronti delle donne. È suddiviso in sessismo ostile, che comporta la convinzione che le donne siano inferiori agli uomini, e sessismo benevolo, che invece esprime il desiderio dell’uomo di dover proteggere a tutti i costi la donna, svolgendo compiti associati allo stereotipo femminile. Inoltre, la teoria del sessismo ambivalente (AST) distingue tre dimensioni dei due sessismi: il paternalismo che riguarda come è distribuito il potere (dominante in quello ostile e protettivo nel benevolo); la differenziazione di genere (competitiva nell’ostile, complementare nel benevolo); infine la sessualità della donna (assenza di sessualità nell’ostile, sessualità potente percepita come pericolo nel benevolo; Connor et al., 2017).

Gli atteggiamenti sessisti hanno quindi una relazione stretta con la violenza sulle donne, sia psicologica che fisica; sembrerebbe però che, negli adolescenti, il sessismo benevolo e quello ostile diminuiscano con l’aumentare dell’età, probabilmente perché è maggiore la consapevolezza dell’ingiustizia del sessismo.

La dipendenza affettiva negli adolescenti

Arbinaga e colleghi del 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di approfondire la dipendenza affettiva all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti e la sua interazione con la violenza o l’abuso, la gelosia, gli atteggiamenti discriminatori e il comportamento nei confronti del partner.

Un campione formato da 234 adolescenti (69,7% femmine, M= 16,77) è stato incluso nello studio.

Sono stati somministrati loro: la Partner’s Emotional Dependency Scale (PEDS; Camarillo et al., 2020) per determinare il grado di dipendenza emotiva; l’Ambivalent Sexism Inventory (ASI; de Lemus et al., 2008) per stabilire gli atteggiamenti e i comportamenti discriminatori nei confronti delle donne; la Jealousy subscale of the Love Addiction Scale (Retana-Franco & Sánchez-Aragón, 2005) per valutare la gelosia; infine il Conflict in Adolescent Dating Relationship Inventory (CADRI; Wolfe et al., 2001) per valutare la violenza all’interno delle coppie di adolescenti.

I risultati mostrano che il 40,6% del campione ha un’elevata dipendenza affettiva mentre il 14,5% una dipendenza estrema. Inoltre, i ragazzi hanno ottenuto dei punteggi superiori di dipendenza affettiva rispetto alle ragazze. Coloro che sono risultati particolarmente dipendenti hanno mostrato differenze nei punteggi relativi alla violenza (sessuale, relazionale, verbale e fisica), al sessismo ambivalente (ostile, benevolo) e alla gelosia. Quest’ultima sembra avere una maggiore capacità predittiva ed esplicativa rispetto al sessismo ambivalente, in un modello predittivo della dipendenza affettiva. È stato riscontrato inoltre che i punteggi relativi all’ambivalenza sessuale aumentavano man mano che aumentava la dipendenza affettiva. È emerso anche che i ragazzi hanno ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto al sessismo ostile, al sessismo benevolo e al punteggio totale dell’inventario del sessismo ambivalente rispetto alle ragazze. Infine, coloro che avevano un livello più alto di dipendenza affettiva dal partner hanno ottenuto punteggi più elevati nella gelosia, eccezion fatta per gruppi di bassa e moderata dipendenza emotiva che erano simili.

È importante dunque sviluppare relazioni rispettose ed emotivamente equilibrate soprattutto durante l’adolescenza, fase di avvio delle interazioni emotive e di apprendimento; ciò consentirà di alleviare ed evitare circostanze di violenza inter-genere. Anche il contesto familiare ed educativo sono luoghi importanti nei quali individuare e modificare comportamenti e atteggiamenti sbagliati, in quanto sono i primi indicatori di relazioni sbilanciate e squilibrare per i ragazzi adolescenti.

Un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Gelosia (2021) di Jo Nesbo – Recensione

L’autore scandinavo, capostipite della letteratura nordica, torna con un nuovo romanzo, “Gelosia”, in grado di mettere in luce i lati più oscuri dell’animo umano.

 

Dalla sua penna stavolta non incontriamo una nuova indagine condotta dal detective Harry Hole, bensì, analogicamente parlando, l’ingresso in un tunnel entro cui il lettore potrà scegliere se entrare o tenersi a margine di quanto lo attende.

“Gelosia”, edito dalla collana Torinese Einaudi, non rappresenta solo un semplice libro ma un “dizionario” capace di descrivere a più riprese, e sotto svariate sfumature, il significato di questa forte emozione, con la quale ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ha dovuto fare i conti.

Spesso si presenta quale un’emozione sconosciuta, ma che pian piano può tramutare la sua forma nutrendosi della stessa paura di chi la vive e che, pagina dopo pagina, illustra tutta la sua fisionomia e la sua metamorfosi in sette indimenticabili racconti.

Da una semplice passeggera di linea desiderosa di morire, alla rivalità di due gemelli monozigoti, Nesbo illustra l’innesco di tutti i substrati di questa forte emozione, rispetto alla quale convergono non solo aspetti puramente cognitivi e percettivi, ma al contempo un cambiamento psicofisico di cui spesso e volentieri non si ha il controllo.

Ciascun personaggio danza su ogni pagina al ritmo di un crescendo, dove leggerezza e intensità, vuoto e pienezza, gioia e dolore creano il giusto mix di ingredienti per un piatto amaro e difficile da digerire in un sol boccone!

Sin dalla prima pagina ci si sente catturati, incuriositi, ma al contempo in guardia, dinanzi a tutte le sensazioni che, riga dopo riga, vengono descritte e dalle quali non sembra esserci via di scampo.

In ciascun racconto il lettore incontrerà insicurezze, ragionamenti privi di logica e dinamiche comportamentali ricchi di un grande significato: ciascuno fomentato dal ragionevole dubbio del sospetto.

La gelosia, infatti, non solo sembra nutrirsi di fattori astratti e spesso privi di fondamento, ma è essa stessa l’equazione perfetta tra una scarsa autostima e il proprio background esperienziale.

In questa lettura infatti non si incontreranno certezze assolute, bensì contenuti emotivo-percettivi che altro non fanno che fomentare ulteriori insicurezze circa la propria integrità intrapsichica ed interpersonale.

Perché, se da un lato questa emozione così forte è figlia della fragilità e della vulnerabilità individuale, è pur vero che essa presenta una propria stratificazione capace di avvelenare la propria psiche.

Passai per tutti i tormenti della gelosia, dall’incredulità alla disperazione e alla collera, all’autodisprezzo e infine alla depressione” dice uno dei protagonisti, l’ispettore Niko Balli.

E in preda ad essa feci delle cose in cui non mi riconoscevo”, perché la gelosia purtroppo innesca una serie di comportamenti di natura autodistruttivi, rispetto ai quali non sempre si ha la giusta dose di consapevolezza.

Talvolta ci si crede autoimmuni a questo veleno, ma come spesso accade ciò che non si conosce può risultare contagioso più di quanto non si creda.

E in quanto veleno, spesso e volentieri da un singolo pensiero si innesca uno stato mentale vero e proprio, seduttivo e invitante (Siegel, 2001).

Un romanzo davvero consigliato, in grado di fungere da specchio in cui vedere il riflesso delle proprie paure, di quello che è stato o che magari ci si trova a vivere in questo preciso momento!

Nesbo dunque consegna al pubblico in maniera magistrale un copione di quanto spesso è difficile riconoscere, ma che sotto il profilo mitologico rende attuale, un’emozione così forte, presente sin dalla notte dei tempi; presentificando ciò che di ancestrale altri prima di noi hanno vissuto.

Leggere le proprie paure e scoprire pagina dopo pagina qualcosa di nuovo.

Leggere un libro è più di un semplice coinvolgimento di più parti, rappresenta un vero e proprio incontro. Durante la lettura non ci si limita a farsi assorbire cognitivamente dal contenuto, ma si incontra un qualcosa di sconosciuto dal quale ci si lascia leggere (Recalcati, M., 2018).

È un evento in cui i piani dell’attività e della passività si ribaltano e si confondono: “non sono più io che leggo il libro, ma è il libro che mi legge”. Ciò significa che nell’incontro con un libro si incontra sempre una parte di sé stessi, un punto in cui l’enigma più singolare e indecifrabile della propria esistenza viene gradualmente svelato, quasi come la parte più intima dell’individuo emergesse in superficie; pronta ad acquisire un nuovo dono.

Quello di una nuova consapevolezza.

La psichiatria fenomenologica: la prospettiva di Van Den Berg 

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”.

 

Che ne è della soggettività oggi, nel “regime della funzionalità” e nell’”età della tecnica”?

La tecnica, oggi, non è più uno strumento a disposizione dell’uomo: “non più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma la tecnica come condizione che decide il modo di fare esperienza. Qui assistiamo a un capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario” (U. Galimberti, Psiche e techne, p. 354).

La tecnica, però, non è altro che l’espressione della “ragione scientifica” (ivi, p. 384) la quale dissolve “le differenze qualitative tipiche del mondo-della-vita in una quantificabilità universale” (ivi, pp. 385-386).

Nel ’62 de “La crisi delle scienze europee” Husserl scrisse:

La natura fisico-matematica è la natura obiettivamente vera nel senso della scienza naturale galileiana; dev’essere questa la natura che si manifesta nelle apparizioni meramente soggettive. È chiaro, e a questo fatto abbiamo già accennato, che la natura delle scienze esatte non è la natura realmente esperita, la natura del mondo-della-vita. Essa è il prodotto di un’idealizzazione, di un’idea sustruita alla natura realmente intuitiva (p. 243).

Ma se la ragione scientifica non può intendere il mondo se non “in termini di pura quantità”, allora che ne è di “quel ‘fiume eracliteo’ meramente soggettivo e apparentemente inafferabile” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 183) del quale ha parlato Husserl? Che ne è di quel mondo “fluente-costante che ‘abbraccia’ tutti i nostri fini, transitori o permanenti, così come abbraccia preliminarmente la coscienza intenzionale dell’orizzonte”? Che ne è, infine, delle persone “pre-scientifiche”, cioè degli uomini che quotidianamente hanno a che fare con un mondo vario, complesso, sfumato, imprevedibile e ricchissimo di rimandi e chiaroscuri, al quale sono essenzialmente ed intenzionalmente legati nel quale non vigono previsioni, esattezze e modellazioni astratte, ma solo intuizioni meramente soggettivo-relative?

Per rispondere a queste domande cominciamo con il considerare l’interessante riflessione sul “meramente” dell’espressione appena usata:

Il primum reale è l’intuizione “meramente soggettivo-relativa” della vita pre-scientifica nel mondo. Certo, per noi, il “meramente” ha una sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale. Ma nella vita pre-scientifica stessa questa sfumatura scompare; qui il “meramente” sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso. Lo spregio con cui tutto ciò che è “meramente soggettivo-relativo” viene trattato dagli scienziati al servizio di un ideale di obiettività non cambia assolutamente nulla al suo modo d’essere, come del resto non cambia nulla il fatto che agli scienziati stessi questo elemento deve essere di comodo, visto che vi ricorrono tanto spesso e inevitabilmente. (ivi, p. 154).

Anche (forse soprattutto) la psicologia, nel suo tentativo di allinearsi al metodo delle scienze della natura non poté evitare l’eclissi dell’uomo dietro la sua idealizzazione obiettiva e scientifica:

La psicologia doveva fallire perché avrebbe potuto assolvere al suo compito, quello di un’indagine sulla concreta e piena soggettività, soltanto attraverso una riflessione radicale e scevra di pregiudizi, che avrebbe necessariamente dischiuso la dimensione trascendentale-soggettiva (ivi, p. 235).

Ma per giungere a questo, continua Husserl, la psicologia avrebbe dovuto:

[…] interrogare originariamente il che cosa e il come delle anime – innanzitutto delle anime umane – il loro modo di essere nel mondo, nel mondo-della-vita, il modo in cui “animano” i corpi propri, in cui sono localizzate nella spazio-temporalità, il modo in cui ciascuna “vive” psichicamente in quanto ha “coscienza” del mondo in cui vive e in cui è cosciente di vivere; il modo in cui ciascuna esperisce il “suo” corpo non soltanto come un corpo particolare, bensì, in un modo assolutamente peculiare, come il “corpo proprio”, come il sistema degli “organi” che essa muove egologicamente (nel suo agire), il modo in cui essa “interviene” (eingreift) nel mondo circostante di cui è cosciente, nella forma dell’”io spingo”, dell’”io trascino”, dell’”io sollevo”, questo e quello, ecc. (ivi, p. 235).

Tutte queste complesse considerazioni spariscono di fronte a una psicologia che, sul modello delle scienze naturali, “concepì l’anima – cioè il suo tema – come un che di reale nello stesso senso della natura corporea, che era il tema delle scienze della natura” (ivi, p. 236). Il risultato non poteva che essere disastroso:

Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (ivi, p. 35).

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”:

Se Leib deriva dall’antico leiben, da cui leben, cioè “vivere”, non possiamo pensare che il corpo assuma rilevanza psicologica se lo conosciamo cartesianamente come “Pura estensione e movimento” e non come quell’intenzionalità, dalla scienza mai tematizzata che ha nel mondo il suo correlato e il suo indispensabile ambiente (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 23).

Dal passo di Galimberti emerge un fatto drammatico: lo psichiatra e il ‘paziente’ parlano due linguaggi differenti. Lo psichiatra si riferisce ad una idealizzazione scientifica del ‘paziente’ e difatti è sordo alle sue – spesso angosciose – richieste di aiuto. Il ‘paziente’, d’altra parte, non si sente compreso (si rammenti la differenza tra erklären e verstehen di K. Jaspers), perché parla di un corpo, di un mondo e di sensi che lo psichiatra organicista non vuole e non può prendere in considerazione: “nella miseria della nostra vita”, ha scritto Husserl, “questa scienza non ha niente da dirci” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 35):

Essa [scil. la scienza] esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. […] Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto (ivi, pp. 35-36).

Fu J. H. Van Den Berg, nel testo ormai classico “Fenomenologia e psichiatria”, a illustrare con un caso concreto concernente un giovane ‘paziente’ in che senso la prospettiva dell’uomo sofferente e quella della medicina organicista sono radicalmente inconciliabili. Il testo in questione si apre con il racconto della storia di un giovane paziente che accusava una serie di ‘sintomi’ angoscianti e invalidanti. La percezione del mondo esterno era sicuramente distorta: “lo aveva perseguitato un’impressione sempre più intensa che le case fra cui passava fossero sul punto di cadergli addosso; esse gli parevano più scure e più vecchie di quanto le avesse immaginate e malconce come se fossero state devastate”. La strada che percorreva abitualmente gli sembrava larga e vuota e le persone erano percepite come lontanissime e distanti. Una tremenda tachicardia lo angosciava costantemente e una invalidante debolezza e vertigini gli impediscono anche una semplice passeggiata.

Questo caso è emblematico perché permette di convalidare, in modo anche abbastanza chiaro, quanto Husserl ha sostenuto nella “Crisi delle scienze europee”. Inutile spiegare al giovane paziente che la strada non è desolata, che gli altri non sono infinitamente distanti e appena percettibili, che le case non sono sul punto di crollare, che il suo cuore è perfettamente sano e che il suo equilibrio non ha niente che non va. Van Den Berg non può fare a meno di notare che “ciò che per il paziente è realtà irrefutabile, al nostro esame “attento” e “oggettivo” si rivela inesistente” (ivi, p. 18), ma allo stesso tempo non si pone in ‘rotta di collisione’ con le dispercezioni e false assunzioni del paziente ma, al contrario, finge di accettarle e si sforza massimamente di comprenderle a partire dalla sua prospettiva:

Riusciamo invece a gettare uno sguardo nella sua soggettività solo quando lo invitiamo a descrivere gli oggetti, a darci una descrizione del suo mondo. Non del mondo come si rivela a un esame “attento” e “oggettivo”, ma il mondo come appare a quell’altro modo di osservazione immediata, spontanea, quotidiana. L’esame oggettivo e attento distrugge la realtà della nostra esistenza, e ha ostacolato enormemente lo sviluppo della psicologia (ivi, p. 48).

E questo perché:

Nella sua visione del mondo, il paziente rivela la propria condizione. La sua esistenza è veramente sull’orlo di un crollo, ogni cosa che appartiene al suo è vecchia e decrepita; egli vive con i ricordi di un tempo svanito, è un anacronismo vivente. Che strade e piazze gli appaiano grandi e vuote in maniera terrificante è l’espressione letterale del suo stato soggettivo: egli è solo, privo di contatti con la realtà viva, le cose sono distanti, straniere, ostili. Non potrebbe averci descritto meglio, con maggior verità e precisione, la sua malattia psichica (ivi, p. 53).

Lo stesso dicasi del corpo. Lo sguardo del fenomenologo, a differenza di quello dello psichiatra organicista, non si pone di fronte il soggetto sofferente per osservarlo ‘dall’esterno’, non si basa più su quanto dichiarato da amici e parenti, ma si mette al posto suo, nel suo mondo:

Per la prima volta nella storia della psichiatria lo psichiatra non si mette dalla parte del profano, degli amici e dei parenti. Non dà del paziente un giudizio affrettato, ma si mette al suo posto cioè nel suo mondo (ivi, pp. 53-54).

I fenomenologi sanno molto bene che il corpo sentito e vissuto preriflessivamente non è il corpo preso in considerazione dal fisiologo o dal chirurgo:

Incontrando il corpo non come oggetto d’indagine ma come soggetto di vita, il metodo fenomenologico è l’unico che consente di accedere al corpo nella sua specificità psicologica, a cui non possono giungere le scienze naturali per la natura oggettivante del loro metodo (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 196).

È questo il motivo per il quale il paziente di cui parla Van Den Berg (e con lui tutti coloro che vivono situazioni psicologicamente disagevoli e angosciose) ben non comprende le rassicurazioni degli specialisti che gli assicurano che dal punto di vista organico non è stata riscontrata alcuna anormalità e “che non c’è nulla fuori posto”. È vero quello che ha scritto Borgna:

L’ansia e il cuore sono dunque strettamente correlati: non c’è stato d’ansia che non si rispecchi nel cuore: modificandone la frequenza e il ritmo. […] Dall’ansia al cuore, e dal cuore all’ansia, in una circolarità senza fine che esprime fino in fondo, e sigilla, la ragione d’essere psicosomatica del disturbo: nella sua inconfondibile reciprocità di azione che sfida ogni riduzionismo monistico e ogni separazione fra psichico e somatico (E. Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 75).

Ma è altrettanto vero che il cuore di cui parla il paziente di Van Den Berge il cuore di cui parla il cardiologo non sono la stessa cosa:

[…] medico e paziente parlano di due organi completamente diversi. Il paziente parla del cuore di cui si dice che “è a destra” o che non è più lì – mentre il medico non riesce a riscontrare il più lieve spostamento – del cuore che può “saltare in gola”, “cadere”, essere “spezzato” da una parola, un gesto, uno sguardo, mentre il patologo-anatomista non è in grado di trovar traccia di questa terribile rottura; del cuore che può essere “sano” anche quando il cardiologo mostra una faccia preoccupata. E che può benissimo essere “malato” anche quando tutti i cardiologi del mondo assicurano unanimemente che l’organo da loro esaminato è in condizioni perfette (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60).

Nella prospettiva fenomenologica lo psichiatra e il suo ‘paziente’ con-vivono in una medesima dimensione cosicché “la conoscenza dei modi di essere e di soffrire non è la conseguenza di una unilaterale iniziativa (diagnostica) da parte del medico; ma è l’espressione di una contestuale (di una contemporanea) partecipazione da parte del medico e da parte del paziente (della paziente): in una circolarità ermeneutica che trascina medico e paziente in una comune ricostruzione conoscitiva” (E. Borgna, Le figure dell’ansia, p. 183).

Il fenomenologo comprende (verstehen) bene che il cuore del ‘paziente’ è effettivamente malato, nonostante le spiegazioni (erklären) del medico, perché comprende che ad essere afflitto da un male non è l’organo fisico, ma il centro “patico” (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60). Lo psichiatra fenomenologo, inoltre, comprende bene che anche le vertigini e la debolezza affliggono davvero il paziente, nonostante lo scetticismo del neurologo che non trova affatto conferme organiche del male che lo affligge:

Il neurologo non riscontra nessun vizio organico; ma questo è un fatto che non ci sorprende più: il martelletto con cui il medico saggia i riflessi del paziente non batte sulle membra di cui quest’ultimo parla quando dice – in un senso diverso, assai più generale – che gli “mancano le gambe”. Egli non è più capace di “tenersi in piedi” nella vita, la sua “posizione è estremamente instabile”, il suo “equilibrio” è in realtà seriamente compromesso (ivi, p. 61).

Queste profondissime considerazioni di Van Den Berg riconfermano sia quanto L. Binswanger ha sostenuto ne “La concezione eraclitea dell’uomo”: “La scienza dell’uomo, sia che vogliano chiamarla psicologia in senso lato o antropologia esistenziale, non può “scalvare” il fenomeno del mondo” (p. 99):

La psicologia non ha a che fare né con un soggetto privo di mondo (che può essere pensato soltanto come un oggetto), né con la “coscienza in generale”, bensì con l’esistenza umana (ivi, p. 101).

Sia quanto Galimberti ha giustamente scritto sul corpo fenomenologicamente inteso:

Il pensiero assoluto, che oggettiva corpo e mondo riducendoli rispettivamente a idea di corpo e a idea di mondo, è la razionalizzazione astratta di quell’originario sentirsi con un corpo dischiuso a un mondo, è l’idealizzazione di quell’originario accoppiamento del nostro corpo con le cose. È per questo accoppiamento che il mondo è “umano”, non nel senso decadente dell’espressione, ma nel senso che le cose del mondo portano con sé i segni delle intenzioni proiettate dall’uomo, che così cessa di essere un soggetto pensante “acosmico”, perché le condizioni della posizione di un oggetto non sono solo mentali, ma si radicano nella sensazione, nel sentimento, nella volontà, nell’azione, per cui, come scrive K. Koffka: “Un oggetto appare attraente o ripugnante prima di apparire nero o azzurro, circolare o quadrato”.

Questa interazione esistente tra corpo e mondo è ignota al pensiero oggettivo che, attento alla sola dimensione quantitativa, non sa spiegare come le qualità irradino intorno a sé un certo modo d’esistenza, un certo potere ammaliante che condiziona ad esempio l’azione motoria del nostro corpo, per cui il rosso e il giallo sono favorevoli all’abduzione e il verde e il blu all’adduzione, per cui una qualità attrae il corpo, un’altra lo ritrae, una significa sforzo e violenza, l’altra pace e riposo. Questo ci dice che il soggetto, prima di porre gli oggetti, simpatizza con essi; che prima del cielo del geografo c’è il cielo reale che non ispeziono, ma da cui mi lascio assorbire; che prima di un pensiero puro c’è un corpo terreno. (U. Galimberti, Il corpo, p. 122).

Lo sguardo fenomenologico dello psichiatra deve essere in grado di mettere da parte “il formalismo della coscienza” e saper intercettare quelle percezioni soggettive che si danno solo nella camaleontica ed intensa vita quotidiana del corpo impegnato attivamente nel mondo, nel suo mondo. Ecco come la condizione esistenziale del paziente di Van Den Berg risulta, dalla prospettiva fenomenologica, profondamente più comprensibile e decisamente più coerente.

In conclusione si può affermare che la tematizzazione del mondo-della-vita, inteso come “fondamento” delle verità logico-teoretiche (cfr. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 153), ha fissato lo spazio d’azione della pratica psichiatrica che, per risultare davvero terapeutica, dovrà saper guardare oltre le sustruzioni e idealizzazioni delle scienze obiettive mirando alla comprensione di quelle esperienze soggettive, pre-scientifiche e pre-logiche che sostanziano la storia dei vissuti umani.

 

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