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Dislessia: trattamento lessicale o sublessicale? Un importante contributo di Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti, sperimentato con alcune App di RIDInet

Il clinico che rieduca la dislessia con un trattamento orientato al compito di lettura, da sempre, si trova a dover effettuare due scelte: proporre al paziente la lettura di parole (trattamento lessicale) o di sillabe (trattamento sublessicale); presentare questi stimoli (parole o sillabe) all’interno di un brano o singolarmente.

 

Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti, in questo importante ed innovativo articolo, condividono un albero decisionale, che guida il clinico in queste scelte, a partire da un’accurata analisi del profilo di lettura del paziente, emerso dall’assessment. In particolare, riferendosi al modello di lettura a due vie (Coltheart, 1978), gli autori propongono di partire dal confronto delle prestazioni di velocità e accuratezza di lettura del singolo paziente nelle tre prove di lettura di brano, liste di parole e liste di non parole; quindi stabilire quale delle due vie di lettura (lessicale o sublessicale) risulti maggiormente integra e quale maggiormente lesa; infine potenziare la via maggiormente lesa, attraverso l’utilizzazione di stimoli e contesto appropriati. A tal fine, nell’articolo viene esemplificato, attraverso dei casi clinici, come quattro diversi profili di lettura abbiano portato i clinici a scegliere una specifica tra le quattro combinazioni di trattamento attualmente disponibili, rispettivamente:

  • trattamento lessicale in un contesto isolato;
  • trattamento lessicale nel contesto di un brano;
  • trattamento sublessicale in un contesto isolato;
  • trattamento sublessicale nel contesto di un brano.

A questo punto, poiché gli autori hanno deciso di mettere l’articolo a disposizione della comunità clinica, lasceremo l’esplicitazione del ragionamento clinico e dell’albero decisionale alle loro parole nell’articolo stesso, concentrandoci in questa sede sull’utilizzo delle App di RIDInet. Fermo restando che il ragionamento clinico è in ogni caso riproducibile con qualsiasi software che permetta la scelta di sillabe e parole, con presentazione degli stimoli in modalità isolata e nel contesto di un brano.

Sottolineiamo che i tre autori dell’articolo svolgono un ruolo molto importante nella piattaforma di teleriabilitazione RIDInet di Anastasis: sono autori di App e, inoltre, Stella e Zoccolotti sono membri del suo Comitato Scientifico. Nell’implementazione del trattamento dei casi proposti, gli autori hanno quindi utilizzato tre App di RIDInet: Reading Trainer, Rapwords Tachistoscopio e Sillabe 2.

I trattamenti lessicali sono affidati alle App Rapwords – tachistoscopio (Zoccolotti e Burani, 2015) e Reading Trainer 2 (Tressoldi, 2013) con impostazione dell’unità di lettura su parola.

Tachistoscopio propone la lettura di parole, ordinate per difficoltà psicolinguistiche, in presentazione singola con modalità tachistoscopica: il tempo di esposizione è inferiore a quello necessario per iniziare un movimento oculare rapido, o sàccade, quindi non superiore ai 150 msec. In questo modo il bambino legge la parola con un solo ‘colpo d’occhio’ (una sola fissazione oculare). Questa modalità di presentazione stimola la lettura globale di parole intere, ma anche l’utilizzo e lo sviluppo del lessico ortografico. L’auto-adattività consente la modulazione progressiva della difficoltà del compito in base al livello di competenza raggiunta di volta in volta dal bambino. Sono in particolare presenti due sistemi di avanzamento:

  • macro: sulla lunghezza delle parole proposte (da 4 a 9 lettere)
  • micro: sulla complessità morfosintattica delle liste, a parità di lunghezza. Sono infatti presenti liste di parole ad alta frequenza, bassa frequenza, miste, C e G, accenti, iati e dittonghi, morfologicamente complesse

Prima di un macro avanzamento sulla lunghezza della parola (es. da 4 a 5 lettere) sono quindi presenti tutti i micro avanzamenti sulla complessità delle liste (da alta frequenza a parole morfologicamente complesse).

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 1

Reading Trainer 2, con impostazione dell’unità di lettura su parola, propone la lettura di parole all’interno di brani con una sorta di effetto karaoke che evidenzia l’unità di lettura con diverse tipologie di presentazione:

  • unità di Lettura: di volta in volta sullo schermo è presente solo la parola da leggere
  • tutto il testo: il testo compare per intero e resta durante la lettura
  • testo rimanente: il testo compare per intero e, a mano a mano che il bambino avanza nella lettura, lo stimolo scompare

Sono presenti numerose opzioni di personalizzazione: la principale è il funzionamento in manuale o temporizzato. Nella modalità manuale è il bambino stesso a determinare la propria velocità di lettura (ovvero l’avanzamento dell’unità di lettura evidenziata) toccando il monitor (o con la barra spazio nel pc). Nella modalità temporizzata, la scansione avviene automaticamente ed il clinico ne imposta la velocità iniziale in base ai parametri rilevati durante le prove di lettura effettuate in sede di valutazione. In questo caso, l’auto-adattività provvede all’aumento automatico della velocità di 0,1 sillabe/sec dopo un certo numero di esercizi consecutivi (sempre specificato dal clinico stesso) in cui viene raggiunta l’accuratezza richiesta negli obiettivi.

Ulteriori opzioni riguardano la durata della sessione, l’attivazione della sintesi vocale, la lunghezza delle pagine proposte e la presentazione in termini di grandezza di font e spaziatura (per bambini con problemi di affollamento visivo/crowding).

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 2

I trattamenti sublessicali sono affidati alle App Sillabe 2 (Stella, 2013) e Reading Trainer 2 (Tressoldi, 2013) con impostazione dell’unità di lettura su sillaba.

Sillabe 2 propone la lettura veloce di sillabe e morfemi calibrati per difficoltà crescenti in modalità veloce (autoregolata per tempi di presentazione e di elaborazione dello stimolo), con tre modalità di presentazione:

  • a stimolo, in cui è presente solo la sillaba/morfema da leggere
  • a stimolo mascherato, in cui lo stimolo è preceduto e seguito da X
  • con riquadro mobile di lettura, in cui l’unità da leggere è evidenziata da un riquadro che di volta in volta si sposta da sinistra verso destra

La presenza di auto-adattività determina un avanzamento automatico su 116 livelli che riguarda sia la velocità di lettura sia la difficoltà crescente in relazione al numero di lettere presentate e alla frequenza di associazione delle lettere fra di loro.

Oltre ad una taratura iniziale per stabilire il livello di partenza, è presente un pre-training per bambini per cui è consigliabile una fase di riconoscimento delle sillabe prima della denominazione.

Dislessia le App di RIDInet progettate per il trattamento Imm 3

Reading Trainer 2 con impostazione dell’unità di lettura su sillaba propone la lettura di sillabe all’interno di brani, con le tipologie di presentazione precedentemente illustrate.

Lasciamo finalmente la parola agli autori dell’articolo “Dislessia: trattamento lessicale o sublessicale?” Alessandra Luci, Giacomo Stella e Pierluigi Zoccolotti: clicca qui per leggere l’abstract ed accedere alla possibilità di scaricare l’articolo completo.

Endometriosi. Il vissuto del partner e le problematiche di coppia

L’endometriosi è una patologia cronica, che colpisce prevalentemente le donne in età fertile, e che può presentare sintomi intensi e severi, che hanno un forte impatto sulla quotidianità. L’articolo presenta alcune riflessioni sulle ripercussioni di tale patologia sulla vita del partner e sulle dinamiche di coppia.

 

Che cos’è l’endometriosi

 L’endometriosi è una patologia benigna cronica, estrogeno-dipendente e di natura infiammatoria. Si caratterizza per la presenza di tessuto endometriale, che può essere costituito da ghiandole e da stroma, in sede ectopica, ovvero al di fuori del sito naturale rappresentato dalla cavità uterina (Melis et al., 2005).

In Italia, le donne con diagnosi certificata di endometriosi sono circa tre milioni, ovvero il 10-15% delle donne in età riproduttiva (ISS, 2019). Questa malattia, che colpisce principalmente le donne in età fertile, può avere delle profonde ripercussioni sulla riproduttività e sulla qualità della vita individuale e di coppia, data l’intensità e la severità dei sintomi che la caratterizzano. Per alcune donne questa malattia può essere asintomatica e venire diagnosticata in occasione di visite routinarie di controllo; nella maggior parte dei casi, invece, si presenta associata a dismenorrea, a dispareunia, a dolore pelvico cronico e a infertilità (Murphy, 2002).

L’impatto di questa malattia sulle dinamiche di coppia, e in particolare sulla sfera sessuale, è rilevante (Fernandez et al., 2006). Sebbene emerga in letteratura una consapevolezza di entrambi i partner riguardo l’impatto che l’endometriosi ha sull’intimità e sulla sessualità della coppia, gli uomini sono più restii rispetto alle donne nel verbalizzare l’effetto che tale impatto esercita sulla coppia stessa.

La maggior parte degli uomini sono consapevoli del dolore che la donna affetta da endometriosi può provare durante i rapporti e questo influenza emozioni e comportamenti sessuali. Nella pratica clinica, e in accordo con la letteratura, quando la donna riceve la diagnosi di endometriosi il partner spesso prova emozioni opposte: sente il sollievo di poter dare un nome al dolore e ai conseguenti disagi sessuali; i sintomi assumono un significato ed è possibile prendere consapevolezza della patologia e del suo impatto (Fernandez et al., 2006). D’altro canto, la diagnosi frequentemente si associa all’emergere di vissuti negativi, come ad esempio colpa, vergogna e frustrazione. Alcuni uomini possono sentirsi in colpa quando hanno rapporti con la compagna, perché temono che il proprio piacere possa suscitare dolore; alcuni provano vergogna per non saper trattenere il desiderio sessuale; altri possono provare frustrazione perché i rapporti sono generalmente sporadici e inferiori di numero rispetto a ciò che vorrebbero.

Di difficile impatto emotivo sono i trattamenti legati all’infertilità: vengono spesso esperite sia una certa pressione rispetto alla pianificazione del concepimento di un bambino, sia la sensazione di essere sottoposti a trattamenti intrusivi per la fertilità, considerati prematuri.

La letteratura riporta come la maggior parte degli uomini tenda a dare priorità al benessere della partner prima del soddisfacimento dei propri bisogni, comprendendo la necessità di un cambiamento all’interno della relazione sessuale e accettando, nel tempo, i risvolti. Molti prediligono mettere in secondo piano i propri vissuti per adottare una posizione supportiva nei confronti della donna (Fernandez et al., 2006), peraltro con un rischio per il proprio benessere psicologico a medio e lungo termine.

La coppia davanti alla diagnosi di endometriosi

Un interessante studio sulle dinamiche di coppia (Butt e Chesla, 2007) osserva cinque modelli relazionali in coppie che si confrontano con la diagnosi di endometriosi, che vengono chiamati “insieme ma da soli”, “combattere l’endometriosi assieme”, “uniti nella disabilità”, “annientati dal caregiving”, “impegnati nella cura reciproca”.

 Il primo pattern, “insieme ma da soli”, descrive un modello di relazione in cui mancano comprensione reciproca, coesione e connessione; ogni individuo ha un forte senso del sé, così come idee e pratiche diverse rispetto alla salute. In queste coppie la malattia può accentuare le differenze già esistenti ed esacerbare i conflitti, conducendo i due partner al distanziamento e all’isolamento reciproco. La donna affetta da endometriosi percepisce una mancanza di accettazione da parte del compagno e di conseguenza si sente sola e isolata nella sua sofferenza; la disconnessione emotiva che divide i partner nel tempo diventa sempre meno sostenibile, fino a determinare la rottura del legame.

Nel secondo modello, “combattere insieme l’endometriosi”, la coppia è unita per debellare la malattia. La comprensione della sintomatologia da parte di entrambi i partner determina la possibilità di gestire la malattia mantenendo l’armonia, che si manifesta anche attraverso la capacità del partner di sostenere la donna nei momenti difficili senza lamentarsi o mostrare risentimento. La coppia affronta assieme le decisioni circa le differenti cure a cui la donna può essere sottoposta, accettando le conseguenze. Tuttavia, gli sforzi per eliminare la malattia, vissuta come un “invasore”, possono prendere il sopravvento sulla quotidianità e farsi estenuanti e logoranti.

Il terzo modello, chiamato “congiunti nella disabilità”, vede la presenza di un partner che a sua volta ha un deficit corporeo. Questa parità apre ciascun individuo a una maggior comprensione, pazienza, e attenzione nei confronti dell’altro e crea uno spazio per costruire insieme una relazione e una vita familiare significativa e vitale. La coppia affronta la vita come una squadra unita, creando un delicato equilibrio tra disabilità e capacità proprie e del partner e trovando il modo di bilanciare i bisogni reciproci. Piuttosto che essere arrabbiati o negativi, i partner riescono a utilizzare modalità positive, come ad esempio ridere assieme, per tollerare e superare i momenti dolorosi.

Nel pattern relazionale “annientati dal caregiving”, il partner sano dà la priorità all’accudimento dell’altra rispetto alla cura di sé e si assume piena responsabilità delle cure, ritenendo che questo agire dia significato e scopo alla propria vita. La donna tende a sviluppare un forte attaccamento al caregiver. Spesso però in queste coppie i confini sono confusi e le due personalità dei singoli si perdono nella diade. Pertanto, questo modello funziona prevalentemente quando è utilizzato per un tempo limitato.

Infine, il modello “impegnati nella cura reciproca” illustra l’accettazione reciproca dell’altro, così come l’integrazione della malattia nella vita quotidiana. A seconda dello status del partner malato e, in modo flessibile, il coniuge aumenta o diminuisce le cure da fornire e si viene a trovare un equilibrio tra la cura del sé e la cura dell’altro. Questo modello risulta sicuramente più sostenibile nel tempo rispetto al precedente, e più sano per i membri della coppia, che riescono a mantenere la loro individualità.

La letteratura, dunque, mette in evidenza come, per affrontare da un punto di vista psicologico le conseguenze di una malattia cronica invalidante come l’endometriosi sia necessario non limitarsi ad offrire un sostegno alla donna che subisce la diagnosi, ma, ove viene manifestato un disagio, aprire uno spazio di ascolto anche ai partner coinvolti ed eventualmente procedere con una presa in carico anche della coppia.

 

Psicofarmacologia come superpotere a Gotham City: l’esperto della salute mentale come cattivo in “Batman”

Lo psichiatra e lo psicologo, essendo conoscitori della mente e dei suoi meccanismi, possono essere dei cattivi molto interessanti e, nell’universo di Gotham City, diventano i principali avversari che Batman si trova ad affrontare.

 

Batman e Gotham City

 Batman, personaggio dei fumetti ideato da Bob Kane e Bill Finger e caposaldo della letteratura illustrata supereroistica statunitense, ha una delle gallerie di nemici più interessanti del panorama fumettistico mondiale. Fra questi si trovano degli psicologi e degli psichiatri che, per vari motivi, sono passati dalla parte del crimine e si trovano ad essere avversari del crociato incappucciato.

In questo articolo si analizzano questi personaggi e le loro dinamiche, utili non solo per delineare meglio il loro ruolo nel mondo del detective mascherato, ma anche per contestualizzare come viene raffigurata la figura dell’esperto della salute mentale nelle vicende che li vedono protagonisti.

Batman è uno dei personaggi più famosi del pantheon supereroistico della casa editrice americana DC ed uno dei personaggi chiave della letteratura illustrata.

Il Cavaliere Oscuro, sin dalla sua prima comparsa sul giornale “Detective Comics”, ha intrattenuto generazioni di lettori, attratti dalle avventure dove Bruce Wayne, per la società di Gotham City un milionario playboy sempre presente sui tabloid, difende la Giustizia da antagonisti appariscenti e pericolosi nella veste di vigilante mascherato.

Le avventure del detective mascherato, a volte accompagnato da personaggi come le varie incarnazioni di Robin, sono particolarmente amate per l’atmosfera cupa e tenebrosa delle sue storie, all’origine più vicine all’impostazione delle storie poliziesche che supereroistiche (Clapham, 2019).

Questa tipologia di atmosfera, a parte la parentesi per tutta la famiglia dettata dal periodo della “Comics Code” (Sergi, 2012), un organo di autocensura che l’industria si è costretta ad attuare in risposta alla paranoia nei confronti del fumetto in America negli anni quaranta, soprattutto grazie allo studio controverso, poi squalificato scientificamente, dello psichiatra Fredric Wertham (Tilley, 2012), è retta grazie anche alla galleria degli avversari che Batman affronta nelle sue storie.

Di fatto, i nemici di Batman, oltre che per i loro eventuali superpoteri e per il concetto tematico che li caratterizza, sono un elemento psicologico fondamentale per le storie di questo supereroe: di fatto, questi, attraverso il loro rapporto con l’alias di Bruce Wayne creano un mezzo per profilare e studiare la sua psiche (Amerongen-Kruisselbrink, 2020), soprattutto i suoi lati più oscuri e direttamente indicabili come disturbi mentali (Hawley, 2006; Riordan, 2018).

Gli avversari di Batman

Come accade spesso nei fumetti, alcuni dei cattivi del mondo narrativo di Gotham City arrivano direttamente dal campo della salute mentale: così Batman affronta anche personaggi che sono esperti professionisti del mondo psicologico e che, per uno o più motivi, si ritrovano ad affrontare il vigilante.

Un personaggio che risalta subito nella galleria è lo Spaventapasseri: Jonathan Crane è un professore di psicologia che, a causa di bullismo subito quando era ragazzo per il suo fisico minuto e sparuto, si interessa ai meccanismi neurocerebrali legati alla paura e sviluppa una tossina che induce un’esperienza allucinante traumatica nel soggetto, portandolo ad avere visioni distorte incentrate su ciò che lo spaventano maggiormente.

Essendosi spinto oltre i confini etici nella vita personale e professionale, Crane abbandona la carriera accademica e si muove nell’ambiente criminale, scontrandosi spesso con il Cavaliere Oscuro (Previewsworld, 2021). Lo Spaventapasseri è un personaggio molto noto nel mondo fumettistico, poiché con i suoi mezzi neurofarmacologici e il suo tema di fondo legato alla paura permette al lettore di entrare nei lati più intimi e più vulnerabili di Batman (Tregonning, 2018).

 Un altro personaggio del mondo di Batman legato al mondo della psicologia è Hugo Strage: uno dei primi nemici che l’uomo pipistrello abbia mai avuto, il dottor Strange è un medico esperto di vari campi, fra i quali la psichiatria e la psicofarmacologia, che ha una ossessione per l’uomo pipistrello. Anticipando lo Spaventapasseri nell’uso di una tossina cha causa paura, il Dottor Strange affronta Batman con l’ossessione per la sua identità, diventando poi uno dei pochi cattivi a scoprirla e, per un periodo, essere il Detective Incappucciato al posto di Bruce Wayne.

Infine, un terzo personaggio e forse il più noto al pubblico generale è Harley Quinn. Apparsa per la prima volta nella serie animata dedicata a Batman della Warner Bros., Harley Quinzell è una psichiatra che svolge l’attività nel manicomio criminale di Arkham, l’istituto dove la maggior parte degli avversari di Batman sono rinchiusi. Qui, la dottoressa Quinzell subisce il fascino malvagio di Joker, il nemico principale del detective mascherato, venendo così manipolata, corrotta e condotta ad avere con lui un rapporto disfunzionale (Reynaud, 2021). Il personaggio è poi diventato uno dei più popolari dell’universo DC, tanto da assumere poi il ruolo di antieroe, abbandonando il Joker ed entrando nella squadra di black-ops denominata Suicide Squad, assumendo un ruolo di rilievo nelle trame DC (Ito, 2016).

La visione negativa dell’esperto della salute mentale

Avendo parlato di questi avversari di Batman, si percepisce subito l’utilizzo narrativo dell’esperto della salute mentale come nemico, assai presente nella narrativa generale (Ahmed, 2020). Di fatto, lo psichiatra e lo psicologo, essendo conoscitori della mente e dei suoi meccanismi, possono essere dei cattivi molto interessanti, usando strategie e tecniche che possono mettere a dura prova l’eroe, permettendo inoltre di vedere quanto sia salda la sua salute mentale e di scoprire meglio la sua vita interiore ed i suoi lati più nascosti e personali (Hopson, 2014).

Questa parte della galleria di Batman permette non solo di capire quanto la figura del Medico della Mente attragga come cattivo, ma anche di arrivare al problema di questa scelta narrativa: il poter influenzare negativamente la reputazione della salute mentale attraverso i mass media. Infatti, sebbene la cura del benessere mentale è oramai una parte salda della società e del mondo della salute, per questioni culturali e stereotipiche in alcune aree della società umana essa è vista con sospetto, aspetto che, unito al fatto che nei media narrativi si utilizzi la figura dello psichiatra e dello psicologo senza aver interesse di divulgarne in maniera realistica l’attività, porta a confusione sull’operato della scienza della salute mentale e spesso ad averne una visione approssimativa e deviata (Ginn, 2015).

Allo stesso modo, per aiutare a divulgare meglio e dare una luce maggiormente positiva al mondo del benessere mentale, si stanno verificando casi opposti, ovvero l’utilizzo del media fumetto ed animato per spiegare meglio la salute psicologica e nel confine della narrativa di dare una visione non negativa dello psicologo e dello psichiatra.

Casi di ciò si possono trovare nella narrativa multimediale giapponese, in opere come “Comic Psychosomatic Medicine” (Sherman, 2014) e la “Psychiatrist Irabu series”.

Il drop-out in psicoterapia (2022) di Vincenzo Auriemma e Valeria Saladino – Recensione

Nato dalla collaborazione di diversi professionisti, il libro “Il drop-out in psicoterapia. Grounded theory e ricerca qualitativa” raccoglie ed analizza informazioni, dati, e riflessioni emersi da un’interessante ricerca circa un fenomeno molto importante cui prestare attenzione: il drop-out in psicoterapia.

 

 Tale lavoro è stato sviluppato all’interno del progetto Perseo, frutto della Società scientifica di psicoterapia strategica, e si propone di incrementare la credibilità della psicoterapia valorizzando i suoi outcome e le sue tecniche, rendendo tale disciplina valutabile e quantificabile a partire da dati e metodologie che ne rispettino la peculiarità, salvaguardandone la scientificità.

All’interno di tale progetto hanno collaborato diversi professionisti come Gennaro Iorio, Filippo Petruccelli, Bernardo Paoli, Francesco Tinacci, Davide Algeri, fabio Leonardi, Cristina Capozzella e Andrea Stramaccioni.

Il fenomeno del drop-out, ossia l’interruzione della psicoterapia da parte del paziente, che ha visto negli anni tanti studi ed approfondimenti, così come tante definizioni, all’interno del lavoro degli autori viene analizzato attraverso un’interessante metodologia di ricerca, ossia la Grounded Theory (GT). Una metodologia più adatta allo studio di tale fenomeno in quanto fondata sui dati e non sulla scelta precostituita di una teoria già esistente. L’assunto di base nella sua costruzione è di tipo induttivo, ossia parte da un concetto per poi estendere le considerazioni che ne emergono verso una teoria generale. La Grounded Theory evita in tal modo influenze e bias del ricercatore, il quale solitamente è portato a indagare un fenomeno a partire da dati precostituiti e già noti e a valutare il risultato di una ricerca basandosi sulla letteratura e su ciò che già conosce in merito al fenomeno studiato.

All’interno del testo, viene offerta un’ampia panoramica circa le metodologie di ricerca in riferimento a fattori di interesse della psicologia, della psicoterapia e della sociologia. Viene inoltre sottolineata l’importanza della promozione di una maggiore transdisciplinarietà, esplorato ed approfondito il concetto di drop-out e diverse variabili in gioco, anche se il focus è maggiormente posto sull’esplorazione del drop-out in riferimento ai due protagonisti del processo terapeutico, ossia paziente e terapeuta.

Vengono illustrate procedure di ricerca, metodologia, ipotesi, obiettivi e risultati, concludendo il testo con un’interessante approfondimento di quest’ultimi.

 Oggi infatti, sappiamo come il drop-out possa dipendere da numerosi fattori e variabili, riguardanti sia caratteristiche emotive, comportamentali, personologiche del paziente, che del terapeuta, così come lo stile comunicativo di quest’ultimo, la relazione terapeutica, l’alleanza terapeutica, il setting, il livello di motivazione, fiducia, sintomi e psicopatologia del paziente.

Nella ricerca riportata nel libro sono state analizzate 30 terapie concluse e caratterizzate da drop-out, alcune sedute videoregistrate ed altre solamente audio registrate. Sono state così individuate e distinte due tipologie di drop-out: non concordato/non comunicato e non concordato/comunicato dal paziente.

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 1

Dall’analisi dei loro dati, gli autori hanno acceso il focus su alcuni fattori che sembrerebbero influenzare in modo più significativo il drop-out, come motivazione e fiducia, elementi che nutrono conseguentemente la relazione terapeutica.

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 2

Il drop out in psicoterapia 2022 di Auriemma e Saladino Recensione Imm 3Un lavoro presentato in modo chiaro ed esaustivo, di scorrevole e piacevole lettura, che analizza e invita a prestare attenzione a un fenomeno molto importante per gli addetti ai lavori. Un utile spazio di riflessione per il professionista lettore, da sfruttare come possibilità volta al miglioramento della qualità del servizio offerto al paziente, al fine di ridurre la possibilità di drop-out o sfruttare lo stesso come possibilità di indagine e crescita.

La mindfulness come strumento per regolare l’uso problematico degli smartphone

L’utilizzo degli smartphone è aumentato esponenzialmente negli ultimi dieci anni (Regan et al., 2020). Infatti, se nel 2011 solamente il 35% della popolazione negli USA possedeva uno smartphone, nel 2018 circa il 77% ne possiede almeno uno. Avere uno smartphone al giorno d’oggi sembra quasi obbligatorio, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti, dei quali circa il 94% ne è in possesso.

 

 Nonostante gli smartphone abbiano numerosi aspetti positivi (come la comunicazione istantanea, l’apprendimento rapido e lo svago), al giorno d’oggi l’utilizzo di questi strumenti è sempre più continuo e ciò può risultare problematico (Regan et al., 2020). L’uso problematico del telefono è stato definito come l’incapacità di regolare il tempo di utilizzo di uno smartphone e ciò può comportare conseguenze negative nella quotidianità. Alcuni studi riportano che sembra esistere una correlazione tra un uso continuo e incontrollato del telefono e lo sviluppo di disfunzioni emotive e cognitive.

I fattori di rischio che possono portare all’uso problematico dello smartphone

Sono stati identificati numerosi fattori di rischio che possono contribuire allo sviluppo di un uso problematico dello smartphone (Regan et al., 2020).

Uno di questi fattori di rischio sembra essere l’impulsività. Infatti, è stata osservata una correlazione tra alti livelli di impulsività e una maggiore difficoltà nel controllare bisogni e comportamenti automatizzati, come il controllare continuamente il telefono per vedere se ci sono notifiche (Regan et al., 2020).

Un altro fattore è la tendenza alla noia, intesa come una facilità ad esperire una bassa soddisfazione e un forte disagio in situazioni che non forniscono un adeguato stimolo mentale (Regan et al., 2020). Sembra che individui che tendono ad annoiarsi facilmente utilizzino lo smartphone più frequentemente, col fine di evitare l’emozione negativa cercando svago online, con il rischio di passare troppo tempo al telefono (Regan et al., 2020). La tendenza alla noia tende inoltre a rinforzare i comportamenti legati al controllo di notifiche, e sembra essere un fattore di rischio per lo sviluppo di depressione e ansia (Regan et al., 2020). Questo legame suggerisce che la noia può condurre l’individuo ad utilizzare il telefono in modi che possono risultare dannosi per la salute (Regan et al., 2020).

Un altro fattore è la nomofobia, ovvero un’intensa paura, ansia o disagio dovuti al timore che la tecnologia sia inaccessibile (Clayton et al., 2015). Clayton e colleghi (2015) hanno osservato che alcuni individui, quando separati dal proprio telefono per più di cinque minuti, hanno iniziato ad avere un aumento della velocità del battito cardiaco, un incremento della pressione del sangue e una forte ansia. Han e colleghi (2017) suggeriscono che questa ansia da separazione dal telefono potrebbe derivare da un’estensione dell’identità personale nello smartphone, in quanto è uno strumento che contiene applicazioni utili per rimanere in contatto con altre persone e per rimanere aggiornati, come i social media.

Il ruolo della mindfulness

 È stato osservato che la mindfulness –intesa come la pratica dell’autoconsapevolezza, mantenendo uno stile di accettazione, curiosità e apertura verso le esperienze del momento presente– ha avuto diversi effetti benefici, quando integrata nelle terapie per trattare l’abuso di sostanze (Regan et al., 2020). La possibilità di intervenire sulla riduzione dei comportamenti di dipendenza, oltre che alla riduzione dello stress e dell’ansia, sembra suggerire la mindfulness come un valido strumento per diminuire l’uso problematico dello smartphone (Regan et al., 2020).

Liu e colleghi (2018) hanno riscontrato l’esistenza di una correlazione tra lo stress percepito e l’uso problematico dello smartphone (Liu et al., 2018). Questa correlazione era meno significativa in individui il cui uso del telefono era mediato dall’autocontrollo e moderato dalla pratica della mindfulness (Liu et al., 2018). Li e Hao (2019) hanno osservato che l’impatto negativo dell’alessitimia su individui dipendenti dallo smartphone era molto inferiore tra coloro che praticavano abitualmente mindfulness, e ciò può suggerire che la mindfulness può aiutare a moderare l’uso problematico del telefono (Li e Hao, 2019). Regan e colleghi (2018) hanno osservato come la pratica della mindfulness riducesse notevolmente gli effetti nella nomofobia e della tendenza alla noia (Regan et al., 2018).

Sembra quindi che la mindfulness possa aiutare l’individuo a prevenire lo sviluppo di un uso disfunzionale dello smartphone, insegnando la regolazione degli stati interni e aiutando a gestire i pensieri, le emozioni e i comportamenti legati alla dipendenza da telefono (Regan et al., 2020).

Tecnologia persuasiva e comportamenti pro-ambientali: una prospettiva psicologica

La tecnologia persuasiva può essere definita come l’insieme dei sistemi e degli ambienti che sono progettati per modificare l’elaborazione cognitiva, gli atteggiamenti e i comportamenti dell’uomo.

 

 La tecnologia, fin dai tempi più remoti, ha avuto il compito di semplificare la vita dell’umanità. Con il tempo l’applicazione tecnologica ha portato con sé anche una serie di conseguenze negative, tra cui l’aumento dell’inquinamento e degli scarti industriali. Nonostante questo, la tecnologia può essere utilizzata come mezzo per facilitare il conseguimento di un obiettivo. In questo articolo vedremo proprio come la tecnologia possa essere usata per favorire l’adozione di comportamenti pro-ambientali.

Qual è il rapporto che intercorre tra la tecnologia e il comportamento umano?

Le politiche ambientali fanno uso delle nuove tecnologie per ridurre l’impatto ecologico. Il rapporto che intercorre tra tecnologia e comportamento umano è inevitabilmente intrecciato. Basti pensare che qualsiasi tecnologia prima di essere considerata utile e utilizzabile deve essere accolta dal consumatore.

Ad esempio, se consideriamo l’applicazione della tecnologia per ridurre l’inquinamento automobilistico, a partire dalla produzione di automobili sempre più ecosostenibili, notiamo fin da subito che all’aumentare dell’utilizzo della nuova tecnologia viene a ridursi l’effetto “green” della tecnologia stessa (maggiore è l’uso della tecnologia da parte dei consumatori, maggiori saranno gli esemplari prodotti della tecnologia e di conseguenza aumenteranno anche i consumi per produrla).

Questo prende il nome di effetto rimbalzo, cioè, in questo caso, la maggiore efficienza donata dalla tecnologia influenza il comportamento degli automobilisti che tendono a viaggiare maggiormente in auto in virtù della maggiore resa del veicolo (o di qualsiasi altra tecnologia; Midden et al. 2007). Con questo esempio appare chiaro come il consumatore possa essere influenzato nelle scelte sia dal contesto (e.g. norme sociali-tutti acquistano automobili elettriche, quindi, è consigliabile fare lo stesso) sia dall’uso di tecnologie persuasive.

Il tema della tecnologia persuasiva è stato trattato nell’articolo “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” e può essere definito come l’insieme dei sistemi e degli ambienti che sono progettati per modificare l’elaborazione cognitiva, gli atteggiamenti e i comportamenti dell’uomo (Fogg, 2003). Nell’articolo sono state definite tutte le proprietà che rendono le tecnologie molto più persuasive dell’umano e i vari ruoli che possono ricoprire per favorire la persuasione.

Gli stessi principi sono validi anche per la promozione dei comportamenti pro-ambientali.

Il rapporto tra tecnologia e persuasione

La persuasione non ha nulla a che fare con i vari libri che girano in rete sul come “invogliare gli altri a fare quello che si vuole” o “riuscire a influenzare il proprio partner”. La persuasione, in psicologia, è un tema ostico perché non presenta una definizione univoca.

Come già visto nell’articolo “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” è possibile persuadere le persone mediante l’uso di tecnologie. La persuasione attuata dalle tecnologie fa comunque riferimento a forme di influenza sociale utilizzate tra persone, ma si differenzia da queste perché ha l’obiettivo di modificare atteggiamenti e comportamenti di una persona evitando la coercizione o l’utilizzo di inganni (Fogg, 2003).

Le principali forme di influenza sociale sono tre:

  • Compliance. La persona cambia il proprio comportamento in modo temporaneo dopo aver ricevuto un consiglio o una richiesta diretta. Solitamente il cambiamento di comportamento è superficiale (Cialdini e Trost,1998).
  • Obbedienza. Simile alla compliance, ma associata a una figura di potere che viene vista come centrale nell’influenza (per es., un maggiore che dà un ordine). Anche in questo caso, il cambiamento di comportamento è superficiale, ma è fortemente legato alla fonte di potere (Milgram,1974).
  • Conformità. Indica un cambiamento individuale o gruppale, molto profondo che deriva da una pressione esercitata da un gruppo a cui si appartiene o a cui ci si oppone (per es. casi di maggioranza e minoranza, solitamente la maggioranza esprime una maggiore pressione sociale che porta la minoranza a conformarsi, anche se esistono dei casi in cui la minoranza riesce a influenzare la maggioranza; Moscovici,1985).

Le seguenti forme di influenza sociale sono state applicate, in alcuni studi, anche dalle tecnologie con lo scopo di influenzare le persone. I risultati hanno mostrato come tecnologie supportate con questi approcci riuscivano a influenzare maggiormente i soggetti rispetto a tecnologie non supportate (Midden e Ham 2009).

Promuovere comportamenti pro-ambientali mediante la tecnologia

Nell’articolo sulla captology “Captology: la persuasione che passa attraverso la tecnologia” sono state indicate le principali forme attraverso cui le tecnologie possono essere più persuasive:

Tecnologia come attore sociale

La tecnologia che promuove comportamenti pro-ambientali può essere considerata come un attore sociale (parte della socialità, cioè l’interazione sociale può avvenire tra persona e tecnologia) quando:

  • fornisce feedback sociali (riscontri sociali) in tempo reale sul consumo di energia in funzione delle scelte attuate dalla persona (per esempio, quando si sceglie il programma per la lavatrice prima di far partire il lavaggio si potrebbe far presentare un messaggio scritto o vocale in cui si indica se la decisione presa salvaguarda l’ambiente o meno). Infatti, ricevere un feedback sociale negativo porta la persona a elaborare maggiormente l’informazione ricevuta rispetto a un feedback (riscontro) positivo (Baumeister et al. 2001).
  • presenta alcune proprietà umanoidi (corpo umanoide e linguaggio umanoide; Vossen et al. 2010). Bisogna sottolineare “alcune” perché non è necessario che la tecnologia sia estremamente simile all’umano per essere persuasiva. Inoltre, è importante evitare il fenomeno della reattanza psicologica, cioè un’avversione emotiva e comportamentale verso uno stimolo (persone e agenti artificiali). Nel nostro caso può capitare che un messaggio della tecnologia venga percepito come troppo “minaccioso” dalla persona che potrebbe, un po’ per confermare la propria autonomia, fare l’opposto di ciò che è stato consigliato.

Tecnologia come mediatrice di esperienza

Negli ultimi anni i governi mondiali hanno lanciato campagne di comunicazione di massa per sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi ambientali, spesso con risultati deludenti (Bartels e Nelissen 2001).

Infatti, come visto nell’articolo “Cambiamento climatico antropogenico: una prospettiva psicologica”, è molto complesso riuscire a sensibilizzare le persone su tematiche astratte e difficili da immaginare, come con il cambiamento climatico.

 Però attraverso l’uso di tecnologie come mediatrici dell’esperienza è possibile persuadere l’opinione pubblica. Le applicazioni sono tante: è possibile usare le rappresentazioni 3D e multisensoriali per far percepire le possibili esperienze sensoriali (IJsselsteijn, 2004) associate al cambiamento climatico, oppure far visionare contenuti emotivi associati a tematiche ambientali, così da aumentare il coinvolgimento e indurre le persone a informarsi (Meijnders et al. 2001).

Un esempio di tecnologia persuasiva pro-ambiente che possiamo provare sulla nostra pelle è l’utilizzo di luci calde così da percepire, erroneamente, l’ambiente in cui ci troviamo più caldo, così come dimostrato dagli studi di Lu e collaboratori (2015).

Tecnologia come tool

La tecnologia persuasiva per la promozione di comportamenti pro-ambientali può essere usata come tool (applicazione tecnologica o strumento) in due principali modi.

  • Intelligenza ambientale. Con questa espressione si indica l’intera gamma delle tecnologie che ci circonda e che sono connesse tra di loro per coordinarsi così da mettersi a disposizione dell’umano senza risultare invadenti. Questa applicazione tecnologica consente di essere sempre presente nella quotidianità della persona con feedback che indirizzano, in modo persuasivo, il comportamento.
    Un esempio è WaterBot, un tool che misura il consumo d’acqua di una specifica zona della casa (lavandino, doccia etc.) e dà un feedback, in tempo reale, del consumo (Arroyo et al. 2005).
  • Interventi di gruppo. Il principale consumo deriva dalla partecipazione di più persone a uno stesso sistema, di conseguenza è necessario pensare a come si possano usare delle tecnologie persuasive all’interno di un ambiente popolato da più persone.

Uno studio di Midden et al.(2011) ha dimostrato come sia possibile usare un sistema intelligente implementato in due abitazioni simulate nei Paesi bassi (cultura individualista) e in Giappone (cultura collettivista) e ottenere mediante l’uso di feedback individuali e di gruppo sul consumo energetico, una diminuzione dello stesso.

In particolare, i feedback individuali sono stati più efficaci di quelli collettivi nel ridurre il consumo nei Paesi Bassi mentre è accaduto il contrario in Giappone, in cui i feedback di gruppo hanno avuto un maggiore effetto sul consumo, dimostrando come ci sia una differenza culturale nell’efficacia dei feedback forniti.

Conclusioni

Lo sviluppo tecnologico è promotore di importanti passi in avanti per l’umanità. La gestione delle possibili applicazioni della tecnologia dipende esclusivamente da noi. In questo articolo appare chiaro come le tecnologie persuasive possono ricoprire un ruolo importante per la promozione e per la tutela dell’ecosistema. Chiaramente è necessaria ulteriore ricerca anche per far fronte ai possibili problemi etici che possono scaturire dall’utilizzo di queste tecnologie. Nonostante alcuni dubbi sull’uso di questi strumenti, è importante tener presente che le tecnologie, se gestite dall’umano in modo adatto, possono promuovere e supportare nuove opportunità per il mondo che ci circonda.

 

Lo sviluppo sociale

Lo sviluppo sociale indica il modo in cui nel corso della crescita individuale i bambini interagiscono e si relazionano con gli altri e come cambiano i comportamenti, le condotte, gli atteggiamenti, i sentimenti, i concetti, le idee, le emozioni esperite dal bambino.

 

 Fin da quando sono molto piccoli, i bambini manifestano una particolare e innata capacità di pre-adattamento sociale, cioè una predisposizione biologica alla comunicazione sociale, una motivazione molto forte che li spinge a esplorare l’ambiente circostante, a processare gli stimoli sensoriali e a entrare in connessione con gli altri. La forza dinamica e innata che li spinge alla socializzazione e alla scoperta dell’ambiente trova la sua massima espressione intorno al secondo anno di vita, quando i bambini cominciano a relazionarsi tra loro e a interagire con la realtà attraverso il gioco.

Il gioco è un aspetto centrale dello sviluppo cognitivo, emotivo, sociale e morale del bambino, in quanto nel gioco il bambino apprende nuove modalità di esperire il mondo e di captare gli input esterni. Possiamo distinguere almeno 5 tipologie di gioco, che variano a seconda dell’età di sviluppo del bambino.

Il gioco solitario

Il gioco solitario è tipico dei bambini piccoli, con pochi mesi di vita, che non si pongono in una condizione di reciprocità con gli altri e che pertanto non ancora interagiscono pienamente a livello sociale.

Il gioco simbolico

Compare intorno al 12-15 mese, nel periodo di transizione tra lo stadio sensomotorio e quello preoperatorio, cioè i primi due stadi dello sviluppo cognitivo descritti dallo psicologo Jean Piaget. Secondo Jean Piaget, la cognizione umana è il risultato di un adattamento all’ambiente, alla base del quale si collocano i fenomeni di assimilazione, cioè di acquisizione degli stimoli esterni, e di accomodamento, cioè di adeguamento degli schemi di pensiero alle richieste ambientali. Al termine del primo stadio dello sviluppo cognitivo, intorno al secondo anno di vita, il bambino acquisisce la capacità di simbolizzazione dell’esperienza sensoriale: da questo momento in poi è in grado di operare sul mondo circostante senza averci realmente a che fare, cioè può raffigurarsi mentalmente gli eventi anche senza percepirli direttamente attraverso i sensi. Il simbolo è un’immagine sensoriale interiorizzata, tramite la quale il bambino manipola e trasforma gli eventi e gli oggetti esterni, astraendoli dalla loro dimensione materica e rappresentandoseli nella mente in maniera intuitiva ed immediata, secondo una rudimentale economia cognitiva.

Non solo il bambino diventa abile nell’utilizzo del simbolo, ma anche nel linguaggio e in particolar modo nel gioco: il gioco simbolico, che si sviluppa fino ai sei anni, consente al bambino di decodificare la realtà attraverso l’utilizzo di simboli. È un gioco di finzione, caricato di una forte componente immaginativa, attraverso il quale il bambino utilizza un oggetto per raffigurare qualcos’altro: il bambino ad esempio simula di mangiare da un piatto vuoto o di dormire anche se non ha sonno. Ricrea una scena, mette in atto azioni abituali, concrete e quotidiane, ma al di fuori delle loro circostanze usuali, al fine di intrattenere sé stesso e sfogare la sua creatività. Si tratta, pertanto, di un gioco definalizzato e decontestualizzato.

Il gioco parallelo

Compare tra il primo e il terzo anno di vita, quando il bambino ha ormai sviluppato pienamente la sua attitudine esplorativa. In questo tipo di gioco il bambino mette in atto comportamenti dotati di una forte intenzionalità e comincia ad avere delle interazioni, seppur brevi e isolate, con i coetanei. È una forma di gioco permeata ancora da una certa individualità, in cui tuttavia i bambini si aiutano vicendevolmente.

Il gioco complementare

Compare intorno al terzo anno, quando i bambini cominciano a stringere le primissime amicizie, a selezionare i compagni di gioco e ad interagire maggiormente col gruppo dei pari. I bambini in questo tipo di gioco iniziano a scambiarsi ruoli, oggetti inventati e immagini e le relazioni assumono connotazioni speculari.

Il gioco sociale o sociodrammatico

 Compare nel periodo compreso tra il quarto e il sesto anno di vita e nello specifico nell’età scolare. In questo tipo di gioco i bambini si impegnano in attività ludiche fortemente immaginative, vivaci e a tratti drammatizzate, nelle quali inventano una realtà che esiste solo nel loro animo saturo di brio ed energia e stabiliscono specifici ruoli socio-drammatici. I bambini cominciano ad organizzare in sequenze strutturate le loro attività di intrattenimento, a simulare personaggi riconoscibili e interpretare scene quotidiane e situazioni di vita reale e al contempo cercano di mantenere la medesima struttura di fantasia del compagno di giochi (intercoordinazione).

Attraverso questo tipo di gioco il bambino può soddisfare il suo bisogno recondito di scoperta, di manipolazione dell’ambiente esterno, di esplorazione dinamica del mondo e compartecipazione attiva al ritmo della vita. Inoltre, apprende le principali caratteristiche delle relazioni e dei rapporti; le fondamentali regole della comunicazione umana; i valori morali quali il rispetto, la lealtà, la solidarietà e l’altruismo; sviluppa un senso morale positivo; il concetto di sé come essere unico e distinto dagli altri. Ha modo di entrare in contatto con un complesso spettro emotivo, testare le sue reali potenzialità, le sue competenze e abilità; confrontarsi con gli altri; migliorare i suoi limiti; lanciare sfide ai suoi compagni di gioco, collaborare attivamente con i compagni di gioco; valutare realisticamente le sue capacità; stringere legami interpersonali solidi; scoprire l’importanza dell’amicizia e del calore umano. Grazie al gioco sociale amplia la sua rete di relazioni affettive e attraverso il dialogo veicola le sue idee, le sue intenzioni, le sue sensazioni, i suoi desideri e i suoi schemi di pensiero. Il gioco sociale assolve anche ad un ruolo catartico a livello psichico, in quale consente al bambino di trarre da esso un senso di sollievo psicologico: il bambino vive il gioco come se fosse qualcosa di reale e concreto, nelle attività ludiche proietta sentimenti potenti, forze dinamiche, processi emotivi, energie inconsce, percezioni e impressioni, riversa il suo vissuto interiore e il lato più istintivo di sé, offrendo al mondo esterno la possibilità di decifrare la complessità e l’unicità della sua sensibilità e della sua visione delle cose. Un importante aspetto di questa tipologia di gioco è sicuramente il notevole investimento immaginativo operato dal bambino, il quale dimostra non solo un’abilità di simbolizzazione ma anche una buona capacità riflessiva: l’immaginazione è l’esito dello sviluppo della capacità di mentalizzazione, cioè la facoltà di pensare cosa gli altri pensano, di conoscere i propri processi psichici ma anche la mente altrui e di attribuire a sé e agli altri stati interni, affettivi ed emotivi. L’immaginazione consente al bambino di ottimizzare la qualità del suo gioco, in quanto tramite essa il bambino crea oggetti che non esistono o che non possono essere concretamente percepiti mediante i sensi e immagina caratteristiche che un oggetto non possiede. L’acquisizione dell’immaginazione avviene anche grazie alla mind-mindedness, cioè la capacità della madre di fare sentire il bambino come un essere pensante nella propria mente.

Dismorfismo muscolare: quando l’ideale femminile diventa autodistruttivo

Secondo Pope e collaboratori (1993), tra i primi a studiare il Dismorfismo muscolare, nello sviluppo del disturbo avrebbe un ruolo centrale l’insoddisfazione corporea.

 

 Questo articolo si concentra su quella parte del wellness femminile caratterizzata da una significativa sofferenza psichica dovuta alla propria immagine corporea, nel caso specifico alle dimensioni e alla perfezione dei propri muscoli. Le radici dell’emergere in letteratura di questi temi si legano alle basi culturali sulle quali si costruisce la mente delle donne in questione. Una ricerca dimostra infatti che ad oggi l’ideale di muscolosità sia molto forte tra le donne (Boepple et al., 2016). Questo articolo si sofferma sugli aspetti psicopatologici collegati, sottolineando la grande differenza che c’è tra il coltivare il proprio ideale corporeo, rispetto invece alla vera e propria psicopatologia e il suo possibile sviluppo, dimostrato anche dalle ricerche sul genere femminile. Non è obiettivo di questo articolo individuare le caratteristiche di personalità delle donne considerate, ma esclusivamente la manifestazione di sintomi e disfunzioni significative a cui si può incorrere.

Caratteristiche psicopatologiche del dismorfismo muscolare

Il dismorfismo muscolare  è stata descritta come una variante del disturbo da dismorfismo corporeo, riguardante una forte preoccupazione riguardo la percezione del proprio corpo come non abbastanza magro e muscoloso (McFarland & Karninski, 2008; Pope et al., 2005; Phillips et al., 1997).

In uno studio del 2021 su adolescenti australiani, la prevalenza del dismorfismo muscolare era del 2,2% nei maschi e dell’1,4% nelle femmine, sottolineandone lo sviluppo anche in questa fascia d’età ed in entrambi i generi (Mitchison et al., 2021).

Una ricerca pubblicata quest’anno conferma la possibilità di utilizzare il “Muscle Dysmorphic Disorder Inventory” (Hildebrandt et al., 2004), un questionario che valuta le principali caratteristiche del dismorfismo muscolare, anche nelle donne, confermandone la validità e la possibilità di diagnosticare il disturbo (Nagata et al., 2022). Il questionario è caratterizzato da tre domini individuati statisticamente, la ricerca delle dimensioni, l’intolleranza del proprio aspetto e la compromissione del funzionamento. Ciò è coerente con il fatto che livelli eccessivi di esercizio, nonché steroidi anabolizzanti e altri integratori sono componenti comportamentali chiave del disturbo (Gruber e Pope, 1999, Pope et al., 1997).

Quando si rientra nei criteri patologici di questa diagnosi, il corpo è oggetto di modificazioni dannose. Alcuni fattori principali sono stati messi insieme nel lavoro di Foster e colleghi del 2015, e possono essere la dipendenza dal bodybuilding, il muscle checking, l’uso di sostanze, la presenza di infortuni o l’insoddisfazione muscolare. Questo disturbo fu inizialmente catalogato come anoressia nervosa inversa, per via delle caratteristiche riguardanti il peso corporeo (Pope et al., 1993). Inoltre, sono state identificate caratteristiche parallele al disturbo ossessivo-compulsivo (Phillips, 1998). In sintesi, sembra che questo disturbo si componga di aspetti legati al dismorfismo corporeo, al disturbo ossessivo compulsivo e ai disturbi alimentari (Jones & Morgan, 2010; Maida & Armstrong, 2005; Murray et al., 2010; Nieuwoudt et al., 2012; Pope et al., 1997; Pope et al., 2005). Altri autori hanno considerato il dismorfismo muscolare come un’addiction (Demetrovics & Griffiths, 2012).

Il dismorfismo muscolare è caratterizzata dal pensare per più di tre ore al giorno a come diventare più muscoloso/a, dalla credenza di non avere sufficiente controllo sull’attività di sollevare pesi, dall’interferenza significativa sulla propria vita sociale e lavorativa dell’esercizio fisico e della dieta, dall’evitamento di altre persone dovuto alla preoccupazione di mostrare i propri muscoli, dal controllo costante del proprio corpo allo specchio e/o camuffamento per nasconderlo, ad esempio con vestiti larghi (Tod et al., 2016).

Nel DSM-5 (APA, 2013), il dismorfismo muscolare si colloca come specificatore del disturbo da dismorfismo corporeo, nella sezione “disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi correlati”. Brevemente, i sintomi per soddisfare tale diagnosi sono una preoccupazione per difetti percepiti nell’aspetto fisico non rilevati dagli altri, comportamenti ripetitivi come potrebbe essere il guardarsi allo specchio, preoccupazioni riguardo l’aspetto, il disagio che ne consegue clinicamente significativo in diversi ambiti di vita. Inoltre per il manuale la preoccupazione non si lega ai criteri di un disturbo alimentare, e si valuta il grado di insight delle convinzioni, in questo caso riguardanti i muscoli.

Dal punto di vista comportamentale anche secondo altre ricerche, gran parte della giornata trascorre pensando alla propria muscolatura, con costante monitoraggio ed evitamento sociale (Dèttore et al., 2020; Olivardia, 2001; Phillips & Diaz, 1997).

Secondo Pope e collaboratori (1993), tra i primi a studiare questa psicopatologia, sarebbe l’insoddisfazione corporea ad avere un ruolo centrale per lo sviluppo del disturbo. Tra le motivazioni spicca, oltre all’insoddisfazione corporea, la sua plasticità. Suffolk (2015) mette in evidenza l’importanza per le donne di modificare il corpo come preferiscono, lavorando su quelle parti per le quali sentono maggiormente il bisogno. Il craving potrebbe avere in seguito un ruolo importante. La ricompensa correlata al piacere di mantenere un’immagine corporea ideale può essere ricercata continuamente, allo stesso modo con cui si ricercano certe sostanze psicoattive, in maniera continua e dispendiosa nelle forme patologiche. Foster e colleghi (2015) hanno osservato le seguenti caratteristiche che possono favorire lo sviluppo ed il mantenimento del disturbo con una chiave di lettura legata alle addiction. Questi aspetti sono una totale preoccupazione sulle attività che mantengono l’immagine corporea, i sintomi legati alla dieta, le sostanze assunte, l’eccessiva attività sportiva, la modificazione dell’umore legata al sistema della ricompensa, la tolleranza, la fatica psicologica, la dipendenza dalle endorfine dovuta all’esercizio compulsivo. Anche il piacere di apparire in pubblico durante le competizioni può giocare un ruolo importante (Suffolk, 2015).

 Fabris e colleghi (2018) hanno trovato una correlazione tra il disturbo e stili di attaccamento insicuri, seppur in uno studio sugli uomini. Vi è inoltre un’associazione tra il criticismo genitoriale durante la crescita e il dismorfismo muscolare nelle donne, con un’importante mediazione del sistema di attaccamento (Badenes-Ribera et al., 2021). Questi aspetti sono fattori di rischio nello sviluppo di un’immagine negativa del proprio corpo e la conseguente possibilità di sviluppare un disturbo da dismorfismo corporeo. Soprattutto dall’adolescenza si tende a dare un’importanza rilevante al corpo, in particolar modo nelle giovani donne (Esnaola et al., 2010).

Possono esservi tracce anche di abusi nell’infanzia oppure altri eventi traumatici. Inoltre, la paura di essere vulnerabili gioca un ruolo sul forte investimento sull’apparenza e l’ossessione per il corpo ed i suoi muscoli (Tod et al., 2016).

Aspetti socioculturali ed emotivi correlati

Studi recenti hanno suggerito cambiamenti nell’ideale del corpo femminile che pongono maggiore enfasi sull’essere tonici, in forma o atletici; parallelamente si è notato che le donne hanno una spinta crescente alla muscolatura (Campos et al., 2021). Questo ideale muscolare tonico può essere caratterizzato sia da magrezza (ad esempio, bassa percentuale di grasso corporeo) che da muscolosità ed è percepito –in uno studio su alcuni studenti universitari– come più attraente della magrezza in assenza di definizione muscolare (Bozsik, et al., 2018). Le influenze socioculturali, come una maggiore promozione mediatica del corpo femminile tonico, svolgono un ruolo importante in questi ideali di bellezza e nel desiderio di muscolosità tra alcune donne (de Carvalho et al., 2017, Girard et al., 2018). Nella ricerca di una maggiore muscolatura, gli individui si impegnano patologicamente in attività di costruzione muscolare, come esercizio fisico eccessivo, uso di steroidi anabolizzanti e aderenza a regimi dietetici rigorosi (Pope et al., 1997). Questi comportamenti richiedono tempo e si correlano alla vergogna o alla paura di farsi vedere dagli altri (Olivardia et al., 2000).

Il disgusto verso sé stessi è stato correlato all’ideazione suicidaria, e farebbe da mediatore tra il disturbo dell’immagine corporea e l’ideazione suicidaria stessa. I risultati di questa ricerca evidenziano il ruolo del disgusto di sé nel trattamento dei disturbi dell’immagine corporea e nelle sue conseguenze più dannose (Akram et al., 2022).

Un ultimo studio rileva l’associazione tra l’esercizio fisico eccessivo e il dismorfismo muscolare (Hale et al., 2013). Il collegamento interessante riguarda il ruolo della dipendenza emotiva in questa correlazione, con il bisogno di attirare l’attenzione del partner tra gli aspetti motivanti (Olave et al., 2021).

Conclusioni

Con questo articolo si è cercato di fare chiarezza differenziando il dismorfismo muscolare, intesa come psicopatologia che causa una significativa sofferenza psichica nel soggetto in diversi ambiti di vita, da tutte quelle attività sportive che invece non riguardano il disturbo. Si è inoltre osservata la validità del costrutto anche nelle donne. Non è stato posto come obiettivo la comprensione del motivo per cui alcuni ideali corporei si siano affermati maggiormente piuttosto che altri, considerando che non rappresentano di per sé alcun tipo di problematica nella vita delle persone. Ciò su cui si è soffermato questo articolo è stato il cercare di comprendere quali siano le caratteristiche principali alla base del disturbo nel genere femminile, considerando alcune delle ricerche in letteratura.

Riassumendo, si evince che alcuni dei temi centrali siano l’insoddisfazione del proprio corpo, che può prendere un certo tipo di modificazione a seconda del proprio modello ideale, in questi casi eccessivamente rigido e punitivo, che una volta raggiunto è difficile da mantenere. Un aspetto che può caratterizzare la psicopatologia è la grande sofferenza psichica prodotta dalla distanza esistente tra la percezione di se stessi ed il proprio modello ideale; appena raggiunto tale modello ideale, la persona può tendere svilupparne uno ulteriore, non accontentandosi mai, ma soprattutto con la sperimentazione di dolore psichico ed insoddisfazione, anziché rendere la persona contenta del proprio livello agonistico. Un altro elemento è il rimuginare, per quanto concerne il pensiero, su come diventare maggiormente muscolose o definite. Vi è poi la credenza secondo cui non si abbia sufficiente controllo sul proprio corpo e sulla propria attività, che spinge ad agire. Un altro elemento riguarda la ricerca dello sguardo altrui, di apparire nelle competizioni pubbliche e di attirare l’attenzione delle persone importanti nella propria vita, il che non è un aspetto negativo, ma va sempre considerato nei termini dell’interpretazione mentale che la persona ha degli eventi, correlata alla paura di non aver soddisfatto lo sguardo dell’altro, e le conseguenze che questo può avere sull’atleta. La vulnerabilità e le situazioni che possono causarla vengono considerate pericolose e da evitare. Oltre alla paura, altre emozioni centrali nel disturbo sono il disgusto verso se stessi e la vergogna di mostrare i propri muscoli nonostante il costante lavoro su di essi, collegati anche a pensieri suicidari. Infine il criticismo degli altri appare un nucleo importante sin dalle prime relazioni di attaccamento.

L’influenza dell’innamoramento sul sonno

La ricerca scientifica ha cercato di suddividere le fasi dell’innamoramento, distinguendo tra infatuazione e innamoramento. In particolare l’infatuazione sembra essere maggiormente diffusa tra il primo e l’ottavo mese e porta con sé diverse emozioni che talvolta includono sentimenti di euforia, pensieri intrusivi e desiderio di unione emotiva, con possibili effetti sul sonno.

 

Gli effetti dell’innamoramento in adolescenza

 Durante l’adolescenza i sentimenti sono particolarmente travolgenti. Tra questi, l’innamoramento, una “perturbazione emotiva” a qualsiasi età, può non essere percepito solo come un sentimento positivo, ma causare stress ed effetti negativi. Questo avviene soprattutto se il sentimento non è corrisposto, influenzando così il benessere in molti ambiti della vita dell’adolescente (Stoessel et al., 2011). Alcuni studi hanno trovato infatti che, nelle giovani donne, dopo aver chiesto loro di riflettere sulla relazione sentimentale, l’amore fosse associato a sintomi depressivi, livelli elevati di ansia e a un aumento del livello di colesterolo (Loving et al., 2009).

Siccome amore e innamoramento sono concetti molto ampi e sfaccettati, la ricerca scientifica ha cercato di suddividere le fasi, distinguendo tra infatuazione, che precede le prime fasi dell’amore ed è una passione travolgente verso una persona, e attaccamento, che si sviluppa invece come forma più lenta di amore ed è un legame emotivo più stabile (Langeslag & van Strien, 2016). L’infatuazione sembra quindi essere maggiormente diffusa tra il primo e l’ottavo mese e porta con sé diverse emozioni che talvolta includono sentimenti di euforia, pensieri intrusivi e desiderio di unione emotiva (Fisher, 1998).

L’adolescenza è un periodo caratterizzato da molti cambiamenti: cervello e corpo cambiano molto rapidamente e tipicamente il progresso psicologico e sociale verso l’età adulta è molto più lento. Inoltre, la corteccia prefrontale, completa il suo sviluppo molto tardi e vi sono diversi cambiamenti nello sviluppo dei circuiti di ricompensa del cervello che spesso sono responsabili della mancanza di controllo emotivo ed esecutivo durante l’adolescenza (Galvan, 2010). Queste mancanze sono esacerbate da desideri sessuali e forti emozioni romantiche. Alcune ricerche mostrano infatti come le relazioni romantiche in adolescenza possano provocare sia un peggioramento che un miglioramento nel benessere mentale (Ciairano et al., 2006) e che vi sono alcune differenze tra ragazzi e ragazze, in particolare queste ultime sembrano sperimentare più frequentemente effetti negativi.

Inoltre, durante l’adolescenza avvengono molti cambiamenti ormonali causati dallo sviluppo del cervello e del corpo che influiscono sui sentimenti di innamoramento e di attrazione sessuale. Tra questi, durante la pubertà, variano soprattutto testosterone ed estrogeni, associati a maggiori impulsi sessuali, e vasopressina e ossitocina, implicate nei legami e nell’attaccamento (De Boer et al., 2012). Nelle prime fasi dell’innamoramento sembrerebbe infatti che la secrezione di testosterone aumenti nelle femmine e diminuisca nei maschi, mentre si verifica un aumento del fattore di crescita nervoso (FCN). Tali cambiamenti solitamente diminuiscono con il trascorrere del tempo dall’inizio dell’innamoramento; uno studio ha mostrato infatti che i livelli di FCN e testosterone sono diminuiti drasticamente dopo un follow up di un anno (Emanuele et al., 2006).

In generale, è possibile quindi pensare che i cambiamenti corporei che si verificano nelle ghiandole endocrine e nel cervello, rendono molto facile un rapido innamoramento per un adolescente, che potrebbe non essere pronto per tali emozioni così forti e sperimentare dunque disagio (Carskadon, 2011).

Gli effetti dell’innamoramento sul sonno negli adolescenti

 I cambiamenti adolescenziali possono essere valutati tramite il sonno, il quale solitamente si riduce in quanto i ragazzi tendono ad andare a letto più tardi e la durata del sonno diminuisce (Gradisar et al., 2011). Sembra infatti che sia i cambiamenti biologici che la pressione sociale abbiano un ruolo nell’influenzare gli adolescenti, ma non è ancora noto come l’amore romantico possa condizionare il sonno. Una ricerca precedente ha dimostrato che il sonno di molti ragazzi è diminuito di circa un’ora in corrispondenza delle prime fasi dell’innamoramento, durante le quali, però, sembrava diminuire la sonnolenza diurna (Brand et al., 2007). Il sonno spesso diminuisce poiché l’angoscia per i vissuti emotivi e le difficoltà nel gestire i sentimenti si manifestano con sintomi di insonnia e minore durata del sonno. In questo aspetto vi sono molte differenze tra i sessi, probabilmente causate anche dai diversi ritmi di maturazione puberale, responsabili delle relazioni in età precoce da parte delle femmine (Sisk & Foster, 2004).

Uno studio di Kuula e colleghi del 2020 aveva come obiettivi quello di indagare la durata, la qualità e il tempo del sonno degli adolescenti che vivevano turbolenze emotive dell’infatuazione in fase iniziale, e confrontare il sonno di coloro che hanno riferito di essere nelle prime fasi dell’amore con quello di coloro che non lo erano.

1374 adolescenti (66% ragazze; età media 16,9 anni) sono stati sottoposti a diversi questionari inerenti l’amore romantico, il benessere mentale e il comportamento del sonno. Inoltre, un sottocampione è stato sottoposto a un periodo di registrazione di una settimana dell’actigrafia (GENEActiv Original, Activinsights, Kimbolton, UK), ovvero un esame per lo studio del sonno.

I risultati, come ipotizzato, mostrano che l’11% dei partecipanti ha riferito di essere nelle prime fasi di una relazione romantica; tra questi, gli adolescenti che erano innamorati avevano punteggi molto più elevati di depressione e ansia. Inoltre, le ragazze innamorate hanno riportato tempi di addormentamento più lunghi, una qualità del sonno più scadente e una durata più breve, sia durante la settimana che nel weekend, rispetto a coloro che non si dichiaravano innamorate.

Sembra che, in alcuni casi, l’amore romantico costituisca una criticità per la durata e la qualità del sonno, sebbene i sentimenti di infatuazione siano importanti e possano essere un insegnamento per i ragazzi.

I segni dell’Abuso Sessuale in Età Infantile sull’Eccitazione Sessuale nelle Donne Abusate – FluIDsex

Alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale.

 

 L‘abuso sessuale infantile (Childhood Sexual Abuse; CSA) è un problema sociale che si stima colpisca tra il 22,3% e il 28% della popolazione femminile ed è generalmente definito come contatto sessuale indesiderato tra un bambino e un adulto, che può includere penetrazione orale, vaginale e/o anale con un pene, dita o oggetti estranei, contatto sessuale forzato e rapporti sessuali senza contatto (Pulverman et al., 2018).

Abuso sessuale infantile e disfunzioni sessuali

L’esperienza di abuso sessuale infantile è spesso associata a una serie di problemi nell’età adulta, tra cui la disfunzione sessuale e l’insoddisfazione sessuale (Rellini e Meston, 2011) soprattutto nelle donne (Laumann et al., 1999). L’abuso sessuale infantile è, infatti, uno dei fattori di rischio più salienti per lo sviluppo di problemi con il desiderio sessuale, problemi di eccitazione sessuale, raggiungimento dell’orgasmo, vaginismo, dispareunia e bassa soddisfazione sessuale (Leonard e Follette, 2002). In particolare, rispetto a qualsiasi altro tipo di disfunzione sessuale, sembra esserci un rischio maggiore di disturbo dell’eccitazione sessuale (Laumann et al., 1999). Questo disturbo viene definito dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) come la mancanza o riduzione significativa dell’interesse/eccitazione sessuale per una durata minima di circa sei mesi e che causa disagio clinicamente significativo nell’individuo (American Psychiatric Association, 2014). Generalmente, donne che presentano problemi di eccitazione sessuale, riferiscono la mancanza di eccitazione a qualsiasi stimolo come, ad esempio, leggere qualcosa di erotico, dare piacere al partner, ricevere stimolazione orale, mammaria, genitale o impegnarsi in un rapporto sessuale (Basson et al., 2004).

Come anticipato sopra, alcuni dati mostrano un’associazione tra una storia di abuso sessuale infantile e una minore funzione di eccitazione sessuale: donne con abuso sessuale infantile riportano un’eccitazione sessuale significativamente inferiore, riferendo maggiore paura, rabbia e disgusto durante l’eccitazione sessuale con un partner rispetto a donne non maltrattate (Rellini e Meston, 2011). In letteratura, diverse correnti di pensiero hanno tentato di fornire una spiegazione a questa associazione.

Da un punto di vista fisiologico, è stato dimostrato che, le donne con storia di abuso sessuale infantile, hanno livelli più bassi di cortisolo, i quali sono stati associati ad un’iperattivazione del Sistema Nervoso Simpatico (SNS) che aumenta naturalmente durante l’eccitazione sessuale (Rellini e Meston, 2006). Per le donne con storie di abuso sessuale infantile, quindi, l’eccitazione del Sistema Nervoso Simpatico potrebbe già essere così elevata che un ulteriore aumento, che si verifica naturalmente con l’eccitazione sessuale, potrebbe spingere la loro attivazione del SNS oltre l’intervallo ottimale, portando a una funzione sessuale compromessa. Questa compromissione causa una risposta inferiore nelle donne con esperienza di abuso sessuale infantile, ai trattamenti che migliorano direttamente l’eccitazione sessuale genitale rispetto alle donne non abusate (Pulverman et al., 2018).

Le cognizioni sulla sessualità in seguito all’abuso sessuale infantile

Da un punto di vista cognitivo-comportamentale, invece, l’evidenza empirica e teorica supporta l’esistenza di una relazione clinicamente significativa tra schemi del sé sessuale e disfunzione e insoddisfazione sessuale (Heiman, 2002). Gli schemi sono definiti come filtri attraverso i quali le persone percepiscono, organizzano e comprendono le informazioni rilevanti per il sé. In particolare, è possibile che gli schemi sessuali svolgano un ruolo fondamentale nella funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato abuso sessuale infantile, (Rellini e Meston, 2011). Barlow (1986) spiega questa relazione attraverso un modello che pone l’ansia anticipatoria come aspetto centrale dei problemi di eccitazione sessuale. Questo stato di ansia è il prodotto di aspettative negative che facilita il calo dell’attenzione verso segnali non sessualmente rilevanti. Lo spostamento dell’attenzione lontano da segnali sessualmente rilevanti riduce la stimolazione sessuale necessaria per attivare l’eccitazione sessuale. Quando ciò si verifica, gli schemi del sé sessuale dell’individuo possono essere modificati in modo da mantenere la disfunzione sessuale, poiché il problema verrebbe percepito come un aspetto essenziale del sé. Questo circolo vizioso è facilmente osservabile nelle donne con una storia di abuso sessuale infantile: i traumi sessuali precoci possono influenzare la loro percezione del sesso e di conseguenza possono essere a rischio di sperimentare aspettative negative prima delle attività sessuali, distraendole dall’elaborazione di segnali sessualmente rilevanti necessari per l’eccitazione sessuale. Questo supporta l’ipotesi secondo cui gli schemi del sé sessuale prima degli stimoli sessuali spiegano in parte la minore funzione di eccitazione sessuale delle donne che hanno sperimentato CSA rispetto alle donne senza storia di abuso (Rellini e Meston, 2011).

 Un’altra ipotesi, avanzata da una prospettiva cognitivo-comportamentale, è che le donne che hanno esperito un abuso sessuale infantile provano un senso di colpa per aver provato desiderio o eccitazione sessuale (Davis e Petretic-Jackson, 2000); questo le porta a evitare le esperienze emotive negative e di conseguenza a ignorare l’aspetto appetitivo dell’esperienza sessuale, avendo così maggiore probabilità di sviluppare difficoltà a eccitarsi sessualmente (Barlow, 1986). Infatti, seppur l’evitamento sia una forza istintuale di base, che può essere funzionale nel breve periodo risolvendo il problema imminente del soggetto, il suo uso protratto nel tempo può portare a risultati negativi, poiché rinforza le convinzioni di paura che potrebbero portare ad altri problemi con effetti negativi a lungo termine (Elliot, 2006; Holtforth, 2008). Nel tempo, l’evitamento potrebbe rinforzare l’associazione tra l’affettività negativa e la stimolazione sessuale e questo porterebbe a disfunzioni sessuali, inclusi problemi di eccitazione sessuale. Questo è ancora più vero per le donne con forme più gravi di abuso sessuale infantile: l’evitamento porta a evitare esperienze sessuali potenzialmente correttive e ciò si traduce nel mantenimento e rafforzamento di ricordi di esperienze sessuali negative vissute durante l’infanzia. Bisogna anche evidenziare che quando si parla di evitamento di esperienze sessuali correttive, non ci si riferisce solo all’astinenza dalle attività sessuali, ma anche all’uso di distrazioni, dissociazioni e sostanze per alterare la consapevolezza durante le attività sessuali per evitare la connessione interpersonale (Staples et al., 2012).

La mindfulness based sex therapy

Un trattamento che ad oggi sembra avere una buona efficacia nella cura delle difficoltà nell’eccitazione sessuale in donne con storia di abuso sessuale infantile è la mindfulness-based sex therapy, che non punta a migliorare direttamente l’eccitazione sessuale genitale, ma orienta alla consapevolezza del trattamento, consentendo alle donne di disconnettersi da cognizioni negative, come i ricordi dell’abuso, e di partecipare pienamente allo stimolo sessuale nel momento presente (Brotto et al., 2012). Anche i trattamenti di scrittura espressiva sembrano essere particolarmente appropriati per le donne con storia di abuso sessuale infantile, in quanto mirano a migliorare la salute mentale attraverso i meccanismi di esposizione e assuefazione dei ricordi traumatici, diminuzione del desiderio di nascondere ricordi traumatici, espressione emotiva e rivalutazione cognitiva (Pennebaker e Chung, 2011).

In conclusione, nonostante vi siano evidenze secondo cui donne con storia di abuso sessuale infantile riportano conseguenze negative nel funzionamento sessuale, in particolare rispetto alla sfera dell’eccitazione, gran parte delle donne con una storia di abuso è comunque in grado di avere esperienze sessuali funzionali e soddisfacenti (Staples et al., 2012).

L’imagery rescripting, teoria e pratica (2022) di Remco van der Wijngaart – Recensione

In questo libro l’autore approfondisce in modo completo e dettagliato l’utilizzo dell’imagery rescripting (IR), sia come procedura diagnostica sia come modalità terapeutica, durante tutte le fasi del trattamento.

 

 Nella prima parte viene descritta la tecnica in tutte le sue componenti, aggiungendo dati scientifici aggiornati relativi alla sua efficacia e vignette di casi clinici che aiutano la comprensione. Nello specifico, l’imagery rescripting è una tecnica terapeutica in grado di intervenire sul contenuto di eventi traumatici del passato, collegati a schemi maladattivi e sintomi dolorosi del presente. Si recupera dalla memoria un evento passato doloroso e/o traumatico e con l’immaginazione si modifica il decorso della rappresentazione mentale di quell’evento direzionandolo verso una conclusione più favorevole.

Negli ultimi anni, l’utilizzo dell’immaginazione come pratica terapeutica è stata utilizzata prevalentemente dalla terapia cognitivo-comportamentale e dalla Schema Therapy, un approccio che integra la terapia cognitiva con l’approccio dinamico, focalizzando l’attenzione sui bisogni precoci insoddisfatti e i traumi d’attaccamento. L’autore, avendo questa formazione, riesce a portare il lettore all’interno del suo metodo di lavoro spiegando dettagliatamente come l’imagery rescripting possa essere utilizzata in fasi diverse del trattamento con scopi e modalità differenti. Ad esempio, può essere usata in fase diagnostica iniziale con lo scopo di comprendere in che modo la sintomatologia attuale del paziente è collegata a bisogni insoddisfatti o traumi del passato; oppure può essere utilizzata come tecnica di intervento vera e propria in una fase più avanzata del trattamento, proprio per favorire l’elaborazione di traumi, soddisfare i bisogni frustrati dell’infanzia e su un piano cognitivo ri-attribuire una cornice di significato ad un evento doloroso. Può essere usata anche nella fase finale della terapia proprio per andare a consolidare le nuove competenze e abilità acquisite dal paziente nel corso del trattamento.

  L’autore spiega ampiamente come, in una prima fase della terapia, sia il terapeuta stesso ad intervenire nell’immagine dolorosa rievocata dal paziente per effettuare il rescripting. In una fase invece più avanzata, quando nel mondo interno del paziente si è consolidata la figura di “adulto sano”, sarà l’immagine del paziente stesso adulto che interviene nel ricordo traumatico e soddisfa i bisogni della propria parte bambina. Questa tecnica può essere applicata anche sugli eventi futuri che generano ansia e disagio nel paziente, attraverso una specifica procedura descritta nel dettaglio.

Negli ultimi capitoli l’autore riassume le specifiche aree di intervento e le trappole che il terapeuta può incontrare nel lavorare con questo approccio, ponendo particolare attenzione alla capacità del terapeuta di sintonizzarsi con il ritmo del paziente, lavorando su consapevolezza ed empatia.

Il manuale presenta un’ampia appendice con indicazioni pratiche molto utili per sintetizzare le modalità di applicazione della tecnica durante tutte le fasi del trattamento.

Quanti sono gli ‘stati del mondo’? Il ruolo del metaverso

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla.

 

Introduzione

 Il metaverso, tra fantascienza e innovazione tecnologica.

Con metaverso si allude a un ecosistema che collega – in rapporto osmotico – la realtà effettiva a quella virtuale e a quella aumentata.

È il web 3.0, bellezze!

Dal termine “universo” unito al prefisso greco “mèta”, il metaverso è un luogo che risale all’idea dello scrittore N. Stephenson. Nel suo romanzo di fantascienza post-cyberpunk del 1992, ‘Snow Crash’ –ambientato a Los Angeles alla fine del XX secolo– egli narrava di un mondo parallelo a quello reale, localizzato nel cyberspazio, all’interno del quale i soggetti si rifugiavano interagendo tramite i propri avatar.

Esiste però una sostanziale diversità fra il metaverso à la Stephenson e il metaverso in fase di sviluppo attualmente –o meglio, i tanti metaversi (infatti, le piattaforme sono molte). Oggi si tratta di un’architettura tecnologica di “realtà miste” (effettiva, virtuale e aumentata) senza soluzione di continuità, in un ambiente 3D (Riva, 2022). Tanto più sarà la capacità immersiva del soggetto e della tecnologia, nonché la credibilità e la personalizzazione dell’avatar tridimensionale, tanto minore la soluzione di continuità fra le realtà del metaverso. Fino ad arrivare al paradosso, come sostengono alcuni pensatori del metaverso, che tale fluidità faccia collassare le varie realtà in una unica. E, allora, quali fra i probabili “stati del mondo” diventa quello certo? Ci immergiamo quindi in un contesto di incertezza pervasiva.

Come si vedrà più avanti, sotto il profilo delle neuroscienze, la “realtà mista” del metaverso cambia il rapporto tra cervello umano e digitale rispetto alle altre esperienze umane nel cyberspazio. Il metaverso, infatti, costituisce una sofisticata tecnologia “trasformativa”, capace di modificare i meccanismi cognitivi dei soggetti e di mutare la loro idea di realtà (Riva, 2022).

Le caratteristiche dei metaversi

L’avatar tridimensionale del metaverso costituisce una sintesi digitale di aspetti legati alla figura, alle espressioni, alla voce e a tutti i tratti fondamentali del comportamento dell’entità vera –a meno che non si voglia intenzionalmente dissimularla (oltre al dolo, ci sono ulteriori pericoli collegati all’avatar, come si spiegherà più avanti).

Altra caratteristica fondante il metaverso è una struttura decentralizzata costituita dalla polverizzazione di un gran numero di utenti in tanti spazi, come il mercato immobiliare, settore dei videogiochi, eventi virtuali tra cui matrimoni (tra avatar!), e tutti gli altri segmenti digitali (già attuali o potenziali) che sottendono l’intreccio tra esperienze tratte dal mondo reale, fantasia e creatività.

E, a proposito di matrimoni, ci appaiono ancora alquanto bizzarri (semplice questione di abitudine?) quelli celebrati nel cyber. Dal matrimonio tra il medico giapponese e il suo amatissimo ologramma (Fiocca, 2019) alla più recente unione tra una coppia di avatar indiani, con tanto di avatar invitati –ben 2.000, una cosa in grande– tra i quali spiccava l’avatar del defunto padre della sposa (forse un tantino grotty!).

Considerando un’interpretazione strettamente economico-finanziaria, il metaverso crea nuovi “cyber-mercati”, dove –rispetto ai mercati “tradizionali”, anche di natura digitale– si accrescono notevolmente le interazioni e le opportunità di scambio tra soggetti. Il metaverso crea un mercato parallelo dove i soggetti economici –riflessi dei propri avatar– possono effettuare scambi di oggetti digitali, gli Nft (Not fungible token).

Queste nuove opportunità di transazioni, con la creazione di nuovi mercati e la soddisfazione di una domanda innovativa e tecnologicamente sempre più sofisticata da parte degli “avatar-consumatori-investitori”, costituiscono dei miglioramenti in termini paretiani.

E, naturalmente, dove esiste un mercato, esiste un mezzo di pagamento. Qual è la moneta/valuta nel metaverso? Questo argomento rinvia alle criptovalute.

E, inoltre, come vengono contabilizzate/registrate le transazioni? Questo tema rimanda alla blockchain.

E, ancora, chi regolamenta il mercato metaverso? Tale questione rinvia, almeno in parte e nell’ambito della UE, alla strategia europea per i dati.

Tutti aspetti, questi, al centro dell’attuale dibattito.

Criptovalute, blockchain, regolamentazione dei metaversi

Rispetto al primo punto, fra le principali criptovalute ci limitiamo a citare “Sand” del metaverso “The Sandbox”, un marketplace specializzato in Nft di lusso. Viene utilizzata per partecipare a giochi, acquistare accessori volti a personalizzare gli avatar, per acquistare le cosiddette land, ecc. I metaversi sono appunto divisi in lotti di “terreni” tridimensionali sui quali organizzare eventi e sfruttare opportunità di promozione del proprio brand. Come nel mondo reale, i terreni nei metaversi sono scarsi, e naturalmente la loro scarsità ne determina il valore. Senza la scarsità delle land, molti appezzamenti verrebbero probabilmente abbandonati, con ricadute negative su quello specifico metaverso e sui loro utenti. La scarsità delle terre assolve una duplice funzione: assicurare il valore intertemporale dei terreni e, quindi, mantenere “fertili” questi ultimi. In altri termini, assicurare la competitività e lo sviluppo di quello specifico metaverso. Nel Sandbox, il valore dei terreni è attualmente molto elevato.

Associata alle criptovalute, vi è il modello tecnologico della blockchain. Infatti, gli oggetti acquistati tramite le criptovalute rimangono di proprietà dell’utente acquirente in maniera indelebile, poiché la sua proprietà viene registrata sulla blockchain e rimane accessibile dal wallet dell’utente. Si ottiene in tal modo sia la tracciabilità delle transazioni sia la tracciabilità dei diritti di proprietà rimuovendo la necessità degli intermediari tenuti ad agire come terze parti di fiducia: l’impianto della blockchain concorre fortemente all’architettura decentrata del metaverso.

Aspetto cruciale di una blockchain è la interoperabilità: essa è la potenziale capacità di comunicare tra gli ecosistemi blockchain attraverso la costruzione di catene di collegamento. Queste ultime garantiscono che due diversi meccanismi di blockchain siano in grado di connettersi, interagire, condividere informazioni. Ogni singola blockchain memorizza informazioni diverse; pertanto, la creazione di un sistema interoperabile fa sì che la comunicazione attraverso la blockchain diventi più efficiente. Tramite una serie di catene individuali che lavorano simultaneamente, le capacità dell’ecosistema nel suo complesso risultano potenziate.

Grazie alla tecnologia blockchain, la finanza è naturale deputato alle applicazioni del metaverso-MetaFi (Cafaro, 2022). La finanza decentralizzata, in particolare, è un ecosistema in evoluzione che consente transazioni digitali tra le parti attraverso i cosiddetti smart contract (“contratti intelligenti”), cioè protocolli informatici che verificano l’esecuzione di un contratto, registrati sulla blockchain. Gli utenti sono in grado di effettuare transazioni finanziarie direttamente tra loro, senza il coinvolgimento di un’autorità centrale, di banche o di altre organizzazioni finanziarie tradizionali. Poiché non è necessario un intermediario, le transazioni finanziarie sono considerate più veloci, convenienti ed efficienti; Tuttavia, rimane un nodo centrale, che è la definizione completa del quadro della regolamentazione della finanza decentralizzata.

Ed eccoci arrivati alla questione della regolamentazione –non solo nel campo finanziario, dunque – nei metaversi.

Chi regola il metaverso? È questo tra gli aspetti più delicati –e forse uno dei gangli più deboli dell’intera catena– di tale universo. Un universo connotato da tanti stakeholder portatori di interessi diversi, dalla multidimensionalità, dalla sua frammentazione e decentralizzazione, alla globalizzazione. Tutti fattori che concorrono alla complessità della formulazione di un quadro giuridico del metaverso, con la definizione di responsabilità, tutele, diritti degli utenti. Basti pensare, tra i tanti aspetti, ai rischi di furto di identità e di sostituzione di persona; alla garanzia di protezione dei dati personali. L’interoperabilità stessa tra le varie piattaforme, e con essa la condivisione di informazioni fra utenti e la intensa interazione fra questi ultimi, costituisce sì un valore aggiunto, ma non è priva di rischi e incertezze. E poi, chi proteggerà adeguatamente un segmento di mercato tanto importante e delicato come quello dei giovani, specie dei nativi digitali, specie tra quelli che già oggi accusano disturbi legati alle tecnologie? Inoltre, qualcuno potrebbe ingannarsi pensando di essere un avatar (“illusione dell’incorporazione”), e ciò sarebbe particolarmente rischioso per i soggetti psichiatricamente vulnerabili che potrebbero avere esperienze psicotiche di sdoppiamento. E, ancora, il problema della manipolazione, giacché l’ambiente in cui il soggetto vive modifica la propria percezione del reale e del sé (cfr., ad esempio, Madary-Metzinger, 2016). Tra i rischi, la derealizzazione, depersonalizzazione e, più in generale, il venir meno di una “esperienza cosciente”.

La “strategia europea per i dati” sta mettendo in campo alcune soluzioni che contribuiscono a fornire risposte alle tante perplessità sul metaverso: tra queste l’Intelligence Artificial Act, il Digital Markets Act, il Digital Services Act, il Data Governance Act e il Data Act.

Mondi fluidi, spersonalizzazione del proprio corpo, “stati di natura”

Poiché le interazioni avvengono sulla base delle proprie esperienze, gli individui-avatar vivono simultaneamente – e parallelamente – in un continuum: realtà effettiva-virtuale-aumentata. Allora, il soggetto quanti “stati del mondo/stati di natura” percepisce contemporaneamente?

O tale trilogia può collassare in una sola e unica dimensione: l’esperienza?

Su quest’ultimo punto sembra opportuno richiamare il pensiero del filosofo D. J. Chalmers.

Le realtà virtuali costituiscono realtà a tutti gli effetti? I pensatori del metaverso

Tra i pensatori che hanno contribuito al dibattito sul metaverso (di cui una buona sintesi è in La Trofa, 2022), si cita il filosofo australiano Chalmers, direttore del Center for Mind, Brain and Consciousness della New York University. Il suo volume del 2022, “Reality+: i Mondi Virtuali e i Problemi della Filosofia” esplora enigmi esistenziali ed antichi; pone importanti domande sul significato filosofico della tecnologia virtuale; conia il termine “tecnofilosofia”, ovvero l’approccio interdisciplinare di sollevare domande filosofiche sulla tecnologia e avvalersi della tecnologia per rispondere a domande filosofiche.

Il libro ha come tesi centrale che “la realtà virtuale è realtà genuina”. Sostiene, cioè, l’espansione del nostro senso di realtà.

Nella sua idea sul rapporto tra le realtà e la mente umana, le realtà virtuali costituiscono infatti realtà a tutti gli effetti, poiché esse sono in grado di determinare esperienze significative per un soggetto, come avviene appunto nel mondo fisico corporeo. Per tale ragione, l’evoluzione delle “realtà miste” all’interno del metaverso condurrà ineludibilmente a una separazione meramente fittizia tra reale e digitale.

 Come riconosce l’autore stesso, tali affermazioni vanno però calibrate e stemperate facendo i conti –tra i molteplici fattori– con “l’attitudine” degli individui. E tale attitudine è funzione di numerose variabili, tra cui il gap intergenerazionale. Mentre gli immigrati digitali sono più inclini a considerare i mondi digitali come di seconda classe e non completamente reali, i nativi digitali sono abituati a frequentare le realtà digitali. E anche l’abitudine crea un’attitudine (e viceversa). Per i nativi digitali i mondi virtuali fanno parte della realtà e sono trattati in questo modo. Analogamente, chi ha una attitudine/preferenza fortemente spiccata per la natura tenderà a marginalizzare il mondo digitale.

Di conseguenza, egli aggiunge, è l’importanza che si attribuisce alle cose a renderle davvero reali. Ad esempio, gli Nft, se diventano sempre più importanti nella nostra vita, diventano reali. Si tratta di un reale non di secondo piano, poiché essa nasce all’interno della realtà vera e di fatto la estende. Dunque, l’autore preferisce piuttosto parlare di una realtà di secondo livello, distinguendo la componente reale originale da quella derivativa.

La prospettiva delle neuroscienze

Nel campo delle neuroscienze, le evidenze sperimentali documentano che il tipo di corpo virtuale indossato da un individuo induce in quel soggetto cambiamenti percettivi, attitudinali e comportamentali, includendo anche l’elaborazione cognitiva (Banakou et al., 2018; una buona sintesi è in Riva, 2022). Nel metaverso, questa capacità arriva fino a far entrare un individuo nel corpo digitale di un altro (“illusione di proprietà del corpo”) grazie a sofisticate tecniche immersive.

In particolare, nell’esperimento condotto in un laboratorio di realtà virtuale da Banakou e colleghi (2018), un gruppo di partecipanti ha incarnato il corpo digitale di Einstein (prototipale di una super-intelligenza), mentre il gruppo di controllo incarnava corpi digitali di intelligenza “normale”. Le dimensioni dell’ambiente virtuale e le proporzioni del contenuto erano equivalenti alle dimensioni e alle proporzioni della vita reale e identiche per entrambi i gruppi (“Einstein”, “Normal”). I partecipanti sono stati assegnati casualmente nei due gruppi. Entrando nell’ambiente virtuale, i partecipanti si sono trovati in una stanza virtuale in cui il loro corpo è stato visivamente sostituito dall’Einstein a grandezza naturale o da un corpo di un giovane adulto (“Normal”). Ne è risultato che l’incarnazione di persone in un corpo fortemente associato a capacità cognitive ad elevate prestazioni si traduceva in prestazioni cognitive migliorate. Dunque, l’evidenza empirica tramite lab ha evidenziato l’esistenza dell’“illusione di proprietà del corpo”. Della serie: “Se sono Albert Einstein, devo esserne all’altezza, e le mie capacità mutano di conseguenza”. La manipolazione della proprietà del corpo funziona!

Date le forti implicazioni, si richiama un altro lavoro di Banakou e collaboratori (2016), in cui si dimostra per via sperimentale come l’“illusione di proprietà del corpo” sia in grado di determinare mutamenti nell’attitudine alla discriminazione, al pregiudizio e al ricorso a stereotipi negativi, come quelli razziali o verso gli anziani (questi ultimi si confrontano con forme più o meno implicite di discriminazione di natura anagrafica).

Gli autori hanno condotto la sperimentazione con partecipanti di sesso femminile in cui il corpo virtuale era nero o bianco. Anche in questo caso l’esperimento è stato condotto in un laboratorio di realtà virtuale. Il corpo del partecipante è stato sostituito dal corpo virtuale “Black” o “White”. L’ipotesi dell’esperimento era che l’incarnazione dei bianchi in un corpo virtuale dalla pelle scura avrebbe portato a una riduzione del pregiudizio razziale implicito negativo nei confronti dei neri. I risultati hanno mostrato una diminuzione generale del pregiudizio indipendentemente dal tipo di corpo e che la distorsione implicita diminuiva soprattutto nei partecipanti con il corpo virtuale nero.

Gli autori stessi tuttavia riconoscono i limiti della propria ricerca, sottolineando come vi sia bisogno di ulteriori studi per essere in grado di comprendere gli esatti meccanismi che conducono all’“illusione di proprietà del corpo”.

Alcune conclusioni. Tra vite confusive, trade-off, razionalità e complessità umane

Il metaverso permette di far sperimentare il senso di “presenza” e dell’“esserci”. Ma dove? Queste vite parallele rischiano di diventare confusive?

Emerge così un trade-off tra nuove opportunità e nuovi rischi?

Di fronte a questi progressi digitali, di quanto deve alzarsi l’asticella circa le aspettative sulla razionalità umana affinché vengano evitati forti bias e illusioni –finanche “l’illusione di proprietà del corpo”, che è qualcosa di così immediato e materiale?

Ma, allo stesso tempo, quanto sono in grado queste nuove realtà digitali di rappresentare, simulare, proiettare la complessità umana?

Le conclusioni rimangono solo domande.

 

I gruppi sui social-media come fonte di informazione per le donne in gravidanza

Le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri.

 

La ricerca di informazioni durante la gravidanza

 La nozione di “buona madre” da diversi anni si sente frequentemente nei discorsi sociali e, sebbene talvolta si creda che la maternità e la nascita di un figlio vengano spontanee perché fondate su un istinto biologico innato, al giorno d’oggi tali concezioni idealistiche sono spesso superate (Lagan et al., 2010). Per tali ragioni le future mamme sono alla continua ricerca di ricevere consigli espliciti o informazioni da qualcuno su come educare i propri figli.

Solitamente le principali informazioni o suggerimenti sull’educazione sono trasmesse dagli amici, dalla famiglia, dagli operatori sanitari, dalla letteratura in merito o, più recentemente, dai media (Song et al., 2013). Nel Mondo Occidentale, infatti, molte donne necessitano di ricevere una risposta accurata e precisa alle loro domande ed esigenze, e di ricevere informazioni non contraddittorie durante l’assistenza prenatale (Hildingsson & Radestad, 2005). Numerosi studi, che hanno intervistato alcune ostetriche, confermano che le donne incinte desiderano fare delle scelte consapevoli dopo aver ricevuto tutte le informazioni necessarie e aver vagliato le implicazioni delle diverse opzioni proposte. Inoltre, è emerso che le future mamme desiderano poter fare domande non soltanto in momenti di crisi o quando realmente hanno dei dubbi, ma quotidianamente, anche se l’ostetrica o il medico di riferimento non possono riceverle in quel momento (McCarthy et al., 2017). In aggiunta, una review del National Health Service England (NHS England, 2016) ha evidenziato come le donne si aspettino che i servizi di maternità possano dare loro consigli provenienti da più fonti, ma quasi nessuna oggi si ritiene soddisfatta delle informazioni ricevute dai medici e tenta quindi di cercarle altrove.

L’utilizzo di Internet ha permesso a diverse mamme di accedere a informazioni in modo molto rapido, stravolgendo il modo con cui erano solite confrontarsi con gli operatori sanitari. In rete è infatti possibile accedere a qualunque argomento d’interesse, da chiunque sia disposto a cercarlo; le donne in gravidanza sembrano essere particolarmente motivate nella ricerca di notizie online e i siti offrono flessibilità e autonomia, aspetto apprezzato da molte madri (Kennedy et al., 2017). Nella pratica accade che le informazioni non urgenti o semplici di cui le donne hanno bisogno non necessitano di un incontro fisico con un professionista della salute, riducendo drasticamente la necessità si recarsi in centri sanitari o attendere un appuntamento da un privato. In aggiunta, alcuni studi hanno mostrato che l’accesso rapido a internet può apportare anche benefici psicosociali in quanto riequilibra le disuguaglianze di potere tra madri e operatori sanitari (Van de Belt et al., 2010).

La grande quantità di informazioni reperibili ha però anche numerosi difetti tra cui la difficoltà di distinguerne la provenienza e la credibilità; inoltre è estremamente complicato capire quale notizia sia più affidabile tra le numerose proposte e se la visione delle informazioni su Internet sia guidata da motivazioni commerciali (Gao et al., 2013). Gran parte della ricerca affidabile e scientifica disponibile online utilizza un linguaggio troppo difficile e specifico per un pubblico generico, risultando così incomprensibile per la maggior parte delle persone e portandole così a prendere delle decisioni sbagliate.

Nonostante ciò, si ritiene che oggi le donne siano in una posizione privilegiata rispetto ad un tempo per reperire informazioni utili sulla gravidanza e fare scelte consapevoli basate su evidenze scientifiche (NHS England, 2016). Inoltre, con l’aumento dell’utilizzo dei social media, molte di loro sono iscritte a gruppi per donne incinte dove possono incontrare altre madri, scambiare con loro informazioni, condividere esperienze o offrire sostengo emotivo (Eysenbech et al., 2004).

Gravidanza e social media: parlare con i professionisti

Visti i numerosi gruppi online su differenti piattaforme, diversi studiosi si sono chiesti se la presenza di professionisti all’interno di essi potesse essere un’opportunità per le mamme di soddisfare i bisogni informativi delle donne a sostegno della scelta, o per raggiungere una continuità informativa o delle cure attraverso lo scambio di informazioni tra pazienti e professionisti (Heaton et al., 2012).

 Uno studio di McCarthy e colleghi ha esaminato quindi le esperienze delle donne che accedevano a consigli e informazioni sulla gravidanza tramite una piattaforma social-media creata appositamente e mediata da ostetriche, per poterne verificare i vantaggi.

Sono stati quindi creati due gruppi privati su Facebook nei quali sono state inserite due ostetriche qualificate. I dati sono stati raccolti in 35 settimane e includevano 4 focus group, interviste individuali con le partecipanti al gruppo e con le ostetriche; le interazioni postate sulla piattaforma durante l’intervento; infine, alcuni messaggi privati tra le singole partecipanti e le ostetriche. Su tali dati è stata svolta un’analisi tematica secondo il modello di Clarke e Braun (2013).

Dai risultati si evidenzia che le partecipanti hanno trovato molto utile ed efficace il gruppo supervisionato da ostetriche. È emerso infatti che nei gruppi si potessero condividere informazioni e ci si potesse confrontare su temi rilevanti per la gravidanza. Inoltre, le donne hanno dichiarato che la presenza delle ostetriche ha permesso loro di verificare l’attendibilità e la credibilità delle informazioni e ha contribuito a ridurre il sovraccarico di informazioni e la confusione (Jay et al., 2018). Per molte partecipanti il gruppo era considerato la fonte primaria di informazioni sul parto e sulla gravidanza.

In conclusione, i gruppi sui social media supervisionati da ostetriche offrono un modo molto efficace di fornire informazioni personalizzate e sostegno sociale alle donne in gravidanza. L’accesso al gruppo, infatti, non solo ha soddisfatto le esigenze di informazione e supporto delle madri, ma ha dato alle donne una nuova fonte di continuità relazionale, la quale è definita come una relazione terapeutica continuativa tra un paziente e uno o più operatori (Haggerty et al., 2003) ed è una caratteristica fondamentale dell’attuale offerta di assistenza alla maternità.

 

Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 20

Siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni come ansia e depressione.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 20) Le iniziative per sensibilizzare i policy-maker e le istituzioni sanitarie

 

Con quest’ultimo numero si chiude il lavoro di analisi del documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione (ISS, 2022), obiettivo di questa rubrica.

Dunque, siamo giunti a scoprire l’ultimo quesito rispetto al quale gli Esperti sono stati chiamati a proporre delle soluzioni. Quest’ultimo sotto-tema riguarda la comunicazione con i decisori e le istituzioni socio-sanitarie, al fine di rendere disponibili le cure psicologiche per i disturbi mentali comuni (DMC; come ansia e depressione).

Raccomandazioni per il Quesito D5: la comunicazione con policy-makers e istituzioni

Quali iniziative si possono assumere per sensibilizzare i decisori e le istituzioni socio-sanitarie a rendere effettivamente disponibili e fruibili le terapie psicologiche per i disturbi d’ansia e depressivi?

Gli Esperti aprono la discussione su questo tema menzionando un famosissimo detto: “prevenire è meglio che curare”, in questo caso non solo in termini di benessere psicologico, ma soprattutto in termini economici. Infatti, sottolineano l’importanza di ricordare ai policy-makers e alle istituzioni che “prevenire costa meno che curare” (ISS, 2022, p. 36), evidenziando i costi diretti e indiretti e spiegando che un investimento economico nelle terapie psicologiche potrebbe ridurre i costi delle spese secondarie dovute ad ansia e depressione non trattate.

Anche la gestione delle condizione subcliniche (ovvero i casi in cui non ci sono i presupposti per porre una diagnosi; per approfondimenti, si consiglia il n.12) risulta una scelta oculata in un’ottica di abbattimento dei costi a lungo termine, poiché spesso tali condizioni possono evolvere in patologie più gravi e, pertanto, implicare una più dispendiosa gestione per il sistema sociale, sanitario ed economico.

A livello comunicativo, secondo gli Esperti, potrebbe essere funzionale creare una infografica che riporti i dati relativi all’efficacia degli interventi psicologici sulle condizioni cliniche e subcliniche, al risparmio derivato dalle azioni di prevenzione, nonché quello dovuto alla corretta gestione dei disturbi ansiosi e depressivi attraverso il modello stepped care (vedi Nr. 11 e Nr. 17).

Inoltre, si rende necessario fornire ad enti e istituzioni, chiare direttive sulle criticità e sulle potenzialità dell’attuale rete sociosanitaria italiana relativamente all’implementazione di attività di prevenzione, promozione e gestione (intesa sia come assistenza che presa in carico) della salute mentale. Pertanto, si raccomanda di investire nell’acquisizione di figure professionali specifiche e nella formazione del personale già operativo.

Alcuni enti destinatari di questa comunicazione, che potrebbero essere interessati alla riduzione dei costi suddetti, possono essere l’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), l’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), le Commissioni Sanità di Parlamento e Regioni, gli uffici studi della Banca d’Italia, di enti economici, di compagnie assicurative, di sindacati, di Confindustria. Sarebbe utile coinvolgere direttamente tali enti e istituzioni mediante iniziative, –auspicabilmente– supportate dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con associazioni scientifiche nell’ambito della psicologia, come conferenze-stampa, convegni e incontri diretti.

In ultimo, il Tavolo di Lavoro si è occupato di altre questioni ritenute importanti e trasversalmente connesse al tema oggetto di discussione.

Una di queste riguarda le condizioni di sofferenza mentale che non si manifestano necessariamente come disturbi mentali diagnosticabili, ma che necessitano comunque di attenzione e assistenza, ovvero “tutte le reazioni psicologiche che si possono manifestare a seguito di emergenze, come pandemie o terremoti” (ISS, 2022, p. 37). Le eventuali difficoltà riferite dai cittadini sul piano psicologico a seguito di tali eventi e la complessità delle conseguenze, che potrebbero cronicizzarsi, necessitano della figura specifica dello psicologo dell’emergenza, che pertanto deve essere riconosciuta sul piano formativo e lavorativo da parte dell’istituzione sanitaria.

Un’altra questione degna di nota riguarda gli interventi inclusi nel primo livello di cure previsto dal modello stepped care, ovvero quelli di auto-mutuo-aiuto, come quelli presenti nel programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT; Clark, 2017). I gruppi di auto-mutuo-aiuto consistono in tutte quelle iniziative organizzate da gruppi di persone non professioniste, accomunate da un problema, per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una comunità. A questo proposito sembra che, nel nostro Paese, la presenza e il ruolo delle associazioni di malati e familiari sia minimale. Infatti, sembrano esserci poche associazioni specifiche per i DMC; in particolare, sono presenti alcune per l’ansia, come la Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, Agorafobia e attacchi di Panico (LIDAP), che hanno purtroppo un’azione poco significativa, mentre sembrano addirittura non esistere per la depressione.

In conclusione, gli Esperti che hanno partecipato alla Consensus Conference sulle cure psicologiche per i DMC (ISS, 2022) per incrementare l’accesso a tali cure hanno individuato varie strategie praticabili compatibili con l’organizzazione presente sul territorio nazionale. Tuttavia, nell’ottica di ridurre il gap di trattamento (ovvero il divario esistente tra l’elevato numero di persone che soffrono di disturbi d’ansia e depressivi e il ridotto numero di coloro che ricevono un trattamento efficace e specifico) sono necessari provvedimenti concreti da parte dei policy-makers, in quanto il documento finale della Consensus non ha potere attuativo. Perciò, è necessario continuare a divulgare questo documento (o parti di esso) per informare e sensibilizzare l’intera comunità sull’importanza di queste tematiche. Nella speranza –realizzabile e già realizzata in altri Paesi– di migliorare l’organizzazione delle strutture messe a disposizione dal Sistema Sanitario Nazionale per ricevere cure psicologoche adeguate per ansia e depressione, e far sì che i cittadini non siano costretti a ricorrere al mercato privato, generando così, rispetto all’accesso alle cure, “una discriminazione di censo intollerabile in tema di salute e irrispettosa del dettato costituzionale” (ISS, 2022, p. 41).

 

Ghosting: motivazioni, conseguenze e strategie di coping

La pratica del ghosting è comunemente descritta come l’interruzione unilaterale dei contatti con il partner e l’ignoranza dei suoi tentativi di contatto, comunemente attuata attraverso uno o più mezzi tecnologici (Freedman et al., 2019).

 

 Sebbene il ghosting possa avere alcune somiglianze con altre strategie di rottura, ad esempio, Baxter (1982) ha scoperto che il ritiro e l’evitamento sono strategie comuni per porre fine a una relazione, nella società contemporanea è la strategia che potrebbe verificarsi più spesso. Grazie alla comunicazione mediata, le persone possono facilmente respingere i corteggiatori indesiderati cancellando o bloccando l’altra persona o semplicemente non rispondendo (Tong & Walther, 2011). In particolare, ad oggi le app di incontri online (Mobile Dating App [MDA]) creano un’abbondanza di potenziali partner con cui interagire contemporaneamente, spesso estranei alla propria rete sociale (Yeo & Fung, 2016). Quindi, comportamenti che sarebbero stati considerati scortesi in un contesto faccia a faccia (ad esempio, ignorare qualcuno) possono diventare una strategia comune in un contesto di incontri online a causa del relativo anonimato e della facilità offerta dalle forme di comunicazione mediata (Tong & Walther, 2011).

Le ragioni del ghosting

Sulla base di quanto detto, uno studio di Timmermans e colleghi (2021) ha esplorato le ragioni, le conseguenze e i modi per affrontare il ghosting sulle app di incontri mobili, nonché i predittori della valutazione dell’esperienza di ghosting come dolorosa.

É stato chiesto a coloro che hanno subito ghosting (ghostee) di descrivere il motivo per cui pensavano che l’altra persona lo avesse fatto (ghoster). L’analisi ha rivelato che più della metà dei ghostee ha incolpato il ghoster (59%), più di un terzo ha incolpato se stesso (37%) e circa un quinto ha incolpato i vantaggi dell’app (17%). È interessante notare che temi simili sono emersi per i ghosters che hanno riferito le ragioni per cui hanno fatto ghosting: (1) biasimare il ghostee (67%); (2) biasimare se stessi (44%); (3) biasimare le possibilità offerte dall’app (29%); (4) nessun obbligo di comunicare (22%); e (5) preoccupazione per l’altro (16%). Sia i ghostee che i ghosters sono stati più propensi ad attribuire la colpa all’altra persona, ma in entrambi i gruppi una percentuale abbastanza ampia ha attribuito la colpa a se stessi per aver fatto o subito il ghosting.

Mentre i risultati qualitativi sembrano suggerire che le possibilità offerte dalle app di incontri contribuiscono effettivamente al ghosting e all’essere ghostati, le analisi quantitative hanno dimostrato che la frequenza di utilizzo delle app di incontri era associata negativamente al ghosting. In altre parole, più si utilizza un’app di incontri mobile, più diminuisce la probabilità di fare il ghosting.

Una spiegazione potrebbe essere che le persone che hanno appena iniziato a usare un’app di incontri mobile si sentono sopraffatte dall’ampio bacino di incontri a cui hanno improvvisamente accesso e, in alcune app, ricevono anche messaggi non richiesti da persone indesiderate, aumentando così le possibilità di ghosting. Inoltre, dato che anche i frequentatori di siti mobili hanno avuto esperienze negative sulle app di incontri (ad esempio, Thompson, 2018), potrebbero diventare più selettivi nel loro comportamento di swiping e quindi evitare di incontrare partner indesiderati in una fase precedente alla conversazione, che altrimenti sarebbero propensi a fare il ghost.

Le conseguenze del ghosting

 Per quanto concerne le conseguenze del ghosting, molti intervistati hanno riferito che l’esperienza del ghosting ha avuto un impatto negativo sulla loro autostima e sulla fiducia negli altri. Ciò è conforme alla ricerca psicologica, che ha dimostrato che l’autostima può diminuire quando le persone subiscono un rifiuto (Leary et al., 1998). Ciò significa che quando gli intervistati con una bassa autostima vivono molteplici esperienze di ghosting, potrebbero percepire il rifiuto come ancora più doloroso. Inoltre, potrebbero impiegare più tempo a superare questa esperienza dolorosa, poiché le persone con una bassa autostima hanno meno oppioidi naturali (antidolorifici) rilasciati nel cervello dopo un rifiuto rispetto alle persone con un’autostima più elevata (Hsu et al., 2013). Tuttavia, è importante notare che alcuni meccanismi di coping (ad esempio, razionalizzare l’esperienza di ghosting sostenendo che fa parte dell’uso delle app di incontri) possono impedire agli utenti delle app di incontri di sperimentare una riduzione dell’autostima.

La frequenza con cui si è stati ghostati, l’aver avuto un contatto faccia a faccia e una durata maggiore del contatto hanno predetto positivamente il grado in cui gli intervistati hanno valutato la loro esperienza di ghosting come dolorosa, mentre la frequenza con cui hanno ghostato altri ha predetto negativamente la valutazione di dolorosità.

Sorprendentemente, sembra che l’intimità sessuale con il ghoster non renda l’esperienza di ghosting più dolorosa. Una potenziale spiegazione potrebbe essere la normalizzazione percepita del sesso occasionale tra i giovani adulti (Timmermans & Van den Bulck, 2018; Wade, 2017), che potrebbe ridurre le aspettative di mantenere i contatti dopo un’intimità sessuale.

Le strategie intraprese per affrontare questa esperienza negativa sono state: razionalizzare la loro esperienza di ghosting, modificare il loro comportamento e le loro aspettative nei confronti degli altri o delle interazioni future, controllare gli account dei social media del ghoster o contattare la rete sociale del ghoster, trovare conforto con gli amici condividendo l’esperienza di ghosting o cancellare l’app di dating mobile e quindi astenersi dagli incontri online per un po’.

Un dato che colpisce è che diversi ghoster hanno riferito di aver fatto il ghosting per proteggersi, dato che il ghostee si è rifiutato di accettare le ragioni del rifiuto e ha iniziato a mostrare un comportamento aggressivo, come l’invio ripetuto di messaggi non richiesti e il comportamento di stalking. Questa scoperta suggerisce che alcuni individui, come ad esempio gli individui sensibili al rifiuto e con un attaccamento ansioso, potrebbero essere più inclini a subire il ghosting rispetto ad altri.

Conclusioni

In conclusione, lo studio si è rivelato utile per proporre un quadro teorico relativo al ghosting sulle Mobile Dating App, includendo anche diverse implicazioni per l’ambito clinico. In un mondo tecnologico emergente è importante notare che piuttosto che attribuire la colpa a se stessi (ad esempio, “non ero abbastanza attraente”), i terapeuti possono aiutare i loro clienti a capire che le tecnologie di comunicazione che spesso usiamo nella nostra vita quotidiana facilitano anche il comportamento di ghosting, razionalizzando così l’esperienza di ghosting.

 

La grande bellezza. La meraviglia dell’imperfezione

De gustibus non disputandum est, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, o ancora La bellezza è negli occhi di chi guarda.. tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità di ognuno.

 

Che cos’è la bellezza?

  Un concetto che sconvolge le menti di tutti proprio per il suo essere sfuggente e inafferrabile.

De gustibus non disputandum est, così esponeva Giulio Cesare, o Non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace, risuona un famoso proverbio. L’inglese David Hume afferma: La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le contempla che è il corrispettivo di La bellezza è negli occhi di chi guarda, tutte frasi che sicuramente si avrà avuto modo di ascoltare o ripetere più volte, non sempre con la consapevolezza dell’importante intuizione della soggettività della percezione estetica, ossia della possibilità che il bello non sia necessariamente universale, ma che possa variare, a seconda della sensibilità e del gusto di ognuno.

Un’intuizione non certo banale, se si considera che nella storia, a partire dagli autori e pensatori più antichi, si poneva tale concetto in una prospettiva assolutamente esterna all’osservatore, cercandone un’ambiziosa oggettività, proprio per la necessità di poterla definire: tutto ciò che non contiene una de-limitazione si perde nel concetto di infinito che può spaventare, che può far sentire l’essere umano troppo piccolo e troppo fragile, che può trascinarlo al di fuori della possibilità di calcolo, di previsione, di esattezza, di verifica empirica che tanto lo rassicura e lo placa.

Ma il termine estetica che significato assume? Etimologicamente deriva dal greco αισθησις, ossia, percezione, sensazione, facoltà di sentire e si riferisce ad un processo altamente complesso che unisce la nostra percezione, come esperienza di elaborazione rispetto alle caratteristiche formali di un oggetto ad una di ordine superiore che ingloba conoscenza, expertise, vissuto emozionale, caratteristiche temperamentali e tratti di personalità. Un’esperienza estetica cattura la nostra attenzione e ci induce a provare emozioni di diverso tipo, non sempre spiegabili. Un’opera d’arte, ad esempio, ci attrae non solo e non sempre per la sua conformazione, ma perché innesca stati d’animo differenti, coinvolgendo totalmente e stimolando il nostro pensiero e la nostra immaginazione.

Il primo a contemplare una visione estetico-matematica del concetto di bellezza fu Pitagora, mettendo in evidenza che l’esistenza di tutte le cose si rispecchia nel loro ordine, ordine che segue le leggi matematiche che ne esaltano la concordanza e, dunque, la bellezza. Platone, riprendendo il pensiero della scuola pitagorica, parte da questa idea di armonia per arrivare a concepire il bello come qualcosa che è direttamente correlato al bene, non appartenente all’arte ma all’eros, ossia all’amore che ha diversi gradi di esistenza, come ben afferma nel Simposio, attraverso le parole della sacerdotessa Diotima, da quello più basso, ossia quello fisico, per passare all’amore per il bene e la giustizia, per le scienze, fino ad arrivare a quell’idea più assoluta e trascendente di bellezza: “Come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé“. Una visione altamente romantica dell’uomo, attratto da questo desiderio naturale di tutto ciò che è bello, una sorta di magnete che lo riconduce ad un corpo armonico, ad uno sguardo penetrante, ma anche ad un tramonto sul mare, ad un arcobaleno, ad un cielo stellato.

Ma oggi il concetto di bellezza permea ancora significati così elevati? Il bello è sempre ricollegato al giusto, alla moralità, a quella kalokagathia, concezione greca di corrispondenza tra bello e buono?

Il concetto giapponese di Iki

Nella cultura orientale, nello specifico giapponese, si parla di iki che unisce un comportamento etico ad uno estetico. Iki ha significato di spontaneità, naturalezza, intelligenza, seduzione, ma anche di rinuncia a quell’attaccamento morboso alle cose materiali. Iki è anche la forza d’animo di tutti coloro che in maniera dignitosa affrontano l’instabilità della vita terrena, troppo attaccata alla fusione dei corpi (eros) e poco alla seduzione, come apertura verso l’altro, senza necessità di unione. Iki, letteralmente, significa cose degne di particolare attenzione; lo scrittore Shuzo Kuki ne parla nel suo saggio “La struttura dell’iki” che ha l’obiettivo di “cogliere la realtà così com’è e di dare espressione logica a un’esperienza che andrebbe “assaporata””. In occidente non esiste una vera e propria corrispondenza a questo termine, occidente che probabilmente predilige il concetto di armonia delle forme quando tratta di esperienza estetica.

La bellezza come armonia

Ma questa armonia rispetta forse le leggi di proporzione e di simmetria? Attualmente l’asse di equilibrio di questi fattori sembra non corrispondere più ai canoni, con una propensione verso l’esagerazione e l’esasperazione. Si assiste ad un tentativo di snaturare le caratteristiche di un modello ordinario e prototipico che si pensava essere il più attraente, con l’idea che alcune parti del corpo possano ricevere maggiore consenso, se di dimensioni più grandi. C’è in effetti una predilezione per labbra più carnose, occhi più grandi, seni di taglia considerevole, ma non solo. Anche in altri domini estetici, come palazzi, torri e campanili vengono esaltate le dimensioni di altezza, quasi per imporsi nello spazio, attraendo un numero sempre maggiore di persone, in quanto visibili a distanze notevoli; si aggiunga poi il fatto che, rivolgendo lo sguardo verso l’alto, si ha la sensazione che queste strutture siano così notevolmente predominanti da togliere il fiato. Una bellezza mozzafiato che aspetto dovrebbe avere? Forse dei tanto amati Barbie e Ken?

Le donne sembrerebbero avere un giudizio più severo degli uomini sul proprio aspetto: solo fino ai sette anni ci sarebbe una sana accettazione di sé stesse, successivamente, proprio in età prepuberale e adolescenziale, ci sarebbe una tendenza a reputarsi in sovrappeso nel 60% dei soggetti e solo un 20% sarebbe soddisfatto del proprio aspetto. Più l’insoddisfazione è accentuata più tende a peggiorare con il passare del tempo, andando ad incidere fortemente sul senso di autostima e di competenza, causando notevoli problematiche nell’ambito non solo personale, ma anche lavorativo (André e Lelord, 1999). Si aggiungono anche, nella donna, altri periodi critici del ciclo vitale, come durante la gravidanza o nel periodo post partum. Se risulta accentuato nel genere femminile, tuttavia non è completamente assente nel mondo maschile, soprattutto in un’era sempre più propensa a ridurre quei segnali di identità sessuale così accentuati fino a qualche decennio fa, a favore di un fluire di caratteristiche che abbandonino il culto dell’uomo muscoloso e permettano ad ognuno la piena libertà di esprimersi.

Ma allora perché tanta risonanza in modelli di riferimento assolutamente irreali?

I modelli irrealistici

Si parla di Sindrome di Barbie e Ken: sempre più persone si rivolgono ad un chirurgo estetico con l’idea e la richiesta ben precisa di assomigliare a bellezze illusorie che passano dal nostro mondo dell’infanzia, ma che poi vengono sempre più proiettate come modelli di riferimento possibili al cinema o nelle pubblicità. E pensare che in un articolo su Psicologia Contemporanea del 2005 si leggeva che avvalersi della chirurgia estetica poteva essere considerato un fenomeno di falsificazione dell’immagine di sé, una vera e propria frode.

Circa un ventennio dopo la maggior parte dell’opinione pubblica sarebbe ancora concorde con una simile affermazione? Evidentemente le cose sono cambiate, ma in questo campo hanno forse preso una piega sbagliata. Il mito dell’uomo e della donna di successo viene sempre più associato al concetto di bello, ma l’idea di bello ha ormai assunto caratteristiche aleatorie e illusorie. Ci si compara sempre più ad attori e attrici di Hollywood, ci si confronta sempre più a modelli ideali altamente improbabili, a causa anche dell’enorme influenza del mondo mediatico. Influenza, influencer, apparire, apparenza, sono termini che siamo ormai abituati a sentire ogni giorno, martellati da ogni parte, spesso con la grave conseguenza di scatenare ansia, senso di inadeguatezza ed incapacità. Ed ecco che l’unico rimedio a tale sofferenza sembra essere quello di prendere un’immagine del nostro idolo e mostrarla al chirurgo come richiesta di aiuto. Si comincia ad età sempre più impensabili, ragazze e ragazzi non ancora maggiorenni ottengono il consenso dai genitori per prenotare una visita, con la speranza, a volte addirittura con la pretesa, di accontentare le proprie aspettative.

Si vorrebbe essere la fotocopia di qualcun altro, non rendendosi più conto di quanto possa invece essere attraente la nostra unicità, con pregi e difetti che permettono di distaccarci da quel processo patologico di bisogno di omologarsi a modelli che non contengono le nostre caratteristiche genetiche e i nostri vissuti. In effetti l’andamento è proprio quello di assomigliarsi sempre più, nella forma degli occhi, degli zigomi, del volume delle labbra, dei seni, di glutei formosi che rischiano però di deformare quella bellezza che, a mio avviso, rimane autentica nella sua armonia.

In effetti, dalla letteratura presente la bellezza sembrerebbe essere un fattore non compartimentalizzato, ma globale: un viso attraente renderebbe il resto del corpo attraente, soprattutto se presente uno sguardo penetrante. Questo fattore era già noto nell’antichità, vedi per esempio le rappresentazioni egizie, in cui un volto rappresentato di profilo mostrava occhi frontalmente, sicché uno sguardo che fissa direttamente l’interlocutore appare più sicuro e viene percepito maggiormente bello nella sua complessità. Nel 2001 sono stati sottoposti a risonanza magnetica diciotto soggetti, mentre guardavano foto di volti attraenti. I risultati mostravano che nella visione di occhi rivolti verso l’osservatore si registrava un incremento dell’attività cerebrale, in prossimità della zona ventrale del nucleo striato, centro del piacere. Eppure ci si allontana sempre più da questa totalità armonica, per aspirare a dettagli ossessivi di ogni singolo centimetro del viso e del corpo. È possibile solo sentirsi quando ci si sente guardati [..] questa esperienza del corpo si costituisce a partire dal Tu, dalla seconda persona: si tratta del mio corpo “in quanto visto e conosciuto da altri”, così scrive il Prof. Giovanni Stanghellini, a proposito di percezione del proprio Sé. Si vive nella contemporaneità di un’era in cui il corpo che sono si ribalta in un corpo che è esposto alla vista dell’altro, un “pornobody che necessita dello sguardo altrui per prendere coscienza di sé”. E tutto questo sicuramente si ripercuote nella sempre più frequente ossessiva mania del selfie, quindi dell’esposizione di sé stessi in rete per poter essere riconosciuti, ma del riconoscimento finisce che ne rimane ben poco, in quanto ogni autoscatto viene sempre più ritoccato dai filtri. Filtrare, quasi a scremare, cernere, vagliare ogni singola parte del nostro desiderio di apparire, come si fa quando si cerca di far passare un liquido attraverso un filtro per trattenere eventuali particelle solide contenute in sospensione e ricavarne una sostanza depurata.

La chirurgia e la medicina estetica, acconsentendo sempre più a questa propensione al deforme, inteso come processo di snaturalizzazione del nostro essere nel mondo, come interazione di fattori genetici e vissuti, volto ad appagare un’ansia pressante generata da insicurezze e fragilità che porta ad ossessive richieste di intervento e di ritocchi, potrebbe paradossalmente alterare il concetto di bellezza armonica, quella “[La] grande bellezza”, che incornicia un celebre film di Paolo Sorrentino?

Un punto di incontro tra medicina estetica e psicologia

Alla luce di quanto emerso, credo sia necessario un avvicinamento tra medicina estetica e psicologia, con l’intento di trovare il giusto equilibrio per ogni singola persona. Una psicoestetica che permetta un importante lavoro interdisciplinare, con l’intento di rendere complementari bisogno estetico e serenità interiore. Dunque una ricerca e un supporto al volersi vedere bene e al sentirsi a proprio agio, che possa trovare la giusta misura nell’utilizzo di un bisturi o di una iniezione, giusta misura in grado di rispettare la singola persona nel suo essere unico. Per poter ottenere un connubio tra le due discipline, da un lato sarà necessario che il chirurgo estetico sappia valutare consapevolmente le richieste del cliente, per identificare colui che si rivolge alla chirurgia per migliorare un aspetto di sé, percepito come difetto, che evidentemente lo turba e che potrebbe rafforzare la sua autostima nella vita di tutti i giorni, da colui invece che cela dietro ad una richiesta di intervento, le sue più profonde insoddisfazioni, o aspettative irrealistiche, se non addirittura veri e propri disagi psicologici o psichiatrici. Dall’altro sarà necessario avvalersi dell’esperienza e della formazione di uno psicologo, che possa accompagnare il paziente nell’affrontare una decisione importante sull’avvalersi o meno dell’intervento o sul percorso di pre e post operazione, non dando mai per scontato la capacità di abituarsi ad un cambiamento.

Medico e psicologo in una sana collaborazione che tenga sempre presente l’obbiettivo primario di ogni scelta: il benessere psicofisico della persona che si avvale delle loro competenze, nel rispetto non solo deontologico, ma anche e soprattutto umano della sua essenza. Un connubio che esalti la bellezza armonica del singolo, anche a costo, a volte, di dire no.

 

I ritmi biologici in un mondo che impone di correre

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi. 

 

 Siamo davvero padroni delle nostre scelte quotidiane? Quotidianamente svolgiamo una serie di attività abitudinarie, delle quali ormai non sempre siamo consapevoli: ci svegliamo dopo una notte di sonno, facciamo colazione, mangiamo e subito siamo pronti per una nuova giornata.

Ci prepariamo dunque per una sequenza di attività già programmate, rispetto alle quali siamo chiamati a rispondere quasi in maniera automatica, per non dire tempestiva, non consentendo al nostro organismo la libera scelta delle reali attività che si vorrebbero svolgere.

Il tempo chiama e i nostri ritmi biologici son pronti ad eseguire quanto imposto dall’esterno. Il ritmo circadiano (dal latino circa diem) si riferisce non solo alle 24 h ore della giornata, ma sottende un’ampia varietà di funzioni fisiologiche, tra cui il ciclo sonno-veglia, la temperatura corporea, la secrezione degli ormoni, l’attività immunitaria, il comportamento alimentare e non ultimo l’attività cerebrale. Una vera e propria danza dell’organismo, che deve però fare i conti con le richieste della società odierna.

La rigidità psicocorporea a sostegno di uno schema privo di imprevisti

In quanto animale diurno, l’essere umano organizza capziosamente la propria giornata sulla base e in funzione di uno schema pre-programmato, col rischio tuttavia di inficiare il proprio assetto psicosomatico, determinando oltremodo l’innesco di una vera e propria rigidità psicocorporea.

Quest’ultima infatti può determinare ripercussioni sulla produzione ormonale, dei neurotrasmettitori e sull’andamento ritmico cerebrale. Nondimeno, seguendo una visione d’insieme, possono verificarsi disfunzioni inerenti il pancreas (Dibner, Schibler, 2015), il fegato, le surrenali e altri organi fondamentali per il nostro  equilibrio giornaliero: l’intestino, il cuore e i polmoni, ciascuno dei quali esercita, sotto il profilo psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani.

Guai a fermarsi, a concedersi un minuto tutto per sé, la parola relax sembra ormai bandita dal vocabolario, nondimeno nel momento in cui ci si permette di regalarsi un minuto di svago scatta subito quel senso di colpa in grado di farti sentire estraneo ai ritmi che, al contrario, riflettono il lasciapassare per poter partecipare alla vita sociale (Selye, 1973). Tutto questo col rischio di costruire la propria identità in funzione di un ritmo frenetico che sovente non ci appartiene, scivolando gradualmente in una spirale in cui il respiro, il battito cardiaco e la funzione intestinale non hanno altra scelta se non quella di adeguarsi, privandosi pian piano dei propri ritmi.

Un approccio neurobiologico dei ritmi circadiani

La struttura che genera e regola i ritmi circadiani è costituita da uno specifico sistema neuronale, il quale funge da vero e proprio orologio biologico. Quest’ultimo trova la sua collocazione in un piccolo gruppo di neuroni, circa 20.000, sopra il chiasma ottico nell’ipotalamo anteriore, chiamato nucleo soprachiasmatico (Buijs, 2016).

Questi neuroni sono organizzati in una fitta rete intrecciata tra due emisferi e sono peraltro dotati di una proprietà ritmica; infatti qualora vengano isolati dal cervello, continuerebbero ad oscillare e ad attivarsi in maniera autonoma. Quanto emerge è per l’appunto una proprietà intrinseca/autonoma che rispecchia un automatismo, garantito da un complesso ingranaggio di geni detti “clock” (Copinschi, Challet, 2016).

Un vero e proprio macchinario genetico presente in tutte le cellule che va a costituire e consolidare una rete di orologi periferici a loro volta influenzati e orientati dall’orologio centrale.

Al nucleo soprachiasmatico arriva un input dalla retina tramite una speciale via di collegamento, denominata tratto retino-ipotalamico, la quale non trasmette informazioni di natura visiva, ma risulta connessa ai ritmi circadiani stessi (Critchley, 2009). Inoltre dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Grazie a questa fitta rete di segnalazione il nucleo soprachiasmatico va a regolare il ritmo di funzioni fisiologiche cruciali, come la regolazione della temperatura corporea, degli assi neuroendocrini e del sistema neurovegetativo. Al tempo stesso giungono al sistema nervoso centrale informazioni dai nuclei ipotalamici, dall’epitalamo, dagli organi interni e dalle attività dell’organismo.

L’orologio centrale pertanto risulta dunque influenzato dal nostro ritmo genetico ma riflette una sincronizzazione correlata ad una serie di fattori interni ed esterni come la luce, il proprio comportamento alimentare, gli orari del sonno, la pressione arteriosa e infine le attività diurne e notturne (Qian, Scheer, 2016).

I nuclei soprachiasmatici producono centinaia di neuropeptidi a partire da 24 pro-ormoni, assieme alle citochine e ad alcuni neurotrasmettitori come il GABA, il glutammato e l’ossido nitrico.

Si determina così una mappatura dei principali neuropeptidi (Southey, Lee, Zamdbrorgù, 2014) in grado di coinvolgere i diversi livelli del nostro equilibrio psicosomatico: tra questi vi sono infatti il peptide intestinale vasoattivo VIP, l’arginina vasopressina AVP ed infine il peptide che rilascia la gastrina GRP.

 Come sopra accennato l’intestino, il cuore e i polmoni esercitano, sotto il profilo  psiconeuroendocrinoimmulogico, una funzione vitale e adattiva circa le richieste dell’esterno, influenzando i nostri stessi ritmi circadiani; nondimeno ciascuno di questi organi è costituito da un proprio ritmo biologico. Ad esempio il cuore presenta un ritmo in grado di evidenziarne la propria vulnerabilità intrinseca, infatti tra le 9 e le 11 del mattino quest’organo presenta la sua massima fluttuazione ritmica, che lo espone, come accennato, ad una maggiore vulnerabilità.

Si delinea così una cronobiologia di quegli organi che quotidianamente sono sottoposti ad uno stress di cui non sempre siamo consapevoli e che nondimeno innesca un contrasto tra i nostri ritmi interni all’organismo e le richieste esterne, relative alla dimensione familiare, lavorativa e sociale.

La fisiologia dello stress crono biologico

Come accennato in precedenza, dal sistema nervoso centrale partono collegamenti che portano informazioni a tutti i principali nuclei ipotalamici, a un’area strategica dell’ipotalamo chiamata epitalamo e ad aree del tronco dell’encefalo da cui partono collegamenti agli organi interni, tramite il sistema neurovegetativo.

Pertanto il concetto di benessere non può limitarsi ad una sola dimensione corporea e/o biologica, bensì comprende nel suo insieme l’intero organismo. Quest’ultimo infatti rispecchia il nostro stile di vita e soprattutto un tempo che troppo spesso evitiamo di accogliere, finendo così per sottovalutare quanto il corpo ci vuole comunicare. Quello che emerge è dunque un automatismo privo di quelle flessibilità ed elasticità che al contrario consentirebbero l’emergere di un nuovo modo di approcciarsi alle richieste esterne.

A tal riguardo infatti il paradigma dell’allostasi consente di vedere il concetto di stress come una richiesta da parte dell’organismo di riappropriarsi dei propri ritmi (Gaggioni, Maquet, Schmidt, 2014). Sotto stress per l’appunto l’organismo mette in atto modificazioni multi-sistemiche coordinate, fisiologiche e comportamentali, finalizzate al raggiungimento di un nuovo equilibrio, migliore rispetto al precedente, ciascuna delle quali produce delle modificazioni inerenti i vari distretti psicobiologici, con un’ulteriore ricaduta sui rispettivi ritmi crono biologici (McEwen, 2007).

A tal riguardo tuttavia la fase di adattamento presenta un costo, un prezzo vero e proprio da pagare, definito “carico allostatico” (Cannon, 1935), strettamente correlato ad una condizione di stress cronico e/o ripetuto. La ripetitività e la cronicizzazione derivanti da questo nuovo equilibrio provocano viceversa uno squilibrio fisiologico, determinando sia risposte meno adattive, sia una mancanza progressiva dell’elasticità (McEwen, 2000).

A lungo termine possono usurarsi gradualmente i sistemi di regolazione ed autoregolazione, con conseguenze negative sull’intero organismo.

Ad esempio uno stato protratto di ansia ed elevata vigilanza mantiene cronicamente accesa la risposta di arousal, (intensità dell’attivazione psicofisiologica di un organismo) sostenendo così il tono ortosimpatico e l’attività dell’asse ipotalamo – ipofisi – surrene (Wassing, Benjamins, Dekker, 2016).

Questo quadro può compromettere non solo il “nuovo stile di vita” dell’individuo, ma anche i ritmi crono biologici. Ad esempio livelli elevati e persistenti di cortisolo possono determinare disturbi a livello del sistema cardiovascolare, causando il rischio di ipertensione e aterosclerosi (Kanth, Ittaman, Rezkalla, 2013). Nondimeno insorgerebbe una vera e propria difficoltà nel sapersi adattare e rispondere a nuovi fattori stressanti (Sterling, 2012). L’omeostasi viene a configurarsi così in un panorama disfunzionale e disadattivo, nel quale rischiamo di creare la nostra nuova identità: quella del sacrifico, a favore di una maggiore riconoscenza sociale e lavorativa.

Riequilibrare i ritmi al fine di scoprire il proprio crono tipo

A seguito di quanto esposto è stato possibile considerare come i propri ritmi biologici rivestano un ruolo fondamentale per il nostro equilibrio psicosomatico (Hermida, Ayala, Smolensky, 2016).

L’orologio centrale deve quindi essere continuamente monitorato sia in rapporto ai fattori ambientali esterni, sia in rapporto a quelli interni e di natura intrapsichica. A tal riguardo infatti la suddivisione dei cosiddetti sincronizzatori consente una migliore comprensione circa le nostre rispettive interazioni.

Quelli esterni risultano di due tipi: primari e secondari. Se i primi sono circoscritti all’ambiente, quelli secondari invece si correlano al nostro modo di organizzare la nostra vita, sia individuale che sociale. Nondimeno quelli secondari ricoprono un ruolo più incisivo poiché sono direttamente proporzionali tanto alla qualità quanto alla quantità di sonno di ciascun soggetto e più nello specifico al tipo di lavoro svolto.

Perché se siamo in balia delle richieste e delle pressioni esterne, rischiamo di dimenticare ciò che ci caratterizza e che al contrario dovrebbe guidarci anche nel saper scegliere cosa è più giusto per noi: la nostra unicità.

 

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