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Il contributo genetico della felicità non è del 50% (ma presumibilmente molto inferiore)

Alla luce delle conoscenze della letteratura scientifica attualmente disponibile, i risultati emersi dagli studi che finora hanno cercato di quantificare la componente genetica della felicità, presentano forti limitazioni metodologiche che rendono molto discutibili le conclusioni quantitative finora stimate.

 

Il contributo genetico nella felicità

Vi è la diffusa convinzione che il contributo genetico della felicità sia circa del 50% (Lyubomirsky, 2007; Goldsmith, 1983; Nichols, 1978) ma il paradigma epigenetico attualmente adottato dalla comunità scientifica ci informa che la metodologia utilizzata finora per stimare il contributo genetico è in generale scorretta e largamente sovrastimata (Agnoletti, 2020; Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2022; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Fraga et al., 2005; Yet et al., 2016).

La felicità è uno dei tratti fenotipici più complessi perché naturalmente rappresenta un insieme molto complesso di interazioni tra i vari aspetti biologici, psicologici e socioculturali che costituiscono la nostra identità.

Durante gli ultimi decenni la felicità è stata oggetto di molti studi scientifici (Diener et al., 2009; Diener & Seligman, 2002; Seligman & Csikszetmihalyi, 2000) e tra questi vi sono state delle ricerche che hanno provato a stimare la componente genetica di questo complesso fenomeno specie-specifico umano (Nes & Røysamb, 2017; Bartels et al., 2010).

All’interno di questi studi, la metodologia più utilizzata si è focalizzata sulla comparazione tra gruppi di gemelli identici (omozigoti) e non (eterozigoti) assumendo che la componente invariante attribuita alla misurazione della felicità dei soggetti fosse attribuibile alla componente ereditaria genetica.

Soprattutto nel corso degli ultimi due decenni la diffusione del paradigma epigenetico ha fatto emergere alcuni errori concettuali della metodologia utilizzata per stimare la componente genetica di molti tratti fenotipici umani, compresa la felicità, minando quindi i risultati di suddetti studi (Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2022; Yet et al., 2016; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005).

Attualmente la comunità di psicologi a livello mondiale ritiene attendibile che circa il 50% della felicità sia determinato da fattori genetici cioè attribuibili al DNA.

Per logica il resto della “torta” relativa ai fattori che determinano la felicità umana viene calcolata sulla base di questo 50% e generalmente viene attribuito un 10% a condizioni di vita esterne (non potenzialmente controllabili) ed il rimanente 40% alle scelte che operiamo quotidianamente (quindi potenzialmente controllabili e conseguentemente delle quali abbiamo una responsabilità) (Lyubomirsky, 2007; Goldsmith, 1983).

Questi dati sono accettati all’interno della comunità degli psicologi soprattutto grazie al successo editoriale di libri quali ad esempio quello della psicologa Sonja Lyubomirsky, una delle ricercatrici più note attualmente sul tema della felicità (Lyubomirsky, 2007).

Alla luce delle conoscenze della letteratura scientifica attualmente disponibile, i risultati emersi dagli studi che finora hanno cercato di quantificare la componente genetica della felicità presi come riferimento, ad esempio anche dalla prof.ssa Lyubomirsky, presentano forti limitazioni metodologiche che rendono molto discutibili le conclusioni quantitative finora stimate.

Possiamo oggi affermare con tranquillità, grazie alle attuali conoscenze relative all’epigenetica, che non solo la percentuale del 50% sarebbe stata finora sovrastimata, ma naturalmente anche la somma della quota dei fattori relativi alle “circostanze di vita” e le “scelte personali” (e quindi le nostre responsabilità in merito) sarebbero state finora largamente sottostimate.

La limitazione principale consisterebbe in un errore concettuale commesso generalmente dalla metodologia utilizzata finora per stimare la componente genetica umana nella felicità e cioè che essenzialmente non tutto ciò che è ereditario è attribuibile alla genetica umana.

Anche se esiste un legame tra ereditario e genetico questi concetti non indicano la stessa cosa né si sovrappongono completamente (Barbieri, 1998; Barbieri, 2001; Bottacioli, 2014; Bottaccioli & Bottaccioli, 2017).

Ereditario è l’insieme di informazioni che vengono trasmesse da una generazione all’altra, la componente genetica riferita al DNA umano è uno dei fattori informazionali che vengono ereditati, ma non è l’unico (Bartels et al., 2010; Hahn, Johnson, & Spinath, 2013; Wong, Gottesman & Petronis, 2005).

In passato gli studi che hanno avuto come obiettivo la stima della componente genetica della felicità hanno analizzato le differenze tra due categorie di soggetti: i gemelli omozigoti ed i gemelli eterozigoti in due contesti distinti (ambiente familiare condiviso o non condiviso).

I gemelli identici, detti anche omozigoti, condividono lo stesso genoma, a differenza dei gemelli eterozigoti che condividono solo il 50% dei geni.

Gli errori metodologici

La metodologia generalmente utilizzata relativamente al tratto fenotipico della felicità si basa sull’assunto che la variabilità differenziale tra questi due gruppi di gemelli, sia attribuibile alla componente extra genetica a causa dell’esposizione di esperienze post nascita che hanno prodotto tale variabilità.

In buona sostanza la logica è la seguente: la percentuale di variazione registrata tra un gruppo di gemelli omozigoti ed eterozigoti relativamente alla felicità è attribuibile a fattori extragenetici, quindi la percentuale non variante è conseguentemente attribuibile ai fattori genetici del DNA umano (Goldsmith, 1983; Nichols, 1978).

Emerge quindi chiaramente la (fallace) sovrapposizione concettuale delle dicotomie natura/ambiente, DNA/fattori extragenetici ed ereditario/non ereditario.

Questa concettualizzazione metodologica è stata utilizzata anche confrontando gruppi di gemelli omozigoti ed eterozigoti nei contesti in cui le persone hanno vissuto all’interno dello stesso ambiente familiare o in ambienti differenti (Tellegen et al., 1988).

Fino ad oggi questo tipo di metodologie sono concordi nel quantificare il ruolo della cosiddetta componente genetica umana della felicità nell’ordine circa del 40-50% (Nes, R.B., & Røysamb, 2017; Bartels et al., 2010).

Vediamo adesso i principali problemi di questa metodologia alla luce del paradigma epigenetico.

Nella specie umana (e non solo nella nostra specie) il termine ereditario non è sinonimo di DNA (umano) infatti esistono evidenze relative al fatto che non ereditiamo “solo” il DNA umano trasmesso dai nostri genitori, ma anche una memoria epigenetica che modula cosa viene espresso o meno dello stesso DNA umano (in forma di metilazioni della citosina, acetilazione degli istoni, modifiche della cromatina).

In proposito si veda ad esempio il fenomeno della “super-identità” alla nascita dei gemelli omozigoti che oltre ad essere identici dal punto di vista genetico condividono anche almeno una parte di memoria epigenetica che quindi risulta identica.

L’organismo umano, al momento del parto, eredita, oltre ad una memoria genetica codificata dal DNA, anche una memoria epigenetica codificata in tutti quei meccanismi che regolano l’espressione dei geni.

Recenti ricerche (Bell & Spector, 2011; Fraga et al., 2005; Tan, Christiansen, von Bornemann Hjelmborg & Christensen, 2015; Kaminsky et al., 2009; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Yet et al., 2016), coerentemente con quanto affermato dal paradigma epigenetico, hanno dimostrato che i gemelli omozigoti, o identici, condividono non solo il medesimo genoma, ma anche parte dell’insieme dei meccanismi molecolari che regolano l’espressione dei geni.

Questa informazione extra-genetica (rispetto al DNA umano) ha origine nelle prime fasi dello sviluppo embrionale e permette di poter predire lo sviluppo di alcune malattie (anche oncologiche) che si svilupperanno anche a distanza di anni.

Nei gemelli omozigoti le invarianze riguardano non solo quindi le componenti informazionali del DNA umano, ma anche, almeno in parte, quelle relative alle memorie epigenetiche; per questo motivo i gemelli omozigoti sono anche recentemente chiamati dagli esperti “supersimili”.

I gemelli omozigoti non condividono quindi “solamente” il contenuto del DNA, ma anche memorie epigenetiche, pertanto la metodologia descritta poco sopra che compara gemelli omozigoti ed eterozigoti compie una falsa attribuzione quando fa coincidere l’invarianza tra questi due gruppi unicamente con il contributo genetico del DNA umano.

In altri termini l’invarianza rilevata da questa metodologia non fa emergere unicamente la condivisione del DNA umano tra i due gruppi ma anche, e sottolineo “anche”, quella relativa all’informazione epigenetica condivisa.

Assumere come esclusivamente “genetica” l’invarianza tra le due tipologie di gemelli è un errore concettuale/metodologico dovuto al fatto che la suddetta invarianza è in realtà il risultato della somma della memoria del DNA umano e della memoria epigenetica “supersimile” (nel caso dei gemelli omozigoti).

Tutte le ricerche che hanno condiviso questa errata metodologia per studiare specifici tratti fenotipici hanno quindi finora grandemente sottostimato le componenti extra genetiche umane sovrastimando quelle genetiche attribuite al DNA.

In estrema sintesi, il paradigma epigenetico che afferma che non tutta l’informazione ereditabile di un organismo è sovrapponibile con il contenuto informazionale del DNA mina le basi concettuali della metodologia finora adottata per stimare il contributo genetico della felicità prevedendo una forte sovrastima del contributo genetico di questo (ed altri) tratti fenotipici (Agnoletti, 2022; Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2020).

Vi è stata una grande sovrastima della componente genetica nei confronti della felicità e di conseguenza c’è stata finora una comunicazione, anche promossa dai professionisti del benessere e della salute umana, che ha fortemente sottostimato il valore ed il ruolo dei processi decisionali e quindi della responsabilità individuale e sociale relativamente alla felicità.

Alla luce di quanto descritto, coerentemente con il paradigma epigenetico, risulta quindi che la percentuale di controllo che possiamo avere sulla felicità è molto più alta di quanto previsto in passato, quindi, è auspicabile correggere la comunicazione sia professionale che generale, al fine di favorire il benessere e la salute psicofisica individuale e sociale.

Questo auspicio risulta avere, per i professionisti, anche una valenza deontologica perché eviterebbe l’effetto iatrogeno attualmente presente relativo all’errata comunicazione di un più limitato margine di controllo determinato dalle scelte personali.

La supervisione (2022) di Nancy McWilliams – Recensione

Il libro “La supervisione” si rivolge a psicoterapeuti di prospettive teoriche diverse e mette in evidenza come la qualità di una supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto.

 

Il libro si apre con una citazione di Watkins che definisce la supervisione:

Un metodo educativo o un intervento in cui un professionista più anziano della comunità psicoanalitica, con maggiori conoscenze ed esperienza clinica, stabilisce un rapporto professionale con un collega più giovane, con minori conoscenze ed esperienze … per promuovere la crescita professionale e accrescere le competenze cliniche e concettuali del più giovane; tale relazione è di tipo valutativo e gerarchico, si sviluppa nel corso del tempo e prevede un processo di monitoraggio e controllo della qualità del lavoro del clinico (Watkins, 2011, p. 403).

 Relativamente a questa definizione dovremmo tener presente che la supervisione, o l’intervisione tra pari, sono pratiche che dovrebbero accompagnare uno psicoterapeuta, indipendentemente dalla sua età, per tutto il periodo dell’attività professionale. L’autrice, di orientamento psicoanalitico, in più parti del testo sottolinea tale necessità.

Il libro si rivolge anche a psicoterapeuti di prospettive teoriche diverse e mette in evidenza come la qualità di una supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto, avendo come obiettivo di sviluppare uno stile di lavoro che ben si adatti al terapeuta e ai suoi pazienti, sfuggendo al rigore dell’ortodossia del modello teorico.

Per la McWilliams più che l’apprendimento del modello teorico, ciò che conta sono le intuizioni dei supervisori esperti. Sebbene riconosca che la formazione mirata a sviluppare competenze specifiche e pratiche cliniche ad hoc abbia un suo valore, pensa che vada considerata una visione ampia del percorso di crescita professionale da non ridurre all’insegnamento di procedure: “Se fossi stata formata in una serie di interventi manualizzati per sindromi sintomi-specifiche, penso che sarei incorsa in burnout all’inizio della mia carriera”.

A questa idea centrale del suo lavoro si contrappongono una serie di studi empirici presenti in letteratura che suggeriscono viceversa che l’aderenza ad un modello teorico ben preciso favorisca una migliore efficacia della supervisione (Scarinci, Barnabei, Mezzaluna, 2021).

Si può certo concordare sul fatto che fare supervisione comporti delle competenze specifiche e diverse dal fare clinica: autorevolezza, maturità, capacità raffinate di ragionamento clinico, ma la conoscenza approfondita del modello di riferimento rimane un presupposto di base. Come sosteneva De Silvestri bisogna imparare prima di tutto a suonare il violino, poi ogni musicista lo suonerà in modo personale, tenendo in considerazione che di Paganini ce n’è uno solo. D’altra parte l’impostazione della Mc Williams fornisce accenni alla possibilità di sottoporre la supervisione a prove di efficacia che riguardano gli effetti sul supervisee, sul paziente e sul processo terapeutico, e questo risulta essere un campo ancora tutto da esplorare.

L’autrice propone una riflessione già nel primo capitolo sugli obiettivi e i processi implicati nella supervisione e continua dedicando il secondo a ricostruire la storia della supervisione psicoanalitica, discutendo se si debbano trattare i supervisionati, insegnare loro le tecniche o favorire una crescita professionale complessiva. Quindi dichiaratamente assume essa stessa un modello di riferimento, naturalmente auspicando che il contributo che fornisce possa risultare utile anche a supervisori e professionisti che adottano approcci diversi.

Effettivamente il libro è pieno di spunti di riflessione utili anche per chi non è di stretta osservanza psicodinamica.

Due questioni controverse che sono emerse in modo ricorrente nella letteratura clinica sono messe in risalto e riguardano gli obiettivi della supervisione: “insegnamento versus trattamento” e “trasmissione di competenze versus promozione della maturazione”.

Il capitolo terzo si sofferma su cosa valutare, quali sono i progressi in terapia psicodinamica, considerato che non ci si può limitare a considerare i soli sintomi, con una velata critica ad altri modelli che punterebbero piuttosto a trattarli in modo preminente.

L’autrice sostiene che un obiettivo fondamentale della supervisione è il benessere dei pazienti dei clinici in supervisione e indica una serie di “segni vitali di cambiamento psicologico, diversi dai criteri riduzionistici legati al sintomo che la maggior parte dei ricercatori adotta per valutare l’esito dei trattamenti manualizzati brevi” che andrebbero monitorati: maggiore sicurezza nell’attaccamento; costanza di sé e dell’oggetto; senso di agency (autonomia, autoefficacia); autostima realistica e affidabile (narcisismo sano); resilienza, flessibilità e regolazioni degli affetti (forza dell’io); funzione riflessiva (insight) e mentalizzazione; benessere in contesti collettivi e individuali; vitalità, accettazione, perdono e gratitudine, amare, lavorare e giocare.

 Nel quarto capitolo sono trattati il contratto di supervisione per una condivisa alleanza di apprendimento, la formulazione di obiettivi realistici nel trattamento e la promozione di una maggiore franchezza e onestà nella diade di supervisione. In questo processo è fondamentale avere rispetto dell’intelligenza emotiva, delle capacità intuitive e delle buone intenzioni dei supervisionati, dando spazio alla discussione delle diverse soluzioni ai dilemmi clinici e provare a immaginare l’esito di ciascuna opzione.

Il tema della consultazione e della supervisione di gruppo è trattato nel quinto capitolo. Il gruppo fornisce una base sicura per comparare i vissuti e fare luce su eventuali punti ciechi, migliorare le conoscenze e la padronanza delle procedure di trattamento.

Nel capitolo successivo, attraverso alcune vignette cliniche, sono proposti una serie di problemi di natura etica: dilemmi etici in relazione al migliore interesse del paziente, del terapeuta e della comunità.

Al tema della formazione negli istituti psicoanalitici e delle caratteristiche della supervisione in questo ambito è dedicato un capitolo specifico, anche se molte riflessioni sono sparse anche in altri capitoli. Molto interessante è l’accentuazione che è posta sul fatto che non esiste virtualmente alcun accordo all’interno del campo psicoanalitico in merito a come definire quali siano le qualità di un analista competente. Il problema è alla riflessione di tutte le scuole di specializzazione di qualsiasi indirizzo, unitamente a quali caratteristiche dovrebbero appartenere a un supervisore. In merito a questi temi sarebbe necessario un investimento maggiore nella ricerca. D’altra parte la Mc Williams fornisce una serie di esemplificazioni sulle dinamiche tra analista e supervisore che vanno affrontate e, siccome la ricerca è ancora in uno stato embrionale, non vi è un accordo su quale dovrebbe essere il ruolo del supervisore, sulla valutazione, su cosa è più utile per la maturazione dei candidati e su quale relazione intercorre tra la supervisione e l’ottenimento del titolo, anche se negli ultimi tempi si vanno mettendo a punto criteri didattici.

Per l’autrice ogni diade paziente-terapeuta è unica, come ogni combinazione composta da supervisore e supervisionato, nonostante ciò nell’ottavo capitolo sono generalizzate “le dinamiche di alcune tendenze psicologiche che possono riguardare entrambi i componenti della relazione di supervisione” con riferimento a tratti di personalità specifici di ognuno dei due. Una parte molto interessante di questo capitolo riguarda alcune riflessioni circa le possibili strategie per ridurre l’impatto dei problemi che si possono presentare.

Il contributo si chiude con un capitolo, il nono, in cui si offrono una serie di consigli pratici, riteniamo genericamente condivisibili, perché con la supervisione si raggiungano almeno due obiettivi:”sviluppare una voce guida di supervisore interno e imparare a capire quando si ha bisogno del supporto della supervisione e come ricercarla nel corso della propria carriera”.

Il libro è sicuramente un testo da leggere per chi opera nella formazione degli psicoterapeuti e per chi svolge supervisione perché, nonostante il modello teorico di riferimento sia dichiarato, le riflessioni contenute e gli spunti su alcuni temi sono utili per tutti quanti operano nel campo.

 

Disturbo da comportamento sessuale compulsivo: differenze di genere

Anche se in passato sono state riportate alcune differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo, mancava una panoramica approfondita e completa; di questo si è occupata una revisione sistematica di Kürbitz e Briken (2021).

 

Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo

 Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo (Compulsive Sexual Behavior Desease; CSBD) è una nuova categoria diagnostica che è stata stabilita per la prima volta nell’ICD-11 (WHO, 2019). Sebbene la diagnosi sia nuova, si tratta di un fenomeno molto antico dato che da oltre 100 anni i ricercatori riportano casi di persone con un comportamento sessuale eccessivo che causa problemi in altre aree della vita (Briken, 2020).

Quando si parla di disturbo da comportamento sessuale compulsivo, è importante distinguere tra le persone che hanno un elevato desiderio sessuale e i pazienti affetti da disturbo da comportamento sessuale compulsivo. Gli individui con un elevato desiderio sessuale non dovrebbero essere patologizzati se l’elevato desiderio sessuale non provoca sofferenza, o se la sofferenza è mediata soltanto da norme sociali negative sul sesso (ad esempio pensieri restrittivi o religiosi sul sesso e sul desiderio sessuale; Kraus et al, 2018).

Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo (o “disturbo ipersessuale” o “dipendenza da sesso”) è oggi descritto dai seguenti sintomi: un forte impulso a impegnarsi in comportamenti sessuali, l’uso di comportamenti sessuali per far fronte a stati emotivi avversi (ad esempio, riduzione della tensione), il pregresso tentativo di controllare questi impulsi senza riuscirci, e l’impegnarsi in comportamenti sessuali ripetutamente senza tener conto delle conseguenze negative (Briken, 2020).

Differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo

Dato che anche i ricercatori e i clinici sono soggetti a pregiudizi, in passato il disturbo da comportamento sessuale compulsivo era considerato per lo più un problema maschile. Infatti, la ricerca si è sempre focalizzata maggiormente sulle disfunzioni sessuali più “tipicamente femminili”, come la bassa libido e il dolore (Basson et al., 2004). Questo ha portato a uno studio del disturbo da comportamento sessuale compulsivo poco approfondito e le poche ricerche disponibili sono state condotte principalmente sugli uomini.

Questa mancanza di letteratura comporta delle barriere nel trattamento del disturbo da comportamento sessuale compulsivo, barriere che si verificano nell’individuo (ad esempio, non ammettere a se stessi di avere un problema sessuale), nella società (norme sociali diverse per uomini e donne), nella ricerca (la CSB è poco studiata nelle donne) e nel trattamento (ad esempio, lo stigma; Dhuffar & Griffiths, 2016).

Anche se in passato sono state riportate alcune differenze di genere, mancava una panoramica approfondita e completa delle differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo. Di questo si è occupata una revisione sistematica di Kürbitz e Briken (2021). Lo scopo di questa revisione era infatti identificare le differenze tra uomini e donne per quanto riguarda i sintomi e le comorbidità psichiatriche.

 Nella revisione, quasi tutti gli studi hanno riportato punteggi più alti negli indici di disturbo da comportamento sessuale compulsivo negli uomini. È possibile che le donne cerchino aiuto solo quando percepiscono il loro comportamento come una minaccia per la loro vita privata e professionale, aspettando quindi più a lungo per richiedere sostegno. È possibile che per gli uomini sia più facile riferire i propri comportamenti, perché i comportamenti sessuali ad alta frequenza sono culturalmente più attesi dagli uomini (Carpenter et al., 2008), il che si traduce in un eccesso di segnalazione dei comportamenti sessuali negli uomini e in un difetto di segnalazione dei comportamenti sessuali nelle donne (“doppio standard sessuale”).

La comorbidità nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo

Per quanto concerne i tratti psicologici e le comorbilità psichiatriche, un maggiore nevroticismo e la vulnerabilità allo stress sembrano essere un percorso che potrebbe spiegare il disturbo da comportamento sessuale compulsivo nelle donne. Mentre altri fattori di influenza sembrano essere più importanti per gli uomini, ad esempio l’ADHD, l’autismo, il disturbo ossessivo compulsivo, la depressione e l’ansia (Levi et al., 2020). Se applicato al Modello Integrato del disturbo da comportamento sessuale compulsivo (Briken, 2020), ciò potrebbe significare che il nevroticismo, la vulnerabilità allo stress e i problemi di fiducia potrebbero mediare la comorbidità psichiatrica o facilitare l’uso del sesso come meccanismo di coping.

Alcuni studi hanno evidenziato una connessione tra disturbo da comportamento sessuale compulsivo e comportamenti sessuali insoliti e disfunzioni sessuali. Engel e colleghi (2019) hanno riscontrato un’alta prevalenza di fantasie coercitive in entrambi i sessi, ma gli uomini si sono impegnati più spesso in comportamenti sessualmente coercitivi. I livelli di gravità del disturbo da comportamento sessuale compulsivo erano anche associati a fantasie sessuali che implicavano la coercizione e a comportamenti coercitivi effettivi. Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo sembra essere collegato anche a comportamenti parafilici, con gli uomini che riferiscono una maggiore prevalenza di esibizionismo, sadismo, voyeurismo e frotteurismo; mentre le donne hanno tassi più elevati di masochismo e feticismo (Castellini et al., 2018).

Questi risultati indicano che sia gli uomini che le donne con disturbo da comportamento sessuale compulsivo riferiscono fantasie e comportamenti parafilici, ma le donne tendono a riferire parafilie che potenzialmente potrebbero rappresentare una maggiore minaccia per loro stesse (ad esempio, il masochismo se non praticato in confini sicuri) e gli uomini riferiscono parafilie con un maggiore potenziale di danno per gli altri (ad esempio, comportamenti coercitivi, frotteurismo e sadismo non consensuale).

È interessante notare che il consumo di pornografia sembra essere meno importante per le donne affette da disturbo da comportamento sessuale compulsivo rispetto agli uomini (Castro-Calvo et al, 2020). La masturbazione e il consumo di pornografia sono comportamenti sessuali a rischio relativamente basso, a parte il fatto che sono più normativi per gli uomini che per le donne.

Un percorso spesso discusso nello sviluppo del disturbo da comportamento sessuale compulsivo è rappresentato dalle esperienze di avversità infantili o da una storia di abuso sessuale (ad es, Castellini et al., 2018). Il quadro su se e come le avversità infantili influenzino in modo diverso i generi è ancora inconcludente. Uno studio ha trovato una correlazione tra disturbo da comportamento sessuale compulsivo e trascuratezza paterna nelle donne ma non negli uomini. Lo stesso vale per una storia di abuso sessuale (Castellini et al., 2018). Sebbene l’abuso sessuale grave sia più diffuso tra le donne (Häuser et al., 2011) nella popolazione generale, uno studio (Slavin et al., 2020) ha rilevato che una storia di abuso sessuale infantile e adolescenziale influisce sul disturbo da comportamento sessuale compulsivo negli uomini in misura maggiore rispetto alle donne.

Conclusioni

In conclusione, lo studio di Kürbitz e Briken (2021) ha dimostrato che il disturbo da comportamento sessuale compulsivo sembra avere espressioni almeno in parte diverse negli uomini e nelle donne. Per questo motivo è importante implementare strategie terapeutiche specifiche per genere.

Conoscenze e competenze professionali – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 13

In questo numero, e nei prossimi tre, conosceremo i quesiti connessi al Tema C della Consensus Conference: Conoscenze e competenze professionali necessarie per l’erogazione delle terapie psicologiche per ansia e depressione.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 13) Conoscenze e competenze professionali

 

 La riflessione stimolata da questo tema ha riguardato i requisiti formativi indispensabili per garantire l’applicazione di cure psicologiche per disturbi d’ansia e depressivi che siano basate su prove di efficacia.

Il Tema C, dunque, si articola in tre sotto-temi. Il primo quesito (C1) interroga la Giuria in merito alle strategie formative che possono essere utili e realizzabili nelle scuole di specializzazione. Con il secondo quesito (C2) gli esperti aprono la discussione sui livelli di formazione considerati minimi. Invece, il terzo quesito (C3) riguarda le iniziative che possono essere attuate nel contesto dell’aggiornamento professionale continuo.

Scopriamo insieme il Quesito C1 e le relative raccomandazioni.

Quesito C1: le scuole di specializzazione

Quali iniziative possono essere indicate ed essere rese praticabili ai livelli delle scuole di specializzazione di neuropsichiatra infantile, psichiatria, psicologia clinica e altre scuole abilitanti all’esercizio della psicoterapia, sia universitarie sia private, ai fini di fornire conoscenze approfondite e competenze operative sulle terapie psicologiche per ansia e depressione con prove di efficacia?

È importante sottolineare che le scuole di specializzazione che consentono l’abilitazione alla professione di psicoterapeuta –quindi all’erogazione di psicoterapie– possono essere sia di tipo privato che pubblico, ovvero offerte dalle università. Ciò comporta una differenza a livello di ore formative di tirocinio previste per ogni anno di scuola. Inoltre, sul territorio italiano, attualmente, le scuole private sono presenti in un numero significativamente maggiore rispetto a quelle pubbliche.

I programmi formativi di ogni scuola di specializzazione vengono definiti dalle scuole stesse, che possiedono specifici organi preposti a tale scopo, che decidono dunque l’oggetto dell’informazione e le pratiche operative che saranno offerte ai futuri professionisti della salute mentale.

Ma chi e come si definisce il valore scientifico di una scuola privata?

 In merito a questo aspetto, riguardo alle scuole di specializzazione private abilitanti all’esercizio della psicoterapia –ovvero la maggioranza–, il Prof. Maffei, che è presidente della Commissione Tecnico Consultiva (CTC) del Ministero dell’Università e della Ricerca, afferma che “non ci sono ancora criteri precisi rispetto alla definizione del valore scientifico di una Scuola”.

Tuttavia, il lavoro della CTC è attualmente guidato da due criteri: il primo riguarda il livello di diffusione, nazionale e internazionale, della proposta scientifico-metodologica della scuola, il secondo riguarda le pubblicazioni scientifiche presenti nelle banche dati online (come Scopus).

Raccomandazioni C1

Il Tavolo di Esperti che ha lavorato su questo Tema ha emesso le seguenti raccomandazioni, con l’obiettivo di proporre strategie applicabili a scuole di specializzazione universitarie e private per offrire conoscenze e competenze sulle terapie psicologiche per ansia e depressione basate su prove di efficacia.

  • È necessario incrementare la presenza delle scuole di specializzazione pubbliche, auspicabilmente, in ogni Università.
  • È necessario incrementare le ore di tirocinio nelle scuole di specializzazione private, per eguagliare quelle pubbliche.
  • È richiesta maggiore disponibilità delle strutture pubbliche e convenzionate di psichiatria, neuropsichiatria infantile e psicologia clinica ad ospitare i tirocini degli specializzandi.
  • Data l’alta prevalenza e le conseguenze invalidanti dei disturbi ansiosi e depressivi –dati discussi spesso in questa rubrica e nella Consensus Conference, nonché accertati dalla letteratura scientifica– è necessario che le scuole forniscano esperienze formative qualificate specifiche su tali psicopatologie.
  • Riguardo all’esperienza di formazione clinica per il trattamento di pazienti con disturbi ansiosi e depressivi, è indispensabile acquisire competenze di base legate al modello stepped care, ovvero la diagnosi articolata su livelli crescenti di gravità, il trattamento strutturato su più livelli di intensità e la valutazione sistematica degli esiti.

Infine, gli Esperti della Consensus Conference ritengono che, sebbene nel corso degli anni rispetto al processo di accreditamento di nuove scuole di psicoterapia sia stata data sempre più attenzione all’efficacia scientificamente attestata, si rende necessaria una “puntuale specificazione dei criteri di efficacia documentata e l’invito ad un riesame retroattivo delle autorizzazioni del passato, sia per tenere conto degli sviluppi recenti sia alla luce degli attuali criteri internazionalmente condivisi”.

Inoltre, alla luce della legge 3/2018, che annovera la professione di psicologo nelle professioni sanitarie, e della legge 176/2020, per l’implementazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) psicologici nel PNRR (art. 20-bis), è necessario formulare obiettivi formativi precisi in merito al tirocinio professionalizzante, che siano dunque coerenti con il ruolo della Psicoterapia nei LEA, e che preparino i futuri professionisti alla presa in carico della salute mentale dei cittadini e alla tutela del benessere psicologico della comunità.

 

Il temperamento

Il temperamento è uno stile emotivo e comportamentale caratteristico di un individuo, un modo di rispondere agli stimoli sensoriali, di esperire la realtà circostante e di relazionarsi con gli altri tipicamente stabile e consistente dall’infanzia.

 

 Il temperamento differenzia gli individui in termini di intensità delle risposte affettive ed emotive e a livello comportamentale, riflette tendenze latenti e può essere considerato come la dimensione biologica, emotiva e istintiva della nostra personalità, tuttavia risente anche di esperienze sociali e fattori ambientali: un genitore, per esempio, può relazionarsi in modo diverso con un figlio a seconda che sia maschio o femmina, oppure quest’ultimo può risentire in modo differente di esperienze di vita particolarmente significative. I tratti temperamentali emergono precocemente, sono connessi alla fase prenatale e perinatale e possono contribuire alla strutturazione della personalità dell’individuo. La personalità costituisce l’insieme delle caratteristiche che differenziano gli individui gli uni dagli altri, si configura come una somma di tratti, cioè di dimensioni relativamente stabili, costanti modalità di percepire e di relazionarsi con sé stessi e con gli altri. La personalità è una modalità strutturata di pensiero, sentimento e comportamento e favorisce l’adattamento all’ambiente.

Le dimensioni del temperamento e le principali tipologie

Nel 1977, gli psichiatri Stella Chess e Alexander Thomas effettuarono il primo studio sul temperamento degli adulti, il New York Longitudinal Study. Dopo aver indagato lo sviluppo psicologico di 133 soggetti dalla nascita all’età adulta, hanno delineato nove dimensioni caratterizzanti il temperamento umano:

  • attività: indica la proporzione tra periodi attivi e periodi inattivi del bambino, ad esempio se si tratta di un bambino particolarmente reattivo agli stimoli;
  • ritmicità: indica la regolarità o al contrario l’irregolarità dei ritmi alimentari, circadiani e del sonno;
  • adattabilità: indica la capacità di adattamento all’ambiente dell’individuo;
  • distraibilità: indica la capacità di uno stimolo esterno di distrarre un bambino da una certa situazione o da un comportamento;
  • soglia di sensibilità sensoriale: indica l’intensità di cui uno stimolo necessità per elicitare nel bambino una certa risposta sensoriale, ad esempio la tendenza di un bambino a sobbalzare al più lieve rumore;
  • intensità delle reazioni emotive: indica l’energia espressa dal bambino quando esplica una risposta emotiva, ad esempio la potenza percettiva di una risata;
  • umore: indica il tono prevalente dell’umore, ad esempio se si tratta di un bambino sorridente o tendenzialmente ritroso e schivo;
  • persistenza e durata dell’attenzione: indica la capacità di un bambino di mantenere l’attenzione verso un certo stimolo nonostante le interferenze e le eventuali interruzioni;
  • approccio o ritirata: indica il tipo di rapporto che il bambino ha con uno stimolo diverso dall’ordinario o con una situazione nuova, ad esempio il modo in cui reagisce alla vista di un estraneo.

Sulla base di queste nove dimensioni, i due psichiatri identificarono tre principali tipologie di temperamento:

  • bambino facile: comprende il 40% dei bambini; tipicamente i bambini facili presentano un umore positivo e instaurano una routine regolare.
  • bambino difficile: comprende il 10% dei bambini; i bambini difficili hanno un umore tendenzialmente negativo, piangono frequentemente e faticano a relazionarsi col caregiver e a delineare regolari routine.
  • bambino lento a scaldarsi (o a lenta attivazione): comprende il 15% dei bambini; l’umore di questo tipo di bambini è generalmente piatto.

Nel 1984, gli psicologi americani David Michael Buss e Robert Plomin classificarono i bambini sulla base di tre dimensioni del temperamento:

  • A- emotività: include tratti come la tendenza al malumore, all’irritabilità, all’ansia e all’agitazione;
  • B- attività: presuppone una differenziazione dei bambini in termini di reattività agli stimoli, mobilità, adattabilità e motricità;
  • C- socievolezza: indica la predisposizione al contatto sociale e alla relazione con gli altri.

Temperamento e autoregolazione

 Nel 2006, gli psicologi John E. Bates e Mary K. Rothbart, nella concettualizzazione del temperamento, operarono una suddivisione dell’emotività in positiva e negativa e delinearono il concetto di autoregolazione, cioè la capacità del bambino di regolamentare le sue risposte espressive, sensoriali e motorie, di adattarsi alle richieste ambientali attraverso un processo di modulazione delle proprie condotte. Tali autori descrissero il temperamento come una struttura costituita da tre dimensioni:

  • A- estroversione/disinibizione: indica la tendenza alla ricerca di stimoli nuovi e sensazioni particolari e l’impulsività;
  • B- affettività negativa: si riferisce alla tendenza alla paura, al pianto e all’irritabilità;
  • C- capacità di controllo/autocontrollo: corrisponde al controllo inibitorio, allo spostamento dei processi percettivi e attentivi, alla sensitività percettiva, al piacere a bassa intensità, alla capacità di autoregolazione, autogestione e alla facoltà che ha il bambino di calmarsi in situazioni specifiche.

Analizzando il costrutto di inibizione verso l’estraneo (sentimento di diffidenza, ansia ed evitamento che il bambino prova nei confronti di una figura sconosciuta o poco familiare che compare a partire dai 7-9 mesi), lo psicologo Jerome Kagan, uno dei pionieri della psicologia dello sviluppo, ha suddiviso il temperamento infantile in due tipologie: bambino inibito e bambino disinibito. Mentre il primo tende a manifestare cautela e ritrosia nei confronti degli estranei e ad adattarsi lentamente a stimoli nuovi, l’altro prende subito confidenza con essi e mostra una buona predisposizione all’adattamento.

Lo stesso Kagan nel 2002 e nel 2010 approfondì il costrutto di inibizione temperamentale deducendo che esista una correlazione tra il temperamento infantile e la capacità adulta di flessibilità all’esperienza, duttilità e adattamento all’ambiente: in particolare, il temperamento inibito pare essere fortemente correlato a una minore assertività in età adulta e a una maggiore difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro, oltre che a una certa quota di diffidenza generale e di sottomissione in età adolescenziale. Al contrario, bambini poco inibiti sembrerebbero maggiormente inclini ad approcciare a stimoli ed eventi nuovi in modo molto più energico e spontaneo, e generalmente in adolescenza ostentano maggior socievolezza. Naturalmente si tratta di concettualizzazioni prettamente statistiche: come già detto in precedenza, fattori ambientali come lo stile di accudimento, la relazione col caregiver, il contesto sociale, economico, scolastico e culturale di riferimento e il tipo di relazione e di esperienze che il bambino vive quando comincia ad interagire col gruppo dei pari possono condurre ad esiti e traiettorie di sviluppo molto diverse e modulare la componente biologica e il substrato genetico del temperamento umano.

 

Mal d’estate

L’estate è generalmente riconosciuta come la stagione del divertimento e della libertà, momento dell’anno atteso e desiderato da giovani e meno giovani. Tuttavia, sebbene non sia comunemente noto come la sua controparte invernale, il disturbo affettivo stagionale estivo (SAD) colpisce una fetta di coloro i quali presentano i sintomi di depressione stagionale (Black e Grant, 2014).

 

[…] E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. (Meriggiare pallido e assorto, Eugenio Montale)

Cos’è la depressione stagionale?

 Il disturbo affettivo stagionale (Seasonal Affective Disorder; SAD), noto anche come depressione stagionale, è stato definito per la prima volta da Norman E. Rosenthal nel 1984 come “una depressione che si manifesta regolarmente in determinati momenti”.

Attualmente, compare nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale.

Il quadro sintomatologico si caratterizza per un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, come la stagione invernale o estiva, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni (Black e Grant, 2014).

Il disturbo affettivo stagionale presenta un continuum di gravità, da una forma più leggera o subsindromica (S-SAD) a forme più invalidanti con compromissione del funzionamento e la presenza di ideazioni suicidarie (Melrose, 2015).

Il tasso di prevalenza nella popolazione femminile è quattro volte superiore a quello nella popolazione maschile e l’età di insorgenza è stimata tra i 18 ei 30 anni (Melrose, 2015).

La depressione stagionale estiva

È stato il dottor Rosenthal (1987), pioniere nella ricerca del disturbo affettivo stagionale, a rintracciare l’esistenza di una fetta di popolazione sofferente durante la stagione estiva: in un report del 1987, egli descrive dodici casi clinici di pazienti regolarmente depressi durante la stagione estiva, con sintomi comuni come il ritiro sociale e una diminuita loquacità, mancanza di speranza e perdita di interesse.

 Rosenthal (1987) ha sottolineato come la depressione stagionale estiva si manifesti come un insieme separato di problemi rispetto al disturbo invernale, distinguendo coloro che soffrono durante l’inverno per un vissuto di pigrizia e apatia, e coloro che soffrono d’estate per una forte agitazione psicomotoria senza rallentamenti fisici.

I sintomi del disturbo affettivo estivo tendono ad essere meno unificati nella manifestazione e nella causalità rispetto a quelli del disturbo affettivo stagionale; tuttavia, frequentemente si osservano una forte irrequietezza, sintomi ansiosi, appetito ridotto e perdita di peso, insonnia e accessi d’ira (Melrose, 2015)

Una serie di potenziali cause contribuisce allo strutturarsi del disturbo affettivo estivo.

  • I cambiamenti nei ritmi circadiani, con il sole che tramonta più tardi, possono destabilizzare la routine quotidiana; secondo Rosenthal, per alcune persone “la giornata è così confusa da renderli tristi”.
  • Il clima estivo, umido e caldo, può innescare sintomi depressivi.
  • La prolungata e forte luce solare può interrompere il ritmo circadiano e quindi il sonno, che può scatenare accessi d’ira e sintomi depressivi.

La pressione sociale estiva

La stagione estiva rappresenta un momento di quiete e relax, di arresto dalle fatiche lavorative, ma è anche un periodo socialmente vivo e florido, soggetto a molte pressioni sociali.

L’idea stessa di “vacanza” può essere fonte di stress, per la spesa economica implicata o per la compagnia di alcuni membri della famiglia.

In generale, l’aumento di eventi sociali durante il periodo estivo può innescare una forte ansia sociale, per la preoccupazione di partecipare a un numero sufficiente di eventi e sfruttare a pieno il periodo di ferie. A ciò, si aggiunge la norma socioculturale di magrezza come standard fisico che porta a concentrarsi sulla propria fisicità da una prospettiva esterna critica e giudicante, incrementando la preoccupazione del proprio aspetto in costume da bagno (Melrose, 2015).

 

Catcalling: quali sono le motivazioni che stanno dietro al fenomeno?

Lo scopo di uno studio di Walton e Pedersen (2022) è stato quello di indagare le motivazioni che spingono gli uomini a impegnarsi nel catcalling, esaminando le differenze di gruppo tra gli uomini che si dedicano al catcalling e quelli che non lo fanno, e analizzare le reazioni che sperano di suscitare nelle vittime.

 

Il catcalling come forma di molestia

 Le molestie di strada sono definite come una forma di molestia sessuale perpetrata da un estraneo in un luogo pubblico (Bowman, 1993). Nella maggior parte dei casi sono gli uomini a perpetrare le molestie e le donne a esserne vittime (Tran, 2015); Kearl (2010) ha addirittura osservato che ben l’80% delle donne a livello globale ha subito almeno una volta molestie di strada.

Una sottocategoria di comportamenti di molestie di strada è il catcalling, concettualizzato come una comunicazione verbale o non verbale diretta a sconosciuti in pubblico, tipicamente da uomini a donne, che spesso riguarda l’aspetto estetico del destinatario o è di natura sessuale.

Esso include comportamenti verbali e non verbali come l’invocazione di un nome, i fischi, le proposte, il “wolf-whistling”, le occhiate, gli ammiccamenti, i gesti e/o l’uso di segni per valutare l’aspetto fisico (Chhun, 2011).

Le donne vittime di queste molestie solitamente sperimentano reazioni fisiche spiacevoli, come tensione muscolare, difficoltà di respirazione, intorpidimento, tremori, vertigini e nausea (Tran, 2015). Emotivamente si prova spesso rabbia, paura, disgusto, vergogna, senso di violazione, imbarazzo e impotenza (ad es., Chhun, 2011). Nonostante l’impatto negativo delle molestie di strada, i catcall sono spesso considerati dagli uomini, e talvolta dalle donne, semplici complimenti (ad es., Gennaro & Ritschel, 2019), probabilmente perché comportano l’espressione di attrazione sessuale o di gradimento per l’aspetto del destinatario.

In letteratura vi è una mancanza di ricerche che indagano le motivazioni che spingono gli autori delle molestie.

Lo scopo di uno studio di Walton e Pedersen (2022) è stato proprio quello di indagare le motivazioni che spingono gli uomini a impegnarsi nel catcalling, esaminando le differenze di gruppo tra gli uomini che si dedicano al catcalling e quelli che non lo fanno, e analizzare le reazioni che sperano di suscitare nelle vittime.

Le motivazioni che portano al catcalling

I risultati hanno dimostrato che, all’interno del campione di 258 uomini eterosessuali, il 33,4% ha riferito di aver praticato il catcalling nell’ultimo anno, suggerendo che questo comportamento è piuttosto comune.

Gli uomini che hanno riferito di aver fatto del catcalling hanno dimostrato una maggiore adesione alle credenze sessiste, alla mascolinità tradizionale/conservatrice, all’orientamento al dominio sociale e alla tolleranza delle molestie sessuali rispetto agli uomini che non hanno fatto catcalling.

La maggior parte dei catcaller ha riferito di aver fatto del leering (guardare) il proprio comportamento principale, con il 57% dei catcaller che ha riferito di aver fatto solo leering e nessun altro comportamento; il 24,4% ha riferito di aver fatto leering insieme a uno o più altri comportamenti di catcalling.

Il leering potrebbe essere la forma più comune di comportamento di catcalling riferito, perché i partecipanti lo percepiscono come l’attività meno invasiva, più difendibile e con meno probabilità di essere respinti. A differenza di forme più palesi e invasive di comportamento di catcalling (ad esempio, commenti esplicitamente sessuali), che sono più ambigue e che potrebbero provocare reazioni di ritorsione, il leering consente una negazione plausibile. Chi fa del catcalling può più facilmente sostenere che l’azione è stata fraintesa o interpretata male dalla vittima designata.

La motivazione più frequentemente riportata dagli uomini per il catcalling è stata l’affetto sessuale positivo, suggerendo che il catcalling è spesso motivato dal desiderio di esprimere interesse sessuale per il soggetto vittima. I partecipanti hanno riferito di fare del catcalling per “dimostrare che quella donna piace” e “perché è un modo normale di flirtare”. Le seconde motivazioni più sostenute rientravano nella categoria del flirt e dell’adulazione, con l’intenzione di “fare un complimento alla donna” o “perché alle donne piace essere lusingate”. Nel complesso, questi risultati sono coerenti con la letteratura precedente, la quale indica che alcuni uomini credono che alle donne piaccia ricevere quelle attenzioni e che il catcalling sia una strategia normativa per flirtare e comunicare attrazione sessuale (Benard & Schlaffer, 1984).

 Alcuni uomini, tuttavia, possono ritenere che le risposte negative delle destinatarie al loro catcalling siano un rinforzo. Alcuni uomini che hanno adottato motivazioni di anonimato/potere e di misoginia hanno sostenuto affermazioni come “provo un senso di antipatia nei confronti delle donne e questo comportamento [di catcalling] mi soddisfa” e “mi impegno in un comportamento di catcalling perché è divertente far arrabbiare la donna”. Questi risultati sono coerenti con ricerche passate che indicano che alcuni uomini desiderano far arrabbiare o umiliare le donne con i loro catcall (Benard & Schlaffer, 1984). Inoltre, ciò si ricollega ai risultati di Oswald et al. (2019), che hanno scoperto che motivazioni legate alla misoginia e al potere spingono talvolta gli uomini a inviare alle donne foto non richieste dei loro genitali – un’altra forma di molestia sessuale.

Quando ai catcaller sono state chieste le reazioni che speravano di suscitare nei destinatari, quasi la metà (44%) ha espresso “non mi interessa come reagisce”.

In alcuni casi, gli uomini potrebbero trovare l’atto del catcalling intrinsecamente soddisfacente. Per esempio, per chi si dedica al catcalling con intenti più maliziosi, si potrebbe provare piacere nell’oggettificare e molestare le donne, non curandosi delle conseguenze che possono provocare. In altri casi, i partecipanti possono interpretare l’affermazione nel senso di “non mi interessa se non reagisce nel modo in cui speravo”, il che potrebbe forse indicare un sentimento di tolleranza o di accettazione dei diversi modi in cui le donne possono reagire ai catcall. Altri hanno riferito che può essere ragionevole aspettarsi che alcuni uomini si dedichino al catcalling con la speranza di ricevere una reazione specifica e ricercata, che a sua volta fornirà loro un beneficio, come un aumento dell’ego.

Conclusioni

In conclusione, questi risultati suggeriscono che, sebbene il comportamento di catcalling sia deliberatamente motivato da ideologie misogine in alcuni uomini, la maggior parte di essi non intende causare danni o esiti psicologici negativi.

Allo stesso tempo, gli uomini che si impegnano nel catcalling hanno punteggi più alti nelle misure di sessismo ostile, mascolinità tradizionalmente conservatrice, orientamento al dominio sociale e tolleranza delle molestie sessuali, rispetto agli uomini che non lo fanno. Quindi, mentre la maggior parte dichiara di non voler sminuire o danneggiare le donne, i loro atteggiamenti e comportamenti sono in contrasto con i loro obiettivi dichiarati.

 

La teoria della mente nei sex offender

Eventuali deficit della teoria della mente possono causare menomazione nell’impiego dei normali processi empatici che governano la generazione di una risposta affettiva ed empatica, che potrebbe in parte spiegare il comportamento dei sex offender.

 

I reati a sfondo sessuale e i sex offender

 Nel corso della storia dell’umanità, ogni società ha sviluppato la differenza tra i comportamenti sessuali accettabili e i comportamenti sessuali inaccettabili, o meglio definiti “devianti”. Essendo ogni società e cultura unica nel suo genere, il concetto di “comportamento deviante” può differire notevolmente (Saleh et al., 2021).

Per quanto concerne i reati a sfondo sessuale, il “comportamento deviante” messo in atto da un soggetto verso la propria vittima, corrisponde per quest’ultima alla percezione soggettiva di sentirsi invasa nella propria intimità. Da qui la definizione di sex offender inteso come colui che intraprende un’azione o un comportamento a sfondo sessuale ai danni di una persona non consenziente (Petruccelli, 2017).

Questi soggetti hanno delle fantasie sessuali devianti che muovono la messa in atto dei loro comportamenti, che possono essere istintivi o premeditati. All’interno della macrocategoria dei sex offender, vi sono delle sottocategorie che dipendono da più fattori: dalla tipologia di parafilia, dalla tipologia di vittima che suscita il desiderio sessuale, dalla tipologia di comportamento adottato o strategia prescelta.

La letteratura suggerisce che i criminali sessuali hanno difficoltà a stabilire relazioni intime adulte soddisfacenti, non sono in grado di gestire in modo funzionale le relazioni interpersonali, non riescono a far fronte a eventi stressanti e hanno anche problemi di regolazione emotiva. Questa disregolazione emotiva emerge particolarmente durante l’atto, dove il soggetto dimostra verso la vittima una serie di caratteristiche standardizzate, come il disimpegno morale e scarse capacità empatiche (Saleh et al., 2021). Queste caratteristiche sono tipiche anche della condotta antisociale, che tuttavia mostra livelli di disimpegno morale legati a livelli psicopatici; mentre i sex offender risultano essere maggiormente egoisti, insensibili e con un livello di rimorso e senso di colpa molto inferiore nei confronti delle loro vittime (Petruccelli, 2017).

Dunque, valutando la natura dei loro reati sessuali, si potrebbe ipotizzare che i sex offender soffrano di problemi di prospettiva e di empatia. Sulla base di uno sviluppo errato della prospettiva, che impedisce ai soggetti di comprendere l’intenzionalità delle loro vittime, e di un mancato potenziamento delle capacità empatiche, si potrebbe risalire a una compromissione della teoria della Mente (Theory of Mind [ToM]; Varker et al., 2008).

La teoria della mente nei sex offender

La teoria della mente è la capacità di riconoscere gli stati mentali e di comprenderne la natura soggettiva. Questa abilità si sviluppa in maniera stadiale durante l’infanzia. Quindi non è una capacità innata, ma si sviluppa nel corso della crescita dell’individuo, per continuare la sua definizione anche in età adolescenziale e in età adulta (Nolen-Hoeksema et al., 2017). La compromissione della teoria della mente può derivare sia da fattori fisiologici (genetici o organici), quali il ritardo mentale, oppure da fattori ambientali. Questi ultimi possono essere causati dallo sviluppo di un attaccamento insicuro, da un ambiente famigliare o sociale compromesso o inappropriato, o esperienze traumatiche legate a violenze o abusi (Keenan e Ward, 2000). Oltre all’ipotizzata influenza diretta dei deficit sociali sul comportamento criminale, una mancanza di intimità derivante da scarse abilità sociali può causare alti livelli di stress, che a loro volta possono aumentare la probabilità recidiva del sex offender (Elsegood e Duff, 2010). Un ritardo nello sviluppo della teoria della mente, o un suo sviluppo non idoneo, comporta la compromissione della funzione riflessiva della mentalizzazione, ovvero una compromissione nello sviluppo della capacità di rappresentare gli stati psicologici.

 Per stato psicologico si intende l’acquisizione evolutiva che permette al soggetto di comprendere il comportamento degli altri e quindi rispondere in modo adatto; ma riguarda anche la sua percezione dei loro sentimenti, credenze, speranze e aspettative, ecc. (Lecce et al., 2010). Quindi eventuali deficit della teoria della mente possono causare anche menomazione nell’impiego dei normali processi empatici che governano la generazione di una risposta affettiva ed empatica: vi è quindi una menomazione nel comprendere gli stati mentali altrui (Keenan e Ward, 2000). Queste menomazioni possono essere meglio definite come “distorsioni cognitive”.

La distorsione cognitiva viene definita come i processi interni, come ad esempio le giustificazioni, le percezioni o i giudizi, che i criminali a sfondo sessuale utilizzano per razionalizzare i loro comportamenti nei confronti delle vittime. La funzione di queste distorsioni è quindi quella di giustificare l’abuso senza sentirsi paralizzati dal senso di colpa, dall’ansia o dall’abbassamento di autostima, che potrebbe accadere nel momento in cui avviene il riconoscimento di aver violato le norme sociali (Abel et al.,1987).

Risulta che le distorsioni cognitive vadano a dare un contributo significativo al processo offensivo che caratterizza una molestia sessuale, permettendo al colpevole di percepire l’abuso come consensuale o innocuo (Ward e Keenan, 1999) e rifiutare le informazioni o i comportamenti che potrebbero contraddire la loro percezione. Inoltre, queste distorsioni possono permettere di confondere i segnali di affetto o cortesia con segnali di interesse sessuale (Elsegood e Duff,2010).

Prospettive future

In letteratura non c’è una chiara evidenza di una correlazione tra il deficit delle abilità della ToM e la criminalità. Per questa ragione, i deficit della ToM nei sex offender non possono spiegare né la genesi né il mantenimento dell’abuso sessuale stesso e di tutti gli elementi che lo determinano: tuttavia, per gli aggressori possono essere dei bisogni criminogeni, che possono contribuire al loro rischio di commettere il reato (Elsegood e Duff, 2010).

Sono quindi necessarie ulteriori ricerche sulle abilità della teoria della mente dei sex offender. In particolar modo sarebbe utile individuare quali deficit siano specifici dei crimini sessuali, piuttosto che essere caratteristici per tutti i criminali (Castellino et al., 2011).

 

La rabbia e le sue implicazioni positive e negative nello sport

La rabbia può diventare disfunzionale, specialmente negli sport che richiedono concentrazione, sforzo e attenzione prolungati per periodi di tempo più lunghi.

 

 Per chi pratica sport è importante saper gestire le emozioni e sfruttarle a proprio vantaggio. Le emozioni rappresentano un elemento fondamentale dello sport che possono accrescere od ostacolare la prestazione sportiva. Lo sport può diventare quindi un luogo privilegiato dove imparare ad ascoltare e riconoscere le emozioni come gioia, tristezza, rabbia e paura. Le emozioni sono quindi una risorsa per la comprensione di sé e dell’altro e per il fondamento dell’azione consapevole (Hanin, 2003). Come suggerito da Hanin e Syrja (1995), i processi emozionali possono seguire, regolare e sostenere l’azione sportiva, ma anche disturbarla e persino bloccarla.

Cos’è la rabbia e che funzione ha in generale?

La rabbia è un’emozione che, dato il suo modello di espressione facciale universalmente riconoscibile, viene annoverata tra gli stati affettivi di base (Ekmann, 1999). Le circostanze scatenanti la sua manifestazione possono riguardare una condizione di disagio fisico, dovuto per esempio a un ambiente ostile, o per proteggersi da un minaccia percepita (Wilkowsky e Robinson, 2010). Altre volte, questa emozione può supportare l’attuazione di agiti diretti all’obiettivo, quando una circostanza nel mondo esterno impedisce il raggiungimento dell’obiettivo desiderato, causando frustrazione (Panksepp, 1998). La rabbia in questi casi ha una funzione adattiva. Si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando essa crea sofferenza individuale oppure compromette le relazioni sociali spingendoci a compiere azioni dannose verso persone, cose o se stessi. In altri casi la rabbia, se incanalata in attività alternative o imparata a gestire, può essere intesa come strumento concepito per raggiungere determinati scopi prefissati.

La rabbia nello sport

La rabbia viene considerata come una reazione affettiva allo stress che si manifesta dopo la frustrazione, come uno stato emotivo che è conseguente all’eccitazione fisiologica vissuta e della sua interpretazione cognitiva. Pertanto, la rabbia come costrutto multidimensionale è associata a distorsioni cognitive (per es., valutazioni errate e attribuzioni di colpa), cambiamenti fisiologici (per es., ipertensione) e reazioni comportamentali (per es., espressioni facciali, strategie di espressione verbale/comportamentale della rabbia). La rabbia non è solo uno stato emotivo, che varia nel tempo, nella situazione e nell’intensità, ma puó anche essere uno stabile tratto di personalità che riflette la tendenza di una persona a provare rabbia frequentemente o intensamente (Spielberger et al., 1995).

Gli atleti coinvolti negli sport di contatto fisico, spesso percepiscono la loro rabbia agonistica come benefica per le prestazioni sportive (Robazza e Bortoli, 2007) e la considerano utile per stimolare un comportamento (Robazza et al., 2006). Al contrario, i giocatori di ping-pong (esempio di uno sport di contatto non fisico) considerano la rabbia continua e ricorrente come un fattore debilitante, poiché un surplus di energia risulta faticoso in termini di autocontrollo e può interferire con una prestazione ottimale (Martinent et  al., 2012). La rabbia può quindi diventare disfunzionale, specialmente negli sport che richiedono concentrazione, sforzo e attenzione prolungati per periodi di tempo più lunghi (Hanin, 2000).

Come può intervenire lo psicologo dello sport?

La letteratura scientifica suggerisce programmi di intervento cognitivo-comportamentale che possono risultare fruttuosi nell’aiutare gli atleti a comprendere e controllare la rabbia disfunzionale.

I programmi di trattamento della rabbia iniziano a tre potenziali livelli di cambiamento dell’esperienza e dell’espressione della rabbia:

  • Modifica dell’eccitazione fisiologica: include una desensibilizzazione sistematica e un trattamento di rilassamento inteso a ridurre l’eccitazione fisiologica associata alla rabbia e mirato a prevenire sentimenti spiacevoli e comportamenti sfavorevoli (Dahlen e Deffenbacher, 2001).
  • Modifica dei processi cognitivi: si basa su trattamenti cognitivi volti a modificare processi di pensiero come valutazioni e attribuzioni ostili e credenze irrazionali (Ellis e Dryden, 2007). Vengono sviluppate e provate cognizioni alternative e più funzionali. L’esperienza della rabbia sarà quindi ridotta in modo che l’intensità della rabbia rimanga a un livello che consenta un comportamento adattivo. Di conseguenza, cambierà anche l’espressione della rabbia.
  • Modifica del comportamento (interazione sociale): l’allenamento delle abilità sociali è un approccio comune al trattamento della rabbia e per organizzare in modo appropriato la comunicazione interpersonale. Le procedure in quest’area si basano sul presupposto che alcune persone possano avere deficit sociali. Quindi, i sentimenti di rabbia non possono essere espressi in modo socialmente appropriato: ad esempio, resistenza alle provocazioni o violazione di requisiti giustificati senza ferire i sentimenti degli altri (Deffenbacher et al., 2002). La formazione sulle abilità sociali insegna agli individui le abilità appropriate per gestire la rabbia nelle situazioni sociali. Vengono quindi utilizzati approcci multicomponenziali, in cui i cambiamenti sono intesi su ciascuno dei tre livelli di regolazione: processi psicofisiologici, processi cognitivi e processi di interazione sociale (Deffenbacher, 2011; Steffgen, 2014).
  • Uso della realtà virtuale: diversi studi hanno dimostrato l’efficacia della realtà virtuale nella gestione e nel trattamento della rabbia, soprattutto se usati in sinergia con trattamenti CBT. Gli ambienti di realtà virtuale (VR) possono infatti suscitare potenti reazioni e possono facilitare, in totale sicurezza e controllo, la manifestazione di stati affettivi di difficile gestione (Hye-Jeong Jo et al., 2022; Miyahira S.D et al., 2010).

Esiste una correlazione o una differenza tra rabbia e aggressività?

La rabbia è uno stato emotivo interno all’individuo, mentre l’aggressività si riferisce al comportamento messo in atto al di fuori. L’aggressività coincide con l’attacco fisico e/o verbale, mentre la rabbia, esperita soggettivamente, la si può osservare attraverso espressioni tipiche della mimica facciale (Barrett et al., 2019).

 La rabbia non causa spontaneamente e necessariamente aggressività, la conversione richiede altri fattori, tra cui l’attivazione, l’intensificazione e l’orientamento della rabbia, che può essere direzionata all’interno o all’esterno di sé. Se l’individuo si conosce come il responsabile della frustrazione e del fallimento, la sua rabbia si rivolge all’interno, contro se stesso, e si intensifica (Berkowitz, 1989; Kimble et al., 2010). Tuttavia, quando l’individuo riconosce le altre persone come responsabili della frustrazione e del fallimento, la rabbia si rivolge all’esterno, contro gli altri, e si intensifica. Il risultato di questa valutazione non è totalmente rivolto all’interno o all’esterno, può avvenire un graduale orientamento o attivazione.

Un altro meccanismo che porta la rabbia al punto di essere espressa in comportamento aggressivo è il predominio delle emozioni negative. Berkowitz (1983) spiega come la presenza e la serie di emozioni negative (esperienze di frustrazione, di opposizione, di aggressività e di stimolazione), specialmente nelle situazioni di emergenza delle competizioni sportive, preparano l’individuo all’aggressività. Sulla base di questa spiegazione, l’attivazione della rabbia originata dall’interno o dall’esterno per mezzo del predominio delle emozioni negative mette in relazione questa struttura psicologica con l’aggressività. Diverse forme di espressione di rabbia tra cui l’aggressività fisica, verbale e indiretta (Buss e Warren, 2000; Maxwell, 2008; Maxwell et al., 2007), che corrispondono a vari aspetti della rabbia in entrata e in uscita, confermano questa spiegazione.

Infine, l’aggressività è associata all’attivazione della rabbia tramite l’indebolimento del suo controllo e del suo potere di gestione. Quando la rabbia diventa attiva a causa di un fattore effettivo (interno o esterno), le emozioni negative che subentrano offuscano la lucidità dell’individuo. Nello sportivo questo si traduce con l’interruzione di aspetti quali la concentrazione o la precisione del gesto atletico. Inoltre, la probabilità di comportamenti aggressivi in ​​queste situazioni è molto alta.

L’identificazione di questa struttura psicologica negli atleti può essere considerata il primo passo per prevenire gli esiti negativi nelle competizioni sportive.

L’influenza della componente rimuginativa nello sport

Rimuginare sulle provocazioni e sulla rabbia associata può portare a un rischio maggiore di ritorsioni rispetto a quando la ruminazione non è presente. L’idea che la ruminazione sia un fenomeno cognitivo caratterizzato da modelli di attribuzione negativi fornisce un incoraggiamento per insegnare cognizioni più appropriate in risposta alla provocazione. Il modus operandi ruminativo può essere interrotto attraverso l’uso di diverse tecniche come l’arresto del pensiero e il cambio di pensiero. Fermare il pensiero implica riconoscere un pensiero inappropriato e urlare (silenziosamente) “STOP”, quindi respirare profondamente ed espirare lentamente mentre si conta a ritroso oppure concentrarsi su un comportamento non aggressivo/immagine neutra. Questa tecnica si è rivelata efficace nel trattamento di varie forme di ruminazione (Martin, 1982; Parenteau e Lamontagne, 1981) e può anche essere appropriata per combattere la rabbia ruminante negli atleti aggressivi. Il cambio di pensiero implica la sostituzione dei pensieri negativi con quelli positivi, come aumentare il desiderio di vincere piuttosto che vendicarsi. Entrambi i metodi dovrebbero dimostrarsi in grado di ridurre la ruminazione e, di conseguenza, aiutare a combattere la materializzazione di aggressioni indesiderate nello sport.

 

Freud Genio Infedele (2022) di Francesco Marchioro – Recensione

Freud Genio Infedele” è frutto di un imponente lavoro di ricerca e di conoscenza di un repertorio bibliografico molto vasto, oltre che della lettura di documenti inediti e reperti epistolari recentemente scoperti.

 

 Tra i tantissimi approfondimenti e studi storici inerenti la psicoanalisi, resta aperto un quesito: si tratta di un sapere ebraico? È molto difficile rispondere a questa domanda ed è evidente quanto una risposta netta, affermativa o negativa che sia, possa risultare fuori luogo. Il rapporto di Freud con l’ebraismo è complesso. Egli non lo era per religione, lingua o sentimento nazionale, eppure riconosceva di esserlo profondamente. È la sorte, che lo costrinse alla fuga a Londra per sfuggire alle persecuzioni naziste e gli impose in un crudele gioco del destino l’impossibilità di sfuggire dalle proprie origini. Inoltre, da un lato vi sono talune orgogliose affermazioni di Freud secondo cui egli non credeva a nulla altro se non alla scienza e alla sua creatura, la psicoanalisi, dall’altro vi è il tema dell’origine e dell’identità, culturale e familiare che, proprio seguendo l’insegnamento di Freud, non può essere ignorato, ci piaccia o meno.

L’autore del libro “Freud Genio Infedele” è Francesco Marchioro, nato a Montegrotto Terme (Padova) e residente da molti anni a Bolzano, storico e saggista, che ha dedicato molte opere alla psicoanalisi e alla vita di Freud in particolare. Tra l’altro, ha curato e tradotto nel nostro paese “Mio padre Sigmund Freud” (2001) di Martin Freud ed è stato pioniere nella diffusione in Italia dell’opera di Otto Rank, del quale ha curato e tradotto le principali opere. Cofondatore nel 1993 e direttore dell’associazione Imago-Ricerche di psicoanalisi applicata con sede a Bolzano. Nella stessa città ha promosso la mostra “Divina follia. Freud archeologo”, tenutasi nella Galleria civica tra dicembre 2011 e gennaio 2012, in cui per la prima volta furono esposti in Italia alcuni reperti della Collezione di Freud, ora al Museo-Freud di Londra. Anche il materiale su cui poggia il presente saggio era nato per una nuova mostra sul tema “Ebraismo Freud memoria” che poi, causa pandemia, non si è mai tenuta. È autore della produzione Rai: “Percorsi freudiani”, con regia di L. Giudiceandrea (1987). Inoltre, per celebrarne i 150 anni dalla nascita, ha ideato il “sentiero Freud-Promenade”, realizzato nel 2006 in collaborazione con il Comune di Renon (BZ), unico sentiero al mondo ad essere dedicato al fondatore della psicoanalisi. Nel  2016 il percorso è stato arricchito da 13 panchine realizzate artisticamente e ciascuna caratterizzata da un aforisma del maestro viennese, in modo da rendere la passeggiata montana ancora più piacevole e un’occasione di riflessione.

Il libro è frutto di un imponente lavoro di ricerca e di conoscenza di un repertorio bibliografico molto vasto, oltre che della lettura di documenti inediti e reperti epistolari recentemente scoperti. Si può dire senza ombra di smentita che per Marchioro la psicoanalisi rappresenti la passione e lo studio di una vita.

 Nel testo, egli sovente lascia la parola direttamente a Freud, le cui citazioni costituiscono una parte rilevante del libro, e agli altri protagonisti della vicenda psicoanalitica allo scopo di far giungere il lettore alle proprie conclusioni personali dopo un lavoro di “interpretazione” dell’originale posizione freudiana. Il lavoro è molto minuzioso e segue la biografia del padre della psicoanalisi. Si inizia dal rapporto con la giovane madre, per proseguire con la storia della Bibbia di famiglia, in un’edizione a uso degli ebrei riformati, il cui studio approfondito nell’infanzia ha costituito una base per i futuri interessi culturali di Sigmund e il cui dono da adulto sembra quasi avere un valore predittivo sul suo ruolo futuro di innovatore geniale. Si continua con gli anni della formazione universitaria, in cui è costretto a confrontarsi con l’antisemitismo crescente per proseguire con le lettere alla fidanzata e poi moglie Martha, ebrea ortodossa, che dovette accettare la volontà del marito in merito all’eliminazione dei rituali religiosi dalla loro vita familiare e dall’educazione dei figli. Ampio spazio viene successivamente dedicato anche al rapporto complesso con Jung e alle reciproche accuse di tirannia da un lato e di tradimento dall’altro. Infine, è lasciato spazio anche all’analisi del Mosè di Michelangelo, per giungere all’ebreo errante, l’ultima inevitabile identificazione del maestro viennese.

Il libro è ulteriormente arricchito dalla bella prefazione di Silvia Fegetti Vinzi e contiene due appendici: il testo inedito di Otto Rank “L’essenza dell’ebraismo”, del 1905, e un’indagine su Jung e il “demone del potere”.

Al termine della sua approfondita ricerca storica, Marchioro ha una propria risposta al quesito originario ma qui non viene svelata, anche per lasciare al lettore il piacere di seguirne l’indagine nei vari capitoli senza dare alcun indizio sulle conclusioni finali cui giunge il ricercatore.

 

La gelosia retroattiva e i social network

Con il termine gelosia retroattiva si fa riferimento a quella particolare gelosia che riguarda le preoccupazioni di un individuo nei confronti dei precedenti partner romantici e sessuali del proprio partner, anche se questi non hanno mai avuto un ruolo attivo nella relazione sentimentale attuale (Frampton e Fox, 2018). La gelosia retroattiva deriva quindi da preoccupazioni verso il passato, preoccupazioni che sono spesso prive di una base di realtà.

 

I Social Network e la ricerca di informazioni

 I social network, come Instagram e Facebook, consentono alle persone di “seguire” e di aggiungere come “amici” gli altri (Frampton e Fox, 2018). Sono quindi un contesto interessante dove poter esaminare la presenza e il ruolo della gelosia retroattiva, poiché è possibile rimanere in contatto con il proprio ex partner. In particolare, i social come Facebook e Instagram sono le piattaforme più utilizzate per contattare gli altri, ed è inoltre possibile reperire varie informazioni riguardo la vita di una persona, inclusa la situazione sentimentale passata o attuale.

È stato osservato che gli individui, quando non sono soddisfatti riguardo alla quantità o alla qualità di informazioni che hanno riguardanti il proprio partner, sono motivati a risolvere tale discrepanza (Frampton e Fox, 2018). I social network diventano quindi un ottimo strumento per poter colmare il vuoto di informazioni ed eliminare l’incertezza.

Sono state identificate quattro caratteristiche relative ai social network che promuovono la sorveglianza elettronica interpersonale: (1) sono accessibili a chiunque abbia una connessione Internet, è facile iscriversi e visualizzare le informazioni altrui; (2) le informazioni disponibili sono molte e di vario tipo, come messaggi, foto e video; (3) conservano i contenuti, come vecchie foto o post, facilitando ulteriormente l’accesso ad informazioni passate; (4) le informazioni possono quasi sempre essere ricavate anonimamente, e i social network non forniscono dei feedback sui visitatori del profilo. Infatti, l’individuo potrebbe anche non venire mai a conoscenza del fatto di essere sotto sorveglianza da parte del partner, o quanto la ricerca sul suo passato sia stata condotta approfonditamente.

I social network e la gelosia retroattiva

 Tutta questa accessibilità alle informazioni della vita del partner è spesso usata per monitorare i propri partner o ex-partner, spesso con risultati negativi (Frampton e Fox, 2018). Un possibile outcome potrebbe essere la presenza di gelosia dovuta alla visione distorta di un individuo delle foto del proprio partner con un ex-partner che sono ancora presenti sul profilo e non sono state cancellate. Questo è proprio un esempio di gelosia retroattiva, ovvero la comparsa di gelosia causata da qualcosa che appartiene al passato. Un altro esempio potrebbe essere il fatto che l’individuo esperisca gelosia solamente per aver visto che il proprio partner ha ancora nella lista degli “amici” il proprio ex-partner.

L’incertezza nella relazione è stata descritta come un circolo vizioso (Frampton e Fox, 2018). Infatti, gli individui che cercano conforto nel controllare il profilo del proprio partner, tentando di alleviare le preoccupazioni, rischiano di sviluppare gelosia retroattiva e, di conseguenza, attuare dei comportamenti di controllo ancora più intensi, che andranno ad aumentare l’incertezza e la gelosia.

I social network sembrano giocare un ruolo importante nelle relazioni sentimentali al giorno d’oggi, proprio a causa della facilità nel reperire informazioni riguardo al proprio partner che spesso possono rimanere decontestualizzate (Frampton e Fox, 2018).

Come gestire ansia e depressione di livello subclinico? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 12

Nello scorso numero abbiamo conosciuto il modello di individuazione e trattamento per i disturbi ansiosi e depressivi (DMC; Disturbi Mentali Comuni), strutturato su differenti livelli di gravità dei sintomi manifestati dalle persone che ricevono tali diagnosi. Dunque, solo chi riceve una diagnosi può accedere alle cure psicologiche? Proprio su questo aspetto si concentra il Quesito B2 della Consensus Conference.

 

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 12) Come gestire ansia e depressione di livello subclinico?

Quesito B2: il livello subclinico

L’accesso alle terapie psicologiche può essere indicato anche in presenza di problemi di ansia e/o depressione di livello subclinico e, in caso affermativo, in quali condizioni?

Con “livello subclinico”, in letteratura, vengono indicati i disturbi sotto-soglia oppure i sintomi clinicamente significativi, ovvero tutte quelle condizioni che non soddisfano tutti i criteri diagnostici per un certo disturbo e perciò non ricevono una diagnosi.

Le distinzioni in termini di gravità, discusse nel precedente Quesito B1, vengono fatte a partire dalla diagnosi, che si fonda a sua volta sugli strumenti utilizzati per lo screening. I sistemi classificatori attualmente in uso (per es., DSM-5-TR, 2022) operano una distinzione tra coloro che hanno un disturbo mentale, perché soddisfano un certo numero minimo di criteri –ovvero manifestano dei sintomi e quindi ricevono una diagnosi– e coloro che non lo hanno perché non riferiscono abbastanza sintomi in termini quantitativi per ricevere una diagnosi. Tuttavia, per una persona, dei sintomi, seppur “pochi”, possono essere clinicamente significativi, poiché fonte di disagio e/o di compromissione del funzionamento. Questi casi vengono indicati come sotto-soglia o livelli subclinici.

Riguardo al livello di disagio personale e alla riduzione del funzionamento, una revisione sistematica ha evidenziato che erano significativamente più alti nella popolazione con disturbo d’ansia generalizzata sotto-soglia che in quella generale; così come il costo economico e sociale, il ricorso alle prestazioni sanitarie e il rischio di sviluppare un disturbo mentale diagnosticabile (Haller et al., 2014). Inoltre, la prevalenza del disturbo d’ansia generalizzata sotto-soglia era il doppio di quella della sindrome completa (Haller et al., 2014).

Data l’alta frequenza della presenza, nonché della compresenza, delle condizioni subcliniche di ansia e depressione, alcuni clinici pensano che siano meglio spiegate da un approccio dimensionale, piuttosto che categoriale. Altri invece ritengono che i sintomi sotto-soglia siano una fase transitoria dell’evoluzione nel tempo di un disturbo (Juruena, 2002), oppure sintomi residui di un disturbo non completamente in remissione (Fava et al., 2002).

Per le persone con livelli subclinici di Disturbi Mentali Comuni, l’accesso alle terapie psicologiche può essere d’aiuto sia in termini di prevenzione sia per ridurre il disagio, il disfunzionamento e i costi sanitari e sociali che i sintomi comunque comportano. Infatti, rispetto ai problemi depressivi sotto-soglia, le linee guida indicano le terapie psicologiche.

Riguardo all’accesso a interventi psicologici e psico-sociali di bassa e media intensità nel contesto italiano, i criteri decisionali non prevedono una diagnosi formale e non fanno distinzione tra disturbi lievi e condizioni subcliniche.

Raccomandazioni B2

Gli Esperti raccomandano l’accesso alle cure psicologiche previste dal primo livello di intervento stepped care anche nei casi di problemi di ansia e/o depressione di livello subclinico, ma solo nelle seguenti condizioni:

  • l’aver sofferto in passato di Disturbi Mentali Comuni, al fine di prevenire la ricaduta;
  • l’essere adolescente, per ridurre il rischio di sviluppare nel tempo il disturbo, la dipendenza da sostanze o il suicidio;
  • l’essere anziano, soprattutto se con rilevante comorbilità fisica o mentale e con abbassamento nel funzionamento personale e sociale;
  • l’associazione dei sintomi sotto-soglia a un medio-alto rischio psicopatologico (per esempio, rischio di autolesionismo e di suicidio, di violenza verso gli altri) o una grave predita del funzionamento sociale e lavorativo;
  • l’essere genitori con problemi di depressione nel periodo perinatale, date le conseguenze negative che i sintomi, anche sotto-soglia, possono avere sul rapporto di coppia e sullo sviluppo affettivo e cognitivo del neonato.

Nell’ottica di evitare l’eccessiva medicalizzazione, per tutte le altre situazioni subcliniche, si raccomanda la promozione dell’attivazione di strategie di supporto al benessere e alla salute mentale in contesti non sanitari, monitorando nel tempo l’andamento dei sintomi.

 

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista al Prof. Ezio Sanavio

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio. In questo numero pubblichiamo l’intervista al Prof. Ezio Sanavio.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcunin dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista al Prof. Ezio Sanavio

Pubblichiamo l’intervista al Prof. Ezio Sanavio, Psicologo Psicoterapeuta, Professore ordinario presso l’Università di Padova e Direttore della scuola di specializzazione in Psicologia della salute dell’Università di Padova

State of Mind (SoM): Cosa ne pensa del bando dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Quali possono essere gli aspetti positivi e negativi?

Prof. Ezio Sanavio (ES): Fatico a capire come e perché i soci di un Fondo pensionistico devolvano soldi a qualcosa che (presumo) vada a diminuire le loro (magre) pensioni, ma se così è viva la loro filantropia e la fiducia nei loro organi direttivi!

Positivo è aver riconosciuto che non tutto quello che è detto ‘psicologico’ è buono: ci sono interventi psicologici utili, interventi meno utili ma non dannosi, interventi dannosi. Come in quasi tutte le cose.

Negativo: il mondo ‘psi’ è dappertutto attraversato da spaccature e conflitti. Naturale che una iniziativa (qualsiasi iniziativa!) rinfocoli conflitti latenti.

SoM: In che misura, ed eventualmente in che modo, questa iniziativa è un possibile passo avanti verso l’accesso alla salute emotiva della popolazione generale e a trattamenti psicoterapeutici empiricamente fondati?

ES: Già qualcosa è che se ne parli. Ma non dimentichiamo che i ‘decisori’ reali si chiamano Parlamento, Ministro della Salute e Ministro dell’Università.

SoM: Cosa ne pensa della distinzione che il bando fa tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia?

ES: La distinzione bassa/alta intensità non è nata oggi e, con altri nomi, è stata sempre nella prassi (e nel buon senso) degli operatori.

SoM: È fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

ES: Questa ‘zona grigia’ esiste da sempre. Bene che se ne parli, non è mai troppo tardi. Mi amareggia che se ne voglia parlare per bocca di avvocati: mi amareggia che la vasta comunità ‘psi’ non abbia voci illustri in grado di parlare, di fare convegni e ‘libri bianchi’, di farsi sentire al di là dei tribunali. Si vuole forse vietare a psicologi di fare ‘interventi psicologici’?

SoM: Un altro timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione fornita dalla borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente parziale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta. Cosa ne pensa?

ES: Penso che le associazioni e le società ‘psi’ abbiano perso una buona occasione. Potrebbero mettere a disposizione della comunità la loro ricchezza di competenze. Un esempio: chiedere al loro gotha di offrire pro bono un certo numero di ore di supervisione qualificata. Pro bono, sottolineo.

SoM: Secondo alcuni il bando ENPAP compensa la carenza di pratiche formalizzate di accertamento e trattamento dei disturbi. Cosa ne pensa?

ES: Non capisco la domanda. Spero non voglia sottintendere che il mondo ‘psi’ nostrano è troppo provinciale e ignorante da sapere di linee-guida internazionali e di letteratura scientifica.

 

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista al Prof. Fabio Monticelli

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio promossa dall’ENPAP. In questo numero pubblichiamo l’intervista al Prof. Fabio Monticelli.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcunin dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista al Prof. Fabio Monticelli

Pubblichiamo l’intervista al Prof. Fabio Monticelli, Psichiatra Psicoterapeuta, Presidente della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC).

State of Mind (SoM): Cosa ne pensa del bando dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Quali possono essere gli aspetti positivi e negativi?

Prof. Fabio Monticelli (FM): L’obiettivo del progetto “Vivere Meglio” è meritorio perché l’iniziativa è finalizzata da una parte ad aiutare le persone più fragili sul piano economico e psicologico in difficoltà a seguito della recente pandemia, dall’altra a tutelare gli psicologi.

Tuttavia, benché il progetto sia sostenuto da un disegno scientifico pertinente nei contenuti, risulta invece inappropriato per le modalità applicative utilizzate.

Il progetto “Vivere Meglio” è stato sviluppato da consulenti tecnici dell’università di Padova, facendo esplicito riferimento ai risultati della recente Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione.

Tuttavia, la Consensus Conference si astiene esplicitamente dall’indicare le qualifiche professionali di chi deve erogare le diverse prestazioni; invece, il progetto “Vivere Meglio” autorizza il trattamento di pazienti con una sintomatologia depressiva o ansiosa da parte di psicologi non psicoterapeuti, venendo meno al principio fondamentale di curare nel modo più appropriato il disagio dei pazienti mediante terapie psicologiche somministrate da personale legittimamente formato secondo le normative dello Stato Italiano e disattendendo gli articolo 8-8-10 e 12 della Carta Europea dei Diritti del Malato.

Pertanto, il progetto ha approvato criteri di assegnazione liberamente ispirati dai risultati della Consensus Conference; tali criteri risultano discutibili e rischiosi per almeno due ordini di considerazioni: la prima riguarda l’assegnazione dei pazienti che presentino una sintomatologia “sottosoglia, a psicologi non legittimati alla psicoterapia”.

La seconda è che la Consensus Conference fa esplicito riferimento a un preciso protocollo CBT da applicare come intervento a bassa intensità, mentre nel bando è evidente che ogni psicologo potrà adottare altre modalità di trattamento a sua insindacabile scelta. Questo è ben lontano dalla raccomandazione della Consensus Conference.

SoM: In che misura, ed eventualmente in che modo, questa iniziativa è un possibile passo avanti verso l’accesso alla salute emotiva della popolazione generale e a trattamenti psicoterapeutici empiricamente fondati?

FM: Può rappresentare un passo in avanti perché il progetto facilita l’accesso da parte dei cittadini alla psicoterapia e promuove una cultura che sottolinea l’importanza della cura finalizzata ad acquisire il benessere emotivo e una maggiore libertà individuale.

Tuttavia riteniamo che esista il serio rischio che i criteri adottati possano risultare sottodimensionati allo scopo e in alcuni casi, addirittura rischiosi perché inappropriati a cogliere eventuali fattori di rischio.

Il progetto, in teoria, propone un modello stepped care, che prevede modalità crescenti di trattamento a seconda del livello di gravità e dell’esito degli interventi già effettuati, prevedendo provvedimenti di maggiore intensità in caso di fallimento del trattamento applicato. Tuttavia, in pratica in questo progetto emergono alcuni elementi di criticità che così concepiti possono comprometterne l’esito.

SoM: Cosa ne pensa della distinzione che il bando fa tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia?

FM: Il problema non è nella differenziazione tra interventi a maggiore e a bassa intensità; il problema importante, e connesso a una certa dose di rischio, riguarda l’assegnazione inappropriata dei pazienti che lamentano sintomi depressivi, definiti “sottosoglia”, agli psicologi non psicoterapeuti per erogare interventi definiti “a bassa intensità”.

Per noi questi criteri di assegnazione rappresentano un modello applicativo concettualmente errato e, soprattutto, un elemento di rischio per i pazienti.

Il modello applicativo è concettualmente erroneo perché rappresenta una esplicita autorizzazione all’esercizio della psicoterapia da parte di psicologi che non sono stati formati all’esercizio della psicoterapia secondo la normativa vigente. Secondo l’art. 1 della 56/89, la psicoterapia non è di competenza né dello psicologo, né del medico, mentre l’art. 3 delega la psicoterapia in modo specifico agli psicologi e ai medici che abbiano portato a termine una idonea scuola di specializzazione approvata e riconosciuta dal MIUR.

Gli elementi di rischio nei confronti del paziente si evidenziano ad esempio già nei criteri di valutazione del disturbo; come è noto moltissimi pazienti chiedono di essere aiutati lamentando sintomi di ansia e depressione. Un paziente può riconoscere con grande facilità questi sintomi senza avere, però, le sufficienti competenze che gli consentano di riconoscere il disturbo psicopatologico che ne è alla base.

Questo secondo passaggio è di stretta pertinenza dello psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta infatti ha le necessarie competenze che gli permettono di interpretare il nucleo di sofferenza del paziente, effettuare una corretta formulazione del caso che va oltre la semplice diagnosi, e inserirlo in una più complessa teoria del disturbo che permetterà in seguito di formulare una adeguata teoria della cura.

Lo psicologo non abilitato alla psicoterapia è autorizzato dalla legge alla diagnosi psicopatologica, ma è improbabile che abbia acquisito le necessarie competenze teoriche, né tantomeno la sufficiente pratica clinica accompagnata da un numero sistematico di supervisioni cliniche che possano consentirgli la formulazione del caso e soprattutto la riformulazione che può rendersi necessaria in corso d’opera. Ad esempio, non è infrequente il caso, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti, che sfumati sintomi depressivi possano nascondere il rischio di un esordio psicotico.

Un esempio pratico può essere utile per comprendere meglio il concetto. Consideriamo un paziente che ha scarse capacità di riconoscere i propri stati emotivi. Lamenta tachicardia e sudorazione che costituiscono l’epifenomeno della sua sofferenza.

Da più di due settimane, per “più di metà dei giorni”, prova poco piacere nel fare le cose, si sente depresso e senza speranze, riferendo alcuni problemi nell’addormentarsi. Alla somministrazione dei test previsti dal bando (HPQ-9) i sintomi presentati raggiungono un punteggio pari a 6, che configura un disturbo depressivo sottosoglia; per tali motivi viene quindi assegnato allo psicologo non abilitato alla psicoterapia (quindi non psicoterapeuta).

Poniamo che il paziente in questione non sia in grado di riconoscere una serie di comportamenti alla base delle sue principali problematiche interpersonali; ad esempio, non è in grado di riconoscere che il suo comportamento deferente e sempre finalizzato a compiacere le esigenze dell’altro per avere la sua approvazione abbia compromesso -e tuttora compromette- il processo di costruzione del proprio senso di identità personale.

Proprio perché egosintonica, la compiacenza obbligata del paziente e l’inconsistente struttura identitaria a essa associata non vengono rilevate come un elemento patologico e quindi trattabile; tuttavia, possono costituire un importante fattore di vulnerabilità che costituisce l’elemento nucleare del disturbo di cui la sintomatologia depressiva rappresenta soltanto l’epifenomeno.

Può accadere che, in particolari situazioni di difficoltà, eventi comunemente considerati di lieve gravità possano compromettere l’equilibrio emotivo, provocando il collasso delle strategie generalmente utilizzate per gestire le quotidiane difficoltà della vita. In questo caso, il collasso di tali strategie può esitare anche in comportamenti suicidari che si sarebbero potuti evitare se il percorso di cura avesse segnalato tale vulnerabilità al paziente e riconosciuto tempestivamente il momento di scompenso.

Riteniamo che i pazienti che lamentano sintomi depressivi non possano essere semplicemente diagnosticati all’inizio della sintomatologia, ma debbano essere osservati e monitorati con attenzione da psicoterapeuti addestrati alla formulazione del caso, alla cura del disturbo e debitamente supervisionati.

Si potrebbe obiettare che gli psicologi sono abilitati alle procedure diagnostiche pertanto dovrebbero essere in grado di intercettare le problematiche presenti nel paziente. Quello che a loro manca però è la teoria e la pratica dell’assessment necessario, dopo l’inquadramento diagnostico, per poter proporre il piano di intervento.

È quindi evidente il ruolo di primaria importanza svolto dallo specialista psicoterapeuta che deve essere in grado di cogliere appropriatamente la richiesta del paziente e interpretarla correttamente anche a percorso iniziato, andando ben oltre quanto rilevato dalla autosomministrazione dei test che rilevano soltanto i sintomi di cui il paziente è consapevole.

SoM: È fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

FM: I principi del progetto sono chiaramente ispirati al modello anglosassone che delega gli interventi a bassa intensità a terapisti con un profilo professionale assimilabile a quello di infermieri, assistenti sociali ed educatori. Tuttavia, se alcuni principi come ad esempio lo stepped care, possono risultare utili se ben adattati, altri, oltre a non risultare più efficaci clinicamente, non possono essere calati nel contesto legislativo italiano che è regolato da precise norme che riguardano le professioni. Soprattutto il personale inglese, di solito per la maggior parte con esperienza, lavora in equipe, dove la gestione del caso è condivisa e vi è un controllo stretto dell’andamento dell’intervento. L’implementazione del progetto ENPAP offre molte meno garanzie.

E nel contesto italiano l’assegnazione di pazienti con disturbo depressivo agli psicologi non specializzati all’esercizio della professione di psicoterapeuta appare del tutto incomprensibile.

Inoltre, alcuni principi adottati nel progetto stridono profondamente con il modello culturale italiano che è profondamente ispirato dal pensiero di Basaglia che ha portato a un maggiore rispetto del paziente psichiatrico, a una sua maggiore presa in carico da parte delle strutture territoriali e all’abolizione degli ospedali psichiatrici. La Gran Bretagna, invece, non ispirata da questo modello è ancora fermamente ancorata all’esistenza delle strutture manicomiali.

Sicché un rudimentale adeguamento al modello anglosassone rappresenta un passo indietro e il tradimento di un pensiero culturale italiano di così alto livello; inoltre, svilisce una professionalità di alto profilo e assai numerosa, annoverando più di 60.000 psicologi specializzati in psicoterapia, al contrario di quanto accade in Gran Bretagna, dove è scarso il numero di psichiatri e psicoterapeuti.

Tale professionalità, invece, dovrebbe essere apprezzata e valorizzata. Così come dovrebbe essere valorizzata anche la figura dello psicologo che ha uno specifico e dignitoso profilo professionale con specifiche competenze nel campo della riabilitazione, degli interventi di sostegno e soprattutto della prevenzione che a mio avviso rappresenta un campo assai prezioso che dovrebbe essere esteso e potenziato.

SoM: Un altro timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione fornita dalla borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente parziale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta. Cosa ne pensa?

FM: Questa rappresenta certamente un’altra criticità. Anche noi crediamo che 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione siano del tutto insufficienti per consentire di effettuare trattamenti adeguati. Peraltro, il bando prevede una formazione tecnica che dura tre giornate e supervisioni che riguardano i criteri di applicazione formale del protocollo; sicché non sono previste nel progetto supervisioni obbligatorie di carattere clinico che, invece, restano a discrezione della sensibilità e della competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta. E comunque in quantità inadeguata. Per giunta, si deve anche tener conto che i supervisori non hanno una conoscenza diretta del paziente, non c’è nessuna garanzia che abbiano familiarità con gli specifici protocolli e nemmeno con i supervisionati. Anche questo rappresenta un importante elemento critico, perché pone in secondo piano l’aspetto clinico del trattamento del paziente rispetto ai criteri tecnici applicativi e alla ricerca.

SoM: Secondo alcuni il bando ENPAP compensa la carenza di pratiche formalizzate di accertamento e trattamento dei disturbi. Cosa ne pensa?

FM: Credo che di per sé l’iniziativa rappresenti un tentativo di facilitare l’accesso al trattamento del disagio psichico, insinuandosi spesso in varchi lasciati dalle strutture del territorio.

Le strutture territoriali spesso sono oberate dalla vastità del bacino di utenza, dal livello di gravità delle richieste da parte degli utenti e dalla scarsezza del numero degli operatori dei servizi che sono obbligati a svolgere un carico di lavoro quantitativamente enorme, di estrema difficoltà e di grande responsabilità.

C’è da tenere in considerazione comunque che in realtà questo accade a macchia di leopardo perché esistono anche servizi territoriali che sono operativi e soddisfano efficacemente le esigenze del territorio.

Linguaggio inclusivo: per migliorare il rapporto con gli altri – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Linguaggio inclusivo: per migliorare il rapporto con gli altri. 

 

Che impatto ha il linguaggio sulla salute mentale delle altre persone? Come si può far stare bene una persona con il solo uso del linguaggio? Lo scopo di questo episodio del podcast è di capire come il linguaggio, e la sua evoluzione, ha un ruolo importante sulla salute mentale di ogni persona. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un forte cambiamento sociale che richiede a sua volta un adeguamento del linguaggio. Lo scopo dell’episodio è proprio quello di fornire alcuni suggerimenti che possono essere facilmente messi in pratica per costruire un linguaggio più inclusivo che può aiutare a migliorare il rapporto con gli altri.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologo, Educatore Pedagogico, Docente presso Sigmund Freud University Milan & Wien e dal Dott. Luca Daminato, dottore in Psicologia, dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan.

 

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Introduzione alla gelosia retroattiva e alla gelosia retrospettiva

Un individuo può esperire gelosia scoprendo informazioni inerenti al passato romantico del partner, specie se queste informazioni fanno sembrare la relazione attuale meno significativa o speciale.

 

Un’introduzione alla gelosia

 In molte culture, durante il periodo dell’adolescenza, e in particolare tra i diciotto e i venti anni, gli individui spesso iniziano relazioni di tipo romantico o sessuale con differenti partners (Frampton e Fox, 2018). Quando una relazione di tipo romantico finisce può comunque risultare potenzialmente influente per la relazione successiva. Spesso, infatti, le persone evitano di discutere di esperienze romantiche o sessuali passate con i partner attuali, al fine di evitare la possibile comparsa di gelosia romantica.

Le relazioni romantiche sono caratterizzate da interazioni reciproche, che comprendono dimostrazioni di affetto, vicinanza e intimità fisica (Frampton e Fox, 2018). Soprattutto nella società Occidentale, la relazione romantica è comunemente diadica e, col passare del tempo, acquista esclusività. Ed è proprio a causa di questa esclusività, che la presenza di un terzo individuo, estraneo alla coppia e con intenzioni romantiche o sessuali verso un membro della coppia, può compromettere la stabilità relazionale. Quando viene percepita l’esistenza di questa terza persona, l’individuo può arrivare a esperire una forte gelosia romantica, intesa come un insieme di pensieri, emozioni e comportamenti che percepiscono la persona estranea come una minaccia. Questa minaccia è spesso concettualizzata come un pericolo attivo nei confronti della relazione, dove il rivale, sia esso reale o immaginario, è intento a sedurre il proprio partner, o viceversa. Anche se la presenza della gelosia si può ritrovare nella maggioranza delle relazioni, spesso non è presente quella tipologia di gelosia che riguarda i partner passati.

 White e Mullen (1989) hanno teorizzato che la gelosia può avvenire anche in assenza di una minaccia attiva e presente nei confronti della relazione (White e Mullen, 1989). È stato notato, infatti, che il rivale può danneggiare la qualità della relazione senza necessariamente essere una minaccia per la fine della relazione, e che la gelosia, in questo caso, può essere legata alla percezione di perdita del senso di unicità o specialità che i partner danno alla relazione (Frampton e Fox, 2018; White e Mullen, 1989). Proprio per questo, un individuo può esperire gelosia scoprendo informazioni inerenti al passato romantico del partner, specie se queste informazioni fanno sembrare la relazione attuale meno significativa o speciale (Frampton e Fox, 2018). Ciò può essere dovuto al fatto che tali informazioni possono causare, nell’individuo geloso, una sorta di competizione con il passato che viene poi utilizzata come sistema di valutazione per giudicare la relazione attuale (Frampton e Fox, 2018).

La gelosia retroattiva e la gelosia retrospettiva

In seguito alla scoperta di questa tipologia di gelosia che comporta una valutazione relazionale con i partner passati, sono stati coniati i termini gelosia retroattiva e gelosia retrospettiva (Frampton e Fox, 2018). La gelosia retrospettiva avviene quando il partner esperisce gelosia nel momento presente mentre pensa ad un evento passato, dove un terzo individuo, che attualmente non è più presente, ha provato a sedurre il partner. La gelosia retroattiva, invece, avviene quando un individuo esperisce preoccupazioni inerenti alle precedenti relazioni romantiche o sessuali del partner, nonostante il partner passato non abbia mai interferito nella relazione attuale, causando comunque disagio nell’individuo. Entrambi questi tipi di gelosia sono quindi fortemente legati al passato, e non al momento presente.

Queste due tipologie di gelosia sembrano avere un forte impatto sulla relazione (Frampton e Fox, 2018). Infatti, sembra che discutere di argomenti inerenti alle relazioni passate e confrontarsi su argomenti riguardanti gli ex partners possa far sentire gli individui meno speciali e meno vicini al proprio partner. Ciò accade spesso quando, in una coppia, vengono fatti commenti positivi nei confronti dei partner passati, o anche nel caso in cui vengano condivisi dettagli riguardanti esperienze sessuali passate.

 

La terza giornata del Congresso EABCT di Barcellona

La terza e ultima giornata dei congressi è spesso quella in cui, esausti, ci si concentra di meno sulle presentazioni e semmai si preferisce iniziare a tirare le somme. È una scelta giustificata dalla stanchezza ma che rischia di essere prematura.

 

Ioana Cristea e l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici

Vincendo la fatica, sono andato ad ascoltare Ioana Cristea, ricercatrice e studiosa romena ma che da anni vive e lavora in Italia, ultimamente all’Università di Pavia. Ioana Cristea ha un lungo curriculum scientifico alle spalle e si è formata collaborando con Pim Cuijpers, il ricercatore che da anni sta esplorando con le sue meta-analisi la reale efficacia delle psicoterapie, cognitive e non. La professoressa Cristea sta proseguendo la strada di Cuijpers in autonomia e ha ottenuto un sostanzioso finanziamento di ricerca per analizzare quali sono gli ingredienti davvero efficaci nei trattamenti psicoterapeutici. Si tratta di un lavoro simile negli obiettivi a quello già fatto da altri colleghi ricercatori, ma diverso nella impostazione. Mentre i lavori precedenti tendevano a chiedere ai clinici quali fossero, nella loro percezione, i fattori terapeutici significativi, Cristea parte invece da una revisione meta-analitica delle pubblicazioni, cercando nei protocolli formalizzati e descritti negli articoli gli ingredienti attivi, sintetizzandoli in classi comuni che diminuiscano le ridondanze determinate dal fatto che spesso interventi simili ricevono nomi differenti e sperando di definire meglio i fattori davvero attivi.

Attraverso questa strada si può percepire nei lavori di Cristea una direzione nuova che da una parte è quella di ridimensionare il ruolo dei fattori cosiddetti specifici delle psicoterapie ma anche di non aderire al modello alternativo dei fattori comuni. Una sintesi di questa posizione si può trovare in questo articolo di Cuijpers e Cristea del 2017, disponibile online cliccando qui.

Esisterebbe quindi una nuova classe di fattori che sarà additata dalla ricerca empirica del tipo di quella effettuata da anni da Cuijpers e da Cristea, non così specifica come quella derivata dai modelli teorici ma nemmeno così indefinita (e al fondo relazionale) come quella dei fattori comuni. Al momento Cristea non si sbilancia e non dichiara quale potrebbe essere il verdetto, anche se vi è una certa sensazione che in questa nuova classe di ingredienti quelli di tipo processuale giocheranno un ruolo significativo.

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Immagini dalla presentazione della Prof.ssa Ioana Cristea

EABCT 2022: tiriamo le somme..

E ora tiriamo le somme di questi tre giorni. Seguendo la Cristea, quello della definizione di classi distinte di fattori terapeutici sembra essere uno dei temi dominanti, fattori che pur abbandonando le vecchie distinzioni (cognitivo contro psicodinamico, ad esempio) tendono a convergere su alcuni poli più operativi e dalle definizioni più affidabili (processuale e relazionale, ad esempio, in cui la “e” prende il posto del “contro” e il relazionale o il processuale non pretendono di essere fattori universali -che poi questo significa “comuni”: universali- che spiegano tutto). È un percorso seguito ad esempio anche da Sverre Urnes Johnson dell’Università di Oslo nel suo simposio su “Mechanisms in psychotherapy: A complex system approach”.

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Immagine dalla presentazione del Prof. Sverre Urnes Johnson

Un altro tema emergente del congresso è che ormai la svolta processuale è stata assorbita, non nei termini rivalitari in cui era stata vissuta ai suoi inizi ma come momento di ridefinizione e non di frattura nello sviluppo della psicoterapia cognitivo comportamentale. Anzi, dato che forse la vera frattura fu la modalità del passaggio dal comportamentale (prima onda) al cognitivo (seconda onda), la svolta processuale o di terza onda si propone come la benvenuta ricomposizione di una crepa che aveva inciso in passato la superficie falsamente omogenea del cognitivismo clinico.

Un’avvertenza: il numero di presentazioni al congresso era elevatissimo e molte cose mi sono sicuramente sfuggite, sia perché non potevo essere dappertutto sia perché per alcuni temi dispongo una mia minore competenza. Ad esempio, la riscoperta degli interventi di tipo immaginativo con il frequente ricorso a tecnologie di realtà virtuale è uno dei temi di questo congresso che per la verità ho un po’ trascurato. Per questo purtroppo non ho potuto assistere alla presentazione “Rethinking and revisualising: mental imagery and mental health science” di Emily Holmes della Uppsala University e del Karolinska Institutet’s che ha parlato a fondo di interventi immaginativi. Però posso fare una considerazione: questa riscoperta dell’immaginazione vissuta ed esperita e non solo razionalmente pensata va proprio nella direzione del recupero funzionalista e processuale dei vecchi interventi comportamentali, senza dover andare a prendere in prestito questi interventi da altre psicoterapie. In questo senso si può dire che il congresso abbia obbedito il suo tema, che è: “Re-thinking CBT: providing strategies for a new way of living”.

 

Neurobiologia della volontà (2022) di Arnaldo Benini – Recensione

In questa recensione, mi soffermerò su tematiche esistenziali, accennate dall’autore nel libro “Neurobiologia della volontà” e che, rispetto alla mia lettura e a quello che il testo ha “letto” e “fatto emergere” in me, desidero argomentare e guardare in maniera più approfondita.

 

 L’ultimo testo di Benini, a mio avviso, rappresenta un’importante occasione per dare spazio ad un tema esistenziale fondamentale, ovvero la libera volontà e come la percezione di questa rappresenti una dimensione che dia sicurezza e fondamento all’esperienza umana. Sentirci agenti, con un margine di prevedibilità e contingenza sulla realtà esterna, ci consente di sopravvivere, di coltivare un senso di continuità e di fiducia rispetto a noi stessi e agli altri, di mettere radici nel mondo e di affidarci. Tuttavia, un irrigidimento di questa, un suo bisogno frenetico, per quanto possa rimboccarci l’esistenza e farci sentire “protetti” dalla vulnerabilità, spingendoci in casi estremi al perfezionismo e ad un’illusione di “immunità” rispetto a ciò che non può essere controllato, allontanando o “negando” la paura di sentirci reali ed esposti, soffoca la nostra possibilità di esplorarci, di sperimentare una “pienezza di vita”, che non può prescindere dal confronto con lo sconosciuto, l’estraneo, l’ostile, l’ombra. Il nostro sé può anche andare incontro ad esperienze di vera e propria emorragia, in cui cerca di emergere attraverso una parziale e totale perdita dei confini (per esempio nelle organizzazioni borderline e psicotiche di personalità, in cui in realtà, l’irrigidimento, la contingenza perfetta, l’equivalenza psichica tra sè e il mondo, sono proprio dei fattori centrali e determinanti nella mancanza di integrità di sé). In questo, tengo a sottolineare come da questo testo emerga anche il valore dell’in-certezza, come un viaggio che si intraprende passando di certezze in certezze, non barricandosi all’interno di convinzioni, che non tende ad allontanare l’insicurezza con la forza di volontà, ma piuttosto permette di guardare il nostro mondo interiore come una presenza creativa.

Nel testo di Benini, viene fatta una lunga disamina su quelle che siano le radici neurobiologiche che ci consentano di scegliere in maniera consapevole e quindi di “coltivare un senso di responsabilità nei confronti di noi stessi e degli altri”. Viene fatto cenno ad una “volontà del male”, o a quella che sembra tale. “Fare il male”, che si può manifestare come aggressività reattiva di difesa e quindi come scarica violenta e può anche prendere forma in dimensioni più organizzate, dove alla base vi sono “idee prevalenti”, in cui la realtà della “responsabilità personale” viene meno, all’insegna di un “grande altro” a cui delegare, a cui obbedire e da cui sentirsi legittimati. Benini fa riferimento al nazismo, in cui l’individuo era totalmente sottomesso all’autorità politica e in cui, coloro i quali commettevano crimini atroci, erano anche persone senza alcun tipo di recidiva o pericolosità sociale, che però azionavano una sorta di “pilota automatico”, sacrificandosi nei confronti di dell’autorità e dell’idea prevalente. Nell’uomo si vede anche il piacere nel mettere in atto forme crudeli di tortura, il godimento nella sofferenza dell’altro, a detta di Kerneberg (1999), un’erotizzazione dell’aggressività. In tutto ciò, scrive Benini, si manifesta una particolare “volontà del male”, che spinge l’uomo a sopraffare l’altro. Levi (1975), in “Così fu Auschwitz”, scrive: “ Ci siamo accorti che l’uomo è sopraffattore: è rimasto tale, a dispetto di millenni di codici e di tribunali”. Ciò costituisce uno dei cardini della testimonianza di Levi, che invita a non “mutilare la storia”, a riconoscere la possibilità di una violenza inutile e gratuita in ogni uomo. Una testimonianza contro la “complicità morale” che ha visto nel nazismo, il coinvolgimento di un intero popolo. Questo, a mio avviso, costituisce un invito a riconoscere la propria “ombra” e rapportarsi ad essa, coltivando pertanto quello che Jung (Jung, 1946) definisce un “sentimento di pienezza psichica”, ponendo quindi un limite al rischio di cadere nel circolo vizioso che ha guidato la violenza nazista, una sostanziale “disumanizzazione” che consentisse, considerando lo straniero un oggetto, un pupazzo e non un uomo, di annientarlo con ferocia.  La scienza, scrive Benini, dimostra che nessun processo mentale, quindi neanche la volontà, avviene senza l’attivazione del sistema nervoso. La coscienza della volontà e il meccanismo nervoso che la realizza sono due eventi diversi.

Per Hume la volontà rappresenta la sensazione di essere motore e causa di un qualcosa, quindi di poter esercitare un qualche controllo contingente sulla realtà. Per la natura biologica della volontà, del bene e del male, scrive Benini, le neuroscienze forniscono prove convincenti, anche se non si sa nulla della loro natura, al pari di ogni evento della coscienza. Lo sviluppo dei lobi prefrontali, ha consentito lo sviluppo dell’autocoscienza, presente solo nell’uomo, con cui, a seguito, si svilupparono la spinta alla crudeltà e la legge morale del bene e del male. La neurobiologia di mente e autocoscienza postula che ad ogni evento mentale corrisponda un correlato neuronale NCC. In questo, la costante relazione tra il nostro mondo interno e l’esterno, consente la modificazione strutturale del cervello, a seconda del rapporto con l’esterno, e quindi la creazione di nuove connessioni sinaptiche. Si parla quindi di plasticità cerebrale. In questo, risulta fondante l’intenzionalità connessa a uno “stato della mente”, e quindi quanto la nostra percezione della realtà, il nostro comportamento e la nostra volontà siano determinate da sentimenti, emozioni, pensieri, credenze connesse a quel particolare stato mentale. Sempre Benini (2017), nel suo testo, “Neurobiologia del tempo”, fa riferimento al fenomeno della “compressione temporale” come processo fondamentale nella nostra percezione della simultaneità nella coordinazione di stimoli e che ci consente quindi di formare delle rappresentazioni spaziali e temporali dell’esperienza. Questo processo interviene inoltre nel rapporto tra causa ed effetto. È più facile riconoscere un rapporto causale quando gli eventi sono soggettivamente vicini nel tempo e nello spazio. Viene messo in atto un meccanismo di calibraggio delle stimolazioni sensoriali, la compressione fa riferimento ad un tempo perso non del tutto ma comunque sottratto alla coscienza. Il tempo fra uno stimolo visivo e la sua percezione è un temps perdu. Il cervello manipola e distorce il tempo, prima di trasmetterlo alla coscienza. È un’illusione che le percezioni multisensoriali siano sincrone e immediate. Questo ha sicuramente un valore adattivo e funzionale, orientato a formarci rappresentazioni della realtà su coordinate spazio-temporali. In questo c’è da considerare l’influenza dello stato emotivo in cui l’interrelazione tra tempo soggettivo e oggettivo può essere più lunga o più breve, ha sicuramente un valore adattivo orientato per esempio a consentire una maggiore focalizzazione attentiva su possibili minacce. In “Neurobiologia del tempo” viene quindi sottolineato il valore adattivo in merito alla nostra percezione di simultaneità tra stimoli e come questa sia una fondamentalmente un’illusione che permette di coltivare un senso di coerenza e prevedibilità sul reale. In “Neurobiologia del tempo” viene messo in evidenza come il nostro senso del volere “consapevole” sia fondamentalmente illusorio e altrettanto orientato ad una percezione di coerenza sul reale. Rifacendosi agli esperimenti sull’intenzione di movimento, di Kornhuber e di Libet, Benini riporta quello che è stato definito come “potenziale di prontezza”, ovvero un’attività elettrica registrata nell’area corticale motoria, premotoria e motoria supplementare, di circa un secondo e mezzo prima del movimento senza l’attivazione delle aree frontali della coscienza. Cioè prima che la persona si renda conto di volersi muovere. Libet approfondì ulteriormente la questione del “potenziale di prontezza”, chiedendosi quando si diventi coscienti di volersi muovere. Egli dimostrò che l’RP (potenziale di prontezza) è già attivo 550 millisecondi prima dell’attivazione dell’area corticale motoria di entrambi gli emisferi, e che la persona diventa cosciente di voler fare quel movimento 400 millisecondi dopo l’insorgenza dell’RP e 200 millisecondi prima che il movimento inizi. Il cervello quindi inizia i processi preparatori per un atto che ci si illude di fare volontariamente. A questo proposito, Mark Hallet, specialista nei disturbi del movimento, sostiene che il senso della volontà libera, non sia l’origine del movimento ma la presa di coscienza di un evento nervoso già in atto. Ma quale area cerebrale suscita l’intenzione e la consapevolezza di muoversi? Dagli esperimenti condotti, scrive Benini, si è visto il ruolo centrale del lobo parietale che attiva l’intenzione del movimento. La stimolazione elettrica della corteccia parietale destra in sette pazienti che avevano subito anestesia locale, suscitò l’estremo desiderio di muovere la parte opposta del corpo senza effetto motorio. Con una stimolazione più forte di quest’area, i pazienti credevano realmente di aver fatto il movimento, con una coscienza quindi di un movimento illusorio non avvenuto. La stimolazione dell’area premotoria provoca invece un movimento di cui non si è consapevoli. La coscienza della volontà di muoversi e del movimento derivano quindi dalla crescente attività del lobo parietale antecedente l’azione. Rimane tuttavia un mistero, scrive Benini, come un segnale elettrico diventi un contenuto dell’autocoscienza. Libet, continua Benini, in base ai risultati sperimentali ottenuti, non si sentì di eliminare la libera volontà. Infatti, tra la presa di coscienza del movimento e il movimento stesso, vi sono 150 ms, in cui è possibile interrompere volontariamente il movimento. Egli sostenne inoltre che esistono eventi mentali non correlati a eventi neurali, per cui il libero arbitrio esisterebbe come possibilità di bloccare una decisione incosciente. Tuttavia, quello che emerge dalla ricerca di Libet, è che dalla corteccia motoria, attiva nel momento del RP, partano due informazioni: una che va ai centri della coscienza, grazie alla quale, in 400 millisecondi si diventa coscienti del movimento già in atto, e l’altra ai centri motori dei muscoli da attivare. Da ciò, sottolinea Benini, la libera volontà sembrerebbe esclusa e ciò che spinse Libet a convincerlo dell’esistenza del libero arbitrio fu probabilmente una spinta di carattere morale. Nel testo viene anche fatto riferimento a quelle che Benini definisce come “tragedie della volontà”. Viene menzionata la Xenomelia, ovvero una patologia in cui viene sperimentata la “sensazione opprimente” che uno degli arti non appartenga al corpo, con un altrettanto fagocitante desiderio di amputazione dello stesso, tragica conferma, scrive Benini, di come la corteccia sensoriale possa determinare la volontà. Si tratta di un disturbo organico del senso di integrità corporea, mediato dalla corteccia del lobo parietale destro con una conseguente difficoltà nell’integrare l’arto ossessivo nella rappresentazione neuronale. In questo caso, quindi, il difetto della sensibilità corporea alimenta la volontà dello scempio.

 Nel penultimo capitolo viene approfondito il tema dell’illusione della libera volontà, come dimensione esistenziale fondante dell’esperienza umana. Il senso di agentività e di contingenza dato dalla volontà rappresentano una modalità di sopravvivenza volta a trasmettere un senso di sicurezza nei confronti dell’imprevisto della vita, della vulnerabilità e della morte. E, in questo, anche le religioni hanno avuto un ruolo di fondamentale importanza. Sentirsi la causa di qualcosa permette di avere un senso di controllo, un’energia del fare per affrontare le sventure della vita. Tutto ciò, a mio avviso, ha a che fare con una dimensione egoica che richiede dei confini, un’identità ben strutturata, un fondamento nella quotidianità che dia un senso e che permetta di riconoscersi in un ruolo. Recalcati, nel suo testo “Esiste il rapporto sessuale”, fa riferimento al tema della perdita dei confini come esperienza di disarmo e nuova apertura. Uno sconfinamento che, se accolto, porta un ampliamento, uno svuotamento, un decentramento. Questa esperienza di decentramento, scrive Recalcati (2021), si manifesta nel “fare l’amore”. L’erotismo, non è un prendere ma un accogliere, non è un fare ma un lasciarsi fare, un fare per disfare. Non rappresenta pertanto un attivismo diretto ad un obiettivo, quale invece dimensione fondante della volontà, o per meglio dire, della sua illusione.

Benini, nell’ultimo capitolo del libro, scrive: “Si diventa coscienti non della realtà ma dell’informazione creata da molti meccanismi cerebrali”. Si diventa quindi coscienti di ciò che lo stato mentale ci porta a percepire e da lì derivano la volontà e l’azione. Mark Balaguer, citato da Benini, fa un’interessante ipotesi rispetto ad uno dei temi centrali del libro, ovvero se e quanto l’attività corticale (RP) sia identificabile con la scelta stessa. Egli sostiene che non ci siano dubbi sul fatto che questa attività sia verificabile, tuttavia, allo stesso tempo, non vi è  alcuna certezza che questa attività sia la causa di ciò che la volontà sembri scegliere. Rimane comunque caratterizzante ciò che Libet afferma, ovvero come la volontà possa sospendere un’azione in corso ma mai prendere una decisione, quindi come traccia della coscienza verso il senso morale e la responsabilità. L’esperienza dell’illusione della volontà, per quanto adattiva, può però portare, come accennato prima, ad una certa quota di rigidità, di iperattivismo, di intrappolamento nello stimolo, a detta di Recalcati (2021),  di “frenesia nel prendere”, che può condurre a schemi ripetitivi di pensieri, emozioni e comportamenti senza soluzione di continuità. Ecco che, in questo, assume importanza la possibilità di sospendere “un’azione già in corso”. Qui, a mio avviso, si ritrova l’autentica occasione di coltivare un’esperienza di “testimonianza verso se stessi”, di andare oltre le barriere egoiche, superegoiche e quella che Freud definisce “coazione a ripetere” ciò che non è stato formulato. In ciò, si può quindi cogliere l’esperienza della libertà, dell’amore e della consapevolezza. Carotenuto (1994, p. 230) scrive: “Se l’uomo fosse libero, non avrebbe bisogno di tradire; eppure è anche vero che se l’uomo non fosse libero, non potrebbe tradire”. A questo punto, vorrei concludere la recensione di questo interessante testo, con una citazione di Jung, tratta dal libro “Amare, Tradire” di Carotenuto (Carotenuto, 1994, p.2309): “ Chiunque percorra la strada che porta alla totalità non può sfuggire a quella caratteristica sospensione che è rappresentata dalla crocefissione. Egli finirà infatti per imbattersi in ciò che gli taglia la strada: in primo luogo in ciò che egli non vorrebbe essere, in secondo luogo in ciò che non egli non è, ma l’altro è, e in terzo luogo in ciò che costituisce il suo non-io psichico”.

 

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