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Il legame tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti

Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative.

 

Il senso di solitudine tra gli adolescenti

 La solitudine è spesso legata ad un bias attentivo caratterizzato da un eccessivo monitoraggio dei segnali sociali (Spithoven et al., 2017). Questo implica che le persone sono eccessivamente focalizzate sulle informazioni sociali e sensibili sia agli stimoli negativi che indicano una minaccia, sia a quelli positivi che talvolta possono essere percepiti come possibilità di connessione sociale (Qualter et al., 2015). Alcuni studi della letteratura hanno dimostrato che sia gli adulti sia gli adolescenti sono soliti ricordare più facilmente le informazioni sociali, sia positive che negative, sebbene sembra che nelle espressioni facciali riconoscano meglio le emozioni negative come tristezza, paura e rabbia (Vanhalst et al., 2017).

La solitudine è caratterizzata da emozioni negative sperimentate a causa di una discrepanza tra le relazioni sociali desiderate e quelle effettive (Perlman & Peplau, 1981); se da un lato quindi provare solitudine può motivare le persone a cercare di riallacciare alcuni rapporti e a riconnettersi con gli altri, dall’altro l’ipervigilanza nei confronti dei segnali emessi dalle persone può provocare isolamento e ritiro sociale. Le persone, per superare gli effetti negativi e tornare a relazionarsi con gli altri, spesso si ritirano per valutare la loro situazione attuale sociale fino a che la solitudine attiva processi cognitivi che generano risposte comportamentali volte a evitare ulteriori danni e ad aumentare l’inclusione e la connessione sociale. Per tale ragione i segnali sociali vengono privilegiati rispetto a quelli non sociali, poiché ci aiutano a reagire più rapidamente e a fare scelte sulla base delle intenzioni degli altri (Spithoven et al., 2017). Questi bias di attenzione agli stimoli sociali nelle persone sole si attivano rapidamente e il loro decorso varia a seconda della fase dello sviluppo di una persona.

Ai fini di comprendere gli effetti delle alterazioni dell’attenzione delle persone sole sull’elaborazione delle informazioni sociali, alcuni studi hanno utilizzato volti di bassa o alta intensità emotiva trovando che spesso la solitudine risultava associata ad una maggiore accuratezza nel riconoscimento emotivo di volti arrabbiati (ma non di volti paurosi, tristi o felici). Uno studio di Vanhalst e colleghi (2017) ha riscontrato invece che gli adolescenti soli erano maggiormente in grado di rilevare nei volti la tristezza e la paura, seguite dalla felicità. Questi risultati suggeriscono che gli individui soli possono mostrare una maggiore capacità di identificare le espressioni facciali negative.

Solitudine e riconoscimento della prosodia

Sono poche, tuttavia, le informazioni relative all’associazione tra solitudine e altri segnali socio-emotivi non verbali come, ad esempio, la prosodia verbale, che include il ritmo e l’intonazione delle parole. La codifica delle intenzioni emotive nella voce degli altri ha infatti un percorso di sviluppo diverso rispetto al riconoscimento delle espressioni facciali, e probabilmente impegna processi cognitivi diversi (Morningstar et al., 2018). Il tono di voce fornisce infatti indicazioni importanti relative allo stato emotivo e agli atteggiamenti sociali di un interlocutore (Johnstone & Scherer, 2000). Mentre nei volti sono presenti in qualsiasi momento informazioni per il riconoscimento delle emozioni, la prosodia vocale spesso richiede l’integrazione di diverse informazioni, che nel corso del tempo variano rapidamente. Un solo studio ha esaminato l’associazione tra riconoscimento emotivo (Emotional Recognition; ER) vocale e solitudine, trovando una minore accuratezza solo nel riconoscimento emotivo vocale quando era presente anche un marcato livello di ansia per le prestazioni sociali (Knowles et al., 2015).

 Sembrerebbe inoltre che l’abilità di riconoscere i segnali vocali delle emozioni sia anch’essa differente in base alla fase dello sviluppo, migliorando fino a metà adolescenza. Quest’ultima è un periodo caratterizzato da maggiore coinvolgimento con i coetanei e maggiore sensibilità agli indizi di rifiuto o di affiliazione sociale (Nelson et al., 2005). I ragazzi che faticano a interpretare segnali come il tono di voce, possono quindi avere difficoltà ad entrare in contatto con gli altri. Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative. 122 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni hanno quindi tentato di identificare l’espressione trasmessa nelle rappresentazioni uditive di cinque emozioni di base (felicità, tristezza, paura, rabbia e disgusto) e delle espressioni sociali “cattiveria” e “cordialità”. Queste ultime due espressioni possono essere concettualizzate rispettivamente come spunti di rifiuto e affiliazione, e hanno dimostrato di differire acusticamente e percettivamente (Morningstar et al., 2018) dalle altre emozioni di base. Inoltre, poiché l’ansia sociale è associata al riconoscimento emotivo vocale nei bambini (McClure & Nowicki, 2001) e anche il sesso e l’età influenzano tale legame, gli autori hanno tenuto in considerazione queste tre variabili nelle loro analisi. I giovani hanno compilato il questionario Loneliness and Aloneness Scale for Children and Adolescents per misurare la solitudine (Marcoen et al., 1987); il Social Anxiety Measures for Children and Adolescents (La Greca & Stone, 1993) per l’ansia sociale e infine hanno svolto un compito di riconoscimento emotivo vocale che comprendeva registrazioni audio prodotte da attori con diversi toni di voce emotivi (Morningstar et al., 2017).

Solitudine e riconoscimento emotivo

I risultati mostrano che, controllando l’ansia sociale, l’età e il sesso, il legame tra la solitudine e l’accuratezza del riconoscimento risultava essere specifico per ciascuna emozione: la solitudine era associata ad uno scarso riconoscimento della paura, ma a un migliore riconoscimento della cordialità. Una possibile spiegazione potrebbe essere che la motivazione che spinge gli individui soli a evitare la minaccia può interferire con il riconoscimento della paura, ma la loro sintonia con gli indizi di affiliazione può promuovere l’identificazione della cordialità nei suoni. Essere sensibili agli indizi di amicizia può quindi promuovere opportunità di riconnessione per le persone sole e rappresentare una componente adattiva del sistema di monitoraggio sociale.

È possibile quindi strutturare interventi per incoraggiare gli adolescenti a utilizzare questa loro distorsione attentiva in modo funzionale, ai fini di superare la solitudine e aiutarli a concentrarsi sugli indizi di affiliazione sociale piuttosto che su quelli di paura nella voce degli altri.

 

Cosa è il modello Triple-P?

Il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze della famiglia con diversi livelli di supporto.

 

Il modello Triple P – Positive Parenting Program

 Il modello Triple P, che sta per Positive Parenting Program (programma per la genitorialità positiva), è stato sviluppato da Sanders e colleghi (2002) e prevede programmi evidence-based (ovvero basati sull’evidenza scientifica) sia di intervento specifico su particolari difficoltà, sia focalizzati sul concetto generale di genitorialità e per problematiche comuni nell’infanzia. Il programma mira al sostegno familiare e della genitorialità, alla promozione delle competenze sociali dei figli, e alla prevenzione dei disturbi comportamentali ed emotivi di livello grave nei bambini.

In particolare, il Positive Parenting Program si propone di promuovere le relazioni positive all’interno della famiglia, tra genitori e figli, e di aiutare i genitori nello sviluppo e nell’apprendimento di strategie di gestione efficaci per affrontare le problematiche comportamentali di sviluppo comuni. In questa ottica, un obiettivo è quello di aumentare il senso di competenza delle proprie capacità genitoriali, migliorando la comunicazione all’interno della coppia sulla genitorialità e riducendo lo stress genitoriale. L’ acquisizione di tali competenze specifiche può permettere una migliore comunicazione familiare e una riduzione del conflitto, che a sua volta, può portare a una riduzione del rischio di sviluppo di problemi comportamentali ed emotivi nei figli. È stato inoltre osservato che i principi di apprendimento sociale, come ad esempio il supporto positivo per promuovere comportamenti prosociali e adattivi dei figli e i processi all’interno della famiglia, svolgono un ruolo rilevante per la remissione dei sintomi anche per altri disturbi dell’infanzia come depressione, ansia, difficoltà di alimentazione, abitudini disfunzionali (per es., suzione del pollice) e sindromi dolorose ricorrenti (per es., emicranie, dolori addominali ricorrenti; Sanders et al., 2002).

Il modello Triple P si basa sul principio di sufficienza. Che cosa significa? Ogni coppia genitoriale è diversa dall’altra nella modalità con cui si preoccupa per il comportamento del proprio figlio, e questo è attribuibile alle differenze individuali di ogni persona. In base a esse, può esserci una valutazione della gravità, una motivazione e un accesso al sostegno diverso, altrettanto differente sarà la presenza di stress familiare che può essere precedente, contingente o conseguente all’insorgenza di difficoltà del bambino (Sanders et al., 2002). Sulla base di questo presupposto, il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze con diversi livelli di supporto. Il sistema multilivello, dunque, permette di adattare l’intensità dell’intervento alle esigenze e preferenze valutate per ciascuna famiglia (Sanders et al., 2002). A livello pratico, il principio di sufficienza prevede che, per la stessa problematica (per esempio la gestione di problematiche comportamentali attraverso un piano genitoriale specifico) possa essere fornito un programma di skill training e una tipologia di supporto differente, come una serie di suggerimenti scritti e un video illustrativo della strategia, piuttosto che accompagnate da maggiori prove comportamentali, in cui i genitori vengono osservati durante l’interazione con i loro bambini e ricevono feedback da professionisti per implementare le loro capacità genitoriali, e incontri con un professionista.

Quali sono i livelli del modello Triple-P?

Sanders (2012) teorizza 5 principali livelli di intervento nel Positive Parenting Program.

  • Livello 1. Lo step informativo. Permette ai genitori interessati di accedere a informazioni utili riguardo la genitorialità positiva. Vengono utilizzati siti web, programmi televisivi, media, radio, giornali, con lo scopo di aumentare la consapevolezza delle tematiche genitoriali, di destigmatizzare e incoraggiare la partecipazione ai programmi di parent training.
  • Livello 2. Prevede seminari sulla genitorialità oppure 1-2 consultazioni individuali per promuovere uno sviluppo sano del bambino, fornendo una guida evolutiva anticipatoria per i genitori di bambini con lievi difficoltà comportamentali (per es., difficoltà del sonno).
  • Livello 3. È rivolto ai genitori con preoccupazioni specifiche che hanno bambini con difficoltà comportamentali da lievi a moderate. Può prevedere un breve programma di 3-4 incontri individuali, in cui vengono forniti consigli, prove e auto-valutazioni per insegnare loro a gestire le difficoltà dei bambini; oppure sessioni di gruppo riguardo a tematiche comuni (per es., disobbedienza).
  • Livello 4. Prevede un programma più intensivo, individuale o di gruppo, con un maggior numero di incontri con lo scopo di migliorare l’interazione tra genitori e bambini con difficoltà comportamentali più gravi, e di apprendere e mettere in atto le capacità genitoriali.
  • Livello 5. Consiste in un intervento familiare comportamentale (Behavioral Family Intervention, BFI) di intensità maggiore rispetto ai precedenti ed è rivolto alle famiglie in cui le difficoltà dei genitori, nella gestione dei bambini con problematiche comportamentali, sono complicate da altre fonti di disagio familiare (per es., relazioni conflittuali, depressione genitoriale, alti livelli di stress).

Il modello Triple P efficace?

 Una recente revisione sistematica e metanalisi (Sanders et al., 2014) si è occupata di verificare l’efficacia del modello Triple P. I risultati mostrano che tale intervento genitoriale è efficace, sia a breve che a lungo termine, e che è funzionale sia come intervento preventivo che come trattamento. È stato osservato un miglioramento degli aspetti sociali, emotivi e comportamentali (social, emotional, behavioral; detti “SEB”) nei bambini, e sono stati riscontrati anche benefici a livello genitoriale in termini di strategie, fiducia e relazione genitoriale. È importante evidenziare come anche gli interventi brevi e di bassa intensità, come il Livello 1, possono avere un impatto positivo sui risultati di esito sia per i bambini che per i genitori.

Questo sistema di intervento multilivello può essere fornito in diverse modalità: individuale, di gruppo, auto-diretto, online, tramite supporto telefonico. In tutte le modalità è stato riscontrato un miglioramento significativo per quanto riguarda gli aspetti SEB dei bambini, e le pratiche genitoriali, la soddisfazione e l’efficacia genitoriale. In particolare, la somministrazione online ha avuto un maggiore livello di efficacia rispetto alle altre modalità di erogazione dei vari interventi proposti dal Positive Parenting Program. Tale aspetto è di fondamentale importanza poiché permette di raggiungere anche famiglie che non possono accedere ai servizi in modo diretto, e garantisce un sistema di intervento efficace nel caso in cui si presentino altre condizioni emergenziali a livello sociale che comportino una limitazione alla possibilità di svolgere prestazioni in presenza.

 

I social media e la divulgazione psicologica

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui un qualsiasi tipo di divulgazione  dovrebbe basarsi su letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche, ma sui social network il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

 

I social media per la diffusione di notizie

 L’avvento dei social media e la loro diffusione a macchia d’olio, verificatasi a partire dagli ultimi due decenni, ha sensibilmente rivoluzionato le vite di gran parte degli abitanti del nostro pianeta, in particolar modo quelli dei paesi occidentali.

L’utilizzo in larga scala delle varie comunità digitali, di pari passo con la diffusione e l’avanzamento della rete internet nel mondo, ha accorciato le distanze tra le persone. Questo, di conseguenza, ha permesso a ogni individuo di poter accedere a una quantità e ad una varietà di informazioni come mai si era potuto fare prima.

I vari ambiti professionali, tra cui quello della psicologia, ne hanno avuto giovamento attraverso la creazione di canali di scambio tra colleghi, che hanno dato vita con più facilità a incontri, progetti, canali scientifici e di divulgazione, favorendo sempre più una rete di comunicazione. Tutto questo attraverso lo sviluppo di interessanti strategie comunicative che hanno coinvolto un pubblico sempre più interessato, preparato e consapevole. Anche società scientifiche hanno aperto pagine istituzionali nei vari social. Insomma, discipline come psicologia, psicoterapia e affini hanno aperto le porte al pubblico mostrando aspetti della professione sui quali vigevano false credenze, stereotipi e fantasie ispirate a contesti come quello di una distratta cinematografia o un semplice passaparola, restituendo un’immagine di umanità ai professionisti e sdoganando l’accesso alle cure e ai processi di crescita personale agli utenti.

La maggior presenza dei temi riguardanti la salute mentale sui social media ha portato e sta portando con sé sia aspetti positivi sia aspetti negativi, la gran parte dei quali, tuttavia, non potrà trovare spazio in questo articolo.

La salute mentale sui social media: gli aspetti positivi e i rischi

Cercando di affrontare sinteticamente gli aspetti positivi che hanno riguardato i temi relativi alla salute mentale, c’è stata in primo luogo la possibilità di poter affrontare temi culturalmente considerati tabù in diverse società e culture. A supporto di questo, hanno avuto un ruolo importante anche i numerosi coming out che personaggi dello sport e dello spettacolo hanno fatto proprio attraverso questi canali dove hanno condiviso le proprie esperienze di difficoltà e di sofferenza e il loro affrontarle in percorsi con professionisti. Non è infrequente che tali personaggi abbiano reso pubbliche, nel modo che loro ritenevano migliore, le proprie esperienze di difficoltà e psicoterapia. Ad esempio, in Italia abbiamo l’emblematico caso dei coniugi Chiara Ferragni (imprenditrice e influencer) e Fedez (cantante e influencer), che non hanno mai fatto segreto del proprio percorso di psicoterapia di coppia, arrivando a mostrare questa intimità in una serie dal nome The Ferragnez. Questo a dimostrazione di come una delle caratteristiche dei social media sia proprio quella di ridurre sensibilmente la distanza tra le persone, in tal modo diventa possibile per i personaggi famosi, fino a quel momento distanti, patinati e inarrivabili, entrare più in intimità con i loro seguaci, i loro follower, mostrando che la fragilità è una cosa di cui si può parlare.

Una conseguenza di questo fenomeno è stata quella di portare le persone che utilizzano maggiormente queste piattaforme, ragazzi e ragazze appartenenti alla generazione Millennial (nati tra il 1981 e il 1996) e alla generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), a una grande esposizione di questo genere di contenuti su queste piattaforme. Non dovrebbe meravigliare, dunque, che proprio gli appartenenti a queste generazioni siano coloro i quali si mostrano più sensibili ai temi riguardanti la salute mentale e, di conseguenza, meno restii a chiedere aiuto (si veda ad esempio, Bethune, 2019; O’Reilly et al., 2018).

Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Come sappiamo, i social e il mondo digitale più in generale, non sempre ci mostrano un lato esclusivamente positivo (Ceron et al., 2014). Così come oggi, in modo semplice e accessibile, la buona pratica usufruisce di questo potente strumento, allo stesso modo può avere accesso anche la cattiva pratica. Per cattiva pratica intendiamo tutto ciò che, applicato o divulgato, può creare cattiva informazione o addirittura compromettere in diversi modi la salute del prossimo, promuovendo interventi dannosi, confondendo sull’accesso alle giuste cure di cui si potrebbe necessitare, o addirittura stigmatizzare il malessere che rischierebbe di non essere portato alla luce.

Uno dei fenomeni di cattiva pratica in grado di portare a conseguenze negative, spesso anche gravi, è dato dalla possibilità che informazioni non opportunamente verificate si diffondano: le cosiddette fake news. Può facilmente balzare all’occhio di chiunque la pericolosità della circolazione di tali notizie, tanto che anche il sito del Ministero della Salute ci ha tenuto a sottolineare quanto “Bufale e disinformazione sono molto pericolose quando riguardano la salute e spesso non è facile distinguerle tra milioni di informazioni” (Fake News, n.d.). In che modo il tema delle informazioni inesatte, non supportate da fonti autorevoli, può essere legato alla divulgazione e alla condivisione di contenuti riguardanti la salute mentale?

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui una qualsiasi informazione dovrebbe essere passata in rassegna dalla letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche. In un mondo, come quello dei social media, in cui qualsiasi informazione non ha la necessità di essere riconducibile a una fonte attendibile, il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

Un caso specifico

Un esempio riguarda uno dei temi caldi dei social media, quello relativo al costrutto di narcisismo, che è proprio quello di cui abbiamo voluto occuparci in questo articolo, la cui idea nasce da un gruppo di professionisti presenti sui social che ritiene sempre più urgente una promozione di specifici principi volti alla tutela della professione e dell’utenza. L’episodio scatenante è il seguente: sulla pagina del CNOP è stato condiviso un articolo pubblicato su un sito di divulgazione psicologica.

La problematica che viene presentata, sicuramente sempre attuale e interessante, tratta il tema delle relazioni vissute con sofferenza e i possibili malesseri che ne derivano. Fin qui nulla di strano. Non è infrequente, infatti per un clinico ricevere richieste legate a momenti di vita in cui una persona è da poco uscita o fa fatica ad uscire da una relazione che la mette a dura prova. Queste sono quelle che la folk psychology, la psicologia pop o ingenua, definisce “relazioni tossiche”. Un clinico, invece, in base alle circostanze, potrebbe definire tali dinamiche di relazione in diversi modi, ad esempio dipendenza affettiva. La dinamica in linea di massima nasce dalla persona che, nella speranza di vivere un idillio amoroso, è divenuta partecipante di una relazione che l’ha esposta a vivere e ad affrontare delle condizioni tutt’altro che piacevoli, spesso con un individuo che non ha corrisposto alle sue aspettative o quanto meno l’ha fatto solo in una fase iniziale della relazione.

Proseguendo, l’articolo in questione descrive questa dinamica in termini nefasti. Una persona rappresentata come una persona disponibile, comprensiva, aperta al dialogo, insomma una persona “buona”, incontra sulla sua strada una persona “predatrice”, cieca ai bisogni altrui, estremamente egocentrica, insomma una persona “cattiva”, definita impropriamente “narcisista”. Lo scopo di quest’ultima è quello di “vampirizzare” le risorse energetiche dell’altro attraverso una serie di capacità manipolative che terranno il/la malcapitato/a in una relazione dalla quale uscire sarà quasi impossibile. Inoltre, nel suddetto articolo vengono fornite una serie di indicazioni da seguire per permettere alla persona di allontanarsi da questa situazione spiacevole.

Questo articolo solleva diverse questioni, sulle quali troviamo giusto, proprio a fede del rigore scientifico di cui parlavamo, condividere alcune delle nostre riflessioni.

L’autore del suddetto articolo inquadra questa situazione definendola con il nome di “abuso narcisistico”.

La letteratura è praticamente piena di questi studi. Insomma, chi non desidererebbe vivere una relazione sana e appagante? Tutti tranne quelli che stanno bene da soli anche senza una relazione sana e appagante.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Punto primo, nessuno ha mai negato che la relazione con una persona affetta da disturbo narcisistico non possa essere dannosa per il proprio benessere e la propria qualità di vita. Difatti, il termine stesso di Disturbo di Personalità sottoscrive anche la descrizione di come gli aspetti funzionali di una persona, le sue capacità relazionali, il suo potenziale di maturazione nella vita e la capacità di perseguire obiettivi sani e realistici, sono elementi compromessi, in gradi più o meno diversi. L’incapacità di poter vivere relazioni appaganti e sane purtroppo rientra tra le problematiche. Questo però non è una prerogativa solo del disturbo narcisistico di personalità. Purtroppo le relazioni, per le persone affette da disturbo di personalità, sono circostanze dove l’intimità e la vicinanza richiamano con molta facilità, dinamiche legate ad aspetti della propria sofferenza personale. Avviene quindi che il soggetto si trova a dover fronteggiare contenuti legati alla sua storia personale e ai processi evolutivi, per i quali spesso egli non ha né la giusta consapevolezza né tantomeno i giusti strumenti che gli permetterebbero di avere buone dinamiche relazionali.

Nel leggere l’articolo in questione, invece, le cose sembrano presentate da un punto di vista differente che inquadra sostanzialmente due protagonisti. Da una parte i narcisisti, visti come persone che hanno ben pensato di sviluppare un simile disturbo con lo scopo ultimo di andare a rendere difficile la vita altrui per nutrirsi della sofferenza distillata dal malessere che sono in grado di generare; dall’altra una vittima, la cui unica colpa è quella di essere “empatica” che, braccata dal narcisista, viene ingannata, manipolata e annullata all’interno di una relazione dalla quale ne uscirà con un disturbo post traumatico da stress (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD).

Il tutto veniva racchiuso sotto la definizione di “Sindrome da abuso narcisistico”.

Ma dove risiede l’errore? Intanto iniziamo a chiederci per chi la fine di una storia non è collegata a una sofferenza? Per nessuno. Siamo mammiferi e quando le nostre relazioni significative si interrompono per qualche motivo noi soffriamo, anche se chiudiamo la relazione per stare meglio. È innegabile che, se all’interno di tale relazione ci sono state delle dinamiche di svalutazione e di violenza, se ne esce con delle ferite. Premesso questo, tuttavia, è importante, alla conclusione di una relazione così devastante, farsi una domanda molto semplice, ma fondamentale: “Come ci sono finito/a?”. Qui forse l’ipotesi di essere semplicemente “empatici” potrebbe essere un po’ debole, oltre che poco utile da un punto di vista clinico.

In effetti, essere vittime di maltrattamento e di svalutazione in una relazione è una tematica sicuramente importante, ma affermare che il problema reale sia la diagnosi di una terza persona è molto lontano da un piano terapeutico utile e reale. Infatti, quello che si rischia di perdere di vista innanzitutto è il reale obiettivo del trattamento terapeutico, ovvero aiutare la persona non solo a superare il momento attuale di sofferenza, ma soprattutto a sviluppare un’adeguata conoscenza e capacità di padroneggiare dei propri pattern relazionali, con l’obiettivo di non trovarsi più in situazioni del genere.

Da qui ci colleghiamo ad un altro aspetto centrale sollevato dall’articolo in questione. Non viene considerato minimamente il ruolo della persona descritta come “vittima” nella costruzione e nel mantenimento di una dinamica relazionale di sofferenza. Come abbiamo visto, questo rischia di essere dannoso poiché non aiuta la persona a comprendere di essere parte attiva del proprio cambiamento e, di conseguenza, della propria evoluzione.

 Un altro aspetto molto importante è quello della “diagnosi per procura”. Ovvero il fatto che l’autore dell’articolo, utilizzando i racconti della “vittima”, formulava impropriamente un termine diagnostico. È importante sottolineare che non è possibile dare una definizione diagnostica a una persona con la quale non si ha interagito in prima persona. A tal proposito, vogliamo citare la regola Goldwater, dell’American Psychiatric Association (APA), in cui si afferma che gli psichiatri non dovrebbero esprimere un’opinione professionale su personaggi pubblici che non hanno esaminato di persona e dai quali non hanno ottenuto il consenso per discutere della loro salute mentale in dichiarazioni pubbliche. Lo stesso codice deontologico degli psicologi italiani, nell’articolo 25, afferma che “lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone”.

Per giunta, impostare un trattamento basandosi sulla diagnosi di una terza persona che non è il paziente, potrebbe portare a un percorso infruttuoso, se non dannoso.

Ultima osservazione sulla diagnosi per procura, ma non meno importante, è che la descrizione del disturbo narcisistico viene estrapolata dai criteri presenti sul Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorder; DSM), ma il tutto viene infarcito da una serie di descrizioni e attribuzioni che non sono proprie della diagnosi del disturbo. Queste, infatti, appartengono a ben altra problematica conosciuta in letteratura, tutt’ora oggetto di studio e sotto dibattito scientifico, che prende il nome di “triade oscura”, in cui una somma di aspetti sotto il nome di machiavellismo, psicoticismo e narcisismo si combinano delineando qualcosa che è ben diversa da quello che potremmo definire disturbo di Personalità Narcisistica.

Oltre agli aspetti che abbiamo illustrato finora, è interessante notare che i diversi colleghi che hanno provato a commentare l’a-scientificità dell’articolo condiviso dal CNOP, sono stati assaliti da insulti, commenti svalutanti e addirittura minacce. Molti di questi erano legati al fatto di sentirsi delegittimati dal proprio ruolo di vittima, come se mettere in dubbio l’affermazione “abuso narcisistico” togliesse credibilità alla sofferenza che queste persone avevano vissuto.

Questo episodio pone il CNOP in una posizione scomoda. Difatti, una folta comunità di colleghi ha manifestato sui social il proprio dissenso in quanto non si è sentita rappresentata da una comunicazione che non rispetta la natura scientifica della psicologia stessa. La risposta ufficiale del CNOP a tale critica è stata quella di voler prediligere una posizione neutrale volta a mantenere un dibattito.

Ciò che poi vogliamo dire avviandoci alla conclusione, è che noi psicologi possiamo dibattere, ma su idee scientifiche. Difatti, molti di noi sono iscritti a società scientifiche proprio per questo motivo. È possibile in tal senso discutere su una procedura di ricerca, su un modo diverso di interpretare i dati alla luce di altri dati di letteratura ecc., ma non è possibile discutere di argomenti presentati sotto forma di opinioni, anche ispirate a vissuti personali, che non rispettano i dovuti criteri scientifici necessari.

Conclusioni

In conclusione, lo scopo di questo articolo non è quello di fare sterile polemica, ma sollevare problematiche importanti e cercare di aprire dibattiti che possano portare a confronti produttivi.

Per tale motivo vorremmo chiudere con delle proposte che hanno lo scopo di salvaguardare, all’interno dei social media, i principi etici e professionali della psicologia in quanto scienza, via di cura e di benessere per l’individuo.

Una prima proposta è quella di creare in Italia delle linee guida per un corretto utilizzo dei social media per gli psicologi. Di riferimento possono essere quelle stilate dall’American Psychological Association (American Psychological Association, 2021) per l’uso ottimale dei social media nella pratica psicologica professionale.

In aggiunta, pensiamo che la creazione di un comitato etico e scientifico che possa ricoprire la funzione di supervisione e salvaguardia costituirebbe sicuramente una grande tutela dell’immagine professionale e della qualità dell’informazione.

Nella realizzazione di queste proposte si potrebbero creare dei tavoli di dibattito presso i quali le società scientifiche presenti sul territorio nazionale potrebbero partecipare con i propri rappresentanti offrendo un contributo di non poco valore.

Restando realisti, comprendiamo che l’oceano della divulgazione digitale è assai vasto e complesso, ma proprio per tale motivo, è necessario che l’imprescindibile presenza di una categoria professionale che si occupa di salute e benessere, si ispiri ai principi professionali che la rappresentano e che quindi sono necessari degli interventi tempestivi a tal merito.

Insomma, se è una cosa che deve portare del bene allora, va fatta bene.

 

Regolare le emozioni attraverso la scrittura 

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere.

 

Siamo arrabbiati e non troviamo il modo di sfogarci? Delusi o rattristati e facciamo fatica a riconoscere la causa del nostro malessere? A volte un aiuto importante può arrivarci da due semplici elementi: un foglio e una penna. La scrittura, infatti, si rivela una valida alleata per superare le situazioni di stress e riprendere il controllo delle nostre emozioni.

Che cosa dice la scienza

Matthew Lieberman, ricercatore dell’Università della California, ha condotto uno studio (2007) che ha osservato che la scrittura riduce l’attività di quella parte del cervello che si attiva quando siamo sottoposti a situazioni di paura e stress grave. Scrivere può avere anche effetti benefici sul sistema immunitario in quanto influenza positivamente il nostro modo di pensare, influenzando indirettamente la nostra risposta psicofisica.

Il metodo del diario creativo

Lo psicoterapeuta americano Ira Progoff (1992) è conosciuto per il suo metodo del diario creativo. Ai partecipanti dei suoi corsi di diario viene consegnato un quaderno di 24 pagine colorate divise in diverse sezioni. L’intenzione è che la sua struttura possa fornire a chi lo utilizza un equivalente del suo spazio interiore, in cui muoversi per sperimentare quello che sarà poi utile riportare nella vita reale.

Secondo questo metodo, tenere un diario deve comprendere la scrittura progressiva di ciò che accade per evocare nuove idee e aprire nuove opportunità di comprensione. Le diverse sezioni del diario possono riferirsi a diversi aspetti della nostra vita, non solo fatti, ma anche stati d’animo, emozioni, scelte, progetti, desideri. È utile che comprendano anche una sezione periodica, che potremmo identificare in un appuntamento trimestrale, volta a rileggere quanto appuntato nel periodo e portare a un’autovalutazione di se stessi e del proprio percorso.

I benefici della scrittura

Indipendentemente da chi siamo e che cosa facciamo, la scrittura può essere fonte di grandi benefici, aiutandoci a razionalizzare le emozioni, a calmarci, persino a migliorare la nostra salute fisica e mentale abbassando i livelli di stress, ansia e depressione.

Ci aiuta a vedere più chiaramente quello che vogliamo dire grazie alla ricerca delle parole giuste che ci obbliga a sforzarci di dare un senso logico ai nostri pensieri, a focalizzare i punti salienti di ciò che vogliamo comunicare e a dare loro il giusto peso.

Esistono diverse forme di scrittura, alcune vengono fatte per essere condivise, per esempio quando scriviamo una lettera e diciamo a un amico, presumibilmente lontano, che cosa ci sta accadendo. Possiamo anche trovarci a scrivere per un pubblico più ampio, per esempio se stiamo pensando di scrivere un libro. Altre forme di scrittura sono rivolte solamente a noi stessi, come il diario.

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere. Imparare ad affrontarle ci consente un’elaborazione cognitiva dei ricordi, in particolare di quelli che ci hanno causato angoscia o stress, aiutandoci a scendere a patti con essi e a superarli più facilmente. Attraverso l’uso del diario riusciamo a semplificare le difficoltà che incontriamo nell’esprimere i nostri sentimenti creando una sorta di complicità con noi stessi.

Prendiamo una penna, un pezzo di carta, rilassiamoci e allontaniamo dalla nostra mente tutto il resto. Lasciamo che la penna scorra liberamente sulla carta trasferendo i pensieri che la nostra mente decide di selezionare e trasmettere alla mano che sta scrivendo. Ed ecco che un diario può diventare un buon amico.

A cosa serve un diario

Tenere un diario è un po’ come avere un amico che sa ascoltare: raccoglie le nostre confidenze, le rielabora e ci dà consigli. Ma non va considerato come un’alternativa per chi non ha un amico “vero” con cui condividere i propri pensieri, è piuttosto un “amico aggiuntivo”, con lui ci si può aprire senza freni, a lui si può dire tutto, anche affrontare quelle parti più intime di noi che potremmo aver paura di rivelare agli altri.

Scrivere un diario è un modo per dedicare tempo a noi stessi e diventare osservatori della nostra vita e dei suoi cambiamenti.

In un diario scriviamo i nostri interessi, i nostri desideri, fissiamo gli obiettivi che vorremmo realizzare e, nel cercare di renderli chiari, ci impegniamo anche a immaginare una strategia plausibile per raggiungerli. Una volta che tutte queste cose sono messe su carta, la nostra possibile pigrizia o riluttanza a impegnarci diventerà difficile da giustificare persino a noi stessi, con l’effetto di spingerci ad agire in modo costruttivo.

Come abbiamo detto, mentre scriviamo dobbiamo fare uno sforzo per trasformare i nostri pensieri in parole che li rappresentino e dare loro un significato esaustivo. Questo processo ci aiuta a chiarire i nostri pensieri e confrontarli vedendoli sotto una nuova luce. Ci permette di avere una visione più lucida e distaccata della situazione che stiamo raccontando.

È sicuramente un ottimo sfogo per l’ansia e la rabbia, ma non è solo questo, e non necessariamente dobbiamo scrivere di problemi o travagli interiori che ci opprimono.

Una pratica interessante può essere quella di stabilire periodicamente una lista di obiettivi in modo da verificare se sappiamo essere costanti nelle nostre idee e se siamo in grado di mettere in atto un comportamento efficace per raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati.

Per godere dei benefici della scrittura non c’è dubbio che sia preferibile scrivere a mano. Secondo uno studio pubblicato nel 2021 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tokyo, è stato osservato che scrivere con il computer porta a essere più sintetici, con il risultato di trattare ciò che si sta comunicando in modo meno dettagliato. Scrivere a mano aiuta a ricordare le informazioni e a conservare i ricordi, tutti elementi che apportano benefici al nostro cervello. Richiede un maggiore controllo del movimento e del pensiero che lo controlla, pensiamo alla mano che tiene la penna e alle dita che ne indirizzano il movimento sulla carta. Questo attiva una serie di aree cerebrali che, al contrario, non sono attivate dall’uso di una tastiera.

Rileggere, una preziosa opportunità

Come abbiamo accennato, l’importanza del diario non si esaurisce nella fase di scrittura. In effetti, possiamo dire che la scrittura è solo un primo passo, preparatorio a quello che è il vero scopo del diario: il momento in cui, dopo più o meno tempo, rileggeremo quello che abbiamo scritto.

Naturalmente, più a lungo abbiamo tenuto il nostro diario e più costantemente ci siamo dedicati a esso, più utile e completa risulterà essere la rilettura.

Sarà in quel momento che avremo modo di ripercorrere i nostri stati d’animo con il necessario distacco per guardarli più chiaramente e da una nuova prospettiva. Ci renderemo conto di quali sono stati i nostri stati d’animo ricorrenti in un certo momento, di ciò che ci ha fatto soffrire e di ciò che ci ha reso felici. Rileggeremo i nostri desideri e le nostre speranze e capiremo se siamo stati in grado di realizzarli o meno. Potremo anche cercare di capire che cosa ci ha impedito di raggiungerli, e lavorare su questo per invertire la rotta e imparare ad avere successo dove in precedenza avevamo fallito.

 

Il potere della discordia (2021) di Tronick e Gold – Recensione

Il potere della discordia non risiederebbe tanto nell’incentivare l’armonia, quanto, nel riparare le disarmonie: esso deriverebbe dall’attraversare la rabbia insieme, dall’esplorare la paura ed il dolore, disinnescando il conflitto ed abbracciando il perdono.

 

Abstract

 Il libro di Tronick e Gold (2021) ben si presta a far luce su quanto la concordia e la discordia rappresentino i poli verso cui le linee evolutivo-relazionali umane (e non solo) convergano, secondo una logica ciclica e ricorsiva. Nel volume in oggetto, la concettualizzazione tipicamente Freudiana del conflitto viene rivisitata alla luce della più moderna letteratura di stampo intersoggettivo.

Il corso dell’esistenza umana, infatti, si snoda lungo conflitti costruttivi e distruttivi: sarà proprio il modo di affrontare congiuntamente un conflitto, come verrà chiarito a seguire, a sancirne la qualità e le traiettorie dei suoi esiti relazionali. Muovendo dal libro in oggetto, l’intento del presente articolo è mettere in evidenza il potere della discordia, tentando di approfondire perché il conflitto rafforza le relazioni.

Prefazione

Ultimamente ho avuto modo di vedere la serie This Is Us: il suo tema centrale è rappresentato dal complesso intreccio delle relazioni umane e, più in generale, dal conflitto evolutivo. Le continue sfide ed opportunità della vita – e il loro attraversamento – divengono, d’episodio in episodio, sfaccettati strumenti di crescita, sospinti dal vento dell’amore familiare. Quell’amore talvolta gioioso e plateale, quell’amore così necessario, quell’amore altre volte stravolto, frustrato e deluso, che nasce dal dolore e dal vuoto, e si trascina, si inflette – assumendo forme peculiari – persino contrapposte – pur d’aver luce e nutrimento, inscatolandosi per infiniti schemi e spazi, strategie e comportamenti; a prima vista, affatto intelligibili. Chiusa parentesi: non parlerò affatto di This Is Us. Quanto scritto è più una piccola premessa per introdurvi ad alcuni concetti maturati dopo aver letto il libro “Il potere della discordia. Perché il conflitto rafforza le relazioni” di Tronick e Gold.

Io, tu, noi, tutti: la mente relazionale

Il libro in questione si apre ribadendo come le prime relazioni a cui un essere umano partecipa strutturino e organizzino il suo cervello (o meglio, il modo in cui i suoi neuroni si cablano), altresì, la propria mente.

Il docente e ricercatore dello sviluppo infantile J. Ronald Lally usa il temine social womb (utero sociale) per descrivere il modo in cui un bambino appena nato continua a crescere e svilupparsi nel contesto delle interazioni sociali dopo la nascita (p.110, Tronick & Gold, 2020).

Le interazioni in cui l’infante viene immerso ed il modo specifico in cui ad esse partecipa (ad es. in base al suo temperamento innato, ecc.) divengono i proto-significati ch’egli attribuisce a sé e al mondo circostante (ad es. un luogo tendenzialmente sicuro oppure pericoloso, ecc.).

Non parliamo, dunque, di significati veicolati dal linguaggio verbale, bensì di tipo nucleare, esistenziale, emotivo:

Spesso, riteniamo che la cultura sia esclusivamente radicata nel linguaggio, ma un bambino piccolo costruisce il significato del suo mondo e diviene parte della sua specifica cultura ben prima che abbia la capacità di linguaggio. La cultura è integrata in una moltitudine di sistemi (…). (p.140, ibidem) Generalmente le persone pensano che le relazioni siano rappresentate dal pensiero cosciente e dalle parole. Per esempio, voi usate il linguaggio per descrivere la vostra relazione con i vostri genitori come stretta o piena di conflitti o in altri modi più complessi. Una persona potrebbe dire qualcosa come: “Mia madre lavorava molto e spesso era emotivamente distante ma a volte mi dava tutta la sua attenzione”. Questa frase è la rappresentazione verbale di una relazione. Ma come abbiamo visto, le relazioni sono inscritte in molti altri sistemi oltre che nel pensiero cosciente. L’esperienza sociale, attraverso gli infiniti giochi interattivi che le persone fanno, diventa il contenuto del cervello e del corpo. In una partita di calcio i compagni di squadra che si coordinano per fare goal con pattern di interazione inscritti nel movimento dei loro corpi, con uno scambio minimo o assente di parole, offrono un esempio di come la rappresentazione delle relazioni si verifichi in tutto l’organismo (p.149, ibidem).

Armonia e Disarmonia, ossia, Match e Dismatch

D’altronde sono proprio le relazioni che temperano e (inter)mediano tali vissuti, in un continuo processo di co-regolazione ed auto-regolazione congiunta, risultante dai contributi dei componenti fondanti il sistema: ad es. la madre ed il bambino (Verdesca, 2018a; b; c).  Naturalmente, queste interazioni possono assumere caratteristiche armoniche o disarmoniche – in altre parole, le due parti possono essere in armonia e sincronia tra loro (ossia in match) o, al contrario, confliggere e scomporsi (ossia in dismatch).

La filosofia del Kintusugi: perché il conflitto rafforza le relazioni

Il potere della discordia, dunque, non risiederebbe tanto nell’incentivare l’armonia, quanto, nel riparare le disarmonie: esso deriverebbe dall’attraversare la rabbia insieme, dall’esplorare la paura ed il dolore, disinnescando il conflitto ed abbracciando il perdono. Una filosofia molto simile alla pratica giapponese nota come Kintsugi, secondo cui le rotture di un vaso non andrebbero coperte ma valorizzate quali simbolo di resilienza, secondo il motto “ciò che non uccide ti fortifica” (Hammil, 2016).

 È lungo questa strada che si giungerebbe a costruire e rinforzare una solida fiducia reciproca; il conflitto, dunque, in questi termini, sarebbe una occasione da attraversare, una opportunità di crescita maturativa e – perché no? – una stimolante sfida, alla stregua di quelle curve che, nel corso di un viaggio, sarebbero necessarie alla volta di nuove mete inesplorate (Verdesca, 2020a; b; c).

Piuttosto – e alla luce di quanto detto – sarebbe il tentativo ostinato di negare ed evitare il disaccordo a tutti i costi a porsi in essere come problematico, generando il non-detto, il tabù. Il polo estremo di tale situazione coinciderebbe con l’assenza totale di accordo e disaccordo: una relazione costituita da una “assente presenza” genitoriale, che agli occhi di un bambino apparirebbe come uno spazio di (non) significato mortifero e terrificante, come vuoto avvilente e nefasto: pietrificante – in merito si rimanda ai famosi studi di Tronick, Harlow e Spitz, descritti nel corso delle pagine, volti a studiare quanto detto facendo ricorso a specifiche condizioni sperimentali, ad es. il paradigma dello Still Face (ad es. Tronick, 2003).

Coltivare la resilienza: resistere agli errori e agli orrori

L’interazione amorevole, tra madre e bambino e, più in generale tra gli esseri umani, può farsi carico allora di questi incidenti di percorso, di queste cadute, per farne pregiato carburante di vita, divenendo occasione di sviluppo per i propri muscoli relazionali (Verdesca, 2022a; b).

È questo il significato di resilienza, quella capacità che si apprende e si instaura al centro della propria anima, permettendo di intravedere una fiducia radicata, una fede: la speranza di sopravvivere agli errori e agli orrori, alla stregua di un’onda che se un momento pare infrangersi sulla fredda e rocciosa scogliera, l’altro, già torna imperterrita a far parte dell’immenso a cui appartiene, ricostituendosi.

Se è vero, dunque, che nell’accordo totale non vi sarebbe spazio per l’originalità – semmai per una sorta di imitazione adempitiva – analogamente, nel disaccordo estremo e violento, non vi sarebbe spazio per l’intesa.

Conclusioni: il potere della discordia nel gioco della vita

Sarebbe una skill cruciale e soggetta ad apprendimento, in tale logica, quella che permetterebbe di gestire i conflitti, ricorrendo via via a nuove soluzioni co-create, rinsaldando l’appartenenza reciproca e rinforzando un senso di intima connessione. Nessuno vince, nessuno perde: insieme si cambia, è il gioco cooperativo della vita; un gioco destinato ad essere scritto a più mani. È questo il (sano) potere della discordia che pare imbastire le pagine del libro in questione.

Questa forma di sapere implicito, alla stregua di un linguaggio, si apprende – dalla culla alla tomba – attraverso il disaccordo nelle relazioni e, solo in esse, si può esercitare e modificare, crescendo insieme in intimità e responsabilità; plasmando la vita interiore del corpo, che diviene il luogo in cui tutte le trame delle vite si innervano, si intrecciano: nel silenzio del cuore e delle viscere tutte, a ritmo polivagale (Porges, 2011).

 

Ansia da appuntamento: paura di essere rifiutati o paura di rifiutare?

La paura del rifiuto è palpabile nell’ansia da appuntamento, anche se trovarsi dall’altra parte di un rifiuto è una prospettiva che incute altrettanto timore.

 

L’ansia da appuntamento

 Nonostante provare ansia quando si interagisce con potenziali partner romantici sia normale, livelli di ansia e angoscia significativi possono compromettere la capacità di formare e mantenere relazioni romantiche intime (Carver et al., 2003).

Con il termine ansia da appuntamento si definisce l’angoscia significativa associata alle interazioni con potenziali partner romantici (Hope & Heimberg, 1990).

La letteratura ci dice che l’ansia da appuntamento è associata a una serie di problemi di salute mentale e comportamentali, tra cui livelli più alti di depressione, minore autostima, abuso di sostanze e solitudine sia negli uomini sia nelle donne (Arkowitz et al, 1978; Davies & Windle, 2000), ma nonostante queste potenziali ramificazioni cliniche, l’ansia da appuntamento in sé e per sé non è formalmente riconosciuta come un disturbo d’ansia nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association, 2013). Essa viene piuttosto considerata una manifestazione del disturbo d’ansia sociale (Social Anxiety Disorder – SAD), poiché sia il disturbo d’ansia sociale che l’ansia da appuntamento implicano la paura di una valutazione negativa (Fear of Negative Evaluation – FNE) (Clark & Wells, 1995; Chorney & Morris, 2008).

Paura del rifiuto, paura di rifiutare e paura della valutazione positiva

La paura del rifiuto, secondo gli psicologi cognitivo-comportamentali (ad esempio, Clark & Wells, 1995) e gli psicologi evolutivi (ad esempio, Gilbert, 2001), sembra essere un corollario della paura di una valutazione negativa. Gli individui affetti da ansia sociale tendono a sovrastimare le conseguenze sociali di un comportamento socialmente inetto, credendo che tale comportamento comporti una perdita di status e di valore e, in ultima analisi, il rifiuto (Clark & Wells, 1995). La paura del rifiuto è palpabile nell’ansia da appuntamento, anche se trovarsi dall’altra parte di un rifiuto è una prospettiva che incute altrettanto timore.

I ricercatori hanno infatti scoperto che chi interrompe una relazione o frequentazione si preoccupa di essere percepito dagli altri come noncurante e crudele (Perilloux & Buss, 2008) e che coloro che ricevono dell’amore non corrisposto provano senso di colpa per non contraccambiare il sentimento (Baumeister et al., 1993).

Inoltre, è stato scoperto che gli individui ansiosi tendono a sostenere un maggiore desiderio di evitare il conflitto, soprattutto nelle loro relazioni strette (Davila & Beck, 2002). Se l’ansia da appuntamento è da considerare un tipo di ansia sociale, l’evitamento del conflitto può sfociare in una difficoltà a rifiutare potenziali partner romantici, suggerendo plausibilmente che l’ansia sperimentata non è causata solo dalla paura di essere rifiutati, ma anche dal timore di creare un conflitto rifiutando. In poche parole, quindi, l’ansia da appuntamento potrebbe comportare, oltre alla paura del rifiuto, anche la paura di rifiutare gli altri (Fear of Rejecting Others – FRO).

Un altro elemento che potrebbe avere una valenza nell’ansia da appuntamento e che supporterebbe inoltre l’ipotesi della paura di rifiutare gli altri in questa condizione, è la paura della valutazione positiva (FPE), riscontrata anche essa come saliente nel disturbo d’ansia sociale (ad esempio, Rodebaugh et al., 2012).

Gli individui con alti livelli di paura della valutazione positiva potrebbero plausibilmente temere di essere visti positivamente da un partner romantico per paura poi di non essere in grado di soddisfare le aspettative elevate riposte su di loro (per esempio, appuntamenti successivi, intimità emotiva e sessuale più profonda). In modo correlato, gli individui possono temere di essere visti positivamente da un potenziale partner romantico con il quale non hanno un interesse romantico reciproco, per paura di essere messi nella posizione di rifiutarlo e quindi di incorrere in una valutazione negativa non soddisfacendo le aspettative.

Per chiarire tutti questi punti di domanda, uno studio di Rizvi e colleghi (2022) ha esaminato la relazione tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti (DFNE), la paura di rifiutare gli altri (FRO) e la paura della valutazione positiva (FPE).

 I risultati hanno supportato l’ipotesi degli autori, in quanto è stata trovata una correlazione positiva significativa tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti e la paura di rifiutare gli altri. Questo risultato fornisce un supporto all’idea che gli individui che temono di essere valutati negativamente da potenziali partner romantici temono anche l’idea di rifiutarli. Inoltre, sfida l’idea che la caratteristica cognitiva principale dell’ansia da appuntamento sia proprio la paura della valutazione negativa o il rifiuto.

In generale, sia la paura della valutazione positiva che la paura di rifiutare gli altri appaiono significativamente correlati alla paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti. Ciò che è degno di nota è che la correlazione tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti e la paura di rifiutare gli altri è rimasta significativa anche dopo aver tenuto conto della paura della valutazione positiva, suggerendo che la paura di rifiutare gli altri è qualcosa di più della preoccupazione di non soddisfare le aspettative degli altri.

Nuove variabili da considerare per spiegare l’ansia da appuntamento

Questo studio apre la possibilità di nuove direzioni, lasciando aperte ulteriori questioni per la ricerca futura, che potrebbe includere un esame delle differenze di genere e orientamento sessuale nella relazione tra paura di una valutazione negativa, di una valutazione positiva e di rifiutare gli altri.

È plausibile che queste variabili possano essere più rilevanti per i diversi generi date le diverse aspettative sociali che si hanno in base al sesso dell’individuo e che rendono un comportamento “accettabile” durante gli appuntamenti romantici. Altri costrutti d’ansia, come la paura dell’intimità (Descutner & Thelen, 1991) e la paura dell’impegno (Serlin & Betz, 1990), potrebbero essere indagati poiché potrebbero scoprirsi rilevanti per l’ansia da appuntamento interagendo con le convinzioni sulle relazioni sentimentali.

Considerazioni conclusive

Riassumendo, quindi, la correlazione riscontrata in questo studio non ha precedenti in letteratura dato che nessun altro studio ha mai preso in considerazione la paura di rifiutare gli altri come aspetto cognitivo rilevante dell’ansia da appuntamento.

Il riconoscimento della sua importanza clinica è il primo passo verso lo sviluppo di un trattamento efficace. I trattamenti cognitivi (ad esempio ristrutturazione, reframing) e comportamentali (ad esempio, terapia di esposizione) per l’ansia richiedono richiederanno un adattamento per affrontare la paura di rifiutare gli altri.

 

Come garantire l’aggiornamento professionale continuo agli operatori sanitari? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 15

L’ultimo quesito del Tavolo C della Consensus Conference si è occupato di fare il punto sull’offerta di formazione continua nel campo della salute mentale in Italia e, conseguentemente, proporre delle soluzioni realizzabili per far sì che i professionisti accedano ad informazioni aggiornate riguardo a procedure di screening e metodi di trattamento dei DMC (Disturbi Mentali Comuni, come ansia e depressione).

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 15) Come garantire l’aggiornamento professionale continuo agli operatori sanitari?

 

Quesito C3: l’aggiornamento professionale continuo in Italia

 Quali iniziative possono essere indicate ed essere rese praticabili ai livelli della formazione continua e/o altre iniziative di aggiornamento professionale per neuropsichiatri infantili, psichiatri, psicologi clinici e psicoterapeuti?

Per avere un quadro della situazione italiana in merito alle offerte di formazione continua rivolta ai professionisti della salute mentale, quali psicoterapeuti, psicologi clinici, neuropsichiatri infantili e psichiatri, gli Esperti hanno effettuato una ricerca di tali attività fornite da diversi enti, come l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dalle Regioni, dalle singole Aziende Sanitarie, dalle Università e da Enti privati.

L’indagine sembra suggerire che siano maggiormente presenti corsi formativi focalizzati su disturbi con più bassa prevalenza e meno gravi e invalidanti dei Disturbi Mentali Comuni. Dunque, i corsi incentrati sui Disturbi Mentali Comuni trovano ben poco spazio, in termini quantitativi, nel panorama della formazione continua nel nostro Paese. Inoltre, risultano carenti le iniziative formative sugli aspetti basilari della gestione dei Disturbi Mentali Comuni, ovvero “la diagnosi articolata su livelli crescenti di gravità, il trattamento strutturato su più livelli di intensità, l’utilità degli interventi a bassa intensità, la valutazione sistematica degli esiti dei trattamenti” (ISS, 2022).

Relativamente alla Sanità pubblica, le proposte formative dipendono da specifici progetti di intervento o sono legate alla realizzazione di Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali (PDTA). A questo proposito, ciò che è importante sottolinearne è che, l’attenzione data dalle Regioni ai PTDA e ai progetti di screening e trattamento per la depressione perinatale, ha incrementato l’offerta di corsi su tali temi.

 Riguardo ai piani formativi inerenti alle procedure diagnostiche e di trattamento per i disturbi ansiosi e depressivi, questi troppo poco spesso privilegiano le procedure e le tecniche più validate dal punto di vista delle prove di efficacia, in favore delle tecniche emergenti, che in quanto tali hanno ancora scarse evidenze scientifiche, seppur interessanti e utili per far avanzare la ricerca e l’applicazione clinica. In aggiunta, risultano scarse le iniziative che indirizzano gli operatori ad accedere e a utilizzare in modo critico la letteratura scientifica.

Raccomandazioni C3

Dato lo stato attuale appena descritto, gli Esperti, al fine di fornire ai neolaureati una preparazione adeguata, aggiornata e di alto livello sui disturbi ansiosi e depressivi, sulla pratica clinica, nonché sulle criticità emerse a seguito dell’emergenza COVID-19, raccomandano Corsi di Alta Formazione e Master di II livello erogati da enti di competenza, quali università e Ordini professionali.

L’aggiornamento e la formazione continui sono fortemente raccomandati ai professionisti della salute, anche per una questione deontologica: “offrire una assistenza qualitativamente utile e aggiornata ai propri pazienti” (ISS, 2022). Tra le varie iniziative formative specifiche per assicurare conoscenze e competenze adeguate rispetto ai disturbi ansiosi e depressivi, gli Esperti raccomandano che l’ISS, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari (AGENAS) e le Università collaborino per fornire percorsi formativi aggiornati, che possano poi arrivare alle singole Aziende Sanitarie, mediante il Sistema Sanitario Regionale.

 

La Qualità di Vita nelle persone con Autismo

La maggior parte degli studi sulla Qualità di Vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico si è concentrata sulla valutazione degli aspetti oggettivi (stato educativo e professionale, vita indipendente, relazioni con i pari) ma, è indispensabile il ricorso alla misurazione anche della percezione soggettiva di tale concetto.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 3) La Qualità di Vita negli interventi per le disabilità

 

Il riferimento al Modello di Qualità di Vita (QdV) di Schalock e Verdugo del 2002 (ndr: il modello verrà illustrato dettagliatamente nel prossimo numero della rubrica) nei servizi per le disabilità ha una duplice funzionalità: dal punto di vista individuale e orientato alla persona, permette di indirizzare i programmi di intervento a seconda dei bisogni e desideri personali e di valutarne l’efficacia sulla base degli esiti conseguiti in termini di benessere stesso; dall’altro lato, di conseguenza, tale costrutto permette di migliorare la qualità dei servizi a livello gestionale (Coscarelli e Balboni, 2014). La Qualità di Vita rappresenta pertanto l’obiettivo di qualsiasi intervento, nonché il parametro per misurarne l’efficacia (Cottini, 2009). Questi dovrebbero permettere all’utente con disabilità di ridurre la discrepanza esistente tra le sue competenze (considerati i deficit funzionali) e le richieste ambientali, favorendo le condizioni per un funzionamento ottimale dell’individuo all’interno del proprio ambiente, al fine di perseguire i propri obiettivi di vita (Coscarelli e Balboni, 2014). Pertanto, nelle parole di Buntinx e Schalock (2010), un sistema di sostegni individualizzato e basato sul concetto di Qualità di Vita, rappresenta “a critical bridge between the individual’s present state of functioning (“what is”) and a desired state of functioning (“what can be”) for a person with ID” [“un ponte essenziale tra lo stato attuale di funzionamento dell’individuo (ciò che si è) e lo stato di funzionamento desiderato (ciò che si potrebbe essere)”, p. 289]. Gli interventi dovrebbero quindi aspirare non solo al miglioramento del funzionamento dell’individuo (interventi abilitativi), ma anche, soprattutto, a un incremento della sua Qualità di Vita, centrandosi sul suo progetto di vita e sul suo universo esistenziale (Cottini, 2009). Di conseguenza, non è sufficiente una pianificazione dei sostegni sulla base delle aree deficitarie emerse nella valutazione delle competenze di un individuo, risulta fondamentale anche una valutazione delle sue preferenze, dei suoi desideri e delle sue aspirazioni, in modo da selezionare quelle specifiche competenze, il cui miglioramento permetta un incremento nella Qualità di Vita dell’individuo stesso (Buntinx e Schalock, 2010). Nasce così l’esigenza di sviluppare un modello di presa in carico centrato su un progetto di vita capace di promuovere condizioni ampliative di sviluppo delle potenzialità e miglioramento del benessere della persona con disabilità, da affiancare al tradizionale modello clinico abilitativo volto principalmente (se non esclusivamente) alla riduzione dei comportamenti problematici. Un modello quindi in grado di valorizzare un percorso centrato sul funzionamento adattivo dell’utente, dettato da indicazioni personali e soggettive, più che sul suo Quoziente Intellettivo (ANFFAS, 2015).

Qualità di Vita nei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico

La maggior parte degli studi sulla Qualità di Vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) presenti in letteratura si è concentrata sulla valutazione degli aspetti oggettivi di tale costrutto (per esempio, stato educativo e professionale, vita indipendente, relazioni con i pari) ma, dal momento che la Qualità di Vita è collegata a bisogni e aspettative personali, risulta indispensabile il ricorso alla misurazione anche della percezione soggettiva di tale concetto, al fine di ottenere una valutazione della Qualità di Vita più globale, inclusiva ed ecologica (Müller e Cannon, 2014).

Gli indicatori soggettivi di Qualità di Vita vengono principalmente misurati attraverso modalità auto-valutative (self-report), mentre per quelli oggettivi si fa solitamente ricorso a forme di etero-valutazione, quindi attraverso coloro che se ne prendono cura. Le misure auto-valutative consentono di disporre del punto di vista personale del soggetto valutato, in linea con i princìpi stessi della Qualità di Vita, i quali pongono la persona con i suoi bisogni e desideri al centro del sistema (Coscarelli e Balboni, 2014). L’affidabilità di tali tecniche, però, costituisce motivo di dibattito nell’ambito della valutazione della Qualità di Vita di soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico, e questo potrebbe in parte spiegare la maggiore disposizione all’utilizzo di tecniche etero-valutative in questo ambito. L’utilizzo dei metodi auto-valutativi risente maggiormente delle difficoltà tipiche delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, come quelle legate alla comunicazione, al pensiero astratto e all’interpretazione delle emozioni proprie e altrui (Brugha et al., 2015). A tal proposito, Cummins (2001; come citato in Hatton e Ager, 2002) raccomanda l’utilizzo di un pre-test nelle misurazioni della Qualità di Vita, in modo da valutare la capacità del soggetto di comprendere le domande. Tuttavia, spesso il problema appena riportato viene arginato chiedendo a delle persone delegate (proxy), solitamente costituite dai caregiver, di rappresentare il punto di vista del soggetto da valutare (Müller e Cannon, 2014), ma non è chiaro se le informazioni fornite dai proxy costituiscano un valido e accurato sostituto ai self-report (Verdugo et al., 2005). Per questo motivo, può essere utile ricorrere, come strumento di raccolta di informazioni di tipo soggettivo, alle interviste semi-strutturate, in modo che l’intervistato sia maggiormente propenso a collaborare e l’intervistatore possa monitorare con più flessibilità l’adeguatezza e l’affidabilità delle risposte, chiedendo o fornendo esempi e riproponendo la domanda in vari modi (Coscarelli e Balboni, 2014).

Importanza della misurazione della Qualità di Vita negli adulti con Disturbi dello Spettro Autistico

Il riferimento al costrutto (ovvero il concetto) di Qualità di Vita risulta particolarmente utile e vantaggioso negli interventi rivolti ad adulti con Disturbo dello Spettro Autistico, date le caratteristiche life-span tipiche di tale condizione (Cottini, 2009). Infatti, per quanto possa sembrare strano, gran parte della comunità scientifica non supporta ancora a sufficienza la cultura dell’abilitazione estesa per l’intero arco di vita (appunto, life-span), come testimoniato dalla penuria letteraria a tal riguardo. Spesso, arrivati ai 18 anni, i soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico e le loro famiglie assistono impotenti a una repentina perdita dell’assistenza sanitaria e alla mancanza di servizi che siano in grado di occuparsi seriamente delle problematiche annesse alle necessità di continuità abilitativa (e non solo assistenziale) e alla progettualità di vita dell’adulto con autismo (Murphy et al., 2016).

Interventi mirati, efficaci e di riconfigurazione ambientale possono costituire la base per l’espressione delle potenzialità di queste persone, talvolta difficili da prevedere, che costituiscono però un’umanità tanto speciale quanto ricca. Pertanto, il soddisfacimento dei loro bisogni non è esclusivamente appannaggio di un intervento assistenziale, ma si riferisce allo sviluppo della capacità della persona di perseguire i propri obiettivi e quindi di mantenere e migliorare la propria Qualità di Vita. Risulta quindi evidente la componente prospettica (life-span) del concetto di Qualità di Vita, in quanto essa non si limita all’attuale stato di benessere, ma si occupa della capacità di dare un significato alla propria vita, in vista della conservazione di un’immagine positiva di sé (Cottini, 2009).

C’è, inoltre, da considerare il fatto che la permanenza completa di un adulto con Autismo nella propria famiglia non rappresenta una prospettiva adeguata per una serie di motivi: innanzitutto perché non permette all’individuo con Disturbo dello Spettro Autistico di usufruire di programmi per lo sviluppo delle autonomie, e in particolare di quelle integranti come quelle comunitarie, lavorative e abitative. In aggiunta, è lui in primis a necessitare di un ambiente alternativo alla famiglia in vista del venir meno della possibilità da parte dei familiari di fornirgli assistenza. Infine, i genitori dovrebbero poter avere la possibilità di condurre una vita serena e non esclusivamente funzionale alla cura del figlio e quindi di esperire anche loro stessi un buon livello di Qualità di Vita (Cottini, 2009).

In definitiva, dal momento che il primo obiettivo di una diagnosi dovrebbe essere l’utilità clinica e che l’eziologia del Disturbo dello Spettro Autistico non è ancora chiara e condivisa, tale utilità risiede esattamente nella fornitura di servizi che incrementino la Qualità di Vita di questi soggetti (Lord e Jones, 2012).

Nonostante fino ad ora pochi studi si siano concentrati sulla valutazione della Qualità di Vita in persone con Autismo (Brugha et al., 2015), si sta diffondendo sempre maggior consenso sul fatto che le azioni di sostegno e abilitazione/riabilitazione rivolte a tali persone, dovrebbero orientarsi verso ciò che rappresenta l’obiettivo di fondo per ogni persona, ossia il raggiungimento di un buon livello di Qualità di Vita (NICE, 2021; Howes et al., 2017).

 

La Strange Situation

Sulla base dell’indagine osservazionale svolta attraverso la Strange Situation Procedure Mary Ainsworth definì e descrisse gli stili di attaccamento infantile: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente, insicuro disorganizzato.

 

 Mary Ainsworth (1913-1999) fu una psicologa dello sviluppo che contribuì, assieme a Bowlby, alla concettualizzazione della teoria dell’attaccamento – teoria che mira a comprendere lo sviluppo affettivo del bambino e a studiare il legame affettivo ed emotivo che lo vincola profondamente alla persona che si prende maggiormente cura di lui fin dai primissimi mesi di vita –, consolidandone i fondamenti e le principali formulazioni teoriche, tra cui la motivazione all’esplorazione e la formazione della base sicura. Mary Ainsworth ampliò la teoria di Bowlby rendendo quantificabile il costrutto di attaccamento infantile e descrivendo gli stili di attaccamento, attraverso uno studio osservazionale di carattere sperimentale volto ad indagare il tipo di attaccamento in bambini molto piccoli, cioè la Strange Situation Procedure (SSP).

La struttura della Strange Situation

La Strange Situation Procedure è una procedura di carattere sperimentale che si svolge in un contesto non familiare, cioè un laboratorio di osservazione, composta da otto episodi dalla durata di 2/3 minuti ciascuno, per un totale di 30 minuti di osservazione. L’obiettivo che si prefigge è quello di sollecitare il sistema di attaccamento infantile, cioè sottoporre il bambino a una condizione di stress moderato ma crescente nel tempo, in risposta al quale il piccolo tende a mettere in atto comportamenti innati di ricerca di vicinanza affettiva e di contatto fisico materno; significativa è la presenza di un’estranea, invitata a prendere parte all’esperimento a partire dal terzo episodio, al fine di osservare anche la relazione con l’estraneo.

Gli otto episodi sono i seguenti:

  • 1° episodio: il bambino e il genitore vengono collocati in una stanza, in cui ci sono una sedia e dei giocattoli; il caregiver colloca il piccolo a terra, consentendogli di orientarsi nello spazio attorno a lui.
  • 2° episodio: il bambino comincia a prendere confidenza con l’ambiente circostante, ad adattarsi, ed eventualmente esplorarlo. Madre e bambino possono interagire o giocare assieme.
  • 3° episodio: il terzo episodio è significativo perché comincia la procedura sperimentale, dal momento che entra l’estranea; l’estranea interagisce con la figura di attaccamento e cerca poi di entrare in contatto col bambino. Lo scopo dell’osservazione sperimentale è valutare la reazione del bambino alla presenza dell’estraneo, il modo in cui utilizza il caregiver per valutare la situazione e se e come si lascia coinvolgere nell’interazione.
  • 4° episodio: il caregiver abbandona la stanza, separandosi dal bambino, che resta da solo con la figura estranea. Viene osservata la reazione del bambino alla presenza di potenziale disagio.
  • 5° episodio: il bambino si ricongiunge con la figura di attaccamento, mentre l’estranea lascia la stanza, e viene valutato il modo in cui il bambino si relaziona con il genitore al momento del ricongiungimento.
  • 6° episodio: il caregiver lascia di nuovo la stanza e il bambino resta da solo.
  • 7° episodio: l’estranea torna nella stanza; in questa fase della Strange Situation Procedure si indaga se e come il bambino utilizza l’estranea come figura affettiva sostitutiva.
  • 8° episodio: termina la procedura; il caregiver ricompare fermandosi sulla porta e aspettando che il bambino reagisca alla sua presenza.

Alcune variabili osservate durante la procedura sperimentale sono il tipo di risposta che il bambino mette in atto in presenza dell’estraneo, la reazione alla separazione e al ricongiungimento con il caregiver, la qualità del gioco e dell’esplorazione, e la funzione di base sicura che il caregiver svolge per il bambino, cioè l’equilibrio tra desiderio di vicinanza e desiderio di esplorazione.

Gli stili di attaccamento

Sulla base di questa indagine osservazionale, Mary Ainsworth definì e descrisse gli stili di attaccamento infantile:

  • Attaccamento di tipo B – Sicuro;
  • Attaccamento di tipo A – Insicuro/Evitante
  • Attaccamento di tipo C – Insicuro/Ambivalente o Ansioso-resistente
  • Attaccamento di tipo D – Disorganizzato (aggiunto in seguito assieme al contributo di Mary Main).

L’attaccamento sicuro

Durante la Strange Situazione Procedure i bambini con attaccamento sicuro utilizzano il caregiver come base sicura da cui partire per esplorare il mondo. Quando il caregiver è presente, manifestano vicinanza nei suoi confronti, sono accoglienti, sorridenti, interagiscono positivamente con la figura di riferimento, esplorano l’ambiente ed esaminano i giocattoli presenti. Quando il caregiver è assente, il bambino potrebbe protestare leggermente per la sua presenza e manifestare segnali di stress e disagio, ma, dopo essersi calmato, riprende tranquillamente a giocare, anche con l’estranea. Al ritorno della figura di attaccamento, si aggrappa a lei, è sorridente e si lascia consolare. Questa manifesta un comportamento non dissimile da quello del piccolo, essendo tipicamente sensibile alle richieste del bambino, disponibile e premurosa. Dal punto di vista dei Modelli Operativi Interni (MOI; cioè la rappresentazione mentale che il bambino si costruisce della relazione d’attaccamento con la figura di riferimento), il bambino percepisce se stesso come una figura degna di amore e affetto, il mondo come un posto accogliente, in cui è possibile esternalizzare sentimenti, bisogni ed emozioni, l’altro, e in particolar modo il caregiver, come figure disponibili e supportive.

L’attaccamento insicuro evitante

 Durante la Strange Situation Procedure tendono ad evitare il caregiver, ad avere un ristretto numero di interazioni, manifestando segni di insicurezza. Quando il caregiver è presente, sono freddi e distanzianti, preferiscono esplorare l’ambiente circostante e non lo coinvolgono nelle loro attività. Quando il caregiver è assente, il piccolo non mostra segni di stress o disagio e manifesta la stessa indifferenza in presenza dell’estraneo. Al ricongiungimento con la figura di attaccamento, il piccolo la ignora, è indifferente, non la cerca con lo sguardo, né le si avvicina, ma continua a giocare. Il caregiver presenta un pattern comportamentale simile a quello del piccolo: non cerca il contatto con il piccolo, anzi ne è infastidito e tende a distanziarsi; la loro relazione si basa su sentimenti di sfiducia e rifiuto del contatto fisico.

Dal punto di vista dei MOI, il bambino pensa di essere una persona non degna di stima e affetto, il mondo è per lui un posto freddo e inospitale, a tratti ostile, in cui non c’è spazio per esprimere se stessi e i propri sentimenti, il caregiver e gli altri sono persone distaccate, che tendono ad allontanarsi e delle quali non è possibile fidarsi.

L’attaccamento insicuro ambivalente (o ansioso-resistente)

In presenza del caregiver gli si aggrappano saldamente ma al contempo gli resistono spingendolo via. Durante la Strange Situation Procedure, non esplorano quasi per nulla la stanza dei giochi e restano ancorati al caregiver, quando questo si assenta esternano il loro dolore attraverso un pianto molto intenso e inconsolabile e una manifestazione esagerata della loro emotività. Quando la figura di attaccamento torna, il bambino ostenta un comportamento contrario a quanto ci si aspetterebbe, cioè un comportamento incoerente e ambivalente: desiderano un forte contatto con il caregiver, ma al contempo sembrano arrabbiati con lui, lo respingono e rifiutano ogni tentativo di consolazione e conforto, oscillando in bilico tra il desiderio di calore umano e di vicinanza affettiva e un sentimento di forte rifiuto. Il caregiver è una figura incapace di sintonizzarsi con gli stati affettivi del bambino, ora presente ora assente, a seconda dei propri bisogni e manifesta un comportamento incoerente, imprevedibile.

Ciò si riflette anche nella rappresentazione mentale (MOI) che il bambino si costruisce di sé e del mondo: non crede di meritare stima e amore dagli altri, che gli appaiono parimenti imprevedibili nei comportamenti.

L’attaccamento insicuro disorganizzato

L’attaccamento insicuro disorganizzato è stato individuato tra il 1986 e il 1990 dalla psicologa Mary Main e si configura come il tipo di attaccamento più insicuro in assoluto, quello maggiormente correlato a forme di disregolazione emotiva e in generale alla psicopatologia. I bambini con attaccamento disorganizzato durante la Strange Situation Procedure appaiono confusi, disorientati e mettono in atto comportamenti strani, come dondolarsi o rimanere immobili, e sequenze disorganizzate di comportamento, inoltre spesso hanno una postura rigida e un’espressione del volto impaurita. Questi bambini vivono nel tormento di una profonda scissione tra il sistema di attaccamento, che li motiva a cercare la vicinanza affettiva con una figura di riferimento, e il sistema di difesa, che li porta ad immobilizzarsi di fronte a uno stimolo di pericolo. Il comportamento di attaccamento si disorganizza quando il genitore manifesta atteggiamenti minacciosi, abusanti, aggressivi o dissociati, oppure quando il genitore, mentre è impegnato nell’accudimento del figlio, reagisce con angoscia, rabbia o paura alla rievocazione involontaria di una personale memoria traumatica particolarmente carica a livello emotivo, e trasmette al figlio il medesimo spettro emotivo: in questi casi la persona che dovrebbe preoccuparsi del benessere e della cura del bambino è la stessa che gli infonde paura. Il bambino così si costruisce una rappresentazione del caregiver come una figura negativa, pericolosa, spesso abusante e persecutrice, della quale si sente vittima, ma al tempo stesso il caregiver rappresenta la sua salvezza, la sua fonte di protezione, il suo rifugio affettivo. Ne deriva una frammentazione delle rappresentazioni di sé con l’altro (o compartimentazione) e una percezione della realtà distorta e disgregata.

 

Il trauma di chi assiste: comprendere il fenomeno dei “testimoni indifferenti” al di là del pregiudizio e del senso comune

Vorrei proporre una riflessione sull’omicidio di Alika Ogorchukwu, l’ambulante di origine nigeriana ucciso a mani nude per aver chiesto l’elemosina a una coppia che passeggiava per le vie di Civitanova Marche.

 

A destare l’indignazione dell’opinione pubblica sono stati diversi motivi: l’efferatezza del gesto, i futili motivi, l’ombra della motivazione razzista e xenofoba, tutte motivazioni che meritano una riflessione profonda. A queste ragioni si aggiunge anche il fatto che nessuno dei testimoni presenti sia intervenuto e che alcuni abbiano filmato la scena coi cellulari, condividendola sui social.

Si è parlato del “cinismo che porta a filmare e postare anziché intervenire”, di “Perversa passione per il crimine unita alla smania incontenibile di accaparrarsi nuovi follower e like. Indifferenza sociale. Niente di meno, niente di più.”

Si tratta di una lettura gravemente inesatta poiché trascura alcuni fondamentali meccanismi della psicologia sociale che da tempo studia la risposta degli individui in situazioni di emergenza.

L’antefatto: il caso di Kitty Genovese e la scoperta dell’effetto spettatore

Nel 1964, in una New York dove gli italiani venivano visti in maniera non troppo diversa da come viene visto oggi in Italia un uomo come Alika, mentre stava tornando nel proprio appartamento del Queens alle 03:00 di notte, Kitty Genovese venne aggredita all’esterno del palazzo da un uomo armato di coltello. Mentre lei gridava in cerca di aiuto, lui la pugnalò ripetutamente e la violentò. La cosa andò avanti per mezz’ora. Negli appartamenti attorno le luci si accesero e alcune persone andarono alla finestra per vedere che cosa fosse tutto quel rumore. Ma nessuno l’aiutò. L’omicidio di Kitty Genovese provocò pubblica indignazione. Le persone che non intervennero furono giudicate indifferenti e senza cuore. Seguirono riflessioni sulla disumanizzazione delle metropoli moderne e la decadenza dei valori delle moderne società industriali.

A partire da questo episodio, John Darley e Bibb Latané, ricercatori di psicologia sociale della Columbia University, misero in piedi una serie di esperimenti per capire quali condizioni portassero le persone a intervenire o meno in situazioni di emergenza. Capirono che intervenire in caso di emergenza non è così scontato come potrebbe sembrare e che per farlo è necessario soddisfare diverse condizioni ambientali, ma soprattutto giunsero alla scoperta del cosiddetto “effetto spettatore”: la possibilità di prestare soccorso diminuisce drasticamente in situazioni di pericolo in cui sono presenti più testimoni. Tale effetto è dovuto al fenomeno della diffusione di responsabilità, per cui ogni persona non interviene pensando che sarà qualcun altro a farlo. Da questo punto di vista, la presenza di più testimoni rappresenta un deterrente alla possibilità che qualcuno presti soccorso piuttosto che una garanzia di maggiori probabilità.

Le scoperte della psicologia sociale forniscono argomenti sufficienti a rispondere alla domanda che ci si è posti nel caso dell’omicidio di Alika sul perché tra tanti nessuno è intervenuto.

Tuttavia, questa spiegazione non basta a rendere ragione della complessità della situazione di chi ha assistito all’omicidio di Alika. Per farlo è necessario integrare anche una considerazione di tipo clinico.

Trauma

Da un punto di vista clinico, l’assistere a un omicidio rappresenta un evento traumatico. Per trauma si intende qualsiasi evento che metta a repentaglio la vita propria o altrui. In simili situazioni la mente razionale, corrispondente alle aree cerebrali della corteccia, si “spegne” per lasciare spazio al sistema limbico, il cervello emotivo sottocorticale ed evoluzionisticamente più antico, che risponde attraverso alcune risposte atte a massimizzare le probabilità di sopravvivenza. Queste risposte non sono intenzionali né tantomeno controllabili, pertanto nessuno può essere sicuro di quale sarà la propria risposta fintanto che non si troverà coinvolto in una simile situazione. Tutti i mammiferi condividono queste risposte di fronte al predatore, esse sono: la fuga, l’attacco e, quando nessuna di queste opzioni è possibile, il freezing. Il congelamento è l’ultima e la più estrema difesa di fronte a una minaccia avvertita come ineluttabile.

Durante il freezing l’azione si interrompe, il corpo è come congelato mentre la mente perde la sua capacità di integrazione e si dissocia. La dissociazione si manifesta attraverso un senso di ottundimento emotivo (nunbing), di apatia ovvero di indifferenza.

Ricorso al telefono come mezzo di derealizzazione e intervento sicuro

Alla luce di queste considerazioni è possibile osservare da una diversa prospettiva sia il fatto che durante l’aggressione di Alika nessuno dei testimoni sia intervenuto, sia che alcuni di loro abbiano ripreso la scena con lo smartphone.

È possibile che anziché un gesto di ignavia e cinismo il ricorso allo smartphone abbia rappresentato un mezzo per proteggersi dall’impatto del trauma della violenza omicida? Un tipo di trauma che, secondo Gianni Liotti, la mente umana è per sua natura incapace di fronteggiare in quanto non “frutto di un adattamento darwiniano classico”: solo gli uomini infatti sono in grado di comportarsi da predatori con i propri conspecifici.

Vedere le cose attraverso uno schermo riduce l’impatto della realtà. Attraverso lo schermo diventano guardabili anche le immagini più terribili proprio in funzione di una parziale derealizzazione che è uno degli effetti della dissociazione. In questo modo diviene possibile recuperare un senso di padronanza e controllo nella situazione di emergenza.

L’altra accusa che è stata mossa nei confronti di coloro che hanno assistito è stata quella di filmare senza intervenire. In realtà, filmare è una modalità di intervento. L’unica modalità sentita come sicura. Attraverso la lente protettiva derealizzante ed emotivamente ovattata dello schermo è diventato possibile agire con freddezza: non lasciare l’aggressore impunito, mostrare a tutti il suo volto. Laddove il trauma interrompe l’azione lasciando spesso le vittime in preda al senso di colpa per “non aver fatto niente”, filmare è stato un modo di fare qualcosa di fronte all’impatto soverchiante dell’orrore, un atto protettivo verso sé stessi e verso l’altro. Sebbene non sia stato sufficiente a salvare la vita di Alika, il video è stato comunque utile a rintracciare il suo aggressore, che è stato riconosciuto dalle forze dell’ordine.

Conclusioni

In conclusione, stupisce come a fronte di una letteratura di ricerca ormai consolidata sul tema dell’effetto spettatore manchi anche tra i grandi quotidiani nazionali una cultura psicologica che permetta di leggere i fatti in maniera corretta e preservare le vittime.

Alimentando una gogna mediatica nei confronti dei testimoni si corre il rischio di sommare al dolore inevitabile del trauma subìto quello della colpa per non aver fatto abbastanza per evitarlo. Un vissuto assai comune tra le vittime di abuso è infatti quello di assumersi la responsabilità dell’accaduto.

 

L’impatto dei dispositivi elettronici a schermo digitale sullo sviluppo del cervello

Sun e colleghi (2014) hanno riportato che individui con internet gaming disorder avrebbero un volume inferiore di materia grigia, con una ridotta diffusione in diverse aree cerebrali.

 

L’uso di dispositivi elettronici tra bambini e adolescenti

 L’uso eccessivo di strumenti elettronici, come la televisione, i computer, le console e soprattutto gli smartphones, sta causando sempre più preoccupazione da parte delle autorità educative e sanitarie sui possibili effetti negativi che possono comparire in bambini e adolescenti (Weinstein e Lejoyeux, 2022). È stata recentemente osservata, nei bambini in età prescolare, un’associazione tra l’utilizzo di strumenti elettronici con schermi digitali e una ridotta integrità microstrutturale della sostanza bianca, specialmente nei tratti che sono associati con le abilità di linguaggio e di alfabetizzazione, tratti fondamentali soprattutto nei primi anni dello sviluppo del cervello (Hutton et al., 2020). È stata inoltre osservata anche una correlazione negativa tra l’utilizzo di strumenti elettronici dotati di schermi digitali e lo spessore della corteccia cerebrale (Ling et al., 2015). Nonostante lo spessore corticale diminuisca naturalmente con l’invecchiamento, l’utilizzo di questi strumenti sembra avere un ruolo nell’accelerare il percorso di invecchiamento del cervello (Wang et al., 2015).

Sembra inoltre che l’utilizzo di strumenti elettronici con schermi digitali sia stato associato negativamente all’intelligenza, in particolare all’intelligenza fluida, ovvero la capacità di pensare logicamente e risolvere i problemi in situazioni nuove e l’intelligenza cristallizzata, ovvero la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed esperienze (Weinstein e Lejoyeux, 2022).

Le complicazioni cerebrali causate dall’Internet Gaming Disorder

Gli individui che manifestano Internet Gaming Disorder (IGD), ovvero che passano la maggior parte del loro tempo su Internet, spesso giocando ai videogiochi senza riuscire a smettere, utilizzano strumenti come computer, console e smartphone, tutte apparecchiare che hanno uno schermo digitale, e ciò può causare molte complicazioni (Ko, 2014; Weinstein e Lejoyeux, 2022). Infatti, è stato osservato come gli individui con internet gaming disorder abbiano dei cambiamenti fisiologici nelle aree cerebrali associate al controllo degli impulsi, alla memoria, all’apprendimento e alle funzioni visive e uditive (Weinstein e Lejoyeux, 2022).

Sun e colleghi (2014) hanno riportato che individui con internet gaming disorder hanno un volume inferiore di materia grigia, con una ridotta diffusione nella parte anterolaterale destra del cervelletto, nei giri temporali destri superiori e inferiori, nell’area motoria supplementare destra, nel giro occipitale centrale, nel giro frontale inferiore destro, nel lobulo paracentrale sinistro, nella corteccia cingolata, nel giro fusiforme bilaterale, nell’insula e nel talamo (Sun et al., 2014).

 Negli adolescenti, l’internet gaming disorder è stato associato con cambiamenti del volume della sostanza grigia in regioni cerebrali coinvolte nei processi sensomotori e nel controllo cognitivo verso l’attenzione, la regolazione emotiva, le funzioni motorie, la processazione dell’errore e la regolazione delle risposte comportamentali (Weinstein e Lejoyeux, 2022). Inoltre, è stata notata una diminuzione del volume della sostanza grigia anche nella corteccia prefrontale e nell’amigdala, e l’utilizzo eccessivo di videogiochi è stato associato ad un rallentamento nello sviluppo di diverse regioni cerebrali come l’ippocampo, la corteccia orbitofrontale, il globo pallido, il putamen e il talamo, causando così una riduzione globale dell’intelligenza (Takeuchi et al., 2016).

È stato inoltre osservato che gli individui con internet gaming disorder hanno delle compromissioni alle funzioni esecutive, oltre che una motivazione fortemente ridotta (Weinstein e Lejoyeux, 2022). Alcuni cambiamenti nella connettività funzionale, ovvero la correlazione temporale del segnale tra due regioni cerebrali distinte, impattano sulla motivazione, il craving e la ricerca di reward, tutte caratteristiche associate ai disturbi di dipendenza.

In conclusione, l’Internet Gaming Disorder non è un disturbo da sottovalutare, in quanto può causare una serie di complicazioni cerebrali che possono peggiorare notevolmente la qualità di vita di un individuo.

 

Endometriosi e dolore pelvico cronico in adolescenti e giovani adulte – FluIDsex

Le pazienti con endometriosi di età inferiore ai 25 anni sembrano riportare una ridotta qualità della vita in relazione alla salute fisica e mentale, dolore pelvico, nonché difficoltà a partecipare ad attività quotidiane, eventi sociali e attività fisica.

 

 L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica caratterizzata dalla presenza di ghiandole simili all’endometrio e stroma al di fuori dell’utero; l’eziopatogenesi è multifattoriale e ancora molto dibattuta, ma è stato recentemente rilevato che la teoria genetico-epigenetica risulta essere compatibile con tutte le osservazioni fatte sulla malattia (Koninckx et al., 2019). Generalmente le pazienti con endometriosi presentano dismenorrea, dolore pelvico e dispareunia, ma altri sintomi comuni sono dischezia, disuria e infertilità.

La maggior parte delle donne diagnosticate manifesta i sintomi per la prima volta durante l’adolescenza o in giovane età adulta, ciò nonostante, l’endometriosi in questa popolazione è stata per lungo tempo ignorata.

Due terzi delle donne con diagnosi di endometriosi in età adulta presentano i sintomi della malattia prima dei 20 anni ed è stato riscontrato che le pazienti che accusano i sintomi da adolescenti vengono valutate in media da quattro medici prima di ricevere una diagnosi (Ballweg, 2003).

Endometriosi e dolore pelvico cronico

L’endometriosi si configura come la principale causa di dolore pelvico cronico definito come un dolore non ciclico, della durata di almeno 3-6 mesi che si manifesta in corrispondenza o al di sotto dell’ombelico e interferisce con le attività quotidiane (Powell, 2014). Recenti scoperte indicano che un esordio precoce del dolore pelvico cronico, alla comparsa del menarca, rappresenta un fattore di rischio per l’endometriosi (Brosens et al., 2013). Una revisione sistematica (Janssen et al., 2013) riporta che l’endometriosi era presente nel 62% (543/880) delle adolescenti sottoposte a laparoscopia per dolore pelvico cronico, nello specifico, nel 70% (102/146) di quelle sottoposte a valutazione chirurgica della dismenorrea, nel 75% (237/314) di quelle che avevano dolore pelvico cronico resistente alla terapia farmacologica e nel 49% (204/420) delle adolescenti con dolore pelvico cronico non resistente al trattamento farmacologico.

La mancanza di biomarcatori diagnostici rappresenta un problema significativo e secondo Sielberg e coll. (2020) il dolore pelvico cronico e il ritardo diagnostico dell’endometriosi comportano lo sviluppo di un sistema nervoso periferico e centrale sensibilizzato che può predisporre allo sviluppo di altre sindromi dolorose croniche.

Gli studi sull’impatto sociale e psicologico dell’endometriosi e del dolore pelvico cronico nelle adolescenti e nelle giovani adulte sono ancora rari, sebbene la malattia cronica sia in grado di influire in modo pervasivo sulla qualità della vita.

Una revisione di Rosenbloom e coll. (2017), che prende in considerazione adolescenti e giovani adulti dai 16 ai 29 anni, evidenzia l’impatto del dolore cronico su tre aree specifiche: il funzionamento scolastico –che può influire sul raggiungimento di ulteriori obiettivi educativi e professionali– le relazioni tra pari e l’indipendenza dalla famiglia.

Endometriosi e qualità di vita

In uno studio condotto da Gallagher e coll. (2018) le pazienti con endometriosi di età inferiore ai 25 anni, rispetto al gruppo di controllo sano, hanno riportato una ridotta qualità della vita in relazione alla salute fisica e mentale, dolore pelvico, nonché difficoltà a partecipare ad attività quotidiane, eventi sociali e attività fisica.

In un campione di donne tra i 18 e i 25 anni le ragazze con endometriosi riportavano una condizione di dispareunia nel 79% dei casi, una percentuale quasi doppia rispetto alle donne senza endometriosi (40%; Schneider et al., 2019).

Gli studi sulla popolazione adulta hanno osservato che la dispareunia associata all’endometriosi aumenta l’evitamento dell’intimità, influenza negativamente l’autostima e genera sentimenti di colpa (Denny e H. Mann, 2007), per questi motivi sarebbe opportuno indagare maggiormente questa condizione nella popolazione adolescenziale.

 Una ricerca qualitativa (Gupta et al., 2018) ha studiato in che modo il contesto sociale influenza: (1) la percezione dei sintomi dell’endometriosi, (2) la ricerca di aiuto e (3) la salute delle adolescenti che presentano questa condizione clinica; attraverso otto focus group, a cui hanno partecipato un gruppo di adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni, è emerso che lo stigma a livello sociale –associato al ciclo mestruale– e le norme di genere modellano i tipi di supporto disponibili per le ragazze adolescenti che manifestano sintomi di endometriosi. Questi dati sostengono la necessità di sensibilizzare la popolazione adolescenziale e ridurre lo stigma.

A questo proposito, un programma di educazione sulla salute mestruale e sull’endometriosi che ha dato prova di aumentare la consapevolezza tra studenti di alcune scuole secondarie della Nuova Zelanda è il me program i cui obiettivi sono: (1) aiutare ad identificare i sintomi mestruali che si discostano dalla norma, (2) aumentare la consapevolezza dell’endometriosi, (3) migliorare il benessere fisico, emotivo e sociale, (4) rimuovere gli stigmi sociali e i tabù relativi alle mestruazioni (Bush et al., 2017).

Ansia e depressione nei casi di endometriosi

Anche nella popolazione adolescenziale con endometriosi, così come in quella adulta, sono stati riscontrati alti tassi di ansia e depressione (González-Echevarría et al., 2019) e nella ricerca scientifica sta recentemente emergendo l’importanza di tenere conto di una variabile importante quando si valuta l’associazione tra endometriosi e disturbi psicologici: il dolore pelvico cronico. A questo proposito, è necessario sottolineare che il dolore sembra essere indipendente dallo stadio dell’endometriosi, quindi donne con endometriosi lieve possono avere un dolore pelvico intenso mentre donne con endometriosi più grave possono soffrire di un dolore meno acuto.

Uno studio italiano (Facchin et al., 2015) ha esaminato l’impatto dell’endometriosi sulla qualità della vita, sull’ansia e sulla depressione confrontando endometriosi asintomatica, endometriosi con dolore pelvico e gruppo di controllo sano. Dalla ricerca è emerso che solo il dolore pelvico era associato a qualità della vita inferiore, maggiore ansia e depressione rispetto alle altre due condizioni.

A questo proposito, Silberg e colleghi (2020) evidenziano la necessità di comprendere i meccanismi psicologici, come ad esempio la catastrofizzazione del dolore, i meccanismi biologici e quelli sociali che contribuiscono al dolore pelvico cronico nell’endometriosi.

Attualmente le linee guida ESHRE (2022) rappresentano il punto di riferimento per la diagnosi e il trattamento dell’endometriosi per il quale si consiglia una gestione multidisciplinare. Il trattamento psicologico più consolidato per il dolore cronico è la Cognitive Behavioural Therapy (CBT), che si propone di insegnare nuove risposte cognitive e comportamentali al dolore, tuttavia ad oggi non esistono studi controllati randomizzati, su larga scala, sulla CBT per l’endometriosi. Occorre sostenere la ricerca e indagare maggiormente gli effetti della diagnosi e del trattamento precoce sulle traiettorie di sviluppo di donne adolescenti esposte a numerosi cambiamenti fisici, ormonali, cognitivi ed emotivi.

 

Schizofrenia e stigma sociale: la parola ai pazienti

Risulta interessante riportare alcuni resoconti delle esperienze di vita di persone colpite da schizofrenia, per approfondire i vissuti personali e i problemi di discriminazione a cui sono esposti.

 

Lo spettro della schizofrenia

 La schizofrenia è una malattia mentale cronica e invalidante che colpisce circa l’1% della popolazione mondiale.

La schizofrenia costituisce uno spettro dai confini indefiniti e presenta una molteplicità di fattori eziologici (biologici, ereditari, psicologici e socio-ambientali); nello spettro schizofrenico rientrano il disturbo schizotipico (di personalità), il disturbo delirante, il disturbo psicotico breve, il disturbo schizofreniforme, il disturbo schizoaffettivo (di tipo bipolare e depressivo), il disturbo psicotico indotto da sostanze e il disturbo psicotico dovuto ad altra condizione medica.

Secondo Estroff (1989), la schizofrenia è definibile come una “I am illness”, in quanto non costituisce semplicemente un disturbo che una persona ha (come possono esserlo il cancro e le malattie cardiache), bensì qualcosa che una persona è o potrebbe diventare. Essa, infatti, si traduce in una trasformazione del sé, conosciuto interiormente, e della persona, nota esternamente agli altri, in quanto è legata al senso interiore di sé e all’identità sociale (Estroff, 1989).

In tal modo emerge quella che Brody (1987, pag.10) definisce la duplice natura della malattia: «il modo in cui può renderci persone diverse mentre rimaniamo sempre la stessa persona».

A causa dei suoi sintomi distintivi, del comportamento imprevedibile e bizzarro, e della pericolosità percepita (Link et al, 1987), la schizofrenia è associata a un forte stigma sociale, legato alle reazioni dell’ambiente sociale d’appartenenza; significativo l’impatto sulla qualità della vita e numerosi gli effetti sulla psicopatologia generale degli individui schizofrenici.

Il vissuto della persone con schizofrenia

Risulta interessante riportare alcuni resoconti delle esperienze di vita di persone colpite da schizofrenia, per approfondire i vissuti personali e i problemi di discriminazione a cui sono esposti, facendo riferimento ai risultati della ricerca condotta da Knight (2003) dall’emblematico nome ‘People don’t understand’; il campione, tratto da precedenti studi sulla percezione dello stigma, era costituito da sei partecipanti provenienti da diversi distretti urbani del Regno Unito (UK), i quali sono stati sottoposti ad interviste incentrate su quattro aree:

  • La storia di vita individuale;
  • L’esperienza personale e la comprensione del loro problema di salute mentale;
  • La comprensione sociale del problema e come viene contestualizzato nella loro vita, per comprendere come sono visti dalla società e come personalmente sentono di essere considerati dall’ambiente sociale e familiare;
  • La riflessione rispetto all’impatto che il problema ha avuto sulla loro vita, in particolare rispetto all’auto-percezione, all’identificazione o al rifiuto dello status di “malato”, e sui presunti strascichi futuri.

Dall’Interpretative Phenomenological Analysis (IPA) dei dati ottenuti, sono emersi i temi sovra-ordinati del giudizio, confronto e comprensione sociale.

Il giudizio verso le persone schizofreniche

Il tema del giudizio si è sviluppato a partire dalle reazioni negative che i partecipanti alla ricerca hanno ricevuto da amici e familiari, figure di autorità che rappresentano la medicina e la polizia, e dalla società in generale, i quali presentano “una visione prevenuta e razzista nei confronti della malattia mentale”, a cui fa seguito, come reazione comportamentale, la discriminazione, sperimentata negli ambienti di vita familiare e lavorativa: “Tu sei schizofrenico. . .non puoi entrare”; “non siamo accettati quando torniamo al lavoro, non importa che tu faccia bene il tuo lavoro. Non ti trattano come un pari, sono sempre un po’ diffidenti nei tuoi confronti, [pausa] dalla mia esperienza” (Knight, 2003).

Gli individui intervistati si sentivano etichettati come “estremamente diversi [pausa] intollerabili”, “sporchi, inaccettabili”, attraverso “un’immagine così negativa” (Knight, 2003).

Gli atteggiamenti da loro menzionati erano prevalentemente sfavorevoli e frutto di una ignoranza generale – “Non capiscono, la gente non capisce ciò che accade alle persone” – e sorprendentemente provenivano dai propri genitori e dai propri amici, nonché dagli psichiatri da cui erano in cura e dalla Polizia (Knight, 2003).

Il tema del confronto nella schizofrenia

Il secondo tema emerso è rappresentativo dei dilemmi intra e interpersonali sorti a partire dal confronto con la vita precedente all’insorgenza della schizofrenia. Gli intervistati hanno visto le loro vite subire un enorme cambiamento qualitativo, che per molti è apparso irreversibile; in questo senso si preoccupano di non essere “mai più normali”, dal momento che le loro esistenze erano, sono e saranno segnate per sempre a causa della malattia.

“Prima ero normale, potevo andare al lavoro e vivere la mia vita”, afferma uno degli intervistati (Knight, 2003).

 Molti non riescono ad immaginare la loro quotidianità come persone non affette da schizofrenia e alcuni non sono in grado di stabilire programmi a lungo termine asserendo di non avere un futuro. Rispetto al senso di inclusione e differenziazione all’interno dei gruppi sociali, si manifesta chiaramente il desiderio di appartenere alla maggioranza della società: “ce la sto mettendo tutta per rendermi simile e accettabile dalla società, e per dimostrare che in realtà faccio parte dello stesso binario ma da un versante differente.” (Knight, 2003).

Tuttavia, il confine tra anormalità e normalità rimane una questione rilevante, come si evince dalle affermazioni degli intervistati: “Non sono come gli altri, non è vero? [pausa] Ho dei problemi. Altre persone ne soffrono”, cioè è consapevole di quanti, come lui, sono affetti da malattie mentali e possono condividere un vissuto simile, “però lo sai, la gente comune non ne soffre”, perché “le persone normali non hanno questo tipo di esperienza” (Knight, 2003).

L’ultimo tema emerso offre una panoramica sulla concettualizzazione della propria vita da parte degli intervistati. Il termine “malattia” non sembra essere sufficiente a cogliere la portata delle esperienze affrontate e considerare la propria situazione in questi termini non è frutto di una decisione personale bensì del parere esterno in quanto “mi è stato detto che sono malato, quindi ci credo” (Knight, 2003).

Schizofrenia e stigma: strategie di coping

Per quanto riguarda le strategie di coping messe in atto per fronteggiare lo stigma, molti utilizzavano frequentemente l’evitamento-ritiro – “Io non esco da casa mia” – rafforzando il senso di esclusione sociale e l’auto-stigma, e adottavano una politica di segretezza –“Non lo direi, non lo direi ad altre persone, ad altri amici… [pausa] perché mi giudicherebbero” – dal momento che il desiderio di svelare la propria situazione personale, nonostante non sia “così facile da spiegare alle persone”, era sovrastato dalle preoccupazioni relative agli effetti della notizia, alimentate dall’ostilità che a volte ha fatto seguito alla divulgazione di tali informazioni (Knight, 2003).

In prospettiva generale, la vita appare agli occhi degli intervistati “una sorta di lotta per la sopravvivenza”, in quanto “la natura di questa malattia è che prende il sopravvento se glielo lasci fare” (Knight, 2003).

I risultati della ricerca di Knight (2003) illustrano alcuni effetti personali ed interpersonali dell’avere una malattia mentale invalidante, quale la schizofrenia, ed evidenziano come lo stigma si manifesti sia attraverso il pregiudizio e la discriminazione da parte di familiari e amici, nonché di forze dell’ordine e professionisti della salute mentale, sia in termini di auto-stigma, comportando un forte ritiro sociale accompagnato da una continua lotta per l’accettazione all’interno delle cerchie sociali.

Si evince un dato allarmante: nonostante una sintomatologia positiva alleviata molti anni prima, l’etichetta dispregiativa e la vergogna associata alla diagnosi di schizofrenia rimane un onere personale e sociale da sostenere e può costituire una barriera invalicabile alla ripresa; è come se le identità degli intervistati fossero ridotte al ruolo di “malato”, nei termini di una diagnosi psichiatrica determinante per la loro intera esistenza.

 

La mente fenomenologica (2022) di Gallagher e Zahavi – Recensione

Il libro “La mente fenomenologica” dei professori Gallagher, docente di Filosofia all’Università di Memphis (USA), e Zahavi, docente di Filosofia all’Università di Copenaghen e di Oxford, illustra gli intrecci epistemologici che esistono fra fenomenologia, filosofia della mente e scienze cognitive.

 

 Per la comprensione del funzionamento della mente, secondo gli Autori bisogna far ricorso alla fenomenologia contemporanea, la cui matrice culturale trae spunto dalle opere filosofiche di Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty e Sartre.

In pratica, la mente si struttura e ha il suo episteme conoscitivo nella relazionalità che l’individuo costruisce fra sé e l’ambiente nel quale vive. La realtà viene percepita nel suo aspetto fenomenico attraverso le rappresentazioni percettive che l’essere umano compie delle datità, utilizzando il suo corpo come strumento gnoseologico, anche se queste percezioni sono sempre parziali.

In qualsiasi percezione di un oggetto fisico, la mia percezione è sempre incompleta rispetto all’oggetto: non vedo mai un oggetto completo tutto in una volta. Chiameremo questo fenomeno “incompletezza prospettica”. C’è sempre qualcosa di più da vedere e che resta implicito, persino nella percezione dell’oggetto più semplice. Se mi muovo attorno a un albero al fine di ottenerne un’immagine più esaustiva, le varie angolazioni dell’albero, quella frontale, i lati, il retro non si presentano come frammenti scollegati, ma sono percepiti come istanti sinteticamente integrati; ma tale processo sintetico è ancora una volta di natura temporale. Fenomenologicamente, posso anche scoprire certe caratteristiche gestaltiche della percezione. La percezione visiva si presenta con una struttura caratteristica, tale che, normalmente, si mette sempre a fuoco qualcosa, sfuocando il resto. Metto a fuoco alcuni oggetti, mentre altri sono sullo sfondo, o sull’orizzonte, o alla periferia. Posso spostare il fuoco e far avanzare qualcos’altro in primo piano, ma solo al prezzo di sfuocare e mettere all’orizzonte il primo oggetto che ho osservato (Callagher e Zahavi, 2022, pp. 27).

La realtà che l’individuo vive è un’entità, che è derivata da tre dimensioni, ovvero la mente, il corpo e l’ambiente, nella quale i tre costituenti sono strettamente legati. Da questo punto di vista non esistono a livello ontologico le separazioni fra soggetto e oggetto, fra la mente fenomenologica e la mente cognitiva.

L’uomo costruisce, quindi, la mappa cognitiva dell’ambiente in cui vive attraverso il suo sistema percettivo, che determina delle datità fenomenologiche che concorrono a costruire la sua cognizione della realtà. Infatti, la conoscenza di essa è sempre frutto di percezione che il soggetto struttura di ogni elemento che la compone e che è diversa nelle differenti individualità.

 In sostanza, l’essere umano si fa un’idea del mondo attraverso la fenomenologia delle cose, degli eventi e delle vicende biografiche che costituiscono il suo ciclo di vita. La percezione di datità, quindi, si diversifica nell’ambito della cognizione della realtà posseduta da ognuno, mediante l’utilizzo di fenomenologie di tutti gli elementi della realtà. In pratica, se parliamo di un costrutto comune che designa un oggetto della realtà, in esso troviamo indissolubilmente legate tre dimensioni, ossia l’elemento, la percezione di esso e la processualità mentale (cognitiva e psicologica), che rende fattibile la percezione di quell’elemento.

La mente può, quindi, essere intesa come l’insieme delle significazioni che il soggetto dà alle datità che compongono il suo mondo, attraverso l’attribuzione di senso fenomenologico ad ogni oggettualità reale.

Come si è detto, strumento importante di conoscenza è rappresentato dal corpo: infatti, l’uomo attraverso la sua corporeità costruisce le sensazioni dalle quali discendono le cognizioni della realtà, che appaiono sempre parziali, in quanto la conoscenza di ogni elemento è sempre un atto cognitivo parziale, nel quale viene rappresentata solo una dimensione dell’oggetto della realtà, connotandolo in una prospettiva temporale.

Non ci può essere cognizione senza corporeità. È un fatto […] che le nostre percezioni e azioni dipendono dal nostro avere dei corpi e che la cognizione è plasmata dalla nostra esistenza corporea. Si aggiunga a ciò che il corpo “pre-elabora” e filtra i segnali sensoriali in ingresso e “post-elabora” e limita i segnali efferenti che contribuiscono al controllo motorio (Callagher e Zahavi, 2022, pp. 224 – 227).

Ancora, la funzione della mente è quella di attribuire dei significati in una temporalità precisa alla realtà che il soggetto vive attraverso la sua corporeità. Essa si costruisce mediante il paradigma della mente incarnata, ovvero una mente che mette insieme procedure mentali e processi corporei, nelle quali le due processualità sono indissolubilmente legate ed organiche.

In conclusione, obiettivo della monografia è quello di costruire un paradigma scientifico che possa spiegare i costrutti fondamentali della mente e del suo funzionamento, fornendo contributi alle scienze cognitive, in particolare, e alle neuroscienze, in generale, attraverso il ricorso all’approccio fenomenologico della filosofia della mente.

 

Le esperienze di vita negative e gli effetti sulla salute mentale per i giovani transgender o gender-diverse

Le persone transgender hanno un genere incongruente con il sesso assegnato loro alla nascita. Il termine “gender-diverse” si utilizza per fare riferimento alle persone che hanno un’identità di genere (compresa la loro espressione di genere) in contrasto con ciò che è percepito come la norma in un particolare contesto sociale in un determinato periodo (Principles, 2006).

 

 Recentemente si è riscontrato un aumento delle persone trans e gender different (TGD), in particolare giovani, che si recano presso le cliniche di tutto il mondo per interventi di conferma di genere (Telfer et al., 2015). Il numero di giovani trans e gender-diverse è aumentato rispetto alle precedenti stime, e ammonta al 2,7% tra gli adolescenti (Rider et al., 2018). È necessario specificare che i transgender o gender-diverse non appartengono ai gruppi LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersessuali e queer), sebbene spesso la ricerca sulla salute mentale tenda a considerarli come un unico gruppo, dimenticando che genere e sessualità sono due cose ben diverse. Alcuni studi hanno dimostrato infatti che i giovani LGBTQI nel corso delle loro vita sperimentano una salute mentale peggiore rispetto alla popolazione generale, salute che peggiora ulteriormente per i giovani trans rispetto ai loro coetanei gay, bisessuali e lesbiche (Veale et al., 2017). Inoltre, studi passati hanno dimostrato che durante l’infanzia i bambini non conformi al genere avevano maggiori probabilità di avere sintomi depressivi durante l’adolescenza e la prima età adulta, probabilmente a causa dell’esposizione a eventi di vita avversi come bullismo e abusi.

La salute mentale tra giovani trans e gender-diverse

Una ricerca di Reisner e colleghi (2015), per esempio, ha riscontrato che i giovani trans avevano un rischio due o tre volte maggiore di depressione e disturbi d’ansia rispetto ai coetanei conformi al genere. Anche per quanto riguarda il suicidio sembra che i giovani trans di età compresa tra i 19 e i 25 anni abbiano una probabilità maggiore rispetto ai giovani cisgender di autolesionismo e di tentativi di suicidio: il 37,8% di adolescenti in Canada e il 45% nel Regno Unito hanno tentato almeno una volta il suicidio (Bradlow et al., 2017). Le probabilità di avere pensieri suicidari e di tentare il suicidio sono infatti significativamente maggiori dei cisgender, rispettivamente del 31% rispetto all’11% e del 17,2% rispetto al 6,1% (Reisner et al., 2015). Il rischio e l’ideazione suicidaria hanno probabilmente cause multifattoriali attribuibili a crisi di vita, alla transfobia o allo stress provocato dall’essere una minoranza all’interno di un contesto (Testa et al., 2017). Uno studio precedente relativo alla salute mentale nazionale australiana dei giovani trans e gender-diverse, ha dimostrato che il 70% dei giovani del loro campione esposti ad abusi o discriminazioni si era autolesionato e il 37% aveva tentato di suicidarsi (Smith et al., 2014). Risultati simili sono stati riscontrati anche per gli adulti (Testa et al., 2012). Vi sono infatti alcuni contesti nei quali le popolazioni trans sperimentano uno stress maggiore causato dall’aspettativa di essere rifiutati. Questi sono ad esempio i bagni pubblici o i documenti di identità che non corrispondono all’espressione di genere. Accade quindi che i giovani che sono sottoposti a violenze da parte dei loro coetanei sperimentino livelli maggiori di sintomi depressivi con una conseguente riduzione del senso di appartenenza all’interno della scuola e tra pari: l’aumento della non conformità di genere di un giovane aumenta anche la probabilità di essere vittima di bullismo (Gordon et al., 2018).

La letteratura su trans e gender-diverse

 Pochi studi hanno esaminato l’impatto di eventi negativi e traumatici sul benessere mentale delle persone trans e gender different, uno studio australiano aveva esaminato alcuni aspetti della loro salute mentale tralasciando però alcuni fattori come il bullismo, la discriminazione e altri fattori negativi per la salute come l’autolesionismo, le diagnosi psichiatriche e la suicidalità (Smith et al., 2014). Una ricerca di Strauss e colleghi del 2020 aveva quindi come obiettivi quelli di studiare i problemi di salute mentale che colpiscono i giovani transgender o gender-diverse e indagare le potenziali relazioni tra eventi di vita negativi e risultati negativi per la salute mentale. Il campione dello studio era composto da 859 giovani che si auto-identificavano come trans o gender-diverse (TGD) di età compresa tra i 14 e i 25 anni residenti in Australia tra febbraio e agosto 2016. Per i soggetti sono state valutate tramite un questionario sia componenti quantitative che qualitative: dapprima diagnosi psichiatriche auto-riferite, successivamente gli esiti negativi sulla salute e la sintomatologia ansiosa e depressiva attuale, infine le esposizioni a eventi di vita negativi e fattori di stress. I risultati mostrano che in Australia i giovani trans o gender-diverse sperimentano elevati livelli disagio mentale che comprendono pensieri suicidari (82,4%), autolesionismo (79,7%) e tentativi di suicidio (48,1%). Inoltre per la maggior parte dei soggetti è emersa una diagnosi di ansia o depressione e molti di loro erano esposti a esperienze negative tra cui il bullismo (74,0%) e la discriminazione (68,9%). Quasi tutti i risultati negativi emersi sono associati a esperienze negative come problemi all’interno del contesto educativo o alloggio precario. Molti dei partecipanti che avevano tentato il suicidio, per esempio, avevano una probabilità estremamente maggiore (di quasi sei volte) di aver avuto problemi trascorsi come la mancanza di una casa.

Conclusioni

In conclusione, è emerso che le popolazioni trans e gender-diverse, anche in un campione non clinico, sperimentano problemi di salute mentale a tassi più elevati rispetto alle popolazioni cisgender, sono soggetti a esperienze negative come bullismo e discriminazione che sono associati ad una scarsa salute mentale. È necessario quindi che i coetanei, le famiglie e il contesto scolastico li sostengano e siano inclusivi dal punto di vista del genere per rispondere in modo efficace e appropriato alle esigenze di salute mentale dei giovani trans e gender-diverse. Inoltre, siccome un numero sempre maggiore di giovani trans e gender-diverse cerca supporto nei servizi di salute medica e mentale è importante creare e offrire ai ragazzi interventi mirati e un’assistenza sanitaria competente.

 

In ricordo di Mario Fulcheri, di Paolo Moderato

Mario Fulcheri apparteneva alla stessa mia generazione accademica: professori delll’età dei boomers, che hanno attraversato e vissuto tutte le riforme universitarie dal 1973 in avanti, hanno passato tutti i gradini della carriera universitaria, e che hanno contribuito, scientificamente e organizzativamente, allo sviluppo della psicologia in Italia.

Infatti anche Mario si è molto speso nella governance universitaria, ci incontravamo spesso a Roma al MIUR, o alla CRUI alle riunioni sul counseling e l’orientamento universitario, e sulla disabilità, negli anni in cui questi temi erano, almeno da alcuni di noi, particolarmente sentiti. L’ultimo ricordo che ho di lui si riferisce proprio a un piacevolissimo incontro (perché Mario era persona piacevole anche fuori dallo stretto ambito accademico)  in occasione del Congresso della SIO, la Società Italiana dell’Orientamento, a Fondi, assieme a Salvatore Soresi, anima di quella società, e Saulo Sirigatti, anche lui recentemente scomparso.

 

Nota della Redazione:

Chi era Mario Fulcheri

È mancato, all’età di 74 anni, il Prof. Mario Fulcheri, medico psichiatra, docente di psicologia clinica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti.

Mario Fulcheri si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1972, per specializzarsi poi con lode in Psichiatria quattro anni dopo. Dapprima professore di Psicologia Medica presso l’Università di Torino, ha proseguito come Professore di Psicologia Clinica all’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, dove ha rivestito successivamente la carica di Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute.

Il Prof. Mario Fulcheri, nel corso della sua carriera, si è dedicato alla ricerca in diversi ambiti, tra cui la psicologia clinica ospedaliera, la psicologia clinica forense, la psicologia clinica gerontologica e la psicologia positiva e del benessere. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo i volumi: Vivere e valorizzare il tempo. Invecchiare con creatività (opera pubblicata in tre parti, con la collaborazione di M. Cesa-Bianchi, C. Cristini e L. Peirone); La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto (scritto con C. Marocco Muttini C. e C. M. Marchisio) e Momenti critici dell’esistenza: l’adolescenza, il tempo del lavoro, l’invecchiamento (realizzato con F. Monaco).

Diversi i messaggi di cordoglio e di vicinanza alla famiglia, tra cui quello dell’Ordine Psicologi dell’Abruzzo in cui si legge: “È un giorno triste. Ci lascia il prof. Mario Fulcheri (..) maestro e punto di riferimento per generazioni di colleghe e colleghi” e quello dell’Associazione Psicoanalitica Abruzzese che perde “un amico fraterno che generosamente ha contribuito allo sviluppo della psicologia in Abruzzo”.

Noto non solo come illustre Professore, ma anche come una persona di estrema vivacità culturale, lascia un segno anche nei suoi ex allievi che in questi giorni, commossi per la perdita, commentano la notizia sui social ricordando anche la sua allegria e la sua nobiltà d’animo.

Siamo vicini alla famiglia e a tutti i suoi colleghi.

 

Il livello minimo di formazione – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 14

Lo scopo di questo articolo è di esaminare quelli che gli esperti hanno identificato come requisiti formativi minimi e indispensabili per i percorsi di laurea di Psicologia e Medicina, al fine di operare un cambiamento nella direzione di quanto emerso da questa Consensus Conference.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 14) Il livello minimo di formazione

 

 Nello scorso numero abbiamo visto quali sono le iniziative percorribili dalle scuole di specializzazione abilitanti all’esercizio della psicoterapia per garantire l’applicazione di cure psicologiche basate su prove di efficacia per i disturbi ansiosi e depressivi.

Lo scopo di questo articolo è di esaminare quelli che gli esperti hanno identificato come requisiti formativi minimi e indispensabili per i percorsi di laurea di Psicologia e Medicina, al fine di operare un cambiamento nella direzione di quanto emerso da questa Consensus Conference.

Quesito C2: il livello minimo

Quale va considerato il livello di informazione e formazione minima che devono fornire i corsi di laurea in Medicina e i corsi di laurea specialistica in Psicologia Clinica, in merito alle terapie psicologiche per ansia e depressione che hanno prove di efficacia?

Il Tavolo di Lavoro del Tema C ritiene che nei corsi di laurea in ambito psicologico e sanitario sia necessaria la presenza di un monte ore dedicato all’alfabetizzazione riguardo le misure d’efficacia dei trattamenti, le rassegne meta-analitiche e la consultazione di linee guida internazionali. Tale monte ore va differenziato in base ai diversi corsi di laurea.

Inoltre, rispetto a come viene trattata l’efficacia delle psicoterapie nella manualistica utilizzata attualmente nei programmi di laurea, gli Esperti evidenziano una disamina minima e non aggiornata della letteratura scientifica di riferimento.

Raccomandazioni C2

 I requisiti inerenti alle conoscenze specialistiche, raccomandati dagli esperti in quanto minimi e fondamentali per una pratica clinica evidence-based (ovvero, basata sull’efficacia), si declinano in base ai corsi di laurea.

Per quanto riguarda la laurea triennale in Psicologia è necessario includere un’alfabetizzazione specifica sui disturbi ansiosi e depressivi, che comprenda i modelli teorici della psicologia clinica e dei principali sistemi di classificazione diagnostica.

Fornire questa base di conoscenze nel programma didattico della laurea triennale, consente di inserire nella formazione della laurea magistrale in Psicologia Clinica informazioni avanzate sulle manifestazioni dell’ansia e della depressione con gli indicatori di gravità e rischio, sulle basi e le differenze degli interventi clinici e sulle misure di efficacia dei trattamenti, basate sulle rassegne meta-analitiche e le linee guida internazionali relativamente ai disturbi in esame. Nello specifico, secondo gli esperti, i requisiti formativi minimi per questo corso di laurea sono i seguenti (ISS, 2022):

  • conoscere i diversi livelli di prevenzione in ambito psicopatologico;
  • conoscere i principali quadri clinici dei disturbi ansiosi e depressivi, unitamente alle loro comorbilità e agli indicatori di gravità e rischio;
  • conoscere i principali strumenti psicometrici standardizzati e gli aspetti teorici ed empirici dei DMC (Disturbi Mentali Comuni, come ansia e depressione);
  • conoscere i principi di farmacoterapia applicabile ai DMC (ovvero ansiolitici e antidepressivi);
  • conoscere i diversi tipi di intervento clinico, come quelli supportivi e psicoeducativi, le attività di gruppo, gli interventi psicosociali a bassa intensità e la psicoterapia ad alta intensità, individuale e di gruppo;
  • saper riconoscere i principali indicatori di efficacia degli interventi psicoterapeutici;
  • sviluppare competenze inerenti all’alleanza terapeutica, il lavoro di équipe, l’etica e la deontologia professionale.

Riguardo invece al corso di laurea in Medicina, è necessario integrare alcuni fondamentali elementi di psicologia clinica. Primo fra tutti il costrutto relazionale dell’empatia, in termini sia conoscitivi che applicativi, per esempio nella risposta –empatica appunto— ad una richiesta di aiuto, oppure nella comunicazione della diagnosi e l’esito della cura.

Altri aspetti giudicati come essenziali dagli Esperti consistono nei princìpi psicologici che regolano il rapporto medico-paziente, gli elementi di base della comunicazione e le evidenze scientifiche sulla validità dell’intervento psicoterapeutico, rispetto a quello farmacologico, per i disturbi ansiosi e depressivi.

Infine, con l’obiettivo di creare una rete di terapeutica inviando il paziente ad un servizio specialistico, è necessario saper riconoscere la sofferenza psicopatologica nelle sue varie forme, anche sotto-soglia per poter operare in un ottica di prevenzione.

 

Famiglie LGBTQ+: coppie e genitorialità – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Famiglie LGBTQ+: coppie e genitorialità. 

 

Quali sono le difficoltà di una coppia LGBTQ+? E com’è essere genitore LGBTQ+? Un bambinӘ che cresce con due genitori gay avrà problemi in futuro? Queste sono alcune delle domande e preoccupazioni che ci si pone quando si pensa alla famiglia LGBTQ+. Senza fronzoli ideologici o politici, in questo episodio del podcast si avrà modo di approfondire le varie difficoltà che una famiglia LGBTQ+ vive a causa del minority stress, lo stress cronico che ogni persona LGBTQ+ esperisce a causa dell’interazione con episodi di discriminazione, o di vissuti interni come l’omonegatività interiorizzata.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologo, Educatore Pedagogico, Docente presso Sigmund Freud University Milan & Wien e dal Dott. Luca Daminato, dottore in Psicologia, dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

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