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Come pesci fuor d’acqua di Faggian e Fistarollo (2022) – Recensione

Il proliferare di agi e comodità è un vero vantaggio? Vivere più a lungo significa sempre vivere meglio? Da queste domande parte 'Come pesci fuor d'acqua'

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 27 Apr. 2022

Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili.

 

Il testo Come pesci fuor d’acqua, scritto a quattro mani da Faggian e Fistarollo, si presenta come l’arguta risposta ad una domanda, ben poco confortante, che le attuali contingenze ci spingono a porci: perché la quotidianità si costella di mali e malesseri cui spesso non troviamo un riscontro organico, ma che con la loro disfunzionalità invasiva sono in grado di danneggiare più o meno stabilmente il benessere psicofisico?

Indubbiamente la qualità della vita è migliorata, rispetto ai tempi dei nostri antenati. Possiamo contare su un’esistenza più confortevole, meno irta di pericoli e insidie. Certo non dobbiamo temere il continuo attacco di feroci predatori in cerca del pane quotidiano, né dobbiamo addentrarci in perigliose avventure di caccia per procurarci il cibo. Tutto sembra molto più agevole, pratico, a portata di mano.

Ma questo improvviso proliferare di agi e comodità è un vantaggio veritiero o soltanto apparente?

Vivere più a lungo, si chiedono gli autori, significa sempre vivere meglio?

Per quanto auspicabile, una risposta positiva non sembra possibile. I dieci capitoli in cui si articola il testo danno dimostrazione del “silenzioso assedio” cui la nostra esistenza è quotidianamente sottoposta. Fattori interferenti, nemici insospettabili di cui talvolta neppure ci accorgiamo, ma che ci vessano con impietosa ricorsività, fino a condizionarci completamente. Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili. Dobbiamo non solo far di più e bene, ma dobbiamo anche far meglio degli altri, per sopravvivere ad una selezione spietata che, proprio come un predatore affamato, non ci lascia scampo.

Certo non combattiamo con fionda e clava, ma le cose non sembrano essere molto cambiate, dai tempi dei nostri antenati ad oggi. Anche adesso lottiamo per la sopravvivenza, e per riuscirci mettiamo in gioco tutte le risorse di cui siamo in possesso. Con risultati, ahimè, non sempre proficui.

Il culto del “troppo”

Gli autori descrivono i probabili “errori gestionali” che l’uomo ha compiuto lungo il corso della storia, e lo fanno con impeccabile rigore scientifico, per quanto volutamente stemperato da un tono distensivo e coinvolgente, a tratti persino ironico.

All’interno delle pagine le tematiche si susseguono con ritmo incalzante, disegnando un orizzonte diacronico che attraversa velocemente tutta la storia, dandoci dimostrazione dei numerosi obiettivi evolutivi raggiunti dalla specie umana: dalle braccia lunghe e ingombranti dell’homo erectus, che sapeva a stento arrampicarsi sugli alberi, alla motricità fine delle dita che si muovono sullo smartphone. Dall’alimentazione a base di bacche e radici, alle tavole imbandite di cibi e leccornie. Dallo scarseggiare di medicinali ad un eccesso di farmaci; da inadeguate condizioni igieniche alla costruzione di ambienti sin troppo puliti…tanto da mandare in tilt il sistema immunitario, provocando lo scatenarsi di allergie e intolleranze.

Non è solo questione di microbiota impazzito.

Forse ci siamo lasciati prendere un po’ la mano, in ossequio ad un “culto dell’eccesso” che, spiegano gli autori, ci sta impoverendo anziché arricchirci. Ci sta rendendo più deboli, quando avrebbe dovuto rafforzarci. Il “troppo” ci ha fatto perdere di vista il senso della misura. E così siamo fuori rotta. Fuori posto. Come pesci fuor d’acqua.

Un progressivo adattamento

Il mutare delle caratteristiche ambientali ha provocato un impatto nel patrimonio genetico dell’essere umano, comportandone il cambiamento: nulla di miracolistico o inspiegabile, in realtà. Si tratta di una selezione naturale il cui fattore discriminante risulta proprio una capacità di adattamento più o meno flessibile. Solo gli individui in grado di adattarsi al mutare delle condizioni ambientali hanno avuto la possibilità di sopravvivere e di trasmettere le proprie caratteristiche genetiche alla progenie, garantendosi una sopravvivenza non solo individuale, ma di specie.

Pensiamo soltanto che ai tempi dell’Homo Erectus la capacità di digerire il lattosio terminava con lo svezzamento, ma quando le carestie sempre più frequenti hanno reso meno possibile affidarsi alla caccia per l’approvvigionamento, ecco che l’uomo ha dovuto di nuovo mutare la propria struttura genetica, ripristinando la possibilità di digerire il lattosio anche in età adulta. Dunque soltanto coloro che riuscivano a cibarsi di latte e a trasmettere questa capacità ai propri discendenti guadagnavano una possibilità di continuazione della specie. Una concreta opportunità di fitness.

Ma quello adattivo è un processo che richiede il rispetto di un’adeguata tempistica. Non si può pensare ad una trasformazione genetica o epigenetica senza un timing adeguato. Il rischio, in caso contrario, è quello di un autentico “collasso evolutivo”: quello che gli autori chiamano mismatch evoluzionistico è proprio il mancato rispetto della sequenza temporale che consente al corpo di assimilare adattivamente i mutamenti imposti dall’ambiente, quelle trasformazioni cui la specie umana è stata spinta per garantire la propria continuazione, la perpetuazione del processo di fitness.

Dall’omeostasi all’allostasi

La velocità di cambiamento che ci siamo imposti è invece eccessiva, per certi aspetti distruttiva. Gli autori parlano molto efficacemente di autogol (p. 23) per indicare il danno che siamo riusciti a provocarci, in maniera avventata e anche un po’ ingenua. L’equilibrio omeostatico che garantisce il perdurare dei rapporti sistemici si è trasformato nel ben meno vantaggioso effetto allostatico, inteso come il prezzo che l’organismo è costretto a pagare, in termini stressori e di disagio, pur di adattarsi alle modifiche ambientali necessarie alle sopravvivenza e alla continuazione della specie.

Le conseguenze sono dannose, talvolta irreversibili, e quello che dovrebbe risultare un normale processo di adattamento ambientale diventa un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire: più siamo stressati più sentiamo il bisogno di fare, più siamo attivi e reattivi e maggiore è il nostro livello di stress.

Il miglioramento della qualità della vita è puramente illusorio, evidenziano gli autori.

I mali non sono diminuiti. Si sono soltanto trasformati, in isomorfismo con gli scenari esistenziali che abbiamo costruito. Ad un pericolo acuto e improvviso si è sostituita la presenza di un logoramento cronico, forse meno percepibile, ma non certo meno distruttivo e mortale: gli effetti di uno stress reiterato si ripercuotono sulla qualità e sulla durata della vita, accorciandone il corso e diminuendo, di conseguenza, anche le possibilità riproduttive.

Dunque dov’è il vantaggio evolutivo?

Dati alla mano, il cortisolo distrugge il sistema immunitario, e con esso la possibilità di difenderci dalle malattie. Lo stress favorisce l’insorgenza di disagi psichici di varia entità. Si conta che gli psicofarmaci accorcino l’aspettativa di vita di circa dieci anni, e che 8 milioni di morti all’anno siano dovute a patologie mentali (Faggian, Fistarollo, 2022). Ma chi non ha bisogno di psicofarmaci per riuscire a sostenere i ritmi vertiginosi che ci siamo imposti e a gestire lo stress che ne deriva? Dobbiamo essere svegli e operativi, e alla fine lo diventiamo talmente tanto da non riuscire più a prender sonno. Dunque ricorriamo alle benzodiazepine… una notte. Poi un’altra, e un’altra ancora. Fino a che non possiamo più farne a meno.

Tutto questo imperversare di farmaci e medicinali- soprattutto di antibiotici- ha finito col rendere più debole il nostro sistema immunitario, col risultato che, proprio per evitare il diffondersi di malattie, abbiamo finito per aumentarne la tipologia e la potenza virale.

Ma i conflitti paradossali dei nostri giorni non sono finiti qui. Abbiamo incrementato le competenze di linguaggio verbale per lasciarci irretire dal fascino di mezzi di comunicazione che non prevedono l’impiego delle parole. Vogliamo rispondere prontamente ad ogni sorta di stimolo e ci troviamo a fare i conti con l’ADHD. Aneliamo la libertà e siamo vulnerabili ad ogni tipo di dipendenza, inneggiamo all’individualismo ma temiamo la solitudine, amiamo essere al centro dell’attenzione –gli autori denunciano l’imperversare della Sindrome del Vip – per poi difendere strenuamente la nostra privacy, o nasconderci dietro la tastiera di un computer.

Il risultato è ben poco promettente. Un iperinvestimento sui mezzi informatici ha favorito il consolidarsi di un deficit di intelligenza creativa nelle nuove generazioni. I c.d. bambini digitali si limitano ad elaborare i dati passivamente percepiti dalla rete: stimoli non stimolanti e immagini senza immaginazione che, nel paradossale intento di svegliare le menti, le sovraccaricano di dati inutili rallentandone il funzionamento. Ancora una volta, nel tentativo di raggiungere un obiettivo, abbiamo ottenuto l’esatto contrario.

Il significato dell’autogol

Il nostro stress risulta, per così dire, poco utile; una continua allerta di fondo alla quale non segue mai un vero e proprio sollievo. Queste continue gocce di stress risultano maggiormente logoranti di un forte acquazzone (p. 22):  questa significativa frase del testo in un certo senso ne sintetizza efficacemente il ben più ampio contenuto.

Stiamo sprecando inutilmente energia e salute, condannandoci a condizioni di vita che non ci procurano alcun vantaggio. La battaglia non è più contro predatori esterni, ma contro nemici interni non meno letali. La società che abbiamo costruito si sta rivelando una trappola mortale, foriera di aspetti abortivi più che generativi: si vive, ma si vive male, e pagando un prezzo innegabilmente alto.

Il tono divagante e ironico con cui gli autori sono capaci di esprimersi non deve trarre in inganno sulla complessità delle tematiche oggetto del libro: abbiamo sopravvalutato le nostre possibilità. Siamo giganti con i piedi di argilla che, a fronte di un ritmo così vertiginoso, non sanno tenere il passo. E il paradosso è che crediamo di esserci fatti un favore. Così, quelle che abbiamo etichettato come agevolazioni sono diventate difficoltà, quelle che sembravano liberazioni ci hanno messo in gabbia. Non ci siamo dati il tempo per affrontare le modifiche ambientali che noi stessi, con la nostra compulsiva frenesia fattiva, abbiamo provocato. Lo scenario che si prospetta è quello di una colossale sconfitta evolutiva, o quantomeno di una vittoria di Pirro.

Allora è tutto da rifare?

Forse no. Eliminare lo stress si dimostra la chiave risolutiva del dilemma. Più facile a dirsi che a farsi. Ma è necessario. In fondo non siamo cambiati poi così tanto, rispetto ai nostri antenati; gli istinti primari sono rimasti i medesimi: anche oggi desideriamo trovare il compagno giusto, riprodurci e garantirci la fitness, aspiriamo all’approvvigionamento quotidiano e alla possibilità di superare l’avversario nella conquista della preda, sperando di non divenire prede a nostra volta. Solo che tante sovrastrutture ci hanno spinto a barattare l’obiettivo principale con dettagli periferici e fuorvianti.

Dobbiamo riprendere la rotta. Ci riusciremo, senza tenderci sabotanti trappole antievolutive?

In attesa di trovare una risposta godiamoci il libro di Faggian e Fistarollo, cercando di cogliervi il ritratto di una società che, per quanto inadeguata, non si è certo costruita da sola. E che, armati di spirito di consapevolezza, autoefficacia e senso critico siamo ancora in grado di modificare.

Per cambiare in tempo basta, forse, darsi il tempo di cambiare.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Faggian, S. Fistarollo, A. (2022). Come pesci fuor d’acqua: perché il mismatch evoluzionistico ci ha reso inadatti al mondo che abbiamo creato Franco Angeli, Milano.
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