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La teoria dell’attaccamento

La teoria dell’attaccamento è una teoria concettualizzata dallo psicologo e psicoanalista inglese John Bowlby (1907-1990) e derivata da una serie di studi osservazionali di carattere sperimentale incentrati sulla forte relazione esistente tra madre e bambino e sui processi che favoriscono lo sviluppo dei legami affettivi nel contesto familiare. 

 

Tale teoria si prefigge l’obiettivo di indagare il modo in cui si forma e, nel corso del tempo, si sviluppa il legame di attaccamento, come esso influisca sulla maturazione psicobiologica del bambino, sul suo sviluppo personologico, sulla strutturazione di abilità sociali, su peculiari competenze emotive (la capacità di regolazione degli stati affettivi, la comprensione degli stati emotivi propri e altrui, l’espressione delle emozioni, la tolleranza alla frustrazione, la reattività allo stress, la resilienza, ecc), sulla creazione di rapporti interpersonali, di relazioni sociali e sentimentali, e sulla rappresentazione che il bambino costruisce di sé, dell’altro e del mondo circostante.

Bowlby colloca il periodo di formazione del legame di attaccamento in un lasso di tempo specifico, detto “periodo sensibile”, che circoscrive al primo anno di vita. Per legame di attaccamento si intende un particolare vincolo di carattere affettivo ed emotivo – selettivo, intimo, intenso e indistruttibile – che lega indissolubilmente il bambino a una figura di riferimento preferita e differenziata (generalmente la madre o un caregiver) che possa prendersi cura di lui e trasmettergli amore, protezione e calore umano. Il legame di attaccamento, quindi, non è un rapporto di dipendenza, quanto piuttosto una relazione primordiale, basata sulla ricerca, da parte del bambino, di una sicurezza fisica ed emozionale, di un senso di protezione, vicinanza e conforto, che resta immodificabile per tutto il corso della vita, seppur sia possibile stringere legami molto forti con altri individui durante tutto l’arco della nostra esistenza.

Le funzioni del legame di attaccamento

Nello specifico, Bowlby teorizza l‘attaccamento come un sistema di motivazione intrinseca e primaria, cioè una predisposizione biologica del bambino verso una persona che possa prendersi cura di lui: siamo geneticamente portati a cercare amore, a stare accanto a chi ci fa sentire al sicuro, a stringere relazioni di natura affettiva. L’attaccamento è per Bowlby un termostato, cioè un sistema di controllo, teso a mantenere costante una certa condizione, ovvero la presenza di una figura affettiva forte e significativa, nonché un sistema psicobiologico che assicura all’individuo successo riproduttivo e sopravvivenza biologica. Secondo Bowlby, Il bambino mira a soddisfare un bisogno fondamentale che motiva le sue condotte: cioè la ricerca di un contatto fisico e di una vicinanza emotiva con una figura che gli infonda protezione e benessere. Tale figura assolve una funzione importante, quella di base sicura: affinché tra bambino e caregiver si possa costruire un solido legame di attaccamento ed esso consenta al piccolo di intraprendere percorsi evolutivi positivi e sviluppare delle efficaci risorse interiori, affettive, emotive, cognitive e delle buone competenze sociali, è necessario che il bambino si fidi della figura con cui si relaziona fin dai primissimi mesi di vita, cioè che l’attaccamento si fondi su un reciproco senso di fiducia e che il caregiver costituisca l’equilibrio adeguato perfetto tra il bisogno primario di sicurezza che nutre il bambino e la sua motivazione, parimenti innata, di esplorare il mondo, conoscere l’ambiente circostante, esperire la realtà attorno a lui e interagire con gli altri. Il caregiver, quindi, ha un importante compito evolutivo, cioè quello di offrire al bambino un rifugio affettivo, ma anche di consentirgli di relazionarsi con la realtà in maniera graduale e propositiva, per ottimizzare la qualità del suo sviluppo.

L’attaccamento si esplica attraverso dei comportamenti innati, messi in atto dal bambino per sollecitare le cure materne e attirarne l’attenzione; tali comportamenti possono essere di segnalazione (come il pianto o il riso) o di avvicinamento (come l’atto di aggrapparsi alla madre e di seguirla). Il sistema di attaccamento, in particolare, si attiva nel momento in cui il bambino percepisce una sensazione di disagio, di minaccia o di pericolo, quando non si sente al sicuro (per esempio quando si trova in presenza di un estraneo) o quando desidera che qualche suo bisogno venga soddisfatto (per esempio quando ha fame). I comportamenti attuati dal bambino svolgono quindi un’importante funzione adattiva, in quanto segnalano al caregiver l’esistenza di una situazione di disagio e di stress e lo esortano a rispondere alle richieste del piccolo. Un esempio eclatante di comportamento di attaccamento con scopo adattivo è certamente la protesta che il bambino emette nel momento in cui viene separato dalla madre: la separazione dalla figura di riferimento è un evento per lui stressante, spesso fonte di ansia, angoscia, rabbia e paura; il pianto che ne deriva serve pertanto a richiamare la madre e a spingerla ad accorrere il prima possibile.

Le fasi di costruzione del legame di attaccamento

La costruzione del legame di attaccamento – profondo vincolo affettivo che unisce indissolubilmente il bambino al caregiver fin dai primissimi anni di vita – avviene nell’arco di quattro fasi specifiche individuate dallo stesso Bowlby: preattaccamento, sviluppo dell’attaccamento, attaccamento ben sviluppato, relazione di attaccamento regolata in funzione dell’obiettivo.

  • Prima fase – preattaccamento (0-2 mesi): in questa fase i comportamenti di segnalazione messi in atto dal bambino non sono né intenzionali né selettivi e il bambino manifesta una risposta sociale indiscriminata, una certa selettività percettiva (tendenza a focalizzare l’attenzione sui volti umani) e una forma di pre-adattamento sociale, cioè una motivazione innata all’esplorazione dell’ambiente e al contatto con gli altri.
  • Seconda fase – sviluppo dell’attaccamento (2-7 mesi): la ricerca di contatto diventa selettiva, cioè rivolta in maniera preferenziale verso una sola persona. Il bambino comincia a comprendere le principali caratteristiche della relazione diadica e mette in atto comportamenti di segnalazione. Bambino e caregiver in questa fase raggiungono un’armonia interattiva, caratterizzata dalla presenza di una mutua regolazione reciproca degli stati emotivi, affettivi e dell’attenzione, una forma di sincronizzazione in termini di interazione e risposte comportamentali.
  • Terza fase – attaccamento ben sviluppato (7-24 mesi): in questa fase si comincia a parlare di vero e proprio legame di attaccamento, cioè un legame selettivo e preferenziale. Il bambino rivolge le sue richieste affettive su una specifica figura di riferimento, che considera come fonte della sua sopravvivenza psicobiologica; sente il bisogno di vicinanza affettiva, di contatto fisico, ma desidera anche esplorare il mondo attorno a lui: il caregiver ha il compito di coniugare le due dimensioni volitive del bambino. Il bambino comincia a organizzare i rapporti in termini di relazioni durevoli, a sperimentare l’ansia da separazione, cioè la paura che il caregiver possa allontanarsi da lui e abbandonarlo, e la paura dell’estraneo, cioè un senso di diffidenza nei confronti di una figura non familiare.
  • Quarta fase – relazione d’attaccamento regolata in funzione dell’obiettivo (>24esimo mese): la relazione tra la figura di affidamento e il bambino assume connotazioni di reciprocità e bidirezionalità, in quanto operano in vista di scopi comuni, come la ricerca di una vicinanza interattiva, e il bambino inizia a comprendere maggiormente le esigenze della madre e a tollerare le separazioni precoci con meno ansia e angoscia. In questa fase avviene lo sviluppo di quelli che Bowlby definisce “Modelli Operativi Interni” (MOI).

Il termine MOI identifica un modello mentale che il bambino costruisce di sé e della figura di attaccamento. I modelli operativi interni si sviluppano grazie all’acquisizione, da parte del bambino, di importanti conquiste cognitive, come la capacità di simbolizzazione dell’esperienza sensoriale, cioè l’abilità di rappresentarsi in maniera semplicistica gli eventi e di manipolare gli oggetti e gli stimoli esterni senza operare concretamente su di essi. Questo vuol dire che la maggiore resilienza che manifesta il bambino quando si separa dalla madre è dovuta al fatto che in questa fase egli sia capace di sentire la madre vicina a sé anche quando non è fisicamente presente, di crearsi una raffigurazione mentale del ricongiungimento tra di loro e di pensare che, anche se in un determinato momento si trovano l’uno lontano dall’altra, presto la madre tornerà da lui e lo accoglierà nuovamente. I MOI si configurano come rappresentazioni mentali della relazione che il bambino ha fin dai primissimi mesi con la figura di riferimento e si strutturano attraverso regolari e ripetute esperienze affettive e relazionali che intercorrono tra di loro: sono pertanto astrazioni delle dinamiche interattive tra bambino e genitore che vanno a incardinarsi nella struttura psichica del piccolo. I MOI sono schemi mentali, di natura affettiva e cognitiva, tramite cui il bambino categorizza la relazione diadica; essi rispecchiano la personale visione che il bambino ha del suo rapporto con il caregiver, ma non sono unicamente circoscritti alla relazione diadica primordiale, in quanto vengo presto generalizzati a tutti i legami sociali e i rapporti interpersonali che il bambino comincia a sperimentare –e che sperimenterà nel corso della sua esistenza–, andando a confluire in quello che gli psicoanalisti contemporanei definiscono “inconscio rappresentazionale”. Altresì i MOI rappresentano meccanismi inconsci, stabili e resistenti al cambiamento, nonché una mappa conoscitiva del mondo, tramite cui il bambino si costruisce un modello di riferimento che orienti in maniera generale la sua comprensione del funzionamento delle relazioni e del mondo, fortemente condizionata dalla percezione che ha del suo rapporto con la figura di riferimento. I MOI consentono al bambino di strutturare le sue conoscenze, di organizzare azioni e ricordi, di filtrare gli input sensoriali, di offrire alla realtà una sua personale interpretazione, di esperire e scandagliare il mondo circostante, di relazionarsi con il caregiver e con gli altri, di interagire e di porsi nei confronti di altre persone. I MOI permettono al bambino anche di formulare ipotesi, congetture e supposizioni circa il comportamento umano e gli stati emotivi propri e altrui, di crearsi aspettative circa la sua vita sentimentale, relazionale e interpersonale, di direzionare le sue esperienze presenti, di configurare il suo futuro, di veicolare le sue impressioni, le sue sensazioni e i suoi processi percettivi. I MOI sono il prodotto di un processo inconscio di internalizzazione e interiorizzazione del legame di attaccamento e rappresentano importanti strutture di memoria, dal momento che, secondo i teorici dell’attaccamento, il modo in cui in età adulta ci relazioniamo con gli altri è particolarmente influenzato dal modo in cui è andata a snodarsi la relazione con la figura di riferimento e il bambino l’ha vissuta e interpretata.

 

Il narcisismo di morte e l’illusione della Non Vita

L’introiezione dell’oggetto, mortifero e mortificante, della madre depressa può portare a un investimento illusorio nel Sé, fonte di un narcisismo siderale in cui l’iperinvestimento sul Sé cela il tentativo di nascondere un Sé interrotto, o ancor peggio inesistente.

 

La depressione e la rinuncia al Sé: il ruolo della “madre morta”

 Un vissuto depressivo è strettamente connesso alla disfunzionalità del contesto diadico. È infatti la madre che, con un atteggiamento contenitivo, riesce a dar vita ad un ambiente emotivo sintonizzato, permeato di un’interattività trasformativa cui il bambino può letteralmente aggrapparsi, in una sorta di grasping somatopsichico che lo sottrae ad angosce di frammentazione e annichilimento (Bick, 1963).

Il bambino cerca continuamente la madre, come fonte di vita e di scoperta del Sé: ella svolge un ruolo ausiliario, foriero di rassicuranti percezioni affettive maturate attraverso il canale sensoriale, quelle isole mnestiche destinate ad essere ricercate, come un’allucinazione gratificante, per il resto della vita (Mahler, 1968). Un abbraccio contenitivo, uno sguardo reciprocante, un contatto supportivo: sono i micro momenti diadici che il bambino afferra con volontà introiettiva, nutrendosi letteralmente della presenza della madre, per trarre dalla stessa il senso e la sicurezza del Sé (Bick, 1963).

Ma una madre assente e distaccata non è in grado di fornire questo aspetto securizzante. Una madre che non nutre emotivamente – ad esempio una madre depressa- è un oggetto che recide ogni tensione relazionale con il figlio, costringendolo a fronteggiare un abbandono traumatico, che non è possibile riparare se non con soluzioni altrettanto traumatiche e disfunzionali. Ella è una madre che resta in vita e muore psichicamente, tramutandosi da un oggetto vivo ad un Non Oggetto, abulico e inanimato, che impregna di sentimenti di lutto e mancanza la relazione stessa (Green, 1983).

Il bambino non si arrende subito a questo rifiuto: all’inizio cerca di ripristinare l’attenzione della madre, prova a rianimarne la vitalità, si sforza di ristabilire un contatto oculare con lei, ricorre persino a tentativi autoconsolatori. Solo dopo aver dato fondo a tutti i possibili espedienti l’infans realizza l’assenza psichica dell’oggetto materno; ed anche allora, pur di non separarsene completamente, accetta di interiorizzarne la presenza così come la percepisce. Fredda, abulica, avitale.

L’introiezione di questo oggetto, mortifero e mortificante, causa una serie di conseguenze devastanti:

  • la rinuncia ad una reciprocità relazionale, che comporta l’impossibilità di investire affettivamente e di instaurare una relazione che non sia meramente opportunistica;
  • la percezione di aver perduto definitivamente tutti gli oggetti buoni, da cui  si originano la negazione della dipendenza e l’incapacità di rispecchiarsi affettivamente nell’altro;
  • l’introiezione di un oggetto privo di vita, che si incista nel bambino come un Sé alieno e sabotante;
  • l’identificazione distruttiva con questo oggetto, che provoca l’interruzione dell’idioma del Sé (Bollas, 1999) e la demolizione dello stesso nucleo identitario;
  • un investimento illusorio nel Sé, fonte di un narcisismo siderale in cui l’iperinvestimento sul Sé cela il tentativo di nascondere un Sé interrotto, o ancor peggio inesistente.

La madre morta aveva portato via, nel disinvestimento di cui era stata oggetto, l’essenza dell’amore di cui era stata investita prima del suo lutto: il suo sguardo, il tono della sua voce, il suo odore, la traccia delle sue carezze. La madre amata del tempo che fu “era stata sepolta viva, ma la sua stessa tomba era scomparsa. Il buco che stava al suo posto faceva temere la solitudine, come se l’oggetto rischiasse di sprofondarcisi anima e corpo (Green, 1983, p. 280).

L’origine della madre morta e i “fantasmi nella culla”

I motivi di una depressione materna possono essere molteplici, e non tutti facilmente identificabili: ad esempio una gravidanza non desiderata o stressogena, angosce persecutorie, un vissuto abbandonico che la presenza del bambino spinge a ridestare dalla dimensione inconscia in cui era stato sepolto. A volte la madre è coinvolta in un rapporto di coppia frustrante, o porta con sé il lutto di una perdita affettiva lacerante (un genitore scomparso durante l’infanzia o un aborto recente); oppure la gravidanza enfatizza gli effetti patologici di un disturbo depressivo pregresso.

In ogni caso la depressione compromette la potenzialità responsiva della dimensione genitoriale, trasformando la madre in un oggetto affettivamente e materialmente deficitario.

Un umore flesso e anedonico raggela ogni velleità di vicinanza verso il bambino, disegnando i confini di uno spazio relazionale gelido e incolmabile. In molti casi è lei stessa a caricare il figlio di richieste compensative, adultizzandolo con responsabilità del tutto inadeguate. In altre occasioni lo percepisce come un oggetto estraneo, malvagio, o un intruso che si ciba delle sue risorse e dal quale si sente letteralmente invasa.

Non v’è nulla, nella genitorialità depressa, della maternità significante che dà la vita.

L’infans diventa la meta incidentale di pulsioni rabbiose, ab origine destinate verso oggetti abbandonici o irreversibilmente perduti; lutti evitati, oggetti parziali, lati sincretici della personalità tornano a farsi avanti con irruenza, frapponendosi nello spazio tra la madre e la culla. Ma anche traumi non risolti, introietti persecutori, vissuti di un’esperienza filiale inappagata possono riemergere con finalità rabbiosa e rivendicante.

 Sono quelli che Selma Fraiberg (1975) definisce suggestivamente come i “fantasmi nella stanza del bambino”: null’altro che rievocazioni di un vissuto doloroso, frammenti mnestici che hanno preso residenza nella mente della madre, impedendole di varcare con pulsioni affettive lo spazio psichico del figlio; il retaggio di un’eredità crudele, una sorta di lascito tormentoso che condanna all’eterna ripetizione di se stesso, dando vita ad un dolore senza tempo (Fraiberg, 1975; 1977).

Le transazioni di investimenti, affetti e fantasmi disegnati nella relazione diadica affondano le radici in un passato materno prelogico e presimbolizzato, scrutabile in un estrinsecarsi “trigenerazionale” (Lebovici, 1983). Quindi non è coinvolto soltanto il vissuto infantile della generazione materna, ma anche quello delle due generazioni precedenti, il cui contenuto di segreti, fantasie e aspettative, può aver contribuito ad influenzare la genitorialità, finanche determinandone la natura.

Sulla spinta di questo passato “presentificato” la madre inscrive il bambino in un circuito generazionale, abdicando alla propria funzione diadica; dunque il bambino non è più figlio suo, ma di tutta la famiglia. Comprese le “generazioni non generative” che l’hanno preceduta, e che con il loro contenuto persecutorio, costantemente in azione e retroazione, ne hanno precluso l’aspetto vitale.

Narcisismo di morte

La mancata interiorizzazione di un oggetto attendibile diviene un fantasma psichico persecutorio, inscindibilmente connesso a Tanatos (Freud, 1922; Spitz, 1958).

La trasformazione nella vita psichica, al momento del lutto improvviso per la perdita della madre che disinveste bruscamente suo figlio, è vissuta dal bambino come una catastrofe […] perché l’amore è stato perduto di colpo, senza segno di preavviso (Green, 1983, p. 138).

Il disamore per la madre si tramuta in amore per il Sé, ma si tratta di un investimento affettivo sterile, perché incapace di recepire l’alterità e di costruire una gratificante dimensione relazionale simmetrica e scambievole, in cui l’amore deriva da un’intenzione arricchente condivisa, e non da un’autoerotizzazione fantasticata.

L’aspettativa relazionale è assente, non esiste amore né tensione oggettuale, ma solo l’onnipotenza emergenziale di un Sè deluso dagli oggetti primari.

È quello che Green chiama il narcisismo di morte (1983), intendendo con questo termine lo stato emotivo che, al di là di un senso di infallibilità supervalutante, nasconde il fantasma di un legame ferito che impedisce la resilienza e l’elaborazione di un dolore arcaico.

Il Sé morto del narcisista è il Sé del bambino la cui istanza vitale è stata negata dalla madre.

Egli si compiace del proprio vuoto e cerca di arricchirsene, ma la sua esistenza è il frutto di una mera apparenza (Bollas, 2022). Per sopravvivere al no della madre, egli è stato costretto a negare la sua stessa esistenza. A renderla un Non Oggetto. A de vitalizzarla, a trasformarla in una Non-Cosa, assente e tuttavia capace di distruggerlo.

A dispetto dell’onnipotenza dietro cui si trincera, il narcisista non cessa di essere quel bambino rifiutato, ucciso da una madre che, con la sua morte, lo ha privato della vita. E con questa non vita egli si rivitalizza, contagiando col proprio istinto mortifero un’esperienza vitale originata da un Non Essere, da un incontro mancato, da una fallita evoluzione. E dunque soltanto apparente.

Nel narcisismo di morte tutto deve essere negato, per esistere veramente: l’altro, affinché la sua presenza non invada i fragili confini dell’Io, polverizzandone l’illusoria onnipotenza (il c.d. Narcisismo Anale, Green, 1983); la dipendenza oggettuale, di cui si rifiuta il valore grato e gratificante; lo stesso Sé, considerato una Non Cosa, in quanto originato da un autoinganno, la menzogna compensativa di un rifiuto distruttivo.

E se anche l’affetto deve essere negato, perché frutto di una bugia crudele, ecco che il narcisista riempie il vuoto emozionale ricorrendo all’iperproduzione intellettiva, un’identità “riflettente” ma non riflessiva, un iperinvestimento epistemologico con cui analizza i sentimenti in una prospettiva autoptica, al solo fine di controllarne il flusso imprevedibile. Ma il pensiero stesso del narcisista è un Non Pensiero. Un’altra menzogna, un’altra mera apparenza: privato di un idoneo apparato per pensare – ove il pensiero corrisponde ad uno strumento di contenimento, rielaborazione e trasformazione (Bion,1962), le sue speculazioni raziocinanti non sono che l’illusoria conversione di un pensiero non pensabile, di un’angoscia senza nome evacuata in una Ragione irrazionale.

Tra narcisismo libidico e narcisismo di morte

Il narcisista reputa il Sé onnipotente, ed è solo sul Sé che imbastisce la propria dimensione inter ed intrapsichica. Potremmo definirla una reazione difensiva, potenzialmente adattativa: il bambino investe nel Sé per non lasciarsi travolgere dall’assenza materna. Lo stesso Reich (1933) sostiene che il carattere sia una forma di protezione narcisistica, e che le struttura difensive stabilite durante l’infanzia siano finalizzate a fronteggiare più o meno adattivamente i vissuti ansiogeni di separazione. Ma in questo narcisismo c’è ben poco di adattivo. Ben poco di salvifico. Esso prende le sembianze di una corazza isolata, raggelante, in cui l’amore per il Sé non è autentico amore, e neppure il Sé iperinvestito è reale, perché indebolito da vissuti frustranti e privativi che ne hanno impedito la coesione.

In termini adattivi il narcisismo comporta effetti valorizzanti, arricchenti e confermativi. È un modo per esaltare il Sé riconoscendosi nell’altro, e per trovare in questo riconoscimento un appagamento vitale, una gratificazione reciproca.

Nel narcisismo libidico, pur essendo presente un’autoidealizzazione, è possibile individuare degli elementi utili alla costruzione di una sana autostima. Il narcisismo di morte, al contrario, è foriero di un’onnipotenza illusoria, costruita sulla base di un introietto materno abbandonico che ha sabotato, con la sua presenza-assenza, ogni tensione vitale. Per quanto presente, l’idealizzazione è rivolta alle parti non vitali del Sé, quelle che negano le relazioni oggettuali positive e i bisogni di dipendenza, sotto la spinta di un Sé improduttivo originato dall’introiezione della madre morta (Rosenfeld, 1987).

Alla base del narcisismo di morte latita pertanto una pulsione subdola e occulta, non integrata con quella di vita, che “si oppone ad ogni progresso, e che implica una profonda attrazione per la morte e la distruttività….spesso il narcisista crede di aver distrutto per sempre il suo Sé capace di amore e di affettuosa sollecitudine per gli altri, e che nulla e nessuno possa cambiare questa situazione” ( Rosenfeld, 1987, p. 102).

Questa immobilità nichilistica, questa desertificazione dell’Io, si ripete drammaticamente nel setting terapeutico, rendendo difficile la costruzione di una relazione reciprocante e produttiva (Green, 2011). L’attaccamento identificativo alla madre morta – proposto come una coazione a ripetere – rende questi analizzandi refrattari ad ogni accesso comunicante, facendo naufragare l’operato del terapeuta in un controtransfert frustrato e avvilente: “Sono pazienti che nel trattamento mostrano un’assoluta indifferenza, come se nulla li toccasse, e a qualsiasi spiegazione del terapeuta rispondono: “E allora? Cosa me ne faccio? E con questo? Ciò significa che tutto ciò che arriva dal terapeuta viene immediatamente distrutto. Non succede niente, e il paziente dice: faccia qualcosa, se ci riesce. Si può andare avanti così per anni” ( Kernberg, 2020, p. 19). E ancora:

Questi analizzati, pur in pieno calore, si lamentano di sentire freddo. Hanno freddo sotto la pelle, nelle ossa, si sentono paralizzati da un brivido funereo, avviluppati in un loro sudario (il nucleo congelato dell’amore per la madre morta). Non sono più costoro a vivere, ma è l’altro morto a vivere in loro, e ciò dà origine ad un’illusione generativa (Green, 1983, p. 223).

Ecco la trappola, l’inganno più illusorio del narcisismo. Il Sé onnipotente cela la terrifica realtà di un Non Sé.

Ma è proprio nella fedeltà a questa pulsione antievolutiva che il narcisista trova il senso della non Vita, è in questa dipendenza dall’oggetto cattivo che si sente vicino a quella “madre morta” della quale non è riuscito a liberarsi. Piuttosto che separarsene completamente egli ne ha introiettato l’aspetto mortifero. Piuttosto che non sentirsene amato ha scelto di gratificarsi con il suo Non Amore.

“Tutto il dolore viene dal vivere”, sostiene Hanna Segal (1993). La vita stessa è una lotta, un compromesso continuo tra la pulsione di vita e quella di morte ( Freud, 1922).

Il narcisista ha scelto quest’ultima, e il senso nichilistico e annullante di cui Tanatos si fa portatore. Animato da inconsce fantasie di autodistruzione, rabbiose e ferine, solo distruggendo se stesso e l’altro egli sente di esistere: perché solo questa pulsione annichilente gli permette di dar vita a quella Non Madre che ha stabilmente interiorizzato, rendendola un fattore ostruttivo e distruttivo del Sé.

Non v’è nessun alone di vita nel narcisismo. Esso incarna piuttosto il vessillo di una sconfitta vitale. Il simbolo di una vita generata dalla morte.

 

Scrittura e lettura di messaggi alla guida: i predittori nei giovani adulti

Sia l’impulsività che la FOMO sono state correlate all’uso problematico del cellulare, che è stato associato positivamente anche all’uso del cellulare durante la guida.

 

L’uso del cellulare tra i giovani adulti

 L’uso problematico del telefono è particolarmente diffuso tra i giovani adulti (di età compresa tra i 18 e i 24 anni), che presentano livelli molto elevati di utilizzo e dipendenza da telefono cellulare (Deloitte, 2017). Questo gruppo è anche più propenso all’uso del cellulare in macchina, compreso l’invio di messaggi durante la guida (Texting While Driving [TWD]; Cazzulino et al., 2014), causa di molti incidenti stradali addirittura mortali (Bureau of Infrastructure, Transport and Regional Economics, 2018). È quindi particolarmente importante esaminare i fattori che influenzano la guida rischiosa in questa fascia d’età.

I ricercatori hanno ipotizzato che alcuni fattori che possono aumentare la tendenza a scrivere e leggere messaggi durante la guida sono l’impulsività, la paura di essere esclusi (Fear Of Missing Out; FOMO) e il coinvolgimento nell’uso del telefono (Mobile Phone Involvement; MPI).

L’impulsività si riferisce in generale all’agire senza riflettere e senza considerare le conseguenze (Magid et al., 2007). La ricerca ha mostrato che l’impulsività è un fattore di rischio per l’invio di messaggi durante la guida (ad esempio, Hayashi et al., 2017).

Esistono però molteplici concettualizzazioni dell’impulsività. Ad esempio, Dawe e Loxton (2004) hanno identificato la rush impulsivity (impulsività avventata) e la reward sensitivity (sensibilità alla ricompensa) come due fattori correlati a una serie di comportamenti di dipendenza. L’impulsività avventata si riferisce a “una tendenza a impegnarsi in comportamenti avventati e spontanei in cui un individuo ha la tendenza a non considerare il rischio o le conseguenze future” (Dawe et al., 2004, p. 1398), il che significa che un individuo può non essere in grado di esercitare il controllo, nonostante le conseguenze avverse. La sensibilità alla ricompensa deriva dalla teoria della sensibilità al rinforzo di Gray ed è la tendenza a mettere in atto comportamenti in presenza di stimoli gratificanti (Gray, 1970).

É probabile che una persona con un livello più alto di ricerca della ricompensa potrebbe essere più incline a leggere un messaggio a causa dell’anticipazione della ricompensa derivante dal legame sociale, mentre una persona con un livello più alto di impulsività avventata potrebbe essere più propensa sia a leggere che a inviare un messaggio durante la guida, incurante dei rischi aggiuntivi.

La FOMO è invece la paura che gli altri stiano vivendo esperienze divertenti o gratificanti senza di noi ed è correlata a un maggiore desiderio di connessione sociale (Przbylski et al., 2013). Nonostante sia stata già riscontrata un’associazione tra FOMO e guida distratta in generale, la possibile relazione con l’invio di messaggi durante la guida non è ancora stata studiata.

Sia l’impulsività che la FOMO sono state correlate all’uso problematico del cellulare (Elhai et al., 2016). Il costrutto del “coinvolgimento nel telefono cellulare” (Mobile Phone Involvement; MPI) si riferisce al coinvolgimento cognitivo e comportamentale con il proprio telefono, come pensare spesso al telefono e controllare le chiamate perse (Walsh et al., 2010), che a livelli estremi può essere paragonato ad una dipendenza. L’ MPI è stato associato alla nomofobia (Aruumosa-Villar et al., 2017), ovvero la paura di rimanere senza la possibilità di utilizzare il proprio cellulare, ed è stato associato positivamente anche all’uso del cellulare durante la guida, compreso l’invio di messaggi (Hill et al., 2019).

Quali fattori determinano l’uso del cellulare durante la guida?

 Data l’influenza dell’MPI sul comportamento alla guida e le potenziali associazioni con la rush impulsivity, la sensibilità alla ricompensa e la FOMO, è possibile che gli effetti dell’impulsività e della FOMO sul comportamento alla guida siano indiretti, attraverso la loro relazione con l’MPI.

A testare questa ipotesi è stato uno studio di Brown e colleghi del 2021.

I risultati hanno mostrato che l’impulsività, la sensibilità alla ricompensa e la FOMO sono stati tutti predittori significativi dell’invio di messaggi alla guida, mentre l’impulsività e la sensibilità alla ricompensa – ma non la FOMO – sono stati predittori significativi della lettura di messaggi durante la guida.

Come ipotizzato dagli autori, l’impulsività avventata, la sensibilità alla ricompensa e la FOMO hanno avuto tutti effetti indiretti significativi sull’invio di messaggi durante la guida attraverso l’MPI.

Uno degli aspetti chiave del coinvolgimento nel telefono è l’integrazione del dispositivo nella vita quotidiana. I giovani che sono fortemente dipendenti dal telefono cellulare non riescono a mettere un limite all’utilizzo del cellulare neanche alla guida, sfociando quindi nel pericoloso comportamento di messaggiare durante la guida. Ricerche future che indagheranno le variabili di personalità legate all’MPI consentiranno di indirizzare interventi verso i soggetti più vulnerabili ai comportamenti a rischio.

I risultati di questo studio non hanno riscontrato alcuna influenza significativa per il genere, anche se alcuni studi presenti in letteratura hanno rilevato una maggiore propensione degli uomini a utilizzare il telefono durante la guida (Walsh et al., 2008). Altri studi (Struckman-Johnson et al., 2015), invece, pur non avendo riscontrato differenze di genere su un campione di studenti universitari, hanno trovato diversi predittori tra i gruppi di genere. Le ricerche future potrebbero esaminare i diversi fattori predittivi tra i gruppi di genere, oltre a valutare l’influenza del genere sul messaggiare durante la guida.

Sebbene le variabili prese in considerazione in questo studio si siano dimostrate tutte predittori del messaggiare durante la guida, esse spiegavano solo una piccola parte della varianza complessiva, per cui la ricerca futura dovrebbe considerare altre variabili non incluse in questo studio.

Nel complesso, i risultati dello studio presentato suggeriscono che l’impulsività avventata, la sensibilità alla ricompensa e la FOMO influenzano la tendenza a messaggiare durante la guida e che questa influenza avviene attraverso la loro relazione con l’MPI. Ricerche future potrebbero esaminare l’influenza di queste variabili su altre forme di utilizzo del cellulare durante la guida.

È necessario attuare interventi per contrastare la guida distratta tra le persone più vulnerabili a questo comportamento rischioso, affrontando il problema dell’eccessivo utilizzo del telefono cellulare.

 

Stupro a Piacenza, l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna: “Pubblicare il video è stato un ulteriore abuso”

Gli psicologi: “Chi condivide immagini o commenta senza competenze è corresponsabile di violenza”

Ufficio stampa Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna

 

Bologna, 24 agosto – «Diffondere il video dello stupro è un atto gravissimo, che rende corresponsabili di violenza». Così l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna interviene su quanto avvenuto a Piacenza, dove nei giorni scorsi una donna è stata violentata in strada e ripresa in un video che ha successivamente fatto il giro della rete.

Perché è stato pubblicato il video di uno stupro durante una campagna elettorale? Chi si intendeva far vedere, la vittima o lo stupratore? E se si voleva far vedere quest’ultimo, l’intenzione era forse quella di mettere in risalto le sue origini per dare forza a un programma politico? – si chiede Carmelina Fierro, consigliera dell’Ordine regionale e coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dello stesso Ordine – Mi chiedo anche che cosa si intendesse far provare in chi avrebbe visto le immagini. Soprattutto, perché non ci si è chiesti come si possa sentire una vittima di fronte all’amplificazione di una violenza subìta, se non ulteriormente violata e vittimizzata?.

Dott.ssa Carmelina Fierro

FIG. 1 – Dott.ssa Carmelina Fierro: consigliera e coordinatrice della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine regionale

Pubblicare il video, spiega Fierro, è un fatto inaccettabile, che in questo caso vede responsabile non più solo lo stupratore, ma tutti coloro che hanno diffuso le immagini.

La violenza sulle donne e alle donne non può portare a disattente narrazioni e ancor meno a strumentalizzazioni di questo tipo – continua la consigliera – La “vittimizzazione secondaria”, spesso insita in ogni atto di violenza alle donne, è inammissibile e soprattutto occorre conoscerla. Smettiamola con improvvisazioni o supposizioni e affidiamoci a chi ha formazione e competenza specifica.

Fondamentale è anche lavorare sulla prevenzione attraverso progetti educativi e culturali. Proprio su queste tematiche l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna ha istituito per il secondo anno un premio di duemila euro per una tesi di laurea su “La violenza: impatti, significati e vissuti di chi assiste”.

Crediamo che sia importante promuovere cultura e azioni atte a contrastare gli stereotipi di genere e fenomeni di discriminazione – conclude Fierro.

 

Linee guida in psicoterapia e quesiti non trasmessi alla Giuria – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 10

Inizialmente, il tema A su accessibilità, efficacia e applicabilità dei trattamenti si articolava in tre sotto-temi: il primo lo abbiamo visto nello scorso numero della rubrica (Tema A1); il secondo interrogava gli Esperti sulle migliori linee guida internazionali a cui riferirsi per il contesto italiano (Tema A2); il terzo sollevava la necessità di traduzione delle stesse linee guida.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 10) Linee guida in psicoterapia e quesiti non trasmessi alla Giuria

 

Gli Esperti, alla luce delle informazioni raccolte nella Relazione, hanno ritenuto opportuno trasmettere solo il Quesito A1 alla Giuria. Tuttavia, in questo articolo abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori una panoramica anche di questi due temi, di grande importanza nella pratica clinica.

Di linee guida si sente parlare spesso, in questa Consensus Conference, così come nella letteratura scientifica. Ma, in sintesi, di cosa si tratta?

In psicologia clinica e psichiatria, quando si parla di “linee guida”, si fa riferimento a una serie di indicazioni cliniche di gestione, in termini diagnostici e/o trattamentali, di specifici disturbi o classi. Tali indicazioni sono esito dell’esame di numerosi studi empirici e metanalisi, operato da gruppi di esperti appartenenti a società scientifiche o organismi governativi (per esempio, il National Institute for Health and Care Excellence; NICE), e sono annoverate in documenti dedicati che prendono il nome, appunto, di Linee Guida. Rappresentano dunque una guida per le scelte dei clinici, assicurando un alto livello di efficacia nella riuscita del trattamento o del percorso diagnostico.

Quesito A2

Tra le linee guida disponibili a livello internazionale, limitatamente agli specifici disturbi d’ansia e depressivi, quali conviene siano prese a riferimento, soprattutto in relazione alla loro generalizzabilità al contesto italiano?

Per fornire informazioni alla Giuria in merito a tale quesito, le linee guida internazionali disponibili riguardo ansia e depressione sono state esaminate dal gruppo di esperti sulla base di stringenti criteri di valutazione.

Questi hanno riguardato, innanzitutto, il numero di studi inclusi a supporto delle indicazioni e l’autorevolezza delle banche dati online usate per trovarle (per es., PsycINFO, MEDLINE, Cochrane Library); nonché il numero di citazioni, la diffusione e la notorietà di quella specifica linea guida.

Significativa rilevanza è stata attribuita alla data di pubblicazione, ovvero l’aggiornamento più recente del documento, considerando che l’Istituto Superiore di Sanità (2019) determina che una linea guida ha una validità di 3 anni dalla data di pubblicazione, dopodiché dovrebbe essere aggiornata con una revisione sistematica della letteratura.

L’ultimo dei criteri, non meno importante, ha riguardato l’indipendenza delle istituzioni e l’assenza di conflitti di interesse.

Dopo aver esaminato le linee guida disponibili secondo i criteri appena menzionati, riguardo i disturbi d’ansia gli esperti hanno indicato le seguenti come riferimento:

  • National Institute for Health and Care Excellence (NICE), 2017-2020;
  • American Psychiatric Association, 2009-2013;
  • American Psychological Association, 2017.

Invece, per i disturbi depressivi hanno giudicato che vadano prese come punti di riferimento le seguenti:

  • National Institute for Health and Care Excellence (NICE) (Regno Unito), 2018 e 2019;
  • American Psychological Association, 2017;
  • American Academy of Pediatrics (AAP), 2018;
  • American College of Physicians (ACP), 2016;
  • Orygen Youth Health Clinical Program (Australia), 2017.

Riguardo all’aspetto della loro generalizzabilità al contesto italiano, gli esperti ritengono che il loro uso sia possibile a fronte di una adeguata formazione sulle specifiche tecniche psicoterapeutiche raccomandate da tali linee guida, destinata a operatori della salute mentale e dei Servizi territoriali.

Quesito A3

Per una maggior conoscenza e diffusione, è necessario un lavoro di traduzione in italiano delle linee guida prese a riferimento o di parti di esse? Sono opportune integrazioni o commenti?

Sebbene per una migliore conoscenza e una maggiore diffusione sarebbe utile la traduzione delle linee guida appena citate, gli Esperti hanno convenuto che sia sufficiente un loro riassunto, unitamente ad una integrazione di dati provenienti da studi scientifici specifici (per es., metanalisi). Ciò è dovuto anche all’ingente costo dei diritti di traduzione.

Per questi motivi, nella Relazione per la Giuria (consultabile nell’Allegato 4, p. 52), è stata inserita una sintesi integrata delle linee guida del NICE, dell’American Psychological Association e dell’American Psychiatric Association, operata dagli esperti della Consensus Conference, con l’obiettivo di fornire un riferimento per i professionisti in merito al trattamento dei disturbi d’ansia e depressivi.

Inoltre, è stata aggiunta una selezione dei documenti emessi dal NICE (consultabile nell’Allegato 5, p. 65), poiché identificati come riferimenti idonei alla divulgazione e a una futura e auspicabile traduzione.

In conclusione, in seguito a un attento esame, gli esperti hanno individuato una serie di linee guida inglesi, americane e australiane che possono essere prese come riferimento per la pratica clinica nel nostro Paese per disturbi ansiosi e depressivi. Sebbene sarebbe utile una traduzione di tali linee guida, i costi risultano proibitivi; pertanto, nel documento finale, sono sintetizzate alcune indicazioni fondamentali ed è raccomandata una formazione specifica per il personale sanitario rispetto alle tecniche definite in tali documenti. Tuttavia, gli esperti sostengono che l’adozione automatica delle linee guida selezionate risulta impossibile nel contesto italiano, per via della funzione assistenziale dei Servizi territoriali di salute mentale e della diffusione della psicoterapia privata.

 

La riabilitazione cognitiva: dai presupposti neurofisiologici all’intervento clinico

Il concetto fondamentale su cui si fonda la riabilitazione cognitiva, è che l’inattività porta alla perdita della funzione (Mazzucchi A. 1999; Bocardi M. 2014), quindi l’obiettivo clinico prioritario della riabilitazione è mantenere la funzione e di conseguenza l’autonomia del paziente corrispondente ad essa.

 

Ogni essere umano esercita continuamente le proprie funzioni cognitive per portare a termine qualsiasi tipo di compito. Quando si verifica, a seguito di un danno neuronale, una perdita più o meno grave della memoria, dell’attenzione o della capacità di ragionamento, funzioni che permettono di eseguire i vari compiti e di relazionarsi con il mondo, si parla di deficit cognitivo. Questo può riguardare una singola funzione, come ad esempio il deficit della sola capacità di memoria, definito deficit isolato, oppure può colpire più funzioni contemporaneamente, il deficit allora si definisce generalizzato (Denes G. et al. 2019).

La presenza di un deficit cognitivo di una certa gravità genera una perdita di autonomia del soggetto. Questi pazienti possono rimanere nella propria abitazione ma assai spesso vengono istituzionalizzati. In entrambi i casi la loro qualità di vita è legata alla possibilità d’intraprendere un percorso di riabilitazione cognitiva. Esistono alcuni presupposti neurofisiologici che rendono possibili gli interventi riabilitativi nel deficit cognitivo.

I presupposti neurofisiologici della riabilitazione cognitiva

Il sistema nervoso centrale possiede la capacità di modificare la propria organizzazione e funzione, questa capacità è detta plasticità cerebrale e permette al sistema nervoso di adattarsi alle richieste funzionali (Denes G. 2016).

Il cervello possiede alcuni neuroni capaci di attivarsi e prendere le funzioni di altri neuroni, quando questi ultimi subiscono un danno. Sono i neuroni della così detta riserva cognitiva che sono in grado di creare nuove connessioni neuronali, cioè dei percorsi alternativi ai percorsi danneggiati, attraverso i quali avviene l’elaborazione delle informazioni ( Chicherio C., Ludwig C., Borella E. 2012).

Il concetto fondamentale, su cui si fonda la riabilitazione cognitiva, è che l’inattività porta alla perdita della funzione (Mazzucchi A 1999; Bocardi M 2014).

È per questo motivo che l’obiettivo clinico prioritario della riabilitazione è mantenere la funzione e di conseguenza l’autonomia del paziente corrispondente ad essa. Le attività riabilitative che riguardano le funzioni di base della vita quotidiana, come ad esempio lavarsi e vestirsi, possono definirsi attività naturali, mentre altre attività come quelle eseguite nei laboratori potranno risultare per il paziente con deficit cognitivo, meno naturali ma a volte più stimolanti. La stimolazione può anche, in presenza di un deficit cognitivo, produrre la formazione di nuovi circuiti che possono contribuire ad aumentare, pur se di poco, la riserva cerebrale esistente (Woods B., Aguirre E., Spector A. E., Orrel 2012).

Riabilitazione cognitiva e motivazione del paziente

Qualsiasi attività, compresa quella di tipo riabilitativo, non può essere svolta se la persona non è adeguatamente motivata (Mazzucchi A. 1999; Bocardi M.2014). Ogni azione l’essere umano compia richiede l’investimento di tempo ed energia e né l’uno né l’altra sono infinite. Questo è il motivo per cui, se non c’è un buon motivo per investire tempo ed energia in un’attività, questa non viene svolta dalla persona. Il risultato visibile del funzionamento di questo principio, nelle persone affette da deficit cognitivo, è dato dal fatto che se il malato non comprende il significato e quindi il motivo dell’azione avrà delle resistenze a svolgerla (Beck 1993). Inoltre si ritiene vantaggioso utilizzare, nei singoli progetti riabilitativi, come mezzo principale il “fare” poiché, in presenza di un deficit cognitivo, occorre usare un modo di ragionamento concreto (Associazione Italiana Terapia Occupazionale).

Tutti i concetti utilizzati debbono essere vicini alle conoscenze materiali del paziente, i concetti astratti possono essere capiti ed elaborati, ma quando questo risulta difficoltoso per il paziente, bisogna tradurre in termini concreti.

L’utilizzo della stimolazione e riabilitazione cognitiva si fonda sulla convinzione che gli interventi riabilitativi, possono promuovere effetti fisiologici positivi (Bernardi L., Sleight P., Bandinelli G. et al 2001). In alcuni casi è stato possibile dimostrare gli effetti fisiologici di alcuni interventi di tipo non farmacologico (Bernardi L., Sleight P., Bandinelli G. et al 2001). Anche se la dimostrazione scientifica non è sempre possibile per tutti gli interventi utilizzati in riabilitazione cognitiva, la spiegazione del perché un intervento riabilitativo non farmacologico può comunque generare degli effetti fisiologici positivi è legata al concetto che in ogni individuo le variabili fisiche, psichiche e sociali devono considerarsi racchiuse in un sistema complesso da trattarsi come un tutt’uno (Engel G. 1977)

 

Imagery rescripting di Remco Van der Wijngaart (2022) – Recensione

Il saggio “Imagery rescripting” di Remco Van der Wijngaart descrive in modo molto chiaro le origini storiche della tecnica dell’imagery rescripting e il suo attuale utilizzo.

 

 È possibile riscrivere le proprie memorie passate e gli eventi futuri in modo che possa verificarsi un esito diverso rispetto a quanto già accaduto o che potrebbe accadere?

La risposta di Remco Van der Wijngaart, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale dell’International Society of Schema Therapy e autore del saggioImagery rescripting, teoria e pratica” è affermativa.

Il saggio, edito da Giovanni Fioriti Editore, raccoglie una panoramica dettagliata e approfondita della tecnica dell’imagery rescripting sviluppata all’interno del modello della Schema Therapy e che ha lo scopo di esplorare in immaginazione un’esperienza significativa passata o futura e rielaborarla “correggendone” il vissuto emotivo doloroso.

Questa tecnica terapeutica sta guadagnando gradualmente maggiore popolarità e sta acquisendo nuove e comprovate evidenze scientifiche della sua utilità ed efficacia nell’aiutare le persone a riattribuire un significato alternativo e più funzionale alle esperienze di vita precoci di abuso, trascuratezza e frustrazione dei bisogni primari.

Il modello teorico sottostante questa tecnica è quello della Schema Therapy, che enfatizza il ruolo della relazione terapeutica come fondamentale strumento di cambiamento e riparazione emotiva delle esperienze infantili traumatiche (Arntz e Jacob, 2013). Infatti, nella relazione terapeutica, attraverso la figura del terapeuta, è possibile (1) recuperare eventi infantili traumatici nei quali il bambino, ora paziente adulto, ha esperito una frustrazione dei propri bisogni emotivi fondamentali per mano del genitore e (2) riscrivere in immaginazione, tramite l’intervento del terapeuta, il decorso dello stesso.

Le possibilità di “riscrivere” il decorso di un’esperienza negativa con l’immaginazione sono infinite e fantasiose in quanto le potenzialità dell’immaginazione sono esse stesse infinite e fantasiose: gli antagonisti della scena infantile recuperata possono essere contrastati, le vittime consolate, salvate e trattate con compassione sia dalla parte adulta sana del paziente che dal terapeuta che si “insinua” nel ricordo della persona per ristrutturare cognitivamente l’evento passato, aiutarlo a riconoscere, validare ed esprimere i suoi bisogni, accettare la realtà e favorire un processo di elaborazione della sua sofferenza emotiva.

Il saggio di Van der Wijngaart (2022) descrive in modo molto chiaro le origini storiche della tecnica dell’imagery rescripting a partire dagli anni 80 del 900’ dove già cominciavano ad affermarsi le prime tecniche di immaginazione e visualizzazione all’interno del panorama cognitivo e comportamentale, fino all’introduzione della tecnica in diversi protocolli per il trattamento del disturbo da stress post-traumatico (Ehlers et al., 2000), d’ansia sociale (Clark et al., 2006), degli incubi notturni e dei disturbi di personalità (Young et al., 2003). L’autore inoltre fornisce un’ampia rassegna di metanalisi e degli studi più significativi che comprovano l’efficacia di tale tecnica all’interno dei protocolli terapeutici per la riduzione sintomatologica.

 La parte più corposa e interessante del saggio viene dedicata alla spiegazione dell’applicazione della tecnica esemplificata tramite vignette di casi clinici che ben rendono i suoi passaggi e varie fasi di implementazione all’interno dei diversi momenti del percorso terapeutico – dall’assessment diagnostico alla prevenzione delle ricadute; il tutto per fornire al lettore competente la possibilità di utilizzare questo strumento nella sua pratica clinica.

Il lettore viene accompagnato per mano nell’apprendimento della tecnica e nella sua familiarizzazione tramite apposite “scalette d’intervento” a partire dall’indagine della sofferenza attuale riportata dalla persona ricollegata a una dolorosità che affonda le sue radici storiche nella sua storia di vita infantile.

In questo excursus vengono offerte liste di domande e istruzioni per comprendere il momento più opportuno per implementare la tecnica e i bisogni su cui focalizzarsi, per recuperare l’evento più significativo e riscrivere l’esperienza soggettiva della persona in quello stesso evento.

Inoltre, vengono forniti suggerimenti per bypassare alcuni degli ostacoli più frequenti che potrebbero verificarsi con persone poco addestrate all’immaginazione o molto attivate emotivamente dall’esercizio.

A mio parere, l’ultima parte del saggio merita una menzione speciale in quanto si focalizza sulla possibilità di utilizzare la tecnica dell’imagery rescripting anche per anticipare e prepararsi agli eventi futuri, non ancora accaduti ma potenzialmente problematici che potrebbero attivare vecchi schemi, credenze, reazioni e comportamenti poco utili. Tale possibilità è offerta dal fatto che l’anticipazione di un evento futuro attiva le medesime aree cerebrali coinvolte nella visualizzazione degli eventi passati (Schacter et al., 2012) favorendo la rielaborazione e la motivazione al cambiamento: infatti, visualizzare reazioni e comportamenti alternativi, non ancora accaduti, che si potrebbero mettere in atto in una situazione attivante, permetterebbe di sperimentare in anticipo i suoi effetti, di facilitare il problem solving per eventuali difficoltà e prevedere vantaggi e “gratificazioni” emotive a seguito del nuovo repertorio immaginato.

Il saggio di Van der Wijngaart è caldamente consigliato ai lettori competenti, incuriositi e interessati all’applicazione di questa tecnica con i propri pazienti anche al di fuori di una specializzazione strutturata nell’ambito della Schema Therapy.

 

Il ruolo delle credenze religiose in pazienti oncologici in stadio avanzato

Uno studio di Kavak Budak e colleghi (2021) ha cercato di determinare l’effetto delle credenze religiose e della spiritualità in generale sulla depressione e sulla mancanza di speranza nei pazienti oncologici in fase avanzata. 

 

 La prevalenza del cancro aumenta di giorno in giorno; nel 2012, sono stati registrati un totale di 14,1 milioni di nuovi casi di cancro e 8,2 milioni di persone sono morte. I tumori più diagnosticati nel mondo sono quelli al polmone (13,0%), al seno (11,9%) e al colon (9,7%). Se l’incidenza del cancro continuerà ad aumentare a questo ritmo, si prevede che nel 2025 si verificheranno 19,3 milioni di nuovi casi all’anno (Globocan, 2012).

Le conseguenze psicologiche nei pazienti oncologici

Il cancro può causare inoltre gravi problemi mentali (Wilson et al., 2007). Jadoon e colleghi (2010), ad esempio, riportano che i pazienti con cancro sperimentano angosce che richiedono un trattamento psichiatrico e la depressione è il disturbo più comune. La depressione, assieme alla mancanza di speranza, possono portare a molte problematiche nei pazienti oncologici, come il suicidio, l’isolamento sociale e la solitudine, compromettendo gravemente la loro qualità della vita. Per questo motivo, è essenziale prevenire i problemi psicologici nei pazienti oncologici (Massie, 2004).

La letteratura ci ha dimostrato che le malattie aumentano i bisogni spirituali degli individui, così come i loro bisogni fisici, mentali e sociali (Weis e Boehncke, 2011). Il paziente ha bisogno di maggiore supporto spirituale nei casi che richiedono un lungo processo di trattamento e guarigione e che compromettono la qualità della vita, come nel caso del cancro. In studi precedenti (Koenig, 2004; Singer et al., 2010) è stato rilevato che la spiritualità aumenta le esperienze positive, le speranze e la capacità di trovare un significato alla malattia.

Alla luce dei risultati promettenti, uno studio di Kavak Budak e colleghi (2021) ha cercato di determinare l’effetto del credo religioso e della spiritualità in generale sulla depressione e sulla mancanza di speranza nei pazienti oncologici in fase avanzata.

I risultati ottenuti dimostrano una differenza statisticamente significativa tra età e depressione nei pazienti oncologici che hanno partecipato allo studio: all’aumentare dell’età è aumentato il livello di depressione per questi pazienti. Si potrebbe pensare che le opinioni negative dei pazienti anziani, riguardo l’essere un peso per i loro parenti, non guarire e temere la morte, possano aumentare i loro livelli di depressione.

 La depressione inoltre era maggiore in coloro che avevano un livello di istruzione più avanzato e in coloro che avevano un reddito più basso. L’aumento del livello di istruzione nei pazienti oncologici può causare più pensieri negativi, in quanto renderà più facile raggiungere le informazioni sulla malattia, il decorso della malattia e il suo trattamento; esso aumenta in generale il livello di conoscenza. Questi pensieri negativi dei pazienti possono influire negativamente sulla loro salute mentale e aumentarne di conseguenza la sintomatologia depressiva. Per quanto concerne il reddito, invece, in linea con i risultati di Dedeli e colleghi (2008), un reddito basso può influire sulla depressione a causa del trattamento costoso e a lungo termine della malattia, che può aumentare le emozioni negative.

Anche lo stato occupazionale ha mostrato delle differenze significative: i punteggi di depressione si sono rivelati più alti in coloro che erano disoccupati. Lavorare e impegnarsi in qualcosa, infatti, è risultata essere una situazione motivante per i pazienti oncologici. I pazienti oncologici che non possono lavorare e impegnarsi in altre attività possono essere maggiormente colpiti dalla negatività della malattia, poiché concentrano tutta la loro attenzione sul corpo, aumentando la depressione.

Gli effetti positivi delle credenze religiose nei pazienti oncologici

Nello studio presentato le credenze religiose dei pazienti erano elevate e il tipo di atteggiamento religioso è risultato un fattore importante per spiegare la depressione e la mancanza di speranza nei pazienti oncologici nello stadio avanzato della malattia.

Nello studio è stata determinata una correlazione positiva significativa tra i punteggi medi totali della scala della depressione e della mancanza di speranza. Con l’aumento della mancanza di speranza nei pazienti oncologici, è aumentata anche la depressione. I sentimenti negativi dei pazienti che perdono la speranza con il decorso della malattia, come la disperazione e l’impossibilità di trarre piacere dalla propria vita, aumentano di conseguenza i livelli di depressione.

Con l’aumento delle credenze religiose dei pazienti, però, i livelli di depressione e disperazione sono diminuiti, in linea con la letteratura (Dutkova et al., 2017; McCoubrie e Davies, 2006). Gli autori hanno osservato che i pazienti con alti livelli di spiritualità si sentono mentalmente sollevati, portando ad una diminuzione della depressione e ad un aumento di speranza. Non casualmente, infatti, le cure palliative nei pazienti oncologici avanzati comprendono anche dimensioni spirituali.

Riassumendo, quindi, dallo studio in questione è emerso che i livelli di depressione e disperazione dei pazienti oncologici erano moderati se le loro credenze religiose erano elevate, influenzando di conseguenza i loro punteggi di depressione e speranza.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è lo stato di benessere in termini fisici, mentali e spirituali. Pertanto, è possibile mirare alla salute olistica dell’individuo mettendo in pratica tutti i tipi di assistenza, compresa quella spirituale. Perciò, è importante che medici e infermieri, che sono direttamente a contatto con i pazienti giorno e notte, non ignorino il bisogno di assistenza spirituale dei pazienti.

 

Da dove nasce la Sindrome di Stoccolma?

La Sindrome di Stoccolma (Stockholm Syndrome, nota anche come Terror Bonding e Traumatic Bonding) è un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta nella vittima nei confronti del carnefice, in casi di violenza fisica, verbale e/o psicologica. 

 

Le origini della Sindrome di Stoccolma

 La vittima della Sindrome di Stoccolma arriva a provare un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore e, a volte, può provare anche amore e totale sottomissione volontaria, instaurando così una specie di alleanza e solidarietà con il suo carnefice (Biagini et al., 2010).

L’origine del nome di tale patologia risale alla rapina presso la Sveriges Kreditbanken di Stoccolma, avvenuta nel 1973. I rapinatori erano due galeotti evasi dal carcere, che si barricarono con quattro ostaggi nei sotterranei della banca. Al contrario di quanto ci si possa aspettare, in quell’occasione le vittime temevano più la polizia dei sequestratori. E, addirittura, dopo il rilascio, gli ostaggi si erano così affezionati a loro tanto da difenderli anche a seguire, durante il processo. Il termine fu coniato a seguito di quell’occasione dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, che aiutò la polizia con la negoziazione durante la rapina, e dall’agente FBI Conrad Hassel.

Lo psicologo nei giorni successivi tenne alcune sedute con le vittime, e alcuni racconti lo colpirono molto. Gli ostaggi manifestavano infatti un senso positivo verso i propri sequestratori, che vennero visti come coloro che gli avevano ridato la vita e si sentivano in debito nei loro confronti. Da qui deriva il nome che oggi porta questa patologia.

Il rapporto vittima-carnefice nella Sindrome di Stoccolma

I casi di letteratura scientifica che parlano di tale sindrome, ad oggi, sono pochi (Julich, 2005; Cantor e Price, 2007; Namnyak et al., 2008).

Inoltre, questa non è inserita in nessun sistema internazionale di classificazione psichiatrica e, quindi, non esistono criteri universali veri e propri per classificarla.

Ci sono però dei segnali che ci permettono di identificare la condizione Sindrome di Stoccolma. Come già accennato, vi sono sentimenti di amore e amicizia per l’aggressore da parte della vittima, che ripone anche fiducia verso lo stesso. Inoltre, la vittima prova paura per le figure autoritarie (come la polizia); prova sentimenti di colpa per l’aggressore quando viene arrestato e, infatti, arriva a mentire per proteggerlo. Infine, non riconosce di avere una patologia e non vuole farsi aiutare.

Questo tipo di reazione sembra essere una risposta emotiva automatica ed inconscia al trauma, che può colpire soggetti di ogni sesso, età e senza distinzione socioculturale.

 La condizione patologica si può verificare in particolari situazioni di stress: quando vi è una grave e forte minaccia per la propria vita; in un contesto che comporta terrore e si percepisce anche un minimo sentore di gentilezza da parte dei sequestratori; in situazioni in cui non vi sono prospettive di salvezza se non grazie al proprio aguzzino e, infine, quando vi è impossibilità di fuga (Graham et al., 1995).

Le fasi della Sindrome di Stoccolma

Generalmente tale sindrome si articola in 3 fasi. Come abbiamo già accennato in precedenza, in un primo momento si presentano sentimenti positivi per l’aggressore, circa tre giorni dopo l’inizio del rapimento/sequestro; in seguito, si presentano i sentimenti negativi verso le autorità; infine, si costituisce una reciprocità di sentimenti positivi tra vittima e carnefice (Strentz e Ochberg, 1988).

Sebbene questo legame affettivo vittima-aggressore potrebbe sembrare un fenomeno misterioso, può essere spiegato facilmente. Infatti, in situazioni di forte stress, gli individui sono predisposti ad instaurare rapporti con altri soggetti per combattere le aggressioni esterne. Quindi, il sequestratore che non maltrattata in nessun modo la sua vittima, ma anzi la comprende ed assiste, diventa un alleato per combattere l’evento stressante.

Anche nel senso opposto, cioè dal punto di vista dell’aggressore, avviene lo stesso. Unica condizione imprescindibile è che lo stesso non abbia una personalità di tipo antisociale, ossia un quadro patologico che il DSM-5 (APA, 2013) definisce come insieme di inosservanza e violazione dei diritti altrui, che di norma si manifesta durante l’adolescenza o nella prima infanzia e continua durante l’età adulta. Diversamente, un sequestratore con un disturbo antisociale della personalità, non ha interesse nella vittima e non prova nessun senso di colpa. Anzi, è pronto ad abusare e perfino uccidere i propri prigionieri se ciò è nei suoi interessi.

In conclusione, la Sindrome di Stoccolma è una condizione psicopatologica possibile, anche se molto rara. Non esiste un piano terapeutico specifico per chi ne soffre, infatti, è il tempo a ristabilire la normalità psichica della vittima.

 

L’eredità emotiva (2022) di Galit Atlas – Recensione del libro

Nato a partire dal dialogo intimo e profondo tra la psicoanalista Galit Atlas e i suoi pazienti, L’eredità emotiva: una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma” intreccia storie di traumi inimmaginabili e verità nascoste alla personale vicenda di perdita e trauma dell’autrice, il tutto sostenuto da una robusta prospettiva psicoanalitica e arricchito dalla ricerca psicologica più aggiornata.

 

All’origine della nostra incompiutezza ci sono storie mai raccontate, suoni spesso messi a tacere (Atlas, 2022, p.22).

Il presupposto essenziale è lo svelamento dell’eredità emotiva presente in ognuno di noi, con la volontà di spezzare il silenzio, esplorare le diverse sfaccettature del trauma ereditato, il suo impatto, e le modalità di andare oltre. Infatti, secondo Atlas, tutte le famiglie sono segnate da qualche storia traumatica – segreti taciuti, eventi di vita non completamente svelati ma conosciuti, in modo criptico, da altri, esperienze ridotte al silenzio – che i nostri antenati trasmettono come eredità emotiva, lasciando una traccia nella mente delle generazioni successive.

Il tentativo di mettere fine al ciclo intergenerazionale della sofferenza è ben espresso nella citazione, tratta dal libro del profeta Geremia, con cui Atlas apre il libro, nel desiderio che in futuro “non si dica più: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’” (Ger 31,29), un’implorazione affinché i figli non debbano più sopportare le conseguenze delle vite dei loro genitori e l’auspicio che la nostra eredità emotiva possa essere elaborata e modificata (Atlas, 2022).

Ecco alcuni degli interrogativi a cui si tenta di dare risposta, nel percorso di liberazione di parti di noi tenute in ostaggio da traumi del passato:

Come ereditiamo, tratteniamo ed elaboriamo vicende che non ricordiamo o che non abbiamo vissuto in prima persona? Che peso ha ciò che è presente ma non completamente conosciuto? Possiamo davvero tenere segrete alcune vicende familiari, e che cosa trasmettiamo alla generazione successiva? (G. Atlas, 2022, p. 19).

L’autrice sottolinea come, a partire dagli anni Settanta, le neuroscienze abbiano confermato quanto scoperto dalla psicoanalisi, ovvero che il trauma dei sopravvissuti e persino i segreti più oscuri, mai svelati a nessuno, influenzano davvero le vite delle generazioni successive.

Infatti, un vasto corpus di ricerche evidenzia la maggiore probabilità di presentare sintomi di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) successivamente a eventi traumatici o dopo essere stati testimoni di un evento violento, in una fascia di popolazione con una eredità emotiva fortemente traumatica: i figli dei sopravvissuti all’Olocausto, i figli di persone ridotte in schiavitù e i figli dei veterani di guerra o di genitori che hanno sperimentato altri traumi rilevanti.

Inoltre, se per anni l’eredità genetica è stata concepita come un destino irrevocabile, attualmente il campo dell’epigenetica propone una cornice innovativa per comprendere come natura e cultura si compenetrino e come gli esseri umani reagiscano all’ambiente a livello molecolare, sottolineando come i geni abbiano una “memoria” che può essere trasmessa da una generazione all’altra (Atlas, 2022). La duplice implicazione di queste nuove ricerche riguarda la trasmissibilità intergenerazionale del trauma e la possibilità di cambiare e modificare gli effetti del trauma con il lavoro psicoterapeutico. A tal proposito, Stephen Stahl (2012), professore di psichiatria alla University of California (San Diego) sostiene che la psicoterapia possa essere concettualizzata come un “farmaco epigenetico”, perché modifica i circuiti cerebrali in maniera simile o complementare alle sostanze farmaceutiche.

“L’eredità emotiva: una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma” si suddivide in tre sezioni, che ripercorrono gli effetti dei traumi ereditati dalle generazioni passate, partendo dai nonni per poi focalizzarsi sui genitori e, infine, sull’ultima generazione, quella dei figli.

La prima parte è incentrata sulla terza generazione di sopravvissuti, soffermandosi sul trauma di un nonno, sopravvissuto all’Olocausto, così come si presenta nella mente della nipote, sui fantasmi dell’abuso sessuale e gli effetti del suicido, come mito familiare irrisolto, nelle generazioni successive, sui residui di omofobia nella mente inconscia, sui segreti di un amore proibito, sull’infedeltà e la sua relazione con il trauma intergenerazionale. Di particolare rilievo il capitolo quarto, che introduce l’interessante metafora della radioattività del trauma, elaborata dalla professoressa Yolanda Gampel (2018) della Tel Aviv University per indicare i sintomi fisici ed emotivi, reminiscenze del trauma, che si diffondono nella vita delle generazioni successive, esito di una sorta di radiazione fisica ed emotiva di una catastrofe passata.

La seconda parte è incentrata sui segreti inconfessati della seconda generazione, quella dei genitori, quindi, esplora le verità indicibili risalenti all’infanzia e ai tempi antecedenti alla propria nascita. I segreti dell’infanzia vengono descritti come eventi informi e indefiniti alla base della nostra storia personale. Essi rappresentano gli scheletri della nostra esistenza, perché, pur rimanendo nascosti dentro di noi, sono proprio loro a plasmarci.

Atlas (2022) sottolinea come ciò che ereditiamo dai nostri antenati sono esperienze fantasmatiche, non completamente “vive” ma nemmeno del tutto “morte”; l’eredità emotiva prende la forma di fantasmi che vivono dentro di noi, nell’inconscio personale, spettri del non-detto e dell’indicibile, che ci perseguitano, impedendoci di vivere al massimo delle nostre possibilità.

Più in particolare, nella seconda sezione Atlas ripercorre le storie di perdita di un fratello e di una sorella, siano esse note o sconosciute, soffermandosi sull’impatto per i fratelli sopravvissuti, come l’esperienza di “congelamento emotivo” ossia di distacco emozionale dagli altri e da se stessi per sopravvivere alla perdita; propone una descrizione del lutto quale esperienza solitaria e privata, sviscera le sfaccettature della sofferenza per la perdita delle persone a noi care, della vita che avevamo con loro, del nostro vecchio Sé, rimarcando l’importanza di una mente Altra che ci aiuti a conoscere profondamente la nostra, per sentire e digerire la perdita e ciò che ne consegue a livello emotivo (la vergogna, la rabbia, l’identificazione con i morti, la colpa, persino l’invidia).

Si introduce il concetto di “bambini indesiderati”, frutto di gravidanze non desiderate, “persone che non sono state propriamente inviate in questo mondo” (Atlas, 2022), “ospiti indesiderati della famiglia” (Ferenczi, 1929), riportando la loro lotta incessante per rimanere in vita e non precipitare nel collasso emotivo (quello che Winnicott [1960] ha definito “falling forever”).

Infine, viene proposta un’analisi del trauma del soldato, soffermandosi sul desiderio inconscio di un paziente di guarire il trauma intergenerazionale dell’immigrazione arruolandosi nell’esercito, e si esplora il tema della paternità nell’interconnessione tra vulnerabilità e mascolinità, così come emergono nella relazione terapeutica.

Appare chiaro che venire a conoscenza di segreti sepolti e verità inconfessabili, per quanto delicato e doloroso sia, permette ai pazienti di smettere di vivere e incarnare quelle vicende nel proprio corpo, attraverso sintomi quali insonnia, mal di testa, pensieri ossessivi, incubi e fobie: “quando la nostra mente ricorda, il nostro corpo è libero di dimenticare” (Atlas, 2022, p. 126)

La terza parte del libro esplora i segreti tenuti nascosti a se stessi, le realtà troppo minacciose per essere conosciute o difficili da elaborare completamente, e la conseguente ricerca della verità, nei termini di un continuo processo di analisi delle nostre vite, di esplorazione del vero amore e della vera amicizia, di un lento processo di guarigione.

Guarire è un percorso denso di ambivalenza, colpa e vergogna. È un processo doloroso che riporta in vita i fantasmi del passato e sfida le nostre identificazioni interne nel percorso verso la liberazione (Atlas, 2022, p.227).

Nel corso degli ultimi capitoli, vengono tratteggiate storie di maternità, di lealtà e bugie, di abuso fisico, di amicizia e di perdita dolorosa, in una ricerca permanente di sé e della propria eredità emotiva, con la prospettiva ultima di rompere il ciclo del trauma intergenerazionale e crescere le generazioni successive con onestà, integrità e autenticità.

In definitiva, giungiamo alla conclusione che è la vita non analizzata degli altri che noi finiamo per vivere (Atlas, 2022, p. 262).

In una cornice psicoanalitica, viene esplorato l’uso che i pazienti fanno dei diversi meccanismi di difesa, come l’idealizzazione, l’identificazione con l’aggressore, la scissione, la proiezione: tendiamo a idealizzare quelli verso cui non vogliamo provare ambivalenza, spesso ci identifichiamo con il genitore abusante, scindiamo il mondo in buoni e cattivi per strutturarlo in modo sicuro e prevedibile, proiettiamo nell’altro sentimenti insostenibili per il sé e deneghiamo pensieri che, se resi consapevoli, ci provocherebbero un’ansia eccessiva (Atlas, 2022).

La rimozione e l’isolamento dell’affetto rappresentano i meccanismi di difesa emotiva centrale, in quanto proteggono l’individuo scindendo un ricordo dal suo significato emotivo, in modo tale che il trauma venga conservato nella mente come un evento “non particolarmente rilevante e importante”; di conseguenza, siamo protetti e anestetizzati dal provare qualcosa di troppo devastante ma al tempo stesso il ricordo traumatico resta isolato e inelaborato. Nei casi più drammatici, entra in campo il meccanismo della dissociazione, come reazione specifica al trauma, che rappresenta un violento attacco alla possibilità di comprendere il senso dell’esperienza, un attacco quindi all’essenza stessa della mente.

Nel corso delle tre sezioni, la psicoanalista Atlas ci accompagna in un viaggio impegnativo attraverso cui rivisitare i traumi familiari, svelare i segreti dell’infanzia, elaborare le perdite e l’impatto profondo che queste hanno avuto nella propria vita.

Sebbene i percorsi di guarigione differiscano fortemente l’uno dall’altro, come si evince dalle vignette cliniche presentate, tutti presentano un iniziale comune denominatore: la decisione, sofferta ma ferma, di cercare, di aprire la porta e camminare verso il dolore del passato, anziché voltargli le spalle.

Scegliamo di affrontare la nostra eredità emotiva e di essere agenti attivi nel trasformare il nostro fato in destino. (Atlas, 2022, p. 262)

Rivivere il dolore dei nostri antenati e disseppellire antichi segreti familiari costituisce, infatti, l’unico modo per sciogliere quel legame invisibile ma immobilizzante con il passato, al fine di poter, finalmente, immaginare un futuro possibile, ritrovare una traiettoria dal caos all’ordine, passare da uno stato di impotenza ad uno di agency, dalla distruttività del trauma alla ri-creazione della propria vita, alla realizzazione dei propri sogni.

 

I disturbi alimentari negli atleti di genere maschile

Gli atleti maschili cisgender riportano una maggiore possibilità di sviluppare dei disturbi alimentari rispetto alla popolazione maschile generale (Eichstadt et al., 2020). 

 

 Nonostante i disturbi alimentari siano sempre stati maggiormente presenti nella popolazione femminile, recenti ricerche riferiscono che circa il 25% della popolazione cisgender maschile soffre di questi disturbi (Eichstadt et al., 2020). I disturbi alimentari, infatti, non colpiscono esclusivamente il genere femminile, e col tempo i criteri per la diagnosi sono stati adattati anche ai pazienti di sesso maschile.

Tra i maschi in età universitaria, i comportamenti riguardanti i disturbi alimentari più frequenti risultano essere le abbuffate (7,9% della popolazione), l’esercizio eccessivo o compulsivo (4,4% della popolazione), il digiuno (4% della popolazione), l’autoinduzione del vomito (2,7% della popolazione) e l’utilizzo di diuretici o lassativi (1,6% della popolazione; Eichstadt et al., 2020). È importante notare che esiste una serie di fattori che può influire sul rischio di sviluppo di disturbi alimentari nella popolazione maschile, come i fattori psicologici, le aspettative riguardo al genere, l’accessibilità a numerosi contenuti riguardanti diete o esercizi, gli stereotipi di mascolinità e di muscolosità e i messaggi dei social media sulla forma del corpo ideale e sulla condanna del peso eccessivi.

La cultura dell’uomo sportivo nella società e lo sviluppo di disturbi alimentari

Gli atleti maschili cisgender riportano una maggiore possibilità di sviluppare dei disturbi alimentari rispetto alla popolazione maschile generale (Eichstadt et al., 2020).

In molti sport, dominati storicamente dal genere maschile come il calcio o il pugilato, l’atleta maschile è sempre stato percepito come stoico, infrangibile e dedito a raggiungere il massimo livello possibile, sacrificando il resto (Eichstadt et al., 2020). Ciò può essere dovuto a una cultura dello sport che implicitamente ha mantenuto saldo lo stereotipo dell’uomo forte e senza emozioni. Questa conformità dello sport verso la tradizionale visione dell’uomo come figura dominante, potente e capace di raggiungere un determinato status sociale, può aver gradualmente causato nella popolazione atletica maschile una forte insoddisfazione verso i propri muscoli e la loro forma, aumentando di conseguenza la probabilità di emettere comportamenti alimentari disfunzionali orientati all’aumento della massa muscolare e alla perdita di massa grassa.

In questo contesto, può essere molto difficile riconoscere la problematicità dei disturbi alimentari, che possono addirittura essere incoraggiati (Eichstadt et al., 2020). Infatti, la ricerca di aiuto potrebbe addirittura essere vista come un qualcosa di negativo, a causa della possibile vergogna verso lo stigma generale nei confronti degli atleti, come lo stereotipo citato precedentemente di uomo forte e stoico, o una visione negativa e prevenuta verso chi ha problematiche di salute mentale in generale.

 Un altro possibile motivo che potrebbe frenare un atleta maschile dal chiedere aiuto riguardo a una problematica alimentare potrebbe essere proprio il fatto che i disturbi alimentari sono visti nella società come complicazioni prevalentemente appartenenti al genere femminile, e ciò potrebbe ulteriormente contrastare un’intenzione di richiesta di aiuto da parte di un individuo che cerca di raggiungere l’ideale di atleta sportivo perfetto.

Le conseguenze dei disturbi alimentari nell’atleta

Il continuo investimento di tempo da parte dello sportivo nel seguire lo stile di vita atletico, oltre all’impegno fisico e psicologico richiesto dalla competizione, può incrementare la vulnerabilità verso i disturbi alimentari (Eichstadt et al., 2020).

Gli atleti, infatti, seguono normalmente diete rigide e regimi di allenamento intensivo al fine di ottimizzare la propria performance, con il rischio di entrare in uno stato di malnutrizione a causa del basso apporto calorico, comportando così un deficit di energia (Eichstadt et al., 2020). Ciò può causare una serie di effetti dannosi, come danni a diversi sistemi organici, minore densità minerale muscolare, riduzione del testosterone, fragilità nei tendini e nei muscoli, con conseguente aumento del rischio di infortuni, diminuendo così le performance atletiche.

Inoltre, è possibile che l’atleta arrivi a sviluppare un ciclo di comportamenti negativi, come un individuo che cerca di ridurre il proprio grasso corporeo e aumentare la massa muscolare utilizzando tecniche disfunzionali e dannose, come l’utilizzo di steroidi anabolizzanti.

Infine, anche il burnout e la sindrome da sovrallenamento possono aumentare la predisposizione allo sviluppo di disturbi alimentari.

I disturbi alimentari negli sport sono quindi una realtà nel mondo degli atleti maschili e, nonostante siano più frequenti di quanto si immagini, tendono a essere sottovalutati e mal diagnosticati (Eichstadt et al., 2020). I coach, gli allenatori e i medici professionisti dello sport dovrebbero essere maggiormente incoraggiati a monitorare gli atleti, controllando la possibile presenza di segni e sintomi che possono ricondurre a disturbi alimentari, e intervenire tempestivamente e con le modalità funzionali alla gestione di tali problematiche.

 

Accessibilità, efficacia e applicabilità dei trattamenti – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 9

Questo numero e i successivi costituiscono una nuova sezione della rubrica, che si concentra sulle domande poste dagli Esperti del Comitato Promotore e Scientifico alla Giuria. Saranno sintetizzate importanti informazioni contenute nella prima parte del documento della Consensus Conference, ovvero la Relazione per la Giuria, e le rispettive raccomandazioni suggerite. 

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 9) Accessibilità, efficacia e applicabilità dei trattamenti

 

 Il Gruppo di Esperti che si è occupato del Tema A ha affrontato questioni riguardanti l’accessibilità, l’efficacia e l’applicabilità delle linee guida e delle terapie per i disturbi mentali comuni (DMC), come ansia e depressione, in Italia.

Quesito A1: lo stato dell’arte

Qual è lo stato attuale delle conoscenze relativamente all’accesso delle persone con disturbi d’ansia e depressivi alle cure, alle evidenze scientifiche di efficacia teorica e nella pratica, e all’appropriatezza dei trattamenti, psicologici e non dei disturbi d’ansia e depressivi?

Gli studi disponibili, necessari per rispondere a tale quesito, risalgono agli inizi degli anni duemila e delineano purtroppo un quadro non roseo rispetto alla situazione europea e statunitense. Sebbene la maggior parte dei Paesi industrializzati garantisca l’accesso alle cure a tutti coloro che soffrono di disturbi mentali, dai dati emerge che molti pazienti con DMC non si rivolgono ai professionisti del settore né ai servizi sanitari in generale (Bebbington et al., 2000; Kessler et al., 1997; Wang et al., 2005). Inoltre, la porzione di pazienti che vi si rivolge spesso non riceve trattamenti adeguati (Bebbington et al., 2000; Kessler et al., 1997; Lepine et al., 1997; Young et al., 2001).

In merito alla situazione italiana, la migliore fonte risulta essere l’indagine europea ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders; de Girolamo et al., 2005), l’unico studio sulla prevalenza dei DMC condotto in Italia. Lo studio ESEMeD rivela l’ampia diffusione di questi disturbi e la scarsa richiesta di assistenza medica specializzata pubblica o privata. Nello specifico, è stato stimato che, nell’arco di un anno, circa due milioni e mezzo di italiani soffrono di un disturbo d’ansia e oltre un milione di depressione maggiore; di questi, solo una modesta percentuale si è rivolta a specialisti nel corso dei 12 mesi, il 21% in ambito pubblico e il 17% in ambito privato. Inoltre, di coloro che richiedono aiuto, solo lo 0,39% (depressione) e lo 0,23% (sindromi “nevrotiche” o somatoformi) viene trattata nel corso di un anno (Di Cesare et al., 2019).

Ciò che gli Esperti sottolineano è che, sebbene ci siano pochi studi recenti in Italia, ad oggi non ci sono motivi per credere in un cambiamento significativo: l’accessibilità di persone che soffrono per DMC è bassa, l’offerta di cura risulta carente e “scollegata dai dati epidemiologici” (ISS, 2022).

Un altro aspetto che necessita di approfondimento riguarda le terapie psicologiche utilizzate in Italia e la loro appropriatezza nel contesto italiano.

 Nella loro relazione, gli Esperti suggeriscono di migliorare le risorse strutturali e organizzative presenti sul nostro territorio, quali il Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale (PANSM), i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e il Piano Nazionale Cronicità (PNC). Data l’organizzazione sanitaria del nostro Paese – approfondita nel numero 6 di questa rubrica – attualmente tali disposizioni si concretizzano in una realtà frammentata e diversificata, che a livello nazionale rende eterogenei i dati sugli accessi e le risposte psicologiche offerte per l’assistenza dei DMC. Perciò, le politiche sanitarie stanno indirizzando l’assistenza psicologica in modo trasversale ai diversi contesti del SSN, rafforzando la rete dei servizi di base (per es., case di comunità, consultori, ecc).

Considerata la complessità del problema – soprattutto alla luce della crisi psicosociale esito della pandemia – gli Esperti consigliano di creare un gruppo di lavoro con rappresentanti di organizzazioni istituzionali, di società professionali e stakeholder per la stesura di Raccomandazioni ministeriali, con l’obiettivo di costruire un’azione sistemica e strategie finalizzate alla prevenzione e al trattamento efficiente ed efficace dei DMC.

Raccomandazioni A1

Il Gruppo di Esperti che si è occupato di questo tema evidenzia alcuni punti su cui è bene intervenire nell’ottica di un miglioramento dell’offerta del SSN in materia di salute mentale.

  • Riconoscimento, classificazione e uniformità. Ansia e depressione dovrebbero essere riconosciute tempestivamente e classificate in base all’intensità dei sintomi, al fine di contenere l’eccesso di medicalizzazione nelle forme lievi che non lo richiedono. Inoltre, l’applicazione dei criteri diagnostici deve essere uniforme in modo da poter essere condivisa tra i differenti operatori e istituzioni coinvolte.
  • Prove di efficacia. L’impiego di trattamenti basati su prove di efficacia è raccomandato come trattamento di prima linea, compatibilmente con il livello di intensità dei sintomi riferiti e osservati.
  • Comunicazione. Al fine di creare una rete di servizi capace di fornire cure personalizzate e adeguate ai bisogni dei pazienti, dovrebbe essere sviluppato un sistema di comunicazione tra cure primarie e specialistiche territoriali e ospedaliere.
  • Monitoraggio. Promuovere lo sviluppo di un sistema di monitoraggio degli esiti degli interventi realizzati, sia in strutture pubbliche che private, è utile per l’accreditamento delle strutture che erogano trattamenti, la produzione di dati utili per generare nuove ipotesi di ricerca nel campo della pratica psichiatrica e farmacoterapica e la promozione di attività formative aggiornate.
  • Approfondimento di infanzia e adolescenza. È necessario l’approfondimento degli aspetti specifici relativi a infanzia e adolescenza, l’incremento della ricerca ad essi dedicata e lo sviluppo di nuovi modelli di ricerca e analisi degli esiti adatti a queste fasce d’età.
  • Omogeneità dell’offerta. Si raccomanda di promuovere iniziative volte ad attuare quanto appena evidenziato dagli Esperti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, evitando che si creino squilibri e frammentazioni.
  • Varietà dell’offerta. Poiché non vi sono differenze clinicamente significative nell’efficacia tra i singoli interventi, si consiglia di considerare attentamente l’erogazione di diverse psicoterapie strutturate, purché se ne valuti e monitori sistematicamente gli esiti.

 

Comunicare scorrettamente lo stress rappresenta un potenziale rischio iatrogeno?

Le scienze psicologiche e mediche che si occupano di Stress, sebbene con tutti i loro attuali limiti concettuali, ci offrono alcune indicazioni fondamentali per la nostra salute ed il nostro benessere. Tra queste preziose indicazioni vi è il fatto che esiste uno Stress Positivo ed uno Negativo e che ciò che pensiamo dello Stress determina la gestione di questo importante meccanismo psicofisico.

 

Se queste premesse sono vere allora la comunicazione sia divulgativa che tecnica relativa allo Stress dovrebbe essere rivista alla luce delle suddette indicazioni scientifiche al fine di promuovere la salute ed il benessere umano ed evitare un danno causato da una pericolosa concezione dello Stress che promuoviamo attraverso un’errata comunicazione.

In particolare, i professionisti del benessere psicofisico umano (psicologi, medici, psichiatri, ecc.), coerentemente con le evidenze scientifiche attualmente disponibili, dovrebbero promuovere una corretta informazione sullo Stress per evitare un potenziale rischio iatrogeno causato da una pericolosa disinformazione che danneggia i destinatari della loro comunicazione.

Esistono implicazioni deontologiche di questo possibile rischio iatrogeno (dovuto quindi all’operato del professionista) legate alla disinformazione promossa dai professionisti nei confronti dei loro assistiti che, comunicando loro concetti potenzialmente dannosi quali “ridurre lo Stress”, “annullare lo Stress”, “combattere lo Stress”, “eliminare lo Stress”, “tecniche antistress”, “vincere lo Stress”, “superare lo Stress” e simili, promuovono in loro un potenziale danno psicofisico.

Queste espressioni sono accattivanti dal punto di vista comunicativo perché sono semplicistiche (quindi efficaci dal punto di vista anche commerciale), ma sono altresì fuorvianti, confusive e soprattutto non scientifiche.

Per i professionisti del benessere psicofisico le suddette espressioni (“vincere lo Stress”, “superare lo Stress”, etc.), ed in genere una comunicazione errata dello Stress, sono anche scorrette dal punto di vista deontologico perché, essendo scientificamente errate, promuovono una visione monolitica e polarizzata in senso esclusivamente negativo dello Stress che sappiamo essere pericolosa per la salute psicofisica umana.

La letteratura scientifica attualmente disponibile sullo Stress indica infatti che esso è un meccanismo psico-neuro-endocrino-immunologico fondamentale per il nostro benessere e la nostra salute psicofisica.

Il concetto di Stress maggiormente condiviso all’interno della comunità scientifica assume che esso corrisponda ad una caratteristica attivazione psico-neuro-endocrina-immunologica finalizzata a risolvere una situazione potenzialmente pericolosa per l’omeostasi dell’organismo.

Chrousos e Agorastos (Agorastos & Chrousos, 2021) sintetizzano così il concetto classico di Stress:

Lo stress è definito da uno stato di minaccia all’equilibrio omeodinamico da un’ampia gamma di sfide o stimoli intrinseci o estrinseci, reali o percepiti, definiti come fattori di stress. Per preservare questo stato omeodinamico ottimale all’interno di un intervallo fisiologico, gli organismi hanno sviluppato un sistema altamente sofisticato, il sistema dello stress, che serve all’autoregolazione e all’adattabilità dell’organismo mediante il re-indirizzamento dell’energia in base alle esigenze presenti.

Tale definizione, sebbene molto elegante, non coglie la reale complessità delle dinamiche che possiamo ricondurre al meccanismo dello Stress perché, come molte altre definizioni (McEwen, 2007; Sapolsky, 2006; Chrousos, 2009) si rifanno alla situazione in cui l’unica funzione dello Stress è quella di garantire e difendere attivamente l’equilibrio omeostatico (o allostatico) escludendo però la situazione in cui l’organismo sta aumentando la propria complessità bio-psico-sociale (Agnoletti, 2022; Agnoletti, in press).

Se così non fosse allora la definizione classica di Stress dovrebbe inglobare anche contesti in cui lo Stress non avrebbe esclusivamente una funzione strettamente biologica ma servirebbe anche per raggiungere scopi psicologici e socioculturali lontani logicamente dalla teleonomia biologica legata alla preservazione della sopravvivenza (Agnoletti, 2019a; McEwen & Akil, 2020).

Eustress e distress

Comunque, anche rimanendo all’interno del paradigma classico di Stress, è attualmente largamente condiviso dalla comunità scientifica il fatto che vi sia uno Stress Positivo (Eustress) ed uno Negativo (Distress) e che mentre il primo sottolinei il valore adattativo positivo per l’organismo (in qualità di meccanismo per assicurare la nostra sopravvivenza), il secondo evidenzia la potenziale pericolosità per il benessere e la salute umana di questo meccanismo se adottato in contesti evoluzionisticamente distanti da quelli originariamente previsti.

In altri termini sappiamo con sicurezza che lo Stress possiede sia un valore negativo, Distress, che positivo, Eustress, ma sappiamo anche con altrettanta solidità (Crum, Salovey, & Achor, 2013; Epel et al., 2004; Jamieson, Nock, & Mendes, 2012; Keller et al., 2012) che l’insieme di informazioni specifiche che possediamo a livello cognitivo relative al concetto di Stress determinano la probabilità di avere un impatto positivo o negativo per il nostro benessere e la nostra salute.

Ad esempio, nello studio del 2012 la dott.ssa Keller e colleghi (Keller et al., 2012), hanno misurato per otto anni a quasi trentamila statunitensi il livello di Stress e chiesto loro se pensassero che lo Stress influenzasse negativamente o meno la loro salute.

La ricerca ha dimostrato che ad alti livelli di Stress si associava un aumento del rischio di morte del 43% ma questo era vero solo per coloro che ritenevano che lo Stress potesse unicamente danneggiare la propria salute.

Le persone invece che riportavano ugualmente elevati livelli di Stress, ma che non lo consideravano unicamente come dannoso ma anche positivo, non avevano probabilità maggiori di morire anzi, la loro condizione si associava ad un rischio di morte più basso rispetto a qualunque altro individuo coinvolto nell’indagine, persino più basso rispetto coloro che avevano riferito di aver sperimentato poco Stress, ma che lo consideravano unicamente come dannoso.

In altre parole, i ricercatori hanno dimostrato che la dimensione cognitiva psicologica relativa al “cosa” crediamo dello Stress influenza la nostra aspettativa di vita cioè quanto vivremo e con quale qualità di vita, perché ad aumentare la probabilità di morire è la convinzione che lo Stress sia unicamente un fenomeno nocivo, non il “quanto” ci si sente stressati.

Considerando questa ed altre ricerche simili, la percezione dello Stress intesa come insieme di conoscenze cognitive relativamente al concetto di Stress che hanno conseguenze psico-neuro-endocrino-immunologiche sulla sua gestione psicofisica, risultano essere un fattore fondamentale nel determinare il benessere e la salute umana.

Dalla letteratura scientifica emerge quindi la necessità di considerare anche la natura cognitiva psicologica relativa al “cosa” pensiamo dello Stress per valutarne gli effetti psicofisici, quindi, continuare a considerare lo Stress e comunicarlo in termini di qualcosa solo da “annullare”, “combattere”, “vincere”, “superare”, “eliminare” etc., risulta essere riduzionistico ed impreciso oltre che ascientifico e pericoloso perché promuove un concetto che favorisce un rischio psicofisico ormai dimostrato.

Dal punto di vista tecnico, da parte dei professionisti del benessere e la salute umana, l’errata comunicazione del concetto di Stress si configura come un possibile rischio iatrogeno cioè come un danno arrecato all’assistito dovuto all’intervento errato effettuato dal professionista.

In particolare, gli psicologi e i medici, che studiano con molto interesse i potenti fenomeni dell’effetto placebo/nocebo (Benedetti, 2010; Benedetti et al., 2010; Benedetti, 2012), dovrebbero essere maggiormente attenti e sensibili nella comunicazione dello Stress che utilizzano con i loro assistiti proprio perché dovrebbero avere un’alta competenza, consapevolezza e responsabilità riguardo a queste tematiche.

 

L’alessitimia nell’Internet Gaming Disorder

In un confronto tra giocatori di videogiochi regolari e occasionali, i giocatori regolari hanno riportato livelli maggiori di alessitimia e difficoltà nella reattività alle emozioni.

 

Introduzione all’alessitimia

 L’alessitimia è un costrutto clinico (ovvero un concetto psicologico) che fa riferimento alla scarsa abilità nell’identificare e nel descrivere le emozioni, accompagnata da scarsa consapevolezza e interocezione (Runcan, 2020). È una difficoltà sia di tipo cognitivo, che rende difficile l’identificazione, l’analisi e la verbalizzazione dei sentimenti, sia di tipo affettivo, che rende difficoltoso discutere di sentimenti ed emozioni proprie o altrui. È quindi una problematica che interferisce con le modalità con cui l’individuo esperisce ed esprime normalmente le emozioni.

Esistono diversi tipi di alessitimia:

  • l’alessitimia primaria, ovvero il risultato dell’interazione tra fattori genetici e ambientali, è un fattore di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi mentali;
  • l’alessitimia secondaria, ovvero la conseguenza di un disturbo mentale che causa difficoltà psicologiche o somatiche;
  • l’alessitimia organica, detta anche cecità emotiva acquisita, un sottotipo dell’alessitimia secondaria, presente nei pazienti con lesioni cerebrali (Runcan, 2020).

L’alessitimia sembra essere leggermente più frequente negli adolescenti rispetto ad altre classi di età, con una prevalenza del 8,5% negli adolescenti di 15-16 anni, del 7% nel genere maschile e del 10% nel genere femminile rispetto alla popolazione generale (Runcan, 2020).

Le cause dell’alessitimia negli adolescenti si possono collocare durante i periodi dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza; tra le varie cause, una di queste può essere la Dipendenza da Internet e l’Internet Gaming Disorder (Runcan, 2020).

La relazione tra alessitimia e Internet Gaming Disorder

I videogiochi sono il prodotto culturale più venduto al mondo (Bonnaire e Baptista, 2019). Tra coloro che passano il loro tempo con i videogiochi, gli adolescenti e i giovani adulti sono la classe di persone che ne fa un utilizzo maggiore. Per molti di loro, giocare ai videogiochi rimane un’attività puramente ricreativa, ma alcuni individui ne fanno un utilizzo eccessivo, e ciò può comportare conseguenze negative.

Infatti, è stato identificato un disturbo legato all’utilizzo eccessivo dei videogiochi, specialmente quelli online, denominato Internet Gaming Disorder. Molti clinici e ricercatori hanno riportato che diversi adolescenti presentano sintomi di un uso problematico dei videogiochi, similmente ad altri disturbi da dipendenza.

Sono state riscontrate molte similitudini tra i sintomi dell’Internet Gaming Disorder e altri disturbi da dipendenza, come ad esempio i particolari tratti di personalità come l’impulsività, la bassa autostima e la ricerca di sensazioni forti, elementi tipici dei disturbi da dipendenza e identificati anche nell’Internet Gaming Disorder.

Alcune ricerche hanno dimostrato anche una similitudine per quanto riguarda la difficoltà nella regolazione delle emozioni, che è stata riscontrata sia nei disturbi da abuso di sostanze, sia nel gioco patologico e, più recentemente, nell’Internet Gaming Disorder.

 In un confronto tra giocatori di videogiochi regolari e occasionali, i giocatori regolari hanno riportato una minore espressività emotiva, con livelli maggiori di alessitimia e difficoltà nella reattività alle emozioni. Infatti, sembra che la difficoltà nella regolazione delle emozioni sia un fattore di rischio importante per l’Internet Gaming Disorder.

Molti studi hanno dimostrato che i comportamenti da dipendenza sono associati con l’alessitimia (Bonnaire e Baptista, 2019). Inoltre, l’alessitimia sembra essere fortemente correlata anche con ansia e depressione, entrambi elementi che risultano essere presenti nell’Internet Gaming Disorder. Sembra inoltre che la popolazione maschile tenda a essere soggetta a questo disturbo molto più frequentemente rispetto al genere femminile, e questo potrebbe essere dato dal fatto che i maschi tendono a regolare di meno le loro emozioni, vivendole con meno intensità, oltre che a esprimerle meno spesso rispetto alla controparte femminile.

L’alessitimia sembra quindi essere un elemento spesso presente nell’Internet Gaming Disorder, e potrebbe quindi essere utile utilizzare dei test per valutare specificamente questa parte per poter effettuare un percorso di psicoterapia corretto (Runcan, 2020).

 

Lego® Serious Play®: il valore della creatività nell’apprendimento

Lego® Serious Play® (Kristiansen e Rasmussen, 2014) è uno strumento di pensiero, di comunicazione e di problem-solving, una metodologia utilizzata soprattutto (ma non solo) in contesti aziendali per l’accelerazione di processi decisionali, la riflessione condivisa e la creazione di consapevolezza su problemi comuni nel team di lavoro. 

 

Se ascolto dimentico
Se vedo ricordo
Se faccio capisco
(Antico proverbio cinese)

Questa metodologia nasce a inizio degli anni Duemila all’interno di Lego® Group Spa come strumento funzionale a risolvere la crisi che l’azienda sta attraversando. Gli studi sulle potenzialità della creatività compiuti nella business school svizzera International Institute for Management Development, con cui da subito inizia una proficua collaborazione, costituiscono l’orizzonte teorico di riferimento.

Il core process della metodologia si basa sul processo di costruzione mediante i mattoncini Lego®, che ogni partecipante è invitato a fare a partire dal tema proposto. Nella fase di condivisione del lavoro individuale emergono le storie, le narrazioni originali che ognuno porta. Dato che il tema scelto ha attinenza con una dimensione problematica e/o ritenuta fondamentale per il team di lavoro, l’esplorazione dello stesso permette di attivare un sentire comune e una riflessione condivisa che sono funzionali alla crescita e alla consapevolezza di ognuno all’interno del gruppo e al miglioramento della vita del gruppo stesso.

Lego® Serious Play®: Hand knowledge

La costruzione dei modelli con i mattoncini su un tema comune permette ad ogni partecipante di esprimere concetti che potrebbe non saper dire a parole, dato che attinge a una forma di conoscenza di cui spesso non si è consapevoli, basata sul legame tra percezioni, immaginazione e creatività, di natura intuitiva. Si tratta della conoscenza basata sulla costruzione con le mani, ‘conoscenza manuale’ o hand knowledge. Essa si fonda su modalità di pensiero concrete, sul “pensare con le mani”, per riprendere le parole di Maria Montessori (1936).

Kristiansen e Robert Rasmussen descrivono come all’interno dei corsi condotti con la metodologia Lego® Serious Play® sia estremamente funzionale dare indicazioni in tal senso ai partecipanti. Frasi come “Fidati delle tue mani!” o “Non pensare, costruisci!” sono sia un indirizzo della direzione da prendere, che non è quello del pensare tradizionalmente inteso (pensiero razionale, logico-astratto, matematico) sia un contenimento rassicurante in grado di sedare l’ansia di essere di fronte a un compito nuovo, da svolgere con metodologie non usuali. I partecipanti raccontano allora che, guidati dall’indicazione di iniziare semplicemente a costruire con i mattoncini, sono passati da uno stato di iniziale confusione all’intuizione della loro particolare e unica risposta alla domanda del facilitatore.

Lego® Serious Play®: Legame tra mano e cervello

Questo intimo legame fra mano e cervello è evidente anche nella fisiologia cerebrale umana: dagli studi di un famoso neurochirurgo, Wilder Penfield (Penfield e Boldrey, 1936), sappiamo che le aree cerebrali relative ad alcune parti del corpo sono più grandi di quelle relative ad altre. Egli ha infatti elaborato una mappa del cervello nella quale spicca per grandezza la parte deputata alla gestione sia sensoriale che motoria della mano. Appare evidente come, quando si costruisce con le proprie mani, si attiva una parte consistente del cervello.

Gli studi paleontologici confermano l’importanza della connessione tra mano e cervello: con la comparsa del pollice opponibile è stato possibile iniziare a costruire utensili funzionali alle varie attività, come ad esempio tagliare, spaccare, schiacciare, limare. L’ingrandimento del cervello corrisponde proprio a questo periodo nella storia evolutiva dell’uomo. La specie umana si è dunque evoluta anche grazie a questo collegamento tra la mano e il cervello, che ha permesso all’uomo di conoscere e interagire con il proprio ambiente, costruendo la propria conoscenza del mondo.

Lego® Serious Play® e apprendimento

Il metodo Lego® Serious Play® non è dunque “..solamente uno strumento di visualizzazione ma un modo di pensare, con gli oggetti e per mezzo delle mani, finalizzato a sprigionare energie creative, modalità cognitive e modi di vedere che gli adulti generalmente hanno dimenticato di avere mai posseduto” (Kristiansen e Rasmussen, 2014).

Si tratta di uscire dalle modalità tradizionali di contesti di apprendimento e lavoro, secondo le quali quando si riflette e si ragiona si utilizzano i canali tipici del pensiero verticale, logico-matematico, come quello verbale, sequenziale, logico, analitico. Si tratta di accedere a un altro tipo di pensiero: quello laterale, creativo-esplorativo, che procede in modo libero, per salti, seguendo linee inusuali e probabilistiche, in grado di aprire nuove possibilità di esplorazione. Nella metodologia Lego® Serious Play® questo tipo di pensiero viene attivato dall’agire concreto, dalla costruzione di modelli, componendo i mattoncini con le mani.

Il valore della metodologia Lego® Serious Play® consiste proprio nel permettere alle persone di attivare in modo completo tutte le dimensioni: cognitiva, affettiva, corporea. Si tratta di un modo completo di analizzare eventi, situazioni e difficoltà e di attribuire significati all’esperienza, attivando non solo processi razionali ma anche processi inconsci, emotivi e intuitivi.

 

Un dolore nascosto (2021) di Gaia Cusini – Recensione

Lo scopo che Gaia Cusini vuole raggiungere col suo libro Un dolore nascosto, indirizzato principalmente ai professionisti della salute mentale, è di rendere visibile il dolore vissuto dai figli di persone affette da disturbi mentali. Se il dolore non è più nascosto si potrà creare un ponte, una rete, tra le famiglie e chi si occupa di prevenzione e cura della malattia mentale

 

 Gaia Cusini è la vicepresidente e co-fondatrice dell’associazione CMIP (figli di genitori con disturbo mentale) ed è l’autrice del libro dal titolo “Un dolore nascosto”. L’opera della Cusini è stata pubblicata nel 2021 da Umbria Volontariato Edizioni nella collana no profit nata all’interno del Bando “Un invito a proporre idee e contenuti per pubblicazioni sulle tematiche sociali e di interesse per il volontariato, annualità 2018”. Quest’opera è stata presentata al salone del libro di Torino nel 2022.

Il manuale scritto dalla Cusini è una prosecuzione del lavoro, fatto dall’autrice, per la propria tesi di laurea in pedagogia. Lo scopo che Gaia Cusini vuole raggiungere, con questo libro, indirizzato principalmente ai professionisti della salute mentale, è di rendere visibile, parlandone, il dolore vissuto dai figli di persone affette da disturbi mentali. Se il dolore non è più nascosto si potrà creare un ponte, una rete, tra le famiglie e chi si occupa di prevenzione e cura della malattia mentale, come ben spiegato dalle parole dell’autrice:

Io faccio parte di una minoranza. Sono parte di coloro che grazie ad alcuni fattori protettivi e una quantità di resilienza enorme è emersa da qualcosa di troppo doloroso e difficile. Questo non è un vanto, sono una sopravvissuta e ho lottato fino allo stremo delle forze per questo. Non mi consola sapere che io ce l’ho fatta perché per una persona come me ce ne sono molte di più che invece non ce la fanno. E questa non è una colpa. Ognuno di noi ha il dovere morale di prenderne atto. Ma possiamo fare qualcosa perché sia meno difficile farcela. Possiamo parlarne. Possiamo mettere in campo tutti gli strumenti di prevenzione che abbiamo. (G.  Cusini)

Si stima (dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) che nel mondo circa 480 milioni di persone soffrano di un disturbo mentale e che circa il 25% di queste hanno dei figli.

I bambini e i ragazzi, i cui padri o madri sono affetti da malattia mentale, non sempre ricevono un supporto che li aiuti a comprendere ciò che sta accadendo. A volte si ritrovano ad essere i caregiver dei propri genitori, altre volte debbono combattere con lo stigma che la malattia mentale sia ereditaria. Per loro è difficile elaborare i possibili traumi e vivere serenamente l’età dello sviluppo. La letteratura dimostra invece che, se si interviene tempestivamente, offrendo supporto, la probabilità che alcuni di questi ragazzi possano sviluppare, a loro volta, un disagio mentale si riduce.

Il manuale di Gaia Cusini è il risultato di un’approfondita ricerca condotta dall’autrice in modo rigoroso, il metodo utilizzato è quello fenomenologico eidetico con elementi della grounded theory. Uno spazio importante è riservato al concetto di resilienza e del suo sviluppo attraverso la valorizzazione delle caratteristiche positive, possedute da ciascuno, anche quando si vivono esperienze dolorose. L’opera della Cusini termina con un’appendice nella quale sono riportate una serie di interviste rivolte alle persone del primo gruppo di auto mutuo aiuto online italiano “Figli di Persone con Disturbo Mentale”, creato, nel 2011, da Stefania Buoni, presidente e co-fondatrice dell’Associazione COMIP.

Il manuale della Cusini è uno strumento di riflessione per tutti coloro che operano nell’ambito della salute mentale:

Non è una consolazione essere sopravvissuti ad una guerra. La consolazione è che altri non debbano affrontare quella guerra (G. Cusini).

 

Le cause e le funzioni del pianto nel disturbo borderline di personalità

Uno studio di Peter e colleghi del 2019 ha avuto come obiettivo quello di esaminare la frequenza del pianto, la propensione al pianto in situazioni positive e negative, la consapevolezza dell’impatto delle lacrime sugli altri, il grado di controllo sul pianto e l’inibizione del pianto in un gruppo di pazienti con disturbo borderline di personalità.

 

Le emozioni nel disturbo borderline di personalità

La letteratura scientifica ha spesso dimostrato che i pazienti con disturbo borderline di personalità (DBP) sono emotivamente instabili e iper-reattivi (Lobbestael e Arntz, 2015). Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), include tra i criteri per una diagnosi di DBP, un’instabilità affettiva marcata, caratteristica distintiva dei pazienti con tale disturbo (APA, 2013). La teoria biosociale postula che la disregolazione delle emozioni nel DBP include un’elevata sensibilità agli stimoli emotivi, delle reazioni emotive insolitamente forti, un’insorgenza frequente di diverse emozioni contemporaneamente e problemi nell’identificazione delle emozioni (Linehan, 1993). Tale instabilità emotiva spesso si riflette in alcuni comportamenti come un’elevata tendenza al pianto, sebbene gli studi abbiano trovato risultati discordanti su questo argomento: non tutti sono riusciti a dimostrare che i pazienti con disturbo borderline di personalità presentano un aumento delle risposte psicofisiologiche alle immagini negative (Domes et al., 2009); altri studi self report hanno suggerito che i pazienti borderline non presentano una maggiore reattività emotiva rispetto ad un campione non clinico (Kuo et al., 2016). Diversi autori, però, hanno riportato un livello più elevato di emozioni spiacevoli nei pazienti con DBP, rispetto a un gruppo di controllo clinico (Stein, 1996). Levine e colleghi (1997), applicando tecniche di induzione delle emozioni, hanno osservato una maggiore iper-reattività e una maggiore intensità delle emozioni negative nei pazienti con disturbo borderline di personalità.

I significati e le funzioni del pianto

Il pianto emotivo umano è concettualizzato come la fuoriuscita di lacrime dall’apparato lacrimale in assenza di qualsiasi irritazione degli occhi, spesso accompagnata da vocalizzazioni, singhiozzi e aumento dell’attività di alcuni muscoli facciali (Patel, 1993). La fuoriuscita di lacrime avviene infatti solo negli esseri umani in risposta a eventi emotigeni positivi o negativi, poiché hanno un impatto considerevole sulla percezione del bisogno di sostegno e sulla disponibilità a fornire assistenza e conforto a livello automatico e pre-attentivo (Vingerhoets e Bylsma, 2016).

Alcuni autori hanno ipotizzato che il pianto umano avesse una funzione intra-individuale e una inter-individuale (Vingerhoets e Bylsma, 2016). La prima fa riferimento agli effetti che una persona può avere tramite il pianto, ovvero il recupero emotivo o l’esperienza di miglioramento e sollievo dell’umore che può seguire il pianto (Frey e Langseth, 1985), sebbene alcuni sostengano che non sempre il pianto porti a un miglioramento dell’umore ma che è più probabile che i benefici derivino da reazioni positive delle persone che assistono. In questo caso si tratta invece di funzioni inter-individuali, come evidenziato dalla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1980) che sottolinea come il pianto sia un appello dei bambini alla madre o ad altri caregiver per ottenere la loro presenza e attenzione. Il pianto degli adulti svolgerebbe quindi la funzione di inibire gli impulsi aggressivi di coloro che osservano e di stimolare l’empatia e i comportamenti pro-sociali come risposte di cura o protezione, facilitando il legame sociale (Gračanin et al., 2018). Talvolta, però, il pianto può suscitare nell’altro rabbia e aggressività, se è considerato inappropriato o manipolativo.

 Oggi i dati suggeriscono che le differenze individuali nella tendenza al pianto dipendono dall’età, dal sesso, dalla personalità, dalle condizioni neurologiche e dalla psicopatologia. Un attaccamento ansioso e l’empatia, per esempio, sono associati ad un aumento della frequenza del pianto; diversamente accade per un attaccamento evitante che sembra invece diminuirla (Laan et al., 2012).

Il pianto nel disturbo borderline di personalità

Per approfondire le conoscenze e le funzioni del pianto, uno studio di Peter e colleghi del 2019 aveva come obiettivo quello di esaminare la frequenza del pianto, la propensione al pianto in situazioni positive e negative, la consapevolezza dell’impatto delle lacrime sugli altri, il grado di controllo sul pianto e l’inibizione del pianto, confrontando un gruppo di pazienti borderline, un gruppo di pazienti con disturbo di personalità appartenenti al cluster C (Cluster C-PD) e un gruppo di controllo non clinico. Gli autori ipotizzavano che i pazienti con DBP riportassero una frequenza di pianto più elevata rispetto ai gruppi di confronto a causa degli elevati livelli di nevroticismo e un’elevata comorbilità con i disturbi depressivi; avessero una maggiore propensione al pianto in situazioni negative per la loro ipersensibilità emotiva per i segnali negativi; avessero maggiori difficoltà nel controllare il pianto e una maggiore inibizione, per i problemi di regolazione emotiva caratteristici dei borderline; infine, che avessero una maggiore o minore consapevolezza e propensione al pianto in situazioni positive. 141 soggetti suddivisi nei tre gruppi sono stati reclutati e sono state sottoposte loro alcune misure per valutare la propensione, la frequenza, la consapevolezza dell’impatto interpersonale del pianto e l’inibizione e il controllo. I risultati mostrano che, i pazienti con DBP, rispetto al gruppo non clinico, hanno una frequenza di pianto più elevata, nonostante la predisposizione al pianto e il modo in cui gestiscono le lacrime siano simili tra i gruppi. Inoltre i pazienti borderline hanno una minore consapevolezza dell’influenza del pianto sugli altri probabilmente a causa della scarsa capacità di leggere adeguatamente le situazioni sociali. Questo risultato mette in discussione l’idea che il pianto nel gruppo borderline sia manipolativo; sembra invece più plausibile che a questi pazienti manchi la consapevolezza di come il loro pianto venga percepito. Contrariamente alle aspettative non sono emerse differenze significative nella frequenza tra i pazienti del Cluster C-PD e i pazienti DBP: a causa dell’iperreattività emotiva di questi ultimi, ci si aspettava una frequenza e una profondità del pianto più elevate che sono risultate invece uguali al Cluster C-PD.

 

L’Etologia

Nella concettualizzazione della teoria dell’attaccamento, Bowlby trasse interessanti spunti dalle formulazioni dell’evoluzionismo e dall’etologia, una branca delle scienze naturali che indaga e descrive, mediante studi osservazionali, il comportamento animale nel suo ambiente naturale.

 

La teoria dell’attaccamento

 John Bowlby (1907-1990), psicologo e psicoanalista inglese, è noto per aver formulato un’importante teoria, la teoria dell’attaccamento, secondo la quale fin dai primissimi anni di vita il bambino è biologicamente predisposto a legarsi in maniera indissolubile a una persona preferita e specifica, generalmente identificabile nella madre, che possa prendersi cura di lui e trasmettergli sicurezza, amore e senso di protezione. Il legame di attaccamento, che vincola profondamente il bambino a una figura di riferimento, si configura come un legame affettivo ed emotivo, particolarmente intimo e duraturo, che trova la sua origine in un periodo sensibile dell’età evolutiva, cioè il primo anno di vita. Il bambino ha un bisogno fondamentale di stare accanto a chi possa farlo sentire al sicuro, proteggerlo dai pericoli e fungere da base sicura, cioè un rifugio affettivo in cui il bambino può tornare e da cui può allontanarsi per esplorare il mondo ogni volta che lo desidera. Il legame di attaccamento si esprime attraverso dei comportamenti innati, di matrice biologica, che il bambino attua quando si sente in pericolo, ad esempio quando subentra il rischio che la figura di riferimento possa separarsi da lui, il cui fine è ottenere e mantenere costante la vicinanza affettiva e il contatto diretto con il caregiver. I comportamenti di attaccamento, come il pianto o la protesta nel momento della separazione, svolgono un’importante funzione adattiva, in quanto segnalano l’esistenza di un disagio e sollecitano le cure materne.

L’etologia e l’imprinting

Nella concettualizzazione della teoria dell’attaccamento, Bowlby trasse interessanti spunti dalle formulazioni dell’evoluzionismo e dall’etologia, o biologia comportamentale, una branca delle scienze naturali che indaga e descrive, mediante studi osservazionali, il comportamento animale nel suo ambiente naturale – procedura molto utile per la psicologia comparata, in quanto consente di effettuare parallelismi tra il comportamento animale e quello umano. Il massimo esponente dell’etologia fu Konrad Lorenz, il quale, effettuando studi e ricerche su oche selvatiche osservate nel loro ambiente naturale, arrivò a descrivere un fenomeno peculiare che si verificava nelle stesse oche, cioè l’imprinting. L’imprinting (dall’inglese “imprint”,”traccia”) si configura come un fenomeno innato, spontaneo e irreversibile, di carattere sociale e relazionale, in virtù del quale i cuccioli di alcune specie animali tendono a legarsi in maniera indissolubile al primo oggetto in movimento con cui entrano in contatto fin dalle primissime ore di vita. L’imprinting è una forma di apprendimento precoce, istintivo e specie-specifico, cioè caratteristico di una specie, per cui un individuo tende a manifestare un profondo attaccamento per un particolare individuo, che arriva a considerare come proprio genitore e a cui delega tutta la sua sopravvivenza psicobiologica. Tale apprendimento, una volta avvenuto, rimane fissato per sempre. Secondo la teorizzazione iniziale dell’etologo Lorenz, esisterebbe un periodo critico, cioè un periodo di tempo – circoscritto alle 48 ore successive alla nascita –  in cui il nostro cervello è particolarmente plastico, cioè sensibile alle esperienze ambientali e biologicamente predisposto a identificare come figura di riferimento il primo oggetto in movimento con cui l’individuo si relaziona fin dalle primissime ore di vita e stringere con esso un forte legame affettivo e con scopo adattivo. Se non avviene entro i periodi critici, tale forma di apprendimento può non verificarsi.

 Per avvalorare le sue ipotesi, Lorenz condusse un famoso esperimento, in cui raccolse venti uova di oca selvatica, per poi distribuirne una decina ad un’oca domestica e un’altra decina ad una tacchina. Dopodiché le inserì in un’incubatrice e attese che si schiudessero. Al momento della schiusa accadde qualcosa di singolare: i pulcini appena nati non cercavano né la tacchina né l’oca domestica e per nessuna delle due manifestavano comportamenti di attaccamento, cioè comportamenti innati, programmati geneticamente, che consentono l’ottenimento della vicinanza del genitore, piuttosto rivolgevano tali comportamenti – come l’atto di seguire – nei confronti dello stesso Lorenz, segno che l’imprinting possa vincolare anche individui appartenenti a specie animali differenti.

Il bisogno di vicinanza

Un altro importante contributo alla concettualizzazione del legame di attaccamento arriva dagli esperimenti di Harry Harlow (1905-1981) e della moglie Clara Mears Harlow, docenti all’Università del Wisconsin, che, studiando il comportamento dei piccoli di macachi rhesus, dimostrarono che l’attaccamento si fonda sulla ricerca di contatto fisico e sulle sensazioni tattili. Nel 1958, in un esperimento, dei cuccioli di macachi rhesus per sei mesi vennero allevati da una coppia di madri artificiali o surrogate, di cui una fatta di fili metallici, dotata di un biberon artificiale, tramite cui i piccoli potevano nutrirsi, e dal volto simile a quello di una scimmia vera e propria; mentre l’altra era coperta di un tessuto spugnoso, morbido e caldo, ma priva di qualsiasi fonte di nutrimento per i cuccioli. Gli sperimentatori calcolarono la quantità di tempo che le scimmie passavano in compagnia di ciascuna delle due madri, presto notarono che i piccoli tendevano a nutrirsi dal biberon della prima madre, quella più fredda e asettica, ma trascorrevano la maggior parte del tempo in compagnia della seconda, quella più calda e accogliente, in quanto essa trasmetteva ai cuccioli un senso di calore materno e di protezione. Si giunse alla conclusione che il bisogno di alimentazione sia meno impellente del bisogno di contatto fisico e di vicinanza, che sarebbe alla base di un solido legame di attaccamento e rappresenterebbe il senso di fiducia del piccolo nei confronti della madre, il senso di affiliazione, cioè il piacere che si avverte al contatto fisico con un individuo preferito e specifico, e la possibilità di esperire sicurezza attraverso sensazioni tattili.

 

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