expand_lessAPRI WIDGET

Quando non è solo un capriccio: la fobia scolastica, un disturbo di cui parlare

La fobia scolastica è descritta come una manifestazione d’angoscia, che può essere accompagnata dal panico, e impedisce la presenza scolastica nelle forme abituali.

 

L’esperienza scolastica positiva

 L’esperienza scolastica riveste una grande importanza nel processo di crescita dell’individuo e richiede un notevole investimento di energie cognitive, emotive e relazionali.

Si può definire un’esperienza scolastica positiva quel percorso in cui si favoriscono nell’alunno sentimenti di autoefficacia, stima di sé e gratificazione per i propri successi; in cui si acquisiscono regole sociali e si costruiscono punti di riferimento valoriali; in cui si instaurano relazioni significative con le figure adulte e con i pari.

È importante, infatti, che il giovane riesca a sperimentare nel contesto della scuola fiducia nelle proprie risorse e capacità, imparando così a gestire le sfide che la vita, anche al di fuori, gli presenterà.

Il sistema scolastico deve rappresentare, pertanto, un luogo sicuro in cui poter esplorare, sperimentare e costruire parti di sé. Tuttavia, non sempre questo succede; a volte andare a scuola può trasformarsi in un vero e proprio incubo.

Sempre più frequentemente si verifica negli alunni una particolare resistenza ad andare a scuola, o a rimanerci, che può esprimere fatica a relazionarsi con i compagni, timore di non essere capiti e accettati, paura di sbagliare e di fallire.

È importante sottolineare che situazioni di ansia e frustrazione sono fenomeni comuni e naturali. Per questo è opportuno distinguere atteggiamenti di preoccupazione tipici di qualsiasi percorso di crescita e di sviluppo, da condizioni cliniche più severe e persistenti.

La fobia scolastica

La fobia scolastica, sebbene non compaia come sindrome a sé stante nei manuali diagnostici, viene inclusa nella più generale categoria delle fobie. È descritta come una manifestazione d’angoscia, che può essere accompagnata dal panico, e impedisce la presenza scolastica nelle forme abituali (De Masi, F., Moriggia, M., & Scotti, G., 2020).

Si tratta, quindi, di un vero e proprio disturbo che si traduce in comportamenti problematici, fino ad un progressivo rifiuto e ritiro dalle attività scolastiche. Infatti, di fronte allo stimolo fobico (in questo caso rappresentato dalla scuola) l’individuo mette in atto comportamenti evitanti, che possono produrre una marcata compromissione funzionale sia sul piano emotivo che sociale. L’angoscia è intensa e prolungata e si accompagna a sintomi somatici, come mal di testa, mal di pancia, palpitazione, tensione muscolare, etc.

La sua insorgenza sembra spesso immotivata in quanto si tratta, nella maggior parte dei casi, di studenti con buona resa scolastica. L’esordio si presenta solitamente in seguito ad eventi percepiti come particolarmente stressanti, che si sono verificati a casa o a scuola. Tra questi si può annoverare la propria malattia o quella di un membro della famiglia, la separazione tra i genitori, relazioni conflittuali in famiglia, problemi con il gruppo dei pari o con un insegnante, oppure il ritorno a scuola dopo una lunga interruzione. Altri momenti particolarmente critici sembrano essere i passaggi da un grado scolastico all’altro (Redazione APC, n.d.). Si stima che le tappe evolutive, come l’ingresso nella scuola elementare (5-6 anni) o alle scuole medie (10-11 anni), siano momenti delicati in cui questo disagio può presentarsi (De Masi, F., Moriggia, M., & Scotti, G., 2020).

 Nei più piccoli, può essere utile indagare la fobia scolare alla luce di una forte ansia da separazione nei confronti dei caregivers (per esempio, genitori o nonni). In altri casi può indicare un maggiore timore del giudizio dei compagni e dell’insegnante. Tipicamente, nei più piccoli si esprime con insistenti capricci, scoppi d’ira, crisi di pianto e/o sintomi somatici ricorrenti (De Masi, F., Moriggia, M., & Scotti, G., 2020)..

Negli adolescenti è invece maggiormente correlata ad una costante apprensione verso i successi scolastici o a dinamiche ostili con i pari e può tradursi in frequenti assenze o addirittura nell’abbandono del percorso di studi (ibidem).

Non si tratta quindi di un banale capriccio o di una mancata motivazione allo studio, tantomeno di difficoltà nell’apprendimento, ma di un vero e proprio disagio più complesso caratterizzato da ansia e paura generalizzata, pervasiva e invalidante. È un’esperienza di grande turbamento, la cui disperata ricerca di equilibrio può condurre anche a forme patologiche più severe nel futuro.

Intervenire sulla fobia scolastica

Spesso, di fronte a tali comportamenti, il genitore assume una posizione drastica e severa, perché esasperato e preoccupato a sua volta. Tuttavia, i tentativi di costrizione aggravano ulteriormente la situazione; la fobia può diventare così intollerabile al punto da sfociare, per esempio, in condotte aggressive e auto-aggressive.

È necessario, pertanto, individuare tempestivamente i sintomi del rifiuto scolare e mirare ad un intervento preciso in un prospettiva ecologica di collaborazione e co-responsabilità (Rubbino, 2017).

È infatti auspicabile un lavoro di rete tra insegnanti, famiglia e psicoterapeuta, affinché si possa perseguire una strategia comune di obiettivi condivisi, al fine di ristrutturare un’esperienza scolastica positiva, di apprendimento e crescita.

Sebbene sia necessario dunque un intervento psicologico e psicoterapeutico, grande responsabilità è affidata anche alla scuola, la quale deve offrire un clima favorevole, che faccia attenzione alle esigenze del singolo.

 

Le differenze nella regolazione emotiva nei pazienti con disturbi alimentari

L’anoressia nervosa e la bulimia nervosa sono disturbi alimentari che presentano comportamenti maladattivi, come la restrizione del consumo di cibo e le condotte compensatorie di espulsione, in termini di strategie per gestire l’emotività.

 

 L’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN) sono disturbi che appartengono alla categoria dei disturbi alimentari (DA; APA, 2014). Spesso, in individui che soffrono di disturbi alimentari, è presente una forte difficoltà nella regolazione delle emozioni (Perthes et al., 2021). La regolazione delle emozioni è l’abilità di regolare l’intensità, la durata e la tipologia di emozione applicando strategie cognitive o comportamentali, che possono essere categorizzate come adattive (per esempio, rivalutazione di una situazione, problem solving, perdono e accettazione) o disadattive (per esempio, ruminazione, ritiro, comportamento aggressivo e autosvalutazione personale). Le strategie disadattive sono strettamente correlate con il funzionamento di molti disturbi mentali.

Le strategie adattive a disadattive di regolazione emotiva nei disturbi alimentari

È stato osservato che l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa sono disturbi che presentano comportamenti maladattivi, come la restrizione del consumo di cibo e le condotte compensatorie di espulsione, in termini di strategie per gestire e regolare l’emotività (Perthes et al., 2021). Nella quotidianità di un individuo che soffre di anoressia nervosa o di bulimia nervosa, sembra che tali strategie disadattive non solo aiutino a regolare l’emotività, ma riducono le emozioni negative e tendono ad aumentare quelle positive. È stato osservato che gli individui affetti da disturbi alimentari possono esperire ed esprimere le emozioni in maniera differente rispetto agli individui sani.

Ad esempio, la paura di essere giudicati negativamente, componente fondamentale nei disturbi d’ansia, è spesso presente anche nei disturbi alimentari, così come i sintomi depressivi (Perthes et al., 2021).

È stato osservato che pazienti adolescenti con disturbi alimentari e depressione in comorbidità mostrano un maggior numero di sintomi di disturbi alimentari rispetto a pazienti che hanno in compresenza i disturbi d’ansia (Hughes et al., 2013). In aggiunta, sembra che i pazienti affetti da disturbi alimentari mostrino grandi difficoltà nell’attuare strategie adattive per la regolazione emotiva, difficoltà che sembra aumentare quando sono presenti in comorbilità anche disturbi depressivi o di ansia (Perthes et al., 2021). Ad esempio, la tristezza potrebbe essere soppressa attraverso la restrizione alimentare e il vomito, e i pazienti che soffrono di anoressia nervosa possono restringere ulteriormente l’assunzione di cibo dopo aver esperito tristezza (Perthes et al., 2021). Sembra inoltre che individui affetti da disturbi alimentari abbiano grandi difficoltà nella gestione della rabbia (Perthes et al., 2021).

Disturbi alimentari e regolazione emotiva in adolescenza

La finestra evolutiva dell’adolescenza presenta spesso delle difficoltà emotive, proprio perché è la fase in cui si sviluppa l’abilità di regolazione delle emozioni (Perthes et al., 2021). Infatti, sono state osservate maggiori difficoltà nella gestione delle emozioni in adolescenti affetti da disturbi alimentari, rispetto ad adolescenti sani. Perthes e colleghi (2021) hanno ipotizzato che gli adolescenti affetti da disturbi alimentari utilizzano in modo diverso le strategie adattive e disadattive di regolazione delle emozioni (Perthes et al., 2021). In particolare, hanno ipotizzato che gli adolescenti affetti da disturbi alimentari utilizzano meno strategie adattive e più strategie disadattive, applicandole come risposte ad ansia, rabbia e tristezza, rispetto ad individui senza disturbi alimentari.

 Per questa indagine, sono stati reclutati 197 partecipanti di genere femminile, in un range di età dai 12 ai 20 anni (Perthes et al., 2021). 118 partecipanti hanno ricevuto una diagnosi di anoressia nervosa e 32 di bulimia nervosa, mentre il gruppo di controllo era costituito da 47 individui non affetti da disturbi alimentari. Sono stati somministrati dei questionari per misurare la severità dei sintomi dei disturbi alimentari e per misurare quante e quali strategie adattive e disadattive venissero utilizzate in risposta alle emozioni di ansia, rabbia e tristezza.

I risultati suggeriscono che gli adolescenti che soffrono di disturbi alimentari utilizzano maggiormente strategie disadattive quando esperiscono emozioni di rabbia, ansia e tristezza (Perthes et al., 2021). Inoltre, è stato osservato come la regolazione della rabbia e della tristezza sia particolarmente difficile per gli adolescenti, indipendentemente dalla presenza di disturbi alimentari. Sorprendentemente, è stato osservato che gli individui affetti da disturbi alimentari non riportano una particolare difficoltà nella regolazione emotiva dell’ansia. Una possibile spiegazione potrebbe essere che il disturbo alimentare concentra le paure specifiche dell’individuo verso altre direzioni e, in confronto, gestire l’ansia potrebbe non risultare così complicato. La difficoltà nella regolazione delle emozioni potrebbe quindi essere un fattore transdiagnostico da considerare, quando si tratta delle cure rivolte ad adolescenti con disturbi alimentari.

Sarebbe necessario replicare il presente studio utilizzando campioni sperimentali (ovvero, con partecipanti con anoressia nervosa e bulimia nervosa) e di controllo (senza disturbi alimentari) bilanciati in termini di numerosità campionaria. Inoltre, dato che la ricerca di Perthes e colleghi (2017) si è concentrata solo su ansia, rabbia e tristezza, sarebbe interessante che future ricerche indagassero altre emozioni che sono state associate ai disturbi alimentari, come disgusto, colpa e vergogna.

 

La figura del serial killer 

Criminologi e psicologi sono d’accordo nell’affermare che, di solito, il comportamento di un serial killer è esito di un grave trauma, o una serie di esperienze traumatiche, vissute durante l’infanzia o l’età preadolescenziale e proseguite negli anni.

 

La figura del serial killer

 L’omicidio, ma anche la tortura, si trovano in cima agli atti antisociali che l’uomo può commettere, eppure non tutti i soggetti omicidi mostrano una personalità antisociale. Tale personalità, se confrontata con la popolazione generale, è significativamente rappresentata in qualsiasi campione di criminali che commettono un omicidio (Vitale, 2015).

Dagli anni ’50 sono state distinte varie forme di omicidio. Il National Institute of Justice, nel 1988, ha elaborato una prima descrizione del concetto di omicidio seriale: ovvero l’assassinio di due o più soggetti, commessi in maniera separata e, di solito, da un unico autore. I crimini possono essere messi in atto in un intervallo che può variare da solo poche ore a diversi anni, e il movente è da ricercare nella soddisfazione di un solo bisogno psicologico dell’assassino. Le caratteristiche della scena del delitto, il comportamento omicida, il rapporto con la vittima e la violenza utilizzata, riflettono le componenti caratteristiche dell’autore (Lucarelli e Picozzi, 2015).

Il termine serial killer venne usato per la prima volta intorno agli anni ‘70 da due profiler, membri dell’FBI, Ressler e Douglas. Venne coniato per distinguere chi uccide ripetutamente nel tempo, intervallato da pause (cooling off time), dai soggetti che commettono i cosiddetti massacri (mass murderer). La prima volta che si parlò di killer seriali negli Stati Uniti fu per casi come quelli di Ted Bundy, il figlio di Sam (David Berkowitz) e altri casi emblematici (Douglas et al., 2008).

Inoltre, Ressler e Douglas, insieme alla psichiatra Ann Burgess, pubblicarono il Crime Classification Manual, ovvero un trattato sui delitti violenti, dove la classificazione di tali delitti si basa sul movente del criminale (Douglas et al., 2008).

Il passato del serial killer

Il pluriomicida non è un normale cittadino o il vicino di casa che un giorno decide, improvvisamente, di iniziare a uccidere. Criminologi e psicologi sono d’accordo nell’affermare che, di solito, il comportamento di un serial killer può essere esito di un grave trauma, o una serie di esperienze traumatiche, vissute durante l’infanzia o l’età preadolescenziale e proseguite negli anni. A tal proposito, per spiegare il manifestarsi del comportamento del serial killer, risultano essere molto importanti i traumi subiti dall’individuo in ambito familiare ed extrafamiliare durante la giovane età.

Alle spalle dell’omicida, soprattutto di quello seriale, possono nascondersi genitori violenti o poco presenti, ma anche famiglie disgregate e spesso violente, dove i ruoli non sono ben definiti. Di solito, la famiglia dell’assassino seriale viene vista come una “famiglia multiproblematica”.

Quindi, alcuni assassini seriali hanno subito maltrattamenti psicologici e fisici, abusi sessuali, e altre esperienze traumatiche; altri, invece, possono essere semplicemente predisposti alla violenza, che è presente in loro fin dalla nascita. Tuttavia, tipicamente è intorno al trauma subito che si struttura la personalità di un futuro serial killer (Lucarelli e Picozzi, 2015).

Serial killer e psicopatia

 Parlare di serial killer prevede l’affrontare il tema della psicopatia, che ricopre un ruolo importante, in quanto è il disturbo mentale che –come abbiamo già detto– si può riscontrare più di frequente in questi assassini. L’individuo psicopatico è descritto come: intelligente, razionale e tranquillo. Inoltre, egli è incapace di provare vergogna o rimorso per le proprie azioni e risulta essere inaffidabile. È incapace di amare, infatti risulta freddo e indifferente ai sentimenti di fiducia e gentilezza. Di solito è iper-reattivo agli effetti dell’alcool, ha tendenze suicide, ha relazioni sessuali vissute in modo impersonale, è incapace di porsi obiettivi a lungo termine e mostra comportamenti antisociali immotivati (Chiung, 2018).

La sessualità nei serial killer

Per quanto riguarda invece le ricerche incentrate sulla sessualità dei serial killer, le loro preferenze e perversioni sono cresciute moltissimo. Si presume, infatti, che la motivazione che possa innescare comportamenti antisociali nel serial killer sia anche sessuale. È stato osservato che gli assassini seriali riferiscono tassi maggiori di parafilia rispetto a coloro che uccidono una sola volta, soprattutto quando si tratta di feticismo e travestitismo (Bruzzone, 2007).

Possibili segnali precoci del futuro serial killer

In generale, sono stati ipotizzati alcuni segni premonitori del comportamento omicidiario seriale, quali: isolamento sociale, difficoltà di apprendimento, comportamento irregolare, problemi di autocontrollo e con le autorità, attività sessuale precoce e bizzarra, ossessione per il fuoco, il sangue e la morte. Difatti, alcuni serial killer durante l’infanzia esibiscono uno o più segnali di pericolo e avvertimento noti come triade di MacDonald o triade omicida, cioè: piromania, crudeltà verso gli animali (zoosadismo) ed enuresi notturna. Questi sono una serie di indicatori (i cosiddetti red flags) di una probabile futura condotta fortemente deviante, che si manifestano durante il periodo evolutivo (Ressler et al., 1988).

Tale triade, però, è stata recentemente messa in discussione, in quanto è risaputo come bambini e adolescenti spesso accendano fuochi o uccidano animali per diversi motivi (noia, frustrazione, desiderabilità sociale o curiosità). Pertanto, è difficile affermare che queste variabili siano realmente correlate all’eziologia dei serial killer.

 

Percorsi per la salute mentale: verso una direzione condivisa – Comunicato Stampa

Venerdì 30 settembre 2022, in occasione della presentazione della nuova Scuola di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini, si è tenuta la tavola rotonda “Percorsi per la salute mentale: verso una direzione condivisa”

 

L’evento ha avuto luogo presso la Sala del Giudizio dei Musei Comunali di Rimini e ha visto la presenza, per l’apertura dei lavori, dell’Assessore alle Politiche per la Salute Dott. Kristian Gianfreda. Il primo ’intervento dal titolo: “Formulazione del caso LIBET e strategie di intervento: un caso clinico” è stato condotto dalla Dott.ssa Sandra Sassaroli, Presidente e fondatrice del Gruppo Studi Cognitivi, che ha illustrato alcuni degli elementi fondanti del modello di cura che viene insegnato nella scuola di specializzazione.

“Questo pomeriggio è stato un momento di confronto raro e utilissimo tra professionisti afferenti a diverse realtà come le Università, i Centri di Salute Mentale e le Scuole di Specializzazione in Psicoterapia: chiamati a confrontarsi per un dialogo fruttuoso che porti verso una direzione condivisa.”

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Sandra Sassaroli - Percorsi per la salute mentale verso una direzione condivisa 1600x900
Dott.ssa Sandra Sassaroli

La tavola rotonda, che ha visto confrontarsi importanti esponenti della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria italiana, è stato un interessante momento di scambio e confronto in cui la cura della salute mentale è entrata in relazione con i servizi attualmente offerti in Emilia Romagna. Si è esaminato il contributo della psicoterapia cognitivo-comportamentale nel mondo della salute mentale e l’importanza della costruzione e del mantenimento del networking tra le realtà presenti sul territorio.

Il disagio emotivo e psicologico tra i giovani è in forte crescita in Emilia Romagna con una richiesta di supporto psicologico e psicoterapeutico. I giovani Romagnoli soffrono oggi di problemi di ansia con conseguenze sulla performance scolastica e lavorativa. Per questo il comune di Rimini tra i pochi in Italia ha attivato un bonus psicologico a integrazione dei servizio già offerto dal sistema nazionale.

L’evento è stato organizzato in occasione dell’inaugurazione della nuova scuola di psicoterapia di Rimini, affiliata a Studi Cognitivi Formazione, che coordina l’attività di un gruppo di 10 scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal Ministero Università e Ricerca e che in 20 anni di attività ha formato 1700 psicoterapeuti di cui il 96% ad oggi pratica la professione.

Hanno partecipato al dibattito:

  • Dott. Andrea Tullini – Direttore di Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche – Ausl Romagna – Rimini.
  • Dott. Riccardo Sabatelli – Direttore CSM Centro Salute Mentale – Ausl Romagna – Rimini.
  • Dott.ssa Cinzia Giulianelli – Responsabile Struttura Semplice Neuropsichiatria Infantile Ospedale Infermi – Rimini.
  • Dott. William Giardi – Direttore Unità Operativa Complessa Servizio Minori I.S.S. di San Marino.
  • Dott. Gabriele Raimondi – Presidente Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna.
  • Dott. Marco Menchetti – Professore associato di Psichiatria Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’ Università di Bologna.
  • Dott.ssa Sara Giovagnoli – Psicologa e Professoressa Associata del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna.
  • Dott.ssa Sandra Sassaroli – Presidente del Gruppo Studi Cognitivi e Direttore del Dipartimento di Psicologia Sigmund Freud University – Milano.
  • Dott. Gabriele Caselli – Direttore della Scuola di Specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive, Professore di Psicologia Clinica, Sigmund Freud University.

Hanno moderato l’incontro:

  • dott.ssa Roberta Stoppa – Psicologa, Psicoterapeuta CBT. Direzione organizzazione e sviluppo delle Scuole del Gruppo di Studi Cognitivi. Consigliera di indirizzo generale in Enpap
  • dott.ssa Valeria Valenti – Psicologa Psicoterapeuta CBT Referente formativo STCC Rimini

L’evento è stato organizzato in occasione dell’inaugurazione della nuova scuola di psicoterapia di Rimini, affiliata a Studi Cognitivi Formazione, che coordina l’attività di un gruppo di 10 scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal Ministero Università e Ricerca e che in 20 anni di attività ha formato 1700 psicoterapeuti di cui il 96% ad oggi pratica la professione.

La mission di Studi Cognitivi Formazione è di elevare il livello della psicoterapia nei territori in cui opera grazie alla sinergia di ricerca scientifica, didattica e pratica clinica. Il progetto didattico si avvale di un gruppo di ricerca di fama internazionale che ha all’attivo oltre 150 pubblicazioni e che continua a contribuire allo sviluppo della disciplina.

Il Gruppo Studi Cognitivi è leader in Italia nel campo della psicoterapia. Il gruppo è specializzato primariamente nell’alta formazione, nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nell’erogazione di servizi clinici nel campo della salute mentale principalmente tramite il progetto inTherapy.

inTherapy è la prima rete nazionale italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale capace di dare una risposta scientifica, altamente qualificata, trasparente e rapida alla sofferenza psicologica, facilitando l’accesso a forme di supporto basate su evidenze scientifiche. inTherapy si avvale di un modello clinico centralizzato e di una rete di professionisti formati e certificati da Studi Cognitivi. L’obiettivo di inTherapy è quello di identificare il percorso terapeutico ottimale per il paziente, mettendo al suo servizio le competenze e la specializzazione dei singoli terapisti o dei centri clinici in base alla valutazione psicodiagnostica, tenendo conto delle esigenze logistiche e delle preferenze del paziente.

 

I risvolti psicologici del Quiet Quitting

Il mondo del lavoro post-pandemico è caratterizzato da emergenti fenomeni che impattano sul benessere psicologico. Dopo la Great Resignation, con cui si fa riferimento ad un aumento notevole di dimissioni (Papapicco, 2022), il ritorno a forme di lavoro ibride o presenziali, è precursore di un nuovo fenomeno: il Quiet Quitting.

 

Cos’è il Quiet Quitting?

 Si tratta di un neologismo, nato sui social, in particolare su TikTok, che pone nuovamente al centro le Risorse Umane post-moderne. Ma cosa si intende esattamente con Quiet Quitting? E che impatti può avere? Facendo riferimento alla traduzione letterale ‘abbandono silenzioso’ si pone la Risorsa Umana sotto una luce negativa, considerando il fenomeno come la volontà dei lavoratori di svolgere il minor lavoro possibile. Estendendo il significato, invece, si può notare come al centro del fenomeno non ci sia il lavoratore, inteso come persona che produce, ma come essere umano. Invero, ciò che viene messo a tema con il Quiet Quitting è, ancora una volta, un migliore equilibrio tra vita lavorativa e privata. In questo modo, la Risorsa Umana, con il Quiet Quitting, decide di dedicarsi alle attività strettamente legate alla mansione, senza impegnarsi in progetti extra, direzionando le energie residue ad altri aspetti della vita.

Si tratta, quindi, di un fenomeno che parte dal basso e che, inevitabilmente, spinge a riconsiderare i rapporti tra management e lavoratori. Questo può avere forti impatti psicologici, soprattutto se, nel ripensare questo rapporto, ci si sofferma solo sul significato letterale del fenomeno. In questa luce, le considerazioni su cui ci si potrebbe soffermare sono legate alla motivazione del lavoratore.

La motivazione al lavoro

Innanzitutto, la motivazione al lavoro è quella spinta che genera nelle Risorse Umane la determinazione a svolgere un’attività e sentirsi continuamente ingaggiate nel portare a termine il singolo compito (Kanfer & Chen, 2016). La motivazione al lavoro si basa su tre fattori: necessità; obiettivi attuali del lavoratore e obiettivi dell’organizzazione; relazioni emotive e atteggiamenti che costituiscono il clima aziendale (Lazaroiu, 2015). Partendo da questa definizione, Nicolescu e Verboncu (2008) hanno individuato quattro tipologie di motivazione a lavoro, in contrasto tra loro.

 Motivazione positiva vs negativa: la motivazione positiva mira ad aumentare gli sforzi e il contributo diretto dei dipendenti, al fine di raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione, con l’intento di amplificare la loro soddisfazione. La motivazione negativa, invece, mira ad aumentare gli sforzi e i contributi dei dipendenti per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

Motivazione intrinseca vs estrinseca: la motivazione intrinseca, che può essere interna, diretta e individuale, è la motivazione che la persona persegue in una o più attività strettamente cognitive (ad esempio l’ambizione). La motivazione estrinseca consiste nel fare sforzi per ottenere risultati che conducono a reazioni formali e informali, economiche e morali-spirituali, facendo in modo che la persona lavori sotto l’influenza di fattori esterni.

La motivazione per spiegare il Quiet Quitting

La motivazione, nelle sue definizioni, può essere la base di partenza per ripensare il fenomeno del Quiet Quitting, considerando gli impatti psicologici. Una focalizzazione maggiore sulla motivazione, da parte del management, può aiutare a comprendere altri aspetti psicologici collegati, come la soddisfazione lavorativa, la performance e tutto il recente tema delle politiche di compensazione e benefit. Una soluzione per aumentare la focalizzazione sul lavoratore e sulla sua motivazione, al fine di prevenire risvolti negativi nell’epoca post-pandemica, può derivare da un ascolto attivo delle esigenze della Risorsa Umana, occupandosi del lavoratore come persona (Papapicco e Quatera, 2021). L’ascolto attivo aiuterebbe sia nel ripensare la suddetta relazione tra il management e le Risorse Umane, sia nel rendere continuamente flessibile un possibile intervento di prevenzione di fenomeni come il Quiet Quitting. In tal senso, l’ascolto attivo, psicologicamente inteso, aiuterebbe a non ragionare in maniera categoriale, ma supportare il manager nella comprensione dell’unicità della Risorsa Umana.

 

Come curare il Disturbo Dissociativo dell’Identità (2022) di Colin Ross – Recensione

“Come curare il disturbo dissociativo dell’identità” nasce dall’esperienza dell’autore all’interno di un programma per pazienti affetti da disturbo dissociativo dell’identità (DDI) in un ospedale di Dallas: era necessario fornire ai nuovi operatori sanitari e stagisti uno strumento che sintetizzasse i principi più importanti del trattamento clinico con questi pazienti.

 

 Il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI) ha da sempre suscitato un grande interesse, non soltanto in ambito clinico, e da sempre il suo trattamento ha rappresentato una grande sfida terapeutica. Negli ultimi decenni l’interesse per i disturbi dissociativi è certamente cresciuto, dando impulso a un vivace dibattito e ad una sempre più ricca ed accurata ricerca, così come è cresciuta l’attenzione al trauma e alle sue conseguenze in termini di psicopatologia.

Per chi si occupa di disturbi post-traumatici, Colin Ross non ha certo bisogno di presentazioni: clinico di grande talento e notorietà, è anche autore di diversi articoli e volumi sul trauma e sulla dissociazione.

“Come curare il disturbo dissociativo dell’identità” rappresenta un’introduzione e una sintesi semplice e allo stesso tempo ricca di spunti sul complesso mondo del trattamento dei disturbi dissociativi.

L’autore, infatti, descrive con competenza e chiarezza i concetti più importanti del trattamento, mostrandone, anche attraverso efficaci ed evocative vignette cliniche, le tecniche principali.

L’esigenza di questo volume è nata dalla sua esperienza all’interno di un programma per pazienti affetti da disturbo dissociativo dell’identità (DDI) in un ospedale di Dallas: era necessario fornire ai nuovi operatori sanitari e stagisti uno strumento che sintetizzasse i principi più importanti del trattamento clinico con questi pazienti, dando loro strumenti concreti e direzioni di ulteriori approfondimenti.

Scritto dunque per i neofiti, questo volume è comunque un prezioso strumento per tutti i professionisti della salute mentale che si occupano di disturbi dissociativi, indipendentemente dalla loro esperienza.

Il disturbo dissociativo dell’identità, se pure non sempre nelle forme drammatiche che conosciamo attraverso i personaggi cinematografici e letterari, ha una prevalenza maggiore di quello che si crede ed è notevolmente sottodiagnosticato, poiché spesso i clinici non dispongono di una formazione specifica adeguata che li aiuti a porre le domande giuste per una corretta diagnosi. L’autore dedica a questa importante riflessione il primo capitolo del volume, fornendo una lista di domande più o meno specifiche per orientare l’intervista diagnostica, uno stralcio di colloquio di assessment come esempio, e mettendo a disposizione in appendice strumenti preziosi, come la Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS) e la Therapist Dissociative Checklist.

Lavorare con il disturbo dissociativo dell’identità comporta certamente molte sfide ed insidie.

Una di queste è come affrontare l’emergere di memorie traumatiche:

  • dobbiamo credere ciecamente ai ricordi dei nostri pazienti o metterli in dubbio?
  • come gestire i flashback che irrompono nella quotidianità del paziente e che possono condurre a comportamenti autolesivi o francamente anticonservativi nel tentativo di non rivivere più quei momenti traumatici?
  • quando è giusto affrontare direttamente le memorie traumatiche e quando invece è opportuno rimandare questa parte del lavoro?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi ai quali il volume cerca di rispondere, dando indicazioni preziose e accurate per orientarsi nell’affascinante ma scivoloso territorio del disturbo dissociativo dell’identità.

Il modello trifasico (stabilizzazione – lavoro sulle memorie traumatiche – integrazione) fa da cornice a tutto l’intervento con i disturbi dissociativi che l’autore esplora: è ormai fortemente sostenuto da dati empirici il fatto che la stabilizzazione sia il primo e più importante obiettivo di lavoro con questi disturbi, premessa ineludibile al successivo lavoro sui ricordi traumatici che va dunque posticipato finché il paziente non sia sufficientemente al sicuro e stabile, appunto.

 Tutto il trattamento si sviluppa verso il graduale e progressivo superamento della scissione interna. In un movimento a spirale, con inevitabili stalli e passi indietro, paziente e terapeuta collaborano per favorire il superamento della fobia interna che mantiene la separazione fra parti dissociate: obiettivo del lavoro non è quella che Colin Ross chiama l’“integrazione tramite il plotone di esecuzione”, ovvero liberarsi delle parti scomode o disturbanti, ma al contrario riconoscere come ogni parte non solo sia una parte ineliminabile del tutto e quindi non ci si possa semplicemente sbarazzare di lei, ma anche di come abbia o almeno abbia avuto al momento del trauma una funzione importante al servizio del sistema.

Le parti più sofferenti, quelle che sono responsabili dell’emergere dei flashback o che spingono il paziente ad agiti autodistruttivi, sono le depositarie di memorie, emozioni e sensazioni troppo disturbanti per essere accolte dalla parte ospite: anche le parti apparentemente più “negative” e disturbanti dunque sono parte della persona e meritano di essere accolte con empatia e gratitudine per ciò di cui si sono fatte carico.

Occorre aiutare il paziente a riconoscere il ruolo e la funzione di ogni parte, favorendo gradualmente il dialogo e la collaborazione fra le parti, la loro co-coscienza, ovvero la capacità di essere consapevoli l’una della presenza e degli stati interni dell’altra.

Il paziente va aiutato a capire come funziona il suo disturbo e che “il problema non è il problema”, ovvero che il sintomo, il comportamento autodistruttivo, il disturbo non sono in realtà il problema, ma un tentativo del sistema di trovare una soluzione ad un problema sullo sfondo.

Il disturbo dissociativo dell’identità è, infatti, il risultato della risposta di adattamento del cervello ad un’infanzia traumatica, una strategia di sopravvivenza che nel corso del tempo però diventa disfunzionale perché comporta costi altissimi.

Di fatto gran parte del trattamento con questi pazienti riguarda il presente, non il passato. Non è prevalentemente un lavoro sulle memorie traumatiche, ma di orientamento, regolazione, stabilizzazione, di costruzione di una nuova comunicazione e cooperazione tra le parti, affinché arrivino gradualmente ad essere co-coscienti e co-presenti.

Ciò non vuol dire che le memorie non debbano essere affrontate e trattate. Ma il focus del lavoro non deve essere la ricostruzione dettagliata degli abusi, anzi, ripercorrere i ricordi nei minimi dettagli rischia di portare ad iper-arousal estremo ed “abreazioni maligne”, assolutamente iatrogene per il paziente.

Su questo tema un aspetto importante su cui l’autore sofferma la sua attenzione è la neutralità terapeutica: forte anche della sua esperienza nel trattamento di persone vittime di abusi rituali, Colin Ross mette in guardia rispetto a qualsivoglia presa di posizione del terapeuta sulla veridicità delle memorie. Non sta al terapeuta stabilire se siano o no fatti realmente accaduti, e dal momento che resoconti inverosimili possono essere assolutamente veri e narrazioni plausibili possono essere inaccurate o distorte, la neutralità terapeutica è assolutamente necessaria.

Il volume illustra anche, sempre avvalendosi di illuminanti dialoghi clinici, tecniche particolarmente utili con questi pazienti, come il grounding, il parlare attraverso le parti, e strumenti di lavoro come il journaling, il disegno, gli homework, non con l’obiettivo di essere esaustivo, ma al contrario di orientare il lettore ad approfondimenti e formazioni specifiche.

Sono certamente necessarie strategie e tecniche specifiche per trattare pazienti con disturbo dissociativo dell’identità, ma, come evidenzia lo stesso autore “una buona terapia per il disturbo dissociativo dell’identità consiste di una buona terapia generale più alcune strategie specifiche in aggiunta” (p. 22).

Il libro di Colin Ross è dunque un libro pratico, di immediata comprensione e ricco di spunti interessanti e preziosi che guidano il terapeuta ad orientarsi nel trattamento non solo di pazienti affetti da disturbo dissociativo dell’identità, ma di tutti quelli che si collocano lungo il continuum dei disturbi dissociativi, ricordando sempre che con questi disturbi “chi va piano va sano e vince la gara”.

 

Disturbo disforico premestruale: cosa c’è di nuovo?

Recentemente sono stati pubblicati degli studi che indagano la correlazione esistente tra disturbo disforico premestruale e presenza di pensieri autolesionistici e tra questo disturbo e la presenza di alterazioni cerebrali a livello corticale.

 

Il disturbo disforico premestruale

Il disturbo disforico premestruale (PMDD) è un disturbo dell’umore che si manifesta tra i sintomi della sindrome premestruale (Greene R, Dalton K. 1953) ed è classificato, nella quinta edizione del DSM, come un disturbo depressivo.

È caratterizzato, oltre che da umore depresso, da irritabilità e labilità emotiva. L’intensità di questi sintomi può essere tale da influenzare significativamente l’attività lavorativa e le interazioni sociali di chi ne soffre (Castrucci, 2020).

Sono diversi i fattori eziologici chiamati in causa per spiegarne l’origine. Uno studio del 1991, condotto da Rojanski et al., ha evidenziato, nelle donne affette da disturbo disforico premestruale, una riduzione dei livelli plasmatici di serotonina nella fase luteinica del ciclo ovarico (Castrucci, 2020).

Una successiva ricerca ha confermato, tra i fattori eziopatogenetici del disturbo, l’interazione tra ormoni steroidei e neurotrasmettitori (Mortola JF.1998). Il disturbo disforico premestruale si manifesta nelle donne con una prevalenza dall’1.8% al 5.8% (Angst  J, Stellaro R, Merikangas KR, Endicott J. 2001).

Due aspetti del disturbo disforico premestruale sono stati indagati in studi di recente pubblicazione: la presenza di pensieri autolesionistici associati a questo disturbo e la presenza di alterazioni morfologiche a livello cerebrale nelle donne con diagnosi di disturbo disforico premestruale.

Disturbo disforico premestruale e pensieri autolesivi

Uno studio pubblicato dalla rivista BMC Psychiatry (2022) condotto da Eisenlohr-Moul ed altri, utilizzando un sondaggio online al quale hanno partecipato 2.689 donne, di cui il 23% con diagnosi di disturbo disforico premestruale, ha evidenziato che il 34% delle donne con disturbo disforico premestruale ha tentato il suicidio. Secondo gli autori la condizione di nullipara, uno stato economico svattaggioso, la presenza in anamnesi di depressione maggiore o di disturbo da stress post-traumatico sono fattori predittori dei tentativi di suicidio, come lo sono anche l’età avanzata ed il disturbo borderline di personalità.

Inoltre i dati del sondaggio evidenziano che, nelle donne con diagnosi di disturbo disforico premestruale, sono presenti alti tassi di malattie sessualmente trasmissibili. Gli autori della ricerca suggeriscono, in caso di disturbo disforico premestruale, di sottoporre le donne a frequenti controlli per prevenire la comparsa di atti autolesionistici.

Disturbo disforico premestruale e alterazioni cerebrali

La ricerca effettuata da Dubol M. e collaboratori pubblicata nel 2022 da Transl Psychiatry ha come obiettivo quello di valutare se nel disturbo disforico premestruale, come in altri disturbi depressivi, sono presenti alterazioni volumetriche e dello spessore della materia grigia delle circonvoluzioni cerebrali. Per questo gli autori dello studio hanno sottoposto, donne affette da disturbo disforico premestruale e donne sane, a risonanza magnetica durante la fase luteinica del ciclo mestruale. Le risonanze magnetiche sono state poi analizzate con morfometria basata su voxel e superficie. I dati raccolti indicano un minor volume dell’amigdala destra nelle donne affette da disturbo disforico premestruale, inoltre in queste donne si osserva una corteccia cerebrale più sottile nell’emisfero sinistro. In base alle caratteristiche della corteccia cerebrale è possibile distinguere una donna con disturbo disforico premestruale da una donna sana con un’accuratezza del 74%. I dati di questa ricerca supportano l’ipotesi che nel disturbo disforico premestruale esista un’alterazione dei circuiti inibitori che coinvolgono le strutture limbiche.

 

Introduzione agli effetti del cambiamento climatico sulla salute mentale

Il cambiamento climatico si associa ad un aumento di frequenza e intensità di eventi atmosferici estremi, e l’impatto di essi sulla salute mentale è stato osservato nel corso degli anni, in termini di aumento di livelli di ansia, depressione, abuso di sostanze ed eventi traumatici.

 

Introduzione al cambiamento climatico

Il cambiamento climatico è ormai una realtà che sta accadendo (Clayton, 2020). È già possibile notare i primi effetti di questo fenomeno, in termini di eventi climatici disastrosi, come uragani, alluvioni, incendi e siccità. Meno facile da notare, ma non per questo meno pericoloso, è il lento cambiamento della temperatura del pianeta, che influenza il livello del mare e, di conseguenza, tutte le precipitazioni atmosferiche dei prossimi anni. Anche se molti individui percepiscono questo pericolo solamente in termini di rischio per gli orsi polari, è in realtà un evento che mette a rischio l’intera popolazione mondiale (Born, 2019; Clayton, 2020).

L’intero ecosistema mondiale è a rischio, e questo può avere effetti negativi sulla salute fisica e mentale dell’essere umano (Clayton, 2020). Alcuni esempi possono essere l’aumento della temperatura, che può a volte risultare fatale, il diffondersi di nuove malattie, i disastri naturali, la malnutrizione, le migrazioni e i conflitti. Alcune classi sono più di altre esposte ai rischi, come gli anziani o gli individui con problematiche di salute pregresse.

L’impatto del cambiamento climatico sulla salute mentale

Un collegamento meno ovvio, nonostante ci sia sostanziale evidenza della sua esistenza, è quello tra il cambiamento climatico e la salute mentale (Clayton, 2020). Il cambiamento climatico si associa ad un aumento di frequenza e intensità di eventi atmosferici estremi, e l’impatto di essi sulla salute mentale è stato osservato nel corso degli anni, in termini di aumento di livelli di ansia, depressione, abuso di sostanze e eventi traumatici, specialmente in coloro che sono stati esposti a cataclismi, come terremoti o alluvioni (Morganstein e Ursano, 2020). Sembra inoltre che, maggiormente intenso sia stato l’evento climatico a cui l’individuo è stato esposto, maggiore sia il livello di disagio psicologico che ne consegue (Clayton, 2020).

I disastri naturali possono avere anche un impatto sulle infrastrutture sociali, compromettendo la funzionalità di sistemi educativi, sanitari, economici e di trasporto (Clayton, 2020). La distruzione di queste infrastrutture può essere un motivo sufficiente per incentivare la migrazione dei popoli. Il fenomeno della migrazione a seguito di un disastro naturale è un evento molto stressante, in quanto gli individui sono costretti a lasciare la propria abitazione e a trovare un nuovo luogo dove stabilirsi. Lo stress aumenta anche a causa dell’incertezza riguardo alla destinazione e alle modalità di adattamento al nuovo luogo dove vivere, con tutte le difficoltà che si possono riscontrare, come il razzismo da parte dei popoli che già abitano in quelle terre. Un altro fattore che contribuisce ad incrementare ulteriormente lo stress è la difficoltà economica che segue alla perdita della propria abitazione e le condizioni precarie in cui si trovano i migranti, come la mancanza di cibo o un luogo stabile dove vivere. Ciò può essere utile per spiegare come mai esiste una grande prevalenza di disturbi mentali tra gli individui che sono stati costretti a migrare. Il semplice fatto di perdere la propria casa è sufficiente per minacciare la salute mentale di un individuo.

Un altro evento climatico che può avere effetti negativi sulla salute mentale è il calore (Clayton, 2020). L’aumento di calore è sempre stato associato consistentemente con un aumento di conflitti e aggressività e, più recentemente, si è scoperta una correlazione tra il caldo intenso e un aumento di comportamenti suicidari, oltre che all’ospedalizzazione per disturbi mentali.

Il cambiamento climatico, quindi, non sembra avere un impatto solamente sull’ambiente, ma anche sulla salute psicofisica degli individui, e in questo caso la figura dello psicologo potrebbe avere un ruolo chiave (Clayton, 2020). Infatti, sarebbero utili interventi di sensibilizzazione che aiutino a comprendere quali siano i possibili rischi di comportamenti nocivi per l’ambiente, oltre che a fornire delle possibili strategie con cui gestire le preoccupazioni derivate dal cambiamento climatico.

Cos’è l’amore?

Difficile dare una definizione di amore valida per tutti, ma sono stati fatti diversi studi a questo proposito e sono stati classificati diversi tipi di amore.

 

Come nasce l’amore e come si manifesta

Lasciamo per un attimo la visione poetica a cui siamo abituati e concentriamoci su qualcosa di più concreto: il nostro cervello ci fa innamorare non per una voglia di romanticismo, ma per assecondare un piano della natura che vuole la riproduzione della nostra specie. Sicuramente non è solo il cuore, ma anche il nostro cervello, a giocare un ruolo fondamentale nella scelta del partner.

Quanto tempo serve per innamorarsi?

Secondo BBC Science (2014) ci occorre un tempo che va dai 90 secondi ai 4 minuti per stabilire se una persona ci piace e questo ha poco a che vedere con quello che questa persona ci può dire, ma dipende da tre fattori che incidono in modo diverso:

  • per il 55% dal linguaggio del corpo (gesti, atteggiamento, sguardi);
  • per il 38% dal modo di parlare (tono e velocità della voce);
  • solo per il 7% dai contenuti che esprime.

Nel 1997, lo psicologo Arthur Aron ha compiuto degli esperimenti su 17 coppie di partecipanti che sono stati invitati a sottoporsi a questi tre passaggi:

  • trovare un perfetto estraneo/a;
  • parlare con lui/lei rispondendo a una serie di 36 domande prestabilite che spaziavano dal generico al personale;
  • guardarsi reciprocamente negli occhi, senza parlare, per 4 minuti.

Il tutto non doveva superare i 45 minuti di durata. Al termine, tutte le coppie coinvolte hanno dichiarato di sentirsi fortemente attratte, o comunque in forte sintonia con l’altro e due di esse sono arrivate al matrimonio.

Tipi di amore e possibili combinazioni

Va detto che ciascuno vive l’amore a modo suo e ciascuno si aspetta di avere in cambio qualcosa di preciso dall’altro. Difficile quindi dare una definizione valida per tutti, ma sono stati fatti diversi studi a questo proposito e sono stati classificati diversi tipi di amore. John Alan Lee (1973), sociologo canadese, ha catalogato diversi tipi di amore, come possiamo vedere di seguito:

  • Amore-romantico. Si pensa continuamente all’altro, c’è una forte attrazione, si cercano continue rassicurazioni e conferme. Generalmente non ha una durata molto lunga, a meno che non cambi fisionomia.
  • Amore-amicizia. Si cerca complicità, confidenza, si sviluppa lentamente e senza grande eccitazione, dà vita a un rapporto solido e tranquillo.
  • Amore-dipendente. Chi ama si sottomette volontariamente all’altro, dà senza aspettarsi niente in cambio.
  • Amore-logico. È frutto di una “selezione” rivolta a individuare la persona giusta, che abbia educazione e valori comuni, con lo scopo di realizzare un progetto a lungo termine.
  • Amore-gioco. Tipico di persone affascinanti che amano la sfida, mettersi in gioco, assaporare il gusto della conquista. Per lo più evita legami lunghi, duraturi ed emotivamente troppo coinvolgenti.
  • Amore-possesso. Si vuole controllare l’altro e si manifestano comportamenti instabili (quali crisi depressive, isterismo, aggressività) quando la relazione minaccia di entrare in crisi.

Ovviamente, oltre ad analizzare quale tipo di amore si cerca, ossia si è disposti a dare, è utile capire quale tipo di amore si vuole ricevere.

Studiando le possibili combinazioni si è arrivati a stilare una specie di tabella che, tenendo conto delle caratteristiche individuali di ciascuno dei due partner, riesce a dare una valutazione attendibile delle probabilità di riuscita di una coppia.

Perché questa abbia buone possibilità di risultare “vincente”, occorre che queste caratteristiche siano combinate nel modo giusto. Ne risulterebbe, ad esempio, che la combinazione di due persone che rientrano entrambe nella categoria “amore-amicizia” o nella categoria “amore-logico” sia ben riuscita, così come risulta ben riuscito un misto di queste due combinazioni. Più problematico sarà un rapporto tra “amore romantico” e “amore-amicizia”, perché le aspettative saranno inevitabilmente troppo diverse per conciliarsi bene. Un “amore romantico” potrà avere difficoltà anche con un partner che rientra nella medesima categoria, perché avrà bisogno di trovare continuamente nuovi modi di dimostrare il proprio amore. Grandi problemi presenterà anche una coppia formata da un “amore-possesso” e da un “amore-amicizia”, il primo soggetto alla tempesta della passione, il secondo che ama coccolarsi nella tranquillità dell’affetto .

Una nota critica meritano il tipo “amore-gioco” e il tipo ”amore-possesso”. Entrambi risultano difficili da amare e saranno quindi fonte di difficoltà in ogni tipo di combinazione che metteranno in atto.

La teoria triangolare

Robert Sternberg (1986), psicologo americano, propone un’interessante teoria che chiama “teoria triangolare dell’amore”. Questa si basa sul presupposto che i diversi tipi di amore siano determinati dalla differente combinazione di tre elementi base:

  • intimità
  • passione
  • impegno

Essi sono, appunto, i tre vertici di un immaginario triangolo. La diversa combinazione di questi elementi dà luogo a diversi tipi di amore. Secondo Sternberg, il successo e la durata di una relazione crescono quanto più sono gli elementi che questa comprende.

Ne derivano queste sette possibili forme di amore che sono spesso le fasi di un medesimo rapporto che si evolve in modo naturale. Vediamole nel dettaglio:

  • Amore amicizia, include solo un elemento, l’intimità. È la caratteristica tipica di un rapporto di vera amicizia in cui una persona si sente legata all’altra, ma senza passione e senza un impegno a lungo termine.
  • Infatuazione, si basa unicamente sulla passione e caratterizza molto spesso quello che definiamo “amore a prima vista”. Generalmente ha una breve durata.
  • Amore vuoto, si basa su un impegno reciproco ma manca di intimità e passione. È un tipo di rapporto diffuso, ad esempio, dove sono comuni i matrimoni combinati.
  • Amore romantico, è una combinazione di impegno e passione, si basa su un legame emotivo e psichico e sull’attrazione.
  • Compagnia, risulta essere una forma diffusa soprattutto nei matrimoni di lunga durata, quando la passione è spenta ma resta forte l’affetto e il desiderio di mantenere l’impegno preso con il partner. Può caratterizzare anche rapporti tra familiari o tra amici del cuore. È più forte della semplice amicizia perché comprende anche un impegno verso l’altro.
  • Amore turbolento, si basa su passione e impegno ma manca di intimità. È caratterizzato da corteggiamenti appassionati e può sfociare nel matrimonio, in questo caso è la passione a motivare la volontà di prendere un impegno con l’altro.
  • Amore perfetto, è la somma di tutti e tre gli elementi, rappresenta la relazione ideale, quella che tutti sognano ma che è difficile da realizzare. Può non essere eterno: ad esempio, se la passione viene meno, si trasformerà in compagnia. Secondo Sternberg mantenere un amore perfetto è ancora più difficile che conquistarlo, sottolinea l’importanza di tradurre questi elementi in azione per evitare il rischio che anche il più grande amore possa morire.

Le fasi dell’amore

L’antropologa Helen Fisher (2016), nel suo libro “Anatomia dell’amore”, descrive tre fasi attraverso le quali un interesse può sfociare in amore: desiderio, attrazione e attaccamento.

Generalmente un legame affettivo ha inizio con un forte desiderio ma è carente per quanto riguarda gli altri due elementi. La prima cosa che ci colpisce è l’aspetto fisico, ma non siamo ancora totalmente interessati a quella specifica persona; ad attrarci sono caratteristiche generiche: bellezza, fascino, ecc.

Dal semplice desiderio possiamo passare alla fase successiva, l’attrazione ci fa concentrare su quel particolare individuo e non su altri, cominciamo a sperimentare un desiderio di fedeltà.

 

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Editoriale del Prof. Giovanni M. Ruggiero

Su State of Mind ci siamo occupati, attraverso diversi articoli e una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano, dell’iniziativa Vivere Meglio promossa da ENPAP. Pubblichiamo oggi un editoriale, firmato dal Prof. Giovanni Maria Ruggiero, per tirare le somme sui punti di forza del progetto e sui dubbi che continua a sollevare, alla luce dei contributi pubblicati sulla nostra rivista. 

 

Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Gli scopi sono chiari. Il primo è favorire l’accesso gratuito dei cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Un secondo obiettivo è scientifico, dato che gli interventi saranno monitorati con lo scopo di verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference. Infine, vi è un vantaggio per gli operatori sanitari: psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione. Insomma, questa iniziativa è un possibile passo avanti verso l’accesso alla salute emotiva della popolazione generale e a trattamenti psicoterapeutici empiricamente fondati.

Tuttavia, accanto a questi vantaggi, sono sorte preoccupazioni. La prima riguarda la distinzione che il bando fa tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia. Il timore diffuso è che si crei una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici in cui si rischi di far effettuare a psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità. Insomma, si teme che il bando generi, o almeno favorisca, un danno alla qualità professionale dell’intervento psicoterapeutico in Italia.

Un altro timore riguarda la qualità della selezione e dell’invio dei pazienti al trattamento, selezione che avverrebbe in termini che ora sembrano corrispondere a un semplice screening e ora sembrano prevedere un’intervista psicodiagnostica. In altre parole, si teme che questa disattenzione metodologica danneggi la qualità dei dati raccolti, deteriorando anche il significato dei risultati.

Infine il terzo timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione che fornisce la borsa sia per alcuni aspetti frettolosa. Infatti, i beneficiari della borsa di studio devono frequentare tre giornate di formazione e tre mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta. Insomma, il timore è che il livello di assistenza fornito agli operatori che partecipano al congresso non sia sufficiente. È difficile per ora fare un bilancio almeno provvisorio di questa iniziativa. Al momento Il nostro parere è che ci pare che il bando ENPAP soddisfi una carenza della professione psicoterapeutica in Italia che non si sottopone ancora a pratiche formalizzate di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione continua dopo quella fornita dalle scuole e supervisione.

È plausibile che il bando Vivere Meglio sia stato favorito da un’altra iniziativa, la già citata Consensus Conference, letteralmente “Conferenza di Consenso”, sulle Terapie Psicologiche per Ansia e Depressione. State of Mind ha dedicato a questa iniziativa una serie di articoli. La conferenza è stata istituita dal Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), con lo scopo di diffondere la conoscenza delle evidenze empiriche di efficacia dei percorsi di assistenza psicologica specifica per i disturbi d’ansia e depressivi, percorsi che appaiono sotto-rappresentati nel sistema di cure del nostro Paese. I risultati sono stati pubblicati online in un documento finale della Consensus Conference

Tornando al bando, esso nasce anche con questo intento, anche se indubbiamente propone forme di selezione, formazione, supervisione e monitoraggio discutibili. Naturalmente il nostro parere è insufficiente e per permettere ai lettori di farsi un’idea più ampia del dibattito abbiamo pubblicato alcune interviste su questo argomento di altri autorevoli colleghi: Fabio Monticelli (presidente della SITCC, la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva), Enzo Sanavio (ex presidente della Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva Comportamentale) e Roberta Stoppa (coordinatrice delle sedi della scuola di psicoterapia Studi Cognitivi

Nelle interviste abbiamo rivolto ai colleghi gli stessi interrogativi che ci siamo posti in questo editoriale. Auguriamo buona lettura.

Atlante del genere: alla scoperta dell’euforia di genere (2022) – Recensione

L’obiettivo diAtlante del genere. Alla scoperta dell’euforia di genere” è quello di diffondere informazioni corrette basate sul sapere scientifico, con particolare attenzione all’uso del linguaggio inclusivo e vari consigli per migliorare il nostro rapporto con gli altri.

 

Spesso, di fronte alle tematiche legate alla sessualità e all’identità di genere ci si ritrova disorientati. Questo perché la tematica dell’identità di genere, e la sessualità in generale, è ricca di pregiudizi e falsi miti alimentati da vari fattori socio-culturali, tra cui la religione e politiche conservatrici contro la controversa “teoria del gender”.

Per aiutare le persone ad orientarsi con maggiore facilità all’interno del complesso mondo dell’identità di genere, le dottoresse Alessandra Daphne Fisher e Jiska Ristori, entrambe membre della World Professional Association for Transgender Health, con l’aiuto dell’illustratrice Angela Nicente, hanno recentemente pubblicato il libro “Atlante del genere. Alla scoperta dell’euforia di genere” (Fisher et al., 2022).

Questo libro, dedicato maggiormente a bambini ed adolescenti, è un vero e proprio atlante che permette di navigare tra i diversi miti e pregiudizi sull’identità di genere, che vengono poi demoliti dalla spiegazione scientifica del tema affrontato.

Il viaggio inizia con la prefazione del dottor Vittorio Lingiardi, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, il quale rassicura e informa gli adulti. Questo perché è proprio l’adulto ad aver già appreso una serie di pregiudizi verso l’identità di genere e ad avere maggiori difficoltà con questa tematica. Lingiardi, quindi, spiega come il libro metta in discussione questi pregiudizi e informazioni erronee, grazie alla spiegazione delle varie caratteristiche dell’identità di genere e delle due maggiori difficoltà che esperisce una persona il cui genere non è conforme allo standard sociale: il disagio per il proprio corpo e il minority stress.

Come accennato in precedenza, l’atlante è suddiviso in continenti e paesi. Per esempio: all’interno del “continente della conoscenza” è presente “il paese del tesoro nascosto” il quale affronta la tematica dell’identità di genere. Ogni paese viene poi suddiviso in tre sezioni: cosa si sente dire, chi si può incontrare ed esploriamo.

Nella sezione “cosa si sente dire” vengono presentati una serie di pregiudizi e affermazioni (erronee) di senso comune come “adesso va di moda il genere fluido”, “i giovani d’oggi sono troppo confusi e non sono capaci di identificarsi in niente”.

Successivamente, viene descritto il tipo di persona che si può incontrare in questo paese. Per esempio, nel paese del tesoro nascosto si troveranno persone che si identificano come femmina o maschio, e persone che si identificano in un genere diverso da quello che tendenzialmente ci si aspetta.

Infine, nella sezione “esploriamo” viene fornita la spiegazione basata sulla letteratura scientifica, la quale va a demolire quelli che sono i pregiudizi presentati nella sezione “cosa si sente dire”.

Per riassumere, l’obiettivo ultimo di “Atlante del genere. Alla scoperta dell’euforia di genere” (Fisher et al., 2022) è quello di diffondere informazioni corrette basate sul sapere scientifico e non sul sapere popolare, ricco di pregiudizi. Nel libro viene posta particolare attenzione all’uso del linguaggio inclusivo e vengono forniti vari consigli per migliorare il nostro rapporto con gli altri come, ad esempio, il chiedere con quali pronomi si identifica la persona che si ha di fronte. Il tutto accompagnato dalle illustrazioni esplicative di Angela Nicente, che rendono ancora più agevole la comprensione delle varie informazioni presentate.

Complessivamente, è un libro di facile lettura e comprensione che accompagna il lettore all’esplorazione dell’identità di genere. Seppur “Atlante del genere. Alla scoperta dell’euforia di genere” (Fisher et al., 2022) sia un libro scritto per bambini e adolescenti, è consigliata la lettura anche ad un pubblico adulto, che potrà giovare delle varie spiegazioni.

È un libro che rispetta e celebra le unicità, che vuole scardinare i pregiudizi e che educa il pubblico utilizzando parole adeguate per descrivere il complesso mondo della sessualità. Al bando, quindi, parole discriminatorie od obsolete, e parole che alimentano la cultura del pudore e della disinformazione, come patata e pisello al posto di vulva e pene.

Un must have che mancava nel mercato italiano.

Criminalità e differenze di genere: autocontrollo vs moralità

Lo studio di Ivert e colleghi (2018) ha avuto come obiettivo quello di verificare se ragazze e ragazzi adolescenti differiscono nella propensione al crimine, più precisamente nei valori morali e nell’autocontrollo, e se ci sono differenze di genere nelle correlazioni tra autocontrollo e reati o moralità e reati considerando anche il possibile effetto di genere.

 

La teoria dell’azione situazionale

 Cercando di comprendere al meglio la criminalità e i meccanismi alla base, una teoria riconosciuta a cui fare riferimento è la teoria dell’azione situazionale (Situational Action Theory – SAT), che afferma che la decisione di commettere un reato è il risultato di un’interazione tra propensione ed esposizione (Wikström et al., 2012). La propensione al crimine è un costrutto teorico chiave con due componenti principali: la capacità di esercitare autocontrollo e il livello di moralità. L’esposizione criminogena invece è la misura in cui l’individuo è coinvolto in contesti con caratteristiche criminogene.

Ad oggi, il divario di genere nella criminalità è ben documentato, con risultati che mostrano livelli più elevati di coinvolgimento criminale tra i ragazzi (ad es, Weerman & Hoeve, 2012). Secondo la teoria dell’azione situazionale, il divario di genere nella criminalità può essere spiegato da (1) differenze di genere nella propensione al crimine, (2) differenze di genere nell’esposizione a contesti criminogeni, o da entrambi (Weerman et al., 2015; Hirtenlehner & Treiber, 2017).

Ciò su cui ci concentriamo in questo articolo riguarda la prima ipotesi: l’esistenza di differenze di genere nella propensione al crimine, più precisamente nei valori morali e nell’autocontrollo.

Differenze di genere nella propensione al crimine

Nella letteratura precedente, numerosi studi hanno trovato prove a sostegno dell’ipotesi che un basso autocontrollo aumenti il rischio di reato e che forti valori morali lo diminuiscano (ad es, Antonaccio & Tittle, 2008). Mentre le associazioni tra l’autocontrollo e la moralità e il reato sono ben consolidate, le conoscenze empiriche per quanto riguarda il modo in cui questi fattori possono essere correlati nei differenti generi sono meno chiare.

Anche gli studi che indagano le differenze di genere nella capacità di esercitare l’autocontrollo non sono conclusivi (Tittle et al., 2003).

Uno studio di Steketee et al. (2013), ad esempio, ha riscontrato sia differenze di genere nelle valutazioni dell’autocontrollo, sia che un basso autocontrollo era un correlato più forte del reato nei ragazzi rispetto alle ragazze, mentre Weerman e colleghi (2015) hanno riscontrato differenze di genere significative nei livelli di autocontrollo, ma con effetti simili.

Inoltre, sia nel caso dell’autocontrollo che della moralità, le concettualizzazioni che vengono fatte di questi costrutti variano da uno studio all’altro.

I ricercatori usano spesso il termine moralità per riferirsi ai valori morali, cioè alle percezioni di ciò che è giusto o sbagliato (Loeber et al., 1998). Weerman e colleghi (2015) hanno dimostrato che le ragazze sembrano avere valori morali più elevati dei ragazzi, ma, come nel caso dell’autocontrollo, I’entità dell’effetto dei valori morali sulla delinquenza sembra essere piuttosto simile per i due sessi.

Criminalità, autocontrollo e moralità

 Il perché e il come l’autocontrollo e la moralità interagiscano sulla criminalità sono stati discussi nell’ambito della teoria dell’azione situazionale. Secondo questa teoria, gli individui si differenzierebbero sulla base di punteggi più alti o più bassi di valori morali, e questo determinerebbe il considerare o meno il crimine come un’opzione (Wikström et al., 2012). Si presume quindi che il reato sia principalmente una questione di moralità e non di scarso autocontrollo (Wikström, 2006; Wikström & Treiber, 2007). Quando un individuo non vede il crimine come un’alternativa di azione – cioè ha un alto livello morale – non ha bisogno di autocontrollo, e la capacità di esercitare l’autocontrollo diventa quindi irrilevante come causa del crimine.

Alla luce di quanto detto, lo studio di Ivert e colleghi (2018) ha avuto come obiettivo principale quello di verificare se ragazze e ragazzi adolescenti differiscono nella propensione al crimine, più precisamente nei valori morali e nell’autocontrollo, e se ci sono differenze di sesso nelle correlazioni tra autocontrollo e reati o moralità e reati considerando anche il possibile effetto di genere.

I risultati hanno dimostrato che, in linea con la letteratura precedente, le ragazze avevano meno probabilità di commettere reati rispetto ai ragazzi. Alcuni autori sottolineano che bassi livelli di autocontrollo siano una delle cause principali del coinvolgimento nel crimine (Gottfredson & Hirschi, 2016), ma non sono state riscontrate differenze tra ragazze e ragazzi nei livelli di autocontrollo. Inoltre, le correlazioni tra l’autocontrollo e il coinvolgimento nel crimine erano simili per genere.

Ciò indica che, sebbene l’autocontrollo possa essere un fattore importante per spiegare il coinvolgimento individuale nel crimine, non può spiegare le differenze nel coinvolgimento nel crimine tra ragazze e ragazzi.

I valori morali, invece, sembrano essere più fortemente correlati al reato nelle ragazze rispetto ai ragazzi. Ciò è in linea con altri risultati (ad es, Svensson, 2015; Weerman et al., 2015) che hanno riportato che i maggiori atteggiamenti morali tra le ragazze spiegano il perché le donne commettano meno reati rispetto agli uomini.

In sintesi, quindi, i valori morali potrebbero spiegare in qualche misura le differenze di genere osservate nel campione per quanto riguarda il coinvolgimento nel crimine, anche se le differenze osservate nei valori morali non spiegano completamente la differenza osservata nei reati. Questo può derivare solo dal fatto che, sebbene statisticamente significativa, la differenza nelle valutazioni morali era piuttosto piccola.

È stata inoltre confermata un’interazione tra valori morali e autocontrollo in relazione al coinvolgimento criminale degli adolescenti; questa però, non sembra essere influenzata dal genere.

In conclusione, i risultati dello studio di Ivert e colleghi (2018) supportano l’ipotesi che gli effetti della moralità e dell’autocontrollo siano generali e si applichino in modo simile ad entrambi i sessi. Queste variabili non possono spiegare completamente le differenze di genere osservate nei reati, per cui sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere il coinvolgimento degli adolescenti nella criminalità.

Come facilitare l’accesso alle terapie psicologiche? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 17

In questo numero della rubrica sulla Consensus Conference analizzeremo il problema del gap di trattamento e le relative soluzioni ipotizzate dagli Esperti. Per “gap di trattamento” si intende il divario esistente tra l’elevato numero di persone che soffrono di disturbi d’ansia e depressivi (cioè i Disturbi Mentali Comuni, DMC) e il ridotto numero di coloro che ricevono un trattamento specifico. Per ridurre il gap di trattamento è necessario innanzitutto lavorare per facilitare l’accesso alle terapie psicologiche delle persone con DMC.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 17) Come facilitare l’accesso alle terapie psicologiche?

 

Quesito D2: una linea d’azione a più livelli

 Quale strategia appare più efficace e operativamente gestibile per facilitare l’accesso alle terapie psicologiche delle persone con disturbi d’ansia e depressivi e ridurre il grave gap di trattamento?

Thornicroft e colleghi nel loro report del 2017 osservano che, nel mondo, la maggioranza delle persone affette da ansia e depressione non riceve alcun trattamento. Ciò è dovuto al fatto che, come è scarsa la disponibilità dei servizi, così è scarsa la richiesta di aiuto da parte di chi è affetto da disturbi ansiosi o depressivi. Infatti, dall’indagine World Mental Health (WMH), condotta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS; Wang et al., 2007), è emerso che una significativa percentuale di persone con un disturbo d’ansia (41%) e di quelle con un disturbo depressivo (57%) non ritenevano necessario iniziare un trattamento. Alcuni autori (Lega & Gigantesco, 2008) attribuiscono ciò a fattori come disinformazione, scarsa consapevolezza di essere affetto da un disturbo mentale e paura dello stigma legato proprio ai disturbi mentali. 

In Italia, tra il 2001 e il 2003, sembra che solamente il 17% degli individui con un Disturbi Mentali Comuni si fosse rivolto al Servizio sanitario nel corso dell’anno precedente allo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders; Alonso et al., 2004; De Girolamo et al., 2005). Tra questi, il 38% aveva consultato solo il Medico di Medicina Generale (MMG), il 21% solamente uno psichiatra e il 6% solamente uno psicologo. Dunque, il MMG e il suo ambulatorio rappresentano un punto di riferimento anche per la gestione dei Disturbi Mentali Comuni, anche perché spesso disturbi depressivi e d’ansia presentano comorbilità con problematiche fisiche; perciò, l’ambulatorio del medico di base rappresenta un luogo favorevole per la diagnosi precoce e la prevenzione.

La World Health Organization (WHO) seleziona i Servizi di cure primarie come luoghi dove formare operatori specializzati nel riconoscere i Disturbi Mentali Comuni, oltre che a fornire interventi di psicoeducazione. Questi programmi richiedono una collaborazione tra Servizi di cure primarie e Servizi specialistici di salute mentale, al fine di implementare procedure adeguate. L’efficacia dell’integrazione di questi due Servizi è stata osservata in diverse rassegne sistematiche (Bower et al., 2006; Gilbody et al., 2006).

In Italia, sembra che i Servizi di salute mentale siano principalmente concentrati sulla presa in carico di disturbi mentali gravi, offrendo poco spazio ai Disturbi Mentali Comuni (Lega & Gigantesco, 2008). Ciò è determinato dal gap tra la stima della domanda potenziale e le risorse effettivamente disponibili. Infatti, la disponibilità di psicologi nel Sistema Sanitario Nazionale (SSN) garantisce solamente una copertura del 20% delle potenziali richieste di psicoterapia per coloro che soffrono di Disturbi Mentali Comuni (CREA, 2019). Il risultato è una carenza di alternative rispetto al trattamento farmacologico, che rappresenta nella maggior parte dei casi la principale opzione terapeutica (De Girolamo et al., 2005). 

 Gli Esperti sottolineano inoltre che “la disponibilità di terapie psicologiche efficaci non garantisce, di per sé, che esse siano implementate in maniera efficace e efficiente” (ISS, 2022, p. 30), in questi termini la formazione professionale continua e il monitoraggio degli esiti dei percorsi di cura rivestono un ruolo determinante. Rispetto al monitoraggio e al controllo di qualità degli interventi psicosociali e psicoterapeutici, e alla loro conseguente implementazione, una recente Consensus Conference (Institute of Health Economics, 2014) ha suggerito di avvalersi di un ente di assistenza tecnica composto principalmente da accademici esperti preposti alla gestione di tali aspetti.

Raccomandazioni D2

Con l’obiettivo di individuare soluzioni percorribili per rendere maggiormente accessibili le cure psicologiche, nell’ottica di ridurre l’attuale grave gap di trattamento, gli Esperti suggeriscono di agire “a tutti i livelli del problema”, considerando la struttura del Sistema Sanitario Nazionale e le differenze regionali.

Primariamente, è necessario attivare iniziative di sensibilizzazione su ansia e depressione per tutti i cittadini, rivolgendosi in modo mirato a specifiche fasce di età e popolazioni più a rischio, per combattere lo stigma e incrementare la consapevolezza dei trattamenti efficaci esistenti.

Successivamente, si raccomanda di sviluppare percorsi diagnostici e assistenziali per i disturbi d’ansia e depressivi condivisi da diversi professionisti e servizi, per garantire cure basate sui tre livelli del modello stepped care in specifiche organizzazioni regionali, oltre a facilitare la comunicazione e le transizioni tra i servizi per garantire la continuità territoriale.

Inoltre, mettendo in pratica le competenze degli operatori e dei servizi di assistenza sanitaria primaria (come medicina di base, consultori familiari, ecc.), nonché della medicina penitenziaria, i disturbi d’ansia e depressivi possono essere individuati precocemente in tali contesti, così da attivare conseguentemente e contestualmente il trattamento di I livello (come l’auto-aiuto guidato). Riguardo i trattamenti di intensità maggiore (quindi II e III livello, secondo il modello stepped care) è necessario incrementare le competenze dei professionisti e dei servizi di salute mentale per poterli erogare adeguatamente. Infine, in previsione di situazioni più complesse (per esempio, in presenza di una compresenza di più psicopatologie) deve essere messo a disposizione un numero sufficiente di operatori per organizzare i diversi livelli d’intervento e le procedure necessarie.

 

Battito animale: anche le scimmie percepiscono il proprio cuore

Ad oggi, il modello animale più diffuso nel campo delle neuroscienze psichiatriche è quello dei roditori, ma l’enterocezione nell’uomo è radicalmente differente da quella nei ratti e si avvicina maggiormente a quella delle scimmie rhesus.

 

Amy (nome di fantasia) non sembra particolarmente infastidita dagli elettrodi che la dottoressa Bliss-Moreau le ha applicato sul corpo. I fili dell’elettrocardiografo forse sono un po’ una scocciatura, ma niente di insopportabile. La sua curiosa testolina fa capolino dal foro sulla parete superiore della scatola trasparente in cui è rinchiusa. I suoi occhietti vispi guizzano rapidi mentre, rapita, cerca di seguire sul monitor le figure che rimbalzano da una parte all’altra dello schermo: forme gialle e rosa si susseguono e rincorrono a velocità diverse, dando vita a un’allegra danza colorata.

Eppure, non tutte le figure catturano l’attenzione di Amy, simpatica scimmietta rhesus. Alcune infatti sono degne solo di una breve sbirciatina: sono quelle che danzano al ritmo del suo cuore. Le altre invece sono di gran lunga più interessanti per Amy e i suoi tre allegri compagni di gioco, tanto che si soffermano in media 0,83 secondi in più sulle figure che si muovono più velocemente e 0,68 secondi in più sulle figure che si muovono meno rapidamente rispetto al loro battito cardiaco.

Lo studio condotto da Bliss-Moreau et Al. (2022) fornisce quindi la prova che “come gli esseri umani, le scimmie rhesus sono in grado di percepire i segnali enterocettivi e di integrare questi segnali con le informazioni sensoriali esterocettive”. Insomma, le scimmie, proprio come noi, sono in grado di percepire il loro cuore pulsare e di integrare queste informazioni fisiologiche con segnali esterni! Non è incredibile?!

Ma perché tutto questo entusiasmo? Chiederete voi.

L’enterocezione, cioè la percezione dei segnali provenienti dal nostro corpo, è coinvolta in un ampio numero di funzioni, tra cui l’omeostasi e la coscienza di sé, influenza i processi cognitivi ed emotivi, gioca un ruolo determinante in diverse condizioni, come ansia, depressione, disturbo di panico, disturbi alimentari, disturbo correlato a uso di sostanze, disturbi dello spettro autistico.

Ad oggi, il modello animale più diffuso nel campo delle neuroscienze psichiatriche è quello dei roditori. Tuttavia, l’elaborazione enterocettiva nell’uomo e nei ratti, per non dire nei topi, è radicalmente differente.

Nei roditori sono coinvolte proiezioni dirette dal nucleo parabrachiale all’insula e alla corteccia prefrontale ventromediale assenti nei primati, mentre nelle scimmie (e nell’uomo) le informazioni enterocettive sono elaborate attraverso un sistema anatomico filogeneticamente nuovo che comprende l’insula, la lamina del tratto spinotalamico e il nucleo talamico ventromediale, consentendo la proiezione diretta di segnali enterocettivi sui circuiti talamocorticali.

Inoltre, l’insula dei primati è ben più complessa di quella dei roditori, è dotata di neuroni sensibili ai barocettori, i recettori presenti nei vasi sanguigni e nel cuore coinvolti nei meccanismi di mantenimento della pressione sanguigna a livelli costanti, e alcuni studi hanno mostrato come le scimmie possano influenzarli modificando così la propria frequenza cardiaca o pressione sanguigna in risposta a stimoli esterni, proprio come noi.

L’esperimento di Bliss-Moreau e colleghi (2022) aggiunge un nuovo elemento al quadro: le scimmie reshus integrano le informazioni enterocettive cardiache e le sensazioni esterne in modo molto simile agli esseri umani.

Per questo i primati come modello animale rappresentano il miglior candidato per lo studio dell’enterocezione, altro che topi! Si tratta di un modello animale più accurato, che ben si presta a manipolazioni del sistema nervoso sia centrale sia periferico anche attraverso modalità non invasive, e che potrebbe quindi segnare una rivoluzione nel campo della ricerca psichiatrica umana.

 

La dissociazione nel Disturbo da Stress Post-Traumatico: dati da una recente revisione

La revisione sistematica della letteratura condotta da un gruppo di ricerca della Sigmund Freud University di Milano, e pubblicata sul Journal of Trauma and Dissociation, ha analizzato 13 studi svolti con l’applicazione di una particolare tecnica statistica nota come Latent Profile Analysis (LPA), molto utile per lo studio di fenomeni clinici altamente complessi ed eterogenei come il PTSD.

 

Introduzione

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD) è una diagnosi dalla storia complessa, caratterizzata da molte modifiche e controversie (North et al., 2016). Tra le principali motivazioni alla base dei dibattiti degli ultimi anni sul PTSD troviamo, nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), l’aggiunta del sottotipo di PTSD “con sintomi dissociativi” (American Psychiatric Association [APA], 2013/2014, pag. 315), che riprende il dilemma su quale sia la natura della relazione tra eventi traumatici e dissociazione e la definizione stessa di dissociazione (Nijenhuis, 2014; Schimmenti e Caretti, 2014). Questo complica ulteriormente il quadro di una diagnosi già di per sé grave, che colpisce adulti e bambini (Forresi et al., 2020) ed è accompagnata da effetti deleteri su plasticità sinaptica e funzionamento cognitivo (Lamanna et al., 2021).

In breve, per Disturbo da Stress Post-Traumatico Dissociativo (Dissociative Post-Traumatic Stress Disorder [D-PTSD]) si intende un quadro clinico in cui, accanto alle caratteristiche “tradizionali” del PTSD (sintomi intrusivi, evitamento, alterazioni cognitivo-emotive negative e iper-reattività), il paziente presenta depersonalizzazione (esperienza di distacco dal proprio corpo) e/o derealizzazione (esperienza di irrealtà dell’ambiente circostante; APA, 2013/2014, pag. 315). La prevalenza di questo disturbo varia molto in letteratura, con valori che raggiungono quasi il 50% a seconda del metodo di analisi e del campione studiato (Misitano et al., 2022; White et al., 2022). L’inclusione di questo sottotipo tra le diagnosi ufficiali è stata supportata da diverse fonti: in primo luogo, studi neuroscientifici, che nei pazienti con Disturbo da Stress Post-Traumatico Dissociativo evidenziano pattern di connettività funzionale caratterizzati da una iperattivazione delle zone prefrontali e dall’ipoattivazione delle aree limbiche (Lanius et al., 2018). Inoltre, l’inclusione di questo sottotipo è supportata da analisi psicometriche, al centro di una revisione sistematica di recente pubblicazione (Misitano et al., 2022).

Lo studio

La revisione sistematica della letteratura in questione, condotta da un gruppo di ricerca della Sigmund Freud University di Milano e pubblicata sul Journal of Trauma and Dissociation (la rivista ufficiale della Società Internazionale degli Studi sul Trauma e sulla Dissociazione), ha analizzato 13 studi svolti con l’applicazione di una particolare tecnica statistica nota come Latent Profile Analysis (LPA). Questa tecnica, a partire da variabili continue, suddivide il campione di partenza in diversi sottogruppi (o profili) sulla base di caratteristiche condivise. Pertanto, si rivela molto utile per lo studio di fenomeni clinici altamente complessi ed eterogenei come il PTSD (Galatzer-Levy e Bryant, 2013).

Complessivamente, lo studio (Misitano et al., 2022) rivela che la letteratura, in campioni dalle più varie caratteristiche e utilizzando strumenti di valutazione molto diversi, individua costantemente un sottogruppo di persone che presentano livelli significativamente più alti di sintomi dissociativi rispetto agli altri profili, anche se per quel che riguarda i sintomi centrali del PTSD la gravità è del tutto comparabile. Inoltre, la percentuale di individui appartenenti a questo profilo dissociativo è risultata essere attorno al 17%, dato molto simile a quanto ottenuto in un altro studio (23%; White et al., 2022).

Tuttavia, come in parte accennato poco sopra, dalla revisione della letteratura risulta evidente una notevole eterogeneità negli studi. Infatti, gli studi sono stati svolti su campioni estratti dalla popolazione generale esposti ad eventi potenzialmente traumatici così come su pazienti o veterani di guerra con PTSD, conducendo interviste cliniche o questionari autosomministrati e analizzando sintomi dissociativi che non sempre si limitavano a depersonalizzazione e derealizzazione. Quest’ultimo dato è particolarmente rilevante, in quanto alcuni studi hanno individuato un profilo dissociativo non solo differente in quei due sintomi, ma per altri sintomi quali problemi di consapevolezza e memoria o dispercezioni sensoriali (Misitano et al., 2022).

Conclusioni

In conclusione, lo studio (Misitano et al., 2022) conferma la solidità della Latent Profile Analysis nell’individuare un sottogruppo di soggetti esposti ad eventi potenzialmente traumatici caratterizzati da una risposta sintomatica dissociativa. Tuttavia, avere campioni dalle caratteristiche molto diverse (e non sempre nemmeno diagnosticati con PTSD, che sarebbe un prerequisito necessario per l’individuazione del sottotipo), analizzare sintomi – dissociativi e non – con strumenti differenti e valutare il numero e il tipo di eventi potenzialmente traumatici in un modo non sistematico impedisce un confronto approfondito tra i vari studi, così come una caratterizzazione più accurata del D-PTSD. Studi futuri dovranno porre rimedio a questi limiti; così facendo, sapranno dare indicazioni molto più precise per il trattamento, psicoterapeutico o farmacologico.

 

La mindfulness come strumento per affrontare il burnout

Il burnout si manifesta con una sintomatologia varia, ma il sintomo più comune sembra essere un forte senso di affaticamento, accompagnato da un esaurimento emotivo.

 

 Nel contesto lavorativo, le problematiche legate alla salute mentale sono diventate una delle cause principali dell’assenteismo sul luogo di lavoro e dal pensionamento anticipato in ormai tutti i paesi industrializzati (Micklitz et al., 2021). Le conseguenze non impattano solamente l’individuo o l’organizzazione, ma provocano un danno enorme anche all’economia dei paesi e alla società. In Unione Europea, è stato stimato che il costo totale della ridotta produttività causata da motivazioni legate alla salute mentale è di circa 136 miliardi di euro all’anno. Nel Regno Unito, tra il 2009 e il 2013, il numero totale di giorni di malattia dovuti a stress, depressione e ansia è aumentato del 24%. Tra le varie problematiche di salute mentale legate al mondo del lavoro, il burnout sembra essere quella più prevalente tra le professioni sanitarie. Infatti, in uno studio condotto nel Regno Unito, circa il 31,5% dei medici totali partecipanti allo studio ha riportato sintomi di burnout.

Introduzione al Burnout

Il burnout si manifesta con una sintomatologia varia, ma il sintomo più comune sembra essere un forte senso di affaticamento, accompagnato da un esaurimento emotivo (Leiter et al., 2014). Inoltre, sono state identificate altre due dimensioni altrettanto importanti, ovvero la depersonalizzazione e un forte senso di inefficacia personale. Le conseguenze del burnout sono molte, tra cui la perdita di creatività, un ridotto impegno lavorativo, aggressività nei confronti dei colleghi e dei clienti, sofferenza fisica ed emotiva e una sensazione generale di vuoto. Maggiore è il livello di burnout, maggiore è la possibilità che l’individuo possa involontariamente attuare dei comportamenti negativi verso sé stesso, i clienti, i colleghi o l’organizzazione.

Inoltre, è stato osservato che i lavoratori che esperiscono burnout tendono ad attuare più frequentemente comportamenti di assenteismo sul lavoro, ridotta produttività e riportano una maggiore propensione a lasciare l’organizzazione (Leiter et al., 2014). Il burnout si associa a problematiche sia fisiche che mentali, come difficoltà emotive, rigidità cognitiva, cinismo interpersonale, irritabilità, depressione, ansia, insonnia e bassa autostima (Leiter et al., 2014). Inoltre, sono frequenti deterioramenti relazionali sociali e familiari.

La mindfulness come trattamento per il burnout

 Dato che il burnout è un fenomeno diffuso e con effetti disastrosi, le organizzazioni stanno implementando sempre più strategie per gestirlo, e una di queste è l’utilizzo della mindfulness (Choi et al., 2022). La mindfulness ha dimostrato una buona efficacia nel gestire i sintomi del burnout. A livello individuale, la mindfulness ha effetti positivi sull’autoregolazione emotiva, sulle funzioni cognitive e sul benessere psicofisiologico dell’individuo. È stato osservato che la mindfulness aumenta la flessibilità cognitiva, riduce la ruminazione e il senso di inefficacia, grazie alle tecniche di rilassamento e meditazione proposte.

Per quanto concerne il contesto lavorativo, la mindfulness sembra avere numerosi effetti positivi sulla motivazione e sul comportamento dei lavoratori, incoraggiando le relazioni tra colleghi, aumentando la resilienza e riducendo l’impulsività e la rigidità verso stimoli percepiti come minacciosi, come le richieste dei superiori o i rimproveri (Choi et al., 2022). Altri effetti lavorativi positivi sono una maggiore frequenza di comportamenti prosociali, un impegno lavorativo maggiore e un incremento nella produttività, oltre alla riduzione di comportamenti negativi come l’assenteismo.

Sembra quindi che gli individui che praticano mindfulness abbiamo un bagaglio di skills più ampio per affrontare stress e difficoltà lavorative rispetto ai non praticanti, disponendo di strategie utili per gestire al meglio situazioni sfidanti, aumentando così il senso di competenza e di autonomia (Grover et al., 2017).

 

Nature-Based Therapy: i trattamenti psicosociali per la salute mentale basati sulla natura

L’articolo è un’introduzione alla Nature-Based Therapy (o Nature-Assisted Therapy), che consiste in trattamenti psicosociali per la salute mentale basati sulla natura.

 

 Secondo recenti studi più del 90% della nostra esistenza è passata in ambienti chiusi (Chalquist, 2009). Se questo dato poteva sembrare eccessivo prima della pandemia, purtroppo le condizioni di vita attuali rendono questo dato facilmente accertabile per la maggior parte di noi.

D’altronde non potrebbe essere diverso. Lo stile di vita cittadino ci costringe, a parte qualche breve parentesi nei mesi primaverili ed estivi, a vivere quasi tutte le ore della quotidianità negli spazi chiusi della casa e dell’ufficio; le palestre sono luoghi dove l’attività fisica è praticata per lo più al chiuso; usciamo con gli amici e con i colleghi per raggiungere luoghi dove poter mangiare, bere, ascoltare musica, vedere un film etc., per lo più al chiuso.

Insomma, conduciamo stili di vita coltivati entro spazi delimitati, in ambienti artificiali.

Ma non è stato sempre così. Per la maggior parte della propria storia, che possiamo far risalire fino alla comparsa dei primati circa 65 milioni di anni fa, l’uomo ha sempre vissuto a stretto contatto con la natura e probabilmente tutti gli adattamenti che abbiamo sviluppato, dal punto di vista biologico, anatomico e psicologico, hanno visto il proprio innesco in funzione della sopravvivenza alle sfide ricorrenti poste dagli ambienti naturali (foreste, pianure, colline, montagne, coste) e dai pericoli che presentava (Orians, 1980; Tomasello, 1999).

Le città vere e proprie vedono invece la propria nascita in epoca estremamente recente rispetto alla storia dell’umanità, andando indietro nel tempo per quel che ne sappiamo fino a 10-13000 anni fa (si vedano le datazioni di Aleppo, Gerico, Matera). Anche se dopo Darwin permangono ancora sacche di incredulità di fronte all’ipotesi evoluzionistica, si può dare per scontato che essa sia la spiegazione più comunemente accettata per spiegare come l’essere umano sia giunto ad essere ciò che è. La conseguenza per il nostro discorso è che la vita urbana è uno sviluppo talmente recente nella storia dell’umanità che sarebbe difficile poter dire, rispetto ai tempi lunghi dell’evoluzione (milioni di anni), come avremmo potuto sviluppare adattamenti ulteriori per lo stile di vita urbano, in così poco tempo.

Benessere individuale e vita urbana

Vuol dire che non siamo ‘tagliati’ per la vita di città? Assolutamente no.

Ma i dati sulla relazione tra benessere individuale, sanità pubblica e vita urbana pongono degli interrogativi in questo senso.

Ad esempio tra gli abitanti delle città sembra essere presente una maggiore prevalenza di disturbi dell’umore e disturbi d’ansia (Peen, Schoevers, Beekman & Dekker, 2010) e l’incidenza della schizofrenia è più elevata per persone nate e cresciute in ambienti cittadini (Krabbendam & van Os, 2005).

Se in questo quadro provvisorio consideriamo che almeno la metà della popolazione mondiale vive nelle città (Dye, 2008), la relazione tra salute e contesto urbano è certamente degna di essere studiata per trovare dei modi con i quali migliorare il benessere delle persone che vivono in città senza stravolgerne le routine e lo stile di vita (si vedano per esempio le linee guida dell’OMS sulla ‘Healthy City”).

Nel contesto del trattamento dei disturbi mentali e di forme di disagio più o meno gravi, i trattamenti basati sulla natura (Nature Therapy, oppure Nature-Based Therapy, oppure Nature-Assisted Therapy) sono interventi di tipo psicosociale che si propongono di sfruttare elementi del contesto naturale per curare o prevenire lo stato di malattia (Song, Ikei & Miyazaki, 2016).

Le ipotesi alla base della loro efficacia possono essere inquadrate nella cornice bio-psico-sociale (Engel, 1977) e si fondano sull’idea che l’esposizione alla natura abbia un intrinseco effetto salutotropo.

In letteratura prevalgono alcune ipotesi:

  • Ipotesi della savana (Orians, 1980): i meccanismi adattivi sviluppati nel corso dell’evoluzione sono vincolati alla scelta degli habitat idonei alla sopravvivenza (in origine: la savana africana) e ciò in parte si riflette nella preferenza e nella qualità positiva dell’esperienza vissuta a contatto con gli ambienti naturali;
  • Ipotesi della biofilia (Kellert & Wilson, 1993): gli stimoli naturali hanno la qualità intrinseca di affascinare l’osservatore, catturandone e concentrandone l’attenzione sulle diverse forme di vita, e stimolando in lui/lei la partecipazione empatica nei confronti di esse;
  • Teoria del recupero dallo stress (Ulrich, 1983): gli esseri umani, soprattutto quando sono sotto stress, possiedono un’alta reattività a base biologica -che determina un orientamento automatico dell’attenzione- per gli ambienti naturali. L’esposizione ad essi comporta conseguenze positive a livello emotivo e fisiologico;
  • Teoria dell’attenzione rigenerata (Kaplan, 1995): l’attenzione diretta e prolungata verso un compito o degli obiettivi attuali comporta fatica e consumo di risorse. Il recupero può essere supportato dal contatto con le peculiari caratteristiche degli ambienti naturali e dalle esperienze che ne derivano: fascinazione (che fornisce occasioni di riflessione), estensione (la varietà e l’intima coerenza degli ambienti naturali permette il distacco da sé), compatibilità (tra l’ambiente naturale, gli intenti e le inclinazioni della persona). Questi aspetti concorrono al recupero attentivo e al sentirsi rigenerati (restorative experience).

Queste prospettive, da punti di vista diversi, convergono alla conclusione che, se la persona si sente stressata, l’incontro con l’ambiente naturale, relativamente docile e sicuro nei confronti dell’uomo, avrà un influsso rigenerativo e comporterà una riduzione dello stress e dei suoi effetti avversi.

Interventi psicosociali basati sulla natura

Dal punto di vista operativo, esercitare un’attività di qualsiasi tipo a contatto con la natura dovrebbe determinare effetti terapeutici a livello:

  • biologico: direttamente o indirettamente (per mezzo dell’attività fisica) su parametri rilevanti per la salute fisica (pressione cardiaca, variabilità della frequenza cardiaca, livelli di glucosio e colesterolo nel sangue, funzione immunitaria, biomarker dello stress etc.);
  • psicologico: sui livelli di disagio, benessere percepito, emozionalità negativa, psicopatologia e funzioni cognitive (ad es. attenzione);
  • sociale: condivisione di attività e spazi come stimolo alla socializzazione e occasione per reperire risorse di supporto sociale.

La letteratura sull’impatto positivo dell’ interazione con la natura ormai è molto ampia, con un alto livello di attenzione corrisposto da parte dei ricercatori di contesto orientale, probabilmente a causa di riferimenti culturali per noi meno immediati. Un esempio forse più noto di altri è l’attività di ‘Shinrin-yoku’ o ‘Forest Bathing’, ovvero passeggiare nei boschi per periodi di tempo prolungati, che comporta in chi la pratica livelli inferiori di stress (Antonelli, Barbieri & Donelli, 2019) e di disagio emotivo (Kotera, Richardson & Sheffield, 2022) rispetto a chi non la pratica.

 Le ricerche sul tema prevedono una varietà di trattamenti che vanno dall’inserire elementi di interazione con la natura nel contesto psicoterapeutico (Corazon, Stigsdotter, Moeller, & Rasmussen, 2012) o al di fuori di esso (Raanaas, Patil, & Hartig, 2012), all’intervenire con programmi di attività nella natura (giardinaggio, orticultura, passeggiate tematiche etc.; Moeller, King, Burr, Gibbs, & Gomersall, 2018), fino a interventi più o meno marcati di modifica dell’architettura urbana (Carter & Horwitz, 2014).

La letteratura esistente conferma l’impatto positivo del contatto con la natura a livello:

  • biologico: aumento dei livelli di attività fisica (Jia, & Fu, 2014), diminuzione dei biomarker dello stress (Bay-Richter, Träskman-Bendz, Grahn, & Brundin, 2012);
  • psicologico: miglioramento del tono dell’umore (Mao et al., 2012), diminuzione dei livelli di nevroticismo e aumento dei livelli di benessere psicologico (Marselle, Warber, & Irvine, 2019), miglioramento delle funzioni cognitive (Park, Lee, Park, & Lee, 2019), miglioramento degli indici di psicopatologia (Shanahan et al., 2016), tra le altre cose;
  • sociale: benefici dati dalla condivisione di spazi, attività e socializzazione (de Boer et al., 2017).

Conclusioni

Cosa ricavare da questa breve introduzione?

Per i clinici potrebbe essere utile integrare come coadiuvante al trattamento attività che presuppongano l’esposizione sistematica alla natura e alle aree verdi.

Per i ricercatori potrebbe essere interessante notare, cosa non scontata, che alcuni studi evidenziano tra l’esposizione all’ambiente naturale e i benefici a livello fisico e psicologico una relazione dose-risposta (Shanahan, et al. 2016), in base alla quale più è prolungata l’esposizione all’ambiente naturale, maggiori sono i cambiamenti rilevabili dai questionari e dai test; oltre all’abbondanza di studi che presentano carenze metodologiche di qualche tipo (minacce alla validità interna, carenza di potenza statistica etc.).

In ottica di intervento si segnala l’abbondanza di rassegne sistematiche cui corrisponde, a livello italiano, la relativa mancanza di programmi di intervento implementati sul territorio, probabilmente sotto l’assunto che siano propriamente attinenti all’area pedagogico-sociale. Questo è probabilmente vero date le caratteristiche degli interventi (avvengono all’aperto, si basano spesso su attività fisica e manuale, spesso prevedono attività laboratoriali ed educative), ma non per i loro effetti, di cui si è parlato fino adesso e rilevabili soprattutto con gli strumenti della psicologia.

Infine, per tutti quanti, fare conoscenza di questi benefici può essere uno stimolo a mettere in discussione uno stile di vita prevalentemente orientato al consumo appiattito materialisticamente -poco attento a ciò che è diverso, ai valori e all’altro da sé- per scoprire quel qualcosa in più che un più frequente contatto con la natura può dare all’esistenza.

 

Genitori in trance – Intervista al produttore del podcast Giacomo Zito – FluIDsex

Intervista a Giacomo Zito, produttore del podcast Genitori in trance, dedicato ai genitori di persone transgender, al loro vissuto e a quello de* loro figl*.

Intervista a cura di Greta Riboli, Luca Daminato, Clinica Età Evolutiva di Milano

 

Genitori in trance, è il nuovo podcast prodotto da gli Ascoltabili, uscito a fine giugno 2022, scritto da Giacomo Zito e da Giuseppe Paternò Raddusa, e condotto dal neuropsichiatra infantile Furio Ravera, il quale farà conoscere al grande pubblico il vissuto di genitori di persone transgender e di conseguenza l’esperienza e le esigenze delle persone transgender stesse. Ognuno dei sei episodi racconta una storia diversa, ricca di sfaccettature emotive, e accompagnata dall’importante bisogno di rassicurazione, comprensione e informazione, che i genitori portano al dottor Ravera.

Genitori in trance può accompagnare tutti i genitori che si trovano nella trance, e sensibilizzare il pubblico sul vissuto transgender.

La sofferenza delle persone transgender è ben documentata in letteratura, così i timori dei protagonisti Tecla, Ranieri, Orlando, Paola, Amina e Angelo possono essere le storie dei genitori che si recano in terapia insieme ai propri figli per affrontare questo complesso percorso

Buon ascolto!

Intervistatore (I): Potrebbe spiegare al nostro pubblico di cosa parla “genitori in trance”?

Giacomo Zito (GZ): Genitori in trance è una serie in audio pensata e prodotta da Gli Ascoltabili che si concentra su un triplo livello narrativo. Ci sono persone giovanissime, alle prese con un’identità di genere differente rispetto al sesso assegnato loro alla nascita. Ci sono i genitori, che per paura o ignoranza non sanno come comportarsi rispetto alle decisioni de* figl*. Noi abbiamo deciso di raccontarle, queste paure, per combatterle e annientarle. Lo facciamo con il neuropsichiatra Furio Ravera, alla guida del “terzo livello”, che interagisce con i due piani più “familiari”.

I: Com’è nata l’idea di questo podcast?

GZ: Per combattere paure e pregiudizi. Spesso si guarda alle questioni dell’identità di genere – e a quelle, più in generale, dei corpi – come se si trattasse di capricci o di qualcosa di cui vergognarsi. Tutto “esplode” nella relazione tra genitore e figl*. Molto spesso si pensa a questi ultimi come “oggetti”, come “proprietà”. Non è questione di “tutela e affetto” non più di quanto sia smania di possesso e poca elasticità. Manca la volontà, da parte dei genitori, di lasciarsi educare da chi, seppur giovane, può avere piena autonomia nel capire cosa desidera per sé. È stata una scommessa, per noi de Gli Ascoltabili. Ma siamo molto felici di averlo fatto.

I: Da dove nasce il nome “genitori in trance”?

GZ: La trance, a volte, paralizza. Immobilizza. Questi genitori sono come “incantati” da quello che i ragazzi e le ragazze sentono di volere. L’identità di genere è qualcosa che ognuno di noi deve sentire autentica, autonoma, vera. Non possono esserci incursioni o interferenze. E per molti genitori sentirsi dire determinate cose come “sono non binario”, “sono una ragazza trans” è terrorizzante. Ma perché? Bisogna risalire alle origini di tutto questo. Nessuno nasce edotto su queste tematiche ma, senza salire sul piedistallo e giudicare, si può imparare tanto. Ma “dalla trance”, come ripete il dottor Furio Ravera, “si può uscire”.

I: Cosa vi ha spinto a ideare e poi registrare questo podcast? E perché proprio questo formato?

GZ: Con Gli Ascoltabili sperimentiamo tutte le opportunità che i contenuti audio possono offrire, combinandole agli input che il mondo ci dà, rielaborandole – lo facciamo da sempre – in forma narrativa. Genitori in trance non fa eccezione. Abbiamo riscritto i “flussi emotivi” dei genitori, mettendoli in dialogo con il dottor Ravera. Loro si lasciano andare alle loro paure e alle insicurezze, Ravera interviene e spiega dove sbagliano e come possono migliorare. Il podcast, in questo senso, è il formato perfetto: ti permette di entrare nei temi senza avere altro a distrarti. Ci sono solo le parole e i pensieri.

I: Chi dovrebbe ascoltare questo podcast?

GZ: Quando facciamo un podcast speriamo sempre che arrivi a tutti e tutte. Non c’è un target preciso. Sì, è chiaro: parliamo ai genitori e li rassicuriamo – anche se non c’è niente da rassicurare, non si può pensare di formare la propria identità di genere su misura della felicità di mamma e papà. Però si può imparare: Ravera convince i protagonisti a sgrossarsi da ogni pregiudizio. Il problema è che nel mondo di oggi i pregiudizi non ce li hanno solo i genitori, ma molte altre persone. Ci si spaventa a usare i pronomi corretti, si prendono cantonate pazzesche, si insulta, alle volte. Si preferisce non conoscere piuttosto che concentrarsi un attimo e imparare. Con Giuseppe Paternò Raddusa, che ha scritto la serie insieme a me, ci siamo immersi in storie vere, abbiamo letto, abbiamo visto… Il grave problema è che spesso manca la volontà.

I: C’è una puntata che preferisce rispetto alle altre? Se si, perché?

GZ: Quella di Orlando, un padre molto religioso che non comprende perché sua figlia, cui è stato assegnato il sesso maschile alla nascita, non si identifichi nel genere che Orlando –e la società tradizionalista– vorrebbero. È interessante perché ci sono tanti temi complessi e interessanti (la religione, la possibilità di iniziare un percorso di transizione, etc.) che Ravera tratta con grande autorevolezza. Si parla anche di questioni di identità di genere in culture lontane dalla nostra, che per certi aspetti sanno essere più avanti di noi.

I: Che ruolo ha il dottor Ravera nel podcast?

GZ: Ravera è un neuropsichiatra, lavora con gli adolescenti da un sacco di tempo, insieme abbiamo fatto un podcast che si chiama, Gli adolescenti si fanno male, dedicato alle dipendenze e alle debolezze dei più giovani. Era inevitabile, per noi, tornare a lavorare insieme. Furio è una persona estremamente competente, e questo lo dimostrano i numerosi saggi e il suo percorso professionale longevo e intenso. Ma ha anche una dimensione umana di ascolto e di profondità che sono fondamentali per aiutare i genitori “in trance” a superare l’incertezza.

I: Pensate che questo podcast possa essere utile a coinvolgere la società nella comprensione del vissuto delle persone transgender e dei loro familiari?

GZ: Certo. Un podcast non “salva”, è chiaro, ma se può illuminare anche solo una persona, è di per sé un risultato straordinario. Le persone transgender, in Italia, vivono ancora ben lontano da una situazione di normalità e regolarità. La transfobia è un tema che –al di là delle leggi che vengono e non vengono fatte– affligge numerose branche della nostra società. E non so quanto le scuole, e le famiglie, portino direzioni decisive per combatterla. Non è importante essere persone trans per ribellarsi a narrazioni stantie, a pensieri stereotipati e simili. Ma basta essere esseri umani civili per rendersi conto di come il vissuto delle persone transgender, nel nostro Paese, si scontra con momenti discriminatori e problematici. Il podcast è uno strumento centrale, ma di passi da fare ce ne sono ancora molti.

Chi è Giacomo Zito

Giacomo Zito è attore, speaker e imprenditore della comunicazione e nel 2018 ha fondato la piattaforma podcast Gli Ascoltabili (www.gliascoltabili.it), un progetto di Cast Edutainment. Gli Ascoltabili è una piattaforma che ha lanciato serie di successo come Demoni Urbani, La mia storia, Gli adolescenti si fanno male e Genitori in trance, condotto dal neuropsichiatra Furio Ravera.

 

cancel