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La supervisione (2022) di Nancy McWilliams – Recensione del libro

Il nuovo lavoro di Nancy McWilliams, La supervisione”, propone una prospettiva inedita sulla supervisione clinica, individuale e di gruppo, soffermandosi sulla Gestalt della supervisione e sul suo ruolo nel promuovere la crescita personale, la sicurezza e il sentimento di padronanza nel terapeuta.

 

Al suo meglio, fare supervisione significa aiutare gli studenti a integrare l’eredità esperienziale della pratica clinica con quello che hanno studiato nel corso della formazione accademica (XII, McWilliams, 2022).

 Il testo affonda le sue radici in una tradizione psicodinamica psicoanalitica; le conoscenze teoriche e di ricerca esposte vengono arricchite da una grande esperienza sul campo, veicolata mediante suggestivi esempi clinici.

Pur adottando una prospettiva psicodinamica, l’autrice si propone di offrire un contributo di qualità a professionisti della salute mentale che prediligono diverse prospettive, fermamente convinta che la qualità di qualsiasi supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto (McWilliams, 2022), così come l’efficacia della terapia è determinata da fattori di matrice relazionale più che dalla mera etichetta del trattamento.

Il riduzionismo formativo che traduce il momento di supervisione all’insegnamento di particolari procedure e competenze è contrario alla visione di supervisione presentata in questo libro che si fonda sull’importanza di una buona alleanza terapeutica, sulla condivisione di chiari obiettivi del trattamento, sulla comprensione delle aspettative e degli esiti del processo terapeutico nei rispettivi ruoli di clinico e paziente.

In particolare, il testo si apre offrendo dei contributi storici e generali all’argomento, per poi giungere, nel corso dei nove capitoli, a riflessioni più attuali e specifiche.

Il primo capitolo propone un’analisi degli obiettivi e dei processi implicati nella supervisione psicoanalitica, evidenziando l’importanza di offrire un supporto ai clinici, promuovere l’onestà e la sensibilità etica, condividere informazioni, prevenire pericolosi momenti di burnout e trasmettere alcune competenze essenziali del lavoro psicoanalitico, come stabilire una buona alleanza terapeutica, attuare processi non verbali di ascolto e di contenimento, porre dei chiari confini, gestire le comunicazioni verbali, tra cui le espressioni di sintonizzazione, gli inviti a elaborare, la chiarificazione dei problemi, l’esposizione ai pattern controproducenti e l’interpretazione dei significati (McWilliams, 2022).

L’autrice si sofferma sull’importanza della tempistica, del tono e del contenuto dei commenti, destinati a comunicare empatia, affrontare le difese, stabilire connessioni di senso o fare inferenze sul significato del materiale portato dal paziente. In particolare, evidenzia il potere delle parole, in grado di far sentire le persone profondamente comprese, commosse, desiderose di apprendere di più, stimolate a diventare la versione migliore di loro stesse, ma al contempo segnala il rischio delle stesse parole di ferire l’altro, di far sentire il paziente umiliato, colpevole o trattato in modo condiscendente, di limitare processi di autoesplorazione e autoesposizione. McWilliams (2022) evidenzia come si possa essere perspicaci e brillanti senza essere per niente terapeutici, in quanto il progresso clinico ha davvero poco a che fare con “l’essere nel giusto”, e questa consapevolezza è difficile da elaborare per i giovani clinici in supervisione, che hanno riscosso precedenti successi accademici dall’aver dimostrato ai docenti di conoscere la “risposta giusta”.

I clinici principianti hanno bisogno di sapere che ciò che i pazienti soddisfatti ricordano e considerano del loro trattamento non riguarda le interpretazioni brillanti del loro terapeuta. Piuttosto, rammentano l’attitudine complessiva di calore, speranza, interesse e rispetto da parte del terapeuta (McWilliams, 2022, p.26).

Il secondo capitolo traccia un excursus storico della supervisione psicoanalitica, dalle intuizioni di Freud sino alle teorie relazionali più recenti sull’alleanza di supervisione. Ci si interroga soprattutto su alcune tematiche, in tensione permanente, ovvero se si debba “insegnare o trattare” i clinici in supervisione e se vada riposta una maggiore enfasi all’impartire conoscenze e insegnare tecniche o al promuovere un processo di maturazione professionale complessiva (Watkins, 2011).

Nel sostenere i propri allievi a espandere i loro orizzonti, McWilliams non enfatizza la trasmissione di specifiche tecniche o competenze, ma la maturazione di una serie di atteggiamenti e la nascita di valori personali quali: “onestà emotiva, rispetto per i pazienti, curiosità e apertura mentale, empatia autentica (opposta a un tipo di partecipazione empatica più artificiale), una capacità di mentalizzare anche i pazienti che non attirano le simpatie del terapeuta, un’integrazione della loro conoscenza clinica nel loro stile più autentico di personalità, un accrescimento delle competenze attraverso l’esposizione ad aspetti teorici esterni alla propria formazione, umiltà, sensibilità etica, apertura a riconoscere i propri errori, e sapere dove rivolgersi per cercare aiuto” (p. 49, 2022).

Il terzo capitolo esplora il concetto di “progresso” in terapia, proponendo dieci segni vitali di cambiamento psicologico da monitorare nel corso delle sedute: maggiore sicurezza nell’attaccamento; accresciuta costanza di sé e dell’oggetto; maggiore senso di agency; maturazione di un’autostima più affidabile e realistica; maggiore resilienza e accresciuta capacità di regolazione degli affetti; migliore capacità di riflettere su di sé e mentalizzare le altre persone; accresciuto benessere in contesti individuali e collettivi; un più solido senso di vitalità; sviluppo di più mature capacità di accettazione, perdono e gratitudine; e infine, più ampie capacità di amare, lavorare e giocare, come obiettivo generale del trattamento (McWilliams, 2022).

È chiaro come le dieci capacità psicologiche sopra esposte vadano ben oltre la riduzione dei sintomi comportamentali del paziente, in quanto alla base del benessere psicologico globale.

Per citare Winnicott (1968): “Noi tutti ci auguriamo che i nostri pazienti concludano la terapia e si dimentichino di noi, e che trovino nella vita stessa la loro terapia dotata di senso” (p. 712).

L’autrice passa in rassegna le dieci aree di maturazione clinica e di cura adottando una prospettiva psicodinamica arricchita da uno sguardo ad altri modelli alternativi (approccio cognitivo-comportamentale, approccio umanistico e psicologia positiva).

Per esempio, risulta particolarmente robusta la cornice teorica di riferimento per cogliere le caratteristiche psicologiche di quegli individui che mancano di vitalità e sembrano stare al mondo senza vivere pienamente la loro vita: si è parlato di “personalità come se” (Deutsch, 1942), di “falso sé” (Winnicott, 1960), di “normopatia” (McDougall, 1980), di psicologie “normotipiche” (Bollas, 1987), di dissociazione della vita affettiva (Stern, 2009), di assenza di godimento per i lacaniani, di “complesso della madre morta” di Green (Kohon, 1999; Mucci, 2018), di “agnosia affettiva” (Lane, Weihs, Herring et al., 2015).

Il quarto capitolo delinea gli elementi generali relativi alla costruzione di una buona alleanza di supervisione e alla conduzione della supervisione individuale, mentre il quinto affronta il tema della supervisione e consultazione di gruppo. Nel quarto, vengono presi in esame alcuni costrutti fondanti, come il contratto di supervisione, la formulazione di obiettivi realistici nel trattamento e la promozione di una maggiore franchezza e onestà nella diade di supervisione; successivamente, vengono affrontate alcune resistenze e complicazioni insite al processo di cambiamento e proposte alcune soluzioni alternative ai problemi clinici; infine, dopo l’introduzione di alcuni argomenti generali di natura etica, vengono poste alcune osservazioni sui benefici del lavoro di supervisione con gruppi di terapeuti e counselor e viene posta una particolare enfasi sul valore della psicoterapia personale del clinico in supervisione (McWilliams, 2022).

Il quinto capitolo propone una serie di osservazioni e questioni insite alla supervisione di gruppo, in virtù della decennale esperienza dell’autrice come conduttrice di gruppi per clinici, nonché come partecipante; a tal proposito, ella riporta come la formazione clinica di più alto valore che abbia mai ricevuto sia stato partecipare al gruppo di supervisione basato sul transfert diretto da Arthur Robbins (vedi, per esempio, 1988) a New York (McWilliams, 2022).

 Se l’obiettivo primario di una supervisione di gruppo resta quello di accrescere le competenze terapeutiche dei suoi membri, essa offre anche ulteriori benefici, in quanto promuove la costituzione di nuovi rapporti di amicizia e reti di collaborazione, offre momenti di condivisione su tematiche di pertinenza clinica all’interno di una piacevole cornice collettiva. Per dirla con le parole della McWilliams (2022): “Costituisce un raro tempio in cui i terapeuti possono rilassarsi, lamentarsi, ridere, paragonare le loro esperienze e trovare conforto” (p. 111).

Il sesto capitolo offre alcune riflessioni sull’etica clinica, sul diritto del paziente di conoscere le informazioni appropriate (come la formazione teorica del clinico, il “funzionamento” della terapia e i limiti del trattamento), sulla responsabilità dei clinici nei confronti della comunità più allargata e della società. A tal proposito, Nancy McWilliams sottolinea la centralità del supervisore quale esempio di sensibilità morale e integrità professionale.

Il settimo capitolo affronta la complessità e le sfide peculiari della supervisione dei clinici in formazione presso istituti di formazione psicoanalitica, proponendo una revisione della letteratura sulle soddisfazioni e sulle sfide uniche del lavoro in questi contesti.

I candidati degli istituti di psicoanalisi tendono a essere curiosi, intellettualmente raffinati, più motivati a impegnarsi in un percorso di formazione che scavi in profondità, e più formati dello studente medio che inizia a studiare per diventare terapeuta. Possono interessarsi ad approfondire svariate materie e possono avere delle conoscenze di base in filosofia, teologia, arti, scienze umane e scienze sociali. Sono attratti dalla complessità e dalla profondità (p. 165, McWilliams, 2022).

Alcune delle tematiche esplorate riguardano questioni inerenti l’identità psicoanalitica, le problematiche derivanti dai fenomeni di idealizzazione, svalutazione e scissione, le dinamiche regressive, le conseguenze della self-disclosure nei termini delle eventuali inibizioni dei supervisori nel rivelarsi, e altri stress che operano a livello sistemico (McWilliams, 2022).

Con una serie di vignette cliniche, l’ottavo capitolo affronta le dinamiche che gravano sulla diade di supervisione, con un’approfondita disamina di alcune tendenze che caratterizzano le psicologie depressiva e masochistica, paranoide, schizoide, isterica, ossessivo-compulsiva, post traumatica, narcisistica e psicopatica, e degli effetti di queste dinamiche sulla supervisione stessa.

L’autrice sottolinea l’alta prevalenza di tratti depressivi-masochistici tra i terapeuti, per cui è comune in una diade di supervisione che sia il mentore sia il supervisionato presentino uno stile di personalità depressivo; tra le dinamiche più frequenti, si evidenziano processi introiettivi e formazioni reattive nei confronti di potenziali aggressori, che si manifestano con una tendenza profondamente radicata a sperimentare sensi di colpa, con gli autorimproveri e una pressione interna a dare priorità ai bisogni e alle prospettive degli altri a spese proprie Inoltre, l’autrice evidenzia come gli individui con una psicologia schizoide siano spesso attratti dalla vocazione psicoanalitica, in quanto particolarmente riflessivi e sensibili agli affetti, e come molte persone scelgano di diventare terapeuti al fine di cercare di comprendere e fare i conti con una personale storia traumatica (McWilliams, 2022).

In aggiunta alle concettualizzazioni diagnostiche, ci sono altri aspetti legati all’individualità che potrebbero influenzare la relazione di supervisione; in particolare, fattori come il genere, l’orientamento sessuale, influenze e identificazioni etniche e razziali, credenze e background spirituali o religiosi, orientamento politico e altre condizioni di unicità e marginalità (McWilliams, 2022).

Infine, l’ultimo capitolo presenta un taglio diverso dai precedenti in quanto esplora ciò che la supervisione al suo meglio può fare per la crescita professionale e personale di ciascun clinico, con alcuni consigli diretti al fine di indicare ai giovani professionisti in supervisione la strada per ottenere il massimo dalle loro esperienze di formazione.

Secondo Nancy McWilliams, “i principali obiettivi della supervisione si potrebbero sintetizzare in due punti: (1) sviluppare una voce guida di supervisore interno e (2) imparare a capire quando si ha bisogno del supporto della supervisione e come ricercarla nel corso della propria carriera” (p.6, 2022).

 

I benefici della spesa prosociale nelle relazioni sentimentali

Una ricerca di Li e colleghi (2022) ha studiato se e come la spesa pro-sociale possa apportare maggiore benessere per chi spende e per chi riceve all’interno delle relazioni sentimentali.

 

Le spese prosociali nelle relazioni di coppia

 Il denaro è una risorsa preziosa per le relazioni strette. Infatti, se da un lato le tensioni finanziarie possono abbassare la qualità coniugale evocando interazioni di coppia negative (Williamson et al., 2013), dall’altro, la spesa pro-sociale, ad esempio spendere soldi per il proprio partner, può giovare al benessere di entrambe le parti.

La letteratura ci ha dimostrato che le persone possono trarre gioia dal dare (Aknin et al., 2013). Questo effetto di potenziamento della spesa prosociale ha ricevuto un sostegno consistente (Aknin et al., 2012;  Whillans et al., 2016) in diversi comportamenti (dai regali alle donazioni) e in diversi indicatori di benessere (dalla felicità auto-riferita alla salute cardiovascolare). Il beneficio appare maggiore se il denaro viene speso per stringere forti legami sociali (Aknin et al., 2011).

Inoltre, chi spende può migliorare la propria valutazione della relazione percependo i propri atti di spesa prosociale come segni di forte sentimento (Lemay, 2014).

È importante però sottolineare che la misura in cui la spesa prosociale può contribuire al benessere di entrambe le parti può dipendere dal modo in cui il denaro viene speso.

Studi precedenti hanno distinto gli acquisti esperienziali da quelli materiali (Gilovich & Gallo, 2020; Van Boven, 2005). L’acquisto esperienziale si riferisce alla “spesa di denaro con l’intenzione primaria di acquisire un’esperienza di vita – un evento o una serie di eventi che si vivono personalmente”, mentre l’acquisto materiale si riferisce a “spendere denaro con l’intenzione di acquisire un bene materiale – un oggetto tangibile che si possiede e si conserva nel tempo” (p. 1194, Van Boven & Gilovich, 2003). Rispetto all’acquisto materiale, è più probabile che l’acquisto esperienziale favorisca le connessioni sociali (Caprariello & Reis, 2012; Yamaguchi et al., 2015)

La maggior parte degli studi precedenti si è concentrata sui benefici personali dal punto di vista di chi spende o del destinatario. Nel tentativo di esaminare entrambe le prospettive contemporaneamente, uno studio di Li e colleghi (2022) ha studiato se e come la spesa pro-sociale possa apportare maggiore benessere per chi spende e per chi riceve all’interno di una relazione sentimentale.

Regali materiali e regali esperienziali nella coppia

I risultati di questo studio hanno rivelato che spendere per il proprio partner romantico, in particolare per aspetti esperienziali, ha giovato al benessere quotidiano (sia personale che relazionale) di entrambi. Ancora più importante, la percezione di reattività del partner da parte del ricevente ha mediato l’effetto di potenziamento della spesa pro-sociale di chi spende sul suo benessere quotidiano. I risultati suggeriscono quindi che quando si spendono soldi per il proprio partner, entrambe le parti si sentono più soddisfatte in generale e della loro relazione in particolare. E soprattutto, l’aumento dei benefici psicologici per il destinatario può essere mediato dalla percezione della reattività di chi spende quando riceve la spesa pro-sociale.

È inoltre degno di nota il fatto che non sono state riscontrate alcune differenze di genere negli effetti della spesa prosociale, il che è coerente con studi precedenti che hanno dimostrato l’egualitarismo nelle relazioni sentimentali moderne (Lever et al., 2015; Pedersen et al., 2011).

 I nostri risultati suggeriscono che gli acquisti esperienziali per il partner sembrano migliorare maggiormente il benessere di entrambe le parti rispetto all’acquisto materiale e questo effetto di potenziamento sembra essere mediato dalla percezione di reattività del partner, suggerendo quindi che la percezione di reattività nel proprio partner è la chiave del beneficio percepito.

Oltre all’acquisto esperienziale generale, un altro elemento che ha apportato benessere alla coppia è lo spendere soldi per il cibo. Il cibo è un’esperienza non solo perché ha un valore edonico (ad es, Van Boven & Gilovich, 2003), ma anche perché consente scambi sociali piacevoli e gratificanti.

Data la sua importanza nel rafforzare i legami sociali (Rozin, 2005), non sorprende che gli acquisti di cibo rappresentino da soli il 72% degli acquisti complessivi dichiarati nel campione di questo studio.

È lecito domandarsi se gli effetti benefici degli acquisti di cibo possano essere confusi con la piacevolezza del trascorrere del tempo insieme (ad es, cenare insieme). In questo studio non è stato possibile testare il ruolo di moderazione di queste variabili, perciò gli studi futuri potrebbero indagare questo aspetto.

Infine, i risultati hanno dimostrato che la spesa prosociale attraverso l’acquisto di beni materiali non ha favorito il benessere quotidiano di nessuna delle due parti.

Le ricerche sul dono (ad es, Gino & Flynn, 2011; Kupor et al., 2017) suggeriscono che, nonostante il desiderio di spendere per l’altro partner e quindi l’intenzione benevola del donatore, spesso non si riesce a soddisfare i gusti o le preferenze del destinatario. In linea con questa ricerca, la spesa prosociale attraverso l’acquisto di beni materiali può fallire nel trasmettere la reattività e nel promuovere il benessere.

Conclusioni

In conclusione, i risultati dello studio rimarcano la possibilità che le spese prosociali nelle relazioni sentimentali possono conferire un aumento del benessere personale e relazionale per entrambi i membri della coppia attraverso il ruolo fondamentale della reattività percepita all’interno della relazione. Come menzionato precedentemente, non tutte le spese all’interno della coppia ottengono il medesimo risultato; gli effetti dei diversi tipi di acquisto suggeriscono che la spesa prosociale abbinata all’acquisto esperienziale sia il modo migliore per rendere felici entrambi i partner.

 

Il rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 16

In questo e nei prossimi articoli ci occuperemo di ripercorrere il lavoro operato dagli Esperti del Tavolo D, che ha interessato le tematiche relative alle risorse e all’organizzazione necessarie per facilitare l’accesso delle persone alle terapie psicologiche.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 16) Il rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche

 

Il Tema D si è suddiviso in cinque sotto-temi, che hanno specificamente riguardato il rapporto costi/benefici legato alle terapie psicologiche (Tema D1), le strategie organizzative per facilitare l’accesso alle terapie (Tema D2), il ruolo della tecnologia nel migliorare l’accessibilità alle cure psicologiche (Tema D3), nonché le iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica (Tema D4) e i policy-makers (Tema D5) rispetto alla disponibilità di efficaci terapie psicologiche disponibili per la cura dei Disturbi Mentali Comuni (DMC, come ansia e depressione).

Quesito D1: il rapporto costi/benefici

Nella letteratura specialistica internazionale si hanno prove di un favorevole rapporto costi/benefici delle terapie psicologiche, anche in termini strettamente economici (assenze dal lavoro, maggiori costi sanitari e sociali, stress lavoro correlato, ecc.). Quali stime realistiche si potrebbero fare per il contesto italiano?

È stato calcolato che in Europa, nel 2010, il costo complessivo per i disturbi d’ansia è stato di 74,4 miliardi di euro e per i disturbi dell’umore di 113,4 miliardi di euro (Olesen et al. 2012).

Per quanto riguarda la Depressione maggiore, l’impatto sul sistema previdenziale è notevole. Secondo i dati dal 2009 al 2015, i beneficiari di prestazioni previdenziali sono stati 10.500; il 90% di essi beneficia di un Assegno Ordinario di Invalidità (AOI), con una spesa totale di 550 milioni di euro, mentre il 10% beneficia di una Pensione di Inabilità, con una spesa di 93 milioni di euro. Inoltre, il trend dei costi a carico del sistema previdenziale, che ha visto una crescita di +70% tra il 2006 e il 2015, sembra destinato a crescere.

In aggiunta, ansia e depressione comportano delle problematiche nell’ambito lavorativo. Sono infatti tra le principali cause di costi indiretti, ovvero assenza dal lavoro e perdita di produttività (che si traducono in una perdita di circa 4 miliardi di euro annui). Infatti, solamente per la depressione, sembra che il costo stimato sia di € 7.140 a persona, in termini di costi indiretti. A questo riguardo, numerosi studi hanno mostrato effetti positivi della psicoterapia per quanto riguarda i tassi di occupazione e ciò comporta, di conseguenza, una riduzione dei costi indiretti (Fournier et al., 2015).

Per quanto riguarda i costi diretti, ovvero spese mediche e di assistenza sanitaria a carico dell’utente e del Servizio Sanitario Nazionale, sembra che i comuni trattamenti biologici (come i farmaci) per ansia e depressione siano molto più costosi della psicoterapia, anche se quest’ultima fosse un intervento a lungo termine (per esempio, Cuijpers et al., 2010; Hollon et al, 2006; Wampold, 2007, 2010).

Riguardo ai benefici della psicoterapia sui costi che ricadono sul sistema sanitario, numerose metanalisi hanno riferito che la psicoterapia aiuta a ridurre le spese mediche e i tempi di ospedalizzazione, oltre che a ridurre disabilità, morbilità, mortalità e ricoveri in reparti psichiatrici (Linehan et al., 2006; Pallak et al., 1995). Se integrata nelle cure primarie, la psicoterapia sembra ridurre il costo di spese mediche di circa il 20-30% (Cummings et al., 2003). Inoltre, è interessante notare come circa il 50% dei pazienti preferisca la psicoterapia ai trattamenti farmacologici, a causa dei possibili effetti collaterali negativi di questi ultimi. Sarebbe ragionevole pensare che, qualora si proponesse la psicoterapia a pazienti che la preferiscono, ci sarebbe una maggiore aderenza al trattamento (Deacon & Abramowitz, 2005; Paris, 2008; Patterson, 2008; Solomon et al., 2008; Vocks et al., 2010).

A seguito della pandemia, è verosimile pensare che i costi diretti e indiretti siano aumentati, e un incremento, anche se ridotto, dei tassi di guarigione aiuterebbe a coprire costose e vaste iniziative in ottica di miglioramento dell’accessibilità alle cure psicologiche, come supportato dall’esperienza inglese con il programma Improving Access to Psychological Therapies (IAPT; Clark, 2017) più volte citato in questa Consensus.

Raccomandazioni D1

Dato il positivo rapporto costi/benefici evidenziato rispetto ai costi diretti e indiretti, gli Esperti raccomandano di “promuovere l’utilizzo di terapie psicologiche basate sulle prove di efficacia come interventi di prima linea per gli utenti affetti da ansia e/o depressione lieve o moderata” (ISS, 2022, p. 100). Ciò, dunque, consentirebbe –come detto spesso in questa Consensus Conference– non solo di fornire cure psicologiche adeguate migliorando così la qualità di vita delle persone, ma anche di ridurre i costi diretti e indiretti generati dai DMC, quindi incrementare le ore di produttività e diminuire le spese mediche.

 

Mangio che mi passa. Quando il cibo aiuta a gestire le emozioni – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Mangio che mi passa. Quando il cibo aiuta a gestire le emozioni”.

 

 Le emozioni, sia quelle piacevoli sia quelle più dolorose, svolgono una funzione adattiva. A volte, però, possiamo avere difficoltà a riconoscerle e, di conseguenza, facciamo fatica a gestirle. In questo contesto il rapporto con il cibo può giocare un ruolo determinante.

Mangiare in eccesso, per esempio, può essere un modo per distrarsi dagli eventi negativi e dai problemi che ci preoccupano o una strategia per attenuare stati emotivi intensi giudicati intollerabili.

Mangiare di meno, al contrario, può farci credere, in maniera illusoria, di poter controllare eventi che percepiamo invece fuori dal controllo.

Durante l’incontro verrà analizzato il rapporto tra emozioni e cibo e verranno date indicazioni per un trattamento efficace.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

La coscienza in un’ottica evolutiva e interpersonale: Neuman e Liotti due autori a confronto

La coscienza è un processo di ordine superiore in quanto sovraintende alle principali funzioni psichiche, come la discriminazione, l’integrazione, l’autoriflessione, la consapevolezza di sé, inoltre presiede i meccanismi volontari, orienta l’attenzione e consente la vigilanza. Il suo opposto è l’inconscio (non conscio) le cui istanze sfuggono al controllo dell’individuo. Ma da dove origina la coscienza?

 

Le coscienza secondo Neuman

 Neuman, in una prospettiva ontogenetica, ha individuato le tappe che precorrono la nascita e lo sviluppo della coscienza. Egli affianca la storia personale dell’individuo a quella transpersonale della storia dell’umanità (filogenesi) poiché ogni individuo è governato dalle medesime immagini primordiali (archetipi di Jung). All’origine vi è la Grande madre che è la dimensione transpersonale della madre nella sua componente divina e terrena. In essa è contenuta anche l’immagine riflessa del padre (la sua componente maschile). Nella Grande madre gli opposti coincidono, essa è raffigurata come Uroboro, ossia il serpente che si morde la coda. L’Uroboro è la dimensione inconscia dell’individuo in cui egli è ancora fuso e confuso con la madre, ma in seguito alla separazione da quest’ultima il bambino diverrà un individuo cosciente di sé stesso. Da questa prima separazione si origina una forma primordiale di coscienza grazie alla quale l’uomo diviene capace di discriminare gli opposti piacere-dolore, anima-animus, madre buona e madre terrifica, che prima giacevano indistinti nel ventre della Grande madre. Neuman fa una distinzione fra la coscienza matriarcale che è intrinseca alla dimensione originaria e che ne rappresenta la componente maschile e spirituale (la Sophia) che è rappresentata simbolicamente dalla luna e la coscienza patriarcale che nasce dalla separazione dalla madre originaria ed è rappresentata dal sole. Per l’autore la coscienza matriarcale è il cuore e la coscienza patriarcale è la testa. Al centro di questa coscienza illuminata vi è l’Io. Dunque il processo d’individuazione/separazione dell’Io è il processo attraverso il quale l’Io riconosce di essere distinto dalla sua origine, e dunque un individuo consapevole di sé.

L’uomo non ha però compiuto il suo processo di maturazione. Infatti, è necessario un percorso inverso (centroversione) di integrazione fra la coscienza e l’inconscio. Una coscienza senza la dimensione inconscia è fredda e razionale, priva della sua dimensione creativa ed emotiva. Neuman individua due percorsi evolutivi diversi per l’uomo e per la donna: l’uomo dovrà tornare nell’uroboro per combattere la dimensione terrifica della madre affrontando la lotta contro il drago (la componente divorante e distruttiva della madre) unitamente alla sua nuova compagna (la sposa terrena) che rappresenta la Sophia, mentre la donna unendosi sponsalmente con l’uomo terreno è fecondata dal sole divino, che le conferirà la coscienza nella dimensione maschile.

Al centro di questa forma più evoluta di coscienza (la psiche) vi è il Sé.

La coscienza, dunque, origina dall’inconscio ed è il frutto di una prima separazione da esso, è la fuoriuscita dal caos primordiale, dall’oscurità dell’inconscio. Ne consegue una prima scissione degli opposti (madre buona e madre terrifica, ma anche anima/animus) che prima giacevano indistinti nel grembo della Grande madre. La maturazione della coscienza è favorita nell’individuo nel suo percorso ontogenetico dall’incontro con il padre nella sua funzione normativa ed esplorativa, dove l’individuo impara a procrastinare i propri bisogni, in favore dell’approvazione sociale, è la nascita della “persona”, ma anche la nascita dell’ombra, che è il lato oscuro, rimosso, dell’individuo, quello a cui è tenuto a rinunciare per avere l’approvazione dell’altro da sé. Questo, afferma Neuman, è solo un primo passo del processo di maturazione. A questa forma di coscienza primordiale, definita da Neuman coscienza egoica, segue un processo di integrazione che l’individuo deve compiere per realizzare sé stesso, ossia il recupero dell’inconscio, di quella parte di sé da cui inizialmente si è separato e a cui ritorna, per recuperare quello cui ha rinunciato per inseguire la sua maturazione (il tesoro del labirinto di Teseo, custodito da Minosse). Egli torna in modo attivo per non essere fagocitato dell’aspetto terrifico dell’inconscio, non è dunque una regressione, ma una centroversione.

In quest’ottica la maturazione della coscienza è un processo orizzontale, ossia la coscienza si origina dall’inconscio che la precede e si sviluppa, attraversando diversi stadi, con l’evolversi dell’individuo nella relazione con la figura materna e paterna.

La coscienza secondo Liotti

Liotti, rifacendosi ad Edelman, nella “Dimensione interpersonale della coscienza”, distingue una coscienza primaria, caratterizzata da mappe percettive e mnemoniche che appartengono alla dimensione inconscia dell’attività mentale (scene) e una coscienza secondaria che organizza i contenuti inconsci in sequenze narrative attraverso il linguaggio. La coscienza primaria si connota di immagini ed emozioni, mentre la coscienza secondaria si caratterizza per pensieri verbalizzati (Liotti 2011).

Liotti si sofferma sulla dimensione interpersonale della coscienza, ossia sulla sua origine all’interno della relazione fra conspecifici, in primis sotto forma di emozione (l’emozione è determinata dall’interazione strutturale fra l’individuo e il suo mutevole mondo) ed immagini mentali, successivamente sotto forma di linguaggio ed attribuzione di significato.

 Dal punto di vista dell’evoluzione della specie, osserva che nei primati è presente una prima forma di coscienza, i mammiferi sono infatti capaci di comunicazione sociale (emotiva, non verbale), di riprodurre l’azione esplicita osservata nell’altro (neuroni specchio) e di comprendere la natura della relazione fra conspecifici (gerarchia, sistema di rango). Il salto tra l’animale e l’uomo è dato dalla capacità dell’uomo di comprendere l’intenzionalità dell’altro (capacità riflessiva , Tommasello – 1999) e anche dalla prontezza del sistema motivazionale cooperativo (Liotti 2001), presente nell’uomo più che in ogni altra specie di mammiferi. Il sistema motivazionale cooperativo, a differenza degli altri sistemi, richiede la posizione fianco a fianco, diversamente dagli altri sistemi, in cui ci si pone di fronte o al più l’uno avanti all’altro, per dirigere l’attenzione verso una stessa meta.

I sistemi motivazionali, che sono i sistemi presenti sia nell’uomo che nell’animale, regolano il comportamento, le emozioni e le relazioni nella direzione del raggiungimento di un obiettivo e si dispongono in senso gerarchico su un continuum caratteristico dell’evoluzione della specie da un punto di vista filogenetico e la maturazione dell’individuo da un punto di vista ontogenetico.

ln un primo livello si situano i sistemi finalizzati alla difesa dai pericoli ambientali, all’esplorazione dell’ambiante e alla regolazione dei bisogni corporei (bisogni omeostatici). In un secondo livello comprende i sistemi che regolano le relazioni sociali basilari, sistema motivazionale di attaccamento/accudimento, agonistico, sessuale e cooperativo. Quest’ultimo è un sistema più evoluto, è particolarmente attivo nell’uomo, è l’unico sistema paritetico e si innesca, nel bambino, fra i nove mesi e i due anni, ogni volta che non è attivo il sistema dell’attaccamento/accudimento e conduce ad una solida rappresentazione di pariteticità (l’altro come simile a me nell’intenzionalità diretta e al raggiungimento di un obiettivo comune).

Nell’ontogenesi, dunque, la coscienza nasce dalle prime relazioni in cui l’individuo è immerso, come frutto di un rispecchiamento, della capacità di leggere e riconoscere nell’altro le proprie emozioni (… Se Adamo sorride ad Eva ed Eva in risposta imita tale sorriso … Eva saprà dalle informazioni endogene prodotte dai muscoli attivi cosa si prova quando si sorride…Liotti 2011). È questa una coscienza primaria le cui prime rappresentazioni sono inaccessibili all’esperienza soggettiva narrabile perché costituiti da emozioni e immagini.

La memoria di queste emozioni costituirà la base dei contenuti e dei processi della coscienza di ordine superiore che maturerà più tardi, con l’acquisizione del linguaggio che, per la sua stessa natura sequenziale (sintassi), organizza tali rappresentazioni in pensieri verbalizzati. Così Adamo ed Eva potranno impegnarsi a tradurre in una sequenza comunicativa ordinata le proprie reciproche intuizioni e da tale tentativo prenderà forma l’aspetto sintattico del linguaggio”.

Dunque per Liotti, come per Neuman, la nascita della coscienza di ordine superiore è frutto di un processo di maturazione/crescita e la qualità della coscienza attuale dipende dalle caratteristiche delle prime relazioni interiorizzate.

Aggiunge Liotti (2011) che l’isolamento sociale per lunghi periodi può dar luogo ad alterazioni della coscienza interpretabili come parziali “regressioni” verso la coscienza primaria. L’ancor più prolungata assenza di scambi relazionali concreti può tradursi nell’alterazione delle funzioni più antiche della coscienza primaria, e oggi più che mai, ne abbiamo una dimostrazione concreta.

 

Gli effetti dell’educazione musicale nello sviluppo e nella promozione di alcune “social skills” nei bambini

Alcuni studi hanno dimostrato che l’educazione musicale influenza la plasticità cerebrale in quanto può favorire la connessione tra i neuroni dell’area frontale, che è a sua volta implicata nei processi di memorizzazione e attenzione.

 

Gli effetti positivi della musica e dell’educazione musicale

 L’educazione musicale contribuisce allo sviluppo e alla promozione di alcune “life skills” tra cui abilità sociali e scolastiche, che sono essenziali durante l’infanzia tanto da essere considerate un fattore protettivo per uno sviluppo soddisfacente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1997) indica tra le sue linee guida diverse attività artistiche, tra cui l’educazione musicale, che, durante le prime fasi del ciclo di vita, favoriscono l’inclusione sociale ed educativa di bambini e adolescenti.

La musica sembra infatti giocare un ruolo fondamentale per il neurosviluppo dei bambini e delle loro funzioni cognitive. L’educazione musicale, che prevede un processo di costruzione della conoscenza utile a sviluppare la sensibilità, la creatività, il senso del ritmo, memoria, concentrazione, immaginazione, attenzione, autodisciplina, rispetto per gli altri, socializzazione e azione, contribuisce anche alla consapevolezza del corpo e del movimento (Costa-Giomi, 2001).

Alcuni studi hanno dimostrato che l’educazione musicale influenza la plasticità cerebrale in quanto può favorire la connessione tra i neuroni dell’area frontale, che è a sua volta implicata nei processi di memorizzazione e attenzione, e stimola la comunicazione tra i due lati del cervello (Zatorre, 2005). Per tali ragioni è associata anche al ragionamento, alla matematica, all’apprendimento di un’abilità motoria, al linguaggio e ad altre tipologie di cognizioni tramite l’attivazione di diverse aree cerebrali. È noto, infatti, che la pratica musicale faccia lavorare il cervello attivando una rete di connessioni: leggendo uno spartito, per esempio, le persone trasferiscono le informazioni in forma visiva al cervello, il quale trasmette i movimenti necessari alle mani trasformandolo quindi in tatto, e, successivamente, l’udito identifica se il movimento risulta corretto. L’apprendimento musicale è quindi connesso ad entrambi gli emisferi, nonostante la percezione della musica sia localizzata principalmente nell’emisfero destro del cervello poiché dipende da altre funzioni cerebrali come il linguaggio verbale, la memoria e l’analisi e risoluzione di problemi (Nogueira, 2011).

Inoltre sembra che l’educazione musicale possa rendere il contesto scolastico favorevole all’apprendimento, migliorando il rendimento e la concentrazione individuale, oltre che stimolando le varie capacità degli studenti (Snyders et al., 1992).

Le abilità sociali contribuiscono alla promozione della salute nell’infanzia e nell’adolescenza, e la musica è associata alle relazioni interpersonali nella vita quotidiana, essendo utilizzata anche come tecnica di intervento per i processi comportamentali e la gestione degli stati emotivi (Ilari, 2006).

Gli insegnanti di musica, con altri professionisti come logopedisti e psicologi, possono quindi contribuire a promuovere tali abilità tramite lo sviluppo di tecniche che ottimizzino il repertorio sociale in modo efficace.

Educazione musicale e social skills

 Uno studio di Said e Abramides del 2020, aveva come obiettivo quello di indagare l’effetto dell’educazione musicale sul repertorio di abilità scolastiche e sociali dei bambini sottoposti e non all’educazione musicale. In particolare, gli autori volevano confrontare il repertorio di abilità scolastiche dei bambini nel gruppo sperimentale prima e dopo l’intervento di educazione musicale. Il loro campione era quindi composto da 80 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni suddivisi in due gruppi: 40 sottoposti a educazione musicale e 40 non sottoposti. Sono stati somministrati loro il Social Skills Rating System (SSRS-BR; Gresham, 1990), per valutare la frequenza e l’importanza delle Social Skills, la frequenza dei comportamenti problematici e la competenza accademica degli scolari; inoltre è stato somministrato il questionario School Performance Test (SPT; Stein, 1994) per valutare le capacità di rendimento scolastico degli studenti. I risultati mostrano una differenza statisticamente significativa tra i gruppi, evidenziando un notevole miglioramento del rendimento scolastico e delle competenze accademiche nei bambini sottoposti a educazione musicale. Si può affermare quindi che i benefici apportati dall’apprendimento musicale associato a diverse aree dell’educazione e della salute sono di grande rilevanza, rappresentando una strategia efficace nella pratica inclusiva e nella promozione della salute mentale dei bambini.

Inaugurazione Scuola di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini, 30 Settembre 2022 – Comunicato Stampa

Venerdì 30 settembre 2022 alle ore 16 si terrà l’inaugurazione della Scuola di Terapia Cognitiva e Comportamentale di Rimini, sita in Corso d’Augusto 115. L’evento si terrà presso la Sala del Giudizio dei Musei Comunali di Rimini, in via Luigi Tonini 1.

Comunicato Stampa

 

Sarà presente per l’apertura dei lavori l’Assessore alle Politiche per la Salute Dott. Kristian Gianfreda. È previsto un intervento della Dott.ssa Sandra Sassaroli, Presidente e fondatrice del Gruppo Studi Cognitivi, che illustrerà alcuni elementi fondanti del modello di cura che viene insegnato nella scuola di specializzazione: “Formulazione del caso LIBET e strategie di intervento: un caso clinico”.

Seguirà una tavola rotonda che vedrà importanti esponenti della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria italiana confrontarsi sul tema “Percorsi per la salute mentale: verso una direzione condivisa”. Il dibattito sarà un interessante momento di scambio e confronto in cui la cura della salute mentale entra in relazione con i servizi attualmente offerti dal territorio romagnolo. Si esaminerà il contributo della psicoterapia cognitivo-comportamentale nel mondo della salute mentale e l’importanza della costruzione e del mantenimento del networking tra le realtà presenti sul territorio.

L’evento è organizzato da Studi Cognitivi Formazione, che coordina l’attività di un gruppo di scuole di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal Ministero Università e Ricerca. Il Gruppo Studi Cognitivi è leader in Italia nel campo della psicoterapia. Il gruppo è specializzato primariamente nell’alta formazione, nella ricerca, nella divulgazione scientifica e nell’erogazione di servizi clinici nel campo della salute mentale.

La mission di Studi Cognitivi Formazione è di elevare il livello della psicoterapia nei territori in cui opera grazie alla sinergia di ricerca scientifica, didattica e pratica clinica.

Il progetto didattico di Studi Cognitivi Formazione si avvale di un gruppo di ricerca di fama internazionale che ha all’attivo numerose pubblicazioni e che continua a contribuire allo sviluppo della disciplina.

Presso la sede della scuola in affancamento dell’attività didattica, è anche attivo Il Centro Clinico Studi Cognitivi, punto di riferimento per il trattamento dei disturbi psicologici ed emotivi della città di Rimini e provincia. Al suo interno opera un pool di professionisti esperti nel campo della salute psicoemotiva, psicologi e psicoterapeuti qualificati nello svolgere colloqui psicologici, attività psicodiagnostica, trattamenti psicoterapeutici.

I servizi offerti sono rivolti a tutte le fasce della popolazione, dai bambini ed adolescenti al supporto della salute mentale nella terza età. I percorsi di cura seguono le più aggiornate e riconosciute linee guida internazionali coerentemente con una visione della psicoterapia efficace e fondata sulle evidenze scientifiche.

 

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Programma della Giornata

ORE 16.00 – APERTURA LAVORI a cura dell’ Assessore Kristian Gianfreda – Assessore Politiche per la salute, Protezione sociale, Politiche per la casa, Governance degli organismi partecipati non societari – Comune di Rimini

a seguire

INTERVENTO DI SANDRA SASSAROLI: “Formulazione del caso LIBET e strategie di intervento: un caso clinico”

DALLE 17:30 ALLE 19:00 – TAVOLA ROTONDA: “Percorsi per la Salute Mentale: verso una direzione condivisa”

Interverranno al dibattito:

  • dott. Andrea Tullini – Direttore di Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche – Ausl Romagna – Rimini
  • dott. Riccardo Sabatelli – Direttore CSM Centro Salute Mentale – Ausl Romagna – Rimini
  • dott.ssa Cinzia Giulianelli – Responsabile Struttura Semplice Neuropsichiatria Infantile Ospedale Infermi – Rimini
  • dott. William Giardi – Direttore Unità Operativa Complessa Servizio Minori I.S.S. di San Marino
  • dott. Gabriele Raimondi – Presidente Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna
  • dott. Marco Menchetti – Professore associato di Psichiatria Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’ Università di Bologna
  • dott.ssa Sara Giovagnoli – Psicologa e Professoressa Associata del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna
  • dott.ssa Sandra Sassaroli – Presidente del Gruppo Studi Cognitivi e Direttore del Dipartimento di Psicologia Sigmund Freud University – Milano
  • dott. Gabriele Caselli – Direttore della Scuola di Specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive, Professore di Psicologia Clinica, Sigmund Freud University

Introducono i quesiti:

  • dott.ssa Roberta Stoppa – Psicologa, Psicoterapeuta CBT. Direzione organizzazione e sviluppo delle Scuole del Gruppo di Studi Cognitivi. Consigliera di indirizzo generale in Enpap
  • dott.ssa Valeria Valenti – Psicologa Psicoterapeuta CBT Referente formativo STCC Rimini

ORE 19:00 – BRINDISI E BUFFET

L’evento si terrà presso Sala del Giudizio – Museo della Città di Rimini (Via L.Tonini, 1)

 

 

Rimuginio e ruminazione: in che relazione sono con i disturbi del comportamento alimentare? 

La relazione tra processi cognitivi quali il rimuginio e la ruminazione e i disturbi del comportamento alimentare è complessa e per certi versi ancora un tema ancora controverso in letteratura.

 

Rimuginio e ruminazione

 Il rimugino è definito come una catena di pensieri e immagini incontrollabili (Borkoveck et al., 1983). È un tentativo di problem-solving a livello mentale relativamente a problemi il cui esito è sconosciuto, ma include la possibilità che possa essere negativo.

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero ripetitivo di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi, dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari ansiogeni. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività del pensiero; i pensieri, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi che potrebbero manifestarsi in futuro, sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

La ruminazione è definita come pensieri che focalizzano ripetutamente l’attenzione su emozioni e sintomi negativi, sulle loro cause, significati e conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991). La ruminazione è quindi un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo (Nolen-Hoeksema, 1991).

Il rimugino è solitamente focalizzato sulla risoluzione dei problemi ed è più orientato al futuro, mentre la ruminazione in genere si concentra sui problemi passati (Olatunji et al., 2013)

In letteratura il termine Repetitive Negative Thinking (RNT) fa riferimento a un processo cognitivo caratterizzato da una forma di pensiero ripetitivo, frequente e focalizzato sul sé, che include sia il rimuginio che la ruminazione (Segerstrom, Stanton, Alden, Shortridge, 2003; Ehring, Watkins, 2008; Watkins, 2008)

Una grande mole di ricerche hanno suggerito e dimostrato che il rimuginio e la ruminazione, e quindi in generale, il Repetivive Negative Thinking, sarebbero processi cognitivi presenti in molteplici disturbi psicopatologici (Ehring, Watkins, 2008).

Disturbi alimentari e Repetitive Negative Thinking

In relazione ai disturbi alimentari, è ampiamente riconosciuta come caratteristica chiave della psicopatologia la presenza di una elevata preoccupazione e controllo del peso e della forma fisica (Fairburn, Cooper, Shafran, 2003).

Pertanto, è facilmente immaginabile che gli individui che hanno un disturbo alimentare presentino una maggiore tendenza verso il Repetitive Negative Thinking.

Ad esempio, una metanalisi recente di Smith, Mason e Lavender (Smith, Mason & Lavender, 2018) ha evidenziato che la ruminazione è correlata con patologie legate ai disturbi alimentari e che i soggetti con un disturbo del comportamento alimentare mostrano livelli maggiori di ruminazione rispetto a soggetti di controllo.

Parimenti, in letteratura si riscontrano alcuni studi che riportano maggiori livelli di rimuginio in pazienti con disturbi alimentari rispetto alla popolazione generale (Sassaroli et al., 2005; Sternheim et al., 2012).

La meta-analisi di Palmieri, Mansueto e colleghi, pubblicata nel 2021, ha come obiettivo quello di mettere a fuoco e di chiarire il ruolo che nel complesso i processi di pensiero ripetitivo negativo, che includano quindi sia il rimuginio che la ruminazione, possono giocare in termini di fattori di moderazione, nell’esordio e nel mantenimento dei disturbi del comportamento alimentare.

La meta-analisi ha preso in esame 43 studi che si sono occupati di questo tema, andando a includere attraverso PubMed e PsychInfo studi scientifici pubblicati utilizzando come parole chiave “eating disorder/anorexia/bulimia/binge eating disorder” AND “worry/rumination/brooding/repetitive thinking”. La meta-analisi è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

Dai risultati della meta-analisi è emerso che il “Repetitive Negative Thinking” (RNT) è significativamente correlato a condizioni sintomatiche di disturbi alimentari, quali anoressia nervosa, bulimia nervosa e binge eating disorder (BED), con l’evidenza che i pazienti con diagnosi di disturbo alimentare presentano livelli maggiori di Repetitive Negative Thinking rispetto alla popolazione generale. Inoltre, I risultati suggeriscono che la magnitudo di tale relazione non sarebbe influenzata dall’età dei partecipanti.

 Ma in che modo il Repetitive Negative Thinking gioca un ruolo nella sintomatologia alimentare? Emozioni e credenze negative possono agire come trigger del Repetitive Negative Thinking, che una volta attivato a sua volta mantiene nel tempo tali stati negativi. In questa direzione il modello teorico Self-Regulatory Executive Function (S-REF model) (Wells, Matthews, 1996) assume che il Repetitive Negative Thinking è una tra le forme disadattive di coping che mantiene il distress psicologico, facendo perdurare stati affettivi-cognitivi negativi (Cognitive Attentional Syndrome” (CAS) (Wells, 2000).

Parimenti, è ampiamente riconosciuto in letteratura che, in un quadro di disturbi alimentari, sintomi alimentari quali le diete, così come il binge-eating, possono essere una strategia di coping a fronte di stati cognitivo-affettivi negativi, in tal modo ingenerando circoli viziosi disadattivi tra Repetitive Negative Thinking, stati emotivi negativi perduranti e comportamenti alimentari disfunzionali.

I dati hanno inoltre evidenziato un effetto di moderazione della variabile “sottotipo di sintomo di disturbo alimentare”, evidenziando che vi sarebbero differenze in termini di intensità di correlazione tra Repetitive Negative Thinking e tipologia di sintomo alimentare. In particolare, l’associazione tra Repetitive Negative Thinking e sintomi alimentari sarebbe più forte nella condizione sintomatica di Anoressia Nervosa rispetto alla Bulimia Nervosa e al Binge Eating Disdorder. Questo risultato è in linea con una recente review sistematica (Palmieri et al., 2021) in cui le credenze metacognitive disadattive sembrano essere più rilevanti nell’anoressia nervosa rispetto ad altre tipologie di disturbo alimentare.

Conclusioni

In conclusione, è importante evidenziare che dalla meta-analisi è stato confermato che sia il rimuginio che la ruminazione sarebbero quindi processi disfunzionali transdiagnostici, entrambi presenti in misura maggiore in pazienti con disturbo alimentare rispetto alla popolazione generale non clinica.

Alla luce di tale review, sono da prendere in considerazione alcune implicazioni importanti per la pratica clinica, tra cui l’assessment focalizzato sul Repetitive Negative Thinking, così come interventi specifici evidence-based che vadano a regolare la frequenza e l’intensità del Repetitive Negative Thinking nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare.

Il cervello ha una mente propria (2022): una mappa (meta)teorica per le psicoterapie – Recensione

Obiettivo esplicito del volume “Il cervello ha una mente propria” non è semplicemente quello di colmare le intenzioni del padre della psicoanalisi, quanto invece, di estenderle e ristrutturarle, al passo coi nostri tempi.

 

Abstract

 Il nuovo volume di Holmes, intitolato “Il cervello ha una mente propria: attaccamento, neurobiologia e la nuova scienza della psicoterapia”, tenta di integrare la psicoanalisi (e più in generale la psicoterapia) con le scoperte derivanti dalla moderna neurofisiologia, ricorrendo ad un’ottica complessa ed interdisciplinare, tale da tenere assieme la fisica quantistica, la teoria della probabilità, i modelli evoluzionistici, quelli neurocomputazionali e molto – davvero, molto – altro.

A seguire sarà proposta una sintesi critica ed approfondita del volume, densa di riflessioni contestuali in linea con gli argomenti trattati.

Introduzione: mappare una nuova scienza per la psicoterapia

A prima vista il libro di Holmes – professionista noto soprattutto per i suoi contributi alla teoria dell’attaccamento – sembrerebbe l’ennesimo tentativo di concludere lo sforzo incompiuto, che Freud iniziò ad abbozzare nel 1895 all’interno del “Progetto di una psicologia”, sperando di conferire alla nascente psicoanalisi un solido terreno neuroscientifico e metateorico; compito, questo, poi comprensibilmente sfumato – soprattutto alla luce delle conoscenze teoriche e delle metodologie di ricerca, a cui le scienze psicologiche possono attualmente fare ricorso. D’altronde, l’ambizione di strutturare una metapsicologia rappresentava per lo stesso Freud una impresa assai ardua. Non a caso, ad oggi, non si è ancora giunti ad una sua soddisfacente e comune ridefinizione (Imbasciati, 2010; Solms, 2022).

È da queste premesse che muove, per l’appunto, la digressione di Holmes, ironicamente intitolata “Il cervello ha una mente propria”, vale a dire: una logica tutta sua.

Obiettivo esplicito del volume non è semplicemente quello di colmare le intenzioni del padre della psicoanalisi, quanto invece, di estenderle e ristrutturarle, al passo coi nostri tempi.

Il volume di Holmes, infatti, tenta di integrare le scoperte derivanti dalla neurofisiologia attuale con la psicoanalisi (e più in generale con la psicoterapia), ricorrendo ad una ottica molto complessa e interdisciplinare, tale da tenere assieme la fisica quantistica, la teoria della probabilità, i modelli evoluzionistici, quelli neuro computazionali e molto – davvero, molto – altro. Il tutto, a detta di chi scrive, pare condensarsi in un interessante contributo.

Nella prefazione del volume, Alessandro Zennaro, chiarisce come l’autore non si rifaccia praticamente mai, nel corso delle pagine, a concetti di tipo pratico e, tanto meno, mai giunga a delle conclusioni definitive; l’intero volume, in tal senso, dovrebbe essere inteso non come un viaggio ma come una mappa; dalla quale potersi spostare, cambiare prospettive e camminare in direzioni nuove ed originali, su strade, in parte, già battute e segnate da Holmes – in attesa d’esser ulteriormente esplorate.

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Il cervello ha una mente propria 2022 di J Holmes Recensione del libro Imm 1

Seppur ostico, questo libro, lo consiglierei proprio per la ricchezza dei rimandi bibliografici e degli stimoli inediti; tuttavia, a detta di chi scrive, un certo amaro potrebbe restare in bocca, dettato da quel tentativo – permettetemi – probabilmente poco coraggioso di voler salvaguardare a tutti i costi alcuni concetti psicoanalitici classici, del tutto obsoleti se rapportati sia alle neuroscienze attuali che (soprattutto) agli interessanti spunti avanzati, di pagina in pagina, dallo stesso Holmes.

Quasi un autosabotaggio – quasi! – considerando quanto scrive l’autore (p.7, Holmes, 2022):

Gabbard e Odgen, riprendendo forse inconsciamente Totem e Tabù di Freud hanno descritto il paradossale percorso dei membri del clan psicoanalitico, i quali devono contemporaneamente uccidere il padre e onorare i propri antenati. Con questo spirito la mia trattazione è al contempo un omaggio a Freud e, in parte, una ricerca di un paradigma post-psicoanalitico.

La probabilità curva le forme che usiamo per pensare: l’omeostasi nei sistemi dinamici complessi

Dettagli a parte, il concetto cardine che Holmes introduce all’interno del suo libro è quello di FEP – free energy principle: il Principio di Energia Libera (il corrispettivo di libido, in chiave 2.0), secondo cui, l’energia (in senso lato), non andrebbe intesa come uno specifico fenomeno fisico, bensì come una categoria sovraordinata, alla stregua della forza di gravità.

Gli agenti biologici (ad es. gli esseri umani), in linea con la teoria dei sistemi dinamici complessi (Seligman, 2005; Verdesca, 2018b), tenderebbero a legare – o, in termini Freudiani, ad investire – la propria energia, al fine di contrastare il disordine (l’entropia) che altrimenti ne conseguirebbe.

Secondo la teoria avanzata da Holmes, difatti, la prima funzione del cervello (a) sarebbe quella di organizzare e garantire l’omeostasi, destreggiandosi tra il bombardamento di stimoli sensoriali eterocettivi e propriocettivi. Tale omeostasi (equivalente al principio di costanza Freudiana in chiave moderna) si raggiungerebbe per mezzo di un costante processo di selezione e previsione dei dati in entrata (ossia del qui ed ora, e cioè, del presente) a partire dai dati in possesso (ossia l’esperienza già acquisita nel passato). A tal proposito Holmes scrive (p.15) che “il passato è l’unica guida per il futuro”.  L’autore, in maniera più semplice, va riferendosi in tal senso al concetto di aspettative, organizzate in modelli generativi e predittivi del mondo (Neisser, 1997).

Questo processo previsionale, illustrabile facendo ricorso alla teoria della probabilità di Bayes, punterebbe a minimizzare quanto più possibile le eventuali deviazioni dallo stato implicitamente previsto – in tal senso: desiderato – dal quel soggetto, alla luce della sua biografia.

D’altronde, il modo in cui il cervello costruisce la propria realtà sarebbe basato su bias ed euristiche, tese ad approssimazioni, distorsioni, interpolazioni. Tali operazioni, secondo Holmes, costituirebbero di fatto “il sistema immunitario psichico” del soggetto – ossia, il ventaglio delle sue difese psicodinamiche (ibidem, p.96). In merito, scrive Holmes (p.49):

Se i disturbi mentali sono malattie del cervello sociale, verosimilmente l’evoluzione avrà elaborato dei meccanismi di riparazione spontanei e culturalmente mediati in grado di renderli reversibili o di mitigarli. Per evitare l’entropia, gli organismi viventi hanno strutturato alcune difese che li aiutano a contrastare il caos, a mantenere una struttura, nonché a incrementare l’adattamento e le probabilità di sopravvivenza. Negli esseri umani, le difese operano “a tutti i livelli”, da quello cellulare del sistema immunitario, attraverso le dinamiche interpersonali di attaccamento, per arrivare alle strutture che definiscono l’organizzazione di una società e che spaziano dall’assistenza sociale, alle dighe foranee, agli armamenti militari. Questi meccanismi difensivi, al pari dei sistemi che devono proteggere, sono inizialmente involontari e automatici ma, quando vengono potenziati mediante interventi diretti e intenzionali, diventano formazioni destinate a uno scopo socialmente determinato.

In altre parole: “La probabilità curva le forme che usiamo per pensare (p.13, ibidem)”. Non a caso, l’autore, ha pensato bene di definire l’equilibrio omeostatico e idiosincratico, peculiare ad ogni individuo, come equilibrio allostatico. La realtà, dunque, è plasmata, manipolata, sulla scorta dei desideri propri del soggetto, il quale tenderebbe ad assimilare gli eventi in base alle forme dei propri schemi e delle proprie categorie, di volta in volta (pre)messe in conto – una sorta di profezia che tenderebbe ad autodeterminarsi tramite prove ed errori, conferme e disconferme (Waztlawick et al, 2011; Piaget, 2017). Tuttavia “la minimizzazione dell’errore di previsione [in gergo PEM] non è mai completa o esatta. Essa straripa sempre” (Holmes, 2022, p.75).

Le mappe, insomma, raramente coinciderebbero con il territorio (Korzybski, 1958), analogamente a come le aspettative sarebbero sovrapponibili alla realtà.

In sintesi, il primo compito del sistema mentale – parafrasando Holmes – sarebbe quello di garantire una percezione di sicurezza e di controllo ambientale quanto più possibile vicina alle proprie aspettative, se volete, inconsce; non a caso, a livello cognitivo-affettivo, tale concetto, trova riscontro in quello di Internal Working Model e, più in generale, nella teoria dell’attaccamento, campo di studi molto caro ad Holmes (ad es. 1993; 1994; Verdesca, 2018; 2020; 2022).

Ridurre la discrepanza tra aspettative e realtà restituirebbe, dunque, al soggetto un senso di stabilità e coerenza, permettendogli – per mezzo di opportune operazioni difensive – il lusso di poter semplificare l’infinita complessità cui il mondo e il flusso informativo dell’ambiente circostante consiste – con gli intrinseci vantaggi e rischi evolutivi connessi a tale operazione mentale.

La realtà di cui facciamo esperienza è per definizione virtuale, in questi termini, creata in maniera dinamica dal teatro della mente (p.90)”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Il cervello ha una mente propria 2022 di J Holmes Recensione del libro Imm 2

Home sweet home, ovvero, (r)esistere nell’entropia restando “a casa”

Tornando a noi, quanto detto consisterebbe nella (b) seconda funzione cui il cervello contribuirebbe: quella di resistere attivamente all’entropia. “Le cose possono andare male in molti modi differenti. In primo luogo, vi è il costante pericolo di un trauma. Nonostante le nostre migliori strategie, interferenze ambientali imprevedibili, inaspettate e deleterie possono sopraffare la PEM (p.41)”. È una questione di economia psichica, difatti “se qualcosa è del tutto improbabile, allora è sorprendente (p.13)”. In altre parole, potenzialmente, traumatica.

In linea di massima, sarebbe però possibile per il cervello garantire tale risultato – quello di tendere ad una continua riconferma delle proprie aspettative – ricorrendo a tutta una serie di inferenze attive (razionalizzazione, proiezione ecc) con il fine ultimo di condurre l’essere umano verso attrattori stabili, stati psico-somatici percepibili come familiari, situabili all’interno della propria comfort zone o, in altri termini, della propria nicchia ecologica. Insomma, sarebbe un po’ come sentirsi a casa – sia essa una splendente regia o una angusta capanna; poco importa: home sweet home, per intenderci – soprattutto quando l’ambiente da esplorare è percepito come pieno zeppo di minacce!

 In sintesi, e fuor di metafora, i soggetti, creerebbero attivamente – e cioè si metterebbero nella situazione di rivivere – sempre le stesse storie; modellando in maniera allostatica l’ambiente relazionale, tale da renderlo quanto più assimilabile alle caratteristiche delle esperienze passate – tale processo è noto in psicoanalisi interpersonale come identificazione proiettiva. È per questo che un soggetto preferirebbe aggrapparsi alla propria visione del mondo, anche se considerevolmente svantaggiosa e disfunzionale, anziché compiere azioni per disconfermarla, poiché farlo potrebbe comportare molti rischi, nella misura in cui potrebbe esporre il soggetto all’incertezza dell’ignoto – ad es. a nuove attività quotidiane, conversazioni terapeutiche e propositive, ecc.

L’inconscio e la psicoterapia secondo la (meta)teoria di Holmes

Il corpus teorico, sintetizzato sin qui, corrisponde sostanzialmente al primo capitolo del volume in oggetto; nel corso dei capitoli, Holmes, tenterà di applicare le proprie digressioni al mondo della psicopatologia. L’autore espanderà il suo modello ramificandolo con temi di matrice psicoanalitica, con le neuroscienze relazionali (ad es. con le evidenze empiriche derivanti dal campo della sincronia biocomportamentale, con la mentalizzazione, la teoria polivagale e la psicologia culturale, il filone della teoria dell’attaccamento, ecc.) giungendo, infine, alle implicazioni che l’intero corpus da lui delineato avrebbe sul funzionamento stesso della psicoterapia.

Essa, la psicoterapia, equivarrebbe alla riapertura di un periodo sensibile, tale da permettere al paziente una rimodulazione affettivo-viscerale della propria esperienza vitale, consentendogli una ristrutturazione (una convalida o una disconferma) delle proprie premesse interpretative (Beck, 1984; Siegel, 2019; Verdesca, 2018a; 2020c;). Gli interventi psicoterapeutici avrebbero, dunque, il fine di disaccoppiare, decondizionare, le credenze e gli automatismi senso-motori disfunzionali, non solo rendendoli consci ma sostituendoli con nuove modalità interattive inedite, all’insegna della sicurezza interpersonale, dell’intimità e della fiducia. Il terapeuta dovrebbe, dunque, garantire la funzione di holding, divenendo una mente in prestito per il paziente (Winnicott, 1960; Holmes, 2022). L’esito di quanto detto sarebbe quello di individuare ed interrompere i pensieri veloci ed automatici disfunzionali (siano essi credenze inconsce, immagini preconsce, attivazioni sensomotorie, ecc) che la mente tenterebbe puntualmente di agire e performare in cerca di sicurezza (Beck, 1984; Kahneman, 2012;). L’obiettivo di tali interventi sarebbe quello di aprirsi al cambiamento – senza più limitarsi fisiologicamente a resistere ad esso.

L’inconscio, nell’accezione di Holmes – e come suggerito dalla scelta del titolo conferito al libro – costituirebbe un processo vasto e implicitamente (molto più cognitivo) di quanto la psicoanalisi classica in definitiva sostenesse, retto da una logica propria e ben articolata; logica, evidentemente molto complessa, ma non per questo necessariamente complicata se ben inquadrata.

In conclusione, dunque: “Il fondamento relazionale della psicoterapia aiuta i clienti a tollerare la sorpresa e a sopravvivervi e quindi a trovare modalità nuove e più sane di legare l’energia mentale (Holmes, 2022; p. 95)”, espandendo e moltiplicando le possibilità interpretative e operative della realtà.

Note a margine: verso una teoria contestuale ed integrata del cambiamento

Holmes, in chiusura del volume, esplicita la teoria del cambiamento alla base della sua proposta (meta)teorica:

Il mio entusiasmo per il FEP proviene anche dalla prospettiva dell’integrazione in psicoterapia che afferma che gli aspetti murativi di quest’ultima derivano da fattori comuni, che comprendono la relazione terapeutica stessa, una cornice teorica coerente e degli interventi che promuovono il cambiamento. La prospettiva di questo approccio è basata sui fattori comuni (Wampold, 2015). Se la salute psicologica è associata alla necessità di legare l’energia libera e minimizzare l’errore di previsione, allora tutti gli interventi che promuovono questo saranno probabilmente di grande aiuto, indipendentemente dal nome con cui vengono chiamati. Tra questi: riattivare la capacità di agency; incrementare il campionamento sensoriale attraverso gli “esperimenti” cognitivo-comportamentali o le libere associazioni psicoanalitiche; ampliare il ventaglio delle possibili ipotesi top-down mediante l’analisi e l’interpretazione dei sogni e “l’immaginazione attiva”; promuovere una tristezza che attivi il cambiamento; modificare gli a priori alla luce dell’esperienza (Holmes, 2022, pp.94-95).

Infine, è altrettanto interessante mettere in evidenza come l’autore – in chiave contestuale e costruttivista – concepisca la psicoterapia quale frattale di un processo più generale orientato al cambiamento:

(…) la psicoterapia, anziché essere un intruglio esoterico, costituisce l’esempio di una “tipologia naturale”, una forma specializzata di un fenomeno culturale più generale, sempre più necessaria in contesti che cambiano continuamente e in modo imprevedibile. Molti aspetti della vita culturale (il gioco, lo sport, la recitazione, l’iconografia) dipendono dal “disaccoppiamento” dei processi top-down e bottom-up, unito alla meta cognizione che favorisce la PEM che, a sua volta, promuove la salute. Un’opera di Shakespeare o un concerto rock liberano energie erotiche e distruttive ma, al termine dello spettacolo, nessuno ha subito danni o violenze (o almeno si spera), come dimostrano l’inchino degli artisti e l’applauso degli spettatori. L’omeostasi psicologica essenziale per una vita libera è per sua natura vulnerabile alle forze dell’entropia. Apprendere dall’esperienza, tollerare l’errore di previsione e risolverlo dipende in larga misura dalle possibilità generative delle relazioni intime. Le società che suscitano ansia, passività, disuguaglianza, isolamento e insicurezza compromettono lo sviluppo della capacità di legare questa energia libera nel bambino in via di sviluppo (ibidem, pp.94-95).

 

Il legame tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti

Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative.

 

Il senso di solitudine tra gli adolescenti

 La solitudine è spesso legata ad un bias attentivo caratterizzato da un eccessivo monitoraggio dei segnali sociali (Spithoven et al., 2017). Questo implica che le persone sono eccessivamente focalizzate sulle informazioni sociali e sensibili sia agli stimoli negativi che indicano una minaccia, sia a quelli positivi che talvolta possono essere percepiti come possibilità di connessione sociale (Qualter et al., 2015). Alcuni studi della letteratura hanno dimostrato che sia gli adulti sia gli adolescenti sono soliti ricordare più facilmente le informazioni sociali, sia positive che negative, sebbene sembra che nelle espressioni facciali riconoscano meglio le emozioni negative come tristezza, paura e rabbia (Vanhalst et al., 2017).

La solitudine è caratterizzata da emozioni negative sperimentate a causa di una discrepanza tra le relazioni sociali desiderate e quelle effettive (Perlman & Peplau, 1981); se da un lato quindi provare solitudine può motivare le persone a cercare di riallacciare alcuni rapporti e a riconnettersi con gli altri, dall’altro l’ipervigilanza nei confronti dei segnali emessi dalle persone può provocare isolamento e ritiro sociale. Le persone, per superare gli effetti negativi e tornare a relazionarsi con gli altri, spesso si ritirano per valutare la loro situazione attuale sociale fino a che la solitudine attiva processi cognitivi che generano risposte comportamentali volte a evitare ulteriori danni e ad aumentare l’inclusione e la connessione sociale. Per tale ragione i segnali sociali vengono privilegiati rispetto a quelli non sociali, poiché ci aiutano a reagire più rapidamente e a fare scelte sulla base delle intenzioni degli altri (Spithoven et al., 2017). Questi bias di attenzione agli stimoli sociali nelle persone sole si attivano rapidamente e il loro decorso varia a seconda della fase dello sviluppo di una persona.

Ai fini di comprendere gli effetti delle alterazioni dell’attenzione delle persone sole sull’elaborazione delle informazioni sociali, alcuni studi hanno utilizzato volti di bassa o alta intensità emotiva trovando che spesso la solitudine risultava associata ad una maggiore accuratezza nel riconoscimento emotivo di volti arrabbiati (ma non di volti paurosi, tristi o felici). Uno studio di Vanhalst e colleghi (2017) ha riscontrato invece che gli adolescenti soli erano maggiormente in grado di rilevare nei volti la tristezza e la paura, seguite dalla felicità. Questi risultati suggeriscono che gli individui soli possono mostrare una maggiore capacità di identificare le espressioni facciali negative.

Solitudine e riconoscimento della prosodia

Sono poche, tuttavia, le informazioni relative all’associazione tra solitudine e altri segnali socio-emotivi non verbali come, ad esempio, la prosodia verbale, che include il ritmo e l’intonazione delle parole. La codifica delle intenzioni emotive nella voce degli altri ha infatti un percorso di sviluppo diverso rispetto al riconoscimento delle espressioni facciali, e probabilmente impegna processi cognitivi diversi (Morningstar et al., 2018). Il tono di voce fornisce infatti indicazioni importanti relative allo stato emotivo e agli atteggiamenti sociali di un interlocutore (Johnstone & Scherer, 2000). Mentre nei volti sono presenti in qualsiasi momento informazioni per il riconoscimento delle emozioni, la prosodia vocale spesso richiede l’integrazione di diverse informazioni, che nel corso del tempo variano rapidamente. Un solo studio ha esaminato l’associazione tra riconoscimento emotivo (Emotional Recognition; ER) vocale e solitudine, trovando una minore accuratezza solo nel riconoscimento emotivo vocale quando era presente anche un marcato livello di ansia per le prestazioni sociali (Knowles et al., 2015).

 Sembrerebbe inoltre che l’abilità di riconoscere i segnali vocali delle emozioni sia anch’essa differente in base alla fase dello sviluppo, migliorando fino a metà adolescenza. Quest’ultima è un periodo caratterizzato da maggiore coinvolgimento con i coetanei e maggiore sensibilità agli indizi di rifiuto o di affiliazione sociale (Nelson et al., 2005). I ragazzi che faticano a interpretare segnali come il tono di voce, possono quindi avere difficoltà ad entrare in contatto con gli altri. Uno studio di Morningstar e colleghi del 2020 ha analizzato i legami tra sentimenti di solitudine e riconoscimento delle espressioni emotive vocali negli adolescenti ai fini di verificare se le persone sole mostrassero un maggiore monitoraggio sociale e un maggiore riconoscimento anche delle espressioni vocali negative. 122 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni hanno quindi tentato di identificare l’espressione trasmessa nelle rappresentazioni uditive di cinque emozioni di base (felicità, tristezza, paura, rabbia e disgusto) e delle espressioni sociali “cattiveria” e “cordialità”. Queste ultime due espressioni possono essere concettualizzate rispettivamente come spunti di rifiuto e affiliazione, e hanno dimostrato di differire acusticamente e percettivamente (Morningstar et al., 2018) dalle altre emozioni di base. Inoltre, poiché l’ansia sociale è associata al riconoscimento emotivo vocale nei bambini (McClure & Nowicki, 2001) e anche il sesso e l’età influenzano tale legame, gli autori hanno tenuto in considerazione queste tre variabili nelle loro analisi. I giovani hanno compilato il questionario Loneliness and Aloneness Scale for Children and Adolescents per misurare la solitudine (Marcoen et al., 1987); il Social Anxiety Measures for Children and Adolescents (La Greca & Stone, 1993) per l’ansia sociale e infine hanno svolto un compito di riconoscimento emotivo vocale che comprendeva registrazioni audio prodotte da attori con diversi toni di voce emotivi (Morningstar et al., 2017).

Solitudine e riconoscimento emotivo

I risultati mostrano che, controllando l’ansia sociale, l’età e il sesso, il legame tra la solitudine e l’accuratezza del riconoscimento risultava essere specifico per ciascuna emozione: la solitudine era associata ad uno scarso riconoscimento della paura, ma a un migliore riconoscimento della cordialità. Una possibile spiegazione potrebbe essere che la motivazione che spinge gli individui soli a evitare la minaccia può interferire con il riconoscimento della paura, ma la loro sintonia con gli indizi di affiliazione può promuovere l’identificazione della cordialità nei suoni. Essere sensibili agli indizi di amicizia può quindi promuovere opportunità di riconnessione per le persone sole e rappresentare una componente adattiva del sistema di monitoraggio sociale.

È possibile quindi strutturare interventi per incoraggiare gli adolescenti a utilizzare questa loro distorsione attentiva in modo funzionale, ai fini di superare la solitudine e aiutarli a concentrarsi sugli indizi di affiliazione sociale piuttosto che su quelli di paura nella voce degli altri.

 

Cosa è il modello Triple-P?

Il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze della famiglia con diversi livelli di supporto.

 

Il modello Triple P – Positive Parenting Program

 Il modello Triple P, che sta per Positive Parenting Program (programma per la genitorialità positiva), è stato sviluppato da Sanders e colleghi (2002) e prevede programmi evidence-based (ovvero basati sull’evidenza scientifica) sia di intervento specifico su particolari difficoltà, sia focalizzati sul concetto generale di genitorialità e per problematiche comuni nell’infanzia. Il programma mira al sostegno familiare e della genitorialità, alla promozione delle competenze sociali dei figli, e alla prevenzione dei disturbi comportamentali ed emotivi di livello grave nei bambini.

In particolare, il Positive Parenting Program si propone di promuovere le relazioni positive all’interno della famiglia, tra genitori e figli, e di aiutare i genitori nello sviluppo e nell’apprendimento di strategie di gestione efficaci per affrontare le problematiche comportamentali di sviluppo comuni. In questa ottica, un obiettivo è quello di aumentare il senso di competenza delle proprie capacità genitoriali, migliorando la comunicazione all’interno della coppia sulla genitorialità e riducendo lo stress genitoriale. L’ acquisizione di tali competenze specifiche può permettere una migliore comunicazione familiare e una riduzione del conflitto, che a sua volta, può portare a una riduzione del rischio di sviluppo di problemi comportamentali ed emotivi nei figli. È stato inoltre osservato che i principi di apprendimento sociale, come ad esempio il supporto positivo per promuovere comportamenti prosociali e adattivi dei figli e i processi all’interno della famiglia, svolgono un ruolo rilevante per la remissione dei sintomi anche per altri disturbi dell’infanzia come depressione, ansia, difficoltà di alimentazione, abitudini disfunzionali (per es., suzione del pollice) e sindromi dolorose ricorrenti (per es., emicranie, dolori addominali ricorrenti; Sanders et al., 2002).

Il modello Triple P si basa sul principio di sufficienza. Che cosa significa? Ogni coppia genitoriale è diversa dall’altra nella modalità con cui si preoccupa per il comportamento del proprio figlio, e questo è attribuibile alle differenze individuali di ogni persona. In base a esse, può esserci una valutazione della gravità, una motivazione e un accesso al sostegno diverso, altrettanto differente sarà la presenza di stress familiare che può essere precedente, contingente o conseguente all’insorgenza di difficoltà del bambino (Sanders et al., 2002). Sulla base di questo presupposto, il modello Triple P è stato sviluppato su più livelli, che si collocano su un continuum di intensità crescente, permettendo di rispondere alle diverse esigenze con diversi livelli di supporto. Il sistema multilivello, dunque, permette di adattare l’intensità dell’intervento alle esigenze e preferenze valutate per ciascuna famiglia (Sanders et al., 2002). A livello pratico, il principio di sufficienza prevede che, per la stessa problematica (per esempio la gestione di problematiche comportamentali attraverso un piano genitoriale specifico) possa essere fornito un programma di skill training e una tipologia di supporto differente, come una serie di suggerimenti scritti e un video illustrativo della strategia, piuttosto che accompagnate da maggiori prove comportamentali, in cui i genitori vengono osservati durante l’interazione con i loro bambini e ricevono feedback da professionisti per implementare le loro capacità genitoriali, e incontri con un professionista.

Quali sono i livelli del modello Triple-P?

Sanders (2012) teorizza 5 principali livelli di intervento nel Positive Parenting Program.

  • Livello 1. Lo step informativo. Permette ai genitori interessati di accedere a informazioni utili riguardo la genitorialità positiva. Vengono utilizzati siti web, programmi televisivi, media, radio, giornali, con lo scopo di aumentare la consapevolezza delle tematiche genitoriali, di destigmatizzare e incoraggiare la partecipazione ai programmi di parent training.
  • Livello 2. Prevede seminari sulla genitorialità oppure 1-2 consultazioni individuali per promuovere uno sviluppo sano del bambino, fornendo una guida evolutiva anticipatoria per i genitori di bambini con lievi difficoltà comportamentali (per es., difficoltà del sonno).
  • Livello 3. È rivolto ai genitori con preoccupazioni specifiche che hanno bambini con difficoltà comportamentali da lievi a moderate. Può prevedere un breve programma di 3-4 incontri individuali, in cui vengono forniti consigli, prove e auto-valutazioni per insegnare loro a gestire le difficoltà dei bambini; oppure sessioni di gruppo riguardo a tematiche comuni (per es., disobbedienza).
  • Livello 4. Prevede un programma più intensivo, individuale o di gruppo, con un maggior numero di incontri con lo scopo di migliorare l’interazione tra genitori e bambini con difficoltà comportamentali più gravi, e di apprendere e mettere in atto le capacità genitoriali.
  • Livello 5. Consiste in un intervento familiare comportamentale (Behavioral Family Intervention, BFI) di intensità maggiore rispetto ai precedenti ed è rivolto alle famiglie in cui le difficoltà dei genitori, nella gestione dei bambini con problematiche comportamentali, sono complicate da altre fonti di disagio familiare (per es., relazioni conflittuali, depressione genitoriale, alti livelli di stress).

Il modello Triple P efficace?

 Una recente revisione sistematica e metanalisi (Sanders et al., 2014) si è occupata di verificare l’efficacia del modello Triple P. I risultati mostrano che tale intervento genitoriale è efficace, sia a breve che a lungo termine, e che è funzionale sia come intervento preventivo che come trattamento. È stato osservato un miglioramento degli aspetti sociali, emotivi e comportamentali (social, emotional, behavioral; detti “SEB”) nei bambini, e sono stati riscontrati anche benefici a livello genitoriale in termini di strategie, fiducia e relazione genitoriale. È importante evidenziare come anche gli interventi brevi e di bassa intensità, come il Livello 1, possono avere un impatto positivo sui risultati di esito sia per i bambini che per i genitori.

Questo sistema di intervento multilivello può essere fornito in diverse modalità: individuale, di gruppo, auto-diretto, online, tramite supporto telefonico. In tutte le modalità è stato riscontrato un miglioramento significativo per quanto riguarda gli aspetti SEB dei bambini, e le pratiche genitoriali, la soddisfazione e l’efficacia genitoriale. In particolare, la somministrazione online ha avuto un maggiore livello di efficacia rispetto alle altre modalità di erogazione dei vari interventi proposti dal Positive Parenting Program. Tale aspetto è di fondamentale importanza poiché permette di raggiungere anche famiglie che non possono accedere ai servizi in modo diretto, e garantisce un sistema di intervento efficace nel caso in cui si presentino altre condizioni emergenziali a livello sociale che comportino una limitazione alla possibilità di svolgere prestazioni in presenza.

 

I social media e la divulgazione psicologica

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui un qualsiasi tipo di divulgazione  dovrebbe basarsi su letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche, ma sui social network il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

 

I social media per la diffusione di notizie

 L’avvento dei social media e la loro diffusione a macchia d’olio, verificatasi a partire dagli ultimi due decenni, ha sensibilmente rivoluzionato le vite di gran parte degli abitanti del nostro pianeta, in particolar modo quelli dei paesi occidentali.

L’utilizzo in larga scala delle varie comunità digitali, di pari passo con la diffusione e l’avanzamento della rete internet nel mondo, ha accorciato le distanze tra le persone. Questo, di conseguenza, ha permesso a ogni individuo di poter accedere a una quantità e ad una varietà di informazioni come mai si era potuto fare prima.

I vari ambiti professionali, tra cui quello della psicologia, ne hanno avuto giovamento attraverso la creazione di canali di scambio tra colleghi, che hanno dato vita con più facilità a incontri, progetti, canali scientifici e di divulgazione, favorendo sempre più una rete di comunicazione. Tutto questo attraverso lo sviluppo di interessanti strategie comunicative che hanno coinvolto un pubblico sempre più interessato, preparato e consapevole. Anche società scientifiche hanno aperto pagine istituzionali nei vari social. Insomma, discipline come psicologia, psicoterapia e affini hanno aperto le porte al pubblico mostrando aspetti della professione sui quali vigevano false credenze, stereotipi e fantasie ispirate a contesti come quello di una distratta cinematografia o un semplice passaparola, restituendo un’immagine di umanità ai professionisti e sdoganando l’accesso alle cure e ai processi di crescita personale agli utenti.

La maggior presenza dei temi riguardanti la salute mentale sui social media ha portato e sta portando con sé sia aspetti positivi sia aspetti negativi, la gran parte dei quali, tuttavia, non potrà trovare spazio in questo articolo.

La salute mentale sui social media: gli aspetti positivi e i rischi

Cercando di affrontare sinteticamente gli aspetti positivi che hanno riguardato i temi relativi alla salute mentale, c’è stata in primo luogo la possibilità di poter affrontare temi culturalmente considerati tabù in diverse società e culture. A supporto di questo, hanno avuto un ruolo importante anche i numerosi coming out che personaggi dello sport e dello spettacolo hanno fatto proprio attraverso questi canali dove hanno condiviso le proprie esperienze di difficoltà e di sofferenza e il loro affrontarle in percorsi con professionisti. Non è infrequente che tali personaggi abbiano reso pubbliche, nel modo che loro ritenevano migliore, le proprie esperienze di difficoltà e psicoterapia. Ad esempio, in Italia abbiamo l’emblematico caso dei coniugi Chiara Ferragni (imprenditrice e influencer) e Fedez (cantante e influencer), che non hanno mai fatto segreto del proprio percorso di psicoterapia di coppia, arrivando a mostrare questa intimità in una serie dal nome The Ferragnez. Questo a dimostrazione di come una delle caratteristiche dei social media sia proprio quella di ridurre sensibilmente la distanza tra le persone, in tal modo diventa possibile per i personaggi famosi, fino a quel momento distanti, patinati e inarrivabili, entrare più in intimità con i loro seguaci, i loro follower, mostrando che la fragilità è una cosa di cui si può parlare.

Una conseguenza di questo fenomeno è stata quella di portare le persone che utilizzano maggiormente queste piattaforme, ragazzi e ragazze appartenenti alla generazione Millennial (nati tra il 1981 e il 1996) e alla generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012), a una grande esposizione di questo genere di contenuti su queste piattaforme. Non dovrebbe meravigliare, dunque, che proprio gli appartenenti a queste generazioni siano coloro i quali si mostrano più sensibili ai temi riguardanti la salute mentale e, di conseguenza, meno restii a chiedere aiuto (si veda ad esempio, Bethune, 2019; O’Reilly et al., 2018).

Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica. Come sappiamo, i social e il mondo digitale più in generale, non sempre ci mostrano un lato esclusivamente positivo (Ceron et al., 2014). Così come oggi, in modo semplice e accessibile, la buona pratica usufruisce di questo potente strumento, allo stesso modo può avere accesso anche la cattiva pratica. Per cattiva pratica intendiamo tutto ciò che, applicato o divulgato, può creare cattiva informazione o addirittura compromettere in diversi modi la salute del prossimo, promuovendo interventi dannosi, confondendo sull’accesso alle giuste cure di cui si potrebbe necessitare, o addirittura stigmatizzare il malessere che rischierebbe di non essere portato alla luce.

Uno dei fenomeni di cattiva pratica in grado di portare a conseguenze negative, spesso anche gravi, è dato dalla possibilità che informazioni non opportunamente verificate si diffondano: le cosiddette fake news. Può facilmente balzare all’occhio di chiunque la pericolosità della circolazione di tali notizie, tanto che anche il sito del Ministero della Salute ci ha tenuto a sottolineare quanto “Bufale e disinformazione sono molto pericolose quando riguardano la salute e spesso non è facile distinguerle tra milioni di informazioni” (Fake News, n.d.). In che modo il tema delle informazioni inesatte, non supportate da fonti autorevoli, può essere legato alla divulgazione e alla condivisione di contenuti riguardanti la salute mentale?

La psicologia e la psicoterapia sono discipline a statuto scientifico, questo significa che sono discipline in cui una qualsiasi informazione dovrebbe essere passata in rassegna dalla letteratura scientifica o almeno da evidenze cliniche. In un mondo, come quello dei social media, in cui qualsiasi informazione non ha la necessità di essere riconducibile a una fonte attendibile, il rischio che circolino delle informazioni basate su esperienze personali non scientifiche, e quindi cattiva pratica, è più che mai concreto.

Un caso specifico

Un esempio riguarda uno dei temi caldi dei social media, quello relativo al costrutto di narcisismo, che è proprio quello di cui abbiamo voluto occuparci in questo articolo, la cui idea nasce da un gruppo di professionisti presenti sui social che ritiene sempre più urgente una promozione di specifici principi volti alla tutela della professione e dell’utenza. L’episodio scatenante è il seguente: sulla pagina del CNOP è stato condiviso un articolo pubblicato su un sito di divulgazione psicologica.

La problematica che viene presentata, sicuramente sempre attuale e interessante, tratta il tema delle relazioni vissute con sofferenza e i possibili malesseri che ne derivano. Fin qui nulla di strano. Non è infrequente, infatti per un clinico ricevere richieste legate a momenti di vita in cui una persona è da poco uscita o fa fatica ad uscire da una relazione che la mette a dura prova. Queste sono quelle che la folk psychology, la psicologia pop o ingenua, definisce “relazioni tossiche”. Un clinico, invece, in base alle circostanze, potrebbe definire tali dinamiche di relazione in diversi modi, ad esempio dipendenza affettiva. La dinamica in linea di massima nasce dalla persona che, nella speranza di vivere un idillio amoroso, è divenuta partecipante di una relazione che l’ha esposta a vivere e ad affrontare delle condizioni tutt’altro che piacevoli, spesso con un individuo che non ha corrisposto alle sue aspettative o quanto meno l’ha fatto solo in una fase iniziale della relazione.

Proseguendo, l’articolo in questione descrive questa dinamica in termini nefasti. Una persona rappresentata come una persona disponibile, comprensiva, aperta al dialogo, insomma una persona “buona”, incontra sulla sua strada una persona “predatrice”, cieca ai bisogni altrui, estremamente egocentrica, insomma una persona “cattiva”, definita impropriamente “narcisista”. Lo scopo di quest’ultima è quello di “vampirizzare” le risorse energetiche dell’altro attraverso una serie di capacità manipolative che terranno il/la malcapitato/a in una relazione dalla quale uscire sarà quasi impossibile. Inoltre, nel suddetto articolo vengono fornite una serie di indicazioni da seguire per permettere alla persona di allontanarsi da questa situazione spiacevole.

Questo articolo solleva diverse questioni, sulle quali troviamo giusto, proprio a fede del rigore scientifico di cui parlavamo, condividere alcune delle nostre riflessioni.

L’autore del suddetto articolo inquadra questa situazione definendola con il nome di “abuso narcisistico”.

La letteratura è praticamente piena di questi studi. Insomma, chi non desidererebbe vivere una relazione sana e appagante? Tutti tranne quelli che stanno bene da soli anche senza una relazione sana e appagante.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Punto primo, nessuno ha mai negato che la relazione con una persona affetta da disturbo narcisistico non possa essere dannosa per il proprio benessere e la propria qualità di vita. Difatti, il termine stesso di Disturbo di Personalità sottoscrive anche la descrizione di come gli aspetti funzionali di una persona, le sue capacità relazionali, il suo potenziale di maturazione nella vita e la capacità di perseguire obiettivi sani e realistici, sono elementi compromessi, in gradi più o meno diversi. L’incapacità di poter vivere relazioni appaganti e sane purtroppo rientra tra le problematiche. Questo però non è una prerogativa solo del disturbo narcisistico di personalità. Purtroppo le relazioni, per le persone affette da disturbo di personalità, sono circostanze dove l’intimità e la vicinanza richiamano con molta facilità, dinamiche legate ad aspetti della propria sofferenza personale. Avviene quindi che il soggetto si trova a dover fronteggiare contenuti legati alla sua storia personale e ai processi evolutivi, per i quali spesso egli non ha né la giusta consapevolezza né tantomeno i giusti strumenti che gli permetterebbero di avere buone dinamiche relazionali.

Nel leggere l’articolo in questione, invece, le cose sembrano presentate da un punto di vista differente che inquadra sostanzialmente due protagonisti. Da una parte i narcisisti, visti come persone che hanno ben pensato di sviluppare un simile disturbo con lo scopo ultimo di andare a rendere difficile la vita altrui per nutrirsi della sofferenza distillata dal malessere che sono in grado di generare; dall’altra una vittima, la cui unica colpa è quella di essere “empatica” che, braccata dal narcisista, viene ingannata, manipolata e annullata all’interno di una relazione dalla quale ne uscirà con un disturbo post traumatico da stress (Post-Traumatic Stress Disorder; PTSD).

Il tutto veniva racchiuso sotto la definizione di “Sindrome da abuso narcisistico”.

Ma dove risiede l’errore? Intanto iniziamo a chiederci per chi la fine di una storia non è collegata a una sofferenza? Per nessuno. Siamo mammiferi e quando le nostre relazioni significative si interrompono per qualche motivo noi soffriamo, anche se chiudiamo la relazione per stare meglio. È innegabile che, se all’interno di tale relazione ci sono state delle dinamiche di svalutazione e di violenza, se ne esce con delle ferite. Premesso questo, tuttavia, è importante, alla conclusione di una relazione così devastante, farsi una domanda molto semplice, ma fondamentale: “Come ci sono finito/a?”. Qui forse l’ipotesi di essere semplicemente “empatici” potrebbe essere un po’ debole, oltre che poco utile da un punto di vista clinico.

In effetti, essere vittime di maltrattamento e di svalutazione in una relazione è una tematica sicuramente importante, ma affermare che il problema reale sia la diagnosi di una terza persona è molto lontano da un piano terapeutico utile e reale. Infatti, quello che si rischia di perdere di vista innanzitutto è il reale obiettivo del trattamento terapeutico, ovvero aiutare la persona non solo a superare il momento attuale di sofferenza, ma soprattutto a sviluppare un’adeguata conoscenza e capacità di padroneggiare dei propri pattern relazionali, con l’obiettivo di non trovarsi più in situazioni del genere.

Da qui ci colleghiamo ad un altro aspetto centrale sollevato dall’articolo in questione. Non viene considerato minimamente il ruolo della persona descritta come “vittima” nella costruzione e nel mantenimento di una dinamica relazionale di sofferenza. Come abbiamo visto, questo rischia di essere dannoso poiché non aiuta la persona a comprendere di essere parte attiva del proprio cambiamento e, di conseguenza, della propria evoluzione.

 Un altro aspetto molto importante è quello della “diagnosi per procura”. Ovvero il fatto che l’autore dell’articolo, utilizzando i racconti della “vittima”, formulava impropriamente un termine diagnostico. È importante sottolineare che non è possibile dare una definizione diagnostica a una persona con la quale non si ha interagito in prima persona. A tal proposito, vogliamo citare la regola Goldwater, dell’American Psychiatric Association (APA), in cui si afferma che gli psichiatri non dovrebbero esprimere un’opinione professionale su personaggi pubblici che non hanno esaminato di persona e dai quali non hanno ottenuto il consenso per discutere della loro salute mentale in dichiarazioni pubbliche. Lo stesso codice deontologico degli psicologi italiani, nell’articolo 25, afferma che “lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone”.

Per giunta, impostare un trattamento basandosi sulla diagnosi di una terza persona che non è il paziente, potrebbe portare a un percorso infruttuoso, se non dannoso.

Ultima osservazione sulla diagnosi per procura, ma non meno importante, è che la descrizione del disturbo narcisistico viene estrapolata dai criteri presenti sul Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorder; DSM), ma il tutto viene infarcito da una serie di descrizioni e attribuzioni che non sono proprie della diagnosi del disturbo. Queste, infatti, appartengono a ben altra problematica conosciuta in letteratura, tutt’ora oggetto di studio e sotto dibattito scientifico, che prende il nome di “triade oscura”, in cui una somma di aspetti sotto il nome di machiavellismo, psicoticismo e narcisismo si combinano delineando qualcosa che è ben diversa da quello che potremmo definire disturbo di Personalità Narcisistica.

Oltre agli aspetti che abbiamo illustrato finora, è interessante notare che i diversi colleghi che hanno provato a commentare l’a-scientificità dell’articolo condiviso dal CNOP, sono stati assaliti da insulti, commenti svalutanti e addirittura minacce. Molti di questi erano legati al fatto di sentirsi delegittimati dal proprio ruolo di vittima, come se mettere in dubbio l’affermazione “abuso narcisistico” togliesse credibilità alla sofferenza che queste persone avevano vissuto.

Questo episodio pone il CNOP in una posizione scomoda. Difatti, una folta comunità di colleghi ha manifestato sui social il proprio dissenso in quanto non si è sentita rappresentata da una comunicazione che non rispetta la natura scientifica della psicologia stessa. La risposta ufficiale del CNOP a tale critica è stata quella di voler prediligere una posizione neutrale volta a mantenere un dibattito.

Ciò che poi vogliamo dire avviandoci alla conclusione, è che noi psicologi possiamo dibattere, ma su idee scientifiche. Difatti, molti di noi sono iscritti a società scientifiche proprio per questo motivo. È possibile in tal senso discutere su una procedura di ricerca, su un modo diverso di interpretare i dati alla luce di altri dati di letteratura ecc., ma non è possibile discutere di argomenti presentati sotto forma di opinioni, anche ispirate a vissuti personali, che non rispettano i dovuti criteri scientifici necessari.

Conclusioni

In conclusione, lo scopo di questo articolo non è quello di fare sterile polemica, ma sollevare problematiche importanti e cercare di aprire dibattiti che possano portare a confronti produttivi.

Per tale motivo vorremmo chiudere con delle proposte che hanno lo scopo di salvaguardare, all’interno dei social media, i principi etici e professionali della psicologia in quanto scienza, via di cura e di benessere per l’individuo.

Una prima proposta è quella di creare in Italia delle linee guida per un corretto utilizzo dei social media per gli psicologi. Di riferimento possono essere quelle stilate dall’American Psychological Association (American Psychological Association, 2021) per l’uso ottimale dei social media nella pratica psicologica professionale.

In aggiunta, pensiamo che la creazione di un comitato etico e scientifico che possa ricoprire la funzione di supervisione e salvaguardia costituirebbe sicuramente una grande tutela dell’immagine professionale e della qualità dell’informazione.

Nella realizzazione di queste proposte si potrebbero creare dei tavoli di dibattito presso i quali le società scientifiche presenti sul territorio nazionale potrebbero partecipare con i propri rappresentanti offrendo un contributo di non poco valore.

Restando realisti, comprendiamo che l’oceano della divulgazione digitale è assai vasto e complesso, ma proprio per tale motivo, è necessario che l’imprescindibile presenza di una categoria professionale che si occupa di salute e benessere, si ispiri ai principi professionali che la rappresentano e che quindi sono necessari degli interventi tempestivi a tal merito.

Insomma, se è una cosa che deve portare del bene allora, va fatta bene.

 

Regolare le emozioni attraverso la scrittura 

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere.

 

Siamo arrabbiati e non troviamo il modo di sfogarci? Delusi o rattristati e facciamo fatica a riconoscere la causa del nostro malessere? A volte un aiuto importante può arrivarci da due semplici elementi: un foglio e una penna. La scrittura, infatti, si rivela una valida alleata per superare le situazioni di stress e riprendere il controllo delle nostre emozioni.

Che cosa dice la scienza

Matthew Lieberman, ricercatore dell’Università della California, ha condotto uno studio (2007) che ha osservato che la scrittura riduce l’attività di quella parte del cervello che si attiva quando siamo sottoposti a situazioni di paura e stress grave. Scrivere può avere anche effetti benefici sul sistema immunitario in quanto influenza positivamente il nostro modo di pensare, influenzando indirettamente la nostra risposta psicofisica.

Il metodo del diario creativo

Lo psicoterapeuta americano Ira Progoff (1992) è conosciuto per il suo metodo del diario creativo. Ai partecipanti dei suoi corsi di diario viene consegnato un quaderno di 24 pagine colorate divise in diverse sezioni. L’intenzione è che la sua struttura possa fornire a chi lo utilizza un equivalente del suo spazio interiore, in cui muoversi per sperimentare quello che sarà poi utile riportare nella vita reale.

Secondo questo metodo, tenere un diario deve comprendere la scrittura progressiva di ciò che accade per evocare nuove idee e aprire nuove opportunità di comprensione. Le diverse sezioni del diario possono riferirsi a diversi aspetti della nostra vita, non solo fatti, ma anche stati d’animo, emozioni, scelte, progetti, desideri. È utile che comprendano anche una sezione periodica, che potremmo identificare in un appuntamento trimestrale, volta a rileggere quanto appuntato nel periodo e portare a un’autovalutazione di se stessi e del proprio percorso.

I benefici della scrittura

Indipendentemente da chi siamo e che cosa facciamo, la scrittura può essere fonte di grandi benefici, aiutandoci a razionalizzare le emozioni, a calmarci, persino a migliorare la nostra salute fisica e mentale abbassando i livelli di stress, ansia e depressione.

Ci aiuta a vedere più chiaramente quello che vogliamo dire grazie alla ricerca delle parole giuste che ci obbliga a sforzarci di dare un senso logico ai nostri pensieri, a focalizzare i punti salienti di ciò che vogliamo comunicare e a dare loro il giusto peso.

Esistono diverse forme di scrittura, alcune vengono fatte per essere condivise, per esempio quando scriviamo una lettera e diciamo a un amico, presumibilmente lontano, che cosa ci sta accadendo. Possiamo anche trovarci a scrivere per un pubblico più ampio, per esempio se stiamo pensando di scrivere un libro. Altre forme di scrittura sono rivolte solamente a noi stessi, come il diario.

Scrivere un diario si è dimostrato essere uno dei modi più efficaci per gestire le emozioni negative, quelle di cui facciamo fatica a parlare e che tentiamo inutilmente di rimuovere. Imparare ad affrontarle ci consente un’elaborazione cognitiva dei ricordi, in particolare di quelli che ci hanno causato angoscia o stress, aiutandoci a scendere a patti con essi e a superarli più facilmente. Attraverso l’uso del diario riusciamo a semplificare le difficoltà che incontriamo nell’esprimere i nostri sentimenti creando una sorta di complicità con noi stessi.

Prendiamo una penna, un pezzo di carta, rilassiamoci e allontaniamo dalla nostra mente tutto il resto. Lasciamo che la penna scorra liberamente sulla carta trasferendo i pensieri che la nostra mente decide di selezionare e trasmettere alla mano che sta scrivendo. Ed ecco che un diario può diventare un buon amico.

A cosa serve un diario

Tenere un diario è un po’ come avere un amico che sa ascoltare: raccoglie le nostre confidenze, le rielabora e ci dà consigli. Ma non va considerato come un’alternativa per chi non ha un amico “vero” con cui condividere i propri pensieri, è piuttosto un “amico aggiuntivo”, con lui ci si può aprire senza freni, a lui si può dire tutto, anche affrontare quelle parti più intime di noi che potremmo aver paura di rivelare agli altri.

Scrivere un diario è un modo per dedicare tempo a noi stessi e diventare osservatori della nostra vita e dei suoi cambiamenti.

In un diario scriviamo i nostri interessi, i nostri desideri, fissiamo gli obiettivi che vorremmo realizzare e, nel cercare di renderli chiari, ci impegniamo anche a immaginare una strategia plausibile per raggiungerli. Una volta che tutte queste cose sono messe su carta, la nostra possibile pigrizia o riluttanza a impegnarci diventerà difficile da giustificare persino a noi stessi, con l’effetto di spingerci ad agire in modo costruttivo.

Come abbiamo detto, mentre scriviamo dobbiamo fare uno sforzo per trasformare i nostri pensieri in parole che li rappresentino e dare loro un significato esaustivo. Questo processo ci aiuta a chiarire i nostri pensieri e confrontarli vedendoli sotto una nuova luce. Ci permette di avere una visione più lucida e distaccata della situazione che stiamo raccontando.

È sicuramente un ottimo sfogo per l’ansia e la rabbia, ma non è solo questo, e non necessariamente dobbiamo scrivere di problemi o travagli interiori che ci opprimono.

Una pratica interessante può essere quella di stabilire periodicamente una lista di obiettivi in modo da verificare se sappiamo essere costanti nelle nostre idee e se siamo in grado di mettere in atto un comportamento efficace per raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati.

Per godere dei benefici della scrittura non c’è dubbio che sia preferibile scrivere a mano. Secondo uno studio pubblicato nel 2021 da un gruppo di ricercatori dell’Università di Tokyo, è stato osservato che scrivere con il computer porta a essere più sintetici, con il risultato di trattare ciò che si sta comunicando in modo meno dettagliato. Scrivere a mano aiuta a ricordare le informazioni e a conservare i ricordi, tutti elementi che apportano benefici al nostro cervello. Richiede un maggiore controllo del movimento e del pensiero che lo controlla, pensiamo alla mano che tiene la penna e alle dita che ne indirizzano il movimento sulla carta. Questo attiva una serie di aree cerebrali che, al contrario, non sono attivate dall’uso di una tastiera.

Rileggere, una preziosa opportunità

Come abbiamo accennato, l’importanza del diario non si esaurisce nella fase di scrittura. In effetti, possiamo dire che la scrittura è solo un primo passo, preparatorio a quello che è il vero scopo del diario: il momento in cui, dopo più o meno tempo, rileggeremo quello che abbiamo scritto.

Naturalmente, più a lungo abbiamo tenuto il nostro diario e più costantemente ci siamo dedicati a esso, più utile e completa risulterà essere la rilettura.

Sarà in quel momento che avremo modo di ripercorrere i nostri stati d’animo con il necessario distacco per guardarli più chiaramente e da una nuova prospettiva. Ci renderemo conto di quali sono stati i nostri stati d’animo ricorrenti in un certo momento, di ciò che ci ha fatto soffrire e di ciò che ci ha reso felici. Rileggeremo i nostri desideri e le nostre speranze e capiremo se siamo stati in grado di realizzarli o meno. Potremo anche cercare di capire che cosa ci ha impedito di raggiungerli, e lavorare su questo per invertire la rotta e imparare ad avere successo dove in precedenza avevamo fallito.

 

Il potere della discordia (2021) di Tronick e Gold – Recensione

Il potere della discordia non risiederebbe tanto nell’incentivare l’armonia, quanto, nel riparare le disarmonie: esso deriverebbe dall’attraversare la rabbia insieme, dall’esplorare la paura ed il dolore, disinnescando il conflitto ed abbracciando il perdono.

 

Abstract

 Il libro di Tronick e Gold (2021) ben si presta a far luce su quanto la concordia e la discordia rappresentino i poli verso cui le linee evolutivo-relazionali umane (e non solo) convergano, secondo una logica ciclica e ricorsiva. Nel volume in oggetto, la concettualizzazione tipicamente Freudiana del conflitto viene rivisitata alla luce della più moderna letteratura di stampo intersoggettivo.

Il corso dell’esistenza umana, infatti, si snoda lungo conflitti costruttivi e distruttivi: sarà proprio il modo di affrontare congiuntamente un conflitto, come verrà chiarito a seguire, a sancirne la qualità e le traiettorie dei suoi esiti relazionali. Muovendo dal libro in oggetto, l’intento del presente articolo è mettere in evidenza il potere della discordia, tentando di approfondire perché il conflitto rafforza le relazioni.

Prefazione

Ultimamente ho avuto modo di vedere la serie This Is Us: il suo tema centrale è rappresentato dal complesso intreccio delle relazioni umane e, più in generale, dal conflitto evolutivo. Le continue sfide ed opportunità della vita – e il loro attraversamento – divengono, d’episodio in episodio, sfaccettati strumenti di crescita, sospinti dal vento dell’amore familiare. Quell’amore talvolta gioioso e plateale, quell’amore così necessario, quell’amore altre volte stravolto, frustrato e deluso, che nasce dal dolore e dal vuoto, e si trascina, si inflette – assumendo forme peculiari – persino contrapposte – pur d’aver luce e nutrimento, inscatolandosi per infiniti schemi e spazi, strategie e comportamenti; a prima vista, affatto intelligibili. Chiusa parentesi: non parlerò affatto di This Is Us. Quanto scritto è più una piccola premessa per introdurvi ad alcuni concetti maturati dopo aver letto il libro “Il potere della discordia. Perché il conflitto rafforza le relazioni” di Tronick e Gold.

Io, tu, noi, tutti: la mente relazionale

Il libro in questione si apre ribadendo come le prime relazioni a cui un essere umano partecipa strutturino e organizzino il suo cervello (o meglio, il modo in cui i suoi neuroni si cablano), altresì, la propria mente.

Il docente e ricercatore dello sviluppo infantile J. Ronald Lally usa il temine social womb (utero sociale) per descrivere il modo in cui un bambino appena nato continua a crescere e svilupparsi nel contesto delle interazioni sociali dopo la nascita (p.110, Tronick & Gold, 2020).

Le interazioni in cui l’infante viene immerso ed il modo specifico in cui ad esse partecipa (ad es. in base al suo temperamento innato, ecc.) divengono i proto-significati ch’egli attribuisce a sé e al mondo circostante (ad es. un luogo tendenzialmente sicuro oppure pericoloso, ecc.).

Non parliamo, dunque, di significati veicolati dal linguaggio verbale, bensì di tipo nucleare, esistenziale, emotivo:

Spesso, riteniamo che la cultura sia esclusivamente radicata nel linguaggio, ma un bambino piccolo costruisce il significato del suo mondo e diviene parte della sua specifica cultura ben prima che abbia la capacità di linguaggio. La cultura è integrata in una moltitudine di sistemi (…). (p.140, ibidem) Generalmente le persone pensano che le relazioni siano rappresentate dal pensiero cosciente e dalle parole. Per esempio, voi usate il linguaggio per descrivere la vostra relazione con i vostri genitori come stretta o piena di conflitti o in altri modi più complessi. Una persona potrebbe dire qualcosa come: “Mia madre lavorava molto e spesso era emotivamente distante ma a volte mi dava tutta la sua attenzione”. Questa frase è la rappresentazione verbale di una relazione. Ma come abbiamo visto, le relazioni sono inscritte in molti altri sistemi oltre che nel pensiero cosciente. L’esperienza sociale, attraverso gli infiniti giochi interattivi che le persone fanno, diventa il contenuto del cervello e del corpo. In una partita di calcio i compagni di squadra che si coordinano per fare goal con pattern di interazione inscritti nel movimento dei loro corpi, con uno scambio minimo o assente di parole, offrono un esempio di come la rappresentazione delle relazioni si verifichi in tutto l’organismo (p.149, ibidem).

Armonia e Disarmonia, ossia, Match e Dismatch

D’altronde sono proprio le relazioni che temperano e (inter)mediano tali vissuti, in un continuo processo di co-regolazione ed auto-regolazione congiunta, risultante dai contributi dei componenti fondanti il sistema: ad es. la madre ed il bambino (Verdesca, 2018a; b; c).  Naturalmente, queste interazioni possono assumere caratteristiche armoniche o disarmoniche – in altre parole, le due parti possono essere in armonia e sincronia tra loro (ossia in match) o, al contrario, confliggere e scomporsi (ossia in dismatch).

La filosofia del Kintusugi: perché il conflitto rafforza le relazioni

Il potere della discordia, dunque, non risiederebbe tanto nell’incentivare l’armonia, quanto, nel riparare le disarmonie: esso deriverebbe dall’attraversare la rabbia insieme, dall’esplorare la paura ed il dolore, disinnescando il conflitto ed abbracciando il perdono. Una filosofia molto simile alla pratica giapponese nota come Kintsugi, secondo cui le rotture di un vaso non andrebbero coperte ma valorizzate quali simbolo di resilienza, secondo il motto “ciò che non uccide ti fortifica” (Hammil, 2016).

 È lungo questa strada che si giungerebbe a costruire e rinforzare una solida fiducia reciproca; il conflitto, dunque, in questi termini, sarebbe una occasione da attraversare, una opportunità di crescita maturativa e – perché no? – una stimolante sfida, alla stregua di quelle curve che, nel corso di un viaggio, sarebbero necessarie alla volta di nuove mete inesplorate (Verdesca, 2020a; b; c).

Piuttosto – e alla luce di quanto detto – sarebbe il tentativo ostinato di negare ed evitare il disaccordo a tutti i costi a porsi in essere come problematico, generando il non-detto, il tabù. Il polo estremo di tale situazione coinciderebbe con l’assenza totale di accordo e disaccordo: una relazione costituita da una “assente presenza” genitoriale, che agli occhi di un bambino apparirebbe come uno spazio di (non) significato mortifero e terrificante, come vuoto avvilente e nefasto: pietrificante – in merito si rimanda ai famosi studi di Tronick, Harlow e Spitz, descritti nel corso delle pagine, volti a studiare quanto detto facendo ricorso a specifiche condizioni sperimentali, ad es. il paradigma dello Still Face (ad es. Tronick, 2003).

Coltivare la resilienza: resistere agli errori e agli orrori

L’interazione amorevole, tra madre e bambino e, più in generale tra gli esseri umani, può farsi carico allora di questi incidenti di percorso, di queste cadute, per farne pregiato carburante di vita, divenendo occasione di sviluppo per i propri muscoli relazionali (Verdesca, 2022a; b).

È questo il significato di resilienza, quella capacità che si apprende e si instaura al centro della propria anima, permettendo di intravedere una fiducia radicata, una fede: la speranza di sopravvivere agli errori e agli orrori, alla stregua di un’onda che se un momento pare infrangersi sulla fredda e rocciosa scogliera, l’altro, già torna imperterrita a far parte dell’immenso a cui appartiene, ricostituendosi.

Se è vero, dunque, che nell’accordo totale non vi sarebbe spazio per l’originalità – semmai per una sorta di imitazione adempitiva – analogamente, nel disaccordo estremo e violento, non vi sarebbe spazio per l’intesa.

Conclusioni: il potere della discordia nel gioco della vita

Sarebbe una skill cruciale e soggetta ad apprendimento, in tale logica, quella che permetterebbe di gestire i conflitti, ricorrendo via via a nuove soluzioni co-create, rinsaldando l’appartenenza reciproca e rinforzando un senso di intima connessione. Nessuno vince, nessuno perde: insieme si cambia, è il gioco cooperativo della vita; un gioco destinato ad essere scritto a più mani. È questo il (sano) potere della discordia che pare imbastire le pagine del libro in questione.

Questa forma di sapere implicito, alla stregua di un linguaggio, si apprende – dalla culla alla tomba – attraverso il disaccordo nelle relazioni e, solo in esse, si può esercitare e modificare, crescendo insieme in intimità e responsabilità; plasmando la vita interiore del corpo, che diviene il luogo in cui tutte le trame delle vite si innervano, si intrecciano: nel silenzio del cuore e delle viscere tutte, a ritmo polivagale (Porges, 2011).

 

Ansia da appuntamento: paura di essere rifiutati o paura di rifiutare?

La paura del rifiuto è palpabile nell’ansia da appuntamento, anche se trovarsi dall’altra parte di un rifiuto è una prospettiva che incute altrettanto timore.

 

L’ansia da appuntamento

 Nonostante provare ansia quando si interagisce con potenziali partner romantici sia normale, livelli di ansia e angoscia significativi possono compromettere la capacità di formare e mantenere relazioni romantiche intime (Carver et al., 2003).

Con il termine ansia da appuntamento si definisce l’angoscia significativa associata alle interazioni con potenziali partner romantici (Hope & Heimberg, 1990).

La letteratura ci dice che l’ansia da appuntamento è associata a una serie di problemi di salute mentale e comportamentali, tra cui livelli più alti di depressione, minore autostima, abuso di sostanze e solitudine sia negli uomini sia nelle donne (Arkowitz et al, 1978; Davies & Windle, 2000), ma nonostante queste potenziali ramificazioni cliniche, l’ansia da appuntamento in sé e per sé non è formalmente riconosciuta come un disturbo d’ansia nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association, 2013). Essa viene piuttosto considerata una manifestazione del disturbo d’ansia sociale (Social Anxiety Disorder – SAD), poiché sia il disturbo d’ansia sociale che l’ansia da appuntamento implicano la paura di una valutazione negativa (Fear of Negative Evaluation – FNE) (Clark & Wells, 1995; Chorney & Morris, 2008).

Paura del rifiuto, paura di rifiutare e paura della valutazione positiva

La paura del rifiuto, secondo gli psicologi cognitivo-comportamentali (ad esempio, Clark & Wells, 1995) e gli psicologi evolutivi (ad esempio, Gilbert, 2001), sembra essere un corollario della paura di una valutazione negativa. Gli individui affetti da ansia sociale tendono a sovrastimare le conseguenze sociali di un comportamento socialmente inetto, credendo che tale comportamento comporti una perdita di status e di valore e, in ultima analisi, il rifiuto (Clark & Wells, 1995). La paura del rifiuto è palpabile nell’ansia da appuntamento, anche se trovarsi dall’altra parte di un rifiuto è una prospettiva che incute altrettanto timore.

I ricercatori hanno infatti scoperto che chi interrompe una relazione o frequentazione si preoccupa di essere percepito dagli altri come noncurante e crudele (Perilloux & Buss, 2008) e che coloro che ricevono dell’amore non corrisposto provano senso di colpa per non contraccambiare il sentimento (Baumeister et al., 1993).

Inoltre, è stato scoperto che gli individui ansiosi tendono a sostenere un maggiore desiderio di evitare il conflitto, soprattutto nelle loro relazioni strette (Davila & Beck, 2002). Se l’ansia da appuntamento è da considerare un tipo di ansia sociale, l’evitamento del conflitto può sfociare in una difficoltà a rifiutare potenziali partner romantici, suggerendo plausibilmente che l’ansia sperimentata non è causata solo dalla paura di essere rifiutati, ma anche dal timore di creare un conflitto rifiutando. In poche parole, quindi, l’ansia da appuntamento potrebbe comportare, oltre alla paura del rifiuto, anche la paura di rifiutare gli altri (Fear of Rejecting Others – FRO).

Un altro elemento che potrebbe avere una valenza nell’ansia da appuntamento e che supporterebbe inoltre l’ipotesi della paura di rifiutare gli altri in questa condizione, è la paura della valutazione positiva (FPE), riscontrata anche essa come saliente nel disturbo d’ansia sociale (ad esempio, Rodebaugh et al., 2012).

Gli individui con alti livelli di paura della valutazione positiva potrebbero plausibilmente temere di essere visti positivamente da un partner romantico per paura poi di non essere in grado di soddisfare le aspettative elevate riposte su di loro (per esempio, appuntamenti successivi, intimità emotiva e sessuale più profonda). In modo correlato, gli individui possono temere di essere visti positivamente da un potenziale partner romantico con il quale non hanno un interesse romantico reciproco, per paura di essere messi nella posizione di rifiutarlo e quindi di incorrere in una valutazione negativa non soddisfacendo le aspettative.

Per chiarire tutti questi punti di domanda, uno studio di Rizvi e colleghi (2022) ha esaminato la relazione tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti (DFNE), la paura di rifiutare gli altri (FRO) e la paura della valutazione positiva (FPE).

 I risultati hanno supportato l’ipotesi degli autori, in quanto è stata trovata una correlazione positiva significativa tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti e la paura di rifiutare gli altri. Questo risultato fornisce un supporto all’idea che gli individui che temono di essere valutati negativamente da potenziali partner romantici temono anche l’idea di rifiutarli. Inoltre, sfida l’idea che la caratteristica cognitiva principale dell’ansia da appuntamento sia proprio la paura della valutazione negativa o il rifiuto.

In generale, sia la paura della valutazione positiva che la paura di rifiutare gli altri appaiono significativamente correlati alla paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti. Ciò che è degno di nota è che la correlazione tra la paura della valutazione negativa specifica per gli appuntamenti e la paura di rifiutare gli altri è rimasta significativa anche dopo aver tenuto conto della paura della valutazione positiva, suggerendo che la paura di rifiutare gli altri è qualcosa di più della preoccupazione di non soddisfare le aspettative degli altri.

Nuove variabili da considerare per spiegare l’ansia da appuntamento

Questo studio apre la possibilità di nuove direzioni, lasciando aperte ulteriori questioni per la ricerca futura, che potrebbe includere un esame delle differenze di genere e orientamento sessuale nella relazione tra paura di una valutazione negativa, di una valutazione positiva e di rifiutare gli altri.

È plausibile che queste variabili possano essere più rilevanti per i diversi generi date le diverse aspettative sociali che si hanno in base al sesso dell’individuo e che rendono un comportamento “accettabile” durante gli appuntamenti romantici. Altri costrutti d’ansia, come la paura dell’intimità (Descutner & Thelen, 1991) e la paura dell’impegno (Serlin & Betz, 1990), potrebbero essere indagati poiché potrebbero scoprirsi rilevanti per l’ansia da appuntamento interagendo con le convinzioni sulle relazioni sentimentali.

Considerazioni conclusive

Riassumendo, quindi, la correlazione riscontrata in questo studio non ha precedenti in letteratura dato che nessun altro studio ha mai preso in considerazione la paura di rifiutare gli altri come aspetto cognitivo rilevante dell’ansia da appuntamento.

Il riconoscimento della sua importanza clinica è il primo passo verso lo sviluppo di un trattamento efficace. I trattamenti cognitivi (ad esempio ristrutturazione, reframing) e comportamentali (ad esempio, terapia di esposizione) per l’ansia richiedono richiederanno un adattamento per affrontare la paura di rifiutare gli altri.

 

Come garantire l’aggiornamento professionale continuo agli operatori sanitari? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 15

L’ultimo quesito del Tavolo C della Consensus Conference si è occupato di fare il punto sull’offerta di formazione continua nel campo della salute mentale in Italia e, conseguentemente, proporre delle soluzioni realizzabili per far sì che i professionisti accedano ad informazioni aggiornate riguardo a procedure di screening e metodi di trattamento dei DMC (Disturbi Mentali Comuni, come ansia e depressione).

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 15) Come garantire l’aggiornamento professionale continuo agli operatori sanitari?

 

Quesito C3: l’aggiornamento professionale continuo in Italia

 Quali iniziative possono essere indicate ed essere rese praticabili ai livelli della formazione continua e/o altre iniziative di aggiornamento professionale per neuropsichiatri infantili, psichiatri, psicologi clinici e psicoterapeuti?

Per avere un quadro della situazione italiana in merito alle offerte di formazione continua rivolta ai professionisti della salute mentale, quali psicoterapeuti, psicologi clinici, neuropsichiatri infantili e psichiatri, gli Esperti hanno effettuato una ricerca di tali attività fornite da diversi enti, come l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dalle Regioni, dalle singole Aziende Sanitarie, dalle Università e da Enti privati.

L’indagine sembra suggerire che siano maggiormente presenti corsi formativi focalizzati su disturbi con più bassa prevalenza e meno gravi e invalidanti dei Disturbi Mentali Comuni. Dunque, i corsi incentrati sui Disturbi Mentali Comuni trovano ben poco spazio, in termini quantitativi, nel panorama della formazione continua nel nostro Paese. Inoltre, risultano carenti le iniziative formative sugli aspetti basilari della gestione dei Disturbi Mentali Comuni, ovvero “la diagnosi articolata su livelli crescenti di gravità, il trattamento strutturato su più livelli di intensità, l’utilità degli interventi a bassa intensità, la valutazione sistematica degli esiti dei trattamenti” (ISS, 2022).

Relativamente alla Sanità pubblica, le proposte formative dipendono da specifici progetti di intervento o sono legate alla realizzazione di Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali (PDTA). A questo proposito, ciò che è importante sottolinearne è che, l’attenzione data dalle Regioni ai PTDA e ai progetti di screening e trattamento per la depressione perinatale, ha incrementato l’offerta di corsi su tali temi.

 Riguardo ai piani formativi inerenti alle procedure diagnostiche e di trattamento per i disturbi ansiosi e depressivi, questi troppo poco spesso privilegiano le procedure e le tecniche più validate dal punto di vista delle prove di efficacia, in favore delle tecniche emergenti, che in quanto tali hanno ancora scarse evidenze scientifiche, seppur interessanti e utili per far avanzare la ricerca e l’applicazione clinica. In aggiunta, risultano scarse le iniziative che indirizzano gli operatori ad accedere e a utilizzare in modo critico la letteratura scientifica.

Raccomandazioni C3

Dato lo stato attuale appena descritto, gli Esperti, al fine di fornire ai neolaureati una preparazione adeguata, aggiornata e di alto livello sui disturbi ansiosi e depressivi, sulla pratica clinica, nonché sulle criticità emerse a seguito dell’emergenza COVID-19, raccomandano Corsi di Alta Formazione e Master di II livello erogati da enti di competenza, quali università e Ordini professionali.

L’aggiornamento e la formazione continui sono fortemente raccomandati ai professionisti della salute, anche per una questione deontologica: “offrire una assistenza qualitativamente utile e aggiornata ai propri pazienti” (ISS, 2022). Tra le varie iniziative formative specifiche per assicurare conoscenze e competenze adeguate rispetto ai disturbi ansiosi e depressivi, gli Esperti raccomandano che l’ISS, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari (AGENAS) e le Università collaborino per fornire percorsi formativi aggiornati, che possano poi arrivare alle singole Aziende Sanitarie, mediante il Sistema Sanitario Regionale.

 

La Qualità di Vita nelle persone con Autismo

La maggior parte degli studi sulla Qualità di Vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico si è concentrata sulla valutazione degli aspetti oggettivi (stato educativo e professionale, vita indipendente, relazioni con i pari) ma, è indispensabile il ricorso alla misurazione anche della percezione soggettiva di tale concetto.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 3) La Qualità di Vita negli interventi per le disabilità

 

Il riferimento al Modello di Qualità di Vita (QdV) di Schalock e Verdugo del 2002 (ndr: il modello verrà illustrato dettagliatamente nel prossimo numero della rubrica) nei servizi per le disabilità ha una duplice funzionalità: dal punto di vista individuale e orientato alla persona, permette di indirizzare i programmi di intervento a seconda dei bisogni e desideri personali e di valutarne l’efficacia sulla base degli esiti conseguiti in termini di benessere stesso; dall’altro lato, di conseguenza, tale costrutto permette di migliorare la qualità dei servizi a livello gestionale (Coscarelli e Balboni, 2014). La Qualità di Vita rappresenta pertanto l’obiettivo di qualsiasi intervento, nonché il parametro per misurarne l’efficacia (Cottini, 2009). Questi dovrebbero permettere all’utente con disabilità di ridurre la discrepanza esistente tra le sue competenze (considerati i deficit funzionali) e le richieste ambientali, favorendo le condizioni per un funzionamento ottimale dell’individuo all’interno del proprio ambiente, al fine di perseguire i propri obiettivi di vita (Coscarelli e Balboni, 2014). Pertanto, nelle parole di Buntinx e Schalock (2010), un sistema di sostegni individualizzato e basato sul concetto di Qualità di Vita, rappresenta “a critical bridge between the individual’s present state of functioning (“what is”) and a desired state of functioning (“what can be”) for a person with ID” [“un ponte essenziale tra lo stato attuale di funzionamento dell’individuo (ciò che si è) e lo stato di funzionamento desiderato (ciò che si potrebbe essere)”, p. 289]. Gli interventi dovrebbero quindi aspirare non solo al miglioramento del funzionamento dell’individuo (interventi abilitativi), ma anche, soprattutto, a un incremento della sua Qualità di Vita, centrandosi sul suo progetto di vita e sul suo universo esistenziale (Cottini, 2009). Di conseguenza, non è sufficiente una pianificazione dei sostegni sulla base delle aree deficitarie emerse nella valutazione delle competenze di un individuo, risulta fondamentale anche una valutazione delle sue preferenze, dei suoi desideri e delle sue aspirazioni, in modo da selezionare quelle specifiche competenze, il cui miglioramento permetta un incremento nella Qualità di Vita dell’individuo stesso (Buntinx e Schalock, 2010). Nasce così l’esigenza di sviluppare un modello di presa in carico centrato su un progetto di vita capace di promuovere condizioni ampliative di sviluppo delle potenzialità e miglioramento del benessere della persona con disabilità, da affiancare al tradizionale modello clinico abilitativo volto principalmente (se non esclusivamente) alla riduzione dei comportamenti problematici. Un modello quindi in grado di valorizzare un percorso centrato sul funzionamento adattivo dell’utente, dettato da indicazioni personali e soggettive, più che sul suo Quoziente Intellettivo (ANFFAS, 2015).

Qualità di Vita nei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico

La maggior parte degli studi sulla Qualità di Vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) presenti in letteratura si è concentrata sulla valutazione degli aspetti oggettivi di tale costrutto (per esempio, stato educativo e professionale, vita indipendente, relazioni con i pari) ma, dal momento che la Qualità di Vita è collegata a bisogni e aspettative personali, risulta indispensabile il ricorso alla misurazione anche della percezione soggettiva di tale concetto, al fine di ottenere una valutazione della Qualità di Vita più globale, inclusiva ed ecologica (Müller e Cannon, 2014).

Gli indicatori soggettivi di Qualità di Vita vengono principalmente misurati attraverso modalità auto-valutative (self-report), mentre per quelli oggettivi si fa solitamente ricorso a forme di etero-valutazione, quindi attraverso coloro che se ne prendono cura. Le misure auto-valutative consentono di disporre del punto di vista personale del soggetto valutato, in linea con i princìpi stessi della Qualità di Vita, i quali pongono la persona con i suoi bisogni e desideri al centro del sistema (Coscarelli e Balboni, 2014). L’affidabilità di tali tecniche, però, costituisce motivo di dibattito nell’ambito della valutazione della Qualità di Vita di soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico, e questo potrebbe in parte spiegare la maggiore disposizione all’utilizzo di tecniche etero-valutative in questo ambito. L’utilizzo dei metodi auto-valutativi risente maggiormente delle difficoltà tipiche delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, come quelle legate alla comunicazione, al pensiero astratto e all’interpretazione delle emozioni proprie e altrui (Brugha et al., 2015). A tal proposito, Cummins (2001; come citato in Hatton e Ager, 2002) raccomanda l’utilizzo di un pre-test nelle misurazioni della Qualità di Vita, in modo da valutare la capacità del soggetto di comprendere le domande. Tuttavia, spesso il problema appena riportato viene arginato chiedendo a delle persone delegate (proxy), solitamente costituite dai caregiver, di rappresentare il punto di vista del soggetto da valutare (Müller e Cannon, 2014), ma non è chiaro se le informazioni fornite dai proxy costituiscano un valido e accurato sostituto ai self-report (Verdugo et al., 2005). Per questo motivo, può essere utile ricorrere, come strumento di raccolta di informazioni di tipo soggettivo, alle interviste semi-strutturate, in modo che l’intervistato sia maggiormente propenso a collaborare e l’intervistatore possa monitorare con più flessibilità l’adeguatezza e l’affidabilità delle risposte, chiedendo o fornendo esempi e riproponendo la domanda in vari modi (Coscarelli e Balboni, 2014).

Importanza della misurazione della Qualità di Vita negli adulti con Disturbi dello Spettro Autistico

Il riferimento al costrutto (ovvero il concetto) di Qualità di Vita risulta particolarmente utile e vantaggioso negli interventi rivolti ad adulti con Disturbo dello Spettro Autistico, date le caratteristiche life-span tipiche di tale condizione (Cottini, 2009). Infatti, per quanto possa sembrare strano, gran parte della comunità scientifica non supporta ancora a sufficienza la cultura dell’abilitazione estesa per l’intero arco di vita (appunto, life-span), come testimoniato dalla penuria letteraria a tal riguardo. Spesso, arrivati ai 18 anni, i soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico e le loro famiglie assistono impotenti a una repentina perdita dell’assistenza sanitaria e alla mancanza di servizi che siano in grado di occuparsi seriamente delle problematiche annesse alle necessità di continuità abilitativa (e non solo assistenziale) e alla progettualità di vita dell’adulto con autismo (Murphy et al., 2016).

Interventi mirati, efficaci e di riconfigurazione ambientale possono costituire la base per l’espressione delle potenzialità di queste persone, talvolta difficili da prevedere, che costituiscono però un’umanità tanto speciale quanto ricca. Pertanto, il soddisfacimento dei loro bisogni non è esclusivamente appannaggio di un intervento assistenziale, ma si riferisce allo sviluppo della capacità della persona di perseguire i propri obiettivi e quindi di mantenere e migliorare la propria Qualità di Vita. Risulta quindi evidente la componente prospettica (life-span) del concetto di Qualità di Vita, in quanto essa non si limita all’attuale stato di benessere, ma si occupa della capacità di dare un significato alla propria vita, in vista della conservazione di un’immagine positiva di sé (Cottini, 2009).

C’è, inoltre, da considerare il fatto che la permanenza completa di un adulto con Autismo nella propria famiglia non rappresenta una prospettiva adeguata per una serie di motivi: innanzitutto perché non permette all’individuo con Disturbo dello Spettro Autistico di usufruire di programmi per lo sviluppo delle autonomie, e in particolare di quelle integranti come quelle comunitarie, lavorative e abitative. In aggiunta, è lui in primis a necessitare di un ambiente alternativo alla famiglia in vista del venir meno della possibilità da parte dei familiari di fornirgli assistenza. Infine, i genitori dovrebbero poter avere la possibilità di condurre una vita serena e non esclusivamente funzionale alla cura del figlio e quindi di esperire anche loro stessi un buon livello di Qualità di Vita (Cottini, 2009).

In definitiva, dal momento che il primo obiettivo di una diagnosi dovrebbe essere l’utilità clinica e che l’eziologia del Disturbo dello Spettro Autistico non è ancora chiara e condivisa, tale utilità risiede esattamente nella fornitura di servizi che incrementino la Qualità di Vita di questi soggetti (Lord e Jones, 2012).

Nonostante fino ad ora pochi studi si siano concentrati sulla valutazione della Qualità di Vita in persone con Autismo (Brugha et al., 2015), si sta diffondendo sempre maggior consenso sul fatto che le azioni di sostegno e abilitazione/riabilitazione rivolte a tali persone, dovrebbero orientarsi verso ciò che rappresenta l’obiettivo di fondo per ogni persona, ossia il raggiungimento di un buon livello di Qualità di Vita (NICE, 2021; Howes et al., 2017).

 

La Strange Situation

Sulla base dell’indagine osservazionale svolta attraverso la Strange Situation Procedure Mary Ainsworth definì e descrisse gli stili di attaccamento infantile: sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente, insicuro disorganizzato.

 

 Mary Ainsworth (1913-1999) fu una psicologa dello sviluppo che contribuì, assieme a Bowlby, alla concettualizzazione della teoria dell’attaccamento – teoria che mira a comprendere lo sviluppo affettivo del bambino e a studiare il legame affettivo ed emotivo che lo vincola profondamente alla persona che si prende maggiormente cura di lui fin dai primissimi mesi di vita –, consolidandone i fondamenti e le principali formulazioni teoriche, tra cui la motivazione all’esplorazione e la formazione della base sicura. Mary Ainsworth ampliò la teoria di Bowlby rendendo quantificabile il costrutto di attaccamento infantile e descrivendo gli stili di attaccamento, attraverso uno studio osservazionale di carattere sperimentale volto ad indagare il tipo di attaccamento in bambini molto piccoli, cioè la Strange Situation Procedure (SSP).

La struttura della Strange Situation

La Strange Situation Procedure è una procedura di carattere sperimentale che si svolge in un contesto non familiare, cioè un laboratorio di osservazione, composta da otto episodi dalla durata di 2/3 minuti ciascuno, per un totale di 30 minuti di osservazione. L’obiettivo che si prefigge è quello di sollecitare il sistema di attaccamento infantile, cioè sottoporre il bambino a una condizione di stress moderato ma crescente nel tempo, in risposta al quale il piccolo tende a mettere in atto comportamenti innati di ricerca di vicinanza affettiva e di contatto fisico materno; significativa è la presenza di un’estranea, invitata a prendere parte all’esperimento a partire dal terzo episodio, al fine di osservare anche la relazione con l’estraneo.

Gli otto episodi sono i seguenti:

  • 1° episodio: il bambino e il genitore vengono collocati in una stanza, in cui ci sono una sedia e dei giocattoli; il caregiver colloca il piccolo a terra, consentendogli di orientarsi nello spazio attorno a lui.
  • 2° episodio: il bambino comincia a prendere confidenza con l’ambiente circostante, ad adattarsi, ed eventualmente esplorarlo. Madre e bambino possono interagire o giocare assieme.
  • 3° episodio: il terzo episodio è significativo perché comincia la procedura sperimentale, dal momento che entra l’estranea; l’estranea interagisce con la figura di attaccamento e cerca poi di entrare in contatto col bambino. Lo scopo dell’osservazione sperimentale è valutare la reazione del bambino alla presenza dell’estraneo, il modo in cui utilizza il caregiver per valutare la situazione e se e come si lascia coinvolgere nell’interazione.
  • 4° episodio: il caregiver abbandona la stanza, separandosi dal bambino, che resta da solo con la figura estranea. Viene osservata la reazione del bambino alla presenza di potenziale disagio.
  • 5° episodio: il bambino si ricongiunge con la figura di attaccamento, mentre l’estranea lascia la stanza, e viene valutato il modo in cui il bambino si relaziona con il genitore al momento del ricongiungimento.
  • 6° episodio: il caregiver lascia di nuovo la stanza e il bambino resta da solo.
  • 7° episodio: l’estranea torna nella stanza; in questa fase della Strange Situation Procedure si indaga se e come il bambino utilizza l’estranea come figura affettiva sostitutiva.
  • 8° episodio: termina la procedura; il caregiver ricompare fermandosi sulla porta e aspettando che il bambino reagisca alla sua presenza.

Alcune variabili osservate durante la procedura sperimentale sono il tipo di risposta che il bambino mette in atto in presenza dell’estraneo, la reazione alla separazione e al ricongiungimento con il caregiver, la qualità del gioco e dell’esplorazione, e la funzione di base sicura che il caregiver svolge per il bambino, cioè l’equilibrio tra desiderio di vicinanza e desiderio di esplorazione.

Gli stili di attaccamento

Sulla base di questa indagine osservazionale, Mary Ainsworth definì e descrisse gli stili di attaccamento infantile:

  • Attaccamento di tipo B – Sicuro;
  • Attaccamento di tipo A – Insicuro/Evitante
  • Attaccamento di tipo C – Insicuro/Ambivalente o Ansioso-resistente
  • Attaccamento di tipo D – Disorganizzato (aggiunto in seguito assieme al contributo di Mary Main).

L’attaccamento sicuro

Durante la Strange Situazione Procedure i bambini con attaccamento sicuro utilizzano il caregiver come base sicura da cui partire per esplorare il mondo. Quando il caregiver è presente, manifestano vicinanza nei suoi confronti, sono accoglienti, sorridenti, interagiscono positivamente con la figura di riferimento, esplorano l’ambiente ed esaminano i giocattoli presenti. Quando il caregiver è assente, il bambino potrebbe protestare leggermente per la sua presenza e manifestare segnali di stress e disagio, ma, dopo essersi calmato, riprende tranquillamente a giocare, anche con l’estranea. Al ritorno della figura di attaccamento, si aggrappa a lei, è sorridente e si lascia consolare. Questa manifesta un comportamento non dissimile da quello del piccolo, essendo tipicamente sensibile alle richieste del bambino, disponibile e premurosa. Dal punto di vista dei Modelli Operativi Interni (MOI; cioè la rappresentazione mentale che il bambino si costruisce della relazione d’attaccamento con la figura di riferimento), il bambino percepisce se stesso come una figura degna di amore e affetto, il mondo come un posto accogliente, in cui è possibile esternalizzare sentimenti, bisogni ed emozioni, l’altro, e in particolar modo il caregiver, come figure disponibili e supportive.

L’attaccamento insicuro evitante

 Durante la Strange Situation Procedure tendono ad evitare il caregiver, ad avere un ristretto numero di interazioni, manifestando segni di insicurezza. Quando il caregiver è presente, sono freddi e distanzianti, preferiscono esplorare l’ambiente circostante e non lo coinvolgono nelle loro attività. Quando il caregiver è assente, il piccolo non mostra segni di stress o disagio e manifesta la stessa indifferenza in presenza dell’estraneo. Al ricongiungimento con la figura di attaccamento, il piccolo la ignora, è indifferente, non la cerca con lo sguardo, né le si avvicina, ma continua a giocare. Il caregiver presenta un pattern comportamentale simile a quello del piccolo: non cerca il contatto con il piccolo, anzi ne è infastidito e tende a distanziarsi; la loro relazione si basa su sentimenti di sfiducia e rifiuto del contatto fisico.

Dal punto di vista dei MOI, il bambino pensa di essere una persona non degna di stima e affetto, il mondo è per lui un posto freddo e inospitale, a tratti ostile, in cui non c’è spazio per esprimere se stessi e i propri sentimenti, il caregiver e gli altri sono persone distaccate, che tendono ad allontanarsi e delle quali non è possibile fidarsi.

L’attaccamento insicuro ambivalente (o ansioso-resistente)

In presenza del caregiver gli si aggrappano saldamente ma al contempo gli resistono spingendolo via. Durante la Strange Situation Procedure, non esplorano quasi per nulla la stanza dei giochi e restano ancorati al caregiver, quando questo si assenta esternano il loro dolore attraverso un pianto molto intenso e inconsolabile e una manifestazione esagerata della loro emotività. Quando la figura di attaccamento torna, il bambino ostenta un comportamento contrario a quanto ci si aspetterebbe, cioè un comportamento incoerente e ambivalente: desiderano un forte contatto con il caregiver, ma al contempo sembrano arrabbiati con lui, lo respingono e rifiutano ogni tentativo di consolazione e conforto, oscillando in bilico tra il desiderio di calore umano e di vicinanza affettiva e un sentimento di forte rifiuto. Il caregiver è una figura incapace di sintonizzarsi con gli stati affettivi del bambino, ora presente ora assente, a seconda dei propri bisogni e manifesta un comportamento incoerente, imprevedibile.

Ciò si riflette anche nella rappresentazione mentale (MOI) che il bambino si costruisce di sé e del mondo: non crede di meritare stima e amore dagli altri, che gli appaiono parimenti imprevedibili nei comportamenti.

L’attaccamento insicuro disorganizzato

L’attaccamento insicuro disorganizzato è stato individuato tra il 1986 e il 1990 dalla psicologa Mary Main e si configura come il tipo di attaccamento più insicuro in assoluto, quello maggiormente correlato a forme di disregolazione emotiva e in generale alla psicopatologia. I bambini con attaccamento disorganizzato durante la Strange Situation Procedure appaiono confusi, disorientati e mettono in atto comportamenti strani, come dondolarsi o rimanere immobili, e sequenze disorganizzate di comportamento, inoltre spesso hanno una postura rigida e un’espressione del volto impaurita. Questi bambini vivono nel tormento di una profonda scissione tra il sistema di attaccamento, che li motiva a cercare la vicinanza affettiva con una figura di riferimento, e il sistema di difesa, che li porta ad immobilizzarsi di fronte a uno stimolo di pericolo. Il comportamento di attaccamento si disorganizza quando il genitore manifesta atteggiamenti minacciosi, abusanti, aggressivi o dissociati, oppure quando il genitore, mentre è impegnato nell’accudimento del figlio, reagisce con angoscia, rabbia o paura alla rievocazione involontaria di una personale memoria traumatica particolarmente carica a livello emotivo, e trasmette al figlio il medesimo spettro emotivo: in questi casi la persona che dovrebbe preoccuparsi del benessere e della cura del bambino è la stessa che gli infonde paura. Il bambino così si costruisce una rappresentazione del caregiver come una figura negativa, pericolosa, spesso abusante e persecutrice, della quale si sente vittima, ma al tempo stesso il caregiver rappresenta la sua salvezza, la sua fonte di protezione, il suo rifugio affettivo. Ne deriva una frammentazione delle rappresentazioni di sé con l’altro (o compartimentazione) e una percezione della realtà distorta e disgregata.

 

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