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Il disgusto nell’umorismo, nella sessualità e nell’estetica

Il disgusto è sempre disgustosamente negativo? … A volte può essere disgustosamente piacevole!

 

 Il disgusto è un’emozione primaria universalmente condivisa e osservabile (Ekman, 1992). Come tutte le emozioni, ha una funzione legata all’adattamento e alla sopravvivenza dell’organismo, ovvero l’avvisarci della potenziale pericolosità di alcuni stimoli (come agenti patogeni contenuti nei cibi). Infatti, tipicamente il disgusto implica una sensazione di repulsione e pensieri di potenziale contaminazione, accompagnati da comportamenti di evitamento o rifiuto dello stimolo che si ritiene potenzialmente contaminante.

Noi esseri umani siamo altamente suscettibili a provare disgusto se consideriamo che il nostro corpo è un deposito di entità disgustose, oltre al fatto che viviamo in un ambiente costantemente e altamente contaminato (Rozin et al., 2016).

Nonostante riusciamo a ignorare molti dei fattori che elicitano disgusto intorno a noi, grazie all’abituazione o all’interpretazione dello stimolo, ci possono essere alcune situazioni in cui siamo proprio noi a cercare il disgusto. Infatti, la potente negatività del disgusto sembra attivare qualcosa di particolare nell’essere umano, basti vedere la sua presenza in almeno tre diversi ambiti: umorismo, relazioni romantiche e arte (Strohminger, 2014).

Umorismo e disgusto

Per quanto riguarda l’umorismo, il disgusto gioca un ruolo significativo nella comicità attraverso l’uso di battute e giochi di parole (Rozin et al., 2016). Mediante il cosiddetto umorismo nero (“black humor”), il disgusto è presente anche in cartoni animati famosi, come per esempio “I Griffin”, “American Dad” e “South Park”. Per black humor s’intendono battute che spesso causano un mix di sentimenti come shock, disgusto, vergogna e ovviamente gioia (Gubanov et al., 2018).

Non è il tipo di humor che condividiamo subito con una persona sconosciuta. Se l’umorismo normale segnala all’altro l’intenzione di far evolvere la comunicazione a un livello più amichevole, il black humor è molto più intimo. Questo perché tocca argomenti tabù, che hanno la stessa valenza in tutte le epoche e per tutti i popoli, come morte e violenza, gravi malattie e deformità fisiche, devianze sessuali e discriminazione, tragedie umanitarie e catastrofi naturali. A volte, nella cornice del black humor, le battute su questi temi così sensibili sfruttano proprio l’emozione di disgusto, che si prova nell’immaginare la scena, per suscitare divertimento e risate.

Bloom (2004) sottolinea l’aspetto distruttivo nei riguardi della dignità del disgusto, e vede l’umorismo sul disgusto come la capacità di approfittare del fatto che il corpo umano è di base disgustoso.

Il piacere del disgusto è stato descritto come un esempio di “masochismo benigno”, ovvero il piacere di un’esperienza normalmente negativa vissuta in maniera differente, quando percepita come non minacciosa e lontana dalla propria persona (Rozin et al., 2013).

Sessualità e disgusto

Nell’intimità, spesso le sostanze che derivano dai rapporti sessuali possono essere viste come disgustose, soprattutto se appartenenti ad altri (Rozin et al., 2016; de Jong et al., 2014). Infatti, i prodotti corporei sono tra i più forti elicitors – specifici stimoli che suscitano le emozioni – di disgusto. Dato che il disgusto è un’emozione difensiva che protegge l’organismo dalla contaminazione, focalizzata sul confine tra sé e l’altro, con la bocca e gli organi riproduttivi che sono le parti del corpo che mostrano la più forte sensibilità al disgusto, e dato il ruolo centrale di questi organi nel comportamento sessuale, come è possibile che le persone riescano ad avere rapporti sessuali piacevoli?

 Alcuni autori hanno ipotizzato che i prodotti corporei derivanti da atti sessuali possono diventare attraenti ed eccitanti se emesse dalla persona amata (Rozin et al., 2016). Inoltre, godere degli odori e delle sostanze delle persone amate in alcuni casi è visto come devozione, attrazione e dissoluzione del normale confine tra se stessi e un’altra persona.

Estetica e disgusto

L’associazione tra arte e disgusto affonda le sue radici nelle leggende classiche che vedono come protagonisti creature quali, per esempio, Polifemo, Medusa e il Minotauro (Carrol e Contesi, 2019). Invece, nel bestiario contemporaneo delle creature abominevoli possiamo citare, per esempio, il personaggio di Stephen King Pennywise, di Clive Barker Rawhead Rex e di J.R.R. Tolkien Gollum.

Anche nell’arte visiva ritroviamo questa emozione, per esempio rimaniamo disgustosamente estasiati dalla rappresentazione dell’Inferno nel Giudizio Universale di Michelangelo (Carrol e Contesi, 2019).

Questo accostamento può essere notato specialmente nei film horror, in cui spesso sono presenti immagini o sequenze disgustose elaborate appositamente per intrattenere il pubblico (McCauley, 1998). Infatti, la cultura popolare ha interi generi cinematografici i cui oggetti predominanti sono disgustosi, come lo splatter-punk (ad esempio, “Family Tradition”) e le onnipresenti apocalissi zombie, rappresentate da famosi programmi televisivi come “The Walking Dead” e tanti altri (Carrol e Contesi, 2019).

Questo gusto –per così dire– per il disgusto suggerirebbe che il suo fascino nell’arte si sia evoluto a partire da un curiosità del genere umano verso le stranezze e le anomalie (Carrol e Contesi, 2019). Eppure, nonostante la vasta evidenza dell’esistenza del disgusto come tema significante nell’arte, la tradizione nega che sia un legittimo soggetto di vera arte, data l’associazione secolare tra arte e bellezza, a sua volta associata al piacere. In questi termini il dibattito rimane aperto.

Per alcuni studiosi, questo tipo di intrattenimento può essere un esempio del “masochismo benigno” citato precedentemente (Rozin et al., 2016).

Quindi il disgusto non è sempre un’emozione negativa, in alcuni casi può divertirci o intrattenerci piacevolmente!

 

Gaslighting, una forma di manipolazione psicologica subdola e insidiosa

Il gaslighting è una forma di violenza psicologica che cerca di seminare dubbi in un individuo, facendogli mettere in discussione i propri ricordi, sentimenti e la propria sanità mentale. 

 

 Usando la negazione persistente, il depistaggio, la contraddizione e la menzogna, il manipolatore tenta di destabilizzare la vittima innescando sentimenti di colpa (Dorpat, 1994). Segni di gaslighting sono nascondere informazioni alla vittima, abusi verbali anche in presenza di terzi (non sai fare niente, non capisci niente, sei una stupida) e isolare la vittima dalle figure affettive di riferimento. Tutto ciò non fa altro che indebolire gradualmente la sua autostima (Greenberg, 2017). Queste tecniche di manipolazione sono usate da narcisisti e psicopatici i cui tratti principali sono la mancanza di empatia, il disinteresse circa le conseguenze del proprio comportamento e l’instaurare delle relazioni solo se da queste possono trarne vantaggi per se stessi (Stout, 2005).

Il gaslighting può verificarsi nelle relazioni private, nella scuola come forma di bullismo e sul lavoro come forma di mobbing. Il gaslighting sul posto di lavoro può verificarsi quando gli individui eseguono azioni che portano i colleghi a mettere in discussione se stessi e le loro azioni in un modo dannoso per la loro carriera (Portnow, 1997). La vittima può essere deliberatamente esclusa, oggetto di pettegolezzi o persistentemente screditata nel tentativo di distruggere la sua autostima (Young, 2016). Il gaslighting può essere commesso da qualsiasi collega e può essere particolarmente dannoso quando l’autore è qualcuno che riveste una posizione di potere. Il gaslighting, soprattutto quando è di lunga durata, può causare ansia, depressione e persino psicosi. I gaslighters inoltre proiettano i loro difetti sulla vittima e le rubano idee creative e meriti. Ad esempio, un capo abusivo incompetente cercherà di presentare la vittima come incompetente e si approprierà dei suoi meriti (Simon, 2011).

Dinamica del gaslighting

I tre modelli comportamentali più comuni che si presentano nelle relazioni di gaslighting sono il love-bombing, l’isolamento della vittima e l’atteggiamento caldo/freddo (Willis 2022).

Il Love-Bombing è presente all’inizio della relazione, tuttavia è difficile differenziarlo dal love-bombing che caratterizza le prime fasi di relazioni sane: i contatti colloquiali sono sempre più gratificanti e frequenti, non mancano complimenti, lusinghe e attenzioni. Possono tuttavia emergere comportamenti insoliti, ad esempio nello studio condotto da Willis et al. (2022), un partecipante ha riferito: “Dopo tre giorni ha detto di amarmi, il che mi è sembrato un po’ strano, ma non ci ho dato molto peso perché anche io sono stata travolta da lui poiché è piuttosto affascinante”. Questo dimostra come il love-bombing può confondere le vittime, facendo perdere loro la capacità di giudizio. Occasionalmente le manifestazioni di affetto inadeguate erano di natura materiale: “Ha continuato a inondarmi di regali costosi come gioielli, fiori e cene”. Il love-bombing svolgerebbe diverse funzioni. In primo luogo, indurrebbe le vittime a non dar credito al comportamento abusivo attuale e futuro del partner. Servirebbe inoltre a far sentire le vittime grate ma anche confuse sulla natura del loro partner e della relazione. Infine potrebbe essere usato come mezzo per isolare le vittime: “La stessa settimana in cui mi ha isolato dai miei amici ha detto di amarmi”.

L’isolamento della vittima. I tentativi di isolamento delle vittime da parte dei perpetratori spesso si  concretizzano attraverso l’espressione di opinioni negative sulle persone frequentate dalle vittime (amici, colleghi, familiari). L’isolamento delle vittime sembra svolgere tre funzioni. Innanzitutto aiuterebbe i gaslighter a evitare responsabilità, poiché le vittime essendo isolate non possono ricevere consigli da amici o familiari sul comportamento del partner. In secondo luogo, renderebbe le vittime più facili da controllare, poiché non hanno più una vita sociale. Infine, l’isolamento sociale contribuirebbe ad alimentare nelle vittime il senso di “perdere la presa” sulla realtà (Willis, 2022).

L’atteggiamento caldo/freddo consiste in un cambiamento imprevedibile del comportamento del gaslighter che passa da un estremo emotivo all’altro: “Ha smesso di parlarmi dal nulla, senza spiegazioni dopo che avevamo trascorso una notte insieme, un paio di mesi dopo l’inizio della relazione”. Questo modello comportamentale ha una varietà di cause, inclusi tentativi intenzionali di manipolazione o disturbi della personalità, inoltre genera incertezza e confusione nella vittima (Willis, 2022).

 I manipolatori accusano la vittima di essere “pazza”, “eccessivamente emotiva”, “troppo sensibile” o di essere “poco intelligente”, frequenti sono anche le accuse di infedeltà e di problemi di memoria. I gaslighters inoltre rivolgono alle vittime critiche riguardo il loro fisico e aspetto esteriore, così come definiscono i loro obiettivi “stupidi” ed “egoisti” e attribuiscono loro la colpa delle loro azioni al fine di evitare di assumersi la responsabilità. La vittima in un primo momento cercherà di difendersi, provando a far cambiare idea al partner, ma successivamente inizierà a sentirsi in colpa, entrando in uno stato di ansia e di allerta per paura di sbagliare di nuovo. Le conseguenze per le vittime sono insicurezza, perdita di fiducia in se stesse e nelle proprie capacità di giudizio, sensazione di confusione, inutilità, maggiore cautela e sfiducia negli altri, crollo dell’autostima (Willis, 2022). Stern (2018) afferma che il processo di gaslighting avviene in più fasi che talvolta si sovrappongono. La prima fase si caratterizza per l’incredulità della vittima che non riesce a comprendere il comportamento del gaslighter, che risulta ingiusto e anomalo, la vittima prova disorientamento. La seconda fase si caratterizza per il tentativo della vittima di difendersi cercando di convincere il partner che quello che dice è falso. La terza fase è quella della depressione. La vittima si convince che ciò che l’abusante dice riguardo se stessa è la verità, gli dà ragione e lo idealizza, emergono in questa fase sentimenti di rassegnazione, insicurezza e dipendenza. Il desiderio tipico delle vittime, che le cose prima o poi miglioreranno e che la persona cambierà è inutile e distruttivo, perché il gaslighter non cambierà mai per nessuno (Perdighe et al., 2022).

Profilo delle vittime

Leonore Walker (1979) attraverso il concetto di impotenza appresa di Seligman (1975) sviluppa la sua teoria sul “ciclo della violenza”: il soggetto dopo ripetute esperienze di violenza imprevedibili e difficilmente controllabili, apprende che non può fare niente per cambiare la situazione e si arrende. Questo stato di impotenza acquisita è caratterizzato da livelli elevati di paura, ansia e depressione che inducono il soggetto a non lasciare il partner. Le motivazioni a restare in una relazione abusante sono inoltre rintracciabili nella personalità dipendente, si tratta di individui bisognosi di accudimento, protezione e che temono l’abbandono e proprio per evitare che ciò accada assumono comportamenti sottomessi (Safran et al., 1990).

Il comportamento abusivo può assumere varie forme, ma la motivazione è quasi sempre la stessa: potere e controllo sulla vittima. L’abuso psicologico, specie se di lunga durata, può causare gravi danni psicologici e anche fisici alla vittima. Da una indagine condotta dall’Instat è emerso che a seguito di ripetute violenze psicologiche e/o  fisiche, più  della metà  delle vittime soffre di perdita di fiducia ed autostima, ansia, fobiaattacchi di panico, sensazione di impotenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione, difficoltà a concentrarsi, deficit della memoria, dolori ricorrenti nel corpo, difficoltà nel gestire i figli, autolesionismo o idee di suicidio (Dati Instat, 2015). La società dovrebbe essere più consapevole degli effetti dannosi del comportamento umano abusivo nella sua varietà di forme ed essere pronta a offrire un adeguato aiuto medico, psicologico e legale alla vittima (Petric, 2022).

 

Percorsi di riabilitazione. Calcolo a mente e calcolo scritto – Recensione

“Percorsi di riabilitazione: calcolo a mente e calcolo scritto” è un manuale per aiutare clinici e riabilitatori nel rapido inquadramento valutativo e nell’individuazione di una linea d’intervento attraverso specifiche schede operative.

 

Da chi e per chi è scritto?

 Il manuale “Percorsi di Riabilitazione: Calcolo a Mente e Calcolo Scritto” di C. Caciolo, logopedista, E. Mariani e M. Pieretti, logopediste e pedagogiste, e A. Biancardi, psicologo e psicoterapeuta, fa parte della collana “Logopedia in età evolutiva” curata da L. Marotta e T. Rossetto. Il Comitato Scientifico della collana “Logopedia in Età Evolutiva” coinvolge diverse figure professionali, che lavorano in ambiti disciplinari differenti ma tutti attinenti all’età evolutiva, con una significativa esperienza in ambito riabilitativo e di tutela della salute. La collana comprende una serie di manuali di intervento riabilitativo che consentono ai destinatari, ovvero clinici specializzati, di inquadrare il caso in modo rapido e preciso, e in cui vengono proposti progetti e attività di intervento. Inoltre, permette un dialogo tra aspetti teorici e pratici all’interno dell’attività riabilitativa, estremamente funzionale al benessere della persona e alla crescita della disciplina attraverso la condivisibilità e replicabilità dei risultati in ottica evidence based.

Qual è l’obiettivo?

Il manuale, come si può evincere dal titolo, si occupa del trattamento della discalculia, e offre strumenti funzionali alla definizione degli interventi dal punto di vista metodologico, temporale e procedurale. L’intervento riabilitativo proposto pone al centro la persona, come individuo con proprie capacità, volontà e uno specifico contesto in cui è inserito; in base a tutte queste variabili può essere costruito un percorso personalizzato al fine di guidare il paziente verso il raggiungimento del suo potenziale individuale.

Overview sul contenuto

Strutturalmente il manuale comprende una prima parte teorica aggiornata sugli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche e rimanda ai principali modelli di sviluppo neuropsicologico esistenti. La seconda parte è dedicata all’intervento e propone flow chart operative. Infine, sono illustrate schede operative con attività di apprendimento, che il clinico può utilizzare nel percorso riabilitativo. Tali schede non necessariamente devono essere somministrate in ordine o nella loro totalità; tuttavia, è richiesta un’attenta valutazione del clinico rispetto alle difficoltà della persona in carico per l’individuazione di schede che possano essere più funzionali per una particolare esigenza.

Nello specifico, la prima parte del manuale si occupa di spiegare quali sono gli aspetti di difficoltà che si trovano ad affrontare ragazzi con discalculia, evidenziando la possibilità di apportare dei miglioramenti in tale abilità. Vengono suggeriti alcuni metodi di lavoro per incrementare le capacità di calcolo, con l’obiettivo di insegnare ai bambini a gestire queste sfide, nonostante l’esistenza della calcolatrice. Gli autori, inoltre, propongono un’ulteriore modalità di intervento che non si concentra sul miglioramento delle abilità, bensì pone il focus proprio sull’utilizzo della calcolatrice e dello smartphone come supporto in situazioni quotidiane.

 Le schede proposte si focalizzano su due macro aree, lavorando dunque su processi differenti: il calcolo a mente e il calcolo scritto. Nella prima parte sono presenti attività mirate a stimolare calcoli a mente, sia con numeri inferiori alla decina sia con numeri superiori alla decina, moltiplicazioni a mente, selezione dell’algoritmo, esercizi di approssimazione del risultato ed esercizi con il denaro. La seconda parte, invece, include attività focalizzate sulle tipologie di errore che il bambino compie nel momento in cui si trova a svolgere un calcolo scritto come le addizioni, le sottrazioni e le moltiplicazioni.

Il lavoro degli autori si rifà a modelli teorici come quelli di McCloskey e Dehaene, per supportare l’impostazione degli interventi definendo dei limiti di metodo e tempistiche. Vengono delineate tre cornici di intervento nella gestione della riabilitazione: la prima è basata sull’età, l’esigenza dei ragazzi e su quali aree specifiche intervenire; la seconda si concentra maggiormente sui processi alla base dell’elaborazione numerica e delle componenti attentive; la terza sfrutta la conoscenza del linguaggio e dei simboli per riabilitare il calcolo. Le modalità di intervento vengono suddivise tra interventi ad ampio spettro e interventi più specifici in base a età e contenuti, in modo che i riabilitatori possano agire a seconda delle necessità del caso e si individuano quattro modalità operative: la prima ha come obiettivo un intervento precoce nelle abilità di lettura e scrittura per arginare l’insorgenza di dislessia e discalculia; la seconda consiste in un intervento più ampio che coinvolge il calcolo e ne prevede un potenziamento; la terza riguarda la transcodifica numerica, necessaria per poter leggere e scrivere i numeri; la quarta, infine, prevede l’implementazione di strategie di cui i ragazzi con conclamata discalculia possano usufruire, dandogli maggiore sicurezza.

Conclusioni

Concludendo, gli autori evidenziano come gli aspetti che vengono riabilitati siano diversi e vari, a partire dal senso del numero, per collegarsi alla capacità di calcolo, all’attribuzione di significato, alla competenza nel valutare le quantità e all’individuazione di procedimenti non plausibili; spiegando questo schema, attribuiscono importanza al senso del numero come elemento chiave per comprendere il calcolo. Sulla base di ciò, il volume si propone di riabilitare i ragazzi con discalculia offrendo numerose attività.

 

Cosa influenza il benessere degli italiani?

Il costrutto del Benessere Soggettivo (Subjective Well-Being; SWB) si riferisce al modo in cui le persone sperimentano e valutano la propria vita in specifici ambiti, ed è composto da: soddisfazione per la vita (Life Satisfaction; LS), che rappresenta un giudizio globale; affetti positivi e affetti negativi (Diener, 2006).

 

Quali fattori influenzano il benessere percepito?

 Si pensa che il concetto di benessere sia definito culturalmente, il che significa che anche i fattori legati al benessere variano da Paese a Paese (Ryan e Deci, 2001).

Scoppa e Ponzo (2008), analizzando le determinanti della felicità come componenti del benessere soggettivo in Italia da una prospettiva micro-econometrica, hanno scoperto che il reddito e la ricchezza giocano un ruolo fondamentale. Inoltre, anche i livelli di istruzione, il vivere in piccole città e il capitale sociale influenzano il benessere percepito. Per quanto riguarda poi la distribuzione per età e genere, un recente studio di Petrillo et al. (2015) ha rilevato valori di benessere soggettivo più elevati per i maschi rispetto alle femmine, e per le persone più giovani (di età compresa tra i 18 e i 30 anni) rispetto a quelle più anziane (di età superiore ai 61 anni). Anche l’attaccamento al luogo si è dimostrato un predittore della soddisfazione per la vita (Tartaglia et al.,2015).

In un ampio lavoro sulla qualità della vita in Italia basato sui risultati ISTAT (Maggino e Nuvolati, 2012), le persone con forti relazioni sociali hanno mostrato un livello più alto di soddisfazione per la vita, una salute migliore e una maggiore probabilità di trovare lavoro rispetto a quelle con relazioni sociali deboli. Il tipo di impiego e le condizioni contrattuali si sono rivelati fattori cruciali per il benessere soggettivo dei lavoratori italiani: studi mostrano che le persone impiegate nel settore pubblico sembrano essere molto più felici dei dipendenti privati (ad es, Capone e Petrillo, 2016).

Il benessere soggettivo in Italia

Con lo scopo di identificare i predittori della soddisfazione per la vita nella popolazione italiana, uno studio di Capone e colleghi (2021) ha cercato di ampliare questa linea di ricerca utilizzando i dati del Gallup World Poll (GWP; che analizza le questioni più importanti a livello mondiale, come l’accesso al cibo, l’occupazione, le prestazioni della leadership e il benessere).

Gli autori, utilizzando un campione rappresentativo di grandi dimensioni, si sono basati su una prospettiva psicosociale, includendo una serie di dati demografici e aspetti psicologici e sociali della soddisfazione per la vita.

I risultati rivelano che le donne riferiscono punteggi significativamente più bassi degli uomini per quanto riguarda la Life Satisfaction: esse riportano livelli significativamente più alti di stress, tristezza e preoccupazione, soprattutto dopo la mezza età. Le donne più anziane avevano livelli di istruzione più bassi e ciò è in linea con i risultati di Eurostat, che mostrano che le donne dell’UE, in particolare quelle di età superiore ai 65 anni, abbiano maggiori barriere economiche e psicologiche rispetto agli uomini. Inoltre, l’Italia è un Paese con un alto tasso di disoccupazione, nello specifico il tasso di disoccupazione femminile è superiore a quello maschile (Eurostat, 2017).

 Il predittore più importante della soddisfazione per la vita degli italiani è stato il reddito, seguito dall’istruzione e dallo stato occupazionale. Il reddito, permettendo il consumo e il soddisfacimento dei desideri (Jebb et al., 2018), influenza il benessere. Tuttavia, un’altra possibile interpretazione è che le politiche di austerità attuate dai governi italiani che si sono succeduti in seguito alla crisi economica del 2008 (Demetriou, 2015) e l’insicurezza per il futuro associata agli alti tassi di disoccupazione, hanno rafforzato l’importanza di questo fattore per per il benessere degli italiani.

Il tenore di vita sembra predire la soddisfazione per la vita degli italiani e ciò risulta essere in linea con i risultati di Diener e colleghi (2010) che affermano che i benefici materiali sono più fortemente associati ai giudizi riflessivi che le persone danno alla loro vita rispetto a come vorrebbero che fosse.

Inoltre, la soddisfazione per la vita degli italiani è correlata al supporto sociale, in linea con la letteratura precedente (ad es, Capone e Petrillo, 2016). I partecipanti che hanno ricevuto un maggiore sostegno sociale hanno dichiarato di essere più soddisfatti della propria vita. Soprattutto per gli anziani, ricevere sostegno sociale sembra aiutare le persone a raggiungere condizioni di vita stabili, a soddisfare i bisogni sociali e a rafforzare l’aspettativa di poter contare su qualcuno in caso di necessità.

È interessante notare che si sono verificate alcune differenze tra età e sesso. Ad esempio, nelle donne e negli anziani i problemi di salute sono stati un predittore negativo di soddisfazione per la vita. Negli adulti di età compresa tra i 25 e i 44 anni, la soddisfazione della città in cui si vive è stata un predittore di soddisfazione per la vita, mentre per il gruppo più giovane è stata la libertà. Questi dati confermano quanto emerso da ricerche precedenti, secondo le quali il passaggio all’età adulta porta gli individui a cercare città vivibili per sé e per le proprie famiglie e il rapporto delle persone con l’ambiente in cui vivono è un aspetto fondamentale per il loro benessere (Rollero et al. 2014). Per quanto riguarda il desiderio di libertà, così importante per i più giovani, è importante sottolineare che concetti come libertà e sicurezza globale e reciproca sono strettamente correlati (Federici et al. 2012).

Considerazioni conclusive

In conclusione, per comprendere e migliorare la soddisfazione per la vita in Italia è necessario prestare attenzione a un’ampia gamma di fattori economici e psicosociali e, data l’importanza degli aspetti economici rivelati dallo studio, la lotta alla disoccupazione deve essere un aspetto centrale per il Governo Italiano.

 

Che fatica le relazioni! Meccanismi della dipendenza relazionale – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Che fatica le relazioni! Meccanismi della dipendenza relazionale.

 

Alcune persone hanno difficoltà sia a descrivere e comprendere cosa abbia scatenato in loro un’emozione sia a comprendere cosa gli altri pensano e sentono, e a utilizzare tale conoscenza per migliorare la propria vita relazionale e formare legami stabili. Nella vita di relazione siamo spesso guidati da un insieme di aspettative su come gli altri risponderanno a desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni.

Durante l’episodio del podcast verranno discusse alcune modalità relazionali disfunzionali e verranno date indicazioni per imparare a gestire meglio alcune dinamiche sociali complicate.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Disagio mentale: non solo disagio emotivo ma anche disfunzioni cognitive

Il progetto Research Domain Criteria, abbreviato RDoC, è un’iniziativa sviluppata dal National Institute of Mental Health (NIMH) a partire dal 2009 con lo scopo di fornire un sistema diagnostico la cui classificazione dei disturbi mentali è fondata sulla biologia, sulla genetica e sul comportamento osservabile (Cuthbert e Insel, 2013), distinguendosi dai sistemi diagnostici attualmente più adottati, come il DSM-5, che classificano i disturbi mentali sulla base dei sintomi (Vilar et al., 2019). 

 

DSM, ICD e RDoC

 I due sistemi di classificazione diagnostica delle malattie mentali oggi maggiormente impiegati sono il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders-5 (DSM-5) pubblicato dall’American Psychiatric Association (APA, 2013) e l’International Classification of Diseases-11th Revision (ICD-11), che rappresenta attualmente lo standard globale per la registrazione di informazioni sanitarie e cause di morte, sviluppato e aggiornato annualmente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2019; Vilar et al., 2019). ICD-11 e DSM-5 sono ampiamente sovrapponibili in termini di classificazione dei disturbi, anche il loro team di ricerca presenta delle compartecipazioni di alcuni membri (Cuthbert e Insel, 2013). Entrambi i sistemi hanno una finalità principalmente clinica e seguono un’impostazione diagnostica di natura descrittiva, dove le entità diagnostiche sono formate dal raggruppamento di sintomi giudicati simili dal consenso degli esperti (Akram e Giordano, 2017). Le principali critiche mosse a questi sistemi originano proprio da questa struttura fenomenologica, che è vista come la causa dei loro principali problemi, ovvero l’alta comorbidità tra i disturbi mentali e la possibilità che a due pazienti venga assegnata la stessa diagnosi anche con sintomi molto differenti (Vilar et al., 2019). Inoltre, le categorie diagnostiche di questi sistemi hanno mostrato difficoltà ad allinearsi con le recenti scoperte neuroscientifiche: in seguito alla eliminazione dei concetti psicoanalitici, dal DSM III (1980) in avanti ci si aspettava di riscontrare dei correlati neurofisiologici delle malattie mentali; tuttavia ad oggi non esiste ancora nessun test biologico che possa essere incluso fra i criteri diagnostici del DSM-5  (Hyman, 2007).

L’obiettivo dell’RDoC

L’iniziativa promossa dall’RDoC, come esplicitato da Insel e colleghi nel piano strategico del progetto, è quella di “sviluppare, a fini di ricerca, un nuovo modo di classificare i disturbi mentali basato su dimensioni di comportamento osservabili e su misure neurobiologiche” (Cuthbert e Insel, 2013). Al contrario degli altri sistemi dunque l’RDoC non prende come punto di partenza del disturbo mentale un complesso di sintomi, ma rovescia il processo partendo dal funzionamento normale tentando prima di individuare quali sono le funzioni primarie che il nostro cervello si è evoluto per svolgere, e da quali sistemi cerebrali sono svolte; una volta individuato tale funzionamento, il secondo step è quello di considerare la psicopatologia in termini di una disfunzione di vario tipo ed entità di un particolare sistema (Cuthbert e Insel, 2013). L’RDoC considera pertanto la psicopatologia come una disregolazione misurabile a livello funzionale, biologico e/o comportamentale del normale funzionamento del sistema nervoso (Vilar et al., 2019). Il sistema diagnostico dell’RDoC è un sistema dimensionale, che si prefigge di determinare un intero spettro di variazioni del funzionamento di un certo sistema, dal normale all’abnormale, definendo di volta in volta in maniera flessibile da che punto questa variazione può diventare disfunzionale, e dunque costituire una patologia (Cuthbert e Insel, 2013).

Il prodotto di questa classificazione è quella che viene definita la matrice RDoC, che divide il sistema mente-cervello in cinque sistemi psicobiologici in base alle diverse funzioni, individuati a partire da sette livelli (chiamati “unità”) di analisi: geni, molecole, cellule, network cerebrali, fisiologica, comportamento ed esperienza autoriferita (Vilar et al., 2019).

Medicina di precisione

 Gli autori del Research Domain Criteria non negano che oggigiorno esistano dei trattamenti funzionanti per i disturbi mentali, tuttavia affermano che questi siano poco precisi, ovvero, soprattutto nel caso degli psicofarmaci, di non essere abbastanza specifici per il singolo disturbo mentale ma di funzionare per ampi gruppi di malattie differenti tra loro. Ad esempio antidepressivi come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono impiegati non solo per curare la depressione, ma anche una varietà di altri disturbi come i disturbi d’ansia, così come alcuni farmaci antipsicotici sono prescritti sia nei casi di schizofrenia che in quelli di disturbo bipolare (Cuthbert e Insel, 2013).

In questo, secondo gli autori dell’RDoC, la psichiatria deve ancora fare il grande salto che gran parte del resto della medicina ha già compiuto: mentre il campo della psicopatologia sta ancora faticando ad allinearsi alle recenti scoperte neurobiologiche, nelle altre aree della medicina la tendenza è quella di produrre diagnosi con specificazioni sempre più sofisticate a livello genetico, molecolare e cellulare delle patologie, trovando cure sempre più specifiche anche per variazioni della patologia presenti in aree molto ridotte della popolazione. È quella che viene chiamata “medicina di precisione”, e che tende verso quella che potrebbe essere considerata una medicina individualizzata su larga scala attraverso l’analisi di un grande numero di dati molecolari associati ai singoli pazienti (Cuthbert e Insel, 2013). In varie specialità della medicina è stato scoperto che condizioni patologiche che prima erano considerate come una singola malattia hanno in realtà differenti precursori genetici e fisiopatologici, e che trattamenti differenziati danno risultati migliori, con un importante risvolto positivo per il sistema sanitario. Per esempio per molte forme di cancro la diagnosi non è più definita dall’organo coinvolto ma dalle analisi genetiche che possono individuare la tipologia esatta e predire quale cura sarà più efficace (Mirnezami et al., 2012).

L’obiettivo dell’RDoC è portare questo livello di analisi e cura individualizzata anche nel mondo della diagnosi e della cura dei disturbi mentali.

Lo stato attuale

Dopo più di dieci anni dall’avvio del progetto ci sono state importanti scoperte e riclassificazioni dei disturbi mentali. Tra le più importanti citiamo una ricerca del 2013 pubblicata su Nature Genetics che riporta la presenza di una comune base genetica tra schizofrenia, disturbo bipolare e disturbo depressivo maggiore (Cross-Disorder Group of the Psychiatric Genomics Consortium, 2013). Successive ricerche hanno confermato questa ipotesi ed hanno esteso l’analisi dei fattori genetici ad altri disturbi mentali, riportando tre diversi cluster di malattie mentali aggregati sulla base di fattori genetici comuni: il primo formato da disturbi dell’umore e psicotici (schizofrenia, disturbo bipolare e disturbo depressivo maggiore), il secondo da vari disturbi infantili del neurosviluppo (quali le disabilità intellettive, disturbi dello spettro autistico, ADHD) e il terzo dai disturbi ossessivo-compulsivi. Un risultato di interesse è che questi disturbi si presentano disposti per scala di intensità secondo uno spettro, rappresentando dunque la schizofrenia non tanto come una patologia a sé ma come uno spettro, meglio definito come spettro psicotico (Cuthbert e Morris, 2021).

Un altro campo di ricerca attualmente in corso è quello riguardante il fattore di rischio poligenico, o polygenic risk score (PRS), ovvero un parametro che rappresenta la stima della possibilità di un soggetto di sviluppare una particolare condizione clinica sulla base dell’analisi del suo genoma, valutando la presenza o l’assenza di varianti genomiche. Attualmente è impiegato soprattutto nella ricerca, mentre l’impiego nella pratica clinica è oggetto di più grande dibattito (Fullerton e Nurnberger, 2019).

Conclusione

Queste due diverse filosofie di classificazione – RdoC da una parte e ICD e DSM dall’altra – non vanno tuttavia viste come in competizione, ma come sistemi con finalità differenti: mentre ICD e DSM hanno uno scopo clinico, l’RDoC ha uno scopo principalmente votato alla ricerca. In questo senso, come dichiarato dall’associazione stessa, il sistema RDoC non è intenzionato a sostituire i sistemi diagnostici, quanto a fornire una migliore comprensione della salute e dei disturbi mentali e a guidare la ricerca per identificare trattamenti efficaci (Cuthbert e Insel, 2013).

Dunque, è importante sottolineare che l’obiettivo immediato del Research Domain Criteria non sia tanto quello di costituire un nuovo sistema diagnostico, quanto piuttosto quello di creare una nuova cornice di ricerca che può produrre e svilupparsi insieme ai nuovi dati scientifici così ottenuti, con lo specifico scopo di gettare le fondamenta per la creazione di una medicina e di un trattamento di precisione per i disturbi mentali, guidando l’idividuazione di nuove linee di intervento in ambito clinico di efficacia provata per la fetta più grande possibile della popolazione. In questo senso, anche se nell’immediato il progetto RDoC prende le distanze dalle strutture affermate del DSM-5 e dell’ICD-11, l’obiettivo a lungo termine è quello di vedere i tre sistemi convergere, al fine di ottenere il sistema diagnostico e i protocolli di trattamento migliori possibili allo scopo di alleviare la sofferenza che i disturbi mentali portano con sé.

 

Regole, natura e sviluppo del linguaggio

Il linguaggio è una forma di comunicazione superiore, caratterizzata da semanticità (ogni segno linguistico ha un suo suono e un suo significato), arbitrarietà (il significato di un suono viene appreso e tramandato culturalmente) e convenzionalità (i significati dipendono da regole condivise da varie culture).

 

Il linguaggio ha un certo grado di intenzionalità e si configura come una forma di comunicazione consapevole, con una duplice funzione: la dislocazione, consente di discutere di oggetti, stimoli, persone ed eventi concretamente assenti alla percezione di chi parla; e la generatività infinita, permette di produrre un infinito numero di combinazioni di frasi, sintagmi e testi a partire da un numero finito di vocaboli.

Le regole del linguaggio

Il linguaggio si imposta su cinque regole fondamentali:

  • fonologia, cioè l’insieme di tutti i suoni esistenti in natura e le loro possibili combinazioni. Il fonema costituisce la fondamentale unità di suoni di un linguaggio, l’unità più piccola di un suono che ne influenza il significato.
  • morfologia, cioè la struttura e della forma delle parole, dei processi di formazione e dei cambiamenti nelle forme. Il morfema indica l’unità minima di significato.
  • sintassi, cioè il modo in cui le parole si dispongono per formare delle frasi accettabili, dei sintagmi di senso compiuto, cioè delle unità autonome grammaticalmente corrette.
  • semantica, che si riferisce al significato delle parole e alla corrispondenza tra parole e significato.
  • pragmatica, la disciplina che studia l’uso contestuale della lingua, cioè l’uso appropriato del linguaggio a seconda del contesto; la pragmatica indaga la parola come azione concreta.

Lo sviluppo del linguaggio

Lo sviluppo del linguaggio è un processo maturazionista che evolve secondo un programma di carattere filogenetico.

Alla nascita, i bambini tendenzialmente esternano il loro sentire attraverso il pianto e suoni gutturali come “gu”, “cu” o “uu”; tra le due e le tre settimane dopo la nascita compaiono le prime vocalizzazioni di natura vegetativa, come gli sbadigli. Tra i 2 e i 3 mesi compaiono le prime forme di associazioni tra vocali e consonanti e le prime imitazioni vocaliche, mentre tra il 4° e il 6° mese subentra la lallazione, cioè una sequenza di sillabe – consonante e vocale – che viene reiterata due o più volte per formare parole bisillabiche, ad esempio “mamama” o “papapa”. Nei bambini nati sordi, la lallazione si presenta sotto forma di gesti. Intorno al 10° mese compare la lallazione variata: le sillabe si fanno più lunghe e complesse (ad esempio “bama”, “dadu”).

Tra gli 8 e i 12 mesi i bambini cominciano ad utilizzare i primi gesti comunicativi, cioè gesti deittici o performativi, come indicare, mostrare o richiedere. Questi gesti esprimono un’intenzione comunicativa, si riferiscono a un oggetto o uno stimolo esterno preciso, tipicamente segnalato attraverso l’uso dell’indice, sono distali, cioè prodotti a distanza, e si svolgono nel contesto di un’interazione triadica, che prevede la presenza del bambino, del caregiver e dell’oggetto in questione. Il pointing, per esempio, è un importante gesto deittico con funzione richiestiva e dichiarativa e di origine strumentale. A quest’età i bambini iniziano anche a comprendere le prime parole; la prima di queste compare intorno ai 10-15 mesi generalmente. Le prime parole sono termini indicanti nomi di cibi, bevande, animali domestici, veicoli, giocattoli, oggetti di casa o persone per lui importanti. A 13 mesi i bambini comprendono 50 parole, ma non riescono a pronunciarle tutte prima dei 18 mesi. A 16 mesi il bambino produce le combinazioni transmodali, cioè è capace di associare ad una parola un gesto. A 18 mesi avviene l’esplosione del vocabolario (vocabulary spurt): i bambini sono in grado di pronunciare circa 200 parole. Tra i 18 e i 24 mesi il bambino passa dall’utilizzo di olofrasi a un linguaggio telegrafico. L’olofrase, detta frase monometrica, è composta solo da una parola e il suo significato implicito coincide con quello di una frase intera (es. “voio” per “voglio”). Il discorso telegrafico, invece, prevede la presenza di due parole o espressioni molto brevi e semplici, sprovviste di elementi grammaticali come articoli, congiunzioni e verbi ausiliari (es. “no lupo”, “tutto buio”).

 In sintesi, si può dire che esistano tre fondamentali tipologie di comunicazione: una comunicazione preintenzionale (0-8 mesi) che presuppone la presenza di movimenti, gesti e suoni senza un’intenzione comunicativa; una comunicazione intenzionale (8-12 mesi), che invece prevede la presenza di un’intenzione comunicativa e in particolare l’utilizzo di gesti con funzione richiestiva e dichiarativa; e infine una comunicazione linguistica (dal 12 mese in poi), composta da olofrasi, linguaggio telegrafico, domande, risposte e saluti.

A partire dai 2 anni, i bambini diventano abili a combinare le parole, a costruire frasi complesse, a utilizzare articoli, preposizioni, dimostrativi, possessivi e il plurale. Cominciano a scarabocchiare, a notare le rime, a coniugare correttamente i verbi e a definire le sillabe. Cominciano a esprimersi utilizzando anche il lessico psicologico, ovvero l’insieme di termini e vocaboli che esprimono uno stato interno di carattere cognitivo, fisiologico (“fa schifo”), percettivo (“ho visto”), volitivo (“desidero”), emotivo (“sono triste”). Mentre a 3 anni sviluppano competenze sintattiche, in quanto diventano capaci di costruire frasi nucleari complete, cioè composte da soggetto, verbo e complemento. A 4 anni si assiste anche a un miglioramento delle abilità pragmatiche, in quanto i bambini apprendono regole di conversazione, imparano a modulare lo stile di discorso a seconda del contesto in cui si trovano e diventano bravi a parlare di oggetti e stimoli assenti alla loro percezione (displacement). A quest’età il bambino inoltre impara a scrivere correttamente il proprio nome in stampatello e a 5 anni è capace di copiare sia lettere che parole brevi e di inventare ortografie. La lettura è una capacità che si sviluppa nel corso di diversi anni e comprende tre processi cognitivi: l’atto di comprendere la dimensione fonetica della parola, l’atto di decodificare la parola convertendo il segno in suono, cioè l’intenzione comunicativa in vero e proprio atto linguistico, e infine l’atto di accedere al significato intrinseco della parola stessa e di crearsi una sua rappresentazione mentale. L’età scolare ed epoche successive all’interno del periodo evolutivo portano graduali e ulteriori affinamenti di tutte queste abilità linguistiche: per esempio, durante l’adolescenza l’individuo impara a utilizzare il pensiero astratto, la lingua diventa più raffinata, ma si arricchisce anche di espressioni gergali, ironiche, satiriche e argute, compare l’uso della metafora e dello slang.

La natura del linguaggio

Si è a lungo discusso circa la natura del linguaggio e in particolar modo numerosi studiosi, linguisti e psicologi, nel corso degli anni, si sono prodigati per comprendere se fosse una funzione mentale innata o acquisita.

Il linguista Noam Chomsky sosteneva che lo sviluppo del linguaggio fosse un processo innato e teorizzò due concetti molto importanti, cioè la GU (Grammatica Universale) e il LAD (Language Acquisition Device, un dispositivo interno per l’acquisizione del linguaggio). L’idea di Chomsky è che tutti gli individui possiedano una Grammatica Universale, cioè siano biologicamente predisposti fin dalla nascita ad apprendere la lingua. La GU si configura come uno schema innato, contenente principi, postulati, concetti e conoscenze che spiegano e regolamentano il modo in cui funzionano tutte le lingue naturali e comuni esistenti: la concettualizzazione della GU si fonda sul fatto che esistano costrutti linguistici e aspetti grammaticali talmente intuitivi ed evidenti, come ad esempio il modo in cui si assembla una frase, che non possono essere messi in discussione né necessitano di essere appresi.

Il LAD, invece, è una dotazione biologica e innata che consente di assimilare e acquisire le principali caratteristiche e le regole del linguaggio, tra cui la fonologia, la sintassi e la semantica, tutti elementi tramite cui è possibile costruire un numero infinito di frasi. Il LAD agisce in maniera autonoma, indipendentemente dallo sviluppo cognitivo, dal livello di intelligenza e dalle competenze del bambino. La teoria di Chomsky, pertanto, spiega il motivo per cui i bambini imparano a parlare rapidamente, perché il loro linguaggio è più ricco e variegato di quello a cui tipicamente sono stati esposti e per quale motivo le tappe di sviluppo siano identiche a livello universale.

Diametralmente opposta è la posizione interazionista di Jerome Bruner, secondo cui l’interazione socioculturale e in particolar modo il contributo di genitori e insegnanti promuove lo sviluppo di un sistema di supporto per l’acquisizione del linguaggio (LASS). Secondo Bruner il LASS è un processo dinamico a basi neurobiologiche, di carattere esperienziale, prodotto da regolari interazioni socioculturali, e quindi lo sviluppo del linguaggio è largamente condizionato dalla qualità e soprattutto dalla quantità della conversazione che il bambino intesse con figure educative di riferimento.

 

Differenze di genere nell’espressione della gelosia

Sono state sistematicamente riscontrate alcune differenze di genere nella gelosia, alcune di queste si concentrano sulle reazioni basate sui temi di dominanza e attrattività di un potenziale rivale.

 

 La differenza rispetto alla natura della gelosia romantica tra individui di genere maschile e femminile è stata oggetto di studio in molte ricerche (ad es., Pollet e Saxton, 2020). La gelosia romantica è un vissuto emotivo multidimensionale, e comprende un insieme di azioni volte al controllo del proprio partner, al monitoraggio dei suoi spostamenti e all’invasione della sua privacy, con lo scopo di affrontare la minaccia di un rivale, sia esso reale o immaginario, che possa compromettere la stabilità della relazione (Elphinston et al., 2013). L’insieme delle emozioni negative che compongono la gelosia è soggetto alle differenze individuali; infatti, alcuni individui potrebbero reagire con rabbia a una situazione di gelosia, mentre altri potrebbero sentirsi feriti (Pfeiffer e Wong, 1989).

La gelosia in una visione evoluzionistica

Secondo alcune teorie evoluzionistiche, tra le funzioni della gelosia c’è quella di ridurre la probabilità di perdere il partner e la relazione a causa di un rivale (Valentova et al., 2020). Infatti, in caso di perdita del partner, entrambi i generi affrontano un potenziale e significativo costo emotivo e fisico, come l’impossibilità di avere un rapporto sessuale o di stabilire un legame emotivo. Inoltre, potrebbero perdersi anche tutte quelle possibilità di migliorare la qualità della vita grazie al partner, come la collaborazione per aumentare la disponibilità di risorse, lo status sociale e la possibilità di avere dei figli. Tuttavia, sono state sistematicamente riscontrate alcune differenze tra generi nella gelosia.

Alcune di queste differenze si concentrano sulle reazioni basate sui temi di dominanza e attrattività di un potenziale rivale (Pollet e Saxton, 2020). La dominanza maschile può riferirsi all’abilità dell’individuo di fornire risorse e di essere in grado di mantenere una famiglia, mentre l’attrattività di una donna può fornire indizi sulla sua fertilità, la sua età e la sua condizione fisica. Queste caratteristiche di entrambi i generi sono infatti associate a un’idea di partner di alta qualità.

La gelosia nel genere femminile

 Il genere femminile ha riportato una maggiore frequenza di gelosia rispetto al genere maschile (Pollet e Saxton, 2020). Inoltre, le donne esprimono la gelosia utilizzando delle reazioni più emotive e cognitive rispetto agli uomini, e si attivano emotivamente più facilmente se viene proposto uno scenario dove il proprio partner è coinvolto in una relazione sessuale con una terza persona. È possibile che queste differenze possano essere in parte dovute a una elaborazione delle emozioni e una presenza di ansia di tratto che è risultata essere maggiore nelle donne.

La gelosia nel genere maschile

A differenza del genere femminile, sembra che gli individui di genere maschile esperiscano un tipo di gelosia più legata al concetto di paternità (Buss, 2018). Infatti, nel corso della storia evolutiva dell’essere umano, l’uomo si è sempre trovato davanti al problema di essere totalmente sicuro rispetto alla paternità del bambino, in quanto la madre biologica è più facilmente osservabile, mentre ci sono maggiori difficoltà per il padre biologico. A causa di questa incertezza, la gelosia dell’uomo si è evoluta nel tempo fino a diventare una modalità di protezione verso la possibilità di essere traditi, spingendo l’individuo ad attuare una tipologia di gelosia più comportamentale, che comprende l’invasione della privacy e il controllo dei rapporti amicali della partner.

Le diverse forme di infedeltà, come il tradimento sessuale e quello emotivo, hanno consentito alla gelosia di evolversi come forma di difesa contro possibili rivali (Buss, 2018). Tuttavia, è interessante notare come i generi sembrano prediligere meccanismi di difesa differenti. Ulteriori ricerche potrebbero concentrarsi anche su coppie LGBTQIA+ per valutare se le dinamiche della gelosia cambino in qualche modo.

 

Quali sono i risultati della Consensus Conference? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 7

In questo numero sono sintetizzati i risultati, ovvero le raccomandazioni approvate dal Panel di Giuria, relative ai 4 macro-obiettivi della Consensus, già esplicitati nell’episodio Nr 2 di questa rubrica. 

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 7) Quali sono i risultati della Consensus Conference?

 

Obiettivo 1

Il primo obiettivo ha riguardato la formazione accademica, relativamente ai corsi di laurea di Medicina e Psicologia, e le Scuole di Specializzazione.

Per quanto concerne i percorsi di laurea, viene evidenziata la necessità di corsi di alfabetizzazione sui disturbi mentali comuni (DMC), sia nei programmi di laurea triennale in Psicologia, sia della laurea in Medicina, sia nei corsi post-lauream, specialmente per i Medici di Medicina Generale.

Nello specifico, per la laurea in Psicologia a indirizzo clinico, è stato raccomandato l’approfondimento delle conoscenze dei quadri sindromici e dei livelli di gravità dei DMC, oltre che dei trattamenti evidence-based previsti dalle linee guida internazionali. In aggiunta, viene consigliato un focus sulle nozioni di base dell’epidemiologia clinica nel campo della salute mentale.

Rispetto alle Scuole di Specializzazione, viene sollevata la necessità di porre dei criteri maggiormente stringenti nella fase di abilitazione dei professionisti in psicoterapia, soprattutto in vista di coloro che confluiranno nel personale psicoterapeutico presente nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale. Perciò, è stato raccomandato di incrementare le Scuole di Specializzazione pubbliche e monitorare l’elevato numero di quelle private. Inoltre, secondo gli esperti è importante che tale formazione sia integrata a conoscenze cliniche e che la varietà delle forme di intervento psicoterapeutico venga valutata in rapporto all’efficacia. Tali standard dovrebbero essere omogenei in tutte le Regioni del nostro Paese.

In modo analogo, nelle scuole di medicina risulta fondamentale integrare conoscenze psicologiche, così da rendere più facili i necessari rapporti tra le due figure professionali che cooperano nell’ambito della salute mentale, ovvero medici e psicoterapeuti.

Obiettivo 2

Il secondo obiettivo pone il focus sull’aggiornamento professionale, la formazione continua e l’editoria scientifica.

Il fine ultimo della promozione della ricerca scientifica è promuovere e migliorare l’assistenza della salute mentale, garantendo così un maggiore benessere psicologico.

Per poter attuare strategie mirate di prevenzione e sviluppare approcci terapeutici di elevata efficacia è necessario potenziare la ricerca riguardo l’eziologia di ansia e depressione, l’epidemiologia, gli interventi clinici e la loro efficacia, attraverso sistemi di monitoraggio degli esiti appositamente costruiti. A questo proposito, sarebbe auspicabile implementare studi sull’efficacia sulla combinazione di trattamenti multimodali, quindi di tipo farmacologico, psicoterapeutico e psicosociale. Tali studi dovrebbero essere condotti in differenti contesti del territorio nazionale, per poi essere complessivamente confrontati.

In aggiunta, è raccomandato che tali studi vengano affiancati da misurazioni del rapporto costi/benefici, che si rivelano essenziali per la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

Pertanto, sono necessari adeguati stanziamenti di risorse economiche pubbliche per sperimentazioni di media-lunga durata, in modo che le ricerche possano essere effettuate indipendentemente dagli interessi dei finanziatori.

Proprio per rimanere aggiornati sulle ultime evidenze empiriche, per il professionista che opera nell’ambito della salute mentale risulta imprescindibile una formazione “continua” attraverso corsi e master di alta formazione che propongano tali aggiornamenti scientifici.

Obiettivo 3

Il terzo obiettivo ha richiesto agli Esperti e alla Giuria di occuparsi del tema della pratica professionale, dei servizi socio-sanitari, e dei relativi aspetti organizzativi ed economici.

Il problema principale che si vuole affrontare con questo obiettivo è il mancato o inadeguato trattamento dei DMC, alimentato dalla loro mancata individuazione in fase di esordio. Il trattamento inadeguato è dovuto all’impiego di terapie psicologiche di efficacia non scientificamente attestata.

Per un miglioramento della situazione attuale, viene raccomandato di considerare tutti i Servizi sanitari territoriali (per es., consultori familiari, medici di medicina generale e pediatri) e i Servizi di medicina penitenziaria come luoghi per la valutazione dei DMC o per il riconoscimento del rischio di svilupparli, al pari dei Servizi specialistici.

Tali luoghi dovrebbero fungere da nodi di rete con con i Servizi specialistici di salute mentale, abilitati all’erogazione di programmi di trattamento organizzati per livelli di gravità dei sintomi osservati nella fase di valutazione, quindi secondo un approccio detto “stepped care”. Tale approccio prevede modelli di intervento psicoterapeutico a bassa intensità, come interventi psicoeducativi o gruppi di auto-mutuo-aiuto, oppure a maggiore intensità, con l’impiego della psicoterapia, e infine di massima intensità, con l’integrazione del trattamento psicologico e la farmacoterapia.

Strutturare modelli di intervento graduali basati sulla gravità della sintomatologia manifestata dal paziente, consente di evitare un eccesso di medicalizzazione nelle forme più leggere dei DMC, con una conseguente diminuzione dei costi.

Inoltre, la presenza degli psicoterapeuti non va prospettata solo in sede ospedaliera, ma soprattutto sul territorio (per es., nelle “case di comunità”), lavorando in équipe ed effettuando interventi domiciliari e telepsicologia.

Obiettivo 4

Grazie al quarto obiettivo, sono state proposte strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, collaborando con la porzione di popolazione interessata e detentrice del potere decisionale.

Il problema dell’accesso al trattamento delle persone con DMC è riconducibile non solo alla scarsa offerta di risposta da parte dei servizi, ma anche alla scarsa domanda da parte dei pazienti stessi. Ciò potrebbe essere dovuto a una scarsa conoscenza e consapevolezza di tali disturbi e allo stigma a essi associato.

Le raccomandazioni della Consensus Conference propongono la diffusione di una più corretta informazione tra la popolazione, i media e gli operatori sanitari, sensibilizzando il pubblico sugli interventi psicoterapeutici per le forme d’ansia e depressione, coinvolgendo istituzioni, e soprattutto sfruttando le potenzialità dei mass-media e dei social network. Pertanto, si propone un investimento nella comunicazione diversificata in base ai gruppi target, come gli operatori sanitari, la popolazione generale e il mondo della scuola.

In aggiunta, viene consigliato l’impiego di modalità innovative e più sostenibili, come la tele-psicologia, al fine di agevolare l’accesso alle cure.

Cosa manca?

La Consensus si è occupata dei disturbi ansiosi e depressivi considerando l’età adulta. Mancano dunque specifiche raccomandazioni per l’intervento in età pediatrica e adolescenziale, così come per la terza e quarta età.

Infatti, la Giuria ha sottolineato l’importanza e l’urgenza del potenziamento delle ricerche scientifiche in merito, la fine di strutturare programmi di screening e d’intervento funzionali per tali fasce d’età.

L’auspicio finale

Le raccomandazioni di questa Consensus Conference giungono in un momento storico particolare e diverso dal solito, caratterizzato della pandemia di SARS-CoV-2, che ha avuto –e plausibilmente avrà ancora– anche ripercussioni sull’equilibrio psichico ed emotivo delle persone. Gli effetti sono stati sin da subito visibili, per esempio nello stress degli operatori sanitari, nelle preoccupazioni dei giovani per il loro futuro, nel timore della perdita dei familiari dei pazienti affetti dal virus, e nella minaccia ai mezzi di sussistenza dei lavoratori.

È ragionevole pensare che a causa degli effetti della pandemia la domanda di interventi e trattamenti psicologici e psicosociali aumenti ancora, sebbene con questa emergenza si è già osservata un’inadeguatezza dei servizi di salute mentale. Dunque, l’auspicio dichiarato alla conclusione del documento della Consensus Conference è che questa favorisca una attenzione particolare e urgente nella messa in opera di una risposta basata sulla co-progettazione, che veda coinvolte le istituzioni, dalla sanità all’istruzione, dalla ricerca al welfare. Al centro di questo necessario sforzo di co-operazione si colloca la persona con disturbi mentali, a partire dalla quale bisogna definire percorsi integrati nell’ottica di favorire la miglior qualità di vita possibile.

La Giuria ritiene infine che i problemi di ansia e depressione travalicano le competenze e le possibilità di ministeri e istituzioni della salute e che sia opportuno presentare i risultati di detta Consensus Conference ai vertici di Senato, Parlamento e Governo.” (ISS, 2022; p. iii).

 

La regola del libero (2022) di Margherita Sassi – Recensione

Vittoria è tornata. A distanza di anni, l’ex pallavolista, protagonista di “Stop & Go. Una Vittoria sportiva ma non troppo”, ha deciso di reinventare la sua vita e, approfittando di un’inaspettata eredità, progetta di costruire la Casa della Marina, un ostello per giovani atleti, il tutto raccontato nel libro “La regola del libero”.

 

 L’iniziativa attira l’attenzione di Nicola, ambizioso giornalista che accompagna la giovane in un Forum nell’isola di Malta. Nicola tenta gradualmente di farsi strada nei pensieri e nei sogni di Vittoria, sulla motivazione di questo nuovo inizio “un motivo c’è. Anzi, ce n’è più di uno e, forse, è tempo che scelga con quale farmi strada… Vittoria è l’esempio lampante che in certi momenti basta scegliere, me lo ripeto da una vita eppure non mi è servito a nulla. Forse perché non basta ma bisogna, e quindi malauguratamente continuo a ripetermi la frase sbagliata”. Vittoria vuole andare avanti, esita a parlare del passato, del rapporto fallito con Davide e della sua complessa situazione familiare; ma, nel frattempo, le domande incalzanti di Nicola fanno sorgere in lei il bisogno di capire e di creare una versione più consapevole della sua storia. Nicola rappresenta l’emblema dell’uomo qualunque che tenta di penetrare attraverso un mito, un modello, per scoprirne con il tempo fragilità, debolezze, ma anche inaspettate riserve di coraggio. Lo stesso giornalista riuscirà a vedere riflesso in questa immagine anche se stesso, la sua vita insoddisfacente, i sogni quasi dimenticati.

 “Magari nella vita devi solo difendere quello che c’è, credere fortemente in quello che fai e controllare l’ambizione di attaccare. Avere un’idea e fare qualsiasi cosa pur di realizzarla. Forse anche sbagliare. Soprattutto sbagliare. Se hai giocato da libero, questa cosa la sai perchè è la regola. La regola del libero

Nel suo nuovo libro, “La regola del libero”, Margherita Sassi descrive emozioni, paure, insicurezze, ma anche il coraggio e la determinazione, perché “la forza di una grande giocatrice sta nella capacità di rimettere in gioco ogni volta tutto”.

Una lettura consigliata a tutti gli amanti dello sport, a chi crede nel valore dell’amicizia e nell’importanza di lottare contro tutto e tutti per ciò in cui si crede.

 

Studenti fuori sede e nostalgia di casa

Molti studenti fuori sede, soprattutto nei primi periodi di lontananza, tendono a scrivere o telefonare molto alle loro figure di riferimento, a causa della nostalgia di casa.

 

 Nel mondo competitivo di oggi, molte persone si prefissano come obiettivo il frequentare l’università e l’ottenere una laurea. Frequentare l’università, oltre ad essere un’esperienza piacevole da molteplici punti di vista, è considerata una tappa dello sviluppo che segna la transizione nell’età adulta, che può comportare eccitazione ma anche ansia (Thurber e Walton, 2012).

Molti studenti, per molteplici motivazioni, scelgono di studiare in città differenti dalle loro città natali. Studiare lontano da casa non è però sempre facile.

Si pensi per esempio alla questione economica: se non si dispone di finanze adeguate, potrebbe essere molto impegnativo lavorare e studiare contemporaneamente per pagare l’affitto di una casa, le spese dei viaggi, le bollette, ecc. Un’altra sfida è rappresentata dai problemi sociali: fare amicizia in una nuova città o Paese, in un contesto completamente diverso da quello di casa propria.

Infatti, è necessario tenere a mente che un individuo che lascia la propria casa si trova in una situazione nuova, che comporta un nuovo ambiente di vita in cui riorganizzare amicizie e supporto sociale. D’altronde, l’università richiede di vivere un periodo di trasformazione in cui si deve capire chi si è, e cosa è necessario fare per prendersi cura di se stessi (Nghiem et al., 2021).

La nostalgia di casa tra gli studenti fuori sede

Nonostante studiare all’università sia un’esperienza che spesso offre agli studenti una grande opportunità di relazionarsi e di incontrare molte persone nuove e di iniziare a crearsi un futuro tra i titoli di studio avanzati, un aspetto comune sperimentato dalle matricole fuori sede sembra essere la nostalgia di casa (Nghiem et al., 2021).

La nostalgia di casa può riferirsi alla sensazione di voler tornare a casa propria, soprattutto tra coloro che hanno lasciato la propria casa per la prima volta (Duru e Balkis, 2013).

Molti studenti, infatti, soprattutto nei primi periodi di lontananza, tendono a scrivere o telefonare molto alle loro figure di riferimento, specialmente le ragazze (Trice, 2002).

Le ricerche precedenti hanno indicato un’associazione tra l’allontanamento da casa per studio o lavoro ed esiti negativi sulla salute psicologica, come profonda tristezza e nostalgia (Andrade, 2006). Gli effetti negativi sul benessere si inaspriscono quando queste persone non riescono ad adattarsi al nuovo ambiente di vita. In alcuni casi, la sensazione di solitudine si attenua con il tempo, stringendo nuove relazioni sociali, in altri casi il livello di angoscia può essere significativo (Thurber e Walton, 2007).

Studenti fuori sede e nostalgia di casa: uno studio sperimentale

Nghiem e colleghi (2021) hanno condotto un’analisi riguardo all’esperienza della nostalgia di casa delle matricole universitarie fuori sede, tentando di studiare i loro vissuti in modo che la scuola e i genitori possano adottare misure di sostegno tempestive.

Dallo studio è emerso che ragazzi e ragazze che decidono di allontanarsi da casa per motivi di studio provano nostalgia di casa, in particolare le ragazze mostrano livelli più alti.

 Gli studenti che vivono nei dormitori o negli studentati hanno mostrato, in media, punteggi più alti di coloro che vivono in appartamenti o stanze in affitto, ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che la vita nei dormitori è spesso più strutturata e vengono applicate politiche rigorose, come limiti di orario, e di conseguenza minore tempo a disposizione per la socializzazione (Van Tilburg et al., 1996).

Tra gli studenti al primo anno di università, le matricole di età più avanzata si concentrano di più sul conseguimento dei rispettivi titoli di studio anziché sulla lontananza da casa, rispetto alle matricole più giovani.

La ricerca mostra anche che l’80% degli studenti pensa che studiare lontano da casa li metta di fronte a molte difficoltà, e più del 31% non ama studiare lontano, ma a causa delle preoccupazioni per il futuro, sceglie comunque di farlo. Gli studenti partecipanti allo studio hanno sottolineato la centralità del dover lasciare i vecchi amici, lasciare la famiglia per creare nuove relazioni, nuove amicizie e nuove esperienze nel processo di allontanamento da casa. Alla luce di quanto riportato, vivere lontano da casa negli anni dell’università fa vivere esperienze difficili di nostalgia e solitudine.

Nonostante gli aspetti di sofferenza, gli studenti hanno sottolineato anche quanto l’esperienza dello studiare in altre città o Paesi possa aiutare a migliorare le capacità di comunicazione sociale, ad aumentare l’indipendenza e a saper risparmiare denaro.

Conclusioni

In sintesi, i risultati di questo studio hanno mostrato che la nostalgia di casa è una realtà comune e viene spesso sperimentata dalle matricole universitarie.

L’eccessiva nostalgia di casa, però, può portare a condizioni sempre più negative per i giovani studenti, per cui è necessario un maggiore supporto e sostegno psicologico, affinché gli studenti, separandosi dalle loro famiglie, possano prepararsi a coltivare nuove relazioni e sviluppare la resilienza verso alla società esterna.

 

Mai venuto al mondo. Implicazioni cliniche dell’aborto spontaneo: un dolore difficile da raccontare

L’aborto spontaneo è un evento più frequente di quanto possiamo immaginare. I dati ISTAT rivelano che colpisce circa una donna su cinque, quindi un terzo delle gravidanze totali termina in un aborto spontaneo. In particolare, in Italia si contano più di 70.000 casi l’anno, numero che include solo quelli che hanno ricevuto un’ospedalizzazione.

 

 Molto spesso implica delle ripercussioni dal punto di vista psicologico anche se, ancora oggi, si tende a sminuire l’evento, sia perché avviene con molta frequenza, sia perché si parla poco delle conseguenze cliniche.

Molti sostengono che la morte precoce non vada considerata come un vero e proprio lutto, svalutando e talora banalizzando i vissuti delle donne colpite, le quali vengono lasciate sole senza alcun sostegno.

I risultati di un recente studio statunitense pubblicato online il 13 dicembre 2019, nell’American Journal of Obstetrics and Gynecology (AJOG) svelano il contrario, riportando sintomi di stress post-traumatico presenti in quasi un terzo delle donne dopo un mese e in circa il 20% dopo 9 mesi dalla perdita. Inoltre, è emerso che molte donne dopo la perdita soffrono di stati d’ansia e depressione che in alcuni casi persistono anche dopo 9 mesi (Kersting & Wagner, 2012).

L’aborto spontaneo, come i problemi di infertilità, che ad oggi colpiscono moltissime coppie, sembrano tuttora essere costellati da molti pregiudizi che rendono ancora più drammatico il vissuto di chi vive questa dolorosa esperienza. Si tratta di un evento inaspettato, imprevedibile, vissuto come innaturale, che implica un senso di fallimento esistenziale della capacità di conservare e di ‘generare vita’. Il dolore, pertanto, si accompagna ad un senso di vergogna, con notevoli ripercussioni dal punto di vista psicologico e relazionale. Si tende, dunque, a vivere questa esperienza in solitudine proprio per questo senso di inadeguatezza che caratterizza soprattutto il vissuto della donna spingendola a mantenere segreto l’evento: la madre, infatti, sente di aver fallito come donna, l’essersi identificata a lungo con lo stato di ‘donna-madre’ modifica la percezione di sé, intaccando la propria identità, alimentando sentimenti di rabbia e frustrazione e, talora, di avversione rivolti al proprio corpo, sperimentato come inutile, uno sterile involucro, sepolcro di vita. Vivere la maternità diventa così un’esperienza totalizzante, un’esigenza prioritaria che costella tutti gli ambiti di vita e senza la quale non si riesce a trovare gratificazione, specie nei casi in cui non si hanno altri figli. Questo rende ancora più difficile e travagliato il percorso di recupero di quella parte di sé che non necessariamente ha diritto di esistere solo se in grado di generare vita.

Il senso di solitudine che caratterizza questa fase è determinato spesso dalla convinzione o sensazione di non essere capiti fino in fondo in questo dolore che, sebbene possa essere comune a molte donne, lo si vive come esclusivo e totalizzante, specie nei casi in cui la donna si imbatte in frasi stereotipate o generalizzazioni poco empatiche che mirano ad incoraggiarla a ‘riprovarci subito’ come se fosse pensabile per una madre, in quel momento, poter sostituire il proprio bambino perso con un altro, trasformandosi così in un confronto sterile e  privo di qualsiasi forma di consolazione.

L’evento di perdita, intensamente vissuto dalla coppia genitoriale come un lutto vero e proprio, risulta pertanto poco condivisibile in quanto poco riconosciuto dalla società, perché si piange un bambino ‘mai conosciuto’ verso il quale nessuno ha maturato ricordi o instaurato alcun tipo di relazione.(Kirkley-Best & Kellner, 1982).

Sebbene l’esperienza possa essere diversa in base anche alla fase in cui avviene la perdita (fase precoce, morte intrauterina o lutto perinatale), l’impatto emotivo è decisamente significativo.

Si parla di sindrome post-aborto che caratterizza il periodo di elaborazione del lutto. Si tratta di una fase più o meno fisiologica in cui possono manifestarsi vari sintomi, sia sul piano fisico che psicologico: alterazione del ritmo sonno/veglia e dell’appetito, mal di testa, palpitazioni cardiache, aumento della pressione sanguigna, problemi dell’apparato digestivo, disfunzioni sessuali, irritabilità, crisi di pianto improvvise, sbalzi d’umore, apatia, depressione e talora pensieri di suicidio. Complici i repentini cambiamenti ormonali che fungono da catalizzatore ad una cascata emotiva che contraddistingue questa delicata fase: l’aumento dei livelli di progesterone e di estrogeni che hanno il compito di preparare e plasmare il corpo della donna per accogliere una nuova vita, viene bruscamente interrotto con notevoli ripercussioni anche sul piano emotivo, amplificando vissuti e sensazioni.

Se questi sintomi tendono a persistere senza trovare una risoluzione nel giro di pochi mesi e l’esperienza luttuosa non viene funzionalmente elaborata, si rischia di incorrere in complicazioni cliniche che possono evolvere in un vero e proprio trauma.

Dal ventre nasce la maternità vissuta, dalla relazione nasce l’esperienza vibrante della paternità

Il periodo della gravidanza è una fase molto delicata ricca di aspettative, ma anche di paure e a volte può essere vissuto con estrema apprensione da parte soprattutto della futura mamma. Aspettare un bambino infatti costituisce un evento evolutivo molto importante nella vita di una donna, un cambiamento radicale in cui avviene il passaggio dall’essere figlia e moglie/compagna all’essere madre. Questo processo intimo, essenzialmente corporeo, è costellato da vissuti di grande entusiasmo e di gratificazione, sperimentati come conferme circa la propria femminilità, ma anche di angosce e preoccupazioni.

Le modificazioni fisiche nel corpo materno fanno sì ché la creatura entri a far parte della vita dei futuri genitori sin da subito, inserendola nella loro quotidianità come fosse già nata, creando una dimensione ricca di fantasie, aspettative e sentimenti nei suoi confronti.

La morbidezza delle curve del corpo che iniziano ad intravedersi oltre alle sensazioni propriocettive di un corpo che muta, preparandosi ad accogliere una nuova vita, influenza lo stato psicologico della donna che inizia a percepirsi ‘madre’. La coppia fantastica sull’aspetto del bambino e su come cambierà la loro vita dopo la sua nascita e questo fa sì che ci si senta già genitori. Questo processo apparentemente graduale inizia per molte coppie, soprattutto per le donne, ancora prima del concepimento, quando cominciano a progettare la possibilità di avere un figlio rendendo ancora più doloroso il momento in cui, in maniera del tutto inaspettata ed imprevedibile, svanisce la magia, perdendo il bambino.

La quota di dolore per la perdita subita sembra essere proporzionale ai tempi d’attesa della gravidanza ed al desiderio di avere un figlio: tanto più la gravidanza è desiderata ed è stato difficile ottenerla, tanto più il legame con il futuro bambino sarà forte e pertanto difficile da lasciar andare. Vi sono gravidanze che durano anni di attese, di speranze e di disperazione e nel momento in cui arrivano sembrano essere frutto di una Provvidenza che generosamente benedice la coppia con i suoi frutti. Esserne deprivate in modo repentino, inaspettato, sembra quasi un ‘furto’: una parte di sé che viene ‘strappata’ con un’inaudita violenza, troppo dolorosa e difficile da comprendere e soprattutto da accettare. Ci si sente colpiti nel profondo da una ‘Natura matrigna’ insensibile al dolore, che dispettosamente si diverte ad elargire la sua benevolenza ad alcune donne e a privarne altre. Questo suscita un sentimento di profonda invidia verso tutte quelle donne che hanno la fortuna o il privilegio di diventare madri.

Poiché il bambino viene percepito come parte di sé, la madre sente che viene privata di quella parte lasciando un vuoto incolmabile. Questo senso di vuoto, descritto da molte donne dopo l’aborto, narra di un nido vuoto, di una dimora abbandonata troppo presto che le getta nella disperazione, un dolore sconfinato che a volte le travolge per l’incapacità di staccarsi da un’esperienza che si è conclusa bruscamente.

Un dolore che scava nel profondo e dal quale, a volte, risulta difficile riemergere. Quando il progetto di vita cade in frantumi, con esso si sgretola una parte del sé che nella fragilità non trova appigli per sopravvivere, sprofondando così in uno stato di depressione. Per queste donne risulta difficile inscrivere quanto accaduto in un normale percorso di vita e ritrovare una progettualità futura. Continuano a rimuginare su quanto accaduto facendosi divorare dal senso di colpa per non essere riuscite a proteggere e a preservare a tutti i costi la vita del proprio bambino, spingendole alla ricerca ossessiva di spiegazioni e di possibili cause che possano aver determinato l’accaduto. Lo sconforto nel non trovare risposte, sia dal punto di vista medico che psicologico, le getta nella disperazione portandole ad attribuirsi responsabilità che di fatto non appartengono loro, alimentando paure e stati d’ansia. Restano incastrate pertanto in un’esperienza che sembra non concludersi mai.

Elaborare questa perdita diventa un percorso tortuoso che non riguarda esclusivamente la donna, ma la coppia genitoriale, anche se il dolore assume sembianze e proporzioni differenti nei due membri.

Il dolore della donna è un dolore viscerale, inciso nel proprio corpo, che conserva memoria della perdita subita. L’emorragia e le contrazioni uterine sono i sintomi che segnalano una possibile minaccia, campanelli d’allarme che inducono a pensare che si sta perdendo il bambino. La consapevolezza di non avere alcun controllo su ciò che sta accadendo al proprio corpo, insieme alla paura e al desiderio di voler trattenere la vita che si sente scivolare via, genera una profonda angoscia che può portare a stati d’ansia o ad un vero e proprio attacco di panico.

Al contrario, il dolore dell’uomo sembra essere relegato nello sfondo. Generalmente, infatti, si tende a pensare che l’uomo non soffra come la donna perché il dolore non appartiene al proprio corpo e viene tacitamente investito del ruolo di sostenere la partner nella gestione della sua sofferenza, poiché la si considera la parte più colpita. Il dolore della figura paterna tende ad essere poco riconosciuto e supportato, anzi spesso viene svalutato a causa dei pregiudizi che tuttora resistono nella nostra società, etichettando la sofferenza maschile come segno di debolezza, che inducono ad evitare qualsiasi sua manifestazione. Sebbene il dolore maschile sembri appartenere ad una sfera più cognitiva, non per questo è meno degno di essere vissuto. Anch’egli può essere profondamente addolorato per la perdita del figlio, anche in lui erano già emersi desideri ed aspettative circa il proprio stato di padre: egli vive ed accompagna la futura mamma in quel percorso meraviglioso che porta ad una nuova vita, con lei condivide sogni e desideri, ansie e preoccupazioni; attraverso di lei avverte vibrazioni, sensazioni ed emozioni che nell’intercorporità circolano spontaneamente e conducono all’emergere di quella paternità che non è solo un ruolo pensato cognitivamente, ma un vissuto corporeo e relazionale.

Il coinvolgimento emotivo, la relazione che si instaura tra i due partner e quella con il nascituro rafforza pertanto quel legame che consente al padre di viversi e sentirsi padre, un processo che avrà il suo acme nel momento in cui potrà ‘finalmente’ tenere tra le braccia il proprio bambino. Un’esperienza di contatto unica ed irripetibile, stroncata dalla perdita.

Ogni bambino merita di essere ricordato

Ogni madre sente il bisogno di ricordare il proprio bambino perso, sente che non può essere cancellato come se non fosse mai esistito; non solo c’è stato, seppur per un breve periodo dimorando nel suo grembo, ma ne ha lasciato anche traccia nel corpo e nella mente. Ogni nuova vita che sboccia è unica ed irripetibile, è preziosa nella sua essenza e genera gioia e speranza e per questo merita di essere ricordata.

Se tale bisogno non viene accolto ed ascoltato rischia di influire negativamente su una possibile futura gravidanza.

Non sempre la perdita è vissuta con consapevolezza. Vi sono casi in cui la donna, per non sentire la delusione, il dolore, si proietta immediatamente alla ricerca di una nuova gravidanza con un’ostinazione tale da non concederle il tempo di elaborare la perdita appena subita. Più tempo intercorre tra una gravidanza e l’altra, più la frustrazione aumenta per non essere riuscita nella realizzazione del suo progetto di vita. Nei casi in cui, invece, la gravidanza avviene immediatamente dopo l’aborto, se non vi è stata una piena elaborazione del lutto, si rischia di non instaurare il giusto legame con il bambino in arrivo, il quale non viene visto ed accolto nella sua unicità, ma sostituito con quello morto che, invece, viene idealizzato, investendolo di quelle aspettative di perfezione che non consentono di vederlo com’è realmente. Questa idealizzazione porterebbe ad una relazione disfunzionale in cui il bambino nato non sarebbe mai all’altezza del precedente, crescendo così svalutato agli occhi del genitore. In questi casi si parla di Sindrome del sopravvissuto (o PASS).

Il senso di prostrazione e di inadeguatezza è ancora più spiccato nei casi di poliabortività, cioè casi in cui si sono verificati più aborti consecutivi, lasciando le braccia vuote ed il cuore ferito. In questi casi la donna vive una profonda angoscia e disperazione che non riesce a placare per l’impossibilità di trovare soluzioni concrete o cause concomitanti e questo genera ancora maggiore sgomento e sofferenza.

L’aborto, infatti, in molti casi, resta un mistero della natura che gli specialisti spesso faticano ad inquadrare entro categorie diagnostiche, limitandosi ad inserirlo in casistiche di dati.

Purtroppo oggi i casi sono in forte aumento, correlato anche all’età in cui le coppie decidono di avere figli. Come tutte le cose inspiegate, resta contornato da un alone di mistero e questo fa sì che si alimentino idee, sensazioni e pregiudizi. Tenere presente che in ogni gravidanza vi è insito il rischio del 15% di evolvere in esito negativo dovrebbe ridimensionarne l’impatto, ma poiché l’essere umano è per natura un essere relazionale questo lo rende di fatti difficile da accettare.

Il sostegno psicologico: donare legittimità al dolore

Quando si parla di aborto spontaneo è importante tener presente lo sfondo personale relazionale della ‘madre’ per poter inserire l’evento nel ciclo di vita e comprenderne il significato intimo. Ogni gravidanza, infatti, indipendentemente dalla sua durata e dal suo esito, è intrisa di significati che appartengono alla storia di vita non solo della donna, ma anche della futura coppia genitoriale e, dunque, ha una sua funzione. Da questo dipende la capacità di elaborare l’esperienza, legata al proprio modo caratteristico di affrontare situazioni fortemente stressanti

Per questo è molto importante che chi vive questa drammatica esperienza possa trovare il giusto sostegno affinché non si senta smarrito in un dolore indicibile.

Spesso è un dolore composto, discreto, ma difficile da raccontare: non si trovano parole in grado di descriverne le sensazioni e le risonanze, vissuto in solitudine nella speranza che prima o poi possa attenuarsi la sua forza impetuosa. Altre volte è un dolore dirompente che si fatica ad arginare rischiando di travolgere qualsiasi ambito della propria vita. In questi casi si sente l’impellenza di parlarne per cercare di placare l’angoscia che sembra divorare l’anima. All’esterno arriva ‘troppo’, un eccesso, un senso di esagerata sofferenza che, se decontestualizzata, appare incomprensibile.

La tormentata ricerca di senso logora l’anima impedendo di vedere la novità ed aprirsi ad altre possibilità.

L’elaborazione della perdita è un lutto vero e proprio e come tale va vissuto ed elaborato.

Compito dello psicoterapeuta è proprio quello di favorire la possibilità di attraversare questo dolore accompagnando la paziente in questo travagliato percorso, offrendo un grembo ad una sofferenza altrimenti insostenibile, un luogo dove poter sostare, un tempo in cui potersi raccontare nelle infinite sfumature, senza cadere in frantumi. Poterlo raccontare e consegnare totalmente senza remore, nella certezza che varrà accolto e compreso nella sua essenza, favorirà l’emergere di nuove consapevolezze.

Poter contattare la sofferenza in tutte le sue declinazioni, esplorare le proprie emozioni anche le più intense e travolgenti, apre un varco a quelle parti del Sé a volte sconosciute o rinnegate, rimettendo in discussione tutto ciò che si pensava essere scontato.

L’imprevedibilità come un’onda inarrestabile scuote le fondamenta, lasciando emergere la vulnerabilità che in alcuni casi può apparire intollerabile ed insostenibile.

In quest’altalena di vissuti e di sensazioni si dipana la drammaticità di un’esperienza che cerca un completamento.

Il terapeuta diventa così strumento di contatto, un ponte con la vita che nella freschezza della relazione sostiene la paziente nella rilettura dell’esperienza vissuta, favorendone l’integrazione nella sua storia di vita. Ripulire il dolore da tutti quei significati ‘altri’ attribuitigli e collocarlo nella propria trama relazionale, le consentirà di ridefinire la propria identità di ‘donna’ e di ricontattare quelle parti del corpo assopite, denigrate per non aver adempito al proprio compito e che richiamano quella femminilità umiliata per poterle integrare con le parti disabitate di una maternità troncata. Una riconciliazione piena con sé stessa e con la vita.

Dare legittimità al proprio dolore in tutte le sue sfaccettature consente di riprendere il normale fluire della vita con la consapevolezza di un’esperienza vissuta pienamente anche se nella sua tragicità, ma elaborata ed integrata nella propria identità.

Vivere questo dolore come un evento naturale, fisiologico, che fa parte del ciclo vitale anche se interrompe quel processo esistenziale che apparentemente sembra costitutivo ed appartenere a tutte le donne, ma in realtà scoprire non essere così scontato ed immediato, permette di inserire l’evento nel naturale percorso di vita e, anche se a tratti può sconvolgere, non deve lasciare smarriti nel limbo della sofferenza. Una forza propulsiva che spinge a guardare avanti fiduciosi, accompagnandoci nel misterioso cammino di vita.

Un dolore fertile che come le doglie del parto genera vita, che restituisce amore, tutto quell’amore che si sarebbe voluto donare in maniera incondizionata a quel bambino mai nato.

Un grembo fecondo è fonte sorgiva di amore, di speranza, di calore che ha partorito dal dolore una nuova vitalità che attraversa e che senti scorrere nelle vene.

Il sostegno alla coppia: le lacrime che non ti ho detto

Un aborto precoce oltre a mandare in crisi il normale funzionamento psicologico di una persona può intaccare la relazione di coppia.

Alcune coppie, infatti, non riescono a superare questo dolore, che sembra insinuarsi nella relazione in modo insidioso a tal punto da creare una frattura. I partners sentono la difficoltà di comunicare e condividere i propri vissuti, alimentando una distanza che con il tempo diventa insormontabile. Non riuscire a consegnare il proprio dolore all’altro, fa sprofondare in uno stato di solitudine e di incomprensione, alimentato spesso dall’aspettativa di essere capiti e forse, letti dentro, dall’altro senza bisogno delle parole. La solidità del legame è ciò che rende possibile l’attraversamento di questa tempesta: se la relazione poggia su basi solide allora è probabile perdersi un po’ in questo marasma di sensazioni e di incomprensioni per poi ritrovarsi più uniti di prima. In altri casi è possibile che la crisi crei una vera e propria frattura all’interno della coppia difficilmente risanabile.

Intraprendere un percorso di psicoterapia di coppia può agevolare la comunicazione e la condivisione e recuperare quella dimensione relazionale coniugale bloccata o confusa con la dimensione genitoriale.

Lo psicoterapeuta, pertanto, favorisce l’emergere dei vissuti di ciascun membro della coppia e la possibilità di poterli comunicare all’altro senza il timore di essere fraintesi o giudicati: poter piangere il proprio bambino insieme, dirsi tutto il dolore per quello che si è perduto, per i sogni infranti, le speranze disattese, poter versare tutte le lacrime nella certezza che verranno accolte dall’altro, consente di recuperare quell’intimità che si era interrotta. Il terapeuta offre, dunque, uno spazio in cui possono emergere tutte quelle parole non dette che stanno sullo sfondo e che, giorno dopo giorno, accrescono conflittualità e rancori, in cui ognuno si riappropria di quella parte che attribuisce all’altro, ridimensionando le aspettative e, con umiltà, si accosta al suo dolore riconoscendone la legittimità.

La condivisione nella spontaneità allevia quel senso di solitudine rimettendo in circolo energie nuove, apre prospettive e desideri, ridona speranza e fiducia, nella consapevolezza di navigare in mare aperto, ma con l’audacia dell’esploratore e la certezza di una presenza che consola e sostiene.

 

Adolescenti con gravi disturbi di personalità: la psicoterapia focalizzata sul transfert – Recensione

“Adolescenti con gravi disturbi di personalità: la psicoterapia focalizzata sul transfert” è un volume scritto dai massimi esperti della psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP), i quali, tramite questo testo, confidano di trasmettere l’idea di ciò che si può ottenere proprio grazie alla TFP, in particolare con quella adattata agli adolescenti (TFP-A) con disturbi di personalità.

 

 Il volume è diviso in tre parti: la prima si apre con una panoramica su cosa sia la psicopatologia mettendola a confronto con i modelli di sviluppo normale, per poi dedicare gran parte delle parole a descrivere il periodo adolescenziale e l’esordio o meno di un disturbo di personalità in tale fase, tutto secondo una prospettiva psicodinamica.

Paulina Kernberg, pioniera di importanti studi sullo sviluppo dei disturbi della personalità, viene spesso citata dagli autori per aver identificato una costellazione di sintomi che sembra indicare un possibile sviluppo di un disturbo di personalità negli adolescenti così da portare a far riflettere gli esperi del settore sul fatto che la diagnosi di, ad esempio, un disturbo borderline di personalità possa già venir considerata in questa giovanissima fascia d’età.

Per avvalorare tale ipotesi, gli autori prendono subito in considerazione i fattori di rischio genetici (la plasticità biologica ereditaria di certi geni che interagiscono con eventi positivi o negativi), temperamentali (affettività negativa, reattività allo stress, impulsività) ed ambientali-esperienziali (le modalità con cui i genitori interagiscono con il bambino) evidenziando come, in diversi casi, sia possibile già dalla fanciullezza, se non dalla prima infanzia, notare tali aspetti predittivi di un futuro BPD. La fase adolescenziale viene descritta come un periodo già di per sé critico e di transizione dove avvengono significativi cambiamenti strutturali a livello mentale e fisico, un trascurato BPD in questa parte di vita potrebbe aumentare il rischio di prognosi più nefaste, di conseguenza gli autori invitano più volte gli esperti a tener conto del tempismo di intervento.

La seconda parte è dedicata al narrare gli obiettivi, le strategie, la valutazione clinica, la cornice terapeutica, la collaborazione con i genitori, le tecniche e tattiche del sopra citato approccio terapeutico.

Uno degli scopi principali della TFP-A è promuovere l’integrazione dell’identità così da ottenere un’esperienza del sé e degli altri coerente, realistica e stabile da poter affrontare le sfide evolutive.

 La TFP-A ha delle fasi di processo di assessment molto precise per definire, fin dal primo incontro, il ruolo di ciascun partecipante nel trattamento vero e proprio. Inoltre, lavorando con degli adolescenti è necessario creare una cornice all’interno della quale il giovane paziente sappia assumersi le sue responsabilità, sappia dedicarsi a compiti evolutivi appropriati e comportamenti adattivi. È importante che il ragazzo capisca che ruolo ricopre, sia incoraggiato a partecipare attivamente e si senta al sicuro; una buona alleanza terapeutica è sempre la base di partenza per un percorso di terapia. I metodi con cui il terapeuta comunica e affronta ciò che accade con l’adolescente nel “qui ed ora” di una seduta sono definite tecniche e, quelle descritte dagli autori, sono: la chiarificazione, la confrontazione, l’interpretazione, l’uso delle informazioni provenienti da transfert e controtransfert e la neutralità tecnica. Oltre a quest’ultime, gli esperti che lavorano con la TFP-A ricorrono a delle tattiche volte soprattutto ad affrontare le difficoltà urgenti che possono minacciare la sicurezza fisica o la sopravvivenza dell’adolescente e la prima tra tutte è proprio lo stabilire un contratto terapeutico con il/la paziente e i suoi genitori. Molto utilizzate sono anche il mantenimento dell’uso delle libere associazioni da parte dell’adolescente, l’identificazione di un tema prioritario e delle sfide evolutive e la concentrazione su di essi in seduta, la selezione del materiale da interpretare e, infine, la gestione delle resistenze e delle reazioni terapeutiche negative. Vista l’importanza che hanno le figure genitoriali durante tale percorso, gli autori suggeriscono alcune tattiche più specifiche che riguardano anche quest’ultimi come la gestione della riservatezza o l’affrontare il senso di colpa che possono aver sviluppato.

La terza ed ultima parte del volume si concentra sulle fasi del trattamento dopo aver delineato i processi e le applicazioni della terapia. La prima fase è quella preparatoria dove si definisce la cornice per il trattamento, si instaura un rapporto di collaborazione con i genitori e un’alleanza terapeutica con l’adolescente oltre che lavorare con gli acting out e affrontare le resistenze ed i possibili traumi emersi; la seconda viene definita centrale e si focalizza sul transfert, le rappresentazioni scisse, gli affetti negativi e alcuni aspetti di personalità; infine c’è la fase definita avanzata o conclusiva che si dedica allo sviluppo di nuove capacità autoriflessive, ad un aumento di consapevolezza e consolidazione della struttura di personalità. Ognuna di queste fasi dev’essere stata adeguatamente rispettata e gestita per portare avanti al meglio un trattamento.

L’obiettivo finale del terapeuta che lavora con questo approccio è proprio quello di promuovere un’integrazione dell’io sufficiente a consentire all’adolescente di procedere con le sue stesse risorse e, con tale volume, gli autori hanno cercato di incoraggiare i clinici ad utilizzare l’approccio delle relazioni oggettuali centrato sul transfert per aiutare gli adolescenti affetti da disturbi della personalità.

 

I benefici della mindfulness per la coppia

Erkan e colleghi (2021) hanno condotto una ricerca qualitativa per indagare gli effetti emotivi, cognitivi e sessuali nelle coppie in cui uno dei due partner pratica mindfulness quotidianamente

 

È stato chiesto se venissero percepiti degli effetti particolari negli ambiti emotivi, cognitivi e sessuali, e come questi effetti si riflettono sul partner e sulla relazione.

La pratica della mindfulness e i suoi benefici

 La mindfulness è descritta come uno stato di consapevolezza che emerge attraverso un’attenzione focalizzata sullo scopo e sul momento presente, mentre viene mantenuto un atteggiamento non giudicante (Erkan et al., 2021). Sembra che la mindfulness abbia un impatto fortemente positivo su molti aspetti della vita di un individuo, come la salute fisica, la salute mentale e la capacità di regolare le emozioni. Sembra inoltre che possa giocare anche un ruolo importante nel migliorare la qualità di una relazione sentimentale. Gli studi condotti finora sull’impatto che ha la mindfulness nelle relazioni sentimentali suggeriscono di approfondire i meccanismi relazionali che possono trarre beneficio dall’utilizzo di tale pratica, come la consapevolezza e la comprensione verso la prospettiva del partner.

La mindfulness come pratica per regolare le emozioni

La regolazione delle emozioni può essere descritta come il processo attraverso il quale un individuo influenza il proprio modo di vivere le emozioni, imparando come gestirle quando le vive e capendo come esprimerle nel modo più adeguato per lui e per il contesto (Erkan et al., 2021). La regolazione delle emozioni viene considerata una skill intrapersonale e si acquisisce gradualmente nei contesti relazionali. È un processo che ha inizio quando l’individuo è in età evolutiva, il suo cervello viene fisicamente alterato dalle relazioni con gli altri, creando nuove connessioni neurali. Questo processo comincia proprio con la relazione con le prime figure di riferimento che l’individuo incontra, ovvero i genitori o, più in generale, i caregiver.

Tra i fattori che contribuiscono a “costruire” il cervello umano e le sue interazioni con il mondo, la mindfulness può essere sicuramente un fattore di modellamento importante. È stato osservato, infatti, che la mindfulness può avere un impatto notevole sullo sviluppo della regione limbica e delle regioni corticali del cervello (Erkan et al., 2021). È stato ipotizzato che la pratica della meditazione possa condurre a un rafforzamento sinaptico nelle aree prefrontali del cervello. Questa ipotesi è stata in seguito supportata da numerose ricerche che, mediante l’utilizzo di strumenti adeguati come la risonanza magnetica, hanno osservato dei cambiamenti anatomici nel cervello di coloro che praticano la meditazione, come lo sviluppo di nuove connessioni neurali.

 Ciò che viene proposto dalla mindfulness, ovvero una consapevolezza attiva e non giudicante, favorisce nell’individuo una visione del mondo più flessibile, diminuendo il rischio di distorsioni della realtà e interpretazioni errate di essa. Inoltre, l’aspetto di compassione e accettazione, che è parte integrante della mindfulness, può avere un effetto positivo sulla qualità relazionale, in quanto l’individuo diventa più consapevole e capace di gestire le proprie emozioni.

Gli effetti della mindfulness sulla qualità relazionale

La ricerca clinica sulle potenzialità della mindfulness si è sempre concentrata sull’esperienza individuale, solo nell’ultimo decennio è cresciuto l’interesse per le possibili applicazioni nel campo della relazione di coppia e nel contesto familiare (Erkan et al., 2021). Sebbene la ricerca empirica sugli effetti della mindfulness sia ancora in una fase iniziale, alcuni studi hanno dimostrato una possibile correlazione tra gli aspetti meditativi della mindfulness e un incremento della qualità relazionale.

Erkan e colleghi (2021) hanno condotto una ricerca qualitativa per indagare come può essere, per un individuo che pratica mindfulness quotidianamente, l’esperienza di una relazione romantica con un partner che non pratica regolarmente la meditazione (Erkan et al., 2021). È stato chiesto se venissero percepiti degli effetti particolari negli ambiti emotivi, cognitivi e sessuali, e come questi effetti si riflettono sul partner e sulla relazione. Mediante l’utilizzo di un’intervista semi-strutturata, sono state indagate e approfondite le prospettive di dieci coppie di partecipanti, nelle quali almeno un membro era un praticante attivo di mindfulness. I risultati ottenuti sono stati interessanti. Infatti, le coppie hanno riportato come nell’interazione tra i partner ci sia molto ascolto e molta comunicazione, e che nei conflitti vengono usate delle strategie di regolazione emotiva funzionali per la gestione della rabbia, oltre ad un atteggiamento di compassione, al focus mentale sul momento presente e all’accettazione delle emozioni del partner, tutti elementi fondamentali nella prospettiva mindfulness.

Sembra quindi che l’utilizzo della mindfulness possa giovare alla coppia che presenta problematiche che comprendono una regolazione delle emozioni poco efficace o difficoltà nella comunicazione. (Erkan et al., 2021). Sebbene la ricerca sui suoi benefici in campo familiare e di coppia sia solo all’inizio, sembra che i vantaggi acquisiti dal singolo influenzino positivamente anche la qualità della relazione.

 

Come funzionano i servizi di assistenza psicologica nel Servizio Sanitario Nazionale italiano? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 6

Questo numero nasce dall’esigenza di contestualizzare il progetto della Consensus Conference all’interno del territorio italiano dal punto di vista sanitario. Trattandosi di disturbi mentali, è opportuno inquadrare sinteticamente l’organizzazione dei servizi di assistenza psicologica nel Servizio Sanitario Nazionale. Viene dunque ripercorsa la sua istituzione e illustrati i princìpi e gli aspetti salienti.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 6) Come funzionano i servizi di assistenza psicologica nel Servizio Sanitario Nazionale italiano?

 

Il Servizio Sanitario Nazionale

 Il welfare pubblico e i sistemi sanitari sono motivo di pregio internazionale per l’Italia, che possiede una lunga tradizione in questi settori (ISS, 2022; Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017). Tale pregio deriva dai princìpi che determinano l’esistenza del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Il SSN si concretizza con la legge n.833 del 23 dicembre 1978, che attua i principi dell’art. 32 della Costituzione, il quale sancisce l’impegno della Repubblica nella tutela della salute come diritto fondamentale di tutti i cittadini (Ministero della Salute, 2019). Nello specifico, l’art.32 (Costituzione, 1948) recita come segue:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. 

Stando a quanto riportato nell’Art.1 della legge n. 833/78, la Repubblica si preoccupa di tutelare la salute fisica e psichica del cittadino “mediante il servizio sanitario nazionale”.

Pertanto, il SSN si configura come un insieme di strutture e servizi con la mission di garantire egualmente a tutti i cittadini l’accesso universale alle prestazioni sanitarie. Il fine ultimo delle prestazioni sanitarie erogate dai servizi di cura che convogliano nel SSN è quello di provvedere “alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione” (Art.1, L. n.833/78).

I princìpi fondamentali del SSN

Il valore del Servizio Sanitario Nazionale italiano, come anticipato, è dovuto alla sua gestione pubblica diretta e ai princìpi che definiscono la sua essenza, che dunque lo distinguono positivamente dall’organizzazione delle cure in altri Paesi (ad es., Stati Uniti, Nigeria).

I princìpi fondanti il SSN dalla L. n.833/78 sono: l’universalità, l’uguaglianza e l’equità (Ministero della Salute, 2019).

L’universalità implica, come anticipato, la possibilità per tutta la popolazione di accedere gratuitamente a tutte le prestazioni sanitarie di promozione, mantenimento e recupero della salute fisica e psichica. Questo aspetto risulta coerente con l’innovativa concezione di salute introdotta dalla medesima L. n.833/78, secondo la quale viene intesa soprattutto come una risorsa della collettività e non solo come bene del singolo individuo. Tale accessibilità universale è consentita dall’organizzazione territoriale capillare che include Aziende Sanitarie Locali (ASL), aziende ospedaliere e strutture private convenzionate con il SSN.

L’uguaglianza stabilisce che l’accesso alle prestazione mediche dei cittadini deve accadere senza alcuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche.

L’equità fa riferimento alla parità di accesso di tutta la popolazione in rapporto a uguali bisogni di salute, al fine di superare le diseguaglianze di accesso dei cittadini alle prestazioni sanitarie. Per il raggiungimento di tale obiettivo è necessario fornire un servizio trasparente in termini di comunicazione in merito alla prestazione necessaria per l’individuo, che deve essere adeguata al suo grado di istruzione e comprensione.

I princìpi organizzativi del SSN

Sono stati stabiliti anche dei principi organizzativi sui quali si basa la programmazione sanitaria; quelli maggiormente rilevanti sono riportati di seguito (Ministero della Salute, 2019).

  • Centralità della persona. Una serie di diritti dei cittadini, resi possibili da doveri attribuiti a tutti gli operatori sanitari, come: la libertà di scelta del luogo di cura; il diritto a essere informato sulla malattia e sulla terapia e la possibilità di opporsi; il diritto alla riservatezza; il dovere da parte di coloro che si occupano della programmazione sanitaria di anteporre, compatibilmente alle risorse economiche disponibili, la tutela della salute dei cittadini a tutte le scelte.
  • Responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute. In materia di tutela della salute, la Costituzione ripartisce le competenze legislative tra lo Stato e le Regioni (Titolo V, art.117, comma 2, lett. M). In pratica, lo Stato determina i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; le Regioni programmano e gestiscono in piena autonomia la sanità nel territorio di loro competenza, avvalendosi delle aziende sanitarie locali (ASL) e delle aziende ospedaliere.
  • Collaborazione tra i livelli di governo del SSN. Per garantire condizione di salute uniformi e adeguate a tutti i cittadini, è indispensabile la collaborazione tra Stato, Regioni, Aziende e Comuni, nei rispettivi ambiti di competenze.
  • Valorizzazione della professionalità degli operatori sanitari. Determinante ai fini della qualità e dell’appropriatezza delle prestazioni sanitarie è la professionalità degli operatori, in termini tecnici e di interazione con pazienti e colleghi di équipe.

I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA)

I LEA sono tutte le attività, le prestazioni e i servizi sanitari che il SSN fornisce ai cittadini, gratuitamente o in compartecipazione (quindi attraverso il pagamento di un ticket). Tali servizi essenziali sono garantiti grazie alle risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (ovvero le tasse; Ministro della Salute, 2019).

 I LEA rappresentano, dunque, i livelli essenziali di assistenza sanitaria che corrispondono alle attività che la società considera innegabili alla popolazione, in relazione al livello sociale e culturale corrente (Consiglio Nazionale Ordini Psicologi [CNOP]; 2017). Pertanto, necessitano di aggiornamenti periodici in base alle esigenze della società e all’evoluzione scientifica e tecnologica. Le prestazioni sanitarie comprese nei LEA devono essere offerte in ogni regione e a tutti i cittadini senza differenze di reddito, posizione geografica, religione, etnia, sesso o altro.

I LEA sono stati definiti per la prima volta nel DPCM n.33 del 29 novembre 2001, successivamente sostituito integralmente dal DPCM n.65/2017. Dunque, sono stati individuati tre macro-livelli essenziali di assistenza.

  • Prevenzione collettiva e sanità pubblica. Comprende attività di prevenzione in senso ampio, dall’evitamento dell’insorgenza di particolari malattie, al miglioramento della condizione di salute della popolazione generale (ad es., controllo malattie infettive, sicurezza alimentare).
  • Assistenza distrettuale. Include tutte le prestazioni sanitarie diffuse sul territorio erogate al di fuori degli ospedali, come prestazioni domiciliari, ambulatoriali, semiresidenziali, centri diurni (ovvero senza pernottamento) e residenziali (ossia con pernottamento come le RSA).
  • Assistenza ospedaliera. Attività erogate dagli ospedali in ricovero ordinario, in day hospital od ospedalizzazione domiciliare (ad es., pronto soccorso, attività trasfusionali, trapianti).

Gli interventi inclusi nei LEA devono essere di efficacia dimostrata e devono poter garantire una misura di esito, in modo da poter essere monitorati e valutati per garantire la qualità delle prestazioni erogate dai professionisti del SSN in termini di efficacia ed efficienza (Ministero della Salute, 2019). Per questi motivi, sono stati preposti la Commissione nazionale per l’aggiornamento dei LEA e la promozione dell’appropriatezza nel SSN, garante del continuo aggiornamento di procedure scientificamente valide, e il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA (Comitato LEA), che si occupa di verificare l’appropriatezza e l’efficienza dei LEA erogati, e se questi risultano congrui rispetto alle risorse disposte dal SSN nelle varie regioni.

Il ruolo della psicologia nei LEA

Con la Legge n.3/2018, la professione dello psicologo è stata inclusa tra le professioni sanitarie. Dunque, viene riconosciuta la rilevanza degli aspetti psicologici rispetto al concetto di salute. Infatti, la psicologia è una disciplina che “permea trasversalmente l’intera attività sanitaria” (CNOP, 2017; p.13), poiché per sua natura è significativamente implicata nei processi di promozione della salute.

Nel documento di aggiornamento dei LEA del 2017 (DPCM n.65/2017), l’assistenza psicologica vede le sue attività professionali presenti su più livelli, soprattutto quello territoriale, ma anche trasversalmente ai livelli stessi. Alcuni esempi di attività assistenziali riguardano: la cura di persone con disturbi mentali, dei minori con disturbi neuropsichiatrici, delle persone con disabilità o dipendenze patologiche; l’assistenza socio-sanitaria alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie; l’assistenza ambulatoriale per le donne in stato di gravidanza e la tutela della maternità; l’assistenza residenziale extra-ospedaliera ad elevato impegno sanitario (ovvero la cura delle persone che presentano un alto livello di complessità e instabilità clinica e necessitano di pronta disponibilità medica 24h).

In sintesi

In conclusione, la Repubblica, nel 1978, istituisce il Sistema Sanitario Nazionale, fondato su specifici e pregevoli principi, che garantisce l’accesso alle cure gratuito, o dietro pagamento di una quota (ticket), a tutti i cittadini senza discriminazioni di nessun tipo (Ministero della Salute, 2019; CNOP, 2017). Lo Stato stabilisce i Livelli Essenziali di Assistenza, in cui è contemplata anche l’assistenza psicologica, e rimette alle Regioni la loro attuazione sui propri territori di competenza. Rispetto alla psicologia, l’aspetto importante che i LEA evidenziano è l’elevata valenza sociale, utile per una adeguata integrazione tra le attività sanitarie e quelle sociali. Per concretizzare i LEA le Regioni ricevono finanziamenti dallo Stato, reperiti dalla tassazione generale dei cittadini. Tuttavia, le Regioni possono anche andare oltre il livello dei LEA nazionali, con risorse aggiuntive proprie e garantire così dei livelli aggiuntivi di assistenza. Tale azione è consentita dall’autonomia organizzativa e amministrativa (contabile, gestionale e tecnica) di cui godono le ASL, che sono dunque gli enti preposti a disporre l’offerta sanitaria specifica per il proprio ambito territoriale, conformandola alle caratteristiche della porzione di popolazione a cui si rivolge. Sebbene il mandato delle Regione sia organizzare in autonomia l’erogazione delle cure, lo Stato ha istituito nel tempo Comitati e Commissioni per monitorare la qualità dei servizi erogati e la conformità di quanto offerto con il dettato costituzionale.

Rispetto alla psicologia, l’aspetto importante che i LEA evidenziano è la sua elevata valenza sociale, utile per una adeguata integrazione tra le attività sanitarie e quelle sociali (CNOP, 2017).

Sul piano dell’assistenza psicologica, data la frammentazione regionale che si viene a creare con questo sistema, è estremamente eterogenea, in termini di modelli organizzativi e attività locali dei servizi. Inoltre, risultano variegate le tipologie e la numerosità delle prestazioni erogate, così come i criteri per la fruibilità delle stesse. Il CNOP (2017) sottolinea l’importanza della presenza di figure psicologiche strutturate per lo svolgimento delle attività socio-sanitarie e una maggiore attenzione nel definire le modalità operative per integrare adeguatamente i servizi socio-sanitari.

“Escapismo”: osservazioni sul desiderio di fuga dalla realtà

L‘escapismo basato sulla causa indica una tendenza a evadere e/o evitare elementi reali negativi della vita dell’individuo (per esempio, routine stressanti, compiti di vita che causano sofferenza e stress), mentre l’escapismo basato sull’effetto sembra essere guidato dal desiderio di mettere in atto il comportamento stesso per ricercare piacere.

 

L’escapismo

“Chi non ha mai desiderato, almeno ogni tanto, di scappare? Ma da cosa e verso dove? Una volta che siamo arrivati nel “good place”, finisce il nostro desiderio di scappare? Quello che sembra essere certo è che tutti sentono l’impulso di essere da qualche altra parte in momenti di stress e incertezza” (Tuan, 2000, p. XI).

Il dizionario Garzanti della lingua italiana definisce “l’escapismo” come “una tendenza ad evadere da problemi o situazioni sgradevoli, rifugiandosi nell’immaginazione, nel disimpegno, nel divertimento e/o qualsiasi comportamento improntato a tale tendenza” (Garzanti, 1987). Stando a questa definizione un individuo che, ad esempio dopo un licenziamento o per la routine giornaliera troppo stressante, oppure un adolescente bocciato a scuola o intrappolato in un sentimento di insoddisfazione per gli amici che frequenta, decide di cominciare ad affrontare tali situazioni “scappando” da esse e “rifugiandosi” nel guardare la TV, nel gioco online e offline, in letture di libri o mind wandering, sta appunto mettendo in atto un comportamento di escapismo.

Si tratta di un costrutto fortemente dibattuto, che assume forme simili ma sfumature diverse in base alla lente con la quale lo si vuole indagare. Dalla tendenza a mascherarsi e assentarsi dalla realtà in psicologia filosofica, si trasforma in una tendenza comportamentale attuata in base a caratteristiche personologiche peculiari (per esempio, nevroticismo) nella psicologia della personalità. Diventa poi un buon predittore di comportamenti di dipendenza, fino a svolgere un ruolo per qualcuno persino fondamentale nel promuovere l’immersione in ambienti digitali, se lo si guarda con la lente della psicologia digitale e dei videogames (Puiras et al., 2020; Woody, 2018; Reid et al., 2011).

L’esperto di pratiche di gioco online Harald Warmelink, con l’aiuto di alcuni colleghi, aveva tentato di ampliare il concetto di escapismo, classificandolo in base alla motivazione sottostante l’attuazione di tale comportamento. Emersero, dunque, due tipologie di evasione dal mondo reale: “basato sulla causa” o “basato sull’effetto” (Warmelink et al., 2009). La prima declinazione indica una tendenza a evadere e/o evitare elementi reali negativi della vita dell’individuo (per esempio, routine stressanti, compiti di vita che causano sofferenza e stress), mentre “l’escapismo basato sull’effetto” sembra essere guidato dal desiderio di mettere in atto il comportamento stesso per ricercare piacere o esperire realtà alternative (Warmelink et al., 2009). Per figurarlo meglio, secondo Warmelink e colleghi, ad esempio, un ragazzo che gioca a Fortnite per gestire l’ansia generata dal fatto di avere pochi amici a scuola o essere stato escluso, sta attuando una forma di evasione dalla realtà “basata sulla causa”; invece, un adolescente che decide di giocare al medesimo gioco per allenare le sue abilità a sparare o perché la storia del videogioco è particolarmente accattivante, sta mettendo in atto un “escapismo basato sull’effetto”. L’attività in cui ci si immerge deve provocare emozioni e/o sensazioni piacevoli, oltre che fornire una buona opportunità per evitare problemi di vita reale, come aveva sostenuto Yee, il quale già nel 2006 lo aveva definito: una modalità di rilassamento e di evitamento dei problemi di vita reale (Yee, 2006).

In sintesi, l’escapismo sembra esprimere un’intenzione da parte degli individui a minimizzare la sofferenza e massimizzare il benessere (Stenseng et al., 2012). Si potrebbe dunque pensare che l’escapismo sia un bisogno essenziale degli esseri umani più che una manifestazione definita di mancanze e/o deficit a livello sociale e individuale (Tuan, 2000). Una strategia messa in atto dagli individui al fine di raggiungere uno stato di equilibrio (omeostasi) a seguito dell’esposizione a elementi di vita stressanti. Questa concettualizzazione pone l’accento e orienta l’attenzione verso l’idea che la tendenza a evadere dalla realtà sia sostanzialmente il frutto dell’evoluzione e sia una caratteristica intrinseca della specie, con il fine di garantire benessere psicologico all’individuo. Risulta difficile tuttavia, ancora oggi, definire il grado in cui questa tendenza sia adattiva in termini di benessere psico-sociale ed effettiva gestione delle emozioni. All’attuale stato dell’arte, la letteratura scientifica circa questo costrutto rimane ancora lontana dal determinare se le caratteristiche individuali e soggettive determinano il desiderio di fuga dal mondo reale e quanto, invece, questa tendenza sia maggiormente incentivata dalle caratteristiche stesse degli ambienti di vita online. Ancora da chiarire, inoltre, se sia la struttura stessa del mondo reale a spingere gli individui a desiderare di fuggire.

Come misuriamo l’escapismo?

Questa “fuga dalla realtà” è entrata di prepotenza nel mondo accademico e della ricerca psicologica con l’avvento di ambienti digitali (come televisione, videogiochi, realtà virtuale) e della conseguente escalation di studi sulle relazioni che intercorrono tra gli individui e queste tipologie di strumenti (Melodia et al., 2020; Di Blasi et al., 2019; Kaczmarek e Drążkowski, 2014; Billieux et al., 2013; Kuss et al., 2012; Dauriat et al., 2011; Calleja, 2010).

Dalla seconda metà del secolo XX diversi autori hanno cercato di realizzare scale standardizzate che permettessero di indagare l’escapismo. I primi tentativi che riscontriamo si caratterizzano per l’estrapolazione di items utili alla misurazione di questa variabile dal test standardizzato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI; White Jr et al., 1956). In anni più recenti, l’aumento di studi nell’ambito della psicologia dei videogames ha determinato la realizzazione di scale per l’indagine sulle motivazioni a passare tempo online e in ambienti digitali, le quali presentano items specifici per la misurazione dei livelli di escapismo, queste sono: la Motivation to Play in Online Games Questionnaire (MPOGQ; Yee, 2006b), la Motives for online gaming questionnaire (MOGQ) realizzata da Demetrovics e colleghi (2011), e la scala a 14 item Motivation to play assessment (Dauriat et al., 2011). Tendenzialmente si riscontrano items molto simili riadattati agli ambienti digitali d’interesse (come social networks, videogames; Gao, Liu e Li, 2017; Dauriat et al., 2011; Demetrovics et al., 2011; Yee, 2006b).

Queste scale di misura, tuttavia, ci permettono di valutare solo se esista questa tendenza, ma rimane assente un’indagine dei fattori determinanti nel promuovere questo desiderio.

Chi decide cosa è reale e cosa no?

Per la varietà di possibilità che offrono e le caratteristiche che presentano i nuovi contesti digitali, quali gioco online simultaneo, vie di comunicazione in tempo reale con altri utenti, avatars con caratteristiche personalizzate e personalizzabili e molti altri aspetti, rappresentano delle vie di fuga dal mondo reale quasi ad hoc per tutti i tipi di soggettività. Le tecnologie di immersione in realtà virtuale (VR) e il nuovo metaverso (META) proposto da Zuckerberg hanno portato a un livello totalmente nuovo la possibilità e l’attrattività di questi ambienti in contrapposizione al mondo reale. Pensiamo solo al mondo virtuale, anche se un po’ rudimentale, “Second Life” (EP) il quale già nel 2013 aveva attirato a sé milioni di utenti all’attivo, fornendo uno spazio di vita online nel quale le persone potessero agire liberamente.

Il fenomeno degli Hikikomori rappresenta una declinazione estrema e osservabile della tendenza a evadere dal reale rifugiandosi nei mondi offerti dalle piattaforme digitali (Crepaldi, 2019). Questo termine un po’ astruso, letteralmente significa “stare in disparte” e delinea una categoria di persone che hanno deciso di ritirarsi per lunghi periodi dalla vita reale in favore della vita online, attirando l’attenzione di studiosi e aprendo numerosi dibattiti sulle cause di questa condotta (Crepaldi, 2019).

L’evoluzione degli ambienti digitali nel ricreare dinamiche di vita reale, l’accomodamento da parte delle società orientali e occidentali nei confronti dell’utilizzo delle tecnologie, e la tendenza sempre crescente a ritirarsi in mondi alternativi “fittizi” mette a dura prova i limiti delle nostre convinzioni circa l’esistenza di una realtà unica e circoscritta al mondo fisico.

“Vengono tutti qui a dormire? …no, vengono qui per essere svegliati, il sogno è diventato la loro realtà…. chi è lei per dire altrimenti?!” (Nolan, 2010).

L’Autismo in una prospettiva life-span: cosa succede al compimento dei 18 anni?

La letteratura indica che, da adulte, molte persone con autismo, si trovano svantaggiate nell’affrontare le varie tappe tipiche della loro fase di vita, ossia l’impiego lavorativo, le relazioni sociali (amicali e sentimentali), la salute sia fisica che mentale e la Qualità di Vita.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 2) L’Autismo in una prospettiva life-span: cosa succede al compimento dei 18 anni?

 

La prevalenza del Disturbo dello Spettro Autistico

Le stime sulla frequenza del Disturbo dello Spettro Autistico (ASD) sono in continuo aumento (Centers for Disease Control and Prevention, 2019), come dimostrato da vari studi epidemiologici condotti in diverse parti del mondo, che concordano nell’attribuire alla prevalenza di tale disturbo una stima superiore all’1%. Tra questi, risultano significativi l’indagine effettuata nel 2014 dall’Autism and Developmental Disabilities Monitoring (ADDM) Network (citato da Baio et al., 2018), il quale evidenzia che, negli Stati Uniti, 1 bambino su 59 ha un ASD, e il progetto Autism Spectrum Disorders in the European Union (ASDEU), che ha recentemente stimato una prevalenza media di 1 bambino autistico su 89 nell’Unione Europea (Posada de la Paz, 2018). Per quanto concerne la situazione nel nostro Paese, la prevalenza del Disturbo nei bambini italiani, è stimata a 1 bambino su 77, con una frequenza 4,4 volte maggiore nei maschi (Ministero della salute, 2022).

La storica associazione a categorie diagnostiche infantili fa sì che tale disturbo venga difficilmente riconosciuto nei soggetti adulti e, pertanto, non trattato adeguatamente (Vagni, 2015). Nonostante ciò, l’ASD non è un disturbo limitato all’età evolutiva, bensì una condizione del neurosviluppo che dura per l’intero arco di vita della persona (Barber, 2017; Brugha et al., 2015; Murphy et al., 2016). Come afferma Cottini (2010), pertanto, i bambini con Autismo, da grandi non potranno far altro che diventare degli adulti con Autismo, in quanto le caratteristiche proprie della condizione autistica si mantengono centrali anche nei soggetti adulti. Ne consegue, quindi, che le stime sulla diffusione dell’ASD sono simili tra i bambini e gli adulti (American Psychiatric Association [APA], 2013/2014).

Evoluzione del Disturbo: caratteristiche e sintomi degli adulti con ASD

Malgrado esistano tanti adulti con Autismo quanti sono i bambini con Autismo (Vagni, 2015), la ricerca finalizzata all’analisi della prognosi e delle caratteristiche che caratterizzano gli adulti con questo disturbo è ancora molto limitata (Cottini, 2010; Howlin e Moss, 2012).

Seltzer nel 2003 (citato da Billstedt et al., 2007) ha affermato che i sintomi dell’Autismo si manifestano diversamente in base alle varie fasi di vita. In effetti, sebbene molti dei sintomi presenti durante l’infanzia persistano nell’età adulta, secondo uno studio condotto da Billstedt et al. (2007), pare che altri tendano mediamente a migliorare. Tra questi si annoverano le interazioni sociali, i comportamenti ripetitivi e stereotipati, quelli adattivi e la reattività emotiva agli altri. Tali miglioramenti risultano più frequenti ed evidenti negli individui ad alto funzionamento, rispetto che in quelli a basso funzionamento. Inoltre, la stessa ricerca ha fatto emergere un’alta frequenza di comportamenti sociali anomali nei partecipanti adulti con ASD: l’interazione con i coetanei è risultata frequentemente assente oppure, se presente, inappropriata e condotta quasi esclusivamente dagli altri (Billstedt et al., 2007). Altri sintomi comuni avevano a che fare con un’inappropriata risposta emozionale, un contatto oculare povero, mancanza di reciprocità e comunicazione non-verbale limitata o bizzarra. Oltre la metà del campione ha, inoltre, mostrato reazioni anomale alle stimolazioni sensoriali, autolesionismo, difficoltà nella scelta autonoma di attività e la tendenza a mantenere le stesse routine (Billstedt et al., 2007).

La letteratura indica che, da adulte, molte persone con ASD si trovano svantaggiate nell’affrontare le varie tappe tipiche della loro fase di vita, ossia l’impiego lavorativo, le relazioni sociali (amicali e sentimentali), la salute sia fisica che mentale e la Qualità di Vita (QdV; Howlin e Moss, 2012). Pertanto, solo il 14% circa dei soggetti risulta sposato o in una relazione sentimentale e un quarto ha almeno un amico (Howlin e Moss, 2012). Bishop-Fitzpatrick et al. (2016) affermano che sia la percentuale di soggetti che lavorano per 10 o più ore a settimana, sia quella degli individui che vivono in maniera indipendente o semi- indipendente, si avvicina al solo 20%. Gli autori affermano, inoltre, che almeno la metà ha comorbidità con altri disturbi mentali (Bishop-Fitzpatrick et al., 2016, vedi anche APA, 2013/2014; Billstedt et al., 2011; Cottini, 2010; Gotham et al., 2015).

Cribb, e colleghi (2019) sostengono che, nelle ricerche sugli outcome autistici, vengono spesso ignorate le esperienze soggettive delle persone e ciò che per loro sta a significare una vita soddisfacente. Nel loro studio si sono soffermati ad analizzare in maniera qualitativa le aspirazioni di giovani adulti con Autismo ed è emerso che la maggior parte di loro ambiva ad assicurarsi un lavoro, vivere indipendentemente dai propri genitori, prendere decisioni in maniera autonoma e avere una buona salute mentale. Inoltre, Griffith e colleghi (2012) affermano che, tra i temi più rilevanti emersi dai partecipanti allo studio, si possono annoverare i problemi lavorativi, le esperienze di supporto convenzionale e i futuri step necessari per il supporto degli adulti con ASD. I soggetti hanno poi lamentato una grande fatica nello svolgere le attività quotidiane, gli imprevedibili cambiamenti d’umore e la costante ansia (Griffith et al., 2012). Mentre i loro coetanei lasciano casa, si fidanzano, si iscrivono all’università o trovano lavoro, molti adulti con ASD si sentono come se fossero stati lasciati indietro (Stoddart, 2005).

Gli adulti che hanno sviluppato strategie compensatorie e meccanismi di coping per mascherare la loro difficoltà nelle situazioni sociali possono soffrire per lo stress e lo sforzo di dover mantenere una maschera socialmente accettabile e dover calcolare coscientemente quello che per la maggior parte delle persone è socialmente intuitivo (APA, 2013/2014). A tal proposito, parlando della propria esperienza nella condizione autistica, Anna Chiodoni (2017) propone una metafora molto esplicativa:

Un’immagine che posso utilizzare per spiegare un po’ come mi sentivo era che tutti avessero un manuale in cui erano scritte tutte le regole per un’efficace comunicazione con gli altri, e io ero l’unica a non avere una copia. L’unica soluzione era tentare volta per volta per vedere cosa funzionava e cosa no, spesso imitando i comportamenti altrui per cercare di mimetizzarmi meglio. L’altra soluzione era quella di isolarmi il più possibile, facendo la timida, dato che quella almeno era una forma di inettitudine sociale relativamente più accettata dai miei compagni (p. 168).

Rispetto alla qualità di vita (QdV) degli adulti con ASD, dallo studio di Bishop-Fitzpatrick e colleghi (2016), emerge che soltanto il 13,9% del campione ha ottenuto buoni risultati negli indicatori di QdV oggettiva. I pochi studi che si sono occupati di indagare il rapporto tra gli outcome convenzionali e le misure della QdV nella ricerca in campo autistico, hanno rilevato che gli outcome oggettivamente definiti soddisfacenti non vanno necessariamente di pari passo con una migliore QdV e che questi due elementi risultano essere migliori quando vengono presi in considerazione fattori soggettivi (Bishop-Fitzpatrick et al., 2016; Cribb et al., 2019; Müller e Cannon, 2014). Pertanto, Ruble e Dalrymple (1996; citati da Cribb et al., 2019) evidenziano l’importanza di andare oltre i tradizionali outcome per comprendere ciò che significa avere una vita soddisfacente per gli stessi soggetti autistici, considerando in particolare l’incrocio tra la persona e il suo contesto.

Il problema dell’Autismo in età adulta: i servizi in Italia

Il complesso quadro di necessità e difficoltà che caratterizza la condizione adulta delle persone con ASD evidenzia la necessità che ai giovani con ASD sia garantita una transizione pianificata dai servizi sanitari per minori a quelli per gli adulti (National Institute for Health and Clinical Excellence [NICE], 2021); tuttavia, gli studi che indagano i modi migliori per farlo sono ancora scarsi (Murphy et al., 2016). Allo stato attuale, risultano, infatti, ancora estremamente limitate le possibilità di intervento per adulti con ASD e, di conseguenza, anche la letteratura a tal proposito è molto scarsa, sia in termini di quantità che di qualità (Brugha et al., 2015; Hesselmark et al., 2016).

Gli studi dimostrano che le persone autistiche vivono grandi sfide e difficoltà durante la loro transizione verso l’età adulta e che queste non sono sufficientemente sostenute dai servizi disponibili per loro (Francescutti et al., 2016; Shattuck et al., 2011; Stoddart, 2005). Diverse ricerche, infatti, si sono soffermate sul fatto che, nonostante l’aumento delle sfide (vita indipendente, inserimento lavorativo, relazioni interpersonali), i ragazzi con ASD che raggiungono la maggiore età si ritrovano a dover affrontare un’improvvisa diminuzione dei servizi erogati dallo Stato (Cosimetti, 2018; Shattuck et al., 2011; Stoddart, 2005). Sebbene la clinica e la ricerca si stiano muovendo molto per sviluppare interventi sempre più efficaci e precoci per i bambini con ASD, questo non costituisce una scusa per non agire anche con gli adulti che presentano la stessa condizione (Vagni, 2015). L’aumento delle opportunità educative per i minori non si traduce, infatti, necessariamente in migliori risultati negli adulti; al contrario, spesso la scarsità di supporti in età adulta è associata a cattivi outcome sia in termini clinici, che di funzionamento adattivo, che di QdV (Eaves e Ho, 2008).

I bisogni di salute insoddisfatti degli adulti con ASD, la mancanza di servizi e di interventi mirati, individualizzati e specifici per l’età, e l’aumento dei tassi di prevalenza negli anni contribuiscono ad aumentare il carico di malattia sulle stesse persone mentre invecchiano, sulle loro famiglie e sulla società (Murphy et al., 2016). C’è, quindi, un urgente bisogno di migliorare la cura delle persone con ASD lungo l’intero arco di vita, in modo da evitare che i giovani adulti (e le loro famiglie) perdano l’assistenza sanitaria in un momento così importante e vulnerabile, quale la transizione dai sistemi sanitari ed educativi per i minori a quelli per gli adulti (Murphy et al., 2016).

Gli interventi per gli adulti con ASD

Diversi autori hanno argomentato il bisogno di sviluppare opzioni di trattamento psicosociale di alta qualità per adulti con ASD (Bishop-Fitzpatrick et al., 2013; Gotham et al., 2015; Hesselmark et al., 2016) e il fatto che gli interventi di supporto dovrebbero essere individualizzati, costruiti su misura del soggetto (Billstedt et al., 2007; Bruni e Facchi, 2018; NICE, 2021), nel rispetto della sua libertà di scelta personale (Schroeder et al., 1996). Non essendo, l’Autismo, una condizione limitata all’età infantile, la progettazione degli interventi per gli individui che ne sono affetti, dovrebbe essere pensata in un’ottica di intero ciclo di vita (Developmental-lifespan approach; Cottini, 2010; Micheli, 1999; Stoddart, 2005).

In letteratura sono presenti sporadiche ricerche focalizzate sull’efficacia degli interventi per adulti con ASD (Gotham et al., 2015; Hesselmark et al., 2016; Howes et al., 2017), anche se diversi autori hanno riportato gli effetti positivi di vari tipi di trattamento e, pertanto, li raccomandano rispettivamente: interventi comportamentali (Gotham et al., 2015; Howes et al., 2017) e cognitivo-comportamentali (Hesselmark et al., 2016; Russel et al., 2013), programmi di occupazione assistita (García-Villamisar e Hughes, 2007, citato da Bishop-Fitzpatrick et al., 2013; Howlin e Moss, 2012), training di abilità sociali (Hesselmark et al., 2016; Howes et al., 2017; NICE, 2021).

Gli studi citati paiono promettenti, ma è in realtà estremamente difficile trovare dei lavori che abbiano un alto grado di validità scientifica e statistica. Hesselmark e colleghi (2016), ad esempio, nel commentare gli effetti positivi ottenuti da due differenti interventi di gruppo, affermano che non è chiaro se tali risultati siano in effetti dovuti a qualcosa di più della semplice influenza dell’interazione sociale, presente in qualsiasi tipo di intervento di gruppo. Faja e colleghi (2012) sostengono, inoltre, che i miglioramenti ottenuti nei vari interventi, potrebbero rappresentare un generale effetto di maggiore motivazione e pratica o, ancora, di regressione verso la media quando i soggetti vengono testati più volte.

Ciò che si sta dimostrando essere un elemento sempre più trasversale in letteratura è il crescente interesse, sia da parte dei ricercatori, che, soprattutto, da parte degli stessi soggetti con ASD e dei loro caregiver, verso il raggiungimento di un buon livello di QdV (Bishop-Fitzpatrick et al., 2016; Brugha et al., 2015; Cottini, 2010; Howes et al., 2017; NICE, 2021), attraverso la conquista di una progressiva autonomia e indipendenza (Howlin e Moss, 2012; Müller e Cannon, 2014) e l’apprendimento delle cosiddette daily living skills (Bishop-Fitzpatrick et al., 2016; Bruni e Facchi, 2018).

 

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