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Il trauma di chi assiste: comprendere il fenomeno dei “testimoni indifferenti” al di là del pregiudizio e del senso comune

Vorrei proporre una riflessione sull’omicidio di Alika Ogorchukwu, l’ambulante di origine nigeriana ucciso a mani nude per aver chiesto l’elemosina a una coppia che passeggiava per le vie di Civitanova Marche.

 

A destare l’indignazione dell’opinione pubblica sono stati diversi motivi: l’efferatezza del gesto, i futili motivi, l’ombra della motivazione razzista e xenofoba, tutte motivazioni che meritano una riflessione profonda. A queste ragioni si aggiunge anche il fatto che nessuno dei testimoni presenti sia intervenuto e che alcuni abbiano filmato la scena coi cellulari, condividendola sui social.

Si è parlato del “cinismo che porta a filmare e postare anziché intervenire”, di “Perversa passione per il crimine unita alla smania incontenibile di accaparrarsi nuovi follower e like. Indifferenza sociale. Niente di meno, niente di più.”

Si tratta di una lettura gravemente inesatta poiché trascura alcuni fondamentali meccanismi della psicologia sociale che da tempo studia la risposta degli individui in situazioni di emergenza.

L’antefatto: il caso di Kitty Genovese e la scoperta dell’effetto spettatore

Nel 1964, in una New York dove gli italiani venivano visti in maniera non troppo diversa da come viene visto oggi in Italia un uomo come Alika, mentre stava tornando nel proprio appartamento del Queens alle 03:00 di notte, Kitty Genovese venne aggredita all’esterno del palazzo da un uomo armato di coltello. Mentre lei gridava in cerca di aiuto, lui la pugnalò ripetutamente e la violentò. La cosa andò avanti per mezz’ora. Negli appartamenti attorno le luci si accesero e alcune persone andarono alla finestra per vedere che cosa fosse tutto quel rumore. Ma nessuno l’aiutò. L’omicidio di Kitty Genovese provocò pubblica indignazione. Le persone che non intervennero furono giudicate indifferenti e senza cuore. Seguirono riflessioni sulla disumanizzazione delle metropoli moderne e la decadenza dei valori delle moderne società industriali.

A partire da questo episodio, John Darley e Bibb Latané, ricercatori di psicologia sociale della Columbia University, misero in piedi una serie di esperimenti per capire quali condizioni portassero le persone a intervenire o meno in situazioni di emergenza. Capirono che intervenire in caso di emergenza non è così scontato come potrebbe sembrare e che per farlo è necessario soddisfare diverse condizioni ambientali, ma soprattutto giunsero alla scoperta del cosiddetto “effetto spettatore”: la possibilità di prestare soccorso diminuisce drasticamente in situazioni di pericolo in cui sono presenti più testimoni. Tale effetto è dovuto al fenomeno della diffusione di responsabilità, per cui ogni persona non interviene pensando che sarà qualcun altro a farlo. Da questo punto di vista, la presenza di più testimoni rappresenta un deterrente alla possibilità che qualcuno presti soccorso piuttosto che una garanzia di maggiori probabilità.

Le scoperte della psicologia sociale forniscono argomenti sufficienti a rispondere alla domanda che ci si è posti nel caso dell’omicidio di Alika sul perché tra tanti nessuno è intervenuto.

Tuttavia, questa spiegazione non basta a rendere ragione della complessità della situazione di chi ha assistito all’omicidio di Alika. Per farlo è necessario integrare anche una considerazione di tipo clinico.

Trauma

Da un punto di vista clinico, l’assistere a un omicidio rappresenta un evento traumatico. Per trauma si intende qualsiasi evento che metta a repentaglio la vita propria o altrui. In simili situazioni la mente razionale, corrispondente alle aree cerebrali della corteccia, si “spegne” per lasciare spazio al sistema limbico, il cervello emotivo sottocorticale ed evoluzionisticamente più antico, che risponde attraverso alcune risposte atte a massimizzare le probabilità di sopravvivenza. Queste risposte non sono intenzionali né tantomeno controllabili, pertanto nessuno può essere sicuro di quale sarà la propria risposta fintanto che non si troverà coinvolto in una simile situazione. Tutti i mammiferi condividono queste risposte di fronte al predatore, esse sono: la fuga, l’attacco e, quando nessuna di queste opzioni è possibile, il freezing. Il congelamento è l’ultima e la più estrema difesa di fronte a una minaccia avvertita come ineluttabile.

Durante il freezing l’azione si interrompe, il corpo è come congelato mentre la mente perde la sua capacità di integrazione e si dissocia. La dissociazione si manifesta attraverso un senso di ottundimento emotivo (nunbing), di apatia ovvero di indifferenza.

Ricorso al telefono come mezzo di derealizzazione e intervento sicuro

Alla luce di queste considerazioni è possibile osservare da una diversa prospettiva sia il fatto che durante l’aggressione di Alika nessuno dei testimoni sia intervenuto, sia che alcuni di loro abbiano ripreso la scena con lo smartphone.

È possibile che anziché un gesto di ignavia e cinismo il ricorso allo smartphone abbia rappresentato un mezzo per proteggersi dall’impatto del trauma della violenza omicida? Un tipo di trauma che, secondo Gianni Liotti, la mente umana è per sua natura incapace di fronteggiare in quanto non “frutto di un adattamento darwiniano classico”: solo gli uomini infatti sono in grado di comportarsi da predatori con i propri conspecifici.

Vedere le cose attraverso uno schermo riduce l’impatto della realtà. Attraverso lo schermo diventano guardabili anche le immagini più terribili proprio in funzione di una parziale derealizzazione che è uno degli effetti della dissociazione. In questo modo diviene possibile recuperare un senso di padronanza e controllo nella situazione di emergenza.

L’altra accusa che è stata mossa nei confronti di coloro che hanno assistito è stata quella di filmare senza intervenire. In realtà, filmare è una modalità di intervento. L’unica modalità sentita come sicura. Attraverso la lente protettiva derealizzante ed emotivamente ovattata dello schermo è diventato possibile agire con freddezza: non lasciare l’aggressore impunito, mostrare a tutti il suo volto. Laddove il trauma interrompe l’azione lasciando spesso le vittime in preda al senso di colpa per “non aver fatto niente”, filmare è stato un modo di fare qualcosa di fronte all’impatto soverchiante dell’orrore, un atto protettivo verso sé stessi e verso l’altro. Sebbene non sia stato sufficiente a salvare la vita di Alika, il video è stato comunque utile a rintracciare il suo aggressore, che è stato riconosciuto dalle forze dell’ordine.

Conclusioni

In conclusione, stupisce come a fronte di una letteratura di ricerca ormai consolidata sul tema dell’effetto spettatore manchi anche tra i grandi quotidiani nazionali una cultura psicologica che permetta di leggere i fatti in maniera corretta e preservare le vittime.

Alimentando una gogna mediatica nei confronti dei testimoni si corre il rischio di sommare al dolore inevitabile del trauma subìto quello della colpa per non aver fatto abbastanza per evitarlo. Un vissuto assai comune tra le vittime di abuso è infatti quello di assumersi la responsabilità dell’accaduto.

 

L’impatto dei dispositivi elettronici a schermo digitale sullo sviluppo del cervello

Sun e colleghi (2014) hanno riportato che individui con internet gaming disorder avrebbero un volume inferiore di materia grigia, con una ridotta diffusione in diverse aree cerebrali.

 

L’uso di dispositivi elettronici tra bambini e adolescenti

 L’uso eccessivo di strumenti elettronici, come la televisione, i computer, le console e soprattutto gli smartphones, sta causando sempre più preoccupazione da parte delle autorità educative e sanitarie sui possibili effetti negativi che possono comparire in bambini e adolescenti (Weinstein e Lejoyeux, 2022). È stata recentemente osservata, nei bambini in età prescolare, un’associazione tra l’utilizzo di strumenti elettronici con schermi digitali e una ridotta integrità microstrutturale della sostanza bianca, specialmente nei tratti che sono associati con le abilità di linguaggio e di alfabetizzazione, tratti fondamentali soprattutto nei primi anni dello sviluppo del cervello (Hutton et al., 2020). È stata inoltre osservata anche una correlazione negativa tra l’utilizzo di strumenti elettronici dotati di schermi digitali e lo spessore della corteccia cerebrale (Ling et al., 2015). Nonostante lo spessore corticale diminuisca naturalmente con l’invecchiamento, l’utilizzo di questi strumenti sembra avere un ruolo nell’accelerare il percorso di invecchiamento del cervello (Wang et al., 2015).

Sembra inoltre che l’utilizzo di strumenti elettronici con schermi digitali sia stato associato negativamente all’intelligenza, in particolare all’intelligenza fluida, ovvero la capacità di pensare logicamente e risolvere i problemi in situazioni nuove e l’intelligenza cristallizzata, ovvero la capacità di utilizzare competenze, conoscenze ed esperienze (Weinstein e Lejoyeux, 2022).

Le complicazioni cerebrali causate dall’Internet Gaming Disorder

Gli individui che manifestano Internet Gaming Disorder (IGD), ovvero che passano la maggior parte del loro tempo su Internet, spesso giocando ai videogiochi senza riuscire a smettere, utilizzano strumenti come computer, console e smartphone, tutte apparecchiare che hanno uno schermo digitale, e ciò può causare molte complicazioni (Ko, 2014; Weinstein e Lejoyeux, 2022). Infatti, è stato osservato come gli individui con internet gaming disorder abbiano dei cambiamenti fisiologici nelle aree cerebrali associate al controllo degli impulsi, alla memoria, all’apprendimento e alle funzioni visive e uditive (Weinstein e Lejoyeux, 2022).

Sun e colleghi (2014) hanno riportato che individui con internet gaming disorder hanno un volume inferiore di materia grigia, con una ridotta diffusione nella parte anterolaterale destra del cervelletto, nei giri temporali destri superiori e inferiori, nell’area motoria supplementare destra, nel giro occipitale centrale, nel giro frontale inferiore destro, nel lobulo paracentrale sinistro, nella corteccia cingolata, nel giro fusiforme bilaterale, nell’insula e nel talamo (Sun et al., 2014).

 Negli adolescenti, l’internet gaming disorder è stato associato con cambiamenti del volume della sostanza grigia in regioni cerebrali coinvolte nei processi sensomotori e nel controllo cognitivo verso l’attenzione, la regolazione emotiva, le funzioni motorie, la processazione dell’errore e la regolazione delle risposte comportamentali (Weinstein e Lejoyeux, 2022). Inoltre, è stata notata una diminuzione del volume della sostanza grigia anche nella corteccia prefrontale e nell’amigdala, e l’utilizzo eccessivo di videogiochi è stato associato ad un rallentamento nello sviluppo di diverse regioni cerebrali come l’ippocampo, la corteccia orbitofrontale, il globo pallido, il putamen e il talamo, causando così una riduzione globale dell’intelligenza (Takeuchi et al., 2016).

È stato inoltre osservato che gli individui con internet gaming disorder hanno delle compromissioni alle funzioni esecutive, oltre che una motivazione fortemente ridotta (Weinstein e Lejoyeux, 2022). Alcuni cambiamenti nella connettività funzionale, ovvero la correlazione temporale del segnale tra due regioni cerebrali distinte, impattano sulla motivazione, il craving e la ricerca di reward, tutte caratteristiche associate ai disturbi di dipendenza.

In conclusione, l’Internet Gaming Disorder non è un disturbo da sottovalutare, in quanto può causare una serie di complicazioni cerebrali che possono peggiorare notevolmente la qualità di vita di un individuo.

 

Endometriosi e dolore pelvico cronico in adolescenti e giovani adulte – FluIDsex

Le pazienti con endometriosi di età inferiore ai 25 anni sembrano riportare una ridotta qualità della vita in relazione alla salute fisica e mentale, dolore pelvico, nonché difficoltà a partecipare ad attività quotidiane, eventi sociali e attività fisica.

 

 L’endometriosi è una malattia infiammatoria cronica caratterizzata dalla presenza di ghiandole simili all’endometrio e stroma al di fuori dell’utero; l’eziopatogenesi è multifattoriale e ancora molto dibattuta, ma è stato recentemente rilevato che la teoria genetico-epigenetica risulta essere compatibile con tutte le osservazioni fatte sulla malattia (Koninckx et al., 2019). Generalmente le pazienti con endometriosi presentano dismenorrea, dolore pelvico e dispareunia, ma altri sintomi comuni sono dischezia, disuria e infertilità.

La maggior parte delle donne diagnosticate manifesta i sintomi per la prima volta durante l’adolescenza o in giovane età adulta, ciò nonostante, l’endometriosi in questa popolazione è stata per lungo tempo ignorata.

Due terzi delle donne con diagnosi di endometriosi in età adulta presentano i sintomi della malattia prima dei 20 anni ed è stato riscontrato che le pazienti che accusano i sintomi da adolescenti vengono valutate in media da quattro medici prima di ricevere una diagnosi (Ballweg, 2003).

Endometriosi e dolore pelvico cronico

L’endometriosi si configura come la principale causa di dolore pelvico cronico definito come un dolore non ciclico, della durata di almeno 3-6 mesi che si manifesta in corrispondenza o al di sotto dell’ombelico e interferisce con le attività quotidiane (Powell, 2014). Recenti scoperte indicano che un esordio precoce del dolore pelvico cronico, alla comparsa del menarca, rappresenta un fattore di rischio per l’endometriosi (Brosens et al., 2013). Una revisione sistematica (Janssen et al., 2013) riporta che l’endometriosi era presente nel 62% (543/880) delle adolescenti sottoposte a laparoscopia per dolore pelvico cronico, nello specifico, nel 70% (102/146) di quelle sottoposte a valutazione chirurgica della dismenorrea, nel 75% (237/314) di quelle che avevano dolore pelvico cronico resistente alla terapia farmacologica e nel 49% (204/420) delle adolescenti con dolore pelvico cronico non resistente al trattamento farmacologico.

La mancanza di biomarcatori diagnostici rappresenta un problema significativo e secondo Sielberg e coll. (2020) il dolore pelvico cronico e il ritardo diagnostico dell’endometriosi comportano lo sviluppo di un sistema nervoso periferico e centrale sensibilizzato che può predisporre allo sviluppo di altre sindromi dolorose croniche.

Gli studi sull’impatto sociale e psicologico dell’endometriosi e del dolore pelvico cronico nelle adolescenti e nelle giovani adulte sono ancora rari, sebbene la malattia cronica sia in grado di influire in modo pervasivo sulla qualità della vita.

Una revisione di Rosenbloom e coll. (2017), che prende in considerazione adolescenti e giovani adulti dai 16 ai 29 anni, evidenzia l’impatto del dolore cronico su tre aree specifiche: il funzionamento scolastico –che può influire sul raggiungimento di ulteriori obiettivi educativi e professionali– le relazioni tra pari e l’indipendenza dalla famiglia.

Endometriosi e qualità di vita

In uno studio condotto da Gallagher e coll. (2018) le pazienti con endometriosi di età inferiore ai 25 anni, rispetto al gruppo di controllo sano, hanno riportato una ridotta qualità della vita in relazione alla salute fisica e mentale, dolore pelvico, nonché difficoltà a partecipare ad attività quotidiane, eventi sociali e attività fisica.

In un campione di donne tra i 18 e i 25 anni le ragazze con endometriosi riportavano una condizione di dispareunia nel 79% dei casi, una percentuale quasi doppia rispetto alle donne senza endometriosi (40%; Schneider et al., 2019).

Gli studi sulla popolazione adulta hanno osservato che la dispareunia associata all’endometriosi aumenta l’evitamento dell’intimità, influenza negativamente l’autostima e genera sentimenti di colpa (Denny e H. Mann, 2007), per questi motivi sarebbe opportuno indagare maggiormente questa condizione nella popolazione adolescenziale.

 Una ricerca qualitativa (Gupta et al., 2018) ha studiato in che modo il contesto sociale influenza: (1) la percezione dei sintomi dell’endometriosi, (2) la ricerca di aiuto e (3) la salute delle adolescenti che presentano questa condizione clinica; attraverso otto focus group, a cui hanno partecipato un gruppo di adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni, è emerso che lo stigma a livello sociale –associato al ciclo mestruale– e le norme di genere modellano i tipi di supporto disponibili per le ragazze adolescenti che manifestano sintomi di endometriosi. Questi dati sostengono la necessità di sensibilizzare la popolazione adolescenziale e ridurre lo stigma.

A questo proposito, un programma di educazione sulla salute mestruale e sull’endometriosi che ha dato prova di aumentare la consapevolezza tra studenti di alcune scuole secondarie della Nuova Zelanda è il me program i cui obiettivi sono: (1) aiutare ad identificare i sintomi mestruali che si discostano dalla norma, (2) aumentare la consapevolezza dell’endometriosi, (3) migliorare il benessere fisico, emotivo e sociale, (4) rimuovere gli stigmi sociali e i tabù relativi alle mestruazioni (Bush et al., 2017).

Ansia e depressione nei casi di endometriosi

Anche nella popolazione adolescenziale con endometriosi, così come in quella adulta, sono stati riscontrati alti tassi di ansia e depressione (González-Echevarría et al., 2019) e nella ricerca scientifica sta recentemente emergendo l’importanza di tenere conto di una variabile importante quando si valuta l’associazione tra endometriosi e disturbi psicologici: il dolore pelvico cronico. A questo proposito, è necessario sottolineare che il dolore sembra essere indipendente dallo stadio dell’endometriosi, quindi donne con endometriosi lieve possono avere un dolore pelvico intenso mentre donne con endometriosi più grave possono soffrire di un dolore meno acuto.

Uno studio italiano (Facchin et al., 2015) ha esaminato l’impatto dell’endometriosi sulla qualità della vita, sull’ansia e sulla depressione confrontando endometriosi asintomatica, endometriosi con dolore pelvico e gruppo di controllo sano. Dalla ricerca è emerso che solo il dolore pelvico era associato a qualità della vita inferiore, maggiore ansia e depressione rispetto alle altre due condizioni.

A questo proposito, Silberg e colleghi (2020) evidenziano la necessità di comprendere i meccanismi psicologici, come ad esempio la catastrofizzazione del dolore, i meccanismi biologici e quelli sociali che contribuiscono al dolore pelvico cronico nell’endometriosi.

Attualmente le linee guida ESHRE (2022) rappresentano il punto di riferimento per la diagnosi e il trattamento dell’endometriosi per il quale si consiglia una gestione multidisciplinare. Il trattamento psicologico più consolidato per il dolore cronico è la Cognitive Behavioural Therapy (CBT), che si propone di insegnare nuove risposte cognitive e comportamentali al dolore, tuttavia ad oggi non esistono studi controllati randomizzati, su larga scala, sulla CBT per l’endometriosi. Occorre sostenere la ricerca e indagare maggiormente gli effetti della diagnosi e del trattamento precoce sulle traiettorie di sviluppo di donne adolescenti esposte a numerosi cambiamenti fisici, ormonali, cognitivi ed emotivi.

 

Schizofrenia e stigma sociale: la parola ai pazienti

Risulta interessante riportare alcuni resoconti delle esperienze di vita di persone colpite da schizofrenia, per approfondire i vissuti personali e i problemi di discriminazione a cui sono esposti.

 

Lo spettro della schizofrenia

 La schizofrenia è una malattia mentale cronica e invalidante che colpisce circa l’1% della popolazione mondiale.

La schizofrenia costituisce uno spettro dai confini indefiniti e presenta una molteplicità di fattori eziologici (biologici, ereditari, psicologici e socio-ambientali); nello spettro schizofrenico rientrano il disturbo schizotipico (di personalità), il disturbo delirante, il disturbo psicotico breve, il disturbo schizofreniforme, il disturbo schizoaffettivo (di tipo bipolare e depressivo), il disturbo psicotico indotto da sostanze e il disturbo psicotico dovuto ad altra condizione medica.

Secondo Estroff (1989), la schizofrenia è definibile come una “I am illness”, in quanto non costituisce semplicemente un disturbo che una persona ha (come possono esserlo il cancro e le malattie cardiache), bensì qualcosa che una persona è o potrebbe diventare. Essa, infatti, si traduce in una trasformazione del sé, conosciuto interiormente, e della persona, nota esternamente agli altri, in quanto è legata al senso interiore di sé e all’identità sociale (Estroff, 1989).

In tal modo emerge quella che Brody (1987, pag.10) definisce la duplice natura della malattia: «il modo in cui può renderci persone diverse mentre rimaniamo sempre la stessa persona».

A causa dei suoi sintomi distintivi, del comportamento imprevedibile e bizzarro, e della pericolosità percepita (Link et al, 1987), la schizofrenia è associata a un forte stigma sociale, legato alle reazioni dell’ambiente sociale d’appartenenza; significativo l’impatto sulla qualità della vita e numerosi gli effetti sulla psicopatologia generale degli individui schizofrenici.

Il vissuto della persone con schizofrenia

Risulta interessante riportare alcuni resoconti delle esperienze di vita di persone colpite da schizofrenia, per approfondire i vissuti personali e i problemi di discriminazione a cui sono esposti, facendo riferimento ai risultati della ricerca condotta da Knight (2003) dall’emblematico nome ‘People don’t understand’; il campione, tratto da precedenti studi sulla percezione dello stigma, era costituito da sei partecipanti provenienti da diversi distretti urbani del Regno Unito (UK), i quali sono stati sottoposti ad interviste incentrate su quattro aree:

  • La storia di vita individuale;
  • L’esperienza personale e la comprensione del loro problema di salute mentale;
  • La comprensione sociale del problema e come viene contestualizzato nella loro vita, per comprendere come sono visti dalla società e come personalmente sentono di essere considerati dall’ambiente sociale e familiare;
  • La riflessione rispetto all’impatto che il problema ha avuto sulla loro vita, in particolare rispetto all’auto-percezione, all’identificazione o al rifiuto dello status di “malato”, e sui presunti strascichi futuri.

Dall’Interpretative Phenomenological Analysis (IPA) dei dati ottenuti, sono emersi i temi sovra-ordinati del giudizio, confronto e comprensione sociale.

Il giudizio verso le persone schizofreniche

Il tema del giudizio si è sviluppato a partire dalle reazioni negative che i partecipanti alla ricerca hanno ricevuto da amici e familiari, figure di autorità che rappresentano la medicina e la polizia, e dalla società in generale, i quali presentano “una visione prevenuta e razzista nei confronti della malattia mentale”, a cui fa seguito, come reazione comportamentale, la discriminazione, sperimentata negli ambienti di vita familiare e lavorativa: “Tu sei schizofrenico. . .non puoi entrare”; “non siamo accettati quando torniamo al lavoro, non importa che tu faccia bene il tuo lavoro. Non ti trattano come un pari, sono sempre un po’ diffidenti nei tuoi confronti, [pausa] dalla mia esperienza” (Knight, 2003).

Gli individui intervistati si sentivano etichettati come “estremamente diversi [pausa] intollerabili”, “sporchi, inaccettabili”, attraverso “un’immagine così negativa” (Knight, 2003).

Gli atteggiamenti da loro menzionati erano prevalentemente sfavorevoli e frutto di una ignoranza generale – “Non capiscono, la gente non capisce ciò che accade alle persone” – e sorprendentemente provenivano dai propri genitori e dai propri amici, nonché dagli psichiatri da cui erano in cura e dalla Polizia (Knight, 2003).

Il tema del confronto nella schizofrenia

Il secondo tema emerso è rappresentativo dei dilemmi intra e interpersonali sorti a partire dal confronto con la vita precedente all’insorgenza della schizofrenia. Gli intervistati hanno visto le loro vite subire un enorme cambiamento qualitativo, che per molti è apparso irreversibile; in questo senso si preoccupano di non essere “mai più normali”, dal momento che le loro esistenze erano, sono e saranno segnate per sempre a causa della malattia.

“Prima ero normale, potevo andare al lavoro e vivere la mia vita”, afferma uno degli intervistati (Knight, 2003).

 Molti non riescono ad immaginare la loro quotidianità come persone non affette da schizofrenia e alcuni non sono in grado di stabilire programmi a lungo termine asserendo di non avere un futuro. Rispetto al senso di inclusione e differenziazione all’interno dei gruppi sociali, si manifesta chiaramente il desiderio di appartenere alla maggioranza della società: “ce la sto mettendo tutta per rendermi simile e accettabile dalla società, e per dimostrare che in realtà faccio parte dello stesso binario ma da un versante differente.” (Knight, 2003).

Tuttavia, il confine tra anormalità e normalità rimane una questione rilevante, come si evince dalle affermazioni degli intervistati: “Non sono come gli altri, non è vero? [pausa] Ho dei problemi. Altre persone ne soffrono”, cioè è consapevole di quanti, come lui, sono affetti da malattie mentali e possono condividere un vissuto simile, “però lo sai, la gente comune non ne soffre”, perché “le persone normali non hanno questo tipo di esperienza” (Knight, 2003).

L’ultimo tema emerso offre una panoramica sulla concettualizzazione della propria vita da parte degli intervistati. Il termine “malattia” non sembra essere sufficiente a cogliere la portata delle esperienze affrontate e considerare la propria situazione in questi termini non è frutto di una decisione personale bensì del parere esterno in quanto “mi è stato detto che sono malato, quindi ci credo” (Knight, 2003).

Schizofrenia e stigma: strategie di coping

Per quanto riguarda le strategie di coping messe in atto per fronteggiare lo stigma, molti utilizzavano frequentemente l’evitamento-ritiro – “Io non esco da casa mia” – rafforzando il senso di esclusione sociale e l’auto-stigma, e adottavano una politica di segretezza –“Non lo direi, non lo direi ad altre persone, ad altri amici… [pausa] perché mi giudicherebbero” – dal momento che il desiderio di svelare la propria situazione personale, nonostante non sia “così facile da spiegare alle persone”, era sovrastato dalle preoccupazioni relative agli effetti della notizia, alimentate dall’ostilità che a volte ha fatto seguito alla divulgazione di tali informazioni (Knight, 2003).

In prospettiva generale, la vita appare agli occhi degli intervistati “una sorta di lotta per la sopravvivenza”, in quanto “la natura di questa malattia è che prende il sopravvento se glielo lasci fare” (Knight, 2003).

I risultati della ricerca di Knight (2003) illustrano alcuni effetti personali ed interpersonali dell’avere una malattia mentale invalidante, quale la schizofrenia, ed evidenziano come lo stigma si manifesti sia attraverso il pregiudizio e la discriminazione da parte di familiari e amici, nonché di forze dell’ordine e professionisti della salute mentale, sia in termini di auto-stigma, comportando un forte ritiro sociale accompagnato da una continua lotta per l’accettazione all’interno delle cerchie sociali.

Si evince un dato allarmante: nonostante una sintomatologia positiva alleviata molti anni prima, l’etichetta dispregiativa e la vergogna associata alla diagnosi di schizofrenia rimane un onere personale e sociale da sostenere e può costituire una barriera invalicabile alla ripresa; è come se le identità degli intervistati fossero ridotte al ruolo di “malato”, nei termini di una diagnosi psichiatrica determinante per la loro intera esistenza.

 

La mente fenomenologica (2022) di Gallagher e Zahavi – Recensione

Il libro “La mente fenomenologica” dei professori Gallagher, docente di Filosofia all’Università di Memphis (USA), e Zahavi, docente di Filosofia all’Università di Copenaghen e di Oxford, illustra gli intrecci epistemologici che esistono fra fenomenologia, filosofia della mente e scienze cognitive.

 

 Per la comprensione del funzionamento della mente, secondo gli Autori bisogna far ricorso alla fenomenologia contemporanea, la cui matrice culturale trae spunto dalle opere filosofiche di Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty e Sartre.

In pratica, la mente si struttura e ha il suo episteme conoscitivo nella relazionalità che l’individuo costruisce fra sé e l’ambiente nel quale vive. La realtà viene percepita nel suo aspetto fenomenico attraverso le rappresentazioni percettive che l’essere umano compie delle datità, utilizzando il suo corpo come strumento gnoseologico, anche se queste percezioni sono sempre parziali.

In qualsiasi percezione di un oggetto fisico, la mia percezione è sempre incompleta rispetto all’oggetto: non vedo mai un oggetto completo tutto in una volta. Chiameremo questo fenomeno “incompletezza prospettica”. C’è sempre qualcosa di più da vedere e che resta implicito, persino nella percezione dell’oggetto più semplice. Se mi muovo attorno a un albero al fine di ottenerne un’immagine più esaustiva, le varie angolazioni dell’albero, quella frontale, i lati, il retro non si presentano come frammenti scollegati, ma sono percepiti come istanti sinteticamente integrati; ma tale processo sintetico è ancora una volta di natura temporale. Fenomenologicamente, posso anche scoprire certe caratteristiche gestaltiche della percezione. La percezione visiva si presenta con una struttura caratteristica, tale che, normalmente, si mette sempre a fuoco qualcosa, sfuocando il resto. Metto a fuoco alcuni oggetti, mentre altri sono sullo sfondo, o sull’orizzonte, o alla periferia. Posso spostare il fuoco e far avanzare qualcos’altro in primo piano, ma solo al prezzo di sfuocare e mettere all’orizzonte il primo oggetto che ho osservato (Callagher e Zahavi, 2022, pp. 27).

La realtà che l’individuo vive è un’entità, che è derivata da tre dimensioni, ovvero la mente, il corpo e l’ambiente, nella quale i tre costituenti sono strettamente legati. Da questo punto di vista non esistono a livello ontologico le separazioni fra soggetto e oggetto, fra la mente fenomenologica e la mente cognitiva.

L’uomo costruisce, quindi, la mappa cognitiva dell’ambiente in cui vive attraverso il suo sistema percettivo, che determina delle datità fenomenologiche che concorrono a costruire la sua cognizione della realtà. Infatti, la conoscenza di essa è sempre frutto di percezione che il soggetto struttura di ogni elemento che la compone e che è diversa nelle differenti individualità.

 In sostanza, l’essere umano si fa un’idea del mondo attraverso la fenomenologia delle cose, degli eventi e delle vicende biografiche che costituiscono il suo ciclo di vita. La percezione di datità, quindi, si diversifica nell’ambito della cognizione della realtà posseduta da ognuno, mediante l’utilizzo di fenomenologie di tutti gli elementi della realtà. In pratica, se parliamo di un costrutto comune che designa un oggetto della realtà, in esso troviamo indissolubilmente legate tre dimensioni, ossia l’elemento, la percezione di esso e la processualità mentale (cognitiva e psicologica), che rende fattibile la percezione di quell’elemento.

La mente può, quindi, essere intesa come l’insieme delle significazioni che il soggetto dà alle datità che compongono il suo mondo, attraverso l’attribuzione di senso fenomenologico ad ogni oggettualità reale.

Come si è detto, strumento importante di conoscenza è rappresentato dal corpo: infatti, l’uomo attraverso la sua corporeità costruisce le sensazioni dalle quali discendono le cognizioni della realtà, che appaiono sempre parziali, in quanto la conoscenza di ogni elemento è sempre un atto cognitivo parziale, nel quale viene rappresentata solo una dimensione dell’oggetto della realtà, connotandolo in una prospettiva temporale.

Non ci può essere cognizione senza corporeità. È un fatto […] che le nostre percezioni e azioni dipendono dal nostro avere dei corpi e che la cognizione è plasmata dalla nostra esistenza corporea. Si aggiunga a ciò che il corpo “pre-elabora” e filtra i segnali sensoriali in ingresso e “post-elabora” e limita i segnali efferenti che contribuiscono al controllo motorio (Callagher e Zahavi, 2022, pp. 224 – 227).

Ancora, la funzione della mente è quella di attribuire dei significati in una temporalità precisa alla realtà che il soggetto vive attraverso la sua corporeità. Essa si costruisce mediante il paradigma della mente incarnata, ovvero una mente che mette insieme procedure mentali e processi corporei, nelle quali le due processualità sono indissolubilmente legate ed organiche.

In conclusione, obiettivo della monografia è quello di costruire un paradigma scientifico che possa spiegare i costrutti fondamentali della mente e del suo funzionamento, fornendo contributi alle scienze cognitive, in particolare, e alle neuroscienze, in generale, attraverso il ricorso all’approccio fenomenologico della filosofia della mente.

 

Le esperienze di vita negative e gli effetti sulla salute mentale per i giovani transgender o gender-diverse

Le persone transgender hanno un genere incongruente con il sesso assegnato loro alla nascita. Il termine “gender-diverse” si utilizza per fare riferimento alle persone che hanno un’identità di genere (compresa la loro espressione di genere) in contrasto con ciò che è percepito come la norma in un particolare contesto sociale in un determinato periodo (Principles, 2006).

 

 Recentemente si è riscontrato un aumento delle persone trans e gender different (TGD), in particolare giovani, che si recano presso le cliniche di tutto il mondo per interventi di conferma di genere (Telfer et al., 2015). Il numero di giovani trans e gender-diverse è aumentato rispetto alle precedenti stime, e ammonta al 2,7% tra gli adolescenti (Rider et al., 2018). È necessario specificare che i transgender o gender-diverse non appartengono ai gruppi LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersessuali e queer), sebbene spesso la ricerca sulla salute mentale tenda a considerarli come un unico gruppo, dimenticando che genere e sessualità sono due cose ben diverse. Alcuni studi hanno dimostrato infatti che i giovani LGBTQI nel corso delle loro vita sperimentano una salute mentale peggiore rispetto alla popolazione generale, salute che peggiora ulteriormente per i giovani trans rispetto ai loro coetanei gay, bisessuali e lesbiche (Veale et al., 2017). Inoltre, studi passati hanno dimostrato che durante l’infanzia i bambini non conformi al genere avevano maggiori probabilità di avere sintomi depressivi durante l’adolescenza e la prima età adulta, probabilmente a causa dell’esposizione a eventi di vita avversi come bullismo e abusi.

La salute mentale tra giovani trans e gender-diverse

Una ricerca di Reisner e colleghi (2015), per esempio, ha riscontrato che i giovani trans avevano un rischio due o tre volte maggiore di depressione e disturbi d’ansia rispetto ai coetanei conformi al genere. Anche per quanto riguarda il suicidio sembra che i giovani trans di età compresa tra i 19 e i 25 anni abbiano una probabilità maggiore rispetto ai giovani cisgender di autolesionismo e di tentativi di suicidio: il 37,8% di adolescenti in Canada e il 45% nel Regno Unito hanno tentato almeno una volta il suicidio (Bradlow et al., 2017). Le probabilità di avere pensieri suicidari e di tentare il suicidio sono infatti significativamente maggiori dei cisgender, rispettivamente del 31% rispetto all’11% e del 17,2% rispetto al 6,1% (Reisner et al., 2015). Il rischio e l’ideazione suicidaria hanno probabilmente cause multifattoriali attribuibili a crisi di vita, alla transfobia o allo stress provocato dall’essere una minoranza all’interno di un contesto (Testa et al., 2017). Uno studio precedente relativo alla salute mentale nazionale australiana dei giovani trans e gender-diverse, ha dimostrato che il 70% dei giovani del loro campione esposti ad abusi o discriminazioni si era autolesionato e il 37% aveva tentato di suicidarsi (Smith et al., 2014). Risultati simili sono stati riscontrati anche per gli adulti (Testa et al., 2012). Vi sono infatti alcuni contesti nei quali le popolazioni trans sperimentano uno stress maggiore causato dall’aspettativa di essere rifiutati. Questi sono ad esempio i bagni pubblici o i documenti di identità che non corrispondono all’espressione di genere. Accade quindi che i giovani che sono sottoposti a violenze da parte dei loro coetanei sperimentino livelli maggiori di sintomi depressivi con una conseguente riduzione del senso di appartenenza all’interno della scuola e tra pari: l’aumento della non conformità di genere di un giovane aumenta anche la probabilità di essere vittima di bullismo (Gordon et al., 2018).

La letteratura su trans e gender-diverse

 Pochi studi hanno esaminato l’impatto di eventi negativi e traumatici sul benessere mentale delle persone trans e gender different, uno studio australiano aveva esaminato alcuni aspetti della loro salute mentale tralasciando però alcuni fattori come il bullismo, la discriminazione e altri fattori negativi per la salute come l’autolesionismo, le diagnosi psichiatriche e la suicidalità (Smith et al., 2014). Una ricerca di Strauss e colleghi del 2020 aveva quindi come obiettivi quelli di studiare i problemi di salute mentale che colpiscono i giovani transgender o gender-diverse e indagare le potenziali relazioni tra eventi di vita negativi e risultati negativi per la salute mentale. Il campione dello studio era composto da 859 giovani che si auto-identificavano come trans o gender-diverse (TGD) di età compresa tra i 14 e i 25 anni residenti in Australia tra febbraio e agosto 2016. Per i soggetti sono state valutate tramite un questionario sia componenti quantitative che qualitative: dapprima diagnosi psichiatriche auto-riferite, successivamente gli esiti negativi sulla salute e la sintomatologia ansiosa e depressiva attuale, infine le esposizioni a eventi di vita negativi e fattori di stress. I risultati mostrano che in Australia i giovani trans o gender-diverse sperimentano elevati livelli disagio mentale che comprendono pensieri suicidari (82,4%), autolesionismo (79,7%) e tentativi di suicidio (48,1%). Inoltre per la maggior parte dei soggetti è emersa una diagnosi di ansia o depressione e molti di loro erano esposti a esperienze negative tra cui il bullismo (74,0%) e la discriminazione (68,9%). Quasi tutti i risultati negativi emersi sono associati a esperienze negative come problemi all’interno del contesto educativo o alloggio precario. Molti dei partecipanti che avevano tentato il suicidio, per esempio, avevano una probabilità estremamente maggiore (di quasi sei volte) di aver avuto problemi trascorsi come la mancanza di una casa.

Conclusioni

In conclusione, è emerso che le popolazioni trans e gender-diverse, anche in un campione non clinico, sperimentano problemi di salute mentale a tassi più elevati rispetto alle popolazioni cisgender, sono soggetti a esperienze negative come bullismo e discriminazione che sono associati ad una scarsa salute mentale. È necessario quindi che i coetanei, le famiglie e il contesto scolastico li sostengano e siano inclusivi dal punto di vista del genere per rispondere in modo efficace e appropriato alle esigenze di salute mentale dei giovani trans e gender-diverse. Inoltre, siccome un numero sempre maggiore di giovani trans e gender-diverse cerca supporto nei servizi di salute medica e mentale è importante creare e offrire ai ragazzi interventi mirati e un’assistenza sanitaria competente.

 

In ricordo di Mario Fulcheri, di Paolo Moderato

Mario Fulcheri apparteneva alla stessa mia generazione accademica: professori delll’età dei boomers, che hanno attraversato e vissuto tutte le riforme universitarie dal 1973 in avanti, hanno passato tutti i gradini della carriera universitaria, e che hanno contribuito, scientificamente e organizzativamente, allo sviluppo della psicologia in Italia.

Infatti anche Mario si è molto speso nella governance universitaria, ci incontravamo spesso a Roma al MIUR, o alla CRUI alle riunioni sul counseling e l’orientamento universitario, e sulla disabilità, negli anni in cui questi temi erano, almeno da alcuni di noi, particolarmente sentiti. L’ultimo ricordo che ho di lui si riferisce proprio a un piacevolissimo incontro (perché Mario era persona piacevole anche fuori dallo stretto ambito accademico)  in occasione del Congresso della SIO, la Società Italiana dell’Orientamento, a Fondi, assieme a Salvatore Soresi, anima di quella società, e Saulo Sirigatti, anche lui recentemente scomparso.

 

Nota della Redazione:

Chi era Mario Fulcheri

È mancato, all’età di 74 anni, il Prof. Mario Fulcheri, medico psichiatra, docente di psicologia clinica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti.

Mario Fulcheri si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1972, per specializzarsi poi con lode in Psichiatria quattro anni dopo. Dapprima professore di Psicologia Medica presso l’Università di Torino, ha proseguito come Professore di Psicologia Clinica all’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, dove ha rivestito successivamente la carica di Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute.

Il Prof. Mario Fulcheri, nel corso della sua carriera, si è dedicato alla ricerca in diversi ambiti, tra cui la psicologia clinica ospedaliera, la psicologia clinica forense, la psicologia clinica gerontologica e la psicologia positiva e del benessere. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo i volumi: Vivere e valorizzare il tempo. Invecchiare con creatività (opera pubblicata in tre parti, con la collaborazione di M. Cesa-Bianchi, C. Cristini e L. Peirone); La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto (scritto con C. Marocco Muttini C. e C. M. Marchisio) e Momenti critici dell’esistenza: l’adolescenza, il tempo del lavoro, l’invecchiamento (realizzato con F. Monaco).

Diversi i messaggi di cordoglio e di vicinanza alla famiglia, tra cui quello dell’Ordine Psicologi dell’Abruzzo in cui si legge: “È un giorno triste. Ci lascia il prof. Mario Fulcheri (..) maestro e punto di riferimento per generazioni di colleghe e colleghi” e quello dell’Associazione Psicoanalitica Abruzzese che perde “un amico fraterno che generosamente ha contribuito allo sviluppo della psicologia in Abruzzo”.

Noto non solo come illustre Professore, ma anche come una persona di estrema vivacità culturale, lascia un segno anche nei suoi ex allievi che in questi giorni, commossi per la perdita, commentano la notizia sui social ricordando anche la sua allegria e la sua nobiltà d’animo.

Siamo vicini alla famiglia e a tutti i suoi colleghi.

 

Il livello minimo di formazione – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 14

Lo scopo di questo articolo è di esaminare quelli che gli esperti hanno identificato come requisiti formativi minimi e indispensabili per i percorsi di laurea di Psicologia e Medicina, al fine di operare un cambiamento nella direzione di quanto emerso da questa Consensus Conference.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 14) Il livello minimo di formazione

 

 Nello scorso numero abbiamo visto quali sono le iniziative percorribili dalle scuole di specializzazione abilitanti all’esercizio della psicoterapia per garantire l’applicazione di cure psicologiche basate su prove di efficacia per i disturbi ansiosi e depressivi.

Lo scopo di questo articolo è di esaminare quelli che gli esperti hanno identificato come requisiti formativi minimi e indispensabili per i percorsi di laurea di Psicologia e Medicina, al fine di operare un cambiamento nella direzione di quanto emerso da questa Consensus Conference.

Quesito C2: il livello minimo

Quale va considerato il livello di informazione e formazione minima che devono fornire i corsi di laurea in Medicina e i corsi di laurea specialistica in Psicologia Clinica, in merito alle terapie psicologiche per ansia e depressione che hanno prove di efficacia?

Il Tavolo di Lavoro del Tema C ritiene che nei corsi di laurea in ambito psicologico e sanitario sia necessaria la presenza di un monte ore dedicato all’alfabetizzazione riguardo le misure d’efficacia dei trattamenti, le rassegne meta-analitiche e la consultazione di linee guida internazionali. Tale monte ore va differenziato in base ai diversi corsi di laurea.

Inoltre, rispetto a come viene trattata l’efficacia delle psicoterapie nella manualistica utilizzata attualmente nei programmi di laurea, gli Esperti evidenziano una disamina minima e non aggiornata della letteratura scientifica di riferimento.

Raccomandazioni C2

 I requisiti inerenti alle conoscenze specialistiche, raccomandati dagli esperti in quanto minimi e fondamentali per una pratica clinica evidence-based (ovvero, basata sull’efficacia), si declinano in base ai corsi di laurea.

Per quanto riguarda la laurea triennale in Psicologia è necessario includere un’alfabetizzazione specifica sui disturbi ansiosi e depressivi, che comprenda i modelli teorici della psicologia clinica e dei principali sistemi di classificazione diagnostica.

Fornire questa base di conoscenze nel programma didattico della laurea triennale, consente di inserire nella formazione della laurea magistrale in Psicologia Clinica informazioni avanzate sulle manifestazioni dell’ansia e della depressione con gli indicatori di gravità e rischio, sulle basi e le differenze degli interventi clinici e sulle misure di efficacia dei trattamenti, basate sulle rassegne meta-analitiche e le linee guida internazionali relativamente ai disturbi in esame. Nello specifico, secondo gli esperti, i requisiti formativi minimi per questo corso di laurea sono i seguenti (ISS, 2022):

  • conoscere i diversi livelli di prevenzione in ambito psicopatologico;
  • conoscere i principali quadri clinici dei disturbi ansiosi e depressivi, unitamente alle loro comorbilità e agli indicatori di gravità e rischio;
  • conoscere i principali strumenti psicometrici standardizzati e gli aspetti teorici ed empirici dei DMC (Disturbi Mentali Comuni, come ansia e depressione);
  • conoscere i principi di farmacoterapia applicabile ai DMC (ovvero ansiolitici e antidepressivi);
  • conoscere i diversi tipi di intervento clinico, come quelli supportivi e psicoeducativi, le attività di gruppo, gli interventi psicosociali a bassa intensità e la psicoterapia ad alta intensità, individuale e di gruppo;
  • saper riconoscere i principali indicatori di efficacia degli interventi psicoterapeutici;
  • sviluppare competenze inerenti all’alleanza terapeutica, il lavoro di équipe, l’etica e la deontologia professionale.

Riguardo invece al corso di laurea in Medicina, è necessario integrare alcuni fondamentali elementi di psicologia clinica. Primo fra tutti il costrutto relazionale dell’empatia, in termini sia conoscitivi che applicativi, per esempio nella risposta –empatica appunto— ad una richiesta di aiuto, oppure nella comunicazione della diagnosi e l’esito della cura.

Altri aspetti giudicati come essenziali dagli Esperti consistono nei princìpi psicologici che regolano il rapporto medico-paziente, gli elementi di base della comunicazione e le evidenze scientifiche sulla validità dell’intervento psicoterapeutico, rispetto a quello farmacologico, per i disturbi ansiosi e depressivi.

Infine, con l’obiettivo di creare una rete di terapeutica inviando il paziente ad un servizio specialistico, è necessario saper riconoscere la sofferenza psicopatologica nelle sue varie forme, anche sotto-soglia per poter operare in un ottica di prevenzione.

 

Famiglie LGBTQ+: coppie e genitorialità – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Famiglie LGBTQ+: coppie e genitorialità. 

 

Quali sono le difficoltà di una coppia LGBTQ+? E com’è essere genitore LGBTQ+? Un bambinӘ che cresce con due genitori gay avrà problemi in futuro? Queste sono alcune delle domande e preoccupazioni che ci si pone quando si pensa alla famiglia LGBTQ+. Senza fronzoli ideologici o politici, in questo episodio del podcast si avrà modo di approfondire le varie difficoltà che una famiglia LGBTQ+ vive a causa del minority stress, lo stress cronico che ogni persona LGBTQ+ esperisce a causa dell’interazione con episodi di discriminazione, o di vissuti interni come l’omonegatività interiorizzata.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologo, Educatore Pedagogico, Docente presso Sigmund Freud University Milan & Wien e dal Dott. Luca Daminato, dottore in Psicologia, dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Phineas Gage: il caso dell’uomo che visse con un buco nel cervello, cambiando il mondo della medicina

È emblematico il caso di Phineas Gage, uno dei più famosi casi di studio nel campo della medicina, della psicologia, come anche delle neuroscienze. 

 

 Phineas Gage era un operaio addetto alla costruzione delle ferrovie negli Stati Uniti, fino a quando, nel 1848, fu vittima di un incidente a cui sopravvisse miracolosamente, anche dopo che una trave di metallo gli trapassò il cranio, dal basso verso l’alto. Questa, infatti, entrò dallo zigomo sinistro e uscì dalla parte superiore del cranio (Damasio et al., 1994).

Dopo l’incidente, egli era di nuovo sveglio e reagiva normalmente, riuscendo a muoversi e anche a parlare, nonostante i presenti raccontassero di aver visto la trave piena di sangue e materia cerebrale. L’oggetto gli aveva distrutto gran parte del lobo frontale sinistro, il che ha avuto un forte impatto sulla sua personalità e sul suo comportamento.

La sua personalità subì radicali trasformazioni a livello sia relazionale che emotivo, a tal punto che amici e conoscenti dichiararono di non riconoscerlo (Kotowicz, 2007).

Considerato da tutti come una persona corretta, amabile e disponibile fino all’incidente, da quel momento Phineas presentò tratti di personalità del tutto opposti: diventò una persona scorbutica, indisponente e priva di freni inibitori a livello verbale, utilizzando addirittura un linguaggio blasfemo e aggressivo, non sopportava il minimo diniego o consiglio, e faceva molti progetti che abbandonava pochi minuti dopo. Venne descritto addirittura come un bambino con gli stessi istinti animali di un adulto. A quel punto, tutto ciò, portò l’uomo a perdere il lavoro e anche molte delle sue amicizie e dei suoi familiari (Macmillan, 2002).

Gli studi sul particolare stato di Phineas Gage hanno portato a grandi cambiamenti rispetto alla comprensione, clinica quanto scientifica, delle funzioni cerebrali e della loro localizzazione nel cervello, in particolare per quanto riguarda le emozioni e la personalità (Macmillan, 2000).

 Questo caso ha influenzato le discussioni del XIX secolo sulla mente umana e, in particolare, ha acceso il dibattito sul reale posizionamento del cervello nell’essere umano. In particolare, il caso di Gage è stato il primo a suggerire l’importanza del ruolo del cervello nel determinare la personalità e, inoltre, a specificare come un danno a parti specifiche del cervello potesse indurre a determinati cambiamenti (Harlow, 1848).

Involontariamente, egli ha segnato un giorno importantissimo per l’avanzamento nel campo della medicina, e in particolare della neurologia, in quanto il suo caso è considerato un tassello fondamentale che ha poi posto le basi delle moderne neuroscienze.

Egli fu infatti il primo soggetto a subire quella che poi verrà definita “lobotomia”, ossia un taglio delle connessioni tra il lobo frontale e il resto del cervello. Proprio da questa disconnessione derivavano i suoi cambiamenti a livello emotivo e relazionale. Il cambio di personalità era infatti determinato dal danno ad una quantità superiore del 10% della materia grigia, che in genere consente all’essere umano di ricordare e ragionare accuratamente, gestendo gran parte dei comportamenti.

In conclusione, il caso di quest’uomo è stato il punto di partenza per studiare la corteccia prefrontale, con i suoi relativi ruoli e funzioni, che prima dell’incidente risultavano essere del tutto sconosciuti.

Quindi, Phineas Gage ha lasciato un segno come paziente nel mondo della medicina e, inoltre, è stato un esempio di come le migliori scoperte scientifiche accadano per caso.

L’influenza dell’abuso di Internet sul benessere psicofisico

L’uso prolungato di Internet ha reso le persone talmente tanto dipendenti dalla vita online, che pochi minuti senza avere tra le mani un dispositivo elettronico può renderle irritabili, con conseguenti vissuti di ansia e agitazione psicomotoria. Si parla in questo caso di Dipendenza da Internet o Internet Addiction.

 

Introduzione all’utilizzo di Internet

 Negli ultimi anni, Scienza e Tecnologia hanno fatto degli enormi progressi, cambiando radicalmente gli stili di vita delle persone in tutto il mondo (Praisy et al., 2020). Grazie a questi progressi, la comunicazione con gli altri, indipendentemente da dove essi si trovino, è diventata estremamente semplice e notevolmente più veloce rispetto a dieci anni fa.

Al giorno d’oggi, Internet è diventato un elemento fondamentale e irrinunciabile nella vita delle persone, fungendo da assistente personale, semplificando e svolgendo moltissimi ruoli diversi, come ordinare del cibo, lavorare, fare da promemoria per eventi fino ad aiutare le persone a dormire, mediante l’utilizzo di diversi programmi (Praisy et al., 2020). Inoltre, Internet aiuta le persone a comunicare, a imparare qualcosa di nuovo, a rimanere sempre aggiornati riguardo agli ultimi avvenimenti e svagarsi.

Il lato oscuro di Internet

Nonostante sia uno strumento utilissimo nella vita quotidiana, Internet è in realtà una moneta con due facce opposte (Praisy et al., 2020). Infatti, l’uso prolungato di Internet ha reso le persone talmente tanto dipendenti dalla vita online, che pochi minuti senza avere tra le mani un dispositivo elettronico può renderle irritabili, con conseguenti vissuti di ansia e agitazione psicomotoria. Non a caso si parla oggi di Dipendenza da Internet o Internet Addiction. L’uso patologico della tecnologia digitale si è scoperto essere una fonte di diverse problematiche di salute, sia fisica che mentale. tra cui  diverse condizioni patologiche, come ad esempio l’abuso di Internet, il gioco d’azzardo online o il cyberbullismo.

 L’utilizzo eccessivo di Internet, come anche la dipendenza, si accompagna frequentemente a rabbia, tensione e ansia (Praisy et al., 2020). Queste manifestazioni hanno un effetto dannoso sulla salute dell’individuo, incoraggiando inoltre comportamenti negativi, come il ritiro sociale. La categoria di persone più a rischio è sicuramente quella degli adolescenti. Infatti, negli ultimi vent’anni, è stata proprio la categoria degli adolescenti ad aver esibito una forte dipendenza da Internet, in termini di quantità di individui che passano la maggior parte del loro tempo su Internet.

La relazione tra l’abuso di Internet e il benessere psicofisico

Numerosi studi hanno riportato l’esistenza di una relazione inversa tra la dipendenza da Internet e il benessere mentale e psicologico di un individuo (Praisy et al., 2020). L’uso eccessivo di Internet ha la possibilità di influenzare lo stato emotivo di una persona. Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che gli individui che hanno una dipendenza da Internet tendono a processare le informazioni molto più lentamente rispetto agli altri (Praisy et al., 2020). La dipendenza da Internet, infatti, ha effetti negativi sulle risposte psicologiche ed emotive dell’individuo, influenzando anche il tempo di reazione, ovvero la quantità di tempo necessaria per rispondere ad uno stimolo. Questo tempo è gestito dalle connessioni nervose, ed è importante per misurare la velocità dei riflessi psicomotori e la stabilità emotiva di un individuo. L’uso eccessivo di Internet sembra modificare le connessioni nervose, aumentando il tempo di reazione dell’individuo, causando quindi un rallentamento psicomotorio.

La dipendenza da Internet è quindi una problematica che richiede una maggiore attenzione, al fine di tutelare il benessere psicofisico delle persone che utilizzano questo strumento quotidianamente (Praisy et al., 2020).

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista alla Dott.ssa Roberta Stoppa

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio. In questo numero pubblichiamo l’intervista alla Dott.ssa Roberta Stoppa.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dall’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista alla Dott.ssa Roberta Stoppa

Pubblichiamo l’intervista alla Dott.ssa Roberta Stoppa, Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, Direttrice organizzativa e operativa delle scuole di specializzazione del Gruppo Studi Cognitivi, Consigliera di Indirizzo Generale per ENPAP.

State of Mind (SoM): Cosa ne pensa del bando dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Quali possono essere gli aspetti positivi e negativi?

Dott.ssa Roberta Stoppa (RS): L’iniziativa risponde certamente ad un crescente bisogno di psicoterapia e alla necessità di favorire l’accesso gratuito dei cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione, utilizzando un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference.

In questo senso l’unico aspetto positivo che vedo in questa proposta è il tentativo di dare una risposta ad un bisogno. Tuttavia, quando la risposta è inefficace già a livello progettuale, e soprattutto non si avvale dell’immenso patrimonio di dati e di esperienze già condotte dal sistema sanitario inglese, rischia di diventare un’occasione persa.

Nel progetto “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione” si cita in più parti lo IAPT inglese come modello di riferimento e credo sia utile ricostruire il contesto storico che ha portato alla nascita del progetto inglese, proprio per comprendere alcune differenze radicali. I servizi IAPT mirano a fornire le terapie psicologiche che sono raccomandate dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE). Qualche mese fa David Clark, Professore di Psicologia Sperimentale dell’Università Oxford, è stato ospite del forum della ricerca biennale organizzato dalle Scuole di Psicoterapia del Gruppo Studi Cognitivi; in quell’occasione ci ha raccontato che nelle fase iniziale del progetto IAPT non esistevano fondi e una delle prime azioni determinante nel successo del progetto fu quello di coinvolgere economisti, clinici e ricercatori, per portare evidenze al ministro della sanità di come un aumentato accesso alle terapie psicologiche sarebbe stato in grado di ridurre i costi pubblici legati alla depressione e all’ansia (prestazioni sociali e costi medici) e avrebbe permesso una diminuzione dei giorni di inattività per malattia con un rientro più rapido al lavoro e un conseguente aumento della produttività. Questo argomento fu delineato per la prima volta in un documento (Layard 2005) per Tony Blair intitolato “Mental Health: il più grande problema sociale della Gran Bretagna”. Quando si portano evidenze economiche la politica risponde sempre e, in quel caso, rispose immediatamente. Il governo britannico finanziò infatti due progetti pilota nelle due contee di Doncaster e Newham. I dettagli completi dei servizi clinici che sono stati sviluppati nei due siti esplorativi e i risultati che hanno ottenuto nel loro primo anno si possono trovare in Clark et al. (2009) e Richards & Suckling (2009).

Il successo dei progetti pilota di Doncaster e Newham e il continuo dibattito pubblico sugli argomenti di natura sia clinica che economica relativamente al progetto IAPT hanno portato allo sviluppo di un piano per un’implementazione nazionale del programma. Le grandi linee del piano sono state annunciate nella Giornata Mondiale della Salute Mentale da Alan Johnson che ha dichiarato: “Costruiremo un servizio di terapia psicologica innovativo in Inghilterra”.

Nei 12 mesi successivi un gruppo di esperti ha lavorato su ulteriori dettagli del piano e i primi servizi IAPT hanno aperto le porte ai pazienti nel settembre 2008. L’implementazione è stata graduale. Nel 2010 ci fu un cambio di governo. Il nuovo governo (una coalizione conservatrice e una coalizione liberaldemocratica) si è impegnato a espandere ulteriormente la capacità dei servizi IAPT in un documento chiave intitolato “No Health without Mental Health” (DH, 2011). Nel 2015 il governo è cambiato di nuovo (con un’amministrazione conservatrice) e il nuovo governo ha confermato l’impegno ad espandere il programma IAPT, sostenendo le proposte in un documento chiave intitolato “Five Year Forward View for Mental Health” (NHS England 2016).

Riassumendo, fino a qui ci sono due punti centrali che non troviamo nel progetto “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”:

  • La raccolta di dati economici e non solo clinici che permettano di leggere in modo causale alcuni fenomeni e i relativi impatti
  • Il coinvolgimento del ministero della salute e del governo nel sostenere economicamente l’iniziativa
  • La volontà di ristrutturare i servizi pubblici che offrono terapie psicologiche per ansia e depressione e, soprattutto, di continuare a formare gli operatori.

SoM: In che misura, ed eventualmente in che modo, questa iniziativa è un possibile passo avanti verso l’accesso alla salute emotiva della popolazione generale e a trattamenti psicoterapeutici empiricamente fondati?

RS: Francamente non lo ritengo un passo avanti, ma una mancata opportunità. Il passo avanti si sarebbe potuto fare, come accadde per lo IAPT inglese, avviando il progetto con alcuni servizi sanitari regionali che adottano già terapie evidence-based per ansia e depressione, che hanno già avviato il modello stepped care distinguendo tra interventi ad alta e bassa intensità e lo fanno utilizzando un modello organizzativo che vede l’integrazione di diversi ruoli al suo interno. Sarebbe stato utile interpellare economisti, psicologi del lavoro e ricercatori per definire quali metriche avrebbero potuto dare evidenza di un vantaggio economico per lo Stato. Stieglitz et altri nel libro “Misurare ciò che conta” scrivono: “viviamo in un mondo di metriche, nel quale quantifichiamo costantemente i nostri progressi, il nostro successo. E ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo. Se oggi misuriamo la cosa sbagliata, domani faremo la cosa sbagliata. Se non misuriamo qualcosa, questo qualcosa viene ignorato, come se il problema non esistesse”. Se non misuriamo l’impatto economico che un disturbo d’ansia o depressione provoca sul singolo e sulla collettività, come possiamo pensare che un governo fatto da politici che hanno frequentato la scuola italiana che non prevede mai, in nessun ciclo, una materia di educazione affettiva ed emotiva, comprenda il significato di “salute psicologica”?

In termini di misurazione, IAPT ha adottato un sistema di monitoraggio dei risultati sessione per sessione e questo, a mio avviso, rappresenta l’unico modo di poter basare la propria pratica su evidenze in grado di restituire informazioni preziose per la pianificazione del trattamento; ai pazienti, infatti, viene chiesto di completare brevi questionari volti a produrre, ad ogni sessione, misurazioni di depressione, ansia e disabilità legate alla salute mentale. In questo modo i dati di risultato post-trattamento sono disponibili anche se un paziente finisce la terapia prima del previsto.

 I servizi hanno sistemi informatici specializzati che rendono immediatamente disponibili ai supervisori e ai manager del servizio i dati e le analisi condotte sui pazienti. L’adozione del sistema di monitoraggio dei risultati, sessione per sessione, ha permesso ai servizi IAPT di ottenere dati sui risultati sul 98,5% di tutti i pazienti che hanno un programma di trattamento (NHS Digital 2016). Una volta al mese i dati dei pazienti di ogni servizio IAPT fluiscono in forma di dati pseudo-anonimizzati a NHS Digital (www.digital.nhs.uk), un’agenzia governativa che gestisce le statistiche nazionali.

Leggendo il bando Enpap invece troviamo questa indicazione: “Lo psicologo registra i dati personali non identificativi, le informazioni cliniche e i dati del trattamento in un unico database nazionale, dove l’utente è identificato dal codice inizialmente assegnato. Il database sarà disponibile per analisi e ricerche epidemiologico-cliniche all’ENPAP e a tutte le strutture universitarie partecipanti al progetto”.

L’enorme mole di dati messa a disposizione dal sistema inglese ci permette di comprendere come la forza del dato risieda nel continuo monitoraggio che il manager del servizio opera, nel confronto con un benchmark che consenta di allinearsi ai risultati in una logica di miglioramento continuo. Rimane oscura la ragione per cui la cassa di assistenza e previdenza degli psicologi ENPAP debba accedere prioritariamente ai dati per condurre analisi e ricerche epidemiologico-cliniche. E nuovamente possiamo identificare una mancata opportunità nel non “costruire” organizzazioni locali di professionisti in grado di poter analizzare e utilizzare quei dati in relazione al territorio.

Infine, un’ultima considerazione: il progetto inglese ci insegna che per misurare gli esiti non è sufficiente predisporre una valutazione dei sintomi all’inizio e alla fine del trattamento, ma un monitoraggio sessione per sessione e un’analisi costante e attenta a fruire di quei dati per guidare il trattamento stesso. Perché non tener conto di queste conoscenze grazie all’esperienza fatta dai colleghi inglesi?

Un sondaggio sui servizi di terapia psicologica (Clark et al. 2008, Stiles et al. 2007) riscontrò che solo il 38% dei pazienti aveva una valutazione dei sintomi all’inizio e alla fine del trattamento. I terapeuti, infatti, consegnavano ai pazienti esclusivamente un questionario sui sintomi da completare all’inizio e alla fine del trattamento. Poiché i pazienti non sempre completavano la terapia quando previsto e i terapeuti non avevano l’abitudine di raccogliere regolarmente misure di esito, questo implicava che i risultati post-trattamento spesso non fossero disponibili. I progetti pilota di Doncaster e Newham hanno mostrato inoltre che questo aspetto induceva i clinici che operavano nei servizi a sovrastimare la loro efficacia. Ci auguriamo che ciò non accada anche se sarebbe stato auspicabile che si tenesse conto di procedure efficaci già note.

SoM: Cosa ne pensa della distinzione che il bando fa tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia? È fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

RS: Credo sia poco produttivo alimentare un dibattito su questo punto; la formazione in psicologia è molto eterogenea e, dal punto di vista normativo, una psicologa o uno psicologo abilitati potrebbero operare in contesti clinici, pur non avendo una formazione clinica. Per questo ritengo che, indipendentemente dalla distinzione tra “alta o bassa intensità” che abbiamo mutuato da contesti anglosassoni con percorsi formativi più coerenti e lineari, sia utile tornare al quadro delle competenze di Roth e Pilling. Qualsiasi allievo che abbia avviato un percorso in una scuola di specializzazione sta facendo un percorso di sviluppo e maturazione di tali competenze. Per questa ragione, se il curriculum universitario si è sviluppato prevalentemente in area clinica con una forte componente di formazione sul campo e se una psicologa o uno psicologo stanno frequentando una scuola di specializzazione in psicoterapia, sono fiduciosa che, anche se “specializzandi”, possano condurre efficacemente un intervento psicoeducativo.

SoM: Un altro timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione fornita dalla borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente parziale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta. Cosa ne pensa?

RS: La formazione dei terapeuti è al centro del modello IAPT proprio perché la mancanza di terapisti adeguatamente formati è stato considerato a lungo il principale ostacolo all’attuazione delle linee guida NICE.

Sia la CBT ad alta intensità che i programmi di formazione degli operatori del benessere psicologico (PWP) prevedono sia una formazione universitaria, che un tirocinio strutturato. Per un periodo di circa un anno, infatti, i tirocinanti frequentano un corso universitario formato da lezioni, workshop e supervisioni di casi e lavorano in un servizio IAPT dove ricevono regolarmente supervisione. I servizi sono invitati a fornire ai tirocinanti l’opportunità di osservare direttamente le sessioni di terapia condotte da personale esperto che lavora nel servizio. Si tratta quindi di una formazione strutturata e attenta a fare in modo che i professionisti operino solo dopo aver ricevuto una formazione rigorosa e volta a incrementare un quadro complessivo di competenze: conoscenze, skills ed esperienze finalizzate.

In questo senso, Roth e Pilling (2008) hanno sviluppato un quadro di competenze che specifica le abilità cliniche che sono richieste per fornire trattamenti CBT empiricamente supportati per la depressione e i disturbi d’ansia. Il percorso formativo è progettato e strutturato per incrementare tali competenze.

Tali competenze vengono costantemente misurate e valutate attraverso la Cognitive Therapy Rating Scale (CTS-R: Blackburn et al. 2001) e l’analisi delle relazioni di casi clinici.

Con questo quadro di riferimento penso che non ci sia molto da commentare. Nel bando si legge: “gli psicologi beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione; possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta”. La progettazione delle tre giornate include argomenti di presentazione e inquadramento del progetto.

Trovo improbabile che il risultato di apprendimento atteso dopo tre soli giorni sia una solida “conoscenza dei modelli psicopatologici, dei principi e degli obiettivi degli interventi”.

SoM: Secondo alcuni il bando ENPAP compensa la carenza di pratiche formalizzate di accertamento e trattamento dei disturbi. Cosa ne pensa?

RS: Ho già espresso il mio pensiero a riguardo sopra. Certamente è un passo verso la consapevolezza che pratiche formalizzate di accertamento e trattamento dei disturbi potrebbero portare un beneficio a clinici e pazienti. Tuttavia, non solo in Italia, ma nella maggior parte dei paesi, sono pochi i pazienti che ricevono terapie evidence based e il motivo risiede nella mancanza di terapisti adeguatamente formati, nell’assenza di misurazioni adeguate a pianificare e condurre piani di trattamento efficaci, e purtroppo, nel caso del progetto ENPAP, nel mancato coinvolgimento del SSN e di coloro che potrebbero comprendere i benefici economici e sostenere lo sviluppo di progetti volti ad aumentare lo stato di salute psicologica della popolazione.

 

L’eredità emotiva (2022) di Galit Atlas – Recensione del libro

I traumi “non digeriti” dalla mente diventano l’eredità emotiva trasmessa ai propri figli e nipoti, manifestandosi secondo modalità che non riescono a comprendere o controllare.

 

Tutte le famiglie sono segnate da qualche storia traumatica.
Ogni trauma è conservato all’interno di una famiglia
in maniera unica e lascia il proprio marchio emotivo
su quelli che ancora non sono nati.

 Il campo dell’epigenetica ha ampliato la concezione di ereditarietà, dando rilevanza anche all’impatto dei fattori ambientali, a come natura e cultura si influenzino a livello molecolare dotando i geni di una sorta di memoria, che può essere trasmessa di generazione in generazione.

Galit Atlas nel suo libro “L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma” ci guida in un viaggio attraverso la “radioattività” del trauma, ossia la diffusione intergenerazionale della sua “radiazione” emotiva che si conserva nella mente e nel corpo dei discendenti come fosse un evento vissuto in prima persona, influenzando in modo importante le loro vite.

L’eredità emotiva: la trasmissione intergenerazionale del trauma

Attraverso i racconti dei suoi pazienti, le sue storie personali e il trauma della sua terra d’origine (Israele) Galit Atlas tratta, da una prospettiva psicoanalitica e sulla base della ricerca psicologica più recente, l’eredità emotiva, intesa come tutti quei segreti familiari, quei “fantasmi” del passato appartenenti a genitori, nonni, bisnonni e in generale agli antenati, che condizionano la salute fisica e mentale, creando sofferenza e impedendo di esprimere le proprie potenzialità: traumi di guerra, segreti di amori proibiti e di infedeltà, fantasmi di abusi sessuali, suicidi, lutti irrisolti ecc.

Il meccanismo difensivo della rimozione, come spiega Galit Atlas, ci protegge “scindendo un ricordo dal suo significato emotivo”, conservando il trauma come un evento “non particolarmente rilevante”; questo processo mentale difende dal provare qualcosa di troppo devastante ma, allo stesso tempo, mantiene il trauma isolato e non elaborato, limitando la capacità di analizzare la propria vita e di viverla al massimo del potenziale. Inoltre questi traumi “non digeriti” dalla mente diventano l’eredità emotiva trasmessa ai propri figli e nipoti, manifestandosi secondo modalità che non riescono a comprendere o controllare.

Tutto quello di cui non abbiamo consapevolezza viene rivissuto. Viene trattenuto nella nostra mente e nel nostro corpo, rendendosi palese attraverso quelli che chiamiamo sintomi: mal di testa, ossessioni, fobie, insonnia possono essere tutti segni di quello che abbiamo respinto nei più oscuri recessi della nostra mente.

L’eredità emotiva: oltre il retaggio del trauma

 Nel corso del libro, con scene tratte dalla sua esperienza clinica, Galit Atlas ci descrive le modalità attraverso cui possono essere individuate ed elaborate le esperienze traumatiche trasmesse, spezzando il silenzio e portando alla “liberazione delle parti di noi tenute prigioniere dai segreti del passato”.

Ricordare ed elaborare si rivelano significativi non solo per la persona ma anche per i suoi discendenti, in quanto non è esclusivamente il trauma che può essere trasmesso alle generazioni successive ma anche “il lavoro psicologico può cambiare e modificare gli effetti biologici del trauma”. Infatti, come spiega Galit Atlas, quando si impara a identificare l’eredità emotiva che abita dentro di sé, le proprie percezioni, sensazioni e comportamenti cominciano ad acquisire un senso, si apre “una porta” tra il presente e il trauma passato e si dispiega il cambiamento, ossia la possibilità di liberare la “capacità di amare, di investire nella vita, di creare e realizzare i nostri sogni” e di andare oltre il retaggio del trauma.

Il trauma viene trasmesso attraverso le nostre menti e i nostri corpi, ma lo stesso si può dire della resilienza e della guarigione.

Il processo decisionale sociale nelle donne con un Disturbo da Uso di Cocaina

Viola e colleghi, nel 2019, hanno condotto una ricerca per esplorare il processo decisionale sociale in un campione di donne con Disturbo da Uso di Cocaina, utilizzando i paradigmi Dilemma del Prigioniero o Ultimatum Game.

 

Il processo decisionale

 All’interno di una società, costituita da relazioni interpersonali e di gruppo, alcuni processi affettivi e cognitivi regolano la capacità di interagire in ambienti sociali. Tra questi, ad esempio, la necessità di prendere decisioni e formulare giudizi guidano il comportamento e influenzano gli altri (Hinterbuchinger et al., 2018). Il processo decisionale fa riferimento a una specifica funzione cerebrale di selezione di un piano d’azione tra diverse alternative (Hulka et al., 2014). Alla base di tale processo, nei contesti sociali, sono coinvolti anche i processi psicologici tra cui l’altruismo, la fiducia, la cooperazione e molti altri che vengono concettualizzati come “processi decisionali sociali” e sono stati studiati soprattutto nel settore economico comportamentale (Fehr & Camerer, 2007). Ultimamente, diversi studi si sono occupati di incorporare le neuroscienze comportamentali nello studio di tali processi per facilitare la comprensione della psicopatologia legata ai disturbi del funzionamento sociale (Wang et al., 2015). Inoltre sono stati sviluppati diversi strumenti sulla base dei paradigmi della teoria dei giochi che, tramite la simulazione di scelte da prendere nella vita reale, sono utili per comprendere il comportamento di pazienti psichiatrici nelle situazioni sociali. Tra questi, alcuni dei principali sono il Dilemma del Prigioniero (PD; Stewart & Plotkin, 2013) e l’Ultimatum Game (UG; Hinterbuchinger et al., 2018), che sono paradigmi ampiamente utilizzati nella psicologia sperimentale per testare i risultati della “cooperazione” rispetto all’”abbandono” in situazioni sociali complesse (Soutschek et al., 2015). Il primo ha come obiettivo quello di minimizzare le punizioni o evitare esiti negativi; l’Ultimatum Game, invece, ha come scopo quello di massimizzare i guadagni della ricompensa scegliendo l’opzione migliore all’interno di uno scenario ipotetico. Entrambi i paradigmi prevedono che i giocatori siano due: uno che propone e l’altro che risponde; ciò implica che le decisioni dell’uno possono essere condizionate o condizionare le risposte decisionali dell’altro. Alcuni studi in letteratura hanno dimostrato che diversi disturbi come la schizofrenia o il disturbo dello spettro autistico sono costituiti da delle alterazioni nel processo decisionale che si manifestano nell’interazione sociale e sono quindi ben individuate dal Dilemma del Prigioniero o dall’Ultimatum Game (Hartley & Fisher, 2018).

Il Disturbo da Uso di Cocaina

Il Disturbo da Uso di Cocaina (Cocaine Use Disorder, CUD) spesso risulta essere strettamente associato a violazioni delle norme sociali e all’isolamento sociale (Verdejo-Garcia, 2014). Alcune ricerche della letteratura hanno dimostrato che i cocainomani hanno diversi problemi a gestire delle questioni sociali o interpersonali tra cui, per esempio, i conflitti familiari, il coinvolgimento criminale e le difficoltà a mantenere un lavoro (Preller et al., 2014). In aggiunta, l’uso duraturo di cocaina, che talvolta diventa cronico, può causare deficit cognitivi che provocano scarse prestazioni esecutive, di memoria e nei domini decisionali, oltre che difficoltà nella teoria della mente, che è fondamentale nelle interazioni sociali in quanto ci consente di spiegare e prevedere il comportamento degli altri attribuendo loro stati mentali indipendenti, come credenze e desideri (Pace-Schott et al., 2008). Tali alterazioni sono spesso collegate a difficoltà nell’adattarsi a richieste altrui e tassi più elevati di ricaduta, oltre che a una grande mancanza di aderenza al trattamento. Anche il genere contribuisce a differenziare gli esiti clinici legati al consumo di cocaina in quanto sembra che, sebbene il Disturbo da Uso di Cocaina sia più comune tra gli uomini, le donne abbiano maggiori problemi legati al lavoro, al supporto sociale, al coinvolgimento criminale e alla cura dei figli. Inoltre mostrano una maggiore gravità nel consumo di droga e sono più sensibili alle ricadute e a problemi interpersonali sul craving (Becker et al., 2016).

Il processo decisionale nella donne con Disturbo da Uso di Cocaina

 Viola e colleghi, nel 2019, hanno condotto una ricerca per esplorare il processo decisionale sociale in un campione di donne con Disturbo da Uso di Cocaina, utilizzando i paradigmi Dilemma del Prigioniero o Ultimatum Game, poiché aiutano a capire i processi psicologici di fiducia, correttezza e comportamento di cooperazione tra le dipendenti. Gli obiettivi erano quindi quello di capire se le donne fossero più inclini nel Dilemma del Prigioniero a cooperare o a rifiutarsi rispetto ad altre donne senza una storia di abuso di sostanze. Successivamente gli autori hanno valutato se le donne con Disturbo da Uso di Cocaina fossero più inclini a fare scelte giuste o ingiuste nell’Ultimatum Game. Infine hanno esplorato se gli effetti del Disturbo da Uso di Cocaina sul processo decisionale sociale potessero essere ancora più pronunciati tra le partecipanti con una storia a lungo termine di uso di droga. Sono state quindi reclutate 129 donne con diagnosi di Disturbo da Uso di Cocaina e 55 donne senza, le quali, dopo aver fornito informazioni demografiche sui modelli di consumo di sostanze e sulle prestazioni delle funzioni esecutive, hanno eseguito entrambi i compiti di decisione sociale.

I risultati mostrano che le donne con Disturbo da Uso di Cocaina hanno scelto più spesso di non rispondere al Dilemma del Prigioniero, mentre nel Gioco dell’Ultimatum hanno spesso scelto di accettare la prima offerta spesso ingiusta. Questi risultati sono più evidenti nelle donne con un Disturbo da Uso di Cocaina a lungo termine. La bassa sensibilità nei soggetti affetti da Disturbo da Uso di Cocaina diminuisce infatti il processo di distinzione tra stimoli e implica un modello decisionale del tipo “tutto o niente” durante l’Ultimatum Game, in particolare quando si ricopre il ruolo di colui che risponde. Ciò è supportato anche dai risultati che dimostrano che il Disturbo da Uso di Cocaina è associato a una risposta debole alla ricompensa dell’interazione sociale, suggerendo uno squilibrio tra il valore esagerato attribuito alle droghe e la svalutazione per altre ricompense, tra cui gli stimoli sociali (Verdejo-Garcia, 2014). Inoltre, risultati neurobiologici hanno suggerito un’ipoattivazione dell’insula e delle regioni cingolate anteriori del cervello tra i soggetti con Disturbo da Uso di Cocaina durante l’esecuzione dell’Ultimatum Game, che si riflette in una minore elaborazione emotiva dell’ingiustizia e in una minore sensibilità alle violazioni sociali (Preller et al., 2014). Infine, le associazioni tra il Disturbo da Uso di Cocaina e l’alterazione nel processo decisionale sociale erano indipendenti dalle variabili demografiche e dalle funzioni esecutive. In conclusione è emerso che il Disturbo da Uso di Cocaina influenza i processi decisionali sociali, aspetto importante strettamente correlato agli esiti clinici del Disturbo da Uso di Cocaina, poiché l’uso di cocaina a lungo termine è stato associato a prestazioni ancora più compromesse nei paradigmi di gioco sociale.

La valutazione dell’attaccamento tramite la Strange Situation nell’autismo

Le difficoltà nei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico influenzano il legame di attaccamento con la figura genitoriale, generando pattern di attaccamento sicuri meno frequentemente che nei bambini a sviluppo tipico.

 

Quando si parla di legame di attaccamento si intende quel rapporto che si instaura nei primi anni di vita tra un bambino e la sua figura di riferimento, che può essere un genitore o un caregiver (ovvero chi si occupa della cura del minore). L’obiettivo di questo legame è ottenere o mantenere la prossimità e il contatto con questa figura, creando così una base di sicurezza da cui partire per esplorare il mondo, specialmente in presenza di condizioni stressanti (Ainsworth et al., 1978; Bowlby, 1969). Alcuni comportamenti attraverso i quali si manifesta il legame di attaccamento possono essere il pianto, il sorriso e l’aggrapparsi, insieme a una paura dell’estraneo nei bambini più piccoli, mentre nei bambini più grandi è osservabile attraverso la preferenza per un determinato caregiver e la percezione dello stesso come base sicura da cui tornare a seguito di comportamenti di esplorazione (Bowlby, 1969).

Attaccamento e Strange Situation

Il metodo per la valutazione di questo legame è il paradigma sperimentale denominato Strange Situation (Ainsworth e Bell, 1970), che tramite un susseguirsi di episodi di allontanamento e riavvicinamento alla figura materna, consente di osservare i comportamenti dei bambini per delineare il profilo di attaccamento.

Originariamente, attraverso questa procedura, sono state individuate tre tipologie di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante e insicuro-ambivalente (Ainsworth, 1979).

Il primo sottotipo si forma qualora i bambini vedono la figura genitoriale come disponibile e responsiva e sono in grado di comunicare e regolare le emozioni; ricercano attivamente il caregiver e sono capaci anche di esplorare in autonomia, dopo aver mostrato il loro sconforto per la separazione.

Il secondo sottotipo è tipico di quei bambini che percepiscono il caregiver come poco responsivo e trascurante e che faticano dunque a comunicare le emozioni, poichè manca la sicurezza di ricevere una risposta; nella fase di riavvicinamento al caregiver evitano di avvicinarsi, lo ignorano o lo accolgono con una manifesta reazione di evitamento (per esempio voltandosi o distogliendo lo sguardo).

Infine, il terzo sottotipo si genera qualora il caregiver venga percepito a volte come responsivo, a volte come assente; si crea dunque un sentimento di angoscia nel momento della separazione dal genitore contraddistinta da un pianto inconsolabile e non c’è l’esplorazione dell’ambiente, nel momento della riunione con il caregiver manifestano aggressività, si tratta infatti di un pattern con fortemente ambivalente.

Successivamente, Main e Solomon (1986) hanno delineato un quarto profilo di attaccamento, denominato insicuro-disorganizzato, derivante da precoci esperienze di paura generate dal caregiver, che faranno maturare nel bambino un comportamento disorientato, di fuga ma anche di ricerca del genitore.

Attaccamento, autismo e Strange Situation

Tipicamente, il legame di attaccamento si crea nei primi due anni di vita che, per i bambini con Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorder – ASD), sono coincidenti con il periodo in cui iniziano a manifestarsi i sintomi, come i deficit nello sviluppo della reciprocità e nel regolare le emozioni, aspetti fondamentali durante la valutazione dell’attaccamento (Landa, 2008; Zwaigenbaum et al., 2009). Questo potrebbe rendere più complesso misurare lo stile di attaccamento con il metodo tradizionale della Strange Situation; nonostante ciò, Grzadzinski e colleghi (2014) hanno cercato di valutarlo tramite una versione modificata della procedura originale.

Allo studio hanno preso parte 211 bambini dai 2 ai 3 anni, con diverse diagnosi oltre a quella di ASD (166 ASD e 45 tra disabilità intellettive, disturbi del linguaggio, ADHD e sindrome di Down) e 56 bambini a sviluppo tipico, di età inferiore per bilanciare lo sviluppo cognitivo, fattore di grande importanza nella valutazione dell’attaccamento.

I genitori sono stati intervistati in merito a deficit comunicativi e comportamentali dei loro figli, di questi ultimi è stato valutato lo stile di attaccamento attraverso una situazione di gioco semi-strutturata, abbinata a una versione modificata della Strange Situation. La versione modificata di tale procedura implica un minuto di gioco iniziale, in seguito al quale il genitore viene fatto uscire dalla stanza; qui si osserva la reazione del bambino che, qualora manifesti rabbia, viene fatto ricongiungere al genitore dopo 30 secondi. La procedura viene ripetuta per entrambi i genitori, nel caso fossero presenti.

Gli autori hanno ipotizzato che i bambini con diagnosi di autismo avrebbero mostrato meno comportamenti prosociali rispetto ai bimbi a sviluppo tipico. I risultati hanno confermato questa ipotesi.

Va però specificato che, nonostante i deficit nelle abilità sociali, sono state osservate similitudini in molti casi. Per esempio, anche in alcuni bambini con Disturbo dello Spettro Autistico era presente una ricerca di riavvicinamento al genitore, seppur meno frequente; ciò potrebbe far pensare che non sempre le loro peculiarità costituiscono un ostacolo all’instaurazione di un attaccamento con il genitore. Nel dettaglio, 179 tra i bambini con diagnosi di autismo hanno mostrato comportamenti prosociali in risposta all’allontanamento della madre e 55 bambini anche nel caso in cui era il padre a uscire dalla stanza. Tra i bambini a sviluppo tipico sono stati in 40 a rispondere all’allontanamento (solo dalla figura materna, con quella paterna non è stata effettuata l’osservazione), laddove nella stessa condizione sono stati 36 i bambini con Disturbo dello Spettro Autistico a manifestare una reazione simile. È necessario aggiungere che una parte dei partecipanti con autismo, nello specifico 42 bambini, non ha manifestato alcuna reazione durante il ricongiungimento.

Per concludere, l’esperimento messo in campo da Grzadzinski e colleghi ha mostrato che è possibile anche per coloro con difficoltà negli aspetti di reciprocità sociale manifestare comportamenti riconducibili ad un legame di attaccamento. Nonostante i risultati di questa ricerca siano incoraggianti per le similitudini riscontrate tra bambini con autismo e a sviluppo tipico, gli autori sottolineano l’importanza di studiare ulteriormente la relazione genitore-figlio relativa a bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

 

Il contributo genetico della felicità non è del 50% (ma presumibilmente molto inferiore)

Alla luce delle conoscenze della letteratura scientifica attualmente disponibile, i risultati emersi dagli studi che finora hanno cercato di quantificare la componente genetica della felicità, presentano forti limitazioni metodologiche che rendono molto discutibili le conclusioni quantitative finora stimate.

 

Il contributo genetico nella felicità

Vi è la diffusa convinzione che il contributo genetico della felicità sia circa del 50% (Lyubomirsky, 2007; Goldsmith, 1983; Nichols, 1978) ma il paradigma epigenetico attualmente adottato dalla comunità scientifica ci informa che la metodologia utilizzata finora per stimare il contributo genetico è in generale scorretta e largamente sovrastimata (Agnoletti, 2020; Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2022; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Fraga et al., 2005; Yet et al., 2016).

La felicità è uno dei tratti fenotipici più complessi perché naturalmente rappresenta un insieme molto complesso di interazioni tra i vari aspetti biologici, psicologici e socioculturali che costituiscono la nostra identità.

Durante gli ultimi decenni la felicità è stata oggetto di molti studi scientifici (Diener et al., 2009; Diener & Seligman, 2002; Seligman & Csikszetmihalyi, 2000) e tra questi vi sono state delle ricerche che hanno provato a stimare la componente genetica di questo complesso fenomeno specie-specifico umano (Nes & Røysamb, 2017; Bartels et al., 2010).

All’interno di questi studi, la metodologia più utilizzata si è focalizzata sulla comparazione tra gruppi di gemelli identici (omozigoti) e non (eterozigoti) assumendo che la componente invariante attribuita alla misurazione della felicità dei soggetti fosse attribuibile alla componente ereditaria genetica.

Soprattutto nel corso degli ultimi due decenni la diffusione del paradigma epigenetico ha fatto emergere alcuni errori concettuali della metodologia utilizzata per stimare la componente genetica di molti tratti fenotipici umani, compresa la felicità, minando quindi i risultati di suddetti studi (Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2022; Yet et al., 2016; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005).

Attualmente la comunità di psicologi a livello mondiale ritiene attendibile che circa il 50% della felicità sia determinato da fattori genetici cioè attribuibili al DNA.

Per logica il resto della “torta” relativa ai fattori che determinano la felicità umana viene calcolata sulla base di questo 50% e generalmente viene attribuito un 10% a condizioni di vita esterne (non potenzialmente controllabili) ed il rimanente 40% alle scelte che operiamo quotidianamente (quindi potenzialmente controllabili e conseguentemente delle quali abbiamo una responsabilità) (Lyubomirsky, 2007; Goldsmith, 1983).

Questi dati sono accettati all’interno della comunità degli psicologi soprattutto grazie al successo editoriale di libri quali ad esempio quello della psicologa Sonja Lyubomirsky, una delle ricercatrici più note attualmente sul tema della felicità (Lyubomirsky, 2007).

Alla luce delle conoscenze della letteratura scientifica attualmente disponibile, i risultati emersi dagli studi che finora hanno cercato di quantificare la componente genetica della felicità presi come riferimento, ad esempio anche dalla prof.ssa Lyubomirsky, presentano forti limitazioni metodologiche che rendono molto discutibili le conclusioni quantitative finora stimate.

Possiamo oggi affermare con tranquillità, grazie alle attuali conoscenze relative all’epigenetica, che non solo la percentuale del 50% sarebbe stata finora sovrastimata, ma naturalmente anche la somma della quota dei fattori relativi alle “circostanze di vita” e le “scelte personali” (e quindi le nostre responsabilità in merito) sarebbero state finora largamente sottostimate.

La limitazione principale consisterebbe in un errore concettuale commesso generalmente dalla metodologia utilizzata finora per stimare la componente genetica umana nella felicità e cioè che essenzialmente non tutto ciò che è ereditario è attribuibile alla genetica umana.

Anche se esiste un legame tra ereditario e genetico questi concetti non indicano la stessa cosa né si sovrappongono completamente (Barbieri, 1998; Barbieri, 2001; Bottacioli, 2014; Bottaccioli & Bottaccioli, 2017).

Ereditario è l’insieme di informazioni che vengono trasmesse da una generazione all’altra, la componente genetica riferita al DNA umano è uno dei fattori informazionali che vengono ereditati, ma non è l’unico (Bartels et al., 2010; Hahn, Johnson, & Spinath, 2013; Wong, Gottesman & Petronis, 2005).

In passato gli studi che hanno avuto come obiettivo la stima della componente genetica della felicità hanno analizzato le differenze tra due categorie di soggetti: i gemelli omozigoti ed i gemelli eterozigoti in due contesti distinti (ambiente familiare condiviso o non condiviso).

I gemelli identici, detti anche omozigoti, condividono lo stesso genoma, a differenza dei gemelli eterozigoti che condividono solo il 50% dei geni.

Gli errori metodologici

La metodologia generalmente utilizzata relativamente al tratto fenotipico della felicità si basa sull’assunto che la variabilità differenziale tra questi due gruppi di gemelli, sia attribuibile alla componente extra genetica a causa dell’esposizione di esperienze post nascita che hanno prodotto tale variabilità.

In buona sostanza la logica è la seguente: la percentuale di variazione registrata tra un gruppo di gemelli omozigoti ed eterozigoti relativamente alla felicità è attribuibile a fattori extragenetici, quindi la percentuale non variante è conseguentemente attribuibile ai fattori genetici del DNA umano (Goldsmith, 1983; Nichols, 1978).

Emerge quindi chiaramente la (fallace) sovrapposizione concettuale delle dicotomie natura/ambiente, DNA/fattori extragenetici ed ereditario/non ereditario.

Questa concettualizzazione metodologica è stata utilizzata anche confrontando gruppi di gemelli omozigoti ed eterozigoti nei contesti in cui le persone hanno vissuto all’interno dello stesso ambiente familiare o in ambienti differenti (Tellegen et al., 1988).

Fino ad oggi questo tipo di metodologie sono concordi nel quantificare il ruolo della cosiddetta componente genetica umana della felicità nell’ordine circa del 40-50% (Nes, R.B., & Røysamb, 2017; Bartels et al., 2010).

Vediamo adesso i principali problemi di questa metodologia alla luce del paradigma epigenetico.

Nella specie umana (e non solo nella nostra specie) il termine ereditario non è sinonimo di DNA (umano) infatti esistono evidenze relative al fatto che non ereditiamo “solo” il DNA umano trasmesso dai nostri genitori, ma anche una memoria epigenetica che modula cosa viene espresso o meno dello stesso DNA umano (in forma di metilazioni della citosina, acetilazione degli istoni, modifiche della cromatina).

In proposito si veda ad esempio il fenomeno della “super-identità” alla nascita dei gemelli omozigoti che oltre ad essere identici dal punto di vista genetico condividono anche almeno una parte di memoria epigenetica che quindi risulta identica.

L’organismo umano, al momento del parto, eredita, oltre ad una memoria genetica codificata dal DNA, anche una memoria epigenetica codificata in tutti quei meccanismi che regolano l’espressione dei geni.

Recenti ricerche (Bell & Spector, 2011; Fraga et al., 2005; Tan, Christiansen, von Bornemann Hjelmborg & Christensen, 2015; Kaminsky et al., 2009; Van Baak et al., 2018; Wong, Gottesman & Petronis, 2005; Yet et al., 2016), coerentemente con quanto affermato dal paradigma epigenetico, hanno dimostrato che i gemelli omozigoti, o identici, condividono non solo il medesimo genoma, ma anche parte dell’insieme dei meccanismi molecolari che regolano l’espressione dei geni.

Questa informazione extra-genetica (rispetto al DNA umano) ha origine nelle prime fasi dello sviluppo embrionale e permette di poter predire lo sviluppo di alcune malattie (anche oncologiche) che si svilupperanno anche a distanza di anni.

Nei gemelli omozigoti le invarianze riguardano non solo quindi le componenti informazionali del DNA umano, ma anche, almeno in parte, quelle relative alle memorie epigenetiche; per questo motivo i gemelli omozigoti sono anche recentemente chiamati dagli esperti “supersimili”.

I gemelli omozigoti non condividono quindi “solamente” il contenuto del DNA, ma anche memorie epigenetiche, pertanto la metodologia descritta poco sopra che compara gemelli omozigoti ed eterozigoti compie una falsa attribuzione quando fa coincidere l’invarianza tra questi due gruppi unicamente con il contributo genetico del DNA umano.

In altri termini l’invarianza rilevata da questa metodologia non fa emergere unicamente la condivisione del DNA umano tra i due gruppi ma anche, e sottolineo “anche”, quella relativa all’informazione epigenetica condivisa.

Assumere come esclusivamente “genetica” l’invarianza tra le due tipologie di gemelli è un errore concettuale/metodologico dovuto al fatto che la suddetta invarianza è in realtà il risultato della somma della memoria del DNA umano e della memoria epigenetica “supersimile” (nel caso dei gemelli omozigoti).

Tutte le ricerche che hanno condiviso questa errata metodologia per studiare specifici tratti fenotipici hanno quindi finora grandemente sottostimato le componenti extra genetiche umane sovrastimando quelle genetiche attribuite al DNA.

In estrema sintesi, il paradigma epigenetico che afferma che non tutta l’informazione ereditabile di un organismo è sovrapponibile con il contenuto informazionale del DNA mina le basi concettuali della metodologia finora adottata per stimare il contributo genetico della felicità prevedendo una forte sovrastima del contributo genetico di questo (ed altri) tratti fenotipici (Agnoletti, 2022; Agnoletti, 2021; Agnoletti, 2020).

Vi è stata una grande sovrastima della componente genetica nei confronti della felicità e di conseguenza c’è stata finora una comunicazione, anche promossa dai professionisti del benessere e della salute umana, che ha fortemente sottostimato il valore ed il ruolo dei processi decisionali e quindi della responsabilità individuale e sociale relativamente alla felicità.

Alla luce di quanto descritto, coerentemente con il paradigma epigenetico, risulta quindi che la percentuale di controllo che possiamo avere sulla felicità è molto più alta di quanto previsto in passato, quindi, è auspicabile correggere la comunicazione sia professionale che generale, al fine di favorire il benessere e la salute psicofisica individuale e sociale.

Questo auspicio risulta avere, per i professionisti, anche una valenza deontologica perché eviterebbe l’effetto iatrogeno attualmente presente relativo all’errata comunicazione di un più limitato margine di controllo determinato dalle scelte personali.

La supervisione (2022) di Nancy McWilliams – Recensione

Il libro “La supervisione” si rivolge a psicoterapeuti di prospettive teoriche diverse e mette in evidenza come la qualità di una supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto.

 

Il libro si apre con una citazione di Watkins che definisce la supervisione:

Un metodo educativo o un intervento in cui un professionista più anziano della comunità psicoanalitica, con maggiori conoscenze ed esperienza clinica, stabilisce un rapporto professionale con un collega più giovane, con minori conoscenze ed esperienze … per promuovere la crescita professionale e accrescere le competenze cliniche e concettuali del più giovane; tale relazione è di tipo valutativo e gerarchico, si sviluppa nel corso del tempo e prevede un processo di monitoraggio e controllo della qualità del lavoro del clinico (Watkins, 2011, p. 403).

 Relativamente a questa definizione dovremmo tener presente che la supervisione, o l’intervisione tra pari, sono pratiche che dovrebbero accompagnare uno psicoterapeuta, indipendentemente dalla sua età, per tutto il periodo dell’attività professionale. L’autrice, di orientamento psicoanalitico, in più parti del testo sottolinea tale necessità.

Il libro si rivolge anche a psicoterapeuti di prospettive teoriche diverse e mette in evidenza come la qualità di una supervisione sia indipendente dall’orientamento teorico di chi la mette in atto, avendo come obiettivo di sviluppare uno stile di lavoro che ben si adatti al terapeuta e ai suoi pazienti, sfuggendo al rigore dell’ortodossia del modello teorico.

Per la McWilliams più che l’apprendimento del modello teorico, ciò che conta sono le intuizioni dei supervisori esperti. Sebbene riconosca che la formazione mirata a sviluppare competenze specifiche e pratiche cliniche ad hoc abbia un suo valore, pensa che vada considerata una visione ampia del percorso di crescita professionale da non ridurre all’insegnamento di procedure: “Se fossi stata formata in una serie di interventi manualizzati per sindromi sintomi-specifiche, penso che sarei incorsa in burnout all’inizio della mia carriera”.

A questa idea centrale del suo lavoro si contrappongono una serie di studi empirici presenti in letteratura che suggeriscono viceversa che l’aderenza ad un modello teorico ben preciso favorisca una migliore efficacia della supervisione (Scarinci, Barnabei, Mezzaluna, 2021).

Si può certo concordare sul fatto che fare supervisione comporti delle competenze specifiche e diverse dal fare clinica: autorevolezza, maturità, capacità raffinate di ragionamento clinico, ma la conoscenza approfondita del modello di riferimento rimane un presupposto di base. Come sosteneva De Silvestri bisogna imparare prima di tutto a suonare il violino, poi ogni musicista lo suonerà in modo personale, tenendo in considerazione che di Paganini ce n’è uno solo. D’altra parte l’impostazione della Mc Williams fornisce accenni alla possibilità di sottoporre la supervisione a prove di efficacia che riguardano gli effetti sul supervisee, sul paziente e sul processo terapeutico, e questo risulta essere un campo ancora tutto da esplorare.

L’autrice propone una riflessione già nel primo capitolo sugli obiettivi e i processi implicati nella supervisione e continua dedicando il secondo a ricostruire la storia della supervisione psicoanalitica, discutendo se si debbano trattare i supervisionati, insegnare loro le tecniche o favorire una crescita professionale complessiva. Quindi dichiaratamente assume essa stessa un modello di riferimento, naturalmente auspicando che il contributo che fornisce possa risultare utile anche a supervisori e professionisti che adottano approcci diversi.

Effettivamente il libro è pieno di spunti di riflessione utili anche per chi non è di stretta osservanza psicodinamica.

Due questioni controverse che sono emerse in modo ricorrente nella letteratura clinica sono messe in risalto e riguardano gli obiettivi della supervisione: “insegnamento versus trattamento” e “trasmissione di competenze versus promozione della maturazione”.

Il capitolo terzo si sofferma su cosa valutare, quali sono i progressi in terapia psicodinamica, considerato che non ci si può limitare a considerare i soli sintomi, con una velata critica ad altri modelli che punterebbero piuttosto a trattarli in modo preminente.

L’autrice sostiene che un obiettivo fondamentale della supervisione è il benessere dei pazienti dei clinici in supervisione e indica una serie di “segni vitali di cambiamento psicologico, diversi dai criteri riduzionistici legati al sintomo che la maggior parte dei ricercatori adotta per valutare l’esito dei trattamenti manualizzati brevi” che andrebbero monitorati: maggiore sicurezza nell’attaccamento; costanza di sé e dell’oggetto; senso di agency (autonomia, autoefficacia); autostima realistica e affidabile (narcisismo sano); resilienza, flessibilità e regolazioni degli affetti (forza dell’io); funzione riflessiva (insight) e mentalizzazione; benessere in contesti collettivi e individuali; vitalità, accettazione, perdono e gratitudine, amare, lavorare e giocare.

 Nel quarto capitolo sono trattati il contratto di supervisione per una condivisa alleanza di apprendimento, la formulazione di obiettivi realistici nel trattamento e la promozione di una maggiore franchezza e onestà nella diade di supervisione. In questo processo è fondamentale avere rispetto dell’intelligenza emotiva, delle capacità intuitive e delle buone intenzioni dei supervisionati, dando spazio alla discussione delle diverse soluzioni ai dilemmi clinici e provare a immaginare l’esito di ciascuna opzione.

Il tema della consultazione e della supervisione di gruppo è trattato nel quinto capitolo. Il gruppo fornisce una base sicura per comparare i vissuti e fare luce su eventuali punti ciechi, migliorare le conoscenze e la padronanza delle procedure di trattamento.

Nel capitolo successivo, attraverso alcune vignette cliniche, sono proposti una serie di problemi di natura etica: dilemmi etici in relazione al migliore interesse del paziente, del terapeuta e della comunità.

Al tema della formazione negli istituti psicoanalitici e delle caratteristiche della supervisione in questo ambito è dedicato un capitolo specifico, anche se molte riflessioni sono sparse anche in altri capitoli. Molto interessante è l’accentuazione che è posta sul fatto che non esiste virtualmente alcun accordo all’interno del campo psicoanalitico in merito a come definire quali siano le qualità di un analista competente. Il problema è alla riflessione di tutte le scuole di specializzazione di qualsiasi indirizzo, unitamente a quali caratteristiche dovrebbero appartenere a un supervisore. In merito a questi temi sarebbe necessario un investimento maggiore nella ricerca. D’altra parte la Mc Williams fornisce una serie di esemplificazioni sulle dinamiche tra analista e supervisore che vanno affrontate e, siccome la ricerca è ancora in uno stato embrionale, non vi è un accordo su quale dovrebbe essere il ruolo del supervisore, sulla valutazione, su cosa è più utile per la maturazione dei candidati e su quale relazione intercorre tra la supervisione e l’ottenimento del titolo, anche se negli ultimi tempi si vanno mettendo a punto criteri didattici.

Per l’autrice ogni diade paziente-terapeuta è unica, come ogni combinazione composta da supervisore e supervisionato, nonostante ciò nell’ottavo capitolo sono generalizzate “le dinamiche di alcune tendenze psicologiche che possono riguardare entrambi i componenti della relazione di supervisione” con riferimento a tratti di personalità specifici di ognuno dei due. Una parte molto interessante di questo capitolo riguarda alcune riflessioni circa le possibili strategie per ridurre l’impatto dei problemi che si possono presentare.

Il contributo si chiude con un capitolo, il nono, in cui si offrono una serie di consigli pratici, riteniamo genericamente condivisibili, perché con la supervisione si raggiungano almeno due obiettivi:”sviluppare una voce guida di supervisore interno e imparare a capire quando si ha bisogno del supporto della supervisione e come ricercarla nel corso della propria carriera”.

Il libro è sicuramente un testo da leggere per chi opera nella formazione degli psicoterapeuti e per chi svolge supervisione perché, nonostante il modello teorico di riferimento sia dichiarato, le riflessioni contenute e gli spunti su alcuni temi sono utili per tutti quanti operano nel campo.

 

Disturbo da comportamento sessuale compulsivo: differenze di genere

Anche se in passato sono state riportate alcune differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo, mancava una panoramica approfondita e completa; di questo si è occupata una revisione sistematica di Kürbitz e Briken (2021).

 

Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo

 Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo (Compulsive Sexual Behavior Desease; CSBD) è una nuova categoria diagnostica che è stata stabilita per la prima volta nell’ICD-11 (WHO, 2019). Sebbene la diagnosi sia nuova, si tratta di un fenomeno molto antico dato che da oltre 100 anni i ricercatori riportano casi di persone con un comportamento sessuale eccessivo che causa problemi in altre aree della vita (Briken, 2020).

Quando si parla di disturbo da comportamento sessuale compulsivo, è importante distinguere tra le persone che hanno un elevato desiderio sessuale e i pazienti affetti da disturbo da comportamento sessuale compulsivo. Gli individui con un elevato desiderio sessuale non dovrebbero essere patologizzati se l’elevato desiderio sessuale non provoca sofferenza, o se la sofferenza è mediata soltanto da norme sociali negative sul sesso (ad esempio pensieri restrittivi o religiosi sul sesso e sul desiderio sessuale; Kraus et al, 2018).

Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo (o “disturbo ipersessuale” o “dipendenza da sesso”) è oggi descritto dai seguenti sintomi: un forte impulso a impegnarsi in comportamenti sessuali, l’uso di comportamenti sessuali per far fronte a stati emotivi avversi (ad esempio, riduzione della tensione), il pregresso tentativo di controllare questi impulsi senza riuscirci, e l’impegnarsi in comportamenti sessuali ripetutamente senza tener conto delle conseguenze negative (Briken, 2020).

Differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo

Dato che anche i ricercatori e i clinici sono soggetti a pregiudizi, in passato il disturbo da comportamento sessuale compulsivo era considerato per lo più un problema maschile. Infatti, la ricerca si è sempre focalizzata maggiormente sulle disfunzioni sessuali più “tipicamente femminili”, come la bassa libido e il dolore (Basson et al., 2004). Questo ha portato a uno studio del disturbo da comportamento sessuale compulsivo poco approfondito e le poche ricerche disponibili sono state condotte principalmente sugli uomini.

Questa mancanza di letteratura comporta delle barriere nel trattamento del disturbo da comportamento sessuale compulsivo, barriere che si verificano nell’individuo (ad esempio, non ammettere a se stessi di avere un problema sessuale), nella società (norme sociali diverse per uomini e donne), nella ricerca (la CSB è poco studiata nelle donne) e nel trattamento (ad esempio, lo stigma; Dhuffar & Griffiths, 2016).

Anche se in passato sono state riportate alcune differenze di genere, mancava una panoramica approfondita e completa delle differenze di genere nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo. Di questo si è occupata una revisione sistematica di Kürbitz e Briken (2021). Lo scopo di questa revisione era infatti identificare le differenze tra uomini e donne per quanto riguarda i sintomi e le comorbidità psichiatriche.

 Nella revisione, quasi tutti gli studi hanno riportato punteggi più alti negli indici di disturbo da comportamento sessuale compulsivo negli uomini. È possibile che le donne cerchino aiuto solo quando percepiscono il loro comportamento come una minaccia per la loro vita privata e professionale, aspettando quindi più a lungo per richiedere sostegno. È possibile che per gli uomini sia più facile riferire i propri comportamenti, perché i comportamenti sessuali ad alta frequenza sono culturalmente più attesi dagli uomini (Carpenter et al., 2008), il che si traduce in un eccesso di segnalazione dei comportamenti sessuali negli uomini e in un difetto di segnalazione dei comportamenti sessuali nelle donne (“doppio standard sessuale”).

La comorbidità nel disturbo da comportamento sessuale compulsivo

Per quanto concerne i tratti psicologici e le comorbilità psichiatriche, un maggiore nevroticismo e la vulnerabilità allo stress sembrano essere un percorso che potrebbe spiegare il disturbo da comportamento sessuale compulsivo nelle donne. Mentre altri fattori di influenza sembrano essere più importanti per gli uomini, ad esempio l’ADHD, l’autismo, il disturbo ossessivo compulsivo, la depressione e l’ansia (Levi et al., 2020). Se applicato al Modello Integrato del disturbo da comportamento sessuale compulsivo (Briken, 2020), ciò potrebbe significare che il nevroticismo, la vulnerabilità allo stress e i problemi di fiducia potrebbero mediare la comorbidità psichiatrica o facilitare l’uso del sesso come meccanismo di coping.

Alcuni studi hanno evidenziato una connessione tra disturbo da comportamento sessuale compulsivo e comportamenti sessuali insoliti e disfunzioni sessuali. Engel e colleghi (2019) hanno riscontrato un’alta prevalenza di fantasie coercitive in entrambi i sessi, ma gli uomini si sono impegnati più spesso in comportamenti sessualmente coercitivi. I livelli di gravità del disturbo da comportamento sessuale compulsivo erano anche associati a fantasie sessuali che implicavano la coercizione e a comportamenti coercitivi effettivi. Il disturbo da comportamento sessuale compulsivo sembra essere collegato anche a comportamenti parafilici, con gli uomini che riferiscono una maggiore prevalenza di esibizionismo, sadismo, voyeurismo e frotteurismo; mentre le donne hanno tassi più elevati di masochismo e feticismo (Castellini et al., 2018).

Questi risultati indicano che sia gli uomini che le donne con disturbo da comportamento sessuale compulsivo riferiscono fantasie e comportamenti parafilici, ma le donne tendono a riferire parafilie che potenzialmente potrebbero rappresentare una maggiore minaccia per loro stesse (ad esempio, il masochismo se non praticato in confini sicuri) e gli uomini riferiscono parafilie con un maggiore potenziale di danno per gli altri (ad esempio, comportamenti coercitivi, frotteurismo e sadismo non consensuale).

È interessante notare che il consumo di pornografia sembra essere meno importante per le donne affette da disturbo da comportamento sessuale compulsivo rispetto agli uomini (Castro-Calvo et al, 2020). La masturbazione e il consumo di pornografia sono comportamenti sessuali a rischio relativamente basso, a parte il fatto che sono più normativi per gli uomini che per le donne.

Un percorso spesso discusso nello sviluppo del disturbo da comportamento sessuale compulsivo è rappresentato dalle esperienze di avversità infantili o da una storia di abuso sessuale (ad es, Castellini et al., 2018). Il quadro su se e come le avversità infantili influenzino in modo diverso i generi è ancora inconcludente. Uno studio ha trovato una correlazione tra disturbo da comportamento sessuale compulsivo e trascuratezza paterna nelle donne ma non negli uomini. Lo stesso vale per una storia di abuso sessuale (Castellini et al., 2018). Sebbene l’abuso sessuale grave sia più diffuso tra le donne (Häuser et al., 2011) nella popolazione generale, uno studio (Slavin et al., 2020) ha rilevato che una storia di abuso sessuale infantile e adolescenziale influisce sul disturbo da comportamento sessuale compulsivo negli uomini in misura maggiore rispetto alle donne.

Conclusioni

In conclusione, lo studio di Kürbitz e Briken (2021) ha dimostrato che il disturbo da comportamento sessuale compulsivo sembra avere espressioni almeno in parte diverse negli uomini e nelle donne. Per questo motivo è importante implementare strategie terapeutiche specifiche per genere.

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