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Supervisione

In una seduta di supervisione, il terapeuta descrive la sua relazione con il paziente al supervisore. Quest'ultimo può fare un intervento sui contenuti, correggendo la costruzione che il terapeuta ha del paziente, o interventi sui processi, mostrando e correggendo gli schemi con cui il terapeuta vede il paziente

Per gli psicoterapeuti la supervisione è uno strumento indispensabile nell’esercizio della propria professione. Accade infatti spesso, nel corso della terapia con i pazienti, di ritrovarsi in alcuni momenti di impasse difficili da superare, soprattutto quando i vissuti emotivi del paziente entrano in risonanza con quelli del terapeuta. E’ buona norma, in questi casi, ricorrere a un supervisore…

Supervisione: definizione, componenti e modalità di lavoro - Psicoterapia

Umberta Telfener a proposito della supervisione scrive:

E’ stata chiamata supervisione la relazione tra una persona più esperta e un individuio in training. Si tratta di quella situazione in cui l’esperto costruisce con lo studente una serie di contesti educativi per connettere insieme gli aspetti comportamentali (il fare), quelli teorici (il saper fare), quelli emotivi (il saper essere), condividendo una cornice che contenga questi diversi livelli (la condivisione di una visione del mondo e di obiettivi condivisi). In un’ottica costruttiva la supervisione è considerata una coordinazione di pensieri e azioni all’interno di un contesto e di una definizione (di scopi e obiettivi) ugualmente condivisa.

Una definizione di supervisione in campo cognitivista è stata data da Nicola Butera e Roberta Zaratta (2002), i quali scrivono che la relazione di supervisione rappresenta un processo interattivo, caratterizzato da numerosi vissuti emotivi, le cui componenti sono: il terapeuta, il supervisore, la relazione.

Supervisore e terapeuta si trovano a co-costruire un contesto di reciprocità, all’interno del quale il terapeuta espone al supervisiore la storia e i disturbi del paziente, racconta della terapia che sta conducendo e dei problemi che sta riscontrando in corso d’opera. D’altro canto il supervisore allena il terapeuta all’autosservazione in modo da comprendere meglio quali sono i propri meccanismi di “funzionamento”. In questo modo il terapeuta può dare nuovo significato al proprio lavoro, ricostruendo la conoscenza che ha della terapia, del paziente e del proprio modo di essere all’interno della relazione terapeutica. Il supervisore può riorganizzare e ricostruire la conoscenza che ha della terapia, del terapeuta e del proprio modo di essere all’interno della relazione di supervisione.

Attraverso questa costruzione e ri-costruzione dell’esperienza e del suo significato, si raggiunge una maggiore conoscenza delle proprie competenze; un cambiamento emotivo, cognitivo e, di conseguenza, un cambiamento del modo di agire del terapeuta e del supervisore.

Le componenti di una supervisione efficace

Più rigorosa e pragmatica è la visione della supervisione proposta da Carol Falender, che vede la supervisione come:

Un’attività professionale distinta, in cui l’istruzione e la formazione sono volte a sviluppare una pratica psicoterapeutica scientificamente fondata, attraverso un processo interpersonale collaborativo. La supervisione comprende le fasi di osservazione, valutazione e feedback, e facilita l’autovalutazione del supervisionato, l’acquisizione di conoscenze e competenze attraverso la formazione, il modellamento (modeling), e il problem solving reciproco. La supervisione favorisce il riconoscimento dei punti di forza e dei talenti del supervisionato, incoraggiando l’autoefficacia. Deve essere condotta in modo competente nel quadro di uno standard etico e legislativo. La pratica professionale della supervisione deve essere utilizzata per promuovere e tutelare il benessere del cliente, la professione e la società in generale.

La rigorosità del pensiero della Falender (2008), le ha consentito di individuare le componenti necessarie affinché una supervisione possa dirsi efficace, tra queste importanti risultano la costruzione di una relazione; il rispetto per il supervisionato (soprattutto quando supervisore e terapeuta seguono approcci o orientamenti diversi); la valutazione collaborativa delle competenze del supervisionato (utilizzando l’autovalutazione del supervisionato e il feedback del supervisore), e la successiva definizione di obiettivi e compiti di sviluppo. La riflessione e la valutazione delle competenze del terapeuta da parte del supervisore devono sempre mirare a un miglioramento delle competenze e alla promozione, nel supervisionato, di capacità di gestione dei fattori personali e di controtransfert e i loro risvolti sul  processo clinico.

Dei criteri che rendono una supervisione efficace si è parlato anche in un recente congresso APA (2014), in un simposio a cura di Chun-I Li, Scott Fairhurst e Scott Liu. Nel corso dell’evento sono stati delineati i compiti del supervisore della psicoterapia e le aspettative del supervisionato, che sono dieci:

  1. aiutare l’introspezione (facilitating insight)
  2. riscontro e correzione (feedback and correction)
  3. incanalare l’eaborazione (allowing for debriefing)
  4. delineare le scelte (outlining options)
  5. impartire conoscenze generali (imparting general knowledge)
  6. spiegare che fare (explaining what to do)
  7. impostare differenze di valori (addressing differences in values)
  8. promuovere lo sviluppo professionale (promoting professional development)
  9. essere un modello (modeling)
  10. validare gli stati emotivi del supervisionato (validating supervisee’s feelings)

Queste variabili potrebbero essere a grandi linee raggruppabili in due aree principali: la validazione degli stati emotivi vissuti in seduta e la valutazione e correzione degli aspetti tecnici e strategici (Ruggiero, 2014).

Supervisione a diversi livelli e l’importanza di uno sguardo esterno

La realtà, ammesso che esista indipendentemente, si manifesta solo nell’interazione con un osservatore. La sua rappresentazione è dunque frutto parimenti della cosa in sé e degli schemi percettivi e cognitivi dell’osservatore. In supervisione, come già accennato, abbiamo un Terapeuta e un Supervisore (Dimaggio, 2016) e una parte della supervisione focalizzata sui contenuti e una orientata ai processi (Sassaroli, 2014).

La parte della supervisione focalizzata sul contenuto (come funziona questo paziente, che problemi ha?) attiene ad aderenza, competenza e osservanza delle regole di una certa teoria clinica, mentre la supervisione focalizzata al processo si occupa dei fattori aspecifici, della relazione tra terapeuta e suo paziente (come sto con lui, cosa sto facendo con lui di buono o problematico? Perché sto portando il caso e chiedendo aiuto? Qual è il disagio che ho avuto nelle ultime sedute?) e su come il supervisionato sa rapportarsi con il supervisore (quanto accetto di essere messo in discussione? Quanto accetto che il mio supervisore mi suggerisca che quell’atto clinico, quelle emozioni con un certo paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare, come sto in una relazione in cui qualcuno che fa da educatore, fa le pulci al mio operato? Che emozioni ho?).

In una seduta di supervisione, il terapeuta descrive la sua relazione con il paziente (che a sua volta gli descrive il mondo in cui è immerso e che gli genera disagio) al supervisore. Quest’ultimo può fare un intervento sui contenuti, correggendo la costruzione che il terapeuta ha del paziente al fine di perseguire meglio lo scopo della guarigione. Interventi del tipo sono la modifica della diagnosi, il suggerimento di alcune tecniche utilizzabili, ecc (Dimaggio, 2016).

Capita però che il supervisore possa fare anche un intervento di livello superiore, sui processi, mostrando e relativizzando gli schemi percettivi costruttivi con cui il terapeuta vede il paziente, evidenziando cioè gli scopi che muovono il terapeuta. Questo secondo tipo di intervento anche se apparentemente meno utile nell’immediato per chi spesso, in supervisione, cerca soluzioni veloci per uscire dall’impasse della terapia con il paziente, è più efficace ed economico. Questo perché gli scopi e gli schemi attivi nel terapeuta nella relazione col paziente, sono presumibilmente attivi anche nelle relazioni con gli altri pazienti.

Ovviamente, sempre Dimaggio (2016) ricorda come il regresso può continuare all’infinito: nella costruzione che il supervisore fa del paziente e del terapeuta, nonché della loro loro relazione, entrano in gioco anche gli schemi del supervisore. Si può ovviare in parte a questo problema, avendo più supervisori ed è qui racchiuso il senso di un gruppo di supervisione e, più in generale, dell’intervisione. A volte, infatti, non serve che il supervisore sia necessariamente più esperto, serve soprattutto che sia esterno (ibidem).

Contratto in supervisione e modalità di lavoro

Come accade in terapia con i pazienti, anche in supervisione dovrebbe esserci un esplicito contratto tra supervisore e supervisionato. Nel contratto ci si accorda su cosa ci si aspetta uno dall’altro, le cose che si è disposti a fare insieme, si stabiliscono formalmente modi e regole degli incontri. Ad esempio è considerato non corretto fare supervisione senza registrazione audio delle sedute. In questo modo si ha la possibilità di ascoltare la seduta, vedendo quali emozioni e quali movimenti emotivi emergono durante quell’incontro.

La formalizzazione estrema del processo di supervisione psicoterapica è un bene che protegge il supervisore, il supervisionato e il paziente (Sassaroli, 2014).

Nella mente dello psicoterapeuta

Un breve video illustra in maniera semplice e accessibile ciò che avviene nella mente dello psicoterapeuta nel corso delle sedute di psicoterapia e all’interno della relazione terapeutica.

La seconda parte del video evidenzia l’importanza per lo stesso terapeuta di avvalersi dell’aiuto o della supervisione di colleghi professionisti.

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