Per diventare psicoterapeuti occorre un percorso lungo ed impegnativo in termini di tempo, finanziari ed emotivi. Dopo di che, la targhetta con la dicitura “Psicoterapeuta in…” può essere affissa. Eppure nessuno dice mai la verità perché, parallelamente a tutto questo, ai libri e agli esami, ci sono due grosse fette di formazione: la supervisione e la terapia personale.
Si suggerisce l’ascolto del brano Prospettiva Nevsy (Battiato, 1980) durante la lettura.
Per diventare psicoterapeuti occorre un percorso lungo ed impegnativo in termini di tempo, finanziari ed emotivi. Laurea. 5 anni (se va bene). Tirocinio ed esame di stato. 1 anno (se va bene). Specializzazione e discussione tesi altri 4 anni (se va bene). Dopo di che, la targhetta con la dicitura “Psicoterapeuta in…” può essere affissa. Fila tutto, vero? Ma nessuno dice mai la verità perché, parallelamente a tutto questo, ai libri, agli esami ci sono due grosse fette di formazione: la supervisione e la terapia personale. A cosa servono? Il supervisore è un collega più esperto dell’allievo e lo aiuta nella conduzione e nella gestione dei casi più complessi. La terapia è una comune psicoterapia in cui però il paziente è un terapeuta. Da qui la famosa battuta: “Un terapeuta che va da un altro terapeuta?” Sì, esatto, proprio così. Non è molto diverso dal dentista che va dal collega dentista o dal fisioterapista che si fa aiutare da un altro fisioterapista. Ma perché, quindi, aggiungere fatica alla fatica? Serve perché siamo umani, abbiamo le nostre personalità, i nostri schemi, che a volte ostacolano o rendono difficile la relazione con il paziente di turno così come nelle altre normali relazioni di vita. Nella terapia metacognitiva interpersonale si chiamano cicli interpersonali maladattivi (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). I pazienti li mettono in atto con gli altri, e noi possiamo essere l’altro di turno.
Perché la supervisione, a volte, è terapia e anche la terapia personale per un terapeuta è spesso anche supervisione? Il confine non è netto, le sovrapposizioni sono inevitabili e necessarie. Capita spesso, infatti, che in una supervisione individuale o di gruppo l’allievo cominci a parlare di casi clinici con piglio tecnico, atteggiamento distaccato e linguaggio accademico. Accade poi che, un intervento del supervisore o un feedback dei colleghi del gruppo, spalanchino delle porte faticosamente volute chiuse. Come una sorta di tsunami emotivo, quello che un attimo prima era un confronto tra colleghi, una richiesta di chiarimenti riguardo un paziente difficile, diventa un’esplorazione condivisa di stati mentali interni, schemi e strategie di coping che riguardano soprattutto l’allievo e solo in parte il paziente di cui si sta parlando.
Le emozioni possono essere di vergogna, dove, a fronte di un bisogno di sentirci apprezzati dal nostro tutor o di ricevere aiuto, possiamo percepire irrazionalmente e proceduralmente i suoi interventi come giudicanti. Ci rappresentiamo lo sguardo e la presenza degli altri come invalidanti, ci sentiamo umiliati, denigrati, si riattiva un’immagine di inadeguatezza che ci può portare a provare scetticismo e disprezzo verso il gruppo e il supervisore. Questo accade perché il supervisore può semplicemente incarnare l’altro di uno schema in cui appare umiliante, invalidante, poco caldo (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019). Se le lenti dello schema ce lo fanno rappresentare in questo modo, dalla supervisione si può uscire rotti, tristi, in preda alla vergogna, con la tendenza a non volerci tornare più.
Invece, il supervisore può aiutare a rintracciare questi temi e favorirne la discussione. Il risultato è che se si capisce che lo schema è pervasivo, c’è l’invito alla psicoterapia altrimenti con una manovra di differenziazione, il tutor torna ad essere colui che aiuta, valida e non giudica. L’allievo è più consapevole. La relazione è salva.
Cosa ricordiamo della nostra primissima supervisione? Cose tipo: “Vabbè non ci torno più”; “Mi legge nella testa, non potrò fregarlo, capirà che sono una buona a nulla”. Diciamo qualcosa tipo: “Non è proprio così, come dice lui. Il paziente è mio e so meglio di lui quello che sente”. Pensiamo che si sia sbagliato, che le supervisioni siano inutili, che ce la possiamo fare da soli, che in fondo non ne abbiamo bisogno, che la scuola di specializzazione e i corsi di formazione che seguiamo sono più che sufficienti, ecc. Oppure entriamo in una subroutine di subordinazione in cui diciamo sempre “si”, senza in realtà comprendere nel profondo quanto il supervisore ci sta dicendo in quel momento. Sentiamo la sua voce ma non ci arriva niente mentre annuiamo in modo dissociato.
Queste reazioni ci proteggono, ci fanno sentire al sicuro, più validi e più forti. Ma se continuassimo a seguire questi stati di coping, continueremmo a lavorare con difficoltà. Ad es., lo schema di inadeguatezza continuerebbe a riattivarsi coi pazienti, stavolta però, senza possibilità di condividere le nostre difficoltà. Situazione ancora più scomoda poi, quando capita (e capita spesso), che ancora novizi, e anche se non abbiamo particolari tratti psicopatologici, il supervisore ci inviti caldamente a iniziare una psicoterapia personale. In casi del genere oltre a percepirci inadeguati possiamo vederci anche vulnerabili, se non addirittura “malati”, ma come? Io psicoterapeuta che curo gli altri devo andare in terapia? Fortunatamente, almeno per chi scrive, ormai questi stati mentali interni dolorosi e di coping durano poco, siamo temprati e allenati a riconoscerli, anche grazie all’aiuto del gruppo o del supervisore, riusciamo a rispondere a essi. Ed è in questo senso che allora una seduta di supervisione si sovrappone ad una seduta di psicoterapia. La situazione, come abbiamo visto, attiva i nostri schemi: bisogni di cure, apprezzamento, inclusione, cooperatività. Inevitabilmente questo ci riporta a nostri vissuti personali, esperienze intime di vita, temi esistenziali sui quali per forza di cose il supervisore va ad intervenire, e lo fa in modo molto simile a come accade durante una seduta di psicoterapia personale.
Crediamo che la più grande utilità della supervisione stia nell’allenarci a stare nella relazione in modo funzionale. Che cosa vuol dire? Significa riconoscere i cicli interpersonali attivi, regolarli e risolverli. Significa usare in modo adattivo le self-disclosure, riconoscere e riparare le rotture terapeutiche. Significa distinguere quello che, in un preciso momento, è determinato dal paziente oppure nasce dall’attivarsi di schemi del terapeuta, riuscendo a riconoscerli assieme al paziente. E non per ultimo, significa utilizzare la relazione come parametro di andamento della terapia.
Cosa saremmo senza la supervisione? Forse saremmo ancora totalmente centrati su noi stessi, sempre alla ricerca di quell’apprezzamento speciale. Forse rischieremmo di accudire il paziente in crisi. Rischieremmo di sentirci deturpati nel ruolo se non chiama quando è in difficoltà. Staremmo a soffrire in modo indifferenziato quando il paziente interrompe la terapia o non migliora. Ma soprattutto, non saremmo capaci di differenziare e di utilizzare il nostro ragionamento interno come parte integrante della terapia al fine di una buona sintonizzazione. Se non avessimo imparato a ragionare in un’ottica mentalistica anche nella vita, forse non avremmo mai potuto insegnarlo ai nostri pazienti.
Inoltre la supervisione può aiutare a sviluppare un atteggiamento di apertura e curiosità mentale, accettando e osservando con curiosità quello che momento per momento emerge nelle sedute anche in merito alla relazione. Questo vuol dire riconoscere e riparare le rotture relazionali e metacomunicarle, come Safran e Muran ci insegnano, alla volta dello svelamento e della ricongiunzione funzionale (Safran e Muran, 2003). Questo è indispensabile in una psicoterapia basata sulla relazione e sulle emozioni anche negative o dolorose, quelle che sembrano eccessive o intollerabili.
Io ricordo (e neanche questa volta non riveliamo chi degli autori del presente articolo stia raccontando) che, quando, faticosamente ammetto, accettai l’invito del mio supervisore a fare la terapia personale, subito pensai che sarebbe stato carino sentire quello che, immagino, possano sentire alcuni dei miei pazienti. Quel batticuore giù al portone al primo appuntamento, il desiderio di prendere tempo utilizzando il bagno, il sentirsi autorizzati a prendere uno, due, tre fazzoletti per ogni lacrima. Ma una cosa che mi ha insegnato la terapia è: accedere al proprio mondo interno non sentendosi soli. E questo mi ha fatto vivere in modo diverso anche le supervisioni oltre che la terapia con i miei pazienti.
Durante una supervisione quindi non si parla solo del paziente (il suo funzionamento clinico ci è già chiaro e anche le procedure studiate da seguire le sappiamo). Si parla del terapeuta/allievo e dei suoi stati interni diacronici (vissuti durante la seduta col paziente) e sincronici (nel qui e ora della seduta di supervisione). Stesso processo avviene durante una seduta di psicoterapia. Il focus non è su cosa fare e non fare, dire e non dire in seduta. Il focus è su come si sta in seduta. La presentazione di un caso clinico in supervisione può essere infarcita di racconti dettagliati, valutazioni diagnostiche, formulazioni più o meno chiare e coerenti. Tuttavia due domande del supervisore saranno sempre le stesse: “Cosa provavi in quel momento” e “Cosa senti mentre ne parli adesso”? In questo le similitudini con specifici eventi narrativi raccontati durante la terapia personale sono evidenti. Una seduta di supervisione fatta in questo modo è come un film d’autore, faticosa e attivante mentre la si vive, appagante e chiarificatrice, quando si esce dallo studio, ti rimane dentro una settimana. Però esiste anche l’aspetto cooperativo e scherzoso, il gioco sociale, insomma. Noi col nostro supervisore ridiamo, scherziamo, portiamo i dolcetti. Insomma, non lavoriamo solo in modo serio e distaccato. E questo ha contribuito a lenire l’immagine che si può costruire nella mente rispetto al ruolo.
Sebbene in molte scuole di specializzazione la supervisione e la terapia personale non siano obbligatorie, abbiamo potuto toccarne con mano l’estrema utilità. Sotto tanti punti di vista, quelli che abbiamo cercato di approfondire in queste poche righe. Ormai sono anni che affrontiamo questo tipo di percorso ed abbiamo letteralmente imparato ad integrarlo nella prassi clinica. Come molti altri aspetti che riguardano il nostro lavoro anche questo qui, la relazione tra supervisione e terapia, può essere meglio compresa vivendola con apertura e cuiorsità.
C’è qualcosa che ricordi del tuo supervisore, Vito?
“Potrei raccontare tantissimi aneddoti ma non è questa la sede. Ricordo tutte le volte che mi riprende ma fa bene a farlo perché è quello che mi aiuta e ci aiuta a crescere. Subito dopo, però, mi incoraggia e mi sostiene”
E a te, Virginia, cosa ti viene in mente?
Io invece ricordo quando risponde, con estrema calma: “uhm, non lo so” …e, poi, non dimenticherò mai quando gli ho proposto l’esercizio del super-eroe e lui l’ha provato veramente!”
Ma vuoi vedere che abbiamo lo stesso supervisore?