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La rete che aiuta il terapeuta: l’importanza della supervisione in un caso di psicoterapia

Per inoltrarci nel paziente dobbiamo sempre avere una rete di sicurezza pronta a tirarci fuori, altrimenti rischiamo di restare nella pancia della balena.

Di Elena Mazzieri

Pubblicato il 29 Mag. 2020

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi.

Mazzieri Elena – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Eccoci, finalmente è arrivato il momento di mettersi in gioco per davvero! Sono anni che mi esercito, che studio, che mi preparo per questo giorno, per questo momento, ed ora ci siamo! Finalmente arriva il primo paziente! Che emozione…

Certo, non è la prima volta in assoluto che seguo un paziente. Negli anni di formazione, durante il tirocinio, ne ho viste di cotte e di crude, ma il contesto era completamente diverso. Alle mie spalle c’è sempre stata la tutor, pronta ad aiutarmi nei momenti di difficoltà e a porre rimedi a miei eventuali errori. Ma ora è tempo di uscire dalla propria zona comfort e sperimentarsi in un contesto diverso. E così, un po’ per caso, un po’ per fortuna, sono stata contattata dalla prima paziente da seguire in privato.

Mi sono sentita come quando, da bambina, per la prima volta ho pedalato senza le rotelline. Mi sono sentita “grande” e, allo stesso tempo, spaventatissima. Mentre pedalavo cercavo con lo sguardo mio padre, sperando che fosse pronto a prendermi al volo, ma piano piano aumentava la consapevolezza che ormai era un po’ troppo lontano e, se fossi caduta, l’unica cosa pronta ad accogliermi sarebbe stato l’asfalto. Certo, non piacevole, ma come si dice dalle mie parti, “più giù di per terra non si va”, e quindi mi sono fatta coraggio e mi sono buttata in questa nuova impresa.

Quando Laura, nome di fantasia, ha suonato al campanello del mio studio, il cuore mi batteva a più non posso e a stento sono riuscita a non far tremare le mani. Poi ci siamo sedute, abbiamo iniziato a parlare e tutta la tensione è sparita. Mi sono calata nel ruolo di Psicoterapeuta e ho portato a termine il primo colloquio.

Laura ha all’incirca la mia età, ma questa non è la sola cosa che abbiamo in comune. Entrambe facciamo lo stesso lavoro, e non parlo di psicologia. Durante gli anni di specializzazione, per sbarcare il lunario in qualche modo, ho lavorato come educatrice presso una cooperativa sociale. Ed anche Laura è un’educatrice. La cooperativa non è la stessa, ma le dinamiche sono praticamente identiche, anche perché viviamo in due paesini molto vicini tra loro e, anche per questo, molto simili.

Mi sono resa conto sin da subito di quante fossero le cose che abbiamo in comune. A dirla tutta pensavo che ci avessero aiutato nell’instaurare una buona relazione terapeutica. E forse così è stato. Certo, ammetto che talvolta alcune situazioni da lei raccontate mi abbiano attivato più di quanto non avessi voluto, ma inizialmente sono riuscita ad avere ben presenti quali pezzi fossero del paziente e quali fossero miei.

Poi però gli eventi di vita si sono messi di mezzo. Non entrerò nei dettagli, ma basti sapere che durante uno dei vari servizi che svolgo per la cooperativa ho subito un infortunio e per me è stato un momento piuttosto faticoso. Forse avrei dovuto prendermi un periodo di pausa, ma ostinata e testarda ho pensato, sbagliando, che sarei riuscita a gestire tutto. Mannaggia alla sindrome da Wonder Woman!

Arriva il momento della seduta settimanale con Laura ed iniziamo a parlare. Anche per lei questo è un momento difficile ed un ruolo importante lo gioca proprio il lavoro. Facciamo gli ABC e, scendendo in laddering, mi rendo conto che molto dei suoi pensieri disfunzionali erano anche i miei. E come faccio a disputare pensieri che io stessa non riesco a mettere in discussione? Cercavo di essere razionale, ma non riuscivo a trovare le parole per convincere lei, ma soprattutto me stessa, che quei pensieri ci facevano fare soltanto più fatica e che, continuare a rimuginare in quel modo, non ci avrebbe affatto aiutato.

Ed è in quel momento che mi rendo conto di quanto fossimo effettivamente simili, anche fisicamente. Entrambe piuttosto alte, piuttosto magre, con un taglio di capelli molto simile, vestiamo anche in modo simile. Cavoli… quante erano le probabilità che la prima paziente, quella per uscire dalla zona comfort, fosse proprio un mio doppione? Ci piacciono anche le stesse serie TV!

Realizzare questo mi ha mandato estremamente in confusione. Per la mente mi è passato di tutto… “Anche lei subirà il mio stesso infortunio”, “mi starò davvero sintonizzando con la paziente o quello che sento in realtà è un pezzo mio e non suo?”, “avrei proprio dovuto fermarmi, ero così preoccupata dall’idea di darle buca e di essere l’ennesima persona che non l’ascolta e non la vede che rischio di fare un casino”, e così via, giù di giudizi, autoinsulti, rabbia, tristezza, colpa, rimuginii (esattamente come fa lei, ci tengo a sottolinearlo).

In una fase di vita in cui sono stata sopraffatta dagli eventi, trovarsi davanti il proprio doppione altrettanto sopraffatto per motivi simili mi ha fatto sentire fortemente inadeguata. Che razza di terapeuta è quello che non è in grado di gestirsi e di essere di aiuto alla paziente? Certo, ogni paziente attiva qualcosa nel terapeuta di personale, ma a tutto questo non ero preparata. Nella mia breve esperienza di psicologa in erba ho fatto qualche pasticcio, ma nel contesto di tirocinio mi sentivo sicura ed in qualche modo ero sempre riuscita a rimediare, grazie anche all’aiuto della tutor. Ero preparata all’eventualità di non poter essere efficace, ma non così presto e non con un caso che sento così vicino.

E già, perché in tutto questo dobbiamo aggiungere che Laura la sento proprio molto vicina e tengo molto a lei. È una paziente ideale, ti segue ed ha grandi capacità introspettive. Sebbene stia attraversando un momento difficile non si perde d’animo e fa di tutto per cercare di uscirne, anche troppo… non per niente rimugina, rimugina, rimugina, rimugina…. Sin dalla prima seduta mi sono accorta che non si trattava di un semplice disturbo da attacchi di panico. Laura ha una personalità variegata, un passato faticoso e una forza e una volontà che lei stessa non riconosce di avere.

Con quel lato narcisistico misto allo spirito da crocerossina che noi tutti psicologi abbiamo, pensavo di poterle essere davvero di aiuto. Purtroppo però le mie sicurezze stavano iniziando a vacillare.

Avrei dovuto inviarla?

Dobbiamo dirla tutta. In realtà io non ero preparata all’eventualità di dover inviare Laura ad un altro psicoterapeuta. Mi ero resa conto di essere entrata con tutte le scarpe nel ciclo di allarme e di aver compiuto dei passi metodologicamente sbagliati, e proprio per questo ho chiesto aiuto alle didatte per capire come muovermi.

Come si vede l’esperienza!! È bastata un’occhiata che subito mi hanno detto di fermarmi e di riflettere su quanto stavo facendo e che, ovviamente, avrei prima dovuto lavorare su di me per superare il mio momento difficile. Certo, ora dico ovviamente, in quel momento proprio ovvio non era… Per dirla in termini LIBET: ho attivato il mio bel piano immunizzante e mi sono messa a fare per non sentire (ridondante dirlo, esattamente come fa Laura!).

Questa bellissima verità, schiaffata davanti agli occhi, è stata come una doccia gelata. Non ero pronta all’eventualità di fermarmi, non volevo sentirla. Troppo presa dai miei drammi lavorativi, non mi ero resa conto che il vero dramma me lo stavo scrivendo da sola nella professione per cui tanto ho investito ed alla quale tengo moltissimo.

“Ok Elena – mi sono detta – dobbiamo guardare in faccia la realtà. Cosa stai facendo?”.

Sono sempre stata molto riconoscente verso i miei docenti, ma in questo momento più che in altri. Ho capito che la prima e più importante cosa da fare era chiedere una supervisione. Un occhio esterno, molto più esperto di me, mi avrebbe potuto aiutare a chiarire le idee.

Non tanto sulla paziente in sé, lei l’avevo ben chiara in mente, e altrettanto chiari avevo le varie tecniche e protocolli che avremmo potuto usare. Ma tutto questo non serve proprio a niente se prima non usciamo dal ciclo di allarme e non smettiamo di usare il fare per non sentire. Ma se io stessa non credo alle mie dispute, come può crederci il paziente?

Quando diciamo ai pazienti che dobbiamo imparare a stare anche con la sofferenza e accettare che non sempre possiamo essere efficaci, dobbiamo ricordarci che questo vale anche per noi. Grazie alla supervisione orientata ai processi, cioè quella indirizzata a chiedersi “come sto con il paziente”, “cosa sto facendo di problematico?”, “qual è il disagio che ho avuto durante le sedute”, mi sono resa conto che, quando sono particolarmente attivata emotivamente e quando si tratta di temi a me così vicini (e dolorosi), non è affatto semplice mettersi in discussione. Quanto accetto che mi venga detto che quell’atto clinico, quelle emozioni con quel paziente, sono il risultato di una mia storia dolorosa, proprio nell’area che questo paziente va a toccare? Beh, di fronte all’ipotesi che mi è stata posta di abbandonare il paziente, mi sono sentita spaesata, confusa e decisamente non pronta ad accettare questa eventualità.

Ho dovuto dormirci sopra la notte prima di capire che quelle parole erano ben più che sensate e che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo.

Mi è tornato in mente un professore all’università, che diceva che, per inoltrarci nel paziente, dobbiamo sempre avere una rete di sicurezza pronta a tirarci fuori, altrimenti rischiamo di restare nella pancia della balena. E la rete di sicurezza sono proprio i colleghi e le supervisioni. Non si capisce il senso di queste parole finché non ci si addentra nella pancia della balena, finché non ci sentiamo un po’ Giona, soli e al buio, dentro qualcosa che non conosciamo e che ci spaventa un po’. Che la balena rappresentasse il dolore mi era chiaro, ma che il dolore fosse tanto del paziente quanto nostro non lo avevo capito fino in fondo.

La supervisione è fondamentale per comprendere il paziente, per capire se ci siamo persi qualcosa, se abbiamo fatto degli errori tecnici, certo, ma la supervisione è ancora più importante per farci uscire dalla balena e farci vedere chiaramente che in fondo quello è un animale immenso, maestoso ma quasi innocuo, che si nutre di plancton e che non attacca l’uomo. Soltanto uno sguardo esterno ci può aiutare a capire questo, perché certe volte, quando abbiamo la testa sott’acqua, non ci accorgiamo di quanto siamo in profondità. Sentendoci soffocare, non ci rendiamo conto che basterebbe appoggiare i piedi e sollevare la testa per poter respirare di nuovo.

Attualmente la terapia con Laura sta continuando. Ci siamo prese del tempo per “non fare” e per stare con le nostre emozioni dolorose. Le nostre somiglianze sono diventate punti di forza nell’alleanza terapeutica e insieme stiamo facendo qualche passo avanti. E tutto questo è stato possibile solo grazie alle supervisioni e al supporto dei colleghi.

Una cosa è certa… io la mia rete di sicurezza non la mollo!

 

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