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L’ansia da separazione e l’intolleranza all’incertezza nelle donne in gravidanza

Uno studio di Sevil Degirmenc e colleghi del 2020, ha avuto come obiettivo quello di indagare la presenza dell’ansia da separazione in gravidanza e la sua associazione con le variabili sociodemografiche e l’intolleranza all’incertezza.

 

Durante la gravidanza, considerata un processo fisiologico, possono verificarsi anche alcuni cambiamenti nella sfera psicosociale. Sia i cambiamenti fisiologici che quelli inerenti il nuovo ruolo della donna influenzano la possibile insorgenza di alcuni disturbi mentali. Tra questi, i più comunemente sviluppati sono i disturbi d’ansia e i disturbi depressivi (Aydın et al., 2013). Alcuni studi hanno dimostrato che spesso la presenza di un disturbo d’ansia durante la gravidanza può costituire un importante fattore di rischio per lo sviluppo di depressione nel periodo post-partum (Uguz et al., 2011). L’ansia ha infatti diversi effetti negativi sull’interazione madre-neonato e conseguentemente sulla cura del bambino.

Disturbo d’Ansia da Separazione in gravidanza e in età adulta

Il Disturbo d’Ansia da Separazione (Separation Anxiety Disorder; SAD) è caratterizzato da una forte paura che insorge quando gli individui vengono separati o abbandonati dalle principali figure di attaccamento (American Psychiatric Association [APA], 2013). Il Disturbo d’Ansia da Separazione può avere conseguenze negative nella vita di tutti i giorni sia nella sfera sociale, che in quella emotiva, familiare e scolastica (APA, 2013). Alcuni studi hanno dimostrato che tale disturbo può svilupparsi anche in età adulta (Adult Separation Anxiety Disorder; ASAD), la prevalenza è tra il 4,8 e il 6,6% e colpisce più frequentemente le donne rispetto agli uomini (Hudson e Rapee, 2002). Include tutte le persone i cui sintomi sono comparsi per la prima volta in età adulta senza una documentata manifestazione durante l’infanzia, ed è caratterizzato dalla presenza di una paura o di un’ansia eccessive e inappropriate per l’età cronologica, riguardanti la separazione dalle figure di attaccamento; per gli adulti, la paura, l’ansia o l’evitamento della separazione devono essere presenti da almeno 6 mesi (APA, 2013). Inoltre le persone presentano un’eccessiva angoscia quando si anticipa o si vive una separazione e una preoccupazione persistente di perdere le figure di attaccamento; una riluttanza o rifiuto a uscire, lontano da casa, a scuola o al lavoro a causa della paura della separazione; infine una preoccupazione persistente ed eccessiva di subire un evento spiacevole che causa la separazione da una figura di attaccamento (Baldwin et al., 2016).

Sebbene non siano ancora disponibili molti studi sul disturbo d’ansia da separazione in gravidanza, uno studio di Eapen e colleghi ha mostrato l’esistenza di un’associazione tra i sintomi di ansia da separazione, la depressione durante la gravidanza e bassi livelli di ossitocina su 127 donne nel periodo dopo il parto. Il 44% delle donne, dopo la gravidanza, presentava sintomi significativi di Disturbo d’Ansia da Separazione in età adulta e il 26% a 3 mesi dal parto; inoltre, gli autori hanno scoperto che l’attaccamento ansioso e la depressione erano mediati dall’ansia da separazione e che l’umore depresso mediava la relazione tra Disturbo d’Ansia da Separazione in età adulta e ossitocina (Eapen et al., 2014).

L’intolleranza all’incertezza

L‘intolleranza all’incertezza (Uncertainity Intolerance; UI) è definita come una tendenza a interpretare negativamente eventi e situazioni incerte e a dare risposte negative a livello emotivo, cognitivo e comportamentale (Dugas et al., 2004). È implicata in diversi disturbi emotivi, e le persone con elevati livelli di UI, tentano di ridurla tramite comportamenti volti a evitare di sperimentare emozioni e pensieri negativi a essa associati (Boswell et al., 2013). Sperimentano inoltre difficoltà nell’identificare e interpretare le emozioni provate (Carleton, 2016). Anche nei disturbi d’ansia è presente una forte componente di intolleranza all’incertezza, la quale spesso è responsabile dell’insorgenza di altri disturbi psichiatrici. Alcune ricerche scientifiche hanno documentato che i bambini con diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione elaborano e interpretano le informazioni e gli eventi come più pericolosi rispetto agli altri bambini (Shear et al., 2006).

Disturbo d’Ansia da Separazione in gravidanza e Intolleranza all’incertezza

Anche il periodo della gravidanza, portando con sé diversi fattori di vulnerabilità e di stress, è un periodo rischioso per l’insorgenza del disturbo da separazione degli adulti. Per tali ragioni, uno studio di Sevil Degirmenc e colleghi del 2020, aveva come obiettivo quello di indagare la presenza dell’ansia da separazione nelle donne in gravidanza e la sua associazione con le variabili sociodemografiche e l’intolleranza all’incertezza. 310 donne in gravidanza sono state incluse e sono stati somministrati loro il questionario sull’ansia da separazione degli adulti (Adult Separation Anxiety Questionnaire [ASAQ]; Manicavasagar et al., 2003) e la scala di intolleranza dell’incertezza (Intolerance of Uncertainty Scale-Short Form [IUS-12]; Carleton et al., 2007) suddivisa ulteriormente in “ansia prospettica”, che riguarda la cognizione di eventi futuri incerti, e “ansia inibitoria”, che invece riguarda l’idea che l’incertezza blocchi l’azione e l’esperienza. I risultati mostrano che la prevalenza dell’ ansia da separazione in gravidanza è del 56,2%. L’età media delle donne in gravidanza con Disturbo d’Ansia da Separazione in età adulta (ASAD) era più bassa. In aggiunta i punteggi totali dello IUS-12, dell’ansia prospettica e della sottoscala dell’ansia inibitoria erano significativamente più alti nel gruppo con Disturbo d’Ansia da Separazione. Inoltre, sono state riscontrate correlazioni positive moderate e statisticamente significative tra il punteggio ASAD e i punteggi della sottoscala IUS-12 totale, dell’ansia prospettica e dell’ansia inibitoria; la gravità dell’ansia da separazione era correlata al livello di intolleranza dell’incertezza. Non è chiaro, però, se l’ansia da separazione si sviluppi nelle donne intolleranti all’incertezza a causa della gravidanza, o se l’intolleranza all’incertezza sia innescata dalla gravidanza. Sarebbero necessari quindi ulteriori approfondimenti per chiarire questo aspetto.

In conclusione, sembra che la gravidanza sia un periodo di rischio per lo sviluppo di disturbi d’ansia e di ASAD, che condizionano la salute sia della madre che del feto. Per migliorare questa condizione e rendere la gravidanza meno stressante possono essere efficaci trattamenti cognitivo-comportamentali che includono l’intolleranza all’incertezza nel trattamento del Disturbo d’Ansia da Separazione in età adulta.

 

Reuven Feuerstein e il suo pensiero

Feuerstein ha realizzato il Programma di Arricchimento Strumentale (PAS), noto anche con il nome “Metodo Feuerstein”, una tecnica didattica volta a stimolare e sviluppare l’intelligenza.

Chi è Feuerstein?

Reuven Feuerstein è stato uno psicologo israeliano. Nasce in Romania nel 1921 da una famiglia ebraica e, seguendo le orme del padre (studioso e rabbino), si dedica già in giovane età ad insegnare a ragazzi con difficoltà di apprendimento la lingua ebraica.

Appena diciannovenne diventa codirettore e insegnante della scuola di educazione speciale a Bucarest, portando avanti il suo interesse nell’aiutare bambini in situazioni problematiche.

Dopo essere fuggito dagli orrori dell’olocausto e dai campi di prigionia torna in Israele e, dopo essere diventato consulente e successivamente direttore della “Gioventù Aliijath”, comincia ad occuparsi dell’educazione di adolescenti sopravvissuti alle persecuzioni razziali provenienti da diversi paesi.

Laureatosi a Ginevra in psicologia assieme a Jean Piaget e ottenuto il dottorato in psicologia dello sviluppo alla Sorbona di Parigi, diventa un affermato docente di psicologia e pedagogia in Israele e negli Stati Uniti.

Nel 1992 fonda, a Gerusalemme, l’International Center for the Enhancement of Learning Potential (ICELP), dove si occupa di formazione, ricerca e riabilitazione cognitiva. È in questo contesto che Feuerstein realizza il suo Programma di Arricchimento Strumentale (PAS), noto anche con il nome “Metodo Feuerstein”. Il PAS è una tecnica didattica volta a stimolare e sviluppare l’intelligenza. L’obiettivo di tale metodo è quello di permettere all’individuo di raggiungere il più alto livello possibile sia del funzionamento cognitivo che del potenziale di apprendimento, non solo riguardo i contenuti, legati alle diverse discipline, ma soprattutto di competenze e strategie di apprendimento. Scopo ultimo è quello di aumentare la capacità dell’individuo di auto-analizzare il processo mentale messo in atto per giungere alla soluzione di un compito.

Il pensiero di Feuerstein

Per molto tempo si è ritenuto che il cervello umano fosse immutabile e determinato geneticamente senza possibilità di influenze da parte dell’ambiente esterno. Al contrario, Feuerstein muta il concetto classico di intelligenza non considerandola più come un tratto di carattere ereditario bensì uno stato, risultato dal bisogno di adattarsi a nuovi stimoli, di origine interna o esterna. Quindi, l’intelligenza viene identificata come la capacità dell’organismo di modellare le sue strutture mentali per assicurare un migliore adattamento alla realtà a cui esso è esposto e che velocemente cambia.

È partendo da questa idea innovativa che Feuerstein elabora il concetto di Modificabilità Cognitiva Strutturale (MCS), secondo cui ogni individuo, indipendentemente dall’età e dal deficit presentato, è un sistema aperto ai cambiamenti e potenzialmente modificabile grazie all’interazione con l’ambiente circostante.

Alla base di tale prospettiva vi è la convinzione che l’organismo umano, in particolare le strutture neuronali, siano caratterizzate da una flessibilità intrinseca rendendo possibile, in certe condizioni, una loro modificazione e un conseguente potenziamento sia sul piano cognitivo che emotivo e motivazionale.

Tale concezione ha trovato riscontro nelle ricerche neuroscientifiche che, a partire dagli anni ‘60, hanno messo in evidenza l’elevato grado di flessibilità e adattabilità propria del cervello umano, ovvero la plasticità cerebrale. Essa è resa possibile dalla capacità dei circuiti neuronali di modificare la propria struttura e adattarsi, sia durante l’infanzia che in età adulta, in funzione delle mutevoli condizioni ambientali. Così facendo, viene incrementata nell’individuo la possibilità di apprendere una maggior quantità di informazioni.

Ne è un esempio lo studio condotto da Pascual-Leone (2015) in cui, utilizzando come test degli esercizi per pianoforte da eseguire con le cinque dita della mano sinistra, è stato riscontrato che attraverso il costante allenamento è possibile ottenere un progressivo ampliamento della rappresentazione corticale nella corteccia motoria primaria della mano sottoposta all’esercizio. Al contrario, la rappresentazione corticale della mano destra (non allenata) non ha mostrato nessun cambiamento a dimostrazione di come situazioni esperienziali della vita quotidiana siano in grado di modificare la corteccia cerebrale.

Viene così trovata la giusta chiave di lettura della famosa frase di Reuven Feuersteini cromosomi non hanno l’ultima parola”, genoma e ambiente interagiscono nel determinare lo sviluppo dell’individuo.

 

L’utilizzo dei social network da parte delle persone con narcisismo comunitario

Le persone con narcisismo comunitario si vantano del fatto che, grazie alla loro superiore disponibilità, gentilezza e premura, riescono a rendere il mondo un posto migliore. Come si presentano i profili social dei narcisisti comunitari?

 

Al giorno d’oggi, la routine della maggior parte delle persone dai 12 anni in su, prevede l’utilizzo dei social media (Hussain e Starcevic, 2020). Internet offre moltissimi contenuti che sono divulgati tramite testi o tramite formato visivo (per esempio, foto e video) e assorbiti rapidamente.

A livello sociale, l’introduzione di tecnologie sofisticate facilmente accessibili a tutti ha rivoluzionato il modo in cui le persone si presentano, mostrando sulle piattaforme gran parte della loro quotidianità e ostentando stili di vita affascinanti e lussuosi, e postando fotografie con didascalie autocelebrative.

Queste nuove norme hanno dato vita a nuove professioni, tra cui quella di blogger, che hanno ottenuto molto successo tanto da essere definiti influencer per le loro abilità persuasive sul pubblico (Khamis et al., 2017).

Social network e narcisismo

Sebbene le ragioni di utilizzo possano essere diverse, alcune persone usano i social network unicamente per mostrare una versione idealizzata di sé. In questi casi, vi sono alcuni fattori di personalità che emergono in modo particolare, tra cui il narcisismo. Gli individui con elevati livelli di narcisismo, che hanno di per sé la tendenza a esaltare le proprie qualità e una visione di se stessi estremamente positiva, spesso utilizzano i social come forma di auto-valorizzazione (Wink, 1991).

Il narcisismo è infatti un tratto di personalità caratterizzato dalla presunzione di essere privilegiati, da egocentrismo, autoesaltazione e da aspettative grandiose verso se stessi; può distinguersi in due componenti: la grandiosità narcisistica e la vulnerabilità narcisistica (Miller et al., 2017).

Il sottotipo grandioso del Disturbo Narcisistico di Personalità è caratterizzato da estrema auto-importanza e senso di superiorità, oltre che da sfruttamento interpersonale (Raskin e Hall, 1981); le persone sono infatti estroverse, alla ricerca di attenzioni, tentano di dominare nelle situazioni sociali, sono arroganti e hanno un’elevata autostima esplicita e valorizzazione di sé.

Il narcisismo vulnerabile, invece, è caratterizzato da ipersensibilità, dall’essere sempre sulla difensiva e da ritiro (Cain et al., 2008); gli individui sono più introversi e ansiosi e nascondono i loro sentimenti e i loro comportamenti di sfruttamento con l’inganno, la falsa modestia e la preoccupazione per gli altri.

Narcisismo comunitario

Recentemente è stata introdotta un’ulteriore distinzione e un nuovo sottotipo di narcisismo, il cosiddetto narcisismo comunitario (Gebauer et al., 2012): la valorizzazione di sé risulta quindi divisa in individuale e comunitaria. Il narcisismo comunitario condivide con le altre due l’auto-grandiosità, la visione di sé eccessivamente positiva e la percezione di essere speciali. Le persone con elevati livelli di narcisismo comunitario cercano mezzi per dimostrare la loro superiorità e ottenere ammirazione, tramite alcuni tratti tra cui l’altruismo, la disponibilità verso gli altri e la sensibilità che in realtà sono messi in atto per il solo bisogno di “sancire” il proprio potere (Giacomin e Giordan 2015).

Mentre i narcisisti grandiosi tendono a vedersi come persone capaci di guidare gli altri, i narcisisti comunitari possono sviluppare la convinzione di possedere la capacità speciale di creare armonia, di avvantaggiare gli altri e di cambiare il mondo (Luo et al., 2014). Si vantano del fatto che, grazie alla loro superiore disponibilità, gentilezza e premura, riescono a rendere il mondo un posto migliore (Gebauer, Sedikides, Verplanken e Maio, 2012). I narcisisti comunitari si considerano orientati verso l’altro e pilastri dell’equità. Essi quindi si presentano come persone dalle nobili intenzioni verso gli altri e il mondo e, in tal modo, ribadiscono la loro superiorità amplificando i loro tratti prosociali, sottolineando l’importanza dei loro gesti per gli altri e il loro impatto positivo sul mondo in generale.

Narcisismo comunitario e utilizzo dei social

La presenza di un sottotipo di narcisismo piuttosto che un altro è associata ad alcuni atteggiamenti sui social media tra cui, ad esempio, molte foto di sé, la condivisione di tantissime informazioni e un utilizzo molto frequente dei social da parte dei narcisisti grandiosi. 

Oggi non si hanno però molte informazioni sui comportamenti online e sulla predilezione di un determinato social degli individui con narcisismo comunitario. 

Una ricerca ha dimostrato che le persone con narcisismo tendono a ricercare maggiormente feedback relativi ai loro post sui social media, sia per contenuti testuali, sia su quelli visivi come Instagram (Żemojtel-Piotrowska et al., 2018).

Per colmare le lacune della letteratura sull’utilizzo dei social da parte dei narcisisti comunitari, una ricerca di Kristinsdottir e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di esaminare le relazioni tra l’uso dei social e il narcisismo comunitario, distinguendo le preferenze tra i siti che possedevano una rappresentazione visiva, testuale e mista dei contenuti. In particolare, gli autori volevano verificare se il narcisismo comunitario fosse correlato all’uso e alla frequenza di utilizzo dei social: Instagram (per i contenuti visivi), Reddit (per i contenuti testuali) e infine Twitter (per i contenuti misti). E se lo stesso narcisismo fosse correlato all’importanza di ricevere feedback e alla valutazione della qualità dei contenuti presentati su tali piattaforme.

334 persone sono state incluse ed è stato sottoposto loro il Communal Narcissism Inventory (CNI; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016) e alcune domande sul loro comportamento sui social.

I risultati mostrano che il narcisismo comunitario era correlato a un maggiore utilizzo di Instagram e Twitter, ma non di Reddit. Inoltre, la condivisione di contenuti, l’importanza di un feedback ed essere valutati migliori rispetto alla media, avevano associazioni positive con il narcisismo comunitario. In aggiunta, la relazione tra narcisismo comunitario e la condivisione sui social media è stata completamente mediata dal desiderio di convalida sui social e una valutazione più alta della qualità dei contenuti auto-presentati. In particolare, il narcisismo comunitario aveva una relazione particolarmente forte con il desiderio di convalida su tutte le piattaforme.

In conclusione, i risultati mostrano che il narcisismo comunitario ha forti relazioni con l’uso dei social; inoltre, pur mostrando una preferenza per Instagram (piattaforma visiva), la condivisione di contenuti, il desiderio di convalida e la valutazione della qualità dei contenuti sono risultati altrettanto importanti per i social media testuali.

I social possono servire quindi come mezzo per ottenere attenzione e convalida da parte di altri attraverso Internet e produrre sentimenti desiderati di grandiosità, potenza e senso di superiorità (per esempio, attraverso valutazioni migliori della media), da dietro uno schermo.

 

Medicina Generale e Cure Primarie (2022) a cura di Forte V. e Vito C. – Recensione

È di grande attualità la pubblicazione del volume Medicina Generale e Cure Primarie che può costituire un importante riferimento nel dibattito culturale in corso.

 

Innanzitutto, devo per correttezza segnalare il mio potenziale conflitto d’interesse. Sono uno dei 95 autori che ha collaborato al manuale Medicina Generale e Cure Primarie, avendo scritto alcuni paragrafi del capitolo dedicato alla “Relazione e comunicazione nella consultazione in MG”, ma questo è davvero poca cosa rispetto alle oltre 2000 pagine complessive. Più rilevante è l’essere il padre di una delle due curatrici e questo mi porta in una posizione inevitabilmente di parte. Dalla mia visuale posso testimoniare che il libro è frutto di un lavoro certosino durato circa 5 anni e che ha rappresentato una sfida vinta per una scommessa che anche a me, in certi momenti, è sembrata non solo ardua ma impossibile. Ovviamente, mi sono sforzato di essere assolutamente obiettivo nel descrivere le caratteristiche più rilevanti di questo ambizioso progetto editoriale, della cui qualità sono certo. Assumendomi la responsabilità delle mie parole come è giusto che sia, saranno il tempo e i lettori a decretare il successo o meno di questa fatica.

È in corso da tempo nel nostro paese una discussione, che inevitabilmente coinvolge i livelli politici più alti, a proposito della necessità di modificare il ruolo e le funzioni della medicina generale (MG). Anche la gestione di un biennio di covid, a fronte di una narrazione in cui gli operatori ospedalieri sono stati descritti come eroi, ha trovato nella territorialità il suo tallone d’Achille, talvolta con una denigrazione mediatica del tutto eccessiva, pur in presenza di oggettive gravi falle organizzative. In realtà, la crisi di credibilità del medico di medicina generale (MMG) è un processo che dura da anni, con cause profonde e complesse che qui non si ha lo spazio e la competenza per analizzare. Ma è indubbio che nei confronti della medicina generale esistano preconcetti e strumentalizzazioni, con profonda insoddisfazione sia dell’utenza che degli stessi medici. All’estero la situazione è diversa, in molti paesi è riconosciuta l’importanza di tale figura e sono previsti percorsi formativi di specializzazione specifici e adeguati.

È quindi di grande attualità la pubblicazione del volume Medicina Generale e Cure Primarie che può costituire un importante riferimento nel dibattito culturale in corso. Per le due curatrici:

la medicina generale è una disciplina che esercita un sapere specifico delimitabile (per quanto transdisciplinare e contesto-dipendente), apprendibile, indagabile e sempre aperto a nuove, possibili evoluzioni. Un sapere che non è, come spesso erroneamente ancora si ritiene, una risultante dalla mera sommatoria delle competenze “di base” di ogni branca specialistica, ma che – al contrario – necessita di un coacervo di competenze altamente specifiche e caratteristiche, a nostro parere, che richiedono di essere dapprima svelate, per poter poi colmare quel vuoto conoscitivo e formativo che ne è causa (e conseguenza). (Forte V., Vito C., 2022, p. XXXI).

Il libro, con le sue oltre 2000 pagine, offre una base certa e stabile nell’indicare quali siano le competenze del medico di medicina generale.

Il testo costituisce un manuale esaustivo che si offre a diversi piani di lettura. Da una più meditata, per comprendere il modello di medicina generale auspicato dalle autrici, o per una consultazione immediata da parte del medico per ottenere indicazioni operative. Inoltre, è palesato nel volume l’intento di poter divenire libro di testo nella Formazione Triennale di Specializzazione in Medicina Generale. Oggi in Italia è demandato alle Regioni il compito di organizzare la Formazione Specifica per la medicina generale e ciascuna opera in autonomia, con un livello qualitativo non omogeneo, mentre il percorso di laurea in Medicina e Chirurgia non forma generalmente i giovani medici a conoscere le specificità di questa essenziale figura medica, che costituisce la rete più capillare presente su tutto il territorio, in cui ciascun medico è deputato alla cura della salute di una piccola comunità di persone, i suoi assistiti. Non sfugge, dunque, l’importantissimo ruolo sociale che svolge il medico di medicina generale né il fatto che necessita di molteplici competenze complesse: ovviamente quelle cliniche in primo luogo, ma anche quelle organizzative, la conoscenza delle normative e delle procedure burocratiche, per giungere “the last but not the least” alle competenze relazionali indispensabili per realizzare percorsi di cura condivisi.  Non si può pensare a un Corso di Specializzazione senza libri su cui studiare, nota Tombesi nella prefazione, e il testo si propone di colmare proprio questa grave lacuna. Il Caimi-Tombesi, ovvero il testo “Medicina Generale”,  ripubblicato per l’ultima volta nel 2002 da Utet, oggi è introvabile e costituiva sinora l’unico testo italiano di riferimento. Mentre esistono volumi del genere all’estero (Stati Uniti, UK, Canada, Australia) e proprio lo studio e il confronto con essi ha costituito la prima impegnativa fase del lavoro delle curatrici.

Riguardo alla struttura del manuale, va detto che le due curatrici hanno coordinato e uniformato i contributi di oltre 90 autori, prevalentemente medici di MG di recente formazione. Esso è integralmente a colori, con ampio utilizzo di tabelle, immagini e anche ampliamenti  web. Particolarmente utili mi sono parsi i molti box di approfondimento ed i rimandi interni. L’opera, edita in tre tomi, è strutturata in tre sezioni.

La prima consta di 8 capitoli e costituisce un’ampia introduzione che contiene l’inquadramento della cornice sistemica in cui opera il MMG. In queste pagine sono introdotti i principi delle politiche sanitarie del SSN, con particolare riferimento alle cure primarie; gli aspetti deontologici e normativi legati alla prescrizione, alla certificazione e alle esenzioni;  i modelli e i valori che ispirano la formazione degli operatori e la loro attività di ricerca. Successivamente si passa ad analizzare come si realizza lo studio di Medicina Generale e la sua gestione pratica, mentre un intero capitolo è dedicato alla relazione e la comunicazione in tale specifico ambito medico;

La seconda sezione, formata da 7 capitoli, si rivolge alla promozione e prevenzione della salute e rappresenta la parte che dedica più spazio agli aspetti sociali. In queste pagine sono illustrati i fattori ambientali e collettivi più importanti che incidono sulla salute e sono presentate le pratiche più significative di promozione e prevenzione. Spazio specifico è dedicato alle vaccinazioni, alla salute nell’anziano e alle persone a rischio di marginalità.

Infine, la terza parte, la più voluminosa, che occupa i tomi 2 e 3 con ben 28 capitoli, il vero centro dell’opera, è dedicata a “La clinica in Medicina Generale”. Per ogni branca medica (salute cardiovascolare, pneumologia, metabolica, ecc.) viene descritto l’inquadramento clinico, attraverso un’adeguata disamina delle maggiori problematiche di diagnosi delle patologie e di gestione delle diverse attività cliniche specifiche, non solo farmacologiche.

Da non medico, ho particolarmente apprezzato la forte e rigorosa impronta metodologica e, per i contenuti, la prima parte, con un’introduzione molto minuziosa  alla cornice sistemica in cui si situa l’operatività del MMG che tratta davvero tutti gli aspetti, da quelli fiscali a quelli linguistici sino a quelli architettonici, per realizzare uno studio medico a dimensione umana. Molta attenzione è stata riposta anche alla dimensione relazionale, nella consapevolezza che è proprio nella relazione con la persona che si gioca l’efficacia e la qualità dell’agire medico.

Infine, le curatrici appaiono consapevoli che la stesura di questo manuale rappresenta anche un tentativo di contrapposizione nei confronti di una narrazione stereotipata del ruolo del medico di medicina generale come necessariamente stanco, demotivato, assorbito esclusivamente da procedure burocratiche. Lo sforzo per la realizzazione di questo testo, con la sua auspicabile diffusione tra i medici del settore, testimonia invece plasticamente la presenza di un certo numero di medici, giovani ma non necessariamente, con un alto senso civico della loro missione professionale, con elevate esigenze formative. Un libro, quindi, che non è solo una mappa unica che consente al MMG di orientarsi nell’universo delle davvero tantissime conoscenze possibili in medicina generale, ma che intende porsi come un tassello, che possa contribuire a prefigurare e realizzare un futuro migliore in questo campo, con una medicina eticamente posizionata, profondamente umana, clinicamente preparata e scientificamente rigorosa. Infine, reputo che vada salutato con favore il fatto che le curatrici e la maggior parte dei collaboratori sono giovani, quasi tutti con meno di un decennio di lavoro alle spalle, con la vitalità e la freschezza della loro età, ma pronti alle sfide del ricambio generazionale che la Medicina Generale sta inevitabilmente affrontando nel nostro paese.

 

Mi arrabbio, ci penso e ci ripenso…e mi arrabbio sempre di più! Che cos’è la ruminazione rabbiosa – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Mi arrabbio, ci penso e ci ripenso…e mi arrabbio sempre di più! Che cos’è la ruminazione rabbiosa.

 

La ruminazione rabbiosa è uno stile di pensiero perseverante relativo alle cause e alle conseguenze di un episodio che ha suscitato in noi rabbia.

La rabbia infatti può essere mantenuta da specifiche convinzioni che abbiamo sui nostri pensieri e sulle nostre capacità di gestirli.

La ruminazione rabbiosa svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative. Infatti concentrarci sugli episodi che hanno suscitato in noi rabbia non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, i suoi effetti negativi e la sofferenza, interferendo con il nostro benessere psicologico.

Nell’episodio del podcast verrà analizzato il fenomeno della ruminazione rabbiosa e verranno date indicazioni per un suo trattamento efficace. L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Alessia Offredi, psicologa psicoterapeuta.

 

 

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Il disgusto in relazione alle altre emozioni

Tra disgusto, disprezzo e rabbia è stata riscontrata una relazione particolare rispetto agli stimoli che suscitano queste emozioni (detti elicitors) specificatamente nel contesto morale. Inoltre, tutte e tre queste emozioni sembrano condividere una specifica caratteristica dell’espressione facciale.

 

Che cos’è il disgusto

Il disgusto è una delle sei emozioni primarie presenti in tutte le culture, che implica una sensazione di repulsione e pensieri di potenziale contaminazione, accompagnati da reazioni fisiologiche, espressive e comportamentali di evitamento o rimozione dello stimolo che si ritiene potenzialmente contaminante (Darwin, 1872; Rozin et al., 2008). Nella letteratura psicologica, questa affascinante emozione è stata inizialmente oggetto di oblio per vari anni (Olatunji et al., 2009), per poi conoscere un’improvvisa crescita esponenziale in termini di numero di studi condotti in merito (Rozin et al., 2016). Mentre molti di essi hanno osservato il fenomeno da diverse prospettive (neuroscientifica, cognitiva, comportamentale) al fine di fornirne una descrizione rappresentativa della realtà, molti altri hanno studiato la relazione tra disgusto e differenti fenomeni psicologici tipici (come le emozioni) e atipici (come le psicopatologie; Rozin et al., 2016). Nella ricerca sulle emozioni sono emersi punti di contatto tra il disgusto e altre emozioni, tra cui il disprezzo, la paura, la rabbia e la vergogna. In questo articolo metteremo a fuoco proprio questa relazione.

Il disgusto e le altre emozioni

Tra disgusto, disprezzo e rabbia è stata riscontrata una relazione particolare rispetto agli stimoli che suscitano queste emozioni (detti elicitors) specificatamente nel contesto morale. Inoltre, tutte e tre queste emozioni sembrano condividere una caratteristica dell’espressione facciale, ovvero alzare il labbro superiore (Hutcherson e Gross, 2011). Il disgusto condividerebbe con il disprezzo anche l’atteggiamento di “guardare dall’alto in basso” qualcuno che si ritiene incompetente o immorale (Rozin et al., 2016). Hutcherson e Gross (2011) sostengono che i termini “rabbia” e “disgusto” vengono utilizzati scambievolmente dalle persone in compiti di discriminazione emotiva. Il fatto che sia difficile differenziare le espressioni facciali o le azioni per il disgusto, il disprezzo e la rabbia (Roseman et al., 1994), secondo alcuni studiosi (Hutcherson e Gross, 2011) potrebbe suggerire che tutti questi termini possono riferirsi a un unico negativo stato sottostante.

Tuttavia, altri autori (Lee e Ellsworth, 2013) sottolineano che spesso la rabbia implica una reazione di avvicinamento all’oggetto che l’ha generata; al contrario, la reazione al disgusto è sostanzialmente quella di evitamento o rifiuto. Mentre il disgusto di tipo morale sembra strettamente correlato alla rabbia, il disgusto verso gli agenti patogeni sembra essere più legato alla paura.

Infatti, il disgusto può essere anche inteso come una sottocategoria della paura, quando lo si esperisce in risposta a una probabile contaminazione, alla presenza di agenti patogeni o rischio di morte (Rozin et al., 2016). Tuttavia, anche se entrambi sono emozioni che implicano un comportamento di ritiro o evitamento, le loro espressioni, manifestazioni fisiologiche e substrati neurali sono molto diversi.

Un ultimo interessante punto di contatto è stato evidenziato tra il disgusto e la vergogna (Rozin et al., 2016). L’aspetto condiviso sta nell’atto di biasimare; tuttavia, la differenza è che nel disgusto è orientato verso l’altro, mentre nella vergogna è orientato verso sé stessi. È interessante il legame vergogna-disgusto elaborato da Lewis (1995), secondo il quale la vergogna spesso scaturisce dalle risposte di disgusto degli altri verso sé stessi.

Conclusioni

Lo studio delle emozioni ha sempre avuto una forte tradizione nell’osservare le espressioni facciali come segnali essenziali per il riconoscimento delle emozioni (Hutcherson e Gross, 2011). Ciò ha fatto supporre che le emozioni si escludessero vicendevolmente. Grazie a questi stessi studi e altri che si sono concentrati su antecedenti e conseguenze degli stati emotivi, stiamo progressivamente scoprendo che gli esseri umani hanno una vita mentale ed emotiva ricca e differenziata rispetto ad altre specie animali. Alcuni ricercatori (ad esempio, Dunbar, 1998) hanno suggerito che questa variabilità deriva dalla maggiore complessità e diversità dell’ambiente sociale in cui sono immersi gli esseri umani, che renderebbe necessario possedere dei sistemi di risposta coerenti con tale complessità.

 

“Stay home”: riflessioni sulla perdita perinatale durante la pandemia

Questo articolo si propone come una riflessione sul vissuto di isolamento sperimentato durante la pandemia da Covid-19, con un focus specifico sulle emozioni delle donne che hanno fatto esperienza di una perdita perinatale

 

Covid-19 e gravidanza

L’emergenza da Covid-19 ha avuto un profondo impatto in ambito perinatale. Il lockdown, la dissoluzione dei servizi di cura e la paura delle attese nelle strutture sanitarie ha influenzato il benessere delle donne in gravidanza e dei loro neonati. Alcune ricerche hanno messo in evidenza un aumento dei tassi di natimortalità (Chmielewska B., Barratt I., Townsend R., Kalafat E., van der Meulen J., Gurol-Urganci et al. 2021), di sintomi ansiosi-depressivi, di stress psicologico materno (ISS, 2020) e di conflitti coniugali e familiari (Aydin & Aktaş, 2021). Anche nelle nascite senza complicazioni, l’assenza del partner in ospedale pare abbia influito sul livello di ansia delle donne ricoverate (Morniroli, Consales, Colombo, Bezze, Zanotta, Plevani et al., 2021). Poiché alle situazioni critiche conseguono periodi di aumentato malessere psicofisico, è inoltre verosimile aspettarsi un incremento della psicopatologia perinatale (ISS, 2020).

La pandemia da Covid-19 ha portato alcuni cambiamenti per quanto riguarda la ricerca e l’erogazione delle visite sanitarie in ambito materno-infantile: da una parte, è stata registrata una diminuzione dei comportamenti di ricerca verso i servizi sanitari o un minore accesso agli stessi dall’utenza. Questo fatto è stato correlato alla paura di contrarre il Covid-19, al lockdown, al distanziamento sociale e alla riduzione dei trasporti pubblici. Dall’altra, sono state osservate variazioni, cancellazioni e riduzioni da parte dei servizi stessi, anche a causa della diminuzione dei medici nei reparti ospedalieri. Molte unità materno-infantili hanno comunque proposto i servizi a distanza, servendosi di dispositivi digitali. Sebbene le tecnologie abbiano consentito di creare una continuità nelle cure, non sempre è stato possibile garantire a tutti un accesso equo (Chmielewska B., Barratt I., Townsend R., Kalafat E., van der Meulen J., Gurol-Urganci et al. 2021).

A proposito di controlli in gravidanza, durante la pandemia alcune donne hanno raccontato di essersi sentite come “incastrate” in un paradosso decisionale, che scatena una duplice ansia: da una parte, saltare le visite comporta un abbassamento dei controlli e un aumento dei rischi connessi a eventuali problematicità non evidenziate; dall’altra, recarsi ai controlli e verificare lo stato di salute proprio e del figlio espone a un maggiore rischio di contagio.

Anche il ricovero ospedaliero per il parto genera paradosso e ansia: l’ospedale viene considerato il posto più sicuro dove partorire, perché garantisce le cure e la presa in carico di eventuali emergenze, ma espone anche maggiormente al virus. Ci racconta una madre: “Purtroppo ho avuto alcune complicazioni al momento del parto e mi hanno trattenuto qualche giorno in ospedale. Ero angosciata perché non stavo bene, ma soprattutto perché la mia bambina era in ospedale con me, esposta al virus molto più che nella nostra casa”. Inoltre, alcune donne hanno dichiarato di aver una forte solitudine: da un lato, essa è condivisibile a livello sociale, collegata alle disposizioni governative di distanziamento e lockdown; dall’altro è connessa al fatto che la gravidanza stava procedendo e sarebbe terminata: ciò che non veniva condiviso in quel momento, non sarebbe stato più condivisibile,  perduto per sempre.

Una donna all’ottavo mese di gravidanza ha espresso in modo molto lucido i suoi timori con queste parole: “Mia madre è lontana, non può appoggiare la mano sulla mia pancia che cresce, non sente i movimenti del suo nipotino. Se la situazione non cambierà, sarà lontana anche quando suo nipote nascerà. E come farò io senza il suo aiuto quando nascerà il bambino?” (Sensi & Gandino, 2021).

Covid-19 e lutto perinatale

Le ansie e la solitudine che contraddistinguono le gravidanze normative si amplificano esponenzialmente in caso di lutto perinatale. Molte madri spesso giudicano qualsiasi decisione presa (intensificare o diradare i controlli in gravidanza, ad esempio), come sbagliata e causa della morte del figlio. Da ciò si scatenano vissuti di colpa, vergogna, inadeguatezza e incapacità, oltre a disperazione e rabbia. Inoltre, la nostra esperienza clinica suggerisce che la condizione di distanziamento sociale abbia aumentato il vissuto di isolamento a seguito di un lutto perinatale e sia un fattore predisponente per la mancata risoluzione del lutto. Le parole di una donna sono esemplificative: “Oltre a me e a mio marito nessuno ha potuto vedere la mia bambina. Loro hanno visto la mia pancia e ora non c’è più nulla. È come se per le nostre famiglie nostra figlia non ci fosse mai stata”. L’elaborazione del lutto è infatti facilitata se si percepisce riconoscimento, vicinanza e supporto da parte dell’ambiente relazionale; al contrario, l’assenza di rituali che permettono di condividere il dolore con il proprio gruppo familiare e sociale peggiora i vissuti di solitudine e di incomprensione (Gandino, Vanni, Bernaudo, 2018).

Tuttavia, durante il periodo di lockdown altre tipologie di morti hanno generato lutti complicati, legati alle numerose restrizioni a cui le persone sono state sottoposte: l’impossibilità di vedere il proprio caro defunto, di vegliarlo, di svolgere funerali e sepolture, di ricevere visite di parenti e amici (Albuquerque, Teixeira & Rocha, 2021). Pertanto, i vissuti di colpa nei confronti del defunto, per il quale si sente che non si è fatto abbastanza, e un’amplificazione di sconforto e solitudine, dovuta al non aver condiviso e commemorato socialmente la propria perdita, accomunano altre morti alle perdite in gravidanza: sembra paradossale, ma l’ampliamento della difficoltà – sebbene per un periodo limitato – ad altre morti, ha diminuito l’isolamento emotivo e relazionale del lutto perinatale, rendendolo più condivisibile.

In conclusione, i racconti, raccolti in ambito clinico, di donne che hanno vissuto una perdita perinatale durante il periodo pandemico evidenziano diffusi sensi di colpa, vergogna, inadeguatezza e incapacità rispetto alla perdita, amplificati dalla situazione paradossale per cui il sistema di cura è anche un veicolo amplificato di contagio. Rispetto al rischio di sviluppare un lutto complicato, il lockdown ha aumentato il vissuto di solitudine e il distanziamento sociale, incrementando di conseguenza la difficoltà di condividere ed espletare rituali che aiutano l’elaborazione del lutto. Ci domandiamo però se il fatto che altre morti siano state poco ritualizzate a causa del lockdown, ma ugualmente riconosciute, aumenti la possibilità di un riconoscimento da parte del contesto circostante anche in caso di lutto perinatale, e renda questa perdita più comunicabile e il lutto conseguente meno diseredato (Doka, 2002).

 

Dating app, ansia sociale e depressione

Le app di dating online come Tinder rappresentano un nuovo modo per incontrare possibili partner e le motivazioni alla base dell’utilizzo di queste app possono essere varie.

 

Introduzione

La letteratura ci mostra che l’ansia sociale e la depressione sono associate a difficoltà nello stabilire relazioni intime (Schneier et al., 1994) e a una ridotta probabilità di essere coinvolti in una relazione sentimentale (Alden e Taylor, 2004; St John e Montgomery, 2009). L’anedonia associata alla depressione, infatti, può ostacolare l’incontro con i partner data la mancanza di interesse che si sperimenta per attività in precedenza piacevoli, mentre le persone con ansia sociale possono evitare di chiedere ad altre persone di uscire con loro per la preoccupazione di essere valutati negativamente o rifiutati.

Ad oggi, le applicazioni di dating online come Tinder rappresentano un nuovo modo per incontrare possibili partner. Le motivazioni alla base dell’utilizzo di queste app sono varie, quelle maggiormente riportate sono: “amore”, “sesso occasionale”, “facilità di comunicazione”, “convalida dell’autostima”, “brivido di eccitazione” e il “seguire una moda” (Sumter et al., 2017).

Dato che queste app offrono numerosi vantaggi (come ad esempio l’accessibilità), potrebbero essere interessanti per gli individui con elevati livelli di ansia sociale o depressione che hanno difficoltà a stabilire relazioni intime. Inoltre, le motivazioni riportate da persone con ansia sociale e depressione potrebbero differire da quelle riferite da persone che non presentano tali problematiche. Avendo una bassa autostima (Van Tuijl et al., 2014), individui con ansia sociale e depressione possono utilizzare Tinder per acquisire maggiore fiducia in se stessi (Sumter et al., 2017) e possono riportare meno motivazioni come “sesso occasionale” e “brivido di eccitazione”.

C’è inoltre la possibilità che gli individui con ansia sociale e depressione si impegnino in un uso più passivo delle app di dating (per esempio, la mera visualizzazione di post invece di una comunicazione diretta; Burke et al., 2011), riducendo così le opportunità di creare relazioni.

Dating app, depressione e ansia sociale

Per rispondere a questi quesiti, uno studio di Lenton-Brym e colleghi (2021) è stato il primo a esaminare la relazione tra ansia sociale e depressione e l’utilizzo di dating app.

I risultati ottenuti suggeriscono che gli uomini, più delle donne, tendono a utilizzare le app per incontri per il sesso occasionale, dato che può essere spiegato dalle diverse aspettative tra uomini e donne su ciò che costituisce un comportamento sessuale “appropriato”, in linea con i risultati di Sumter e colleghi (2017).

Un dato particolarmente interessante emerso è che le associazioni positive tra l’uso delle app di dating e i sintomi di ansia sociale erano più forti nelle donne, con motivazioni riferite quali ”Amore”, “Brivido di eccitazione”, “Sesso occasionale”. In maniera simile, le associazioni tra i sintomi della depressione e l’uso di app di dating erano più forti tra le donne rispetto agli uomini (”Facilità di comunicazione”, ”Autostima”).

Le ricerche passate suggeriscono che le donne utilizzano la tecnologia per la comunicazione sociale più degli uomini (Fallows, 2005); con un aumento dei sintomi di ansia sociale e/o depressione, le donne potrebbero essere ancora più propense a rivolgersi alla tecnologia per avere contatti sociali, soprattutto se le forme alternative di contatto sociale sono ridotte a causa dell’evitamento.

La motivazione ”Convalida dell’autostima” e ‘’Amore” non differivano tra i generi ed erano comunemente riportate da entrambi i gruppi di uomini e donne.

Questo risultato può essere legato alla tendenza generale degli individui socialmente ansiosi a temere una valutazione negativa e a cercare di conseguenza rassicurazione e convalida (Cougle et al., 2012). In linea con questa interpretazione, la motivazione ”Convalida dell’autostima” era elevata indipendentemente dal sesso in individui con alti livelli di ansia sociale.

Dating app, ansia sociale e depressione: differenze di genere

Infine, i risultati dimostrano che, tra gli uomini, l’ansia sociale e i sintomi depressivi hanno predetto negativamente le probabilità di iniziare un contatto con persone attraverso le app di dating, mentre per le donne, né l’ansia sociale né i sintomi depressivi hanno predetto la possibilità di un contatto. Nello specifico, sembra che le donne difficilmente inizino un contatto con l’altra persona, indipendentemente dai sintomi depressivi o di ansia sociale. Ciò è in linea con i tradizionali ruoli di genere negli appuntamenti e nel corteggiamento, secondo i quali gli uomini dovrebbero essere più attivi e assertivi (Eaton et al., 2016).

L’osservazione rispetto al fatto che gli uomini con elevati sintomi di ansia sociale e depressione hanno meno probabilità di iniziare una conversazione con possibili partner suggerisce che le app di incontri non riescono a superare del tutto le barriere all’inizio di una relazione per questi individui. Anzi, questi potrebbero esporsi alle conseguenze potenzialmente deleterie dell’uso delle app di incontri (ad esempio, ansia, depressione, insoddisfazione corporea; Woerner et a., 2017)) senza raccogliere i benefici di una maggiore connessione sociale.

 

A proposito di efficacia… – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 5

Cosa s’intende per efficacia empirica delle cure psicologiche per la salute mentale? In questo numero cercheremo di chiarire proprio questa qualità, indicata dalla Consensus Conference come imprescindibile nel panorama assistenziale della salute mentale.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 5) A proposito di efficacia…

 

Nei precedenti numeri è stato citato spesso il requisito fondamentale delle terapie psicologiche per i disturbi ansiosi e depressivi: gli interventi promossi devono essere efficaci, ovvero basati su prove empiriche. Ma cosa s’intende per efficacia empirica delle cure psicologiche per la salute mentale?

Terapie psicologiche e psicoterapie

Nella Consensus Conference si parla di terapie psicologiche per identificare tutte quelle terapie che si servono di mezzi psichici con il fine ultimo di ridurre, e auspicabilmente eliminare, i sintomi e il disagio associati ai disturbi legati all’ansia e alla depressione (ISS, 2022). L’impiego di strumenti psichici presuppone la conoscenza e la modificazione dei processi e delle variabili di natura cognitiva, emotiva e relazionale. All’interno della dicitura “terapie psicologiche” si annoverano la psicoterapia (intervento più conosciuto e studiato) e un insieme più ampio di tecniche che comprendono la consulenza e il sostegno psicologico. È opportuno specificare che nell’ordinamento giuridico italiano, la psicoterapia è esclusiva prerogativa di medici e psicologi specializzati e conseguentemente abilitati al suo esercizio.

Nello specifico, le psicoterapie indicano l’insieme di tecniche e procedure relativamente complesse che si occupano della cura dei disturbi su base psicologica, i cui effetti sono osservabili in termini di riduzione della sofferenza mentale legata ai sintomi e spesso anche – come ricorda Gabbard (2010) – in termini di funzionamento cerebrale. Anche il premio Nobel Eric Kandel (1998) considera la psicoterapia un trattamento biologico proprio perché i cambiamenti che ne conseguono possono essere mappati a livello di connessioni sinaptiche.

Dunque, la psicoterapia, utilizzata come strumento per la riconquista dei propri spazi vitali e il ripristino dei personali legami affettivi attraverso l’elaborazione soggettiva del dolore e la valorizzazione dei desideri e dei sentimenti (Barbato et al., 2022), non fa riferimento al mero sostegno emotivo, spesso considerato non molto distante da quello che può offrire una persona cara (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017). Infatti, sebbene il sostegno emotivo fornito da parenti e amici sia di grande valore, è importante evidenziare che la psicologia è una scienza empirica, e, come tale, ha le sue regole, ricerche, metodi e scoperte. In questo senso, i trattamenti psicologici sono un insieme di procedure che coinvolgono diversi aspetti, identificati e studiati attraverso metodi scientifici che, a loro volta, sono stati – e continuano a essere — migliorati nel tempo (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017).

Come si misura l’efficacia

Nel tempo, all’antitesi “efficace/inefficace” si è sostituita una concezione dimensionale (ISS, 2022). Perciò, per quanto riguarda la psicoterapia, il livello più elevato è rappresentato da trattamenti che aumentano il grado di benessere e salute –oppure, diminuiscono la sofferenza e rallentano l’aggravarsi della sintomatologia– in misura maggiore rispetto all’effetto che potrebbe avere il trascorrere del tempo, il supporto sociale e le aspettative di miglioramento dell’individuo stesso. Relativamente ad ansia e depressione, i termini di confronto sono rappresentati dai livelli di efficacia delle farmacoterapie (ovvero, impiego di ansiolitici o antidepressivi).

Così come accade in altre discipline applicative e in medicina, anche la psicoterapia segue una specifica metodologia scientifica per testare la sua efficacia. Il metodo più rigoroso e maggiormente utilizzato nella ricerca in psicologia clinica è quello dei cosiddetti “studi controllati randomizzati” (Randomized Controlled Trials, RCT; ISS, 2022). Gli RCT, dal punto di vista metodologico, sono molto sofisticati in quanto implicano l’uso di gruppi di controllo e l’assegnazione randomizzata dei pazienti ai vari gruppi. I gruppi di controllo sono impiegati per cercare di differenziare i miglioramenti ottenuti grazie alla terapia psicologica che si sta testando e quelli ottenuti per effetto della stessa evoluzione naturale del disturbo, dell’interazione umana con un clinico, e delle aspettative positive (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017). I gruppi sono formati per essere equivalenti per tutte le variabili (per es., età, genere, istruzione), tranne per la condizione sperimentale, ovvero il tipo di trattamento, a cui i partecipanti vengono assegnati attraverso una rigida procedura di randomizzazione (ovvero di distribuzione casuale – NdR) – da qui il nome RCT. Le tipologie di condizioni contemplate in questi studi sono solitamente il placebo, il trattamento farmacologico (di comprovata efficacia) e una combinazione di trattamenti psicologici e farmacologici.

È inoltre importante sottolineare alcune buone pratiche empiriche che spesso vengono contemplate negli RCT nel campo della psicologia clinica. Queste non si limitano ad analizzare le differenze tra i diversi gruppi e tra i dati pre e post trattamento, ma prevedono anche un monitoraggio nel tempo (per es., a distanza di 6 mesi o un anno dalla fine dell’intervento) dei risultati osservati, quali la stabilità dei miglioramenti e il rischio di ricaduta (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017). I risultati positivi vengono replicati e confermati da diversi ricercatori e istituzioni indipendenti, al fine di dimostrare la validità dei risultati in differenti contesti.

Nel momento in cui un trattamento si dimostra efficace nelle prove empiriche, non è automaticamente utilizzabile nella pratica clinica (ISS, 2022). Infatti, la tipologia di efficacia che si ricava in condizioni ottimali di ricerca avanzata ha un’accezione relativamente astratta, che viene appunto detta “efficacia teorica” (efficacy). La seconda fase di valutazione viene effettuata sul piano pratico, al fine di verificare in che contesti uno specifico trattamento possa essere erogato, per esempio se solo in strutture pubbliche o private. In questo caso si parla di “efficacia pratica” (effectiveness), ovvero l’efficienza clinica (efficiency) in contesti clinici reali.

I livelli di efficacia

Sulla base della qualità e della quantità delle ricerche a disposizione, le riviste scientifiche stilano una gerarchia di “prove d’efficacia” rispetto a specifici trattamenti psicoterapeutici per specifiche classi di disturbi (ISS, 2022). Sostanzialmente, i livelli di efficacia sono 3:

  1. “ben consolidato”, il livello più alto che richiede almeno due RCT, condotti da due gruppi di ricerca indipendenti, che attestino la superiorità rispetto al placebo o un trattamento alternativo;
  2. “probabilmente efficace”, comprendono studi che dispongono di evidenze di più basso livello, per essi si parla di documentata superiorità rispetto ai gruppi di controllo, non di efficacia clinica;
  3. “sperimentale/promettente”, si riferisce a trattamenti in fase “sperimentale” e innovativi, per i quali non è corretto parlare di efficacia, ma sono meritevoli di attenzione e ricerca.

I trattamenti ben consolidati sono diffusi nel nostro Paese, ma ad oggi ancora non costituiscono la maggioranza delle psicoterapie offerte né nel privato né nei Servizi pubblici.

In conclusione, è importante affrontare il tema dell’efficacia dei trattamenti psicologici in quanto il comitato della Conferenza ritiene che a oggi, in Italia, molti professionisti della salute mentale offrano trattamenti psicoterapeutici privi di comprovata efficacia e che non siano sufficientemente informati sui progressi scientifici recenti (ISS, 2022).

La qualificazione degli psicoterapeuti risulta essere una risorsa cruciale nel caso della psicoterapia, per combattere lo stigma negativo presente nei confronti dei disturbi mentali e dei pazienti affetti da tali disturbi, che spesso si estende anche ai trattamenti psicologici (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017).

 

Infiammazione nei disturbi mentali. Un ponte tra corpo, mente e ambiente

Sono sempre più numerose le prove che disconfermano il dualismo cartesiano mente-corpo. Tra queste, particolarmente promettenti sembrano quelle derivate dagli studi sul ruolo del sistema immunitario nei disturbi mentali. Per la psicopatologia, infatti, si sta rivelando sempre più importante un processo in particolare: l’infiammazione.

 

Introduzione

Con Cartesio ha avuto concreta concettualizzazione una visione di corpo e mente come nettamente separati tra loro. Tuttavia, sono sempre più numerose le prove che disconfermano tale dualismo ed evidenziano come in realtà mente e corpo costituiscano due componenti fortemente interdipendenti di un unico sistema, il quale a sua volta si trova in costante relazione con l’ambiente circostante. Tra queste, particolarmente promettenti sembrano quelle derivate dagli studi sul ruolo del sistema immunitario nei disturbi mentali (Bullmore, 2018/2019).

Semplificando molto, si può definire il sistema immunitario come l’insieme di molecole, cellule e tessuti che hanno la funzione di distinguere il “sé” dal “non-sé”, permettendo quindi la difesa (ovvero, l’immunità) dell’organismo dalle aggressioni esterne. Tale difesa è chiamata “innata” nel momento in cui si parla dei processi difensivi aspecifici disponibili fin dalla nascita, e “adattativa” in riferimento ai meccanismi che difendono l’organismo attraverso la produzione di cellule specifiche per il patogeno in questione (Abbas et al., 2016; McComb et al., 2019). Per la psicopatologia, si sta rivelando sempre più importante un processo in particolare: l’infiammazione.

L’infiammazione è un processo fondamentale della reazione immunitaria innata, con la principale funzione di isolare i patogeni entrati nell’organismo, convogliare localmente i mezzi necessari per combattere l’infezione, e riparare i tessuti una volta che tale infezione si è conclusa. Questo processo è suddivisibile in quattro parti: (1) componenti che rilevano una minaccia (gli “induttori”, come i pathogen- [PAMPs] o i damage-associated molecular patterns [DAMPs]); (2) sensori che rilevano il segnale prodotto dagli induttori (come i recettori Toll-like [TLRs]); (3) sostanze che mediano il segnale e permettono la comunicazione tra le varie componenti del sistema immunitario, come le citochine o la proteina c-reattiva (CRP); (4) tessuti-bersaglio, tipicamente cuore, fegato e/o cervello (Bauer e Teixeira, 2019).

Sebbene tipicamente innescata dall’intrusione di un patogeno all’interno dell’organismo e/o da una lesione tissutale, l’infiammazione è rilevante per la psicopatologia poiché può anche nascere dopo stressor psicosociali, i quali, visti gli stretti legami tra sistema immunitario, sistema nervoso centrale e asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attivano componenti come i DAMPs e, a cascata, tutto il processo infiammatorio (Bauer e Teixeira, 2019). Ciò, in assenza di uno specifico patogeno, può indurre la cosiddetta “infiammazione sterile”, di carattere cronico e sistemico, e connessa nel lungo periodo ad alterazioni nella neurogenesi e nella plasticità sinaptica a livello del cervello, le quali a loro volta comportano assottigliamento corticale, alterazioni funzionali, deficit cognitivi, e problemi mentali (Bauer e Teixeira, 2019; Furman et al., 2019; Lee et al., 2022; McComb et al., 2019).

L’infiammazione nei disturbi mentali

Alla luce degli studi appena citati, è comprensibile che l’infiammazione costituisca un’importante area di studio per la psicobiologia. In particolare, la letteratura in merito si è concentrata su citochine e CRP.

Come detto, le citochine rappresentano un insieme di segnali per la comunicazione tra cellule immunocompetenti e sono divisibili in due “famiglie”: pro-infiammatorie (che aumentano l’infiammazione), come le interleuchine [IL-]1β e IL-6, il fattore di necrosi tumorale alpha (TNF-α), e l’interferone gamma (IFN-γ); e anti-infiammatorie (che riducono i livelli infiammatori), come la IL-10 e il fattore di crescita trasformante beta (TGF-β). Inoltre, la CRP è usata come indice infiammatorio in quanto è sintetizzata nel fegato in risposta a un aumento delle citochine pro-infiammatorie, come IL-6 e TNF-α (Abbas et al., 2016; McComb et al., 2019; Miola et al., 2021; Serafini et al., 2020).

Alterazioni nei livelli di citochine e di CRP sono stati riscontrati in vari disturbi mentali, quali: schizofrenia (Dawidowski et al., 2021), disturbo bipolare (DB; Solmi et al., 2021), depressione (Enache et al., 2019), ansia generalizzata e panico (Costello et al., 2019; Liu et al., 2021), disturbo da stress post-traumatico (DSPT; Peruzzolo et al., 2022; Yang e Jiang, 2020), disturbi dissociativi e da sintomi somatici (Paredes-Echeverri et al., 2022; Roydeva e Reinders, 2021), anoressia nervosa (Dalton et al., 2018), Alzheimer, Parkinson e Huntington (Krance et al., 2021; Mukherjee, 2021; Su et al., 2019; Zhang e Gao, 2022). Ad esempio, la meta-analisi di Yang e Jiang (2020) ha mostrato uno stato pro-infiammatorio sistemico nei pazienti con DSPT, indicato da livelli significativamente più alti di TNF-α, IFN-γ e CRP, anche rispetto a controlli sani esposti a traumi. In aggiunta, Solmi e colleghi (2021) hanno riscontrato livelli significativamente maggiori di IL-6, CRP e TNF-α nei pazienti con disturbo bipolare rispetto ai controlli; oltretutto, mentre i livelli di CRP e TNF-α rimanevano alti solo negli episodi dell’umore (sia depressivi sia maniacali), i livelli di IL-6 rimanevano stabilmente elevati anche nei periodi eutimici, il che potrebbe rendere IL-6 un candidato come marcatore di tratto per il disturbo bipolare.

Per altri disturbi, come quelli del neurosviluppo o dello spettro ossessivo-compulsivo, i risultati sono contrastanti o contraddittori. Ad esempio, mentre sembrano esserci dati che supportano una relazione fra autismo e infiammazione (Han et al., 2022; Horiuchi et al., 2021), la letteratura non supporta la relazione, o è troppo scarsa per poterlo fare, per quanto concerne il disturbo ossessivo-compulsivo (Cosco et al., 2019), il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (Saccaro et al., 2021), o la sindrome di Tourette (Lamothe et al., 2021).

Inoltre, diversi studi hanno indicato alterazioni infiammatorie connesse ad aspetti transdiagnostici, come l’esposizione a un trauma (Fernández-Sevillano et al., 2021; Lippard e Nemeroff, 2020) o il rischio suicidario (pur controllando per la depressione; Fernández-Sevillano et al., 2021; Miola et al., 2021; Serafini et al., 2020; Vasupanrajit et al., 2021, 2022).

Conclusioni

Dati recenti supportano l’ipotesi dell’esistenza di una relazione tra infiammazione e disturbi mentali. Benché per alcune diagnosi (ad esempio autismo o DSPT; Han et al., 2022; Lee et al., 2022) l’infiammazione sembra persino centrale nell’eziopatogenesi, i dati attuali sono principalmente correlazionali, e ciò non permette di stabilire un nesso causale. Futuri studi, soprattutto longitudinali, potranno gettare luce sulla questione, forse anche grazie a dati (ad esempio, una maggior incidenza di ansia, depressione e rischio suicidario) provenienti dagli studi su pazienti con patologie di origine autoimmune o virale, Sars-CoV-2 compreso (Boeschoten et al., 2017; Conejero et al., 2021; Farooqi et al., 2022; Kappelmann et al., 2021; Li et al., 2018; Moustafa et al., 2020; Smyrke et al., 2022; Welcome e Mastorakis, 2021).

 

L’utilizzo dei social media e il benessere nella comunità LGBTQIA+

Craig e colleghi (2021) hanno indagato i potenziali benefici derivanti dall’uso dei social media tra gli adolescenti LGBTQIA+ sviluppando la Social Media Benefits Scale (SMBS), una scala utile per misurare gli impatti positivi dei social media sulla popolazione LGBTQIA+ e, potenzialmente, su altri gruppi stigmatizzati.

 

L’uso dei social network tra i giovani LGBTQIA+

I social media sono considerati mezzi di comunicazione tramite cui le persone possono generare contenuti, interagire e mantenere connessione con altri utenti già conosciuti o incontrare nuove persone (Carr e Hayes, 2015).

I social media di cui più spesso di sente parlare sono Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat e YouTube. Sia gli adolescenti che i giovani adulti sono assidui frequentatori di questi social, i quali gli consentono di sviluppare la loro identità, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale (Alhabash e Ma, 2017).

La letteratura in merito all’effetto dei social media sui giovani evidenzia risultati contrastanti: alcune ricerche suggeriscono che i social media apportano benefici sul benessere (Verduyn et al., 2017), altre indicano effetti dannosi (Reer et al., 2019), e altre ancora riportano effetti trascurabili (Utz e Breuer, 2017).

Sebbene gli studi che confrontano l’uso dei social tra gli individui LGBTQIA+ con quello dei loro coetanei siano limitati, la ricerca evidenzia come gli adolescenti LGBTQIA+ trascorrano molto più tempo online (Steinke et al., 2017) e che godono di benefici significativi nell’utilizzo dei social media (Craig et al., 2015).

In particolare, i social media possono facilitare la costruzione dell’identità fungendo da ambiente di apprendimento e offrendo ai giovani opportunità cruciali per esplorare, definire e condividere le loro identità LGBTQIA+ in un contesto caratterizzato da una relativa sicurezza e dal controllo sull’anonimato dell’identità (Fox e Ralston, 2016; Craig et al., 2020).

Questo perché gli utenti possono eventualmente bloccare altri utenti, scegliere quali aspetti della loro vita condividere con gli altri, ed evitare commenti e avances indesiderate, non possibile nella loro vita offline (Alhabash e Ma, 2017; Craig et al., 2020).

La partecipazione alle comunità online può consentire l’impegno nella condivisione di contenuti inerenti la comunità LGBTQIA+ e partecipare all’educazione e al sostegno emotivo e sociale di altre persone all’interno delle loro reti online (McInroy et al., 2019). Quindi internet può essere un modo efficiente per colmare le lacune di informazioni specifiche sull’identità (ad esempio, per accedere alle risorse per la salute sessuale), oltre che come un mezzo efficace per conoscere servizi ed eventi offline (DeHaan et al., 2013). Inoltre, tramite l’uso dei social media, gli adolescenti LGBTQIA+ possono avvicinarsi alla comunità che offre supporto sociale.

Craig e colleghi (2021) hanno indagato i potenziali benefici derivanti dall’uso dei social media tra gli adolescenti LGBTQIA+ sviluppando la Social Media Benefits Scale (SMBS), una scala utile per misurare gli impatti positivi dei social media sulla popolazione LGBTQIA+ e, potenzialmente, su altri gruppi stigmatizzati.

I benefici dei social network negli adolescenti LGBTQIA+

I risultati dello studio indicano che i benefici dei social media possono essere concettualizzati come multidimensionali e sono rappresentati dalle categorie: supporto emotivo e sviluppo, educazione generale, intrattenimento e informazioni specifiche sull’identità.

Nello specifico, le piattaforme in cui i singoli utenti sono incoraggiati a creare contenuti che possono essere condivisi pubblicamente (o almeno in modo più ampio rispetto a un gruppo interconnesso, come Instagram, Tumblr e Reddit) sono state spesso utilizzate per curare l’immagine e una rappresentazione di sé che si vuole rimandare agli altri utenti, controllando al contempo il proprio grado di divulgazione.

Le piattaforme di consumo di contenuti, come YouTube, Spotify e Pinterest, prevedono che gli utenti possano potenzialmente produrre e condividere contenuti, ma spesso è una percentuale relativamente bassa quella che sceglie di farlo. La maggior parte degli utenti accedono spesso a queste piattaforme per vedersi riflessi nei contenuti creati da altri, che possono essere una componente importante dei processi di sviluppo dell’identità, socializzazione e riconoscimento sociale.

In generale, quindi, i social media sembrano aiutare i giovani appartenenti a gruppi stigmatizzati a esplorare e sviluppare le proprie identità e relazioni sociali, mantenere un accesso a dimensioni di supporto emotivo, a trovare informazioni importanti, e a essere intrattenuti; ciò è in linea con le ricerche esplorative emergenti (Alhabash e Ma, 2017; McInroy et al., 2019).

Inoltre, questo studio ha analizzato alcuni benefici in base all’età: i partecipanti più giovani avevano maggiori probabilità di utilizzare i social media per migliorare il loro benessere in tutti e quattro i fattori rispetto alle loro controparti meno giovani. Ciò supporta studi precedenti sull’uso dei social media da parte dei giovani (Hausmann et al., 2017; McInroy et al., 2019), che mostrano come gli adolescenti siano più propensi a riferire un impatto più significativo da parte dei social media rispetto alle persone di età maggiore.

Questo studio si allinea nel panorama emergente della ricerca esplorativa sui benefici dei social media per il benessere dei giovani. I quattro fattori chiave nel contesto dei social media per gli adolescenti LGBTQIA+ (supporto emotivo e sviluppo, informazioni, educazione generale, intrattenimento) forniscono una comprensione più sfumata del ruolo della tecnologia emergente nel benessere di questa popolazione.

A livello clinico la SMBS ha il potenziale di valutare individualmente l’impatto dei social media sul benessere di una data persona, nonché le sue motivazioni d’uso. Questo può essere un punto di partenza per gli operatori che possono poi mettere appunto degli interventi individuali personalizzati per rafforzare gli aspetti positivi dei social media di un paziente e promuovere il suo benessere.

Tali approcci possono includere la collaborazione con i giovani per comprendere meglio l’impatto individuale dei social media e per educarli sui rischi e i benefici dell’uso dei social media nella loro vita quotidiana. L’obiettivo dell’impatto positivo sul benessere è una comprensione più completa dei social media e rappresenta un cambiamento nell’affrontare il loro uso tra una popolazione giovanile emarginata.

 

Navigare senza rotta. “Il Bordo, due favole border-line” (2022)

Il bordo, scomodo, insicuro, tremante, non esplora tutte le dimensioni dello spazio ed è in balia delle pulsioni, infarcito di emozioni incontrollate.

 

 

Il bordo delimita,

il bordo confina,

il bordo si abita.

Ma perché tracciare queste linee? Perché abitare un confine? Al di qua e al di là, cosa e chi esistono? Quale sarebbe il lato giusto verso cui orientarsi? Cosa frena dall’andare oltre o tornare indietro?

Neri esplora il bordo tramite due storie metaforiche dispiegate in forma di racconti. Quel bordo che non è solo una metafora, per quanto siano potenti una metafora spaziale o l’uso delle metafore nella metafora, quel bordo che è la vita di tante persone a cui non è concesso di superarlo.

Il bordo, scomodo, insicuro, tremante, non esplora tutte le dimensioni dello spazio ed è in balia delle pulsioni, infarcito di emozioni incontrollate, nell’impossibilità di rispecchiarsi in chi è al di qua o al di là di esso. I buoni e i cattivi, la luce e l’ombra, sono tutti separati da una linea, non esiste la terra di mezzo, come la diga non permette al fiume di immettersi in mare. E la norma non concede di abitare un non-luogo. I normali sono tutti da una parte o dall’altra, a giudicare l’imputato che vive sul filo, a imbastire un salvifico tiro alla fune. Il rischio è lo svuotamento.

Al di fuori dell’aula di tribunale, l’incontro profondamente sincero con l’altro, diventa la spinta verso il bordo-vissuto. Il transito diventa terra.

Gli eroi non sono quelli che superano i confini? E come chiamare allora chi ci rimane incastrato?

 

Nella mente degli astronauti. I fattori di rischio psicologico dei viaggi nello Spazio

L’obiettivo del presente articolo è quello di approfondire la letteratura scientifica riguardo all’impatto delle missioni spaziali sulla salute psicologica degli equipaggi.

 

Dal punto di vista fisiopatologico sono già state effettuate diverse ricerche che dimostrano quanto la presenza di particelle radioattive e della microgravità nello Spazio provochino importanti compromissioni a livello cardio-vascolare e vestibolo-cocleare. Dal punto di vista psicologico, invece, sono ancora da approfondire i rischi e gli effetti del volo spaziale. Sono noti fenomeni come le illusioni, la gestione delle emozioni, la fame sensoriale e l’“effetto panoramica”, ma in questo elaborato vengono anche analizzati gli effetti che la permanenza nell’ambiente extra-terrestre può indurre sulla cognizione, sulle emozioni e su processi come la memoria, la percezione e l’attenzione. Microgravità, radiazioni ionizzanti, assenza di ritmo circadiano, accelerazione, rumore, stress e isolamento sono solo alcune delle sfide a cui vengono sottoposti gli astronauti. Questi fattori richiedono un notevole sforzo di adattamento particolarmente complesso a causa del fatto che l’ambiente spaziale si contrappone alle tre principali costanti che hanno plasmato l’organismo umano: l’attrazione gravitazionale, l’alternanza del giorno e della notte e importanti relazioni interpersonali.

Questo articolo vuole richiamare l’attenzione sulla necessità di costruire una nuova branca della psicologia volta allo studio delle specifiche problematiche in vista del costante aumento dei voli nello Spazio e in previsione di un futuro turismo spaziale. Ogni argomento è stato approfondito attraverso articoli scientifici pubblicati su riviste specialistiche internazionali, anche grazie alle indicazioni da parte della NASA e dell’ESA, che si sono rese disponibili inviando materiale scientifico e consigliando riviste indicizzate che trattano l’argomento.

Radiazioni ionizzanti, microgravità e risvolti neuropsicologici

Numerose aree cerebrali risultano compromesse e alterate durante i voli nello Spazio (Oluwafemi, Abdelbaki, Lai, Mora-Almanza & Afolayan, 2021, pp. 27-29). I dati della NASA hanno dimostrato quali siano gli effetti negativi dell’esposizione neurocellulare alle radiazioni, evidenziando gravi danni a carico del sistema immunitario, nello specifico alle cellule Natural Killer (NK), un sottotipo di globuli bianchi in grado di riconoscere e distruggere le cellule tumorali (Jandial, Hoshide, Waters & Limoli, 2018, pp. 7-8).

A questi già gravi effetti si sommano anche criticità nelle prestazioni cognitive e sensomotorie degli astronauti provocate dalla microgravità (Clark, Newman, Oman, Merfeld & Young, 2015, pp. 6-8), condizione denominata anche weightlessness, ovvero assenza di peso o gravità zero (G0). In un contesto di microgravità, il carico che le forze di attrazione esercitano su un individuo e la percezione stessa di gravità sono assenti, pertanto il corpo è come se galleggiasse nell’ambiente (Grimm, 2019, pp. 2-4). Una conseguenza fisiopatologica diretta esercitata dalla microgravità è l’aumento della pressione intracranica (ICP, Intracranial Pressure), causa primaria dei cambiamenti strutturali dell’encefalo (Michael, 2018, pp. 76). I rischi a lungo termine dell’ICP consistono in forti mal di testa e alterazioni della vista, ma anche tinnito pulsante, atassia, disturbi della memoria e disfunzione cognitiva (McGeeney & Friedman, 2014, pp. 446-447). Infatti, è stata riscontrata una condizione descritta come VIIP (Vision Impairment and Intracranial Pressure, disturbi della vista e della pressione intracranica): si tratta di una sindrome dovuta allo spostamento del liquido cefalo-rachidiano causato dal prolungato aumento dell’ICP, che viene evidenziata nei due terzi degli astronauti, la cui maggioranza ha dichiarato un calo del visus al ritorno sulla Terra, persistente anche dopo diversi anni (J. A. David et al., 2012, pp. 66).

La NASA ha fatto diversi investimenti sullo studio dei rischi acuti e cronici (post-missione) relativi all’insorgenza dei deficit del SNC. Dalle ricerche è stato confermato l’effetto negativo della permanenza nello Spazio, capace di indurre fenomeni di erosione della struttura neuronale e dell’integrità sinaptica in specifiche regioni del cervello (Parihar et al., 2016, pp. 10-13). I neuroni ippocampali e corticali mostrano significative riduzioni della complessità dendritica (Mogilever et al., 2018, pp. 17) mentre una minore densità dendritica si trova nel midollo spinale e in altre regioni del cervello. Inoltre, negli astronauti che hanno partecipato a voli di lunga durata si è verificato un restringimento significativo del solco centrale, uno spostamento verso l’alto del cervello all’interno della scatola cranica, un restringimento degli spazi subaracnoidei in cui scorre il liquido cerebrospinale e una riduzione significativa di materia grigia, comprese le ampie aree cerebrali corrispondenti ai poli temporali e frontali (Dwain et al., 2016, pp. 55).

L’apparato cardio-circolatorio e il sistema vestibolo-cocleare

In assenza di gravità il cuore degli astronauti cambia forma assumendo un aspetto più sferico del 9,4%. Nelle missioni della durata di circa 6 mesi la forma sferica sembra essere temporanea in quanto, poco dopo il ritorno sulla Terra, il cuore riprende la sua forma originale allungata grazie alla forza di gravità (Otsuka et al., 2019, pp. 6-7). Gli eventuali disturbi cardio-circolatori legati a questa nuova condizione necessitano di ulteriori approfondimenti.

Per quanto riguarda il sistema vestibolo-cocleare, in caso di microgravità, viene a mancare la verticalità come fonte di riferimento e il sistema percettivo deve riadattarsi. Se le forze gravitazionali cambiano, l’adattamento alla nuova condizione richiede accomodamenti della postura e del sistema motorio con aggiustamenti da parte dell’apparato vestibolare determinando disturbi quali: nausea, conati di vomito, diarrea, inappetenza, cefalea e malessere diffuso, che si ripresentano una volta ritornati sulla Terra. Si parla infatti della “sindrome da adattamento allo Spazio” (Robert, Kennedy, Julie & Daniel, 1999, pp. 23-25), (SAS, “sindrome da adattamento spaziale” o “mal di Spazio”). La SAS può manifestarsi anche al rientro a Terra, in tal caso è definita “Sindrome da sbarco” (ESA, 2019, pp. 1-2). Queste informazioni, giunte nell’encefalo, vengono elaborate e integrate con quelle fornite dal cervelletto e dalla corteccia cerebrale (centro del pensiero e della memoria), (Sarkar et al., 2006, pp. 549-550). Ma se gli input sensoriali ricevuti sono in conflitto tra loro, si può determinare la cosiddetta “cinetosi” (o “malattia del movimento”) che include una serie di disturbi che si manifestano quando ci si trova su un mezzo di trasporto (Zhang et al., 2019, pp. 2). Questa problematica deriva dall’invio al cervello di messaggi contrastanti da parte degli organi dell’equilibrio: orecchio interno, occhi, muscoli e articolazioni. Circa il 70% degli astronauti soffre di cinetosi spaziale (SMS), (Koch et al., 2018, pp. 687-688). Conseguentemente gli astronauti tendono a privilegiare gli indicatori corporei rispetto a quelli visivi per indicare le coordinate di uno stimolo, si parla infatti di “orientamento retinico”, ovvero una tipologia di orientamento che dipende dal parallelismo e dalla verticalità tra la retina dell’osservatore e la posizione di un oggetto complesso (Doorn, Gardoni & Murphy, 2019, pp.125). La percezione, l’orientamento di se stessi e del mondo, è fondamentale non solo per l’equilibrio (Manckoundia, Mourey, Pfitzenmeyer, van Hoecke & Pérennou, 2017, pp. 786-789) ma anche per molte altre sfere della percezione, compresi il riconoscimento dei volti e degli oggetti. L’assenza di gravità influisce sull’informazione vestibolare, e il sistema nervoso centrale deve adattarsi per riorganizzare il controllo delle funzioni come la postura, la coordinazione occhio-mano, l’orientamento spaziale e la navigazione (Cebolla et al., 2016, pp. 8-9). Gli effetti comportamentali che scaturiscono da questa nuova condizione consistono in disturbi d’ansia, attacchi di panico, agorafobia, calo dell’attenzione selettiva e disturbi di memoria (J. A. David et al., 2012, pp. 78- 79).

Le illusioni spaziali e la confusione mentale

Lo Spazio cosmico è fonte di frequenti e bizzarre illusioni. Come avviene durante i lanci nello spazio, l’assenza di peso è preceduta da un’accelerazione, forza potentissima che incolla il cosmonauta allo schienale del sedile. Ma l’organismo si oppone a questa forza: i muscoli reagiscono tendendosi per staccare il corpo dal sedile. Quando l’assenza di peso si manifesta improvvisamente, i muscoli restano tesi per inerzia ed è in quel momento che il cosmonauta prova la sensazione, inevitabile ma erronea, di volare sulla schiena o di trovarsi in posizione supina. Se invece i muscoli della schiena si decontraggono gradualmente, il passaggio all’assenza di peso non genera simili illusioni. Tuttavia, quando il sistema nervoso è incapace di inibire l’informazione alterata proveniente dall’apparato otolitico, le rappresentazioni erronee possono persistere abbastanza a lungo (Koppelmans et al., 2013, pp. 203-204). La natura delle illusioni spaziali è determinata dal ruolo e dal contributo secondario ai vari tipi di input sensoriali dovuti all’orientamento spaziale. È possibile dunque che, in condizioni di microgravità, emergano errori percettivi e illusioni che poi si risolveranno al ritorno sulla Terra. Dalle risposte fornite a una serie di questionari somministrati a 104 astronauti, uno studio di Kornilova (1997) ha rilevato come nel 98% dei casi venisse riferita una qualche forma di illusione circa la propria posizione, il proprio movimento e il movimento degli oggetti circostanti (Kornilova, 1977, pp. 433-435). In particolare, può cambiare la percezione dell’orientamento del proprio corpo: se sulla Terra la verticale soggettiva è legata alla posizione della testa e del corpo, in orbita anche i piedi possono essere percepiti come parte superiore del corpo. Questo fenomeno viene chiamato “illusione dell’inversione” (inversion illusion) ed è dovuto alla distribuzione dei fluidi che lasciano le estremità inferiori per dirigersi verso il cervello (Mammarella, 2020, pp. 78-79). È emerso, inoltre, che anche la percezione della profondità è alterata, parlando in questo caso di “percezione illusoria” (Moore et al., 2019, pp. 13-14). Inoltre, in alcuni individui viene riferita anche un’alterazione dello schema corporeo, vale a dire della rappresentazione della sua forma e delle sue dimensioni, della grandezza assoluta e relativa delle diverse parti dell’organismo e dei movimenti degli arti (Young & Zabini, 2017, pp. 67-68). Questa reazione psichica ricorda la “Sindrome della fine del mondo”, dovuta alla sensazione di sentirsi leggeri come una piuma e di galleggiare nell’aria (Gagarin & Lebedev, 2016, pp. 196-197).

La sfera emotiva degli astronauti

L’adattamento allo Spazio pone vincoli dirompenti per la salute fisica e mentale degli astronauti in termini di isolamento e confinamento. Può accadere che le emozioni mobilitino le risposte psichiche, permettendo di portare a termine imprese a prima vista irrealizzabili. Ma esse possono anche produrre l’effetto contrario, paralizzando la volontà e facendo perdere ogni capacità a coloro che ne sono preda, rendendoli irresoluti e incapaci di agire (Gorbunov et al., 2017, pp. 255-257). Si tratta infatti di una situazione che esige uno sforzo di volontà teso a dominare la crescente inquietudine e a permettere una giusta valutazione di ciò che sta accadendo (Mulcahy, Blue, Vardiman, Castleberry & Vanderploeg, 2016, pp. 883-884). Queste reazioni si possono manifestare in modo diverso da un individuo all’altro. Alcuni ai quali il pericolo causa un vero e proprio shock emozionale rischiano di perdere la lucidità mentale; altri accusano un deterioramento generale dell’attività pratica, sebbene nell’insieme il comportamento resti razionale; altri ancora conservano una perfetta padronanza di se stessi, dando prova di presenza di spirito e di prontezza (vengono definiti: “amanti delle sensazioni forti”). La loro reazione in presenza di un pericolo costituisce “l’eccitazione da combattimento”, uno stato capace di provocare l’intensificazione dell’attività psichica nell’uomo che, dopo aver superato le difficoltà e la paura, prova una soddisfazione del tutto particolare (Ferrand, Ruffault, Tytelman, Flahault & Négovanska, 2015, pp. 723-724).

Un resoconto dettagliato della NASA sugli effetti dell’isolamento e del confinamento distingue tra una condizione comportamentale negativa non patologica e un eventuale disturbo di natura psichiatrica. La prima si riferisce ai cambiamenti a carico dell’umore, della cognizione e delle relazioni interpersonali, mentre il secondo riguarda disturbi diagnosticati secondo i criteri del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Tra i sintomi e i disturbi psichiatrici manifestati più frequentemente ci sono i deliri, il disturbo di adattamento (spesso chiamato anche “depressione situazionale”) e condizioni di nevrastenia caratterizzate da stanchezza, irritabilità, difficoltà di concentrazione, problemi di appetito e di sonno.

La fame sensoriale

In condizioni normali l’uomo non ha quasi mai occasione di trovarsi in mancanza di stimoli. I diversi fenomeni provenienti dall’ambiente circostante vengono percepiti dagli organi di senso e gli impulsi nervosi trasmettono fedelmente al cervello l’informazione corrispondente. L’uomo è ben lontano dall’essere cosciente di tutti gli stimoli che agiscono sui suoi sensi, ma essi sono indispensabili per il normale funzionamento del cervello. Migliaia di immagini diverse passano costantemente davanti ai suoi occhi, in ogni momento. Una quantità di rumori di ogni tipo si succede senza interruzione creando una base sonora ininterrotta. La pelle percepisce i cambiamenti della temperatura e gli spostamenti d’aria, ma durante i voli spaziali l’assenza di stimoli permanenti può originare seri problemi funzionali (NASA, 2021, pp. 3). In questo caso esiste la situazione di “fame sensoriale”, provocata dall’insufficienza degli stimoli ambientali ricevuti dal cervello. Analizzando i risultati degli esperimenti effettuati in una camera di silenzio, si è riscontrato che questa “fame” mette a dura prova i processi psichici dell’uomo.

Si è visto come la musica sia un eccellente antidoto contro la fame sensoriale esercitando un potente effetto emotivo, generando il buon umore e aumentando le capacità lavorative. È emerso che ascoltare la musica trovandosi in orbita consente di registrare variazioni dell’attività fisiologica negli astronauti, permettendo di valutarne lo stato emozionale (Jurij Gagarin, Vladimir V. Lebedev, 2021, pp. 78-83).

Viaggiare nello Spazio presenta molti aspetti positivi e in alcuni casi può favorire la crescita personale. Molti viaggiatori spaziali sono tornati a casa con una visione più positiva di loro stessi e del loro ruolo sul pianeta. Dal cosmo la Terra può essere vista come bellissima e unica, senza confini politici evidenti o conflitti internazionali. Alcuni astronauti nello Spazio hanno riferito esperienze trascendentali, intuizioni religiose e un migliore senso dell’unità del genere umano. A volte il fascino e l’incanto dello Spazio hanno causato gravissimi problemi durante le missioni spaziali. Ad esempio, un cosmonauta rimase così estasiato dalla vista dello Spazio che iniziò a fluttuare fuori dalla navicella dimenticandosi di mettersi in sicurezza attraverso un cavo e un altro alterò il sistema giroscopico della navicella lasciando la sua postazione di lavoro per avere una migliore visuale della Terra. Ma la maggior parte delle esperienze nello Spazio sono state positive e non così strazianti (Tarnas & Tranquilli, 2012, pp. 56-60).

Sulla soglia dell’astronave: l’effetto panoramica

L’effetto panoramica, chiamato anche “effetto della veduta d’insieme” (in inglese Overview Effect) riferito da alcuni astronauti durante il volo spaziale, è un cambiamento cognitivo della consapevolezza causato dall’osservazione della Terra dall’orbita o dalla superficie lunare (Lineweaver & Chopra, 2019, pp. 112). Questo effetto si riferisce all’esperienza di vedere in prima persona la realtà della Terra dallo Spazio, percepita come una piccola, fragile sfera della vita, “appesa nel vuoto”, avvolta da una sottile atmosfera che la protegge dall’ambiente esterno (Appleyard, 2017, pp. 118).

Dallo Spazio gli astronauti sostengono che i confini nazionali svaniscono, i conflitti diventano irrilevanti mentre appare evidente e imperativa la necessità di creare una società planetaria volta a proteggere questo “pallido punto azzurro nello Spazio” (Yaden et al., 2016, pp. 6-7). Risulta particolarmente interessante evidenziare come la reazione degli astronauti deriverebbe soprattutto dal guardare la Terra in tutta la sua bellezza e in tutta la sua fragilità (Voski, 2020, pp. 109-110). Semplificando, dallo Spazio il nostro pianeta appare come piccolo, fragile e indifeso: un posto dove tutti i conflitti umani appaiono secondari e futili rispetto all’enormità dell’Universo (Weibel, 2020, pp. 418).

In relazione all’auto-trascendenza, gli autori affermano che nel caso di questo effetto si prova un senso di unione con il pianeta Terra e tutti i suoi abitanti derivante da uno stimolo visivo particolarmente sorprendente. Sempre secondo Yaden, dallo Spazio gli astronauti percepiscono la Terra come non l’hanno mai vista prima, inducendoli a fantasticare con l’immagine stessa e, di conseguenza, modificando il loro modo di guardare le cose e il mondo (David B. Yaden & Andrew B. Newberg, 2020, pp. 106-110). È stato ipotizzato però anche il rovescio della medaglia, una potenziale condizione psicologica chiamata Earth-out-of-view ovvero il fenomeno del non poter vedere più la Terra, che si potrebbe manifestare nel corso di un futuro viaggio verso Marte. Non vedendo più la Terra, l’equipaggio perderebbe il suo punto di riferimento e potrebbero manifestarsi disturbi dell’umore, depressione, ansia e allucinazioni (Mammarella, 2020, pp. 80-81).

Dall’analisi di queste nozioni si ipotizza che negli astronauti, una volta tornati dai viaggi spaziali, possano comparire dei disturbi che superano la soglia della sofferenza lieve. Si potrebbe, a nostro parere, parlare di “Sindrome di Gulliver”, una sindrome dovuta alla necessità di riadattarsi alla vita sulla Terra. Il nome che proponiamo deriva dalla letteratura americana: “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, in cui nella quarta e ultima parte del romanzo, l’autore descrive dell’abbandono del protagonista nella terra dei “cavalli razionali”. La figura del cavallo rappresenta nel romanzo metaforicamente la bellezza, la razionalità, la perfezione della natura e l’intelligenza per cui Gulliver inizia a comprenderne l’immensa superiorità rispetto alla sua razza. Una volta esiliato anche da queste terre Gulliver si ingegna per tornare a casa, in Inghilterra. Tuttavia, quando giunge a casa, non riesce più a tollerare la stupidità, l’arretratezza e il declino in confronto con quella terra ammirata in cui tutto era razionale e perfetto. Questo racconto evoca metaforicamente quello che può accadere agli astronauti nello spazio (come l’effetto panoramica di quando si è in orbita) e ciò che può comportare il loro rientro sulla Terra: disturbi d’ansia, attacchi di panico, agorafobia ecc.

Riflessioni conclusive: la necessità di una nuova disciplina, la Psicologia dello Spazio

L’interesse nell’approfondire la letteratura riguardante le variabili psicologiche implicate in una missione spaziale deriva dalla ragione principale che nei prossimi anni la Psicologia dello Spazio rivestirà un ruolo cruciale in molti progetti. Tra questi emerge quello della NASA (National Aeronautics and Space Administration) HRP (Human Research Program), con lo scopo di studiare i rischi che una missione spaziale può presentare per la salute dell’uomo, integrando i risultati di varie discipline applicate allo studio dello Spazio e avere così una visione d’insieme delle capacità umane di adattamento nello Spazio. Successivamente anche l’Agenzia Spaziale Europea (ESA, European Space Agency) ha lanciato dei programmi simili per affrontare una serie di problemi chiave relativi ai fattori umani nelle missioni spaziali a lungo termine. Questi progetti testimoniano l’esigenza di riportare al centro delle ricerche astronomiche l’uomo con le sue potenzialità e debolezze.

Inoltre, con l’attuale presenza di una sonda su Marte e la previsione di un futuro lancio, è essenziale approfondire maggiormente la potenzialità dell’impatto psicologico e fisico delle missioni spaziali sull’uomo. Infatti, durante i precedenti voli spaziali, si sono verificate situazioni di importante stress psicologico che ha influito negativamente sulle prestazioni dei membri dell’equipaggio e sulle loro capacità di relazionarsi con il personale nel controllo della missione. Si sente sempre di più la necessità di affrontare i temi relativi all’adattamento psicologico e neurosensoriale nello Spazio, come pure gli effetti dell’isolamento e del confinamento. Ma nonostante il vaglio accurato della letteratura scientifica, questo campo di ricerca risulta carente di studi in ambito psicologico. Per questo motivo ci appare chiara la necessità di approfondire la Psicologia dello Spazio, con una nuova branca della psicologia dedicata esclusivamente all’analisi delle problematiche psicofisiche dell’uomo nello Spazio.

Per esempio, gli psicologi esperti di Psicologia dello Spazio possono svolgere un ruolo importante nell’analisi e nell’esplorazione dei voli spaziali. Infatti, il contributo psicologico potrebbe rivelarsi fondamentale nella selezione e formazione, nella gestione dei conflitti, dello stress e della convivenza forzata in uno spazio molto ridotto per lunghi periodi di tempo. Durante il reclutamento, gli psicologi possono fornire linee guida sugli stili di coping appropriati per reagire a fattori di stress legati alla missione; durante l’addestramento, possono aiutare gli astronauti a pianificare e affrontare i problemi sviluppando strategie di coping adatte. Il coping orientato al compito è correlato al controllo e all’efficienza, permettendo così una riduzione dei livelli di stress e ansia nelle situazioni di emergenza. Pertanto, dovrebbero essere prese in considerazione le indagini sulle dinamiche di gruppo, lo stress fisico e psicologico causato da un tale ambiente e l’impossibilità di mettere in atto azioni semplici per affrontare e risolvere questi problemi. Tuttavia, è evidente che l’impatto del volo spaziale su un individuo non si esaurisce al momento del rientro fisico. È importante ricordare che l’astronauta dovrà anche fare un “rientro” psicologico, post-volo, alla vita sulla Terra. Infatti, nell’attuale momento storico pesantemente segnato dal conflitto tra Russia e Ucraina, gli astronauti russi attualmente in orbita si sono mostrati indifferenti e totalmente estranei alle decisioni politiche del loro Paese, come confermato dall’effetto panoramica (Thompson, 2022, pp.1-3). Questa sensazione di arretratezza dichiarata dagli astronauti una volta tornati sulla Terra rappresenta il focus di una delle problematiche psicologiche a cui gli astronauti vanno incontro, il riadattamento alla vita sulla Terra.

 

Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR): Il protocollo, le attività e le competenze per insegnare il programma – Recensione

“Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR): Il protocollo, le attività e le competenze per insegnare il programma” è il primo e dettagliatissimo tentativo di condensare in un unico volume tutto ciò che occorre sapere, saper fare e, soprattutto, saper essere per diventare un istruttore MBSR efficace.

 

Per sopperire allo stress causato dai ritmi frenetici della vita odierna ci viene incontro la pratica della consapevolezza, che ci incoraggia ad essere presenti e a rallentare. 

Sono trascorsi ormai quaranta anni da quando Jon Kabat-Zinn aprì la sua clinica per la riduzione dello stress presso l’Università del Massachussetts Memorial Medical Center. Questo libro è un tentativo di fornire una guida all’insegnamento della Mindfulness-Based Stress Reduction in modo assolutamente innovativo: fornisce all’istruttore delle linee guida chiare che gli consentono di attenersi fedelmente al protocollo e, contemporaneamente, di attingere alla propria esperienza personale, sia in ambito didattico che nel rapporto con la pratica.

Il presente libro rappresenta un’opera fondamentale per i professionisti che vogliano avvicinarsi al protocollo Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), seguendo una struttura lineare e guidata step by step. Merito delle due autrici Woods e Rockman, nonché della grandissima esperienza delle due curatrici italiane, Antonella Montano e Valentina Iadeluca. La creazione di tale opera è infatti il primo e dettagliatissimo tentativo di condensare in un unico volume tutto ciò che occorre sapere, saper fare e, soprattutto, saper essere per diventare un istruttore MBSR efficace. Pertanto risulta essere utile non soltanto agli istruttori in formazione ma anche ai più esperti. Come sappiamo la mindfulness, non è una pratica che può essere appresa soltanto dai libri, ma richiede un apprendimento e conoscenza di tipo esperienziale diretta, nonché disciplina interiore e pratica costante, prima di poterla a sua volta insegnare.

Difatti, le autrici, dopo pluriennale esperienza di insegnamento del protocollo MBSR, con tale opera ci forniscono delle preziosissime e profonde riflessioni, nonché un focus sulle enormi potenzialità di questa disciplina, svelandoci i segreti che soltanto un esperto può cogliere, aiutandoci così ad intraprendere, in modo guidato, questo percorso.

Il libro si compone di cinque sezioni. Nella prima parte viene fornita una descrizione generale del contesto in cui nasce l’MBSR e della sua evoluzione sino ad oggi: le sue origini e la sua storia, il percorso di sviluppo della mindfulness, la formazione dell’istruttore MBSR e l’organizzazione modulare del programma. La seconda parte del volume prende in esame il protocollo sessione per sessione, andando ad analizzare nel dettaglio ciascuna attività, fornendo indicazioni per ogni incontro. La terza parte affronta specificamente due aspetti: la capacità dell’insegnante di incarnare i principi della mindfulness e l’inquiry, ovvero quello scambio contemplativo tra insegnante e partecipanti che Woods e Rockman considerano il core del programma. La parte quarta del libro invece, descrive gli adattamenti che il programma MBSR ha subito in seguito al suo ingresso nelle scuole, nelle università e sui posti di lavoro, alla sua applicazione a specifiche tipologie di pazienti, nonché una particolare attenzione al tema della diversità culturale e dell’identità. Con lo spirito di completezza che le contraddistingue, nella quinta e ultima parte del volume, le autrici concludono questo, con una sezione dedicata a una accurata disamina della situazione relativa alla formazione degli insegnanti MBSR su scala internazionale e alle sue possibili e auspicabili traiettorie di sviluppo. L’appendice, infine, mette a disposizione del lettore alcune risorse utili: testi delle meditazioni, dispense di approfondimento, indicazioni per lo yoga e una guida alla didattica online.

In conclusione questo libro rappresenta un’opera fondamentale, completa ed esaustiva – dal taglio operativo –   che non dovrebbe mai mancare nello studio di un professionista che voglia intraprendere questo percorso di apprendimento, disciplina interiore e insegnamento del protocollo MBSR. Inoltre è importante sottolineare come la capacità comunicativa delle autrici, nonché delle curatrici, permetta un’immediata comprensione dei concetti, ottenuta mediante un utilizzo stilistico improntato alla chiarezza. Inoltre una puntuale manualizzazione del protocollo permette a qualsiasi lettore attento di conoscere e sperimentare, passo per passo, in prima persona per poi riprodurre attraverso l’insegnamento, il protocollo originale ideato da Jon Kabat-Zinn.

 

Può la mindfulness ridurre i sintomi dell’abuso di sostanze?

L’utilizzo della mindfulness potrebbe essere un fattore protettivo per gestire alcuni processi disfunzionali basati sulle emozioni, come l’evitamento delle situazioni, la soppressione dei pensieri, il rimuginio e la ruminazione, tutti elementi che risultano essere presenti nel disturbo da abuso di sostanze.

 

Le difficoltà con la regolazione delle emozioni sono considerate dei grandi fattori di rischio per lo sviluppo e il mantenimento del disturbo da abuso di sostanze (Cavicchioli et al., 2019). Molti studi empirici, infatti, hanno dimostrato che gli individui che abusano di sostanze hanno una consapevolezza emotiva compromessa, oltre ad avere delle difficoltà a controllare i propri impulsi mentre esperiscono emozioni negative. In queste persone, inoltre, sono molto frequenti l’intollerabilità e l’incapacità di accettare le emozioni negative. È stato osservato come gli individui che soffrono di disturbo da abuso di sostanze usino frequentemente delle strategie di regolazione emotiva disfunzionali, come il tentativo di sopprimere l’esperienza emozionale. Infine, in alcune ricerche cliniche, l’affettività negativa è stata ripetutamente associata al craving, all’uso di sostanze e alla ricaduta.

Il ruolo della mindfulness nel trattamento del disturbo da sostanze

Sono numerosi i trattamenti che hanno come componente centrale la prevenzione di ricadute e il supporto dell’astinenza a lungo termine, e tra i molti vi sono anche alcuni percorsi che hanno come nucleo principale l’utilizzo della pratica della mindfulness. Nonostante i differenti approcci teorici esistenti e le varie metodologie di intervento utilizzate, i meccanismi che sono coinvolti nell’operazionalizzazione della pratica della mindfulness, e di come essa possa giocare un ruolo chiave nel favorire un cambiamento terapeutico, sono fondamentalmente due: il primo elemento è l’autoregolazione, ovvero la capacità di controllare e gestire i comportamenti del proprio corpo; il secondo elemento è l’accettazione non giudicante e non reattiva verso ciò che accade nel momento presente (Cavicchioli et al., 2019).

Alcune ricerche condotte finora

Witkiewitz e colleghi (2013) sostengono che le pratiche legate alla mindfulness aiutino l’individuo a migliorare la regolazione attentiva, l’accettazione e l’abitudine di vivere con un assetto non giudicante le esperienze emozionali e il craving, con un duplice risultato sia top-down, influenzando il controllo inibitorio e il monitoraggio del conflitto, sia bottom-up, influenzando la reattività della risposta allo stress (Witkiewitz et al., 2013). Tutti questi elementi risultano essere fondamentali nella gestione della dipendenza da sostanze (Witkiewitz et al., 2013).

Inoltre, Karyadi e colleghi (2014) hanno dimostrato delle relazioni significativamente negative tra alcune componenti della mindfulness che riguardano l’accettazione (come l’atteggiamento non giudicante e non reattivo) e l’agire con consapevolezza con l’utilizzo di alcool e tabacco, in individui appartenenti a campioni clinici e non clinici (Karyadi et al., 2014). Similmente, l’utilizzo della mindfulness potrebbe essere un fattore protettivo per gestire alcuni processi disfunzionali basati sulle emozioni, come l’evitamento delle situazioni, la soppressione dei pensieri, il rimuginio e la ruminazione, tutti elementi che risultano essere presenti nel disturbo da abuso di sostanze (Cavicchioli et al., 2019).

I limiti della mindfulness

I trattamenti basati sull’integrazione della mindfulness che sono stati implementati nel trattamento per i disturbi da abuso di sostanze hanno mostrato risultati davvero promettenti (Rosenthal et al., 2021). Tuttavia, alcune meta-analisi hanno riportato come trattamenti che prevedono l’utilizzo della mindfulness non dimostrino un’efficacia superiore rispetto ai trattamenti che già vengono utilizzati (come i trattamenti farmacologici o i percorsi di psicoterapia). L’efficacia della mindfulness sembra inoltre dipendere dal grado di intensità della dipendenza. È stato osservato come gruppi di partecipanti con una dipendenza da sostanza di lieve intensità riescano più facilmente a trarre beneficio dall’utilizzo della mindfulness rispetto ad individui con una forte dipendenza. Inoltre, un altro fattore importante sembra essere la quantità di tempo che i pazienti riescono a dedicare alla mindfulness. Infatti, è stato notato come gli individui che non riescono a praticare la mindfulness quotidianamente hanno una maggiore difficoltà a risolvere il disturbo.

Sembra quindi che la mindfulness sia una pratica efficace che può portare benefici se integrata nel percorso terapeutico (Rosenthal et al., 2021). Tuttavia, le ricerche cliniche non sono ancora sufficienti per confermare la totale solidità di questa pratica. Ulteriori ricerche dovrebbero concentrarsi sul reclutamento di numerosi campioni di popolazione e trovare partecipanti che abbiano la possibilità di praticare la mindfulness quotidianamente.

 

Perchè proprio ansia e depressione? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 4

In questo numero, dopo aver appurato cos’è una Consensus Conference e come si è svolta in particolare quella sulle terapie psicologiche per ansia e depressione, cercheremo di capire le ragioni che hanno portato gli esperti a decretare proprio questo tema come oggetto della Conferenza.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 4) Perché proprio ansia e depressione?

Cosa sono Ansia e Depressione?

I disturbi d’ansia e depressivi rappresentano due macro-categorie diagnostiche distinte, che implicano vari quadri sintomatologici diversificati in base a caratteristiche specifiche (per esempio, durata, origine e conseguenze), e sono contenute nel  Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5-TR; American Psychiatric Association [APA], 2022).

I disturbi d’ansia si caratterizzano per paura e ansia eccessive (DSM-5-TR; APA, 2022). La paura è la risposta emotiva all’imminente minaccia reale o percepita, mentre l’ansia è l’anticipazione della minaccia futura. Queste sono associate a tensione muscolare, picchi di attivazione fisiologica (sistema nervoso autonomo), comportamenti di evitamento, reazioni di attacco o fuga e uno stile di pensiero ricorsivo. Alti livelli di paura o ansia possono essere ridotti dall’evitamento delle circostanze che innescano o peggiorano gli stessi stati emotivi. Tra i disturbi d’ansia si annoverano le fobie specifiche, il disturbo di panico, l’ansia generalizzata e l’ansia sociale.

La caratteristica comune dei disturbi depressivi è la presenza di umore triste, vuoto o irritabile, perdita di piacere verso quasi tutte le attività un tempo preferite, accompagnati da altri sintomi come una significativa perdita o aumento del peso, disturbi del sonno, e ideazione suicidaria (DSM-5-TR; APA, 2022). Tali sintomi si manifestano per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, e appaiono correlati a modificazioni affettive, cognitive e di sistemi biologici (es. endocrino e immunitario). In base alla durata delle manifestazioni sintomatologiche si distinguono in disturbo depressivo maggiore e persistente.

Questi disturbi possono avere un serio impatto sulla vita delle persone che ne soffrono e compromettere aree importanti del loro funzionamento quotidiano, sociale e lavorativo (DSM-5-TR; APA, 2022).

I Disturbi Mentali Comuni: la prevalenza

All’interno della relazione finale della Consensus Conference i disturbi d’ansia e depressivi vengono anche identificati con la dicitura “Disturbi Mentali Comuni” (DMC), termine che riflette la loro elevata diffusione. Infatti, in molti paesi la prevalenza della depressione maggiore e del disturbo d’ansia sociale corrisponde circa al 7% nella popolazione generale (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito la depressione nella lista delle priorità in merito alla salute pubblica, in quanto è la seconda più importante causa di disabilità nei paesi occidentali e si prevede che diventerà la prima causa di mortalità e la patologia più diffusa entro il 2030. Il disturbo di panico e il disturbo d’ansia generalizzata sono meno prevalenti, ma la loro occorrenza risulta comunque significativa (3-6%).

In Italia milioni di persone soffrono per DMC (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017). Ad oggi, una grande parte delle risorse per la gestione della salute mentale sono destinate al trattamento e alla riabilitazione dei disturbi psicotici, i quali affliggono l’1% della popolazione generale. È indubbio che i disturbi depressivi e ansiosi necessitano di maggiore attenzione.

Le conseguenze dei DMC

In Italia, la grande prevalenza dei DMC, l’impatto che questi hanno non solo sulla qualità di vita dell’individuo, ma anche sul sistema sanitario e sulla società nel suo complesso, determinano un problema di dimensioni considerevoli (ISS, 2022; Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017).

L’elevata diffusione e le importanti ricadute che questi disturbi possono avere nella vita sociale e lavorativa delle persone generano a catena una serie di effetti sul piano sociale ed economico, che si traducono in un aumento dei costi sociali diretti e indiretti (ISS, 2022). Per costi diretti si fa riferimento alle spese mediche e di assistenza sanitaria, come farmaci, ricoveri e durata delle cure mediche, che pesano sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Invece, per costi indiretti s’intende ore di lavoro, formazione e produttività persi a causa della malattia. Per esempio, la fascia d’età tra i 51 e i 60 anni risulta essere quella maggiormente colpita dalla depressione, che determina una spesa di circa 4 miliardi di euro annui in termini di ore lavorative perse. Inoltre, i disturbi psichiatrici possono incrementare il costo dei trattamenti per altre patologie in compresenza, per esempio la terapia diabetica è più costosa se il paziente soffre anche di depressione, oltre a essere un fattore di rischio per cancro e malattie cardiovascolari.

Il problema: la carenza di cure per i DMC

La soluzione che potrebbe mitigare, e nel tempo auspicabilmente rimuovere (almeno una gran parte), le conseguenze su vasta scala derivate dalla diffusione di ansia e depressione è la psicoterapia, ovvero le specifiche cure volte ad alleviare la sofferenza mentale per trasformarla “in desiderio di vivere” (Barbato et al., 2022; p. 30).

Rispetto alle cure per la salute mentale —come accennato nei precedenti numeri della rubrica—, il problema risiede nella carenza e nella qualità delle terapie psicologiche offerte dal SSN (ISS, 2022). Sebbene le psicoterapie siano preferite dai pazienti, sono poco utilizzate dal SSN, il quale (giustamente) dirige le risorse verso le psicosi, che –come già scritto– rappresentano l’1% della popolazione generale. Infatti, nel complesso dei trattamenti erogati dai Servizi pubblici, le psicoterapie rappresentano solo il 6% (Barbato et al., 2022). Ciò spinge tutte quelle persone che soffrono a causa di ansia e depressione a rivolgersi al mercato privato delle cure psicologiche, generando il già citato divario di censo.

Particolari terapie psicologiche (per es., Terapia Cognitivo-Comportamentale; Terapia Interpersonale) si sono dimostrate essere una soluzione efficace al trattamento dei DMC, in termini di efficacia nel breve periodo e mantenimento dei miglioramenti nel tempo (ISS, 2022). È anche vero che attualmente sono diffuse forme di psicoterapia che non sono esattamente le più efficaci per i DMC e purtroppo accade spesso che le persone spendano tempo e denaro per interventi psicologici di scarsa o nessuna efficacia.

Quindi perché una Consensus Conference proprio su ansia e depressione?

In conclusione, i motivi che hanno spinto gli esperti a istituire la Consensus Conference proprio sulle terapie psicologiche per ansia e depressione sono:

  1. la loro elevata prevalenza nella popolazione generale,
  2. il livello di compromissione che ricade sull’individuo e i costi sociali diretti e indiretti che ne derivano,
  3. unitamente alle scarsa presenza e qualità delle terapie psicologiche messe a disposizione dal Servizio Sanitario Nazionale.

Perciò, i Gruppi che hanno partecipato alla Conferenza sottolineano l’importanza e l’urgenza di lavorare in un’ottica di prevenzione mirata, che si dovrebbe concretizzare in un tempestivo e facilitato accesso ai percorsi di diagnosi e cura, così da ridurre la progressione della malattia e assicurare un miglioramento del livello di salute e qualità di vita dei pazienti, riducendo in questo modo la spesa incrementale che ne consegue.

 

Il paradigma della falsa credenza

Il test di Sally-Anne rappresenta la versione più nota del test della falsa credenza: tale test valuta la comprensione della falsa credenza di primo ordine, che presuppone la capacità di pensare cosa gli altri pensano.

 

Nel 1978 gli psicologi americani David Premack e Guy Woodruff proposero il concetto di teoria della mente (ToM – theory of mind), cioè la capacità di pensare cosa gli altri pensano e di attribuire a sé e agli altri stati interni quali emozioni, sensazioni, pensieri, impressioni, desideri o conoscenze, mediante cui è possibile identificare e prevedere possibili comportamenti propri e altrui. La teoria della mente indica la conoscenza di processi psichici, sensoriali, percettivi, cognitivi e, in generale, mentali che non concernono solo il nostro Io ma anche l’altro e si configura come un atto intuitivo di forte connotazione emotiva tramite cui le persone tendono ad offrire plausibili spiegazioni degli stati affettivi ed emotivi e dei pattern comportamentali altrui.

Gli esperimenti sulla falsa credenza

Diversi esperimenti e ricerche hanno coinvolto direttamente questa nostra singolare capacità cognitiva di riflettere sul nostro vissuto interiore e di decodificare quello altrui. In particolar modo nel 1983 i ricercatori americani Wimmer e Perner, per verificare e valutare questa capacità proposero il paradigma della falsa credenza o “compito dello spostamento inaspettato”. Esistono principalmente due tipologie di compiti sperimentali della falsa credenza:

  • 1° ordine: presuppone la capacità di pensare cosa gli altri pensano (es. “cosa pensa Sally?) e, ai fini della sua risoluzione, pretende che il bambino disponga di un’età mentale di 3-4 anni.
  • 2° ordine: non implica unicamente l’abilità sopra menzionata, ma anche una capacità metacognitiva, cioè la comprensione delle credenze sulle credenze (es. “cosa Billy pensa che Sally pensi?”).

Il test di Sally-Anne rappresenta la versione più nota del test della falsa credenza: ispirato all’esempio originale di Billy e Sally, tale test valuta la comprensione della falsa credenza di primo ordine in bambini con sviluppo tipico. La struttura ricorda quella di un gioco, nel quale ai soggetti vengono presentate due bambole: una di nome Sally, che dispone di un cestino, e l’altra, Anne, che possiede una scatola. È prevista poi la realizzazione di un gioco di finzione, nel quale Sally, subito dopo aver posto una biglia nel proprio cestino, lo copre con un panno ed esce a passeggio; mentre Sally è assente, Anne prende la biglia dal cestino e la colloca nella propria scatola. Infine, quando Sally torna con l’intenzione di giocare con la biglia, l’esaminatore domanda al bambino sottoposto al compito sperimentale dove Sally credeva che la sua biglia si trovasse e, pertanto, dove avrebbe guardato.

In base alla definizione di teoria della mente, è possibile affermare che, se il bambino risponde affermando che effettivamente Sally avrebbe cercato la biglia nella scatola di Anne, il soggetto non è in grado di pensare il pensiero altrui, di assumerne il punto di vista, e quindi di formulare una falsa credenza. Al contrario, se il bambino è capace di comprendere e rappresentarsi i pensieri, le idee, le intuizioni e le conoscenze altrui, e quindi di formulare false credenze, allora risponderà secondo la prospettiva di Sally, e non la sua, dicendo che Sally avrebbe cercato la biglia nel cestino: tale risposta implica la capacità di distinguere la propria visione delle cose dalla credenza altrui e di prevedere il comportamento di un individuo differenziato.

Quando si sviluppano le capacità della falsa credenza

Le capacità individuali in termini di risoluzione del compito della falsa credenza di primo ordine migliorano gradualmente nel corso del tempo e in particolar modo nel periodo evolutivo compreso tra i 2 anni e mezzo e gli 8: se a 2 anni, l’80% dei bambini tende a fornire una risposta errata, già a 3 la percentuale di risposte corrette oscilla intorno al 50%; già a 4 anni di età, i bambini con sviluppo cognitivo tipico sono capaci di risolvere il compito della falsa credenza di primo ordine. Bambini con sviluppo atipico e in particolar modo i bambini con autismo sembrano invece manifestare un certo ritardo nel superamento di tale dilemma, ritardo facilmente riconducibile a difficoltà in termini di sviluppo della comprensione emotiva, elemento fondamentale della competenza emotiva, di abilità socio affettive e di lettura degli stati interni altrui: in tal caso la risoluzione del compito della falsa credenza non avviene generalmente prima dei 9-10 anni di età.

Una nuova alternativa alla diagnosi psichiatrica (2022) – Recensione

Il volume Una nuova alternativa alla diagnosi psichiatrica” di Mary Boyle e Lucy Johnstone si propone come un’introduzione al Power Threat Meaning Framework, un nuovo approccio verso la diagnosi psichiatrica.

 

Di certo non è la prima volta che si avanza un’alternativa al modello egemone di cura in psichiatria, così come in altre branche mediche (Rossi, 2005). Già nel 1952, infatti, lo psichiatra inglese Maxwell Jones, insoddisfatto dei risultati del paradigma biomedico, fonda la prima comunità terapeutica con lo scopo di coinvolgere utenti e operatori in un processo attivo di cura, in cui ognuno è ugualmente e democraticamente responsabile del benessere proprio e collettivo. Sarà proprio dagli esperimenti comunitari inglesi che Basaglia trarrà alcuni spunti indispensabili per la creazione di una nuova idea di salute mentale, innovandola fino a trovare una sua espressione politica nella legge 180 del 1978, con cui si inaugura la grande stagione di demolizione degli istituti psichiatrici (Esposito, 2019). I

Il Power Threat Meaning Framework (PTMF) si colloca all’interno di tale eredità “eretica” puntando a definire una nuova cornice di approccio nei confronti delle difficoltà mentali, lavorando alla costruzione di una nuova narrazione di significati in alternativa alla diagnosi fatta secondo i manuali vigenti (DSM 5 e ICD-11). Anche la medicina narrativa offre una modalità di ascolto empatico, però il PTMF allarga il campo di indagine collocando il sofferente all’interno di una storia complessa dove fattori personali, familiari, sociali, economici e persino culturali interagiscono per portare inevitabilmente alla crisi attuale con i suoi sintomi e sofferenze. Sintomi e sofferenze che nascono come difese, ultimo baluardo per proteggere la persona dalle minacce che possono irrimediabilmente danneggiarla; per cui lo scopo del PTMF non è eliminare i sintomi, ma aiutare il paziente ad appropriarsi delle proprie modalità di difesa per costruirne altre. Possiamo fare un parallelismo con gli uditori di voci, un movimento internazionale, dove i propri membri imparano a dialogare in maniera costruttiva con la componente allucinatoria così da trasformare quello che sarebbe convenzionalmente considerato un disturbo mentale in una risorsa senza più stigma. Ancora più significativo, rispetto ai contenuti del PTMF, è che sia stato concepito in uno sforzo collettivo tra operatori e utenti in maniera simile, come scritto in precedenza, ai principi democratici delle comunità terapeutiche, sovvertendo così la visione in cui è il medico a detenere conoscenza e potere nella relazione di cura.

Il libro di Mary Boyle e Lucy Johnstone, che sono tra i principali creatori del PTMF, si propone come un’introduzione umile e chiara a una struttura concettuale che senza le giuste premesse può apparire confusa. Nella breve estensione delle circa 200 pagine, si sente la volontà delle autrici di rendere comprensibile l’opera anche ai non addetti ai lavori, adottando a volte alcune semplificazioni che però sono inevitabili nell’opera di sintesi di un lavoro assai più complesso. Poi toccherà al lettore, sia esso un operatore sanitario, un utente o un semplice curioso, attingere all’opera estesa del PTMF (Johnstone, 2018), per poter comprendere a fondo e padroneggiare in ambito clinico la capacità di accostarsi alla sofferenza senza la presunzione di risolverla ma di darle pienamente asilo (Borgna, 2017).

 

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