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Il cervello rettiliano esiste? Psicoterapia cognitivo comportamentale e cervello trino

Una parte del cognitivismo clinico si è interessata a modelli neuroscientifici, come quello del cervello trino, il cui valore scientifico è stato oggi ridimensionato

Di Giovanni Maria Ruggiero, Mattia Ferro, Gabriele Caselli, Sandra Sassaroli

Pubblicato il 27 Ott. 2022

Aggiornato il 02 Nov. 2022 11:35

La teoria del cervello trino di Paul MacLean fornisce un appoggio neuroscientifico ai modelli cognitivi che danno meno credito alle capacità di auto controllo volontario della mente, appoggio che suggerisce che esisterebbero delle architetture cerebrali primordiali che sfuggono al controllo consapevole della neocorteccia.

 

Neuroscienze e psicoterapia cognitivo comportamentale

Da non pochi anni alcuni modelli di cognitivismo clinico si sono impegnati in alcune affascinanti riflessioni teoriche e cliniche sulle basi evoluzioniste dell’attività mentale. In questa operazione si sono richiamati ad alcuni modelli neuroscientifici che hanno avuto grande importanza storica – essi hanno svolto un ruolo fecondo nel promuovere l’esplorazione della radice evoluzionista dello sviluppo intellettuale dell’uomo – ma il cui valore scientifico è stato almeno in parte ridimensionato negli ultimi anni.

Parliamo del modello del cervello trino di Paul D. MacLean. Nella prima formulazione della teoria del 1949 MacLean sostenne che le componenti emotive di alcuni disturbi psicosomatici ed epilettici siano insediate in strutture cerebrali profonde che chiamò cervello viscerale e poi nel 1952 sistema limbico. Vent’anni dopo, MacLean completò la sua immagine del cervello trino (tre in uno) aggiungendo ciò che definì il complesso R (per “rettile”) – strutture nel nucleo del cervello e nel tronco encefalico che governano le funzioni di sopravvivenza di base – ai sistemi neocorticali e limbico. Infine, la teoria è stata definitivamente sviluppata in forma matura nel libro del 1990, The Triune Brain in Evolution, che si basava su studi anatomici di cervelli di animali.

Questo articolo è la prima parte di un più ampio contributo in due parti in cui ci proponiamo di esaminare questo ridimensionamento. In questa prima parte vogliamo tuttavia concederci qualche riflessione su alcune ragioni della fascinazione che ha avuto il cognitivismo clinico italiano per le neuroscienze. L’uso delle neuroscienze in psicoterapia può essere stimolante ma è sempre soggetto a due rischi. Il primo è che si tratta di un campo di discipline estremamente ampio che include molto sotto-insiemi, come le neuroscienze cellulari e molecolari, cognitive e computazionali. Questa ampiezza incoraggia l’audacia nella formulazione delle ipotesi, che è poi il secondo rischio, il rischio di trasposizioni troppo audaci da un campo all’altro in un’epoca in cui, malgrado di tanti passi avanti, il rapporto mente-corpo è ancora ben lungi dall’essere compreso. È vero che questi tentativi audaci hanno il merito di stimolare l’avanzamento delle indagini ma è altrettanto vero che non sono state ancora definite operativamente variabili ponte che permettano di creare ipotesi controllabili sulla corrispondenza tra stati mentali e corrispettivi cerebrali e viceversa.

La conseguenza è che qualunque scoperta del funzionamento o dell’architettura cerebrale è difficilmente applicabile in maniera diretta a corrispondenti funzionamenti mentali. Si tratta per lo più di stimolanti suggerimenti che possono essere fecondi a patto di essere coscienti della loro natura ancora labile e sfuggente all’osservazione. Attribuire a certe scoperte neuroscientifiche in modo meccanico e lineare un eccesso di significato mentale rischia sempre di trasformare delle ipotesi ancora mal definite in metafore che descrivono tutto e spiegano poco. Attenzione, non stiamo sostenendo che, siccome la natura del rapporto mente-corpo non è ancora chiara non si possono tentare applicazioni psicoterapeutiche ispirate da concetti neuroscientifici. Sarebbe come sostenere che finché la fisica quantistica non sarà tutta definitivamente chiarita la sua applicazione alle nuove tecnologie è scorretta, cosa non vera. Le applicazioni ci sono. Il problema è che, sulla base di concetti neuroscientifici ancora generici, si sono generati modelli di psicoterapia discutibili che non sono sostenuti da dati empirici di efficacia ma da queste stesse teorie neuroscientifiche. Il rischio è quindi di considerare le neuroscienze una forma di conferma empirica paragonabile alle prove di efficacia. Naturalmente è possibile anche il caso migliore. Ad esempio, alcuni efficaci interventi di psicoterapia cognitiva (Beck, 1976) e metacognitiva (Wells, 2008) hanno un’ispirazione neuroscientifica proveniente dagli studi sulla memoria e l’attenzione.

Il modello del cervello trino

A nostro parere, non è invece il caso di quello che è accaduto con l’ipotesi del cervello trino, ovvero quel modello neuroscientifico in cui strutture cerebrali sarebbero diverse non solo a livello funzionale ma apparterrebbero a livelli evolutivi diversi attribuibili a classi diversi di esseri viventi: il cervello rettiliano attribuibile appunto ai rettili, il cervello limbico o mammaliano attribuibile ai mammiferi e il neocervello tipico dei primati. I tre cervelli avrebbero funzioni diverse. Al rettiliano appartengono gli istinti di sopravvivenza individuale e di specie di base come alimentazione e riproduzione sessuale, le funzioni corporee autonome e della difesa del territorio, della risposta attacco-fuga, dei comportamenti non verbali, della sessualità e della riproduzione. Il cervello limbico corrisponde alla percezione emotiva e serve alla raccolta delle informazioni dei cosiddetti sistemi motivazionali, quelle classi di desideri e scopi individuali che regolano la vita a un livello superiore a quello puramente istintivo: i bisogni di attaccamento e di esplorazione, vicinanza e autonomia. Il terzo cervello, quello più evoluto, infine è la sede delle rappresentazioni consapevoli in cui l’informazione cognitiva è scomponibile secondo regole analitiche e verificabile secondo operazioni logiche. I tre livelli cerebrali si sarebbero sovrapposti uno all’altro durante lo sviluppo evolutivo.

Ciò che ha determinato il successo di questo modello tuttavia non sono le singole funzioni attribuibili ai tre cervelli, nozione che è parzialmente vera. Nel tronco vi è di fatto, fisiologicamente, la regolazione delle funzioni corporee autonome. Il problema è che da questa nozione empirica si deducano, con argomenti neuroscientifici, le modalità di azione di un’altra funzione per lo più attribuita alla neocorteccia dei primati e in particolare dell’uomo, la funzione spesso denominata della razionalità in termini naif mentre più propriamente dovrebbe essere denominata del controllo esecutivo volontario. Sulla base del modello del cervello trino si è dedotta, senza dimostrarla, l’ipotesi che questa funzione volontaria ed esecutiva abbia scarsa se non nulla capacità di regolare, influenzare e controllare le altre funzioni, quelle di regolazione corporea ed emotiva (Liotti, 2001).

Sappiamo che la forza di questa funzione del controllo esecutivo propria di alcune aree neocorticali come ad esempio la corteccia prefrontale era stata apprezzata e privilegiata nei modelli classici di psicoterapia cognitiva, in particolare quello di Beck (1976) secondo il quale il soggetto sofferente era ritenuto in grado di raggiungere un maggiore grado di benessere psicologico esplorando i propri stati emotivi (in termini tecnici incrementando il grado di rappresentazione consapevole dei propri stati motivazionali) ristrutturandoli in termini più funzionali e soprattutto decidendo consapevolmente (ecco la funzione esecutiva consapevole) di poter scegliere comportamenti più funzionali malgrado il messaggio avversivo generato delle emozioni.

Psicoterapia cognitiva, regolazione emotiva e cervello trino

Questa fiducia per la capacità del paziente di potere recuperare il proprio auto-controllo in termini più funzionali (ecco ciò che in termini naif si chiama razionalità) ha sempre generato perplessità in molti terapeuti, anche cognitivi. Per un serie di ragioni, alcune scientificamente fondate altre radicate in una certa cultura popolare condivisa anche da alcuni terapeuti, spesso nutriamo scarsa fiducia nella nostra capacità di agire in maniera opposta o almeno differenziata rispetto alle emozioni. Riteniamo che le emozioni ci travolgano, ci comandino, o in termini meno irrazionali che le emozioni siano semplicemente ciò che ci caratterizza in maniere più sincera e che quindi agire contro il dettato emotivo sia un’operazione falsa e inautentica.

In realtà la psicoterapia cognitiva non ha mai sostenuto che le emozioni siano meccanicamente comandate dagli stati cognitivi consapevoli. Semmai ha sostenuto che esse possono essere cognitivamente regolate attraverso una serie di operazioni mentali consapevoli. Ciò che è davvero gestibile in maniera diretta sono solo i comportamenti. Va ammesso che questo modello regolativo è definitivamente maturato solo con i cosiddetti modelli processuali o di terza onda della psicoterapia cognitiva mentre è vero che nei modelli classici ci fosse in parte una fiducia ingenua nel potere della cognizione di influenzare direttamente le emozioni.

Nel bene e nel male alcuni modelli di cognitivismo clinico hanno sempre attribuito particolare preferenza allo studio di questi limiti della razionalità (termine naif, ripetiamolo). Nel bene perché gli ha permesso di approfondire alcuni temi clinicamente importanti, come ad esempio il significato semi funzionale del sintomo (un contributo che possiamo attribuire sia al gruppo dei costruttivisti kelliani come Lorenzini e Sassaroli (1995) ma anche ad alcuni lavori della prima parte dell’attività creativa di Vittorio Guidano e Gianni Liotti (1983), prima della sua svolta post-razionalista oppure alcune intuizioni di Antonio Semerari (1999) sulla regolabilità indiretta e metacognitiva delle emozioni. Si tratta di una serie di contributi, cosiddetti di scuola costruttivista, che sono passati nel cognitivismo classico di Beck e poi sono stati portati a maturazione nella svolta processuale. Nel male poiché per questa strada il cognitivismo clinico ha rischiato di rinnegare il principio clinico cognitivo della fiducia nella capacità del paziente di regolare consapevolmente le emozioni, imboccando invece una strada alternativa che sembra partire da un principio opposto, che è quello della incontrollabilità delle emozioni. Si tratta anche di una visione del mondo che ha inattesi parallelismi in certe caratteristiche culturali intrinseche sua passate che recenti della filosofia italiana, dalle speculazioni filosofiche di Giordano Bruno e Giambattista Vico passando per Leopardi fino al modello biopolitico di Agamben, tutti dominati da una visione del vissuto emotivo dell’esistenza umana come scaturigine ingovernabile (Esposito, 2010).

Tornando alla psicoterapia, questo tipo di sviluppo è visibile soprattutto nel lavoro di Gianni Liotti (2001), così interessato a quegli stati per eccellenza poco controllabili come quelli della dissociazione traumatica e che non a caso adottò pienamente la teoria del cervello trino. Di qui il crescente interesse per processi terapeutici che sembrano tentare di agire attraverso canali non cognitivi, ovvero senza passare attraverso rappresentazioni consapevoli ed esecutivamente controllabili, modelli terapeutici di tipo relazionale e/o esperienziale-corporeo elaborati come non cognitivi, con l’ulteriore rischio -a nostro parere- di fraintendere questi interventi che invece conservano una buona dose di funzionamento che passa attraverso le funzioni consapevoli ed esecutive (ovvero razionali, ma -ribadiamolo ancora- razionale è un termine naif).

La teoria del cervello trino di Paul MacLean fornisce un appoggio neuroscientifico ai modelli cognitivi che danno meno credito alle capacità di auto controllo volontario della mente, appoggio che suggerisce che esisterebbero delle architetture cerebrali primordiali che sfuggono al controllo consapevole della neocorteccia. Per compensare queste tendenze non sempre progressive del cognitivismo clinico italiano si possono citare brevemente alcuni sviluppi delle neuroscienze che sono seguiti alla diffusione del modello del cervello trino. Queste revisioni critiche hanno discusso le rigidità di quel modello di MacLean, a cominciare dalla sua suddivisione del cervello in parti separate. Occorre ricordare che il cervello è fatto da reti di comunicazione che suggeriscono che i cosiddetti tre cervelli non sono tre compartimenti stagni isolati ma vi sono proiezioni plastiche che dalla neocorteccia vanno al tronco, dal tronco alla neocorteccia e così via. È vero che nel processo di maturazione nervosa dallo stadio embrionale alcune strutture maturano prima di altre e forse per questo che alcuni studiosi di psicoterapia come Farina e Liotti (2011) o van der Kolk (1996) ritengono che certi traumi, avvenuti in precoce, possano essere “racchiusi” da un tag molecolare/sinaptico in certe zone cerebrali rispetto ad altre. Chiudiamo qui la prima parte dell’articolo mentre nella prossima esploreremo i limiti del modello del cervello trino e della sua applicazione alla psicoterapia cognitivo-comportamentale.

LEGGI ANCHE LA SECONDA PARTE DI QUESTO EDITORIALE

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Giovanni Maria Ruggiero
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Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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