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Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista al Prof. Fabio Monticelli

Abbiamo chiesto il parere ad alcuni dei più noti clinici italiani sull'iniziativa ENPAP "Vivere Meglio" - La parola al Prof. Fabio Monticelli, presidente SITCC

Di Redazione

Pubblicato il 13 Set. 2022

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio promossa dall’ENPAP. In questo numero pubblichiamo l’intervista al Prof. Fabio Monticelli.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcunin dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista al Prof. Fabio Monticelli

Pubblichiamo l’intervista al Prof. Fabio Monticelli, Psichiatra Psicoterapeuta, Presidente della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC).

State of Mind (SoM): Cosa ne pensa del bando dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Quali possono essere gli aspetti positivi e negativi?

Prof. Fabio Monticelli (FM): L’obiettivo del progetto “Vivere Meglio” è meritorio perché l’iniziativa è finalizzata da una parte ad aiutare le persone più fragili sul piano economico e psicologico in difficoltà a seguito della recente pandemia, dall’altra a tutelare gli psicologi.

Tuttavia, benché il progetto sia sostenuto da un disegno scientifico pertinente nei contenuti, risulta invece inappropriato per le modalità applicative utilizzate.

Il progetto “Vivere Meglio” è stato sviluppato da consulenti tecnici dell’università di Padova, facendo esplicito riferimento ai risultati della recente Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione.

Tuttavia, la Consensus Conference si astiene esplicitamente dall’indicare le qualifiche professionali di chi deve erogare le diverse prestazioni; invece, il progetto “Vivere Meglio” autorizza il trattamento di pazienti con una sintomatologia depressiva o ansiosa da parte di psicologi non psicoterapeuti, venendo meno al principio fondamentale di curare nel modo più appropriato il disagio dei pazienti mediante terapie psicologiche somministrate da personale legittimamente formato secondo le normative dello Stato Italiano e disattendendo gli articolo 8-8-10 e 12 della Carta Europea dei Diritti del Malato.

Pertanto, il progetto ha approvato criteri di assegnazione liberamente ispirati dai risultati della Consensus Conference; tali criteri risultano discutibili e rischiosi per almeno due ordini di considerazioni: la prima riguarda l’assegnazione dei pazienti che presentino una sintomatologia “sottosoglia, a psicologi non legittimati alla psicoterapia”.

La seconda è che la Consensus Conference fa esplicito riferimento a un preciso protocollo CBT da applicare come intervento a bassa intensità, mentre nel bando è evidente che ogni psicologo potrà adottare altre modalità di trattamento a sua insindacabile scelta. Questo è ben lontano dalla raccomandazione della Consensus Conference.

SoM: In che misura, ed eventualmente in che modo, questa iniziativa è un possibile passo avanti verso l’accesso alla salute emotiva della popolazione generale e a trattamenti psicoterapeutici empiricamente fondati?

FM: Può rappresentare un passo in avanti perché il progetto facilita l’accesso da parte dei cittadini alla psicoterapia e promuove una cultura che sottolinea l’importanza della cura finalizzata ad acquisire il benessere emotivo e una maggiore libertà individuale.

Tuttavia riteniamo che esista il serio rischio che i criteri adottati possano risultare sottodimensionati allo scopo e in alcuni casi, addirittura rischiosi perché inappropriati a cogliere eventuali fattori di rischio.

Il progetto, in teoria, propone un modello stepped care, che prevede modalità crescenti di trattamento a seconda del livello di gravità e dell’esito degli interventi già effettuati, prevedendo provvedimenti di maggiore intensità in caso di fallimento del trattamento applicato. Tuttavia, in pratica in questo progetto emergono alcuni elementi di criticità che così concepiti possono comprometterne l’esito.

SoM: Cosa ne pensa della distinzione che il bando fa tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia?

FM: Il problema non è nella differenziazione tra interventi a maggiore e a bassa intensità; il problema importante, e connesso a una certa dose di rischio, riguarda l’assegnazione inappropriata dei pazienti che lamentano sintomi depressivi, definiti “sottosoglia”, agli psicologi non psicoterapeuti per erogare interventi definiti “a bassa intensità”.

Per noi questi criteri di assegnazione rappresentano un modello applicativo concettualmente errato e, soprattutto, un elemento di rischio per i pazienti.

Il modello applicativo è concettualmente erroneo perché rappresenta una esplicita autorizzazione all’esercizio della psicoterapia da parte di psicologi che non sono stati formati all’esercizio della psicoterapia secondo la normativa vigente. Secondo l’art. 1 della 56/89, la psicoterapia non è di competenza né dello psicologo, né del medico, mentre l’art. 3 delega la psicoterapia in modo specifico agli psicologi e ai medici che abbiano portato a termine una idonea scuola di specializzazione approvata e riconosciuta dal MIUR.

Gli elementi di rischio nei confronti del paziente si evidenziano ad esempio già nei criteri di valutazione del disturbo; come è noto moltissimi pazienti chiedono di essere aiutati lamentando sintomi di ansia e depressione. Un paziente può riconoscere con grande facilità questi sintomi senza avere, però, le sufficienti competenze che gli consentano di riconoscere il disturbo psicopatologico che ne è alla base.

Questo secondo passaggio è di stretta pertinenza dello psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta infatti ha le necessarie competenze che gli permettono di interpretare il nucleo di sofferenza del paziente, effettuare una corretta formulazione del caso che va oltre la semplice diagnosi, e inserirlo in una più complessa teoria del disturbo che permetterà in seguito di formulare una adeguata teoria della cura.

Lo psicologo non abilitato alla psicoterapia è autorizzato dalla legge alla diagnosi psicopatologica, ma è improbabile che abbia acquisito le necessarie competenze teoriche, né tantomeno la sufficiente pratica clinica accompagnata da un numero sistematico di supervisioni cliniche che possano consentirgli la formulazione del caso e soprattutto la riformulazione che può rendersi necessaria in corso d’opera. Ad esempio, non è infrequente il caso, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti, che sfumati sintomi depressivi possano nascondere il rischio di un esordio psicotico.

Un esempio pratico può essere utile per comprendere meglio il concetto. Consideriamo un paziente che ha scarse capacità di riconoscere i propri stati emotivi. Lamenta tachicardia e sudorazione che costituiscono l’epifenomeno della sua sofferenza.

Da più di due settimane, per “più di metà dei giorni”, prova poco piacere nel fare le cose, si sente depresso e senza speranze, riferendo alcuni problemi nell’addormentarsi. Alla somministrazione dei test previsti dal bando (HPQ-9) i sintomi presentati raggiungono un punteggio pari a 6, che configura un disturbo depressivo sottosoglia; per tali motivi viene quindi assegnato allo psicologo non abilitato alla psicoterapia (quindi non psicoterapeuta).

Poniamo che il paziente in questione non sia in grado di riconoscere una serie di comportamenti alla base delle sue principali problematiche interpersonali; ad esempio, non è in grado di riconoscere che il suo comportamento deferente e sempre finalizzato a compiacere le esigenze dell’altro per avere la sua approvazione abbia compromesso -e tuttora compromette- il processo di costruzione del proprio senso di identità personale.

Proprio perché egosintonica, la compiacenza obbligata del paziente e l’inconsistente struttura identitaria a essa associata non vengono rilevate come un elemento patologico e quindi trattabile; tuttavia, possono costituire un importante fattore di vulnerabilità che costituisce l’elemento nucleare del disturbo di cui la sintomatologia depressiva rappresenta soltanto l’epifenomeno.

Può accadere che, in particolari situazioni di difficoltà, eventi comunemente considerati di lieve gravità possano compromettere l’equilibrio emotivo, provocando il collasso delle strategie generalmente utilizzate per gestire le quotidiane difficoltà della vita. In questo caso, il collasso di tali strategie può esitare anche in comportamenti suicidari che si sarebbero potuti evitare se il percorso di cura avesse segnalato tale vulnerabilità al paziente e riconosciuto tempestivamente il momento di scompenso.

Riteniamo che i pazienti che lamentano sintomi depressivi non possano essere semplicemente diagnosticati all’inizio della sintomatologia, ma debbano essere osservati e monitorati con attenzione da psicoterapeuti addestrati alla formulazione del caso, alla cura del disturbo e debitamente supervisionati.

Si potrebbe obiettare che gli psicologi sono abilitati alle procedure diagnostiche pertanto dovrebbero essere in grado di intercettare le problematiche presenti nel paziente. Quello che a loro manca però è la teoria e la pratica dell’assessment necessario, dopo l’inquadramento diagnostico, per poter proporre il piano di intervento.

È quindi evidente il ruolo di primaria importanza svolto dallo specialista psicoterapeuta che deve essere in grado di cogliere appropriatamente la richiesta del paziente e interpretarla correttamente anche a percorso iniziato, andando ben oltre quanto rilevato dalla autosomministrazione dei test che rilevano soltanto i sintomi di cui il paziente è consapevole.

SoM: È fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

FM: I principi del progetto sono chiaramente ispirati al modello anglosassone che delega gli interventi a bassa intensità a terapisti con un profilo professionale assimilabile a quello di infermieri, assistenti sociali ed educatori. Tuttavia, se alcuni principi come ad esempio lo stepped care, possono risultare utili se ben adattati, altri, oltre a non risultare più efficaci clinicamente, non possono essere calati nel contesto legislativo italiano che è regolato da precise norme che riguardano le professioni. Soprattutto il personale inglese, di solito per la maggior parte con esperienza, lavora in equipe, dove la gestione del caso è condivisa e vi è un controllo stretto dell’andamento dell’intervento. L’implementazione del progetto ENPAP offre molte meno garanzie.

E nel contesto italiano l’assegnazione di pazienti con disturbo depressivo agli psicologi non specializzati all’esercizio della professione di psicoterapeuta appare del tutto incomprensibile.

Inoltre, alcuni principi adottati nel progetto stridono profondamente con il modello culturale italiano che è profondamente ispirato dal pensiero di Basaglia che ha portato a un maggiore rispetto del paziente psichiatrico, a una sua maggiore presa in carico da parte delle strutture territoriali e all’abolizione degli ospedali psichiatrici. La Gran Bretagna, invece, non ispirata da questo modello è ancora fermamente ancorata all’esistenza delle strutture manicomiali.

Sicché un rudimentale adeguamento al modello anglosassone rappresenta un passo indietro e il tradimento di un pensiero culturale italiano di così alto livello; inoltre, svilisce una professionalità di alto profilo e assai numerosa, annoverando più di 60.000 psicologi specializzati in psicoterapia, al contrario di quanto accade in Gran Bretagna, dove è scarso il numero di psichiatri e psicoterapeuti.

Tale professionalità, invece, dovrebbe essere apprezzata e valorizzata. Così come dovrebbe essere valorizzata anche la figura dello psicologo che ha uno specifico e dignitoso profilo professionale con specifiche competenze nel campo della riabilitazione, degli interventi di sostegno e soprattutto della prevenzione che a mio avviso rappresenta un campo assai prezioso che dovrebbe essere esteso e potenziato.

SoM: Un altro timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione fornita dalla borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente parziale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta. Cosa ne pensa?

FM: Questa rappresenta certamente un’altra criticità. Anche noi crediamo che 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione siano del tutto insufficienti per consentire di effettuare trattamenti adeguati. Peraltro, il bando prevede una formazione tecnica che dura tre giornate e supervisioni che riguardano i criteri di applicazione formale del protocollo; sicché non sono previste nel progetto supervisioni obbligatorie di carattere clinico che, invece, restano a discrezione della sensibilità e della competenza dello psicologo o dello psicoterapeuta. E comunque in quantità inadeguata. Per giunta, si deve anche tener conto che i supervisori non hanno una conoscenza diretta del paziente, non c’è nessuna garanzia che abbiano familiarità con gli specifici protocolli e nemmeno con i supervisionati. Anche questo rappresenta un importante elemento critico, perché pone in secondo piano l’aspetto clinico del trattamento del paziente rispetto ai criteri tecnici applicativi e alla ricerca.

SoM: Secondo alcuni il bando ENPAP compensa la carenza di pratiche formalizzate di accertamento e trattamento dei disturbi. Cosa ne pensa?

FM: Credo che di per sé l’iniziativa rappresenti un tentativo di facilitare l’accesso al trattamento del disagio psichico, insinuandosi spesso in varchi lasciati dalle strutture del territorio.

Le strutture territoriali spesso sono oberate dalla vastità del bacino di utenza, dal livello di gravità delle richieste da parte degli utenti e dalla scarsezza del numero degli operatori dei servizi che sono obbligati a svolgere un carico di lavoro quantitativamente enorme, di estrema difficoltà e di grande responsabilità.

C’è da tenere in considerazione comunque che in realtà questo accade a macchia di leopardo perché esistono anche servizi territoriali che sono operativi e soddisfano efficacemente le esigenze del territorio.

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