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Esperienza, ricordo e decisione futura: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Esperienza, ricordo e decisione futura: uno studio empirico 

Autrice: Veronica Cascone (Università degli Studi di Trieste)

 

Abstract

In riferimento al modello elaborato da Wirtz, Kruger, Scollon & Diener (2003), secondo il quale si ipotizza l’esistenza di un legame tra aspettative, esperienza, ricordo dell’esperienza e decisione di ripetere l’esperienza, dimostrando che le aspettative influenzano direttamente il ricordo che, a sua volta, determinerà la decisione futura, lo studio qui presentato si prefigge due obiettivi principali: il primo obiettivo è quello di comprendere, anche sulla base degli studi citati (Klareen, Hodges & Wilson, 1994; Gilbert & Wilson, 2003; Wirtz et al., 2003;), se si presenti la catena di legami che parte dalle aspettative, passa per l’esperienza e per il ricordo e raggiunge la decisione sul futuro, oppure se ci sia un legame diretto tra l’esperienza e la decisione sul futuro (o tra le aspettative e la decisione sul futuro), indipendentemente dall’influenza delle variabili intermedie. In particolare, cercheremo di capire se sia effettivamente il ricordo a influenzare la decisione ( nel nostro caso, la scelta di continuare l’esperienza vissuta). In secondo luogo, abbiamo voluto verificare in quale grado le relazioni ottenute in letteratura possano dipendere dall’applicazione di un solo metodo di misura dei costrutti indagati (common method bias), oppure se siano relazioni che si osservano indipendentemente dal metodo e dallo strumento utilizzato per misurare le aspettative, l’esperienza e il ricordo. Nel primo capitolo della tesi, viene fornita una panoramica generale della letteratura sull’argomento; in particolare sono trattate le ricerche di Kahneman, Friedrickson, Schreiber & Redelmeier (1993) e di Wilson e Gilbert (2003), sul ruolo della previsione affettiva e della valutazione retrospettiva nelle decisioni sul futuro. Il secondo capitolo si concentra sulla letteratura che ha costituito la base per la nostra ricerca e sui modelli teorici elaborati da Klareen, Hodges & Wilson (1994) e da Wirtz et al. (2003), dedicando particolare attenzione agli studi che si sono occupati della funzione del ricordo nella scelta per il futuro. Il terzo capitolo presenta l’esperimento realizzato. Il quarto capitolo descrive le analisi effettuate, i risultati ottenuti e le conclusioni che se si possono trarre in riferimento alle ipotesi di partenza. L’esperimento: ad un gruppo di studenti della facoltà di scienze della Formazione e Psicologia dell’ Università degli studi di Trieste di età media 23 anni abbiamo proposto la visione di un breve filmato della durata di circa 30 minuti tratto dal film “Caramel” di Nadine Labaki del 2007. Il disegno sperimentale era un disegno between-subjects. I partecipanti sono stati assegnati casualmente a due gruppi (metodo tradizionale vs. metodo variato). Per quanto riguarda il gruppo ‘metodo tradizionale’, la valutazione delle aspettative, dell’esperienza e del ricordo dell’esperienza avvenivano utilizzando lo stesso questionario, con il solo cambiamento del tempo del verbo impiegato per formulare le domande. Questo gruppo riproduceva dunque quanto fatto nei precedenti studi di Wirtz et al. (2003). Per quanto riguarda il gruppo ‘metodo variato’, si utilizzavano invece metodi (e strumenti) diversi per rilevare la valutazione delle aspettative (il consueto questionario), dell’esperienza (una procedura di monitoraggio continuo on-line), del ricordo (la valutazione delle scene ricordate; cfr. Geers et al.,1999). Lo studio è stato svolto in due sessioni. I risultati dimostrano che la valutazione retrospettiva condotta tramite la valutazione della piacevolezza delle scene ricordate non è predittiva delle intenzioni se l’effetto delle altre variabili (aspettative, valutazione on-line) viene tenuto sotto controllo. Nella condizione di controllo (metodo tradizionale), invece, la valutazione retrospettiva è predittiva delle intenzioni, anche se si tiene sotto controllo il potenziale effetto del metodo comune. Inoltre, solo nella condizione sperimentale l’esperienza immediata è predittiva delle intenzioni. L’esistenza della catena di relazioni che parte dalle aspettative e giunge alle intenzioni sul futuro dipende dunque dal modo in cui viene misurato il ricordo. Se il ricordo è misurato tramite la valutazione delle scene ricordate, allora esso non è predittivo delle intenzioni future. In questo caso, la catena si interrompe. Se, invece, il ricordo è misurato tramite una valutazione retrospettiva più generale, che prescinde dalle singole scene, allora esso è predittivo rispetto alle intenzioni future (e la catena delle relazioni non si interrompe). Riguardo al common method bias, i risultati evidenziano che le relazioni individuate nella condizione di controllo sono abbastanza robuste rispetto a questo bias. Altro risultato interessante evidenzia che le aspettative sembrano influire sulle intenzioni indipendentemente dalla condizione sperimentale e che il giudizio retrospettivo globale sull’esperienza passata sembra essere il miglior predittore delle intenzioni in entrambe le condizioni sperimentali. E’ quindi possibile ipotizzare che questo giudizio, forse formulato già durante la visione del film (cfr. Hastie & Park, 1986), possa essere utilizzato come base per l’espressione delle intenzioni comportamentali insieme alle aspettative.

 

English abstract

This study builds on the model of Wirtz, Kruger, Scollon & Diener (2003), which hypotizes a link between expectations, experience, memory and desire to repeat the experience and demonstrates that expectations influence memory directly, and memory influences future decisions to repeat the experience; and its aims are: – To understand if there is a link expectations-experience-memory-future decision, or if there will be a direct experience-decisions link (or also an expectations-decisions link) which is independent of intermediate variables; and to understand if memory influences decision, or not.  – To verify if the relationships we founded in literature depended on the common method bias, or if they still exist independently of the method and the instrument they used to evaluate expectations, experienceandmemory.  The first chapter is a review of the literature on this topic, which focuses above all on Kahneman, Friedrickson, Schreiber & Redelmeier (1993) and Wilson & Gilbert’s studies ( 2003 ) on the role of the affective forecast and retrospective evaluations on the future decisions.  The second chapter concerns the literature which our research takes as a basis and the studies of Klareen, Hodges & Wilson (1994) and Wirtz et al. (2003), particular attention is paid to the studies which deals with the role of memory on future decision.  The third chapter presents our experiment.  The fourth chapter describes the analysis we did, its results, and the conclusions we can draw from our initial hypothesis.  Experiment: A group of students from “Scienze della formazione primaria” and Psychology of University of Trieste, with an average age of 23 years, saw a short movie (30’ minutes), an except snippet from the movie “Caramel”, by Nadine Labaki (2007). The experimental design was between-subjects. Participants has been casually divided into two groups ( Tradizionale method vs. Variato method). In the “Tradizionale method” group, relevations of expectations, experience and memory took place with the same questionnaire, we just changed the verbal time of questions. This group reproduced the study of Wirtz et al. (2003). In the “Variato method” group we used different methods for the relevations of expectations (the same questionnaire), experience ( monitoring on-line the experience), and memory (evaluations of remembered scenes; cfr Geers et al. 1999). The study has been occurred in two sessions.  Results demonstrate that retrospective evaluations, which subjects made together with the evaluations of remembered scenes’ pleasantness is not predictive of the intentions when the effect of other variables (expectations, online evaluations) is under control. In the “Tradizionale method” condition (as control condition), instead, the retrospective evaluation is predictive of intentions even though the common method bias effect is under control. Only in the experimental condition (Variato method) the experience is predictive of intentions. The existence of the link originates from expectations and attains future intentions depends on the method used for measuring memory. When memory is measured with the evaluations of scenes it is no predictive about future intentions. In this case the link is broken. When the memory is measured with a general retrospective evaluation, neglecting single scenes, it is predictive of future intentions and the link of relations continues. Regarding to common method bias, the results demonstrate that relations in the control condition are strong about this bias. We can also find that the expectations influence intentions independently of experimental condition, and that the retrospective general judgment on the past experience is the best predictor of future intentions in both conditions.  We can hypotize that this judgment, they possibly made by the time of the vision of the movie, (cfr. Hastie & Park, 1986), may be used as basis to express the behavioural intentions and the expectations.

 

 

 

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Disattenzione a 7 anni & peggiori performance scolastiche a 16 anni

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Secondo una nuova ricerca inglese i bambini che presentano un aumento dei livelli di disattenzione all’età di sette anni sono a rischio di peggiori performance nelle scuole superiori.

A tale esito si è giunti a seguito di uno studio longitudinale che ha coinvolto più di 11.000 bambini e pubblicato su Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry.

All’età di sette anni dei soggetti – circa sedici anni fa- genitori e insegnanti completarono questionari self-report per la valutazione di diversi aspetti comportamentali, tra cui disattenzione, impulsività, iperattività. In seguito, all’età di sedici anni dei soggetti sono stati considerati i risultati scolastici dei soggetti analizzando le performance nell’esame finale delle scuole superiori (in Inghilterra chiamato GCSE).

Dopo aver tenuto conto nell’analisi di fattori tra i quali il quoziente intellettivo, il livello di istruzione dei genitori, i ricercatori hanno riscontrato una correlazione lineare statisticamente significativa tra un aumento dei sintomi di disattenzione all’età di sette anni e la riduzione delle votazioni al GCSE all’età di sedici anni.

La correlazione lineare sta a indicare che non è necessario raggiungere punteggi cut-off relativamente al disturbo dell’attenzione e dell’iperattività, ma anche punteggi sottosoglia di incremento della distraibilità e della disattenzione possono influenzare le performance scolastiche.

Dunque i risultati presentano implicazioni in termini di strategie di prevenzione per identificare e intervenire nella riduzione dei sintomi legati alla distraibilità e disattenzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Nuove frontiere nella cura del trauma – 4° Corso Internazionale, Venezia, 1-3 Maggio 2015

Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.

Di ritorno dal corso ci si sente come ogni anno ricchi di riflessioni, professionali e umane, e parte di un movimento dalle radici profonde che sta tentando la sua “piccola rivoluzione” nel panorama culturale attuale legato al trauma. Su questo tema persistono infatti ancora oggi e in tutto il mondo sentimenti molto ambivalenti, tra rifiuto, conflitto, morbosità, ma anche innegabile curiosità, fascinazione e interesse. Negli ultimi anni il trauma sta tornando indubbiamente al centro della scena clinica e dei protocolli di cura, ma la strada della sua accettazione e centralità appare ancora lunga e complessa.

Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.

La cornice teorica è sempre quella della Dissociazione Strutturale, ormai discussa e raccontata in molti contributi precedenti sul tema, e Khaty Steele, una delle teoriche di questo modello, ci ha guidato nel profondo della sua applicazione clinica.

Un aspetto importante che segue la fase diagnostica, molto ben approfondita durante la passata edizione con Suzette Boon, è proprio la definizione della prognosi e degli elementi da valutare per concordare obiettivi possibili di un trattamento e prevederne gli esiti. L’incapacità di realizzare alcuni aspetti di sé resta una caratteristica principale negli esiti clinici di situazioni traumatiche, insieme alla presenza di una discontinuità nella coscienza di sé e della propria storia. Tutto questo si traduce in sintomi di “non-realizzazione” che possono riguardare aspetti cognitivi, affettivi, comportamentali e corporei, che trovano diverse manifestazioni all’interno della terapia e che vanno tutte indagate e affrontate sin dalle primissime fasi.

I primi aspetti prognostici sono legati a capacità metacognitive di base del paziente: capacità di condividere pensieri e sentimenti propri, tollerare e regolare emozioni, poter riflettere sui propri stati interni e buona motivazione al cambiamento. Nella capacità di riconoscere e tollerare emozioni è molto importante per una buona prognosi la capacità di godere pienamente di emozioni ed esperienze positive, spesso compromessa in storie di traumatizzazione precoce e/o ripetuta nel tempo. Altri aspetti prognostici specifici legati all’esperienza interna di “frammentazione” e non-integrazione sono: la presenza o meno di compassione e affetto verso alcune parti di sé (parti aggressive, parti bambine, parti vittime, parti felici), l’investimento della persona nel tentare di tenere queste parti divise, perché percepite come pericolose, disgustose, da proteggere, da evitare o da eliminare, e ancora la compatibilità o meno di alcuni obiettivi terapeutici rispetto alle esigenze delle diverse parti.

Nell’approfondire questi aspetti il principio fondamentale da tenere sempre vivo nel lavoro è che le parti funzionano come un sistema complesso, in cui ognuna ha un ruolo determinante e specifico nel mantenimento dello status quo interno: prima di lavorare con le parti è necessario dunque non solo scoprire la loro esistenza, ma soprattutto individuare il perché della loro permanenza nel sistema. Una struttura dissociativa è un sistema rigido e finalizzato a mantenere a suo modo un equilibrio interno sufficiente a sopravvivere, dunque ogni cambiamento può essere percepito come molto pericoloso, intollerabile, inutile.

Ultimi ma non meno importanti fattori prognostici sono infine le previsioni negative legate alla possibilità di un cambiamento attraverso la terapia. Resta indispensabile anche su questo aspetto un lavoro di condivisione profonda che muova sempre all’interno della Finestra di Tolleranza Emotiva del paziente e della sua capacità di sperimentare cosa funziona e cosa non funziona all’interno del suo sistema. Lavorare con le parti all’interno di questa cornice teorica spesso non vuol dire lavorare subito sul trauma, ma vuol dire – come per molti altri modelli di trattamento – occuparsi innanzitutto delle condizioni correlate (ES: attacchi di panico, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, somatizzazioni,…) comprendendone l’esordio, i fattori scatenanti e i trigger attuali che le riattivano.

In presenza di un disturbo dissociativo di media o grave entità si possono trattare i sintomi in comorbilità con tutti i trattamenti di prima linea che attualmente esistono in letteratura (CBT, DBT, Psicoeducazione), tranne i programmi comportamentali di esposizione diretta, che potrebbero invece peggiorare la sintomatologia dissociativa. Pur non lavorando direttamente sul trauma è utile tuttavia anche in queste prime fasi di lavoro sui sintomi attuali, iniziare ad indagare il sistema interno e verificare se alcuni dei sintomi in comorbilità siano una manifestazione esterna di una struttura interna. Un esempio concreto: un comportamento compulsivo (controllare sempre che tutte le porte abbiano fatto due giri di chiave) di un paziente adulto con DOC e una storia di abuso, potrebbe essere riconducibile alla riattualizzazione di un comportamento legato al trauma vissuto nel passato (evitare che qualcuno entri nella sua stanza di notte e che abusi di lui), che era funzionale allora, ma che perde di senso nel presente, restando solo sintomo, cioè un comportamento inadeguato e non più funzionale.

In questo caso lavorare sul trauma può essere efficace nell’eliminare la necessità di quel comportamento, mentre una esposizione progressiva allo stimolo temuto può alimentare sentimenti di terrore e impotenza della parte traumatizzata e peggiorare i sintomi dissociativi. Diverso sarebbe lavorare su un disturbo ossessivo-compulsivo che non presenti questa storia traumatica e questa eziologia del sintomo.

In conclusione secondo Khaty Steele i principi del trattamento su pazienti dissociativi dovrebbero essere:
– utilizzare il livello di funzionamento nella vita quotidiana come indicatore del progresso;
– chiarificare sempre quello che il paziente vuole dire, verificando il significato interno delle sue parole;
– fissare confini saldi e mantenerli dentro una cornice chiara a noi e al paziente;
– restare focalizzati sul processo in corso;
– non allearsi solo o troppo con alcune parti a scapito di altre;
– non assecondare i bisogni disfunzionali di accudimento delle parti bambine che chiedono dipendenza;
– riparare ai propri errori se ci si scopre in un comportamento difensivo;
– lavorare CON le resistenze del paziente e non contro di esse;
– fare attenzione alla trance-condivisa, che può portare terapeuta e paziente in stati di non-realizzazione comuni.

La Steele ci ricorda con grande umiltà che non ci sono terapie e soluzioni perfette, ma che per lavorare sull’integrazione in psicoterapia bisogna restare presenti e consapevoli del processo in corso, capaci di viverlo ed osservarlo contemporaneamente, capaci di restare aperti a tutto quello che succede senza giudizio, né urgenza di cambiamento.
Non esiste una strada, la strada si fa camminando!

LEGGI ANCHE: Intervista a Kathy Steele, Nuove Frontiere nella cura del Trauma 2015

 

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Convegno Nuove Frontiere nella Cura del Trauma 2015 

Conoscere la teoria per andare oltre. Questo il messaggio più forte che ci invia Kathy Steele.

Da teorica della Dissociazione Strutturale, la Steele ci chiede quest’anno un lavoro diverso dal solito: tornare dal modello teorico alla nostra esperienza emotiva dentro la terapia, condividere con lei la cornice per poi dimenticarla e porci davvero in ascolto di quello che succede. Il rischio di rimanere troppo affezionati ad un modello e di ricondurre a questo la complessità dell’essere umano è troppo alto e valutare questo rischio resta l’aspetto centrale di tutto il suo intervento nelle tre giornate. La tendenza di noi clinici a differenziare e caratterizzare troppo le “parti” del paziente, dando loro un nome (ANP, EP, Stati dell’Io, Personalità), una gerarchia, un ruolo nel funzionamento mentale, può farci perdere l’essenza stessa del nostro lavoro: mantenere una buona sintonizzazione affettiva con l’intera persona.

Questo processo secondo la Steele non solo rischia di essere inefficace, ma se usato in modo estremo e rigido può alimentare la divisione, o se preferite la “dissociazione”, tra le diverse parti e far dimenticare l’obiettivo ultimo e più importante di questa eccellente concettualizzazione: conoscere le parti per favorire una migliore integrazione tra quelle in conflitto.

Kathy Steele insomma ci ricorda che il Modello della Dissociazione Strutturale è un buon modello teorico per descrivere alcuni aspetti del funzionamento della mente, soprattutto in pazienti con storie traumatiche complesse in cui le difficoltà di integrazione producono gravi alterazioni nella costruzione di un senso del sé coeso e integrato, ma ci ricorda a chiarissime lettere che il suo stesso modello – come tutti gli altri – può costituire un grande ostacolo alle possibilità di accedere all’esperienza umana di chi abbiamo di fronte.

E’ con ammirevole senso di responsabilità e umiltà che Kathy ci ricorda di restare critici verso le proprie conoscenze, di avere il coraggio di osservare il processo terapeutico in corso senza pre-giudizio e di cercare possibili soluzioni all’interno – e non all’esterno! – di questo processo.
Alle parole di Kathy Steele l’essenza dei suoi insegnamenti.

 

CM: Quello che ho trovato molto interessante quest’anno è stato il monito di tornare alle origini del ruolo del terapeuta e di non fermarci all’apprendimento delle tecniche, dei protocolli e delle teorie. In un mondo in cui si cerca sempre più l’evidence based, la validità scientifica e la ripetibilità dei risultati più efficaci, le chiedo di raccontarci, perché dal suo punto di vista è così importante andare oltre la teoria?

KS: Bene, avrei un paio di riflessioni su questo. Una è che la teoria è molto importante, ma penso che dovrebbe restare uno sfondo, una sorta di “aria che respiriamo”. Non la si vede, non la si sente, ma dà continuamente vita a quello che si fa. Ma allo stesso tempo la teoria ha dei limiti, inclusa la mia stessa teoria, e questo limite viene alla luce tutte le volte in cui ci troviamo ad osservare qualunque fenomeno. Penso che gli esseri umani siano così complessi e diversi tra loro, che nessuna teoria, nessuna tecnica e nessun approccio possa essere sufficiente a spiegare l’intera condizione umana. Perciò credo che curiosità, compassione, interesse e apertura autentica all’esperienza dell’altro, siano innanzitutto parte dell’essere umano. Il nostro lavoro non è molto diverso da quello che facciamo là fuori nel “mondo reale”, ma lo facciamo solo con più intensità. Una seconda considerazione è che più faccio il mio lavoro – e sono ormai 30 anni di esperienza – più mi rendo conto che quando ascolto profondamente l’altro riesco a trovare risposte sempre nuove, che sono diverse per ogni persona e non adatte a nessun altro. Perciò le tecniche terapeutiche sono valide e utili per una sorta di “categorie di base” di problemi, mentre le risposte nuove possono essere più efficaci e utili da integrare per ognuno in modo differente dagli altri. La maggior parte dei nostri problemi di salute hanno a che fare con problemi legati alla nostra stessa condizione di esseri umani e nessun modello da solo può bastare a mettere tutto a posto. Il mio pensiero è che ci sia un nostro sé profondamente umano, incapsulato dentro il nostro sé terapeuta, e che sia soprattutto questo il più importante fattore di cura.

CM: Durante il lavoro di role playing di questi giorni, ho notato l’utilizzo della “curiosità” come una vera e propria tecnica, efficace soprattutto per uscire da situazioni cliniche complesse o in presenza di conflitti tra parti. E’ così?

KS: Si, ma non è solo curiosità. E’ soprattutto la curiosità unita alla collaborazione. L’obiettivo che mi guida è che io in quel momento di difficoltà voglio davvero sapere cosa il paziente sta sperimentando e pensando all’interno, per poterci poi lavorare insieme fuori. Il mio lavoro non è quello di risolvere i problemi, quello che succede nella mente del paziente deve diventare un nostro problema da risolvere insieme. E se davvero mi capita di non sapere in che direzione andare o al paziente capita di non sapere che strada prendere, avremo bisogno di parlare di questo e restare aperti e curiosi nel cercare cos’altro nella sua esperienza o nella mia esperienza ci possa dare un aiuto per andare avanti alla prossima mano e al prossimo passo. Devo dire a onor del vero che non sono sempre curiosa! Qualche volta mi metto sulla difensiva e questo è normale per noi terapeuti perché è lì che ci porta il controtransfert. Ma il punto è accorgersi di questo, riconoscerlo ed essere capaci di tornare indietro a porsi di nuovo in una condizione di apertura e curiosità, per poi tornare a farlo ancora e ancora, tutte le volte che questo succede. Qualche volta è frustrante, ma è necessario osservarsi e riconoscere se stessi in questa altalena.
Credo che il modo migliore di usare tecniche e modelli sia soprattutto di restare aperti ai nostri errori, alla possibilità che i nostri tentativi non sempre funzionano e non solo perché non siamo buoni terapeuti, ma perché la condizione umana è troppo grande da comprendere. Perciò la terapia per me è soprattutto una serie di piccoli esperimenti condivisi tra me e i miei pazienti. Dobbiamo conoscere molte tecniche e molti strumenti di lavoro da poter utilizzare e proporre, ma non possiamo dimenticare che il processo che risulta è sempre una sorpresa! “Non c’è nessuna strada, la strada si crea camminando” e questa frase è una grande metafora dell’integrazione.

 

CM: Poiché il trauma ha ricevuto una crescente attenzione negli ultimi anni, guadagnando uno spazio importante anche nel nuovo DSM-5, mi piacerebbe chiederle come e se è cambiato il suo modo di fare diagnosi oggi?

KS: Personalmente non è cambiato molto, perché i criteri per i disturbi dissociativi sono rimasti praticamente invariati e ovviamente sono felice che siano rimasti lì dov’erano, subito dopo il PTSD. Riguardo al PTSD l’aspetto interessante e critico a mio avviso è che non sia stato inserito in questa edizione il PTSD Complesso tra le diagnosi, anche se posso comprendere alcune obiezioni fatte a tal proposito. Tuttavia penso sia importante l’aver almeno inserito un sottotipo Dissociativo di PTSD, anche se non sono completamente d’accordo con i criteri scelti. Credo che il DSM sia un modo per categorizzare e capire alcuni tipi di disturbi, che ha i suoi vantaggi e svantaggi – così come l’ICD-11. L’idea del DSM sarebbe quella di non rispondere a delle singole teorie, di essere ateorico, ma credo che l’idea sia buona, nel male!

CM: Cosa vede nel futuro? Quale sarà il suo ruolo in Europa nel portare l’attenzione del mondo scientifico sulla centralità del trauma nella diagnosi e nei protocolli di cura?

KS: Qualche giorno mi sento ottimista, qualche altro più pessimista. Nella mia vita professionale ho visto l’interesse per il trauma andare e venire. In alcuni momenti è stato più accettato, in altri meno, a volte si è stati troppo focalizzati sulle memorie traumatiche, a volte troppo poco e francamente non so cosa succederà nei prossimi anni. Al momento quello in cui ci impegneremo e che mi piacerebbe vedere sono training specifici in tutte le università e nei corsi di specializzazione post-laurea. Mi piacerebbe trovare fondi per offrire a queste persone un trattamento a lungo termine di cui avrebbero bisogno, perché sono pazienti che se trattati adeguatamente possono stare davvero molto meglio e non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Tuttavia è difficile e ci sono molti interessi in ballo. Alcune nazioni fanno meglio di altre, ma purtroppo ovunque occuparsi di questo tipo di problemi non è una grande priorità. Questo non è giusto, ma la nostra società funziona così. Vedo però che la rete italiana sul trauma cresce ogni anno sempre di più, che lavorare in questo ambito sta attirando e incuriosendo molte persone e soprattutto giovani che sono interessati a percorsi più mirati e rapidi. Tutto questo è molto positivo e credo che potrete ancora crescere molto!

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L’Italia che gioca d’azzardo: uno sguardo all’epidemiologia e alle caratteristiche cliniche del disturbo da gioco d’azzardo. Parte 1

Gianna Passalacqua

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale.

Riassunto

La febbre del gioco considerata per anni un semplice vizio è, in realtà, una vera e propria malattia, tanto da essere stata recentemente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale. Il GAP è comunque una patologia prevenibile, curabile e guaribile, che necessita di diagnosi precoce, cure specialistiche e adeguati supporti psicologici e sociali. 

Abstract

The fever of the game for years considered a simple habit is in fact a real illness so that it was recently listed in the Essential Levels of Care (LEA). The World Health Organization recognizes the pathological gambling as a morbid form clearly identified, that in the absence of appropriate measures of information and prevention, may be, because of its diffusion, authentic social disease. The GAP, it is still a disease preventable, treatable and curable, which requires early diagnosis, specialized care and appropriate psychological and social support. The article aims to describe a diagnostic pathway for the assessment and evaluation of psychological disorder gambling.

Key Word: Gambling, Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), DSM-5.

 

PARTE 1

Introduzione

In un periodo di grande disoccupazione, crisi finanziaria, mutui pluriennali, chi non vorrebbe coronare il grande sogno di vincere una casa? Sisal lancia il nuovo gioco Vinci Casa. Si inizia a sognare da svegli pagando semplicemente 5 euro! E poi… basta indovinare magicamente 5 numeri su 40, la probabilità di vincere al gioco Vinci Casa è di 1 su 658.008, è davvero un sogno! (Zinzi, 2015). Ma la vincita tanto bramata non arriva mai, e se arriva, non placa il desiderio di giocare e ri-giocare nuovamente (Laini, 2015)

Slot machine, video lottery, gratta e vinci, poker online e lotterie istantanee, sono centinaia le forme di gioco d’azzardo legalizzate in Italia. A disposizione di ogni cittadino italiano ci sono più slot machine che posti letto in ospedale.

Un dato allarmante, che negli ultimi anni ha contribuito all’impennata del numero di persone cadute nel vortice del gioco d’azzardo (Nardinocchi, 2014). Comincia così la testimonianza di Antonio, giocatore di azzardo patologico che ha perso tutti i suoi averi, alle slot e videolottery (Viscardi, 2013):

A volte ci parlavo con le slot, vedi a che livello ero arrivato 

Il gioco d’azzardo rientra nella categoria dei giochi di alea: esso si sostanzia nello scommettere denaro o altri beni di valore su un evento ad esito incerto, in cui il caso, in grado variabile determina tale esito (Leone, 2009; Filippi e Breveglieri, 2010).

Caratteristica peculiare di questo tipo di gioco è dunque il fatto che l’abilità del giocatore è ininfluente nella determinazione del risultato del gioco; poichè egli non cerca di vincere su di un avversario, bensì sul caso. Benchè la maggior parte dei giocatori d’azzardo descrivano la loro attività come una piacevole forma di passatempo o come un’innocente distrazione dalla routine quotidiana, senza alcuna conseguenza sfavorevole, alcuni di essi arrivano a sviluppare forme patologiche di gioco, che provocano gravi conseguenze sul piano individuale, familiare, lavorativo e sociale.

Epidemiologia del Gioco d’Azzardo Patologico

Il mercato del gioco d’azzardo è un settore in costante evoluzione ed espansione, tanto che la quantità e l’offerta risultano sempre più ampie e diversificate.

I nuovi giochi d’azzardo (videopoker, slot-machine, bingo, giochi online) definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, decontestualizzato, globalizzato, con regole semplici e universalmente valide e pertanto ad alta soglia di accesso (Croce, 2001). Inoltre, si rivolgono a un pubblico generalmente lontano dai luoghi culto dell’azzardo: adolescenti, casalinghe, pensionati, bambini e interi nuclei familiari, che popolano le sale gioco infestate da slot-machine e videopoker o le affollate sale da bingo.

La preoccupazione principale è che tutto ciò possa creare nuove e pericolose forme di dipendenza (Lavanco e Varveri, 2005). La dimensione del fenomeno gioco d’azzardo in Italia è difficilmente stimabile, in quanto ad oggi non esistono studi accreditati, esaustivi e validamente rappresentativi del fenomeno (Serpelloni, 2013).

Secondo il Ministero della Salute in Italia il 54% della popolazione sarebbero giocatori d’azzardo. La stima dei giocatori problematici varierebbe dall’1,3 % al 3,8 % della popolazione generale, mentre la stima dei giocatori d’azzardo patologici varierebbe dallo 0,5 % al 2,2 % (Serpelloni e Rimondo, 2012).

Gioco d’Azzardo Patologico (GAP): caratteristiche cliniche e inquadramento nosografico

La febbre del gioco, considerata per anni un semplice vizio, è in realtà una vera e propria malattia (Zanda, 2002), tanto da essere stata recentemente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) (Ministero della Salute, 2013; Arrigone e Marino, 2014). Non più, quindi, peccatori destinati alla dannazione eterna o, nella migliore delle ipotesi alle sofferenze espiatorie del purgatorio, né criminali destinati ai tribunali o alle carceri ma malati, pazienti inseriti nei tortuosi circuiti dell’assistenza sanitaria (Pini, 2012). Il gioco d’azzardo patologico viene definito dall’ American Psychiatric Association (APA) come un comportamento persistente, ricorrente, e maladattivo di gioco, che compromette le attività personali, familiari o lavorative (APA, 1994). Recentemente la diagnosi di gioco d’azzardo patologico è andata incontro a sostanziali cambiamenti (Petry et al., 2013). Negli ultimi anni si è discusso, infatti, riguardo alla sua esatta collocazione e se, tale disturbo, debba essere effettivamente considerato un Disturbo del Controllo degli Impulsi, così come veniva classificato nel DSM-IV (Canuzzi, 2012).

Nella primavera del 2013, è stata pubblicata la V edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, che ha apportato dei sostanziali cambiamenti per la comprensione e la concettualizzazione del GAP (APA, 2014).

Classificazione

Rispetto al precedente DSM-IV il cambiamento più rilevante riguarda la classificazione diagnostica: il DSM-5 colloca il Disturbo da Gioco d’Azzardo Patologico (Gambling Disorders) nella categoria della Dipendenza, in una apposita sottocategoria Disturbo non Correlato all’Uso di Sostanze. Lo spostamento del Disturbo da Gioco d’Azzardo è l’espressione di un importante cambiamento diagnostico che evidenzia le analogie, confermate dalle evidenze scientifiche, tra il gambling e le dipendenze chimiche (Brunori et al., 2013). Nello specifico, i motivi che hanno indotto gli esperti ad includere il disturbo da gioco d’azzardo all’interno della categoria della dipendenza dipendono oltre che dall’efficacia di alcuni trattamenti in entrambi i disturbi (Upfold, 2009), anche dall’elevata percentuale di comorbilità riscontrata tra di essi (Hodgins et al., 2005; Moreyra et al., 2010) e dalle simili manifestazioni e categorizzazioni di alcuni sintomi (Petry et al., 2013). Il GAP e i disturbi da uso di sostanze condividono, infatti, molte caratteristiche, tanto che i criteri utilizzati per diagnosticarli sono del tutto simili: entrambi presentano tolleranza, craving ed astinenza, oltre ad un rilevante impatto sulla vita personale, familiare, sociale, finanziaria e legale del soggetto.

Denominazione

Un’ulteriore modifica apportata dal DSM-5 concerne la denominazione del disturbo. Gli esperti infatti hanno proposto di modificare la nomenclatura da Patological Gambling in Gambling Disorders. Il cambiamento non appare meramente linguistico e va nella stessa direzione dell’evoluzione dei disturbi da uso di sostanze. Il DSM-5, infatti, elimina qualsiasi distinzione tra diagnosi di abuso e dipedenza da sostanze, per unificarle in una sindrome alla quale viene assegnata un gradiente di gravità, sulla base del numero di criteri che sono soddisfatti nello specifico quadro clinico (Bellio, 2013). Gli studiosi, inoltre, sperano che questa nuova denominazione contribuisca a ridurre lo stigma e la condanna morale associata al termine patologico (Petry et al., 2013).

Criteri Diagnostici

Nel DSM-5 i criteri diagnostici per il Disturbo da Gioco d’Azzardo non hanno subito cambiamenti significativi sul piano qualitativo. La Task Force del DSM-5, tuttavia, ha optato per l’eliminazione del criterio degli atti antisociali: ha commesso atti illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo, dal momento che sembra non contribuire molto all’accuratezza e alla precisione diagnostica per l’identificazione della maggior parte dei giocatori patologici (Strong et al., 2007; Toce-Gerstein et al., 2003). Inoltre il DSM-5 classifica il disturbo in lieve (se sono soddisfatti 4-5 criteri), moderato (se sono soddisfatti 6-7 criteri), grave (se sono soddisfatti 8-9 criteri).

 

Anche in Italia, il Disturbo da Gioco d’Azzardo sta assumendo sempre più le caratteristiche di una vera e propria malattia sociale con costi insostenibili per milioni di cittadini. Il concetto di pericolosità insito nel gioco, non fa ancora parte del nostro patrimonio culturale, ciò provoca una sottostima del reale pericolo che rappresenta nella sua forma patologica.

FINE PRIMA PARTE

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Ringraziamenti

Si ringrazia il Dott. Corrado Amedeo Presti per la collaborazione nella stesura e la ricerca bibliografica. Inoltre si ringrazia la Dott.ssa Mariagrazia Occhipinti.

 

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Come diventare un malato di mente – Recensione del libro di José L. P. Abreu

José L. P. Abreu è uno psichiatra che, attraverso la pubblicazione del libro Come diventare un malato di mente ha creato un perfetto manuale per chi ha intenzione di intraprendere una carriera da fobico, ossessivo compulsivo, ecc.

José Luis Pio Abreu è uno psichiatra che da oltre 30 anni lavora presso l’ospedale Universitario di Coimbra, in Portogallo. Attraverso la pubblicazione del libro Come diventare un malato di mente ha creato un perfetto manuale per chi ha intenzione di intraprendere una carriera da fobico, ossessivo compulsivo, ecc.

Partendo dalle classificazioni proposte dal DSM IV, l’autore fornisce gli obiettivi da raggiungere per ogni patologia con una serie di consigli pratici, a metà tra rigore medico-scientifico e senso del paradosso, in modo da aderire perfettamente ai criteri diagnostici e diventare dei veri malati mentali.

Dal testo emerge quanto sia semplice e facile fingere una malattia psicologica,  tra tutte le patologie senza dubbio la più simulabile, tanto che l’autore porta a chiedersi se una cosa che riusciamo a inventare tanto semplicemente sia effettivamente una malattia.

Un libro ironico, divertente e provocatorio, che chiarisce al lettore che nell’inquietudine del vivere quotidiano tutti quanti sperimentiamo, in modo ridotto, gli aspetti sintomatici di tutte le sei patologie prese in esame e ci rendiamo conto che la differenza tra salute e patologia è nella quantità, più che nella qualità dei sintomi.

Abreu inoltre aggiunge:

ciò che mi fa più paura dei malati di mente è la loro mancanza di consapevolezza su quello che succede dentro di loro, ciò li porta a perdere la libertà di cambiare: continuano in ogni circostanza a fare sempre le stesse cose.

L’ultimo capitolo, che ha richiesto all’autore un impegno di sei mesi (per quelli precedenti ha lavorato 20 giorni), è dedicato a Come non essere un malato di mente, perché, dopo tutto, prevenire è meglio che curare. Abreu suggerisce delle semplici ricette per rimanere in buona salute, per essere semplicemente persone qualsiasi che accettano le sfide e i paradossi della vita e fanno il possibile in ogni momento per dare quello che possono e per agire insieme con gli altri.

In conclusione lo scrittore suggerisce che

dobbiamo comunque assumerci la completa responsabilità delle nostre azioni, sono in ogni caso d’accordo che tutto questo è molto complicato, poco gratificante e difficile da mettere in pratica. Di facile, c’è solo diventare un malato di mente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psiconcologia: affrontare la malattia oncologica

 Martina Lattanzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto Del Tronto

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”.

Il modo di reagire al proprio stato di salute o di malattia, così come lo sviluppo, il decorso e la prognosi stessa della malattia oncologica sono influenzati dall’interazione di diversi fattori: di tipo biologico, psicologico e sociale. Ogni paziente vive e affronta la malattia in modo soggettivo e unico: si attiva un processo di adattamento alla nuova condizione fisica, che comporta una trasformazione radicale nella vita del paziente.

La comunicazione della malattia tumorale rappresenta uno degli eventi più stressanti che alcune persone si trovano a dover affrontare nel corso della loro vita, un cambiamento non solo fisico ma anche mentale: cambia il modo di percepire e sentire il proprio corpo, cambia la percezione che si ha del mondo, cambiano le relazioni sociali e interpersonali. Si tratta di una fase molto delicata e difficile sia per il paziente che per i suoi familiari: di fronte alla parola “cancro” la primissima reazione è avvertire un senso di confusione, sbandamento, un vero e proprio shock. Il cancro è una parola che evoca emozioni angoscianti, rimanda a uno scenario altamente catastrofico nell’immaginario collettivo, ad una “condanna a morte”.

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”.

Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica, l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia. L’atteggiamento e lo stile di coping utilizzato andranno ad influenzare non solo la qualità di vita successiva alla diagnosi, ma anche la compliance ai trattamenti medici e il decorso biologico della malattia (Putton et al., 2011).

Vi sono infatti comportamenti più adattivi e altri meno adattivi nell’affrontare la propria condizione di salute.
Pilowsky (1978) parla di “comportamento abnorme di malattia” sottolineando come la percezione, la valutazione e di conseguenza i comportamenti attuati in relazione al proprio stato di salute possano essere inappropriati e maladattivi, nonostante ci sia stata da parte del medico una adeguata spiegazione sulla natura della malattia, e sia stato definito un adeguato percorso di cure, basandosi sugli aspetti biologici, psicologici, sociali e culturali. Il comportamento abnorme di malattia include sia condizioni caratterizzate da una affermazione della malattia, ad esempio l’ipocondria o i sintomi di conversione (Pilowsky, 1990), sia la minimizzazione o negazione dei sintomi (Pilowsky, 1978).

Il coping rappresenta una modalità cognitivo-comportamentale con il quale un individuo affronta un evento stressante e le sue conseguenze emozionali. La capacità di far fronte ad una crisi esistenziale dipende da diversi fattori: dal tipo di patologia (sintomi e decorso), dal livello di adattamento precedente alle situazioni di malattia, dal significato della minaccia esistenziale, da fattori culturali e religiosi, dall’assetto psicologico e dalla personalità, dall’istruzione e da eventuali disturbi psichiatrici presenti (Putton et al., 2011).

Tra i pazienti oncologici sono state rilevate diverse strategie di coping nell’affrontare lo stress legato alla malattia neoplastica. Le principali strategie individuate da Burgess (1988) sono:

Hopelessness/helplessness, caratterizzato da elevati livelli di ansia e di depressione, dall’incapacità di mettere in atto strategie cognitive finalizzate all’accettazione della diagnosi, dalla convinzione di un controllo esterno sulla malattia;

– Spirito combattivo, contraddistinto da moderati livelli di ansia e di depressione, da numerose risposte comportamentali attraverso le quali il paziente cerca di reagire positivamente e costruttivamente alla situazione, dalla convinzione di un controllo interno sulla malattia;

– Accettazione stoica, con bassi livelli di ansia e depressione, attitudine fatalistica, dalla convinzione di un controllo esterno della malattia;

– Negazione/evitamento, in cui appaiono del tutto assenti sia le manifestazioni ansioso-depressive, sia le strategie cognitive, nella convinzione da parte del paziente di un controllo sia interno che esterno della malattia.

La percezione del controllo che si ha sulla malattia o più in generale sugli eventi di vita stressanti è un fattore importante nel determinare lo “stile di coping” messo in atto e ha una grande influenza sulla salute e sul decorso della malattia. Le persone possono sentire di avere un controllo interno o esterno sugli eventi:

– I soggetti con un locus of control interno sentono di poter esercitare un controllo sugli eventi, credono in se stessi e in ciò che si prefiggono. Nei confronti delle malattie reagiscono in termini risolutivi e in prima persona, sono propositivi e collaborano con l’equipe medica. Sembra essere un fattore protettivo per la salute in generale e elemento positivo per il decorso della malattia.

– I soggetti con locus of control esterno reagiscono in modo passivo agli eventi, non si sentono responsabili né sentono di avere un controllo su quanto gli accade, tendono a dare la colpa agli altri. Questo atteggiamento sembra essere un fattore di rischio per la salute in generale e anche per il decorso delle malattie.

La percezione del controllo di un evento, insieme alla desiderabilità, sono quindi fattori fondamentali nella valutazione cognitiva di uno stressor: più gli eventi sono percepiti come indesiderabili e incontrollabili maggiore sarà la probabilità di percepire quell’evento come stressante e maggiori saranno le probabilità di ripercussioni negative sulla salute (Grandi et al., 2011).

Tra le strategie di coping maggiormente utilizzate dai pazienti oncologici nell’affrontare l’impatto emotivo della malattia, la negazione/evitamento si riscontra in modo rilevante proprio durante la fase diagnostica della malattia e risulta associata a bassi livelli di stress emozionale (Watson et al., 1984). La negazione di malattia è stata definita come un meccanismo di difesa che permette di prendere le distanze da una realtà minacciosa e preoccupante, “un rifiuto conscio o inconscio di una parte o di tutto il significato di un evento per allontanare la paura, l’ansia o altri affetti spiacevoli” (Hackett et al. 1968). Un paziente può negare la diagnosi, la prognosi o la gravità della malattia, oppure può ignorare o dimenticare quello che il medico gli ha riferito con la diagnosi, oppure rifiutare di aderire al trattamento proposto. Secondo Breznitz (1983) la negazione che si attiva in risposta ad uno stimolo minaccioso per la propria salute determina un certo grado di distorsione della realtà e può riguardare diversi aspetti o parti di essa.

Esistono quindi sette tipi di negazione che si articolano lungo un continuum graduale:

1. La negazione del significato personale della minaccia percepita;

2. la negazione dell’urgenza;

3. la negazione della vulnerabilità o della responsabilità;

4. la negazione delle emozioni correlate;

5. la negazione del significato affettivo;

6. la negazione della presenza di un’informazione minacciosa,

7. la negazione di ogni tipo di informazione.

Quale funzione ha la negazione di malattia sul decorso della patologia oncologica? Un aspetto molto interessante e dibattuto dagli studiosi riguarda il ruolo o la funzione che assume la negazione sul decorso dei disturbi medico-internistici in quanto a seconda della fase di sviluppo della malattia in cui si trova il paziente la negazione può avere un valore positivo o negativo, in relazione al contributo che può dare al miglioramento o al peggioramento della condizione medica. Dagli studi presenti in letteratura emerge come il meccanismo difensivo svolga un ruolo adattivo nelle fasi iniziali della malattia perché protegge il paziente dalla paura, dallo sconforto che si provano di fronte alla diagnosi medica.

In studi condotti su donne con cancro al seno si rileva un’associazione positiva tra la negazione degli effetti della malattia (ovvero tutti i cambiamenti e le conseguenze negative che comporta la malattia oncologica) e livelli inferiori di sofferenza emotiva (Meyerowitz et al., 1983) nonché minori livelli di ansia e disturbi dell’umore (Watson et al., 1984). La negazione quindi attraverso una “distorsione” della realtà, nascondendo a se stessi la presenza del cancro, aiuta a ridurre il senso di sopraffazione (Moyer et al., 1998), di disperazione, di paura, di impotenza che si provano al momento della diagnosi medica, contribuendo a preservare un’immagine positiva di sé e l’autostima (Livneh, 2009).

Se ci soffermiamo a pensare a quante volte ci è capitato nella vita quotidiana di rifiutare, negare una notizia, un’informazione o un evento che non avremmo mai voluto sapere nel tentativo di difenderci dalle emozioni negative e allontanare così dalla nostra coscienza un pensiero doloroso che ci crea sofferenza, possiamo effettivamente comprendere perché la negazione della malattia oncologica ha un effetto positivo sul benessere psicologico del paziente. Ma approfondendo ulteriormente tali studi emerge un altro dato interessante, ovvero la correlazione tra negazione di malattia e maggiore sopravvivenza tra i pazienti oncologici (Greer et al., 1979; Butow et al., 1999).

Nello studio longitudinale di Greer et al. (1990), condotto su donne con carcinoma mammario, ad un follow-up di 5, 10 e 15 anni, la negazione di malattia risulta essere la risposta psicologica che si associa ad una più lunga sopravvivenza e a meno recidive rispetto ad un atteggiamento di accettazione o di mancanza di speranza, che si associano invece ad una prognosi peggiore. Nello studio di Butow et al. (2000) le pazienti che utilizzano la negazione come strategia di difesa hanno un cancro meno aggressivo e meno grave con una minore probabilità di metastasi, sperimentano meno sintomi fisici e una migliore qualità della vita. Il motivo che spiega tale associazione rilevata non è però del tutto chiaro: tra le diverse ipotesi avanzate ve ne è una secondo la quale la negazione potrebbe avere un’influenza positiva in modo indiretto, ovvero negare di avere una malattia tumorale protegge il paziente dall’esperire sentimenti negativi di depressione o demoralizzazione, sentimenti che inficiano negativamente sulla prognosi della malattia (Fava et al., 2007). Di conseguenza le persone saranno anche più inclini ad instaurare relazioni interpersonali, a condividere e ricevere supporto sociale, fattori positivi di protezione non solo per la salute psichica ma anche per l’evoluzione della patologia oncologica (Butow et al. 2000; Brajkovic et al., 2013 ).

Gli studi sopra citati dimostrano quanto sia importante, nell’affrontare un percorso di riabilitazione oncologica, considerare non solo la condizione clinica del paziente ma anche i fattori psicologici, culturali e sociali che influenzano il decorso di un disturbo medico e contribuiscono in modo rilevante a determinarne l’evoluzione. Il modello biopsicosociale di Engel (1977) sottolinea l’importanza di superare la prospettiva strettamente medica e di considerare anche il ruolo degli eventi di vita stressanti, la vulnerabilità individuale alla malattia, il comportamento di malattia, le esperienze di vita, il modo di percepire, valutare e rispondere al proprio stato di salute. Bisogna anche sottolineare che il meccanismo difensivo della negazione in alcuni casi può determinare la messa in atto di comportamenti e atteggiamenti che vanno a peggiorare la condizione di salute: trascurare i sintomi e il loro significato, non rispettare l’aderenza alle terapie mediche, ritardare nel tempo la consultazione medica rendono più sfavorevole la prognosi della malattia oncologica (Wool et al., 1986).

La tempestività della diagnosi di cancro e la compliance (aderenza) al trattamento medico sono determinanti nell’aumentare le probabilità di una risoluzione positiva della malattia oncologica, per questo è necessario assistere psicologicamente il paziente sin dal momento della diagnosi, come già si sta facendo in diversi ospedali italiani dove sono presenti psicologi che affiancano il medico.

La negazione o il diniego potrebbero compromettere l’aderenza del paziente alle prescrizioni mediche, ai farmaci, agli esami di laboratorio, ai controlli clinici e tutto ciò ha un a grande rilevanza clinica: la paura, le pressioni sociali, il senso di responsabilità ma anche la cultura di appartenenza sono tutti fattori che potrebbero essere collegati con la negazione di malattia (Phelan et al., 1992).

Cosa può fare lo psicologo per aiutare il paziente ad affrontare la malattia? La “sindrome psiconeoplastica” (Guarino, 1994) riguarda una serie di dinamiche psicologiche profonde, scaturite dalla diagnosi di cancro, e può presentarsi come una costellazione di sintomi psicopatologici la cui intensità dipende dall’interazione di diversi fattori: la personalità del paziente, le esperienze passate, l’età, le relazioni interpersonali presenti e passate, la presenza di un contesto sociale e familiare supportivo, la gravità e il tipo di tumore stesso. I sintomi psicopatologici maggiormente presenti, come precedentemente visto sono: senso di paura e stress, ansia, depressione, alterazione immagine di sé e del corpo, aggressività, rabbia, ostilità, senso di colpa, di invidia, di ingiustizia e uso massiccio del meccanismo di difesa della negazione e rimozione.

Lo psicologo clinico può fare molto all’interno dell’équipe medica riconoscendo i bisogni del paziente e aiutandolo ad affrontare il grande percorso di cambiamento fisico e psicologico che dovrà inevitabilmente affrontare con la malattia (www.psiconcologia.info). In una prima fase di  sostegno psicologico il paziente viene aiutato a elaborare il trauma conseguente alla diagnosi di tumore e a sostenere il “peso della malattia”:

– contenere l’ansia e le emozioni negative mantenendo un equilibrio psicologico;

– mobilitare meccanismi di difesa adeguati;

– favorire la comunicazione e l’espressione delle emozioni negative.

Il modo migliore di aiutare il paziente ad affrontare e superare lo shock iniziale sarà quello di rispettare i tempi soggettivi di accettazione della diagnosi medica, sostenendo e accogliendo le paure, i timore, i dubbi iniziali del paziente. Ogni persona ha un proprio modo di reagire e affrontare la malattia che deve essere compreso e rispettato lungo tutto il percorso di cura, in quanto l’adattamento alla malattia richiede tempo e risorse personali. Il paziente una volta superata la fase iniziale di disorientamento potrà avviare un percorso di elaborazione/integrazione della malattia nella propria esperienza di vita, fino ad arrivare ad una piena consapevolezza e accettazione della patologia.

In questa fase lo psicologo potrà aiutare il paziente a gestire la malattia, a incoraggiare l’espressione e la comunicazione delle emozioni coinvolgendo anche i familiari, a sviluppare modalità più adattive di affrontare la malattia, a dare un senso a quanto accaduto, a ridare un senso di speranza e ottimismo verso il futuro.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Butow, P. N., Coates, A. S., e Dunn, S. M. (1999). Psychosocial predictors of survival in metastatic melanoma. Journal of Clinical Oncology, 17, 2256-2256.
  • Butow, P. N., Coates, A. S., e Dunn, S. M. (2000). Psychosocial predictors of survival: metastatic breast cancer. Annals of Oncology, 11, 469-474.
  • Brajkovic, L., Bras, M., Djordjevic, V., e Radic, I. (2013). Breast cancer: quality of life and importance of psychological support-Croatian sample. Psychotherapy and Psychosomatics, 82, 13-14.
  • Fava, G. A., Fabbri, S., Sirri, L., e Wise, T. N. (2007). Psychological factors affecting medical condition: a new proposal for DSM-V. Psychosomatics, 48, 103-111.
  • Grandi, S., Rafanelli, C., e Fava, G. A. (2011). Manuale di Psicosomatica. Roma: Il Pensiero Scientifico.
  • Greer, S., Morris, T., e Pettingale, K. W. (1979). Psychological response to breast cancer: effect on outcome. The Lancet, 314, 785-787.
  • Greer, S., Morris, T., Pettingale, K. W., e Haybittle, J. L. (1990). Psychological response to breast cancer and 15-year outcome. The Lancet, 335, 49-50.
  • Hackett, T. P., Cassem, N. H., e Wishnie, H. A. (1968). The coronary-care unit: an appraisal of its psychologic hazards. The New England Journal of Medicine, 279, 1365-1370.
  • Livneh, H. (2009). Denial of Chronic Illness and Disability Part I. Theoretical, Functional, and Dynamic Perspectives. Rehabilitation Counseling Bulletin, 52, 225-236.
  • Meyerowitz, B. E., Watkins, I. K., e Sparks, F. C. (1983). Psychosocial implications of adjuvant chemotherapy. A two‐year follow‐up. Cancer, 52, 1541-1545.
  • Moyer, A., e Levine, E. G. (1998). Clarification of the conceptualization and measurement of denial in psychosocial oncology research. Annals of Behavioral Medicine, 20, 149-160.
  • Phelan, M., Dobbs, J., e David, A. S. (1992). ‘I thought it would go away’: patient denial in breast cancer. Journal of the Royal Society of Medicine, 85, 206-207.
  • Pilowsky, I. (1978). A general classification of abnormal illness behaviours. British Journal of Medical Psychology, 51, 131-137.
  • Pilowsky, I. (1990). The concept of abnormal illness behavior. Psychosomatics, 31, 207-213.
  • Putton, A., & Fortugno, M. (2011). Affrontare la vita. Roma: Carocci.
  • Sarno, P. (2009). La sindrome neoplastica. Prevenzione Tumori, 6/7. Consultato il 23 marzo 2015, su http://www.prevenzionetumori.it/
  • Watson, M., Greer, S., Blake, S., e Shrapnell, K. (1984). Reaction to a diagnosis of breast cancer relationship between denial, delay and rates of psychological morbidity. Cancer, 53, 2008-2012.
  • Wool, M. S. (1986). Extreme denial in breast cancer patients and capacity for object relations. Psychotherapy and Psychosomatics, 46, 196-204.

Affidamento congiunto o esclusivo? Conseguenze psicosomatiche nei bambini

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

La separazione dei genitori e il divorzio sono legati al rischio di problemi psicosomatici per i bambini, ma l’affidamento congiunto sembra essere meno problematico della custodia esclusiva.

Precedenti ricerche hanno suggerito che i bambini con genitori separati fossero più soggetti a problemi emozionali e comportamentali di quelli che abitano invece a casa con entrambi i genitori.

Ricercatori svedesi hanno utilizzato i dati di un sondaggio nazionale di ragazzi svedesi da 12 ai 15 anni nel tentativo di scoprire se la situazione familiare dei bambini fosse correlata con problemi psicosomatici.

Sono stati confrontati bambini che vivevano principalmente con un genitore, bambini che dividevano il loro tempo tra i due genitori in una custodia congiunta e bambini con un nucleo familiare unito.
La prevalenza di problemi psicosomatici è stata valutata per 6 mesi attraverso la Psychosomatic Problems Scale concentrandosi sui sintomi: difficoltà a dormire, mal di stomaco, mal di testa, sensazioni di tensione, tristezza, capogiri e perdita dell’appetito.
Ai ragazzi veniva anche chiesto se riuscivano a parlare facilmente ai propri genitori quando ne avevano bisogno e se avevano abbastanza soldi per fare le stesse cose che facevano i loro amici.

I ragazzi che vivevano con un unico genitore hanno riportato maggiori problemi, in tutte le variabili psicosomatiche. Anche quelli con affidamento congiunto avevano percentuali maggiori rispetto a quelli che vivevano con entrambi i genitori ma con valori inferiori a quelli con affidamento esclusivo.

Partendo dal presupposto che i sintomi psicosomatici siano legati allo stress i risultati dimostrano che il potenziale stress di vivere in due case differenti e quindi di abituarsi a due quartieri diversi e due climi familiari differenti venga controbilanciato da effetti positivi nel mantenere contatti con entrambi i genitori. Anche nelle interviste i bambini hanno dimostrato un certo fastidio e stress dato dalla situazione che si crea in un affidamento congiunto ma hanno dato comunque una maggiore importanza al mantenere dei rapporti stretti con i genitori. Infatti i bambini di questo gruppo erano solo leggermente meno soddisfatti del rapporto con i genitori del gruppo con i genitori non separati.

Considerato che negli ultimi vent’anni le separazioni genitoriali sono sempre più frequenti, è importante valutare le conseguenze di questo fenomeno nei bambini e nei ragazzi. Valutando le risposte dei ragazzi con genitori separati e i loro livelli di sintomi psicosomatici l’affidamento congiunto risulta essere la soluzione migliore.

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BIBLIOGRAFIA:

La psicologia dei campioni…omaggio!

Passeggiate per un centro commerciale e trovate il promoter di turno che vi propone di prendere un campione dell’ultima crema viso in commercio o un assaggio del formaggio appena tagliato, come reagite?

Le reazioni possono essere diverse: dai più timidi che provano vergogna nell’appropriarsi gratis di qualcosa, ai timorosi di eventuali obblighi d’acquisto che scansano il promoter quasi fosse un appestato di manzoniana memoria, a quelli più spavaldi che riforniscono di campioni omaggio non solo se stessi ma anche il loro amici più timidi di cui sopra.

Ma perchè numerose aziende prevedono, come strategia fondamentale di marketing, la distribuzione di campioni omaggio gratuiti? e cosa succede al cliente che vede offrirsi tali campioni?

Alla luce di uno studio condotto nel 2011 e pubblicato sul British Food Journal, i rivenditori hanno le loro ragioni sia economiche che psicologiche per distribuire prodotti gratuitamente. Sembra che tale pratica abbia non solo effetti sui guadagni, ma anche effetti sulla psicologia sul cliente che si sente più portato a comprare il prodotto, in quanto in debito con chi gliel’ha offerto.

Il risultato? Un aumento vertigionoso delle vendite. Vi invitiamo alla lettura dell’articolo consigliato e, qualora foste tra quei clienti timidi che evitano prontamente gli assaggi gratuiti, non pensateci su e prendete pure l’omaggio…in fin dei conti lo fate anche per il bene dell’economia!

 

People love free, people love food, and thus, people love free food. Retailers, too, have their own reasons to love sampling, from the financial (samples have boosted sales in some cases by as much as 2,000 percent) to the behavioral (they can sway people to habitually buy things that they never used to purchase).

La psicologia dei campioni…omaggio!Consigliato dalla Redazione

La psicologia dei campioni...omaggio! - Immagine: 31429901
Perché le grandi aziende puntano sulla distribuzione di campioni omaggio? Cosa accade a livello psicologico al cliente che riceve il campione? Psicologia e marketing si incontrano. (…)

Tratto da: The Atlantic

 

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Tradimento e amore romantico – Tracce del tradimento Nr. 09

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOIX: Tradimento e amore romantico

 

Proseguiamo la nostra esplorazione della gelosia e del tradimento. Chi tradisce è alla ricerca della passione. Chi cerca tracce di tradimento lo fa per gelosia, per non investire in un partner che lo inganna. E fin qui questa gelosia sembra ragionevole e prudente. La ricerca diventa inspiegabile quando si continua a cercare nonostante non ci siano indizi e nonostante tutte le ricerche diano esito negativo, come se si fosse guidati dalla incrollabile e talvolta delirante certezza che indubitabilmente l’altro non può davvero amare.

 

Carolina aveva ormai cresciuto i suoi due figli con il compagno di sempre, un ragazzo, ormai uomo, che era stato un ottimo amico e compagno di strada, dedito, pur con qualche bizza, come il fatto di volere andare sempre a pesca di lucci la domenica. Affettuoso con i figli, presente, continuava a dirle che le voleva bene e che la trovava ancora carina e attraente. Carolina però in quel momento della vita si sentiva angosciata, storta, insoddisfatta. Le sembrava che le cose si fossero messe in un modo stabile e poco soddisfacente, la carriera nel suo ufficio non procedeva come avrebbe voluto, l’assenza dei figli da casa cominciava a pesare, e gli anni passavano in un modo veloce e troppo uguale. Il capufficio si presentò come un evento fulminante e improvviso, inaspettato e del tutto imprevedibile, era bastato uno sguardo, una sera che si stava fino a tardi a finire un bilancio da chiudere. A Carolina sembrò che la sua vita si rompesse, iniziò a essere ossessionata da quel pensiero quelle immagini di lui che interrompevano continuamente il pacifico flusso delle sue pratiche di vita quotidiane. Le cose della vita che prima la soddisfacevano erano divenute insipide e senza senso. Quando il capufficio si fece avanti le sembrò che potesse avverarsi un sogno di vita diversa, più larga, più allegra. Senza nessuna rete, si gettò in una storia difficile senza proteggere il largo spazio vitale che in venti anni di matrimonio aveva costruito. Le cose andarono come dovevano. Il capufficio era sposato e si impaurì non poco di questa reazione eccessiva a quella che avrebbe voluto confinare in una avventura sessuale con una donna simpatica e capace. All’inizio, questo innamoramento folle lo divertì e lo fece sentire bene ma molto presto di fronte alle richieste di vicinanza di lei, valutò che i rischi erano esagerati e non volendo mettere in crisi il suo matrimonio si tirò indietro dicendole che non la meritava.

Carolina cominciò a perseguitarlo, ad aspettarlo sotto casa, a lasciare tracce di telefonate e di lettere in casa, fino a quando il marito preoccupato e finalmente insospettito la seguì e la mise alle strette. La donna non ebbe la capacità strategica di negare la storia e disperata si rivolse a un terapeuta per capire bene cosa fare della sua vita. Il marito deluso e completamente sfiduciato si trasformò. Cominciò a uscire di casa la sera e in pochi mesi annunciò alla moglie che non aveva più desiderio di rimanere con lei lasciandola e andando a vivere da solo, mentre iniziava una storia con una donna più giovane. Dopo un periodo di disperazione e dopo essere uscita dall’ossessione amorosa che la aveva rapita e confusa, la donna cominciò a rendersi conto in modo realistico delle difficoltà della sua vita, del futuro che vedeva in modo oscuro e senza speranze, ebbe una serie di periodi depressivi che affrontò con coraggio e vogliosa di capire i movimenti affettivi che la avevano condotto in questa situazione. Solo alcuni anni dopo, di nuovo in equilibrio, e ormai quarantacinquenne, trovò vicino un amico vedovo che aveva desiderio di iniziare una nuova vita accanto a lei. In modo tranquillo e affettivo si lasciò andare al sentimento quotidiano di calore e solidarietà che alcuni anni prima aveva abbandonato senza alcuna consapevolezza.

 

L’amore passionale è stato al centro di larga parte della letteratura dai primi greci ai romantici. La sensibilità romantica ha influenzato il nostro modo attuale di intendere l’amore rendendo impossibile l’idea dei matrimoni combinati e non fondati sulla reciproca scelta passionale (che peraltro sembra funzionassero non molto peggio dei nostri liberamente e emotivamente scelti). La letteratura, non solo romantica, è piena di passioni dolorose e ostacolate, da Shakespeare a Goethe, da Tristano e Isotta a Proust .

Della letteratura sulla sofferenza dell’impossibilità di ottenere l’oggetto amato il dongiovannismo rappresenta la parte tecnica, collezionistica, emotivamente consapevole, melanconica e algida. Esso è caratteristico dell’animo maschile, è l’essenza dello stato di inquietudine e insoddisfazione che è alla base della passione amorosa ed è ben descritta nel libro di Citati che del dongiovannismo fa una erudita e attenta disamina:

..non voglio che il mio dongiovanni abbia ad essere un libertino dal sangue acceso eternamente a caccia di femmine. È in lui una Sehnsucht; quella di trovare la donna che sia l’incarnazione totale della femminilità: che gli consenta di godere nell’unica tutte le donne, delle quali gli è vietato singolarmente il possesso. Ma poiché passando dall’una all’altra come ebbro, lo coglie il disgusto. E il disgusto è alla fine, il demonio che se lo porta via…

e ancora…tende già dall’inizio a un assoluto che non coglierà. Egli beve nella stessa coppa del piacere gocce amare, cova voluttuosamente la sua tristezza. Ama la conquista, ma assai più il distacco, sempre invocando una voluttà suprema che non giunge: “si uniscono più dolcemente“ dice una volta ”le labbra già pronte a staccarsi”. E il presentimento della separazione da all’amore il suo fascino…

 

Il don Giovanni nasce in epoche di grandi rigidità morali dove alle donne era prescritta rigidamente la forma e le regole che doveva assumere il sentimento. L’incarnazione in un uomo dell’insoddisfazione può oggi leggersi in modo più vasto e non relegata al solo sesso maschile.

Il problema sembra essere più in generale, non è tanto il perfezionismo e il collezionismo dell’uomo, ma l’impossibilità della passione in una relazione in cui non vi sia una minaccia di abbandono.

GUARDA: Come NON smettere di fare sesso – VIDEO –

Questo è ben raccontato in un bel libro di Cohen, (Bella del Signore) dove una coppia perfetta, una donna e un uomo ideali e perfettamente innamorati, scadono pian piano in una aridità e in uno svuotamento sentimentale ineluttabile e mortifero, che era già nelle premesse della loro vicenda. Qualcosa di estremamente simile celebra magistralmente Gaber nella canzone “Il Dilemma”, dove canta a proposito di una coppia perfetta che vede spegnersi la passione e insinuarsi uno sciocco e banale tradimento

il loro amore moriva come quello di tutti, perché morire e far morire è una antica usanza che suole aver la gente”.

 

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GELOSIASESSO & SESSUALITA’

 RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La mamma è sempre la mamma, ma da sola non può farcela!

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 10/05/2015

Con la teoria dell’attaccamento, che è diventata in breve dominante, la madre diventa il soggetto essenziale e unico. La famiglia a due genitori inizia a vacillare.

La mamma è sempre la mamma. Perfino la psicoanalisi ne ha preso atto, dopo aver privilegiato inizialmente il padre. Il primo modello freudiano, come molti di noi sanno, proponeva che lo sviluppo di una psiche matura e stabile dipendesse da uno scontro di personalità tra i figli che devono conquistare l’autonomia e il padre che deve imporre e trasmettere la Legge morale prima di aprire i cancelli della libertà.

Questo modello è durato fino agli anni ’60, decennio spartiacque. In quegli anni di rivoluzione sociale e culturale, nelle scienze psicologiche il conflitto edipico tra padri e figli fu lentamente sostituito da uno scenario più sentimentale e tranquillo, la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento soprattutto materni prendevano il posto della rivalità con il padre.

Fu Donald Winnicott il principale autore di questa svolta. In seguito John Bowlby diede una conferma empirica al nuovo modello materno-centrico. Non si pensava più che lo sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Si trattava di un profondo cambiamento culturale. La severa Torah freudiana era stata sostituita dai Vangeli amorevoli di Winnicott e Bowlby, e un gentile culto mariano subentrava alle tragedie arcaiche. E anche il copione psicoterapeutico cambiò. Non si trattava più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali edipiche, ma di vivere una relazione tra paziente e terapeuta meno tragica e più gentile e cortese, sia pure con le sue puntate drammatiche.

L’inconscio assoluto sembrava svanire, per essere sostituito da un vaporoso stato di semi-coscienza e semi-incoscienza onnicomprensiva. Diventava centrale soprattutto l’affetto trasmesso, il calore e la protezione, la vicinanza sentimentale e continua, l’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre.

Il ruolo del padre veniva così decostruito con successo mentre la mamma diventava sempre più la mamma, perfino nei severi paesi nordici. Nel 1999 Silverstein e Auerbach pubblicarono un articolo diventato famoso sulla prestigiosa American Psychologist, articolo intitolato “Deconstructing the Essential Father”. Anche Silverstein e Auerbach notavano che il processo di svalutazione del ruolo del padre nel processo di crescita dei bambini era iniziato dagli anni ’60, il decennio decisivo della secolarizzazione di massa in Occidente.

Come ho già scritto, da quel decennio in poi molti teorici della psicoanalisi e della psicologia scientifica avevano messo da parte la centralità del confronto padre-figlio e la terribilità del conflitto edipico e lo avevano sostituito con lo scenario più morbido e adrammatico, più sentimentale e senza scosse della cosiddetta relazione di attaccamento tra madri e figli. Con la teoria dell’attaccamento, che è diventata in breve dominante, la madre diventa il soggetto essenziale e unico. La famiglia a due genitori inizia a vacillare.

Altri dati a favore della centralità della madre provengono dalla teoria evoluzionista darwiniana. Darwin e i suoi seguaci più recenti fino a Richard Dawkins sostengono che mentre il maschio sarebbe evolutivamente spinto a fecondare quante più femmine può (e quindi investe sul numero e non sulla qualità della relazione con una prole amata e protetta per diffondere i propri geni) la femmina invece punta le sue carte su pochi figli e figlie allevate e amate con cura e dedizione, seguite finché non conquistano l’autonomia. Di qui scaturirebbe darwinianamente la potenza dell’amore materno, di qui l’attaccamento profondo, violento e terribile della madre ai figli.

D’altro canto, poiché anche nella scienza sembra spesso valere il detto che ci sono buoni argomenti per ogni conclusione, molti studi finiscono anche per rivalutare la figura del padre. Inoltre, il possibile rischio della linea di pensiero che privilegia la madre è che così si finisca per propagandare una differenza strutturale tra genere maschile e femminile che suggerisca che le donne dovrebbero tornare a badare figli e fornelli. Silverstein e Auerbach hanno notato questo rischio e hanno argomentato quanto possa essere discutibile l’applicazione del darwinismo alla psicologia o alla sociologia.

La tendenza più recente, lo stadio successivo a quello della decostruzione del padre, è infatti la valorizzazione di un neutrale care-giver asessuato. Care-giver: colui che dà accudimento e il cui sesso è indifferente. Anzi, perfino la specie può essere indifferente. Nella teoria dell’attaccamento ci sono delle analogie con le osservazioni sull’ìmprinting di Lorenz, che notava come il cucciolo neonato scelga il genitore care-giver da seguire fedelmente secondo un criterio del tutto slegato da ogni preferenza sessuale o di specie: il primo che vede è adottato come genitore. Così poteva succedere che Lorenz passeggiando fosse seguito da una fila di anatroccoli, di cui era il care-giver.

Questo in teoria. Nella pratica, il care-giver rimane nella stragrande maggioranza dei casi di sesso femminile ed è quindi la madre, la mamma che è sempre la mamma. Alcuni studiosi hanno paventato una sorta di ritorno al branco primitivo, in cui i maschi vivono in gruppo separati dalle donne e dediti ai virili giochi della caccia (e della guerra), e altrettanto separate dai maschi vivono le donne, dedite alla cura dei figli e a una vita sociale più corte e civile. E l’incontro tra i sessi si limitava a stagionali cerimonie riproduttive.

Nella versione moderna, naturalmente e per fortuna, lo scenario è più equilibrato. Anche la donna è sempre più presa dalle gioie dell’affermazione di sé nel lavoro e nella vita autonoma, ha percepito il richiamo dell’indipendenza nella foresta e segue il richiamo di Diana cacciatrice. È anche un’idea basata scientificamente, come spiegano Ryan e Jethà (2010) nel loro libro intitolato Sex at dawn: the prehistoric origins of modern sexuality, ovvero le origini preistoriche della sessualità moderna, libro che racconta come siamo destinati a tornare alla pluralità erotica dei tempi primitivi.

Rimane il fatto che paradossalmente, questa indipendenza spesso lascia sola la madre con i figli e caricare solo la madre del peso della crescita della prole rimane un rischio. Gli adolescenti cresciuti con un solo genitore –per lo più la madre- presentano maggiore tendenza all’abuso alcolico e di droghe, maggiori tendenze suicidarie, più gravi problemi psichiatrici, minori capacità di cooperare e socializzare con gli altri e hanno una propensione nettamente maggiore a subire condanne carcerarie per atti violenti (Berman, 1995; Duncan, Duncan e Hops, 1994).

La risposta –negli Stati Uniti fatta propria anche dal presidente Obama- prevede la valorizzazione di famiglie consapevoli e strutturate. La coppia dei genitori è migliore di un solo genitore (Dazzi e Madeddu, 2009, pag. 215-224). Sono dati che forse hanno colpito particolarmente Obama conoscendo la sua storia personale di ragazzo cresciuto senza padre.

Il che non vuol dire appoggiare solo il modello tradizionale madre/padre, ma anche altre configurazioni di coppie di genitori “same-sex”.

La promozione di forme alternative alla famiglia tradizionale non deve diventare –come talvolta è successo in passato- promozione indiscriminata anche delle famiglie monogenitoriali che in realtà sono spesso configurazioni residuali non scelte e che finiscono per scaricare tutto il peso economico ed emotivo sulla sola madre, come purtroppo accade sempre più spesso nei paesi anglo-sassoni.

Insomma, man mano che la svolta culturale del matrimonio gay viene assorbita si delinea una inedita alleanza neo-conservatrice tra famiglia tradizionale padre/madre e famiglie “same sex”. Ne ha parlato recentemente perfino il New England Journal of Medicine. Insomma, la mamma è sempre la mamma, ma da sola non può farcela.

 

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Ispectrum: un serious game per l’autismo

Si tratta di un serious game che offre al giocatore autistico tre diversi ambienti di lavoro virtuale (un ufficio, un supermercato e un vivaio) in cui sperimentarsi nel ruolo di dipendente, esercitando le sue capacità lavorative e soprattutto comunicative e di relazione sociale.

State of Mind ha già ospitato la descrizione di questo interessante progetto attraverso le parole del dott. Antonio Ascolese, direttamente coinvolto nell’ideazione e nella progettazione del serious game dedicato all’inserimento lavorativo di persone autistiche. Io l’ho voluto provare insieme ad un paio di ragazzi autistici con i quali lavoro da diversi anni ed ecco cosa ne penso.

In Europa il tasso di disoccupazione degli autistici diagnosticati è superiore al 90%, un dato sconcertante se si pensa che buona parte della popolazione autistica ha un quoziente intellettivo nella norma ed eccelle in alcune aree di competenza di notevole importanza nel mondo lavorativo attuale. Credo che la responsabilità di tale scenario sia ancora una volta a carico della popolazione neurotipica che negli anni ha oppresso sotto il peso di richieste sempre meno inclusive e più conformiste tutta la popolazione autistica, ostacolando il sereno sviluppo della sua specificità. Fatta questa doverosa premessa, iSpectrum è una buona idea di partenza.

Per chi non ha letto mai nulla a proposito, si tratta di un serious game che offre al giocatore autistico tre diversi ambienti di lavoro virtuale (un ufficio, un supermercato e un vivaio) in cui sperimentarsi nel ruolo di dipendente, esercitando le sue capacità lavorative e soprattutto comunicative e di relazione sociale.

Trattandosi di una realtà semplificata non c’è da aspettarsi che quanto acquisito attraverso questo canale possa magicamente tradursi in un’abilità capace di manifestarsi con successo nell’imprevedibile mondo delle relazioni sociali. E’ ovvio dunque che questo gioco non è che un utile esercizio all’interno di un programma di allenamento più ampio che deve coinvolgere anche gli altri attori presenti negli ambienti lavorativi.

Se è fuori dubbio l’utilità di migliorare la comprensione di un autistico circa le norme che regolano le relazioni sociali, lo sarebbe anche una maggiore conoscenza da parte dei colleghi delle caratteristiche che accomunano la maggior parte degli autistici, così da poter contribuire a creare un ambiente lavorativo quanto più possibile sereno per tutti. Credo infatti sia importante che un autistico sia in grado di rispettare le gerarchie e darne dimostrazione attraverso l’interazione con un superiore, come insegna il gioco, quanto che quest’ultimo sappia quali caratteristiche deve avere un’istruzione verbale per essere di facile comprensione per l’interlocutore autistico.

Ispectrum è dunque un’idea migliore se effettivamente inserita all’ interno di un programma di inserimento lavorativo che coinvolga attivamente il contesto sociale interessato. Ispectrum potrebbe anche essere un buon inizio per realizzare nuovi strumenti terapeutici nell’ambito della psicoterapia Cognitivo Comportamentale indirizzata agli autistici.

L’insieme delle abilità che descrivono la competenza sociale sono tra le più difficili da apprendere per molti di loro. Autistici famosi, come l’americana Temple Grandin, si descrivono costantemente impegnati nella comprensione delle regole che governano le relazioni sociali, una sfida che si trovano ad affrontare da bambini ma che li accompagna lungo tutto il ciclo di vita, rinnovata dalle sempre nuove richieste dell’ambiente sociale in cui sono inseriti. Si tratta di un insieme di abilità che si possono imparare sui libri ma che si possono padroneggiare solo sperimentandole e iSpectrum è un ambiente protetto in cui esercitarsi, virtualmente, in prima persona.

Proprio la centralità delle difficoltà di interazione sociale nei soggetti autistici suggerisce l’utilità di offrire occasioni di apprendimento simulato dalla tenera età offrendo ambienti virtuali come la scuola, la festa di un amichetto, la gelateria o il parco giochi. In questi contesti il bambino potrebbe esercitarsi in competenze di base come l’attenzione condivisa, il riconoscimento dello stato emotivo e dei pensieri altrui, l’importanza del volume e del tono di voce e le buone maniere.

La realtà virtuale potrebbe affiancare altri strumenti terapeutici ideati per favorire l’acquisizione di queste competenze, come per esempio le Comic Strip Conversations (CSC), venendo a soccorso degli psicoterapeuti che come me sono quotidianamente impegnati ad adattare metodi e strumenti pensati per i neurotipici alla loro clientela autistica.
Mi auguro quindi che l’esperienza iSpectrum evolva in nuove proposte indirizzate a tutte le fasce d’età, offrendo una maggiore personalizzazione dello strumento perchè quando si ha l’ambizione di offrire un prodotto utile all’eterogenea popolazione autistica non si può prescindere dall’individualizzazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I 400 colpi e la devianza minorile – Cinema & Psicologia

I 400 colpi di Truffaut ci parla in qualche modo di devianza, richiamando i concetti della statistica morale e di Durkheim e lanciando un chiaro grido contro l’abbandono ed evidenziando quanto il fattore ambiente possa essere importante nelle azioni devianti minorili.

Per devianza si intende comunemente un comportamento adottato da una persona che entra in conflitto con le norme sociali.

Diverse sono le teorie legate alla spiegazione dei comportamenti devianti:  le teorie eziologiche (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che interpretano il comportamento deviante come “il risultato di una decisione razionale dell’individuo volta ad ottenere benefici nel contesto di una valutazione su norme e sanzioni”, le teorie biologiche (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che spiegano i comportamenti devianti “attribuendone la responsabilità a caratteristiche fisiche e biologiche”; la teoria del controllo sociale (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna), le teorie della subcultura (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) e la statistica morale (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che spiega invece il comportamento deviante come “determinato da fattori ambientali e sociali che hanno influenza sul soggetto”.

Prima ancora di tutte queste teorie, E. Durkheim (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) già nel 1893 sosteneva che:[blockquote style=”1″] “non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo”. [/blockquote]

In altre parole un atto può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socio-culturale e dipende dal contesto che lo sanziona come tale.
Les Quatre Cents Coups di Trouffot ci parla in qualche modo di devianza, richiamando i concetti della statistica morale e di Durkheim e lanciando un chiaro grido contro l’abbandono ed evidenziando quanto il fattore ambiente possa essere importante nelle azioni devianti minorili.

Apri pista del movimento cinematografico della Nouvelle Vouge, “Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori”.

La storia vede protagonista il piccolo Antoine Doinel (Jean-Pierre Leaud) che con una serie di provocazioni è alla ricerca disperata di attenzione e amore.  Gli adulti (maestro, genitori, giudici) manifestano una rigidità che crea l’effetto contrario al buon andamento educativo del giovane. Il film è in qualche modo autobiografico e il personaggio Antoine Doinel (alter ego di Trouffot che ebbe un’ infanzia ostile) sarà interprete anche di altri 4 film che lo vedranno protagonista, in diversi periodi della vita (adolescenza, maturità, età adulta) e in cui affronterà tematiche sempre propriamente legate al suo sviluppo: “[blockquote style=”1″]L’amore a vent’anni, baci rubati, non drammatizziamo…è solo questione di corna e l’amore fugge[/blockquote]”.

Il ciclo Antoine Doinel è stato il primo esperimento unico e d’avanguardia nel cinema (ci ha provato recentemente Richard Linklater con la pellicola da lui scritta e diretta “Boyhood” chiaramente ispirata all’opera del regista francese) e attraverso questo personaggio Trouffot si traspone e parla anche di sé, delle istituzioni, dei rapporti genitori figli, dell’indifferenza, della voglia di affermazione e ricerca della propria identità.

Per devianza abbiamo visto si intende la tendenza a compiere gesti trasgressivi nei confronti dell’autorità e dell’ambiente, è una scelta di comportamento che l’adolescente assume per “andare contro”. E’ l’incapacità ad esprimere in modo sereno i propri conflitti e bisogni ai genitori e che nasce dall’incapacità e non volontà all’ascolto di questi ultimi. Il conflitto è interno ma si manifesta con azioni.

Il comportamento quindi è chiaramente il risultato del contesto in cui vive Antoine, nel film non sorride mai, quando ha il colloquio con la psicologa chiarifica di netto la sua posizione, infatti tutte le giustificazioni che dà sembrano avere un senso, non sono gravi ai suoi occhi e neanche agli occhi di noi spettatori che abbiamo seguito il personaggio e non riusciamo ad attribuirgli colpe, poiché essenzialmente legate alle circostanze. Le istituzioni non aiutano, i genitori sono assenti e oppositivi e quando viene messo in un istituto rieducativo, lo abbandonano definitivamente. Truffaut si insinua contestualizzando il crimine, le gesta del giovane Antoine non sono criminali perché attraverso la narrazione non urtano la coscienza comune anzi, si tende a giustificarle.

Rileggendo le diverse teorie, né scioglie in parte il cruccio, ne dà un’interpretazione pienamente giustificabile, non assoluta ma da non biasimare.
E’ importantissimo quindi sottolineare come l’arte cinematografica quando non strettamente correlata al mero intrattenimento ponga importanti quesiti sociologici, apra questioni di rilevanza, metta in crisi certezze assodate, sensibilizzi e faccia riflettere. Il fatto che Antoine Doinel sia l’alter ego del regista ne giustifica ancor di più l’interpretazione, avendo infatti sulla sua pelle fatto esperienza di un’ infanzia deviata, non si può che accoglierne la narrazione e giustificarne il divenuto capolavoro che non si può non citare nella storia del cinema.

 

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Rabbia & Impulsività: le conseguenze sullo stile di guida e statistiche incidenti

FLASH NEWS

Ricerche passate avevano già suggerito che persone caratterizzate da tendenza all’ impulsività e rabbia di tratto corrono maggiori rischi di avere un atteggiamento aggressivo anche alla guida, rispetto agli individui che non possiedono tali caratteristiche.

Una ricerca più recente conferma i precedenti risultati, contribuendo ad approfondire la tematica della guida pericolosa e offrendo degli spunti per la messa in atto di una campagna di prevenzione che educhi i guidatori più aggressivi ad un comportamento più paziente e prudente. 

Coloro che si arrabbiano di più di fronte a certi imprevisti, quali ad esempio un guidatore particolarmente lento, deviazioni stradali o qualsiasi situazione che comporti un rallentamento del traffico, dovrebbero prendere coscienza delle loro reazioni per imparare a controllarle e gestirle meglio, diminuendo in questo modo il rischio di incidenti stradali.

Un nuovo studio, “Trait predictors of aggression and crash-related behaviors across drivers from the United Kingdom and the Irish Republic”, di Amanda N. Stephens del Accident Research Centre, Monash University, Australia, and Mark J. M. Sullman della Cranfield University, Inghilterra, è stato recentemente pubblicato dalla Society for Risk Analysis.

La ricerca coinvolgeva 268 maschi e 281 femmine inglesi e irlandesi in possesso di patente, con età compresa tra i 18 e i 75 anni, ai quali era richiesto di compilare un questionario online. Esso era basato su sistemi specifici per la misurazione di certi tratti comprendendo, ad esempio, il Driving Anger Expression Inventory e il Road Rage Questionnaire, i quali includono item relativi a certi comportamenti: tendenza a gridare mentre si guida o ad insultare gli altri conducenti, cercare di ferirli, colpire intenzionalmente un altro veicolo o ferire un altro guidatore.

Lo scopo degli autori era quello di verificare una supposta relazione causale tra tratti comportamentali e tendenza a provocare incidenti stradali, e confrontare questo modello con i dati relativi alla popolazione inglese e irlandese. I risultati ottenuti mostrano l’esistenza di una correlazione tra tratti di personalità quali tendenza ad annoiarsi, impulsività, ricerca di sensazione e la propensione ad uno stile di guida piuttosto aggressivo. Questo, a sua volta, contribuirebbe a creare le condizioni per un incidente stradale.

Lo studio, dunque, conferma l’ipotesi iniziale, secondo cui tratti rabbiosi predirebbero uno stile di guida improntato all’aggressività, il quale sarebbe infine alla base di molti incidenti. Tale affermazione si è dimostrata vera sia per i conducenti inglesi che per quelli irlandesi.

Per quanto questo studio confermi ipotesi precedenti, esso contribuisce tuttavia ad approfondire tali tematiche. La più importante novità è quella di un campione proveniente dalla popolazione generale: gli studi passati, infatti, si sono sempre basati su dati provenienti da studenti americani, limitando in questo modo la possibilità di generalizzare i risultati. Inoltre, questa ricerca include per la prima volta cittadini irlandesi.
Sarebbe allora importante, sulla linea di tale scoperte, mettere in atto strategie di prevenzione degli incidenti stradali, programmi che rendano i guidatori più consapevoli delle loro condizioni e che li rendano in grado di gestirle nel migliore dei modi, in un mondo dove guidare è diventato necessario ma vogliamo ancora sentirci sicuri.

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EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita!

EdiTouch non è solo il nome del primo Tablet in Europa pensato il trattamento dei disturbi dell’apprendimento, EdiTouch nasconde molto di più…

EdiTouch non è solo il nome del primo Tablet in Europa pensato il trattamento dei disturbi dell’apprendimento, EdiTouch nasconde molto di più: nasce dall’idea di un padre, l’ingegnere informatico Marco Iannone che, accortosi delle difficoltà scolastiche del figlio dovute alla sua dislessia, non si è lasciato abbattere ma ha cercato di pensare a uno strumento mirato ad aiutare bambini e ragazzi che presentano disturbi dell’apprendimento.

EdiTouch, che all’aspetto si presenta molto simile a un quaderno cartaceo, contiene numerose applicazioni di facile utilizzo, pensate grazie al contributo di genitori, logopedisti e terapisti esperti in DSA. Tra queste troviamo un e-book reader, una calcolatrice parlante, un’app pensata per la creazione di mappe concettuali e molto altro ancora. Vi sono inoltre diverse versioni del tablet, pensate rispettivamente per la scuola elementare, la scuola media e la scuola superiore.

L’efficacia del Tablet è stata inoltre testata con una sperimentazione all’interno di otto scuole romane. Per questi e per altri motivi, un’attenzione speciale è stata riservata a EdiTouch dall’ultimo Annual Report on innovation in materia di Special Educational Needs network (SENnet).

Per maggiori informazioni vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato e al sito internet di EdiTouch.

 

Un dispositivo che, per come concepito, può quindi diventare molto utile anche come strumento integrativo per tutti quei ragazzi con bisogni educativi speciali (BES) o addirittura per i non dislessici. Per questo il progetto va avanti senza sosta (…) con il sogno di avviare la sperimentazione anche all’estero e far conoscere in tutta Europa cosa può fare la buona tecnologia.

 

 

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita!Consigliato dalla Redazione

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita! - Immagine: 53373200
È munito di software pensati per risolvere i Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) ed è stato sviluppato da un ingegnere informatico. (…)

Tratto da: Repubblica.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Linus, il controllo genitoriale e il senso di colpa – Peanuts Nr. 04

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA  (04)

Il tono comunicativo che la madre di Linus utilizza nella lettera esprime apparentemente calore, protezione e desiderio di cura verso il figlio. Allora perché Linus, invece di sentirsi amato e accudito, si sente in colpa?

Linus e il senso di colpa - Peanuts Nr.04

Analizzando da vicino i vari passaggi, diventa sempre più chiara la strategia persuasiva utilizzata dalla madre, finalizzata, più o meno consapevolmente, a manipolare il comportamento e le scelte del figlio. Se Linus non dovesse seguire i suoi consigli, che cosa succederebbe? Con molta probabilità, lei si mostrerebbe delusa e lui non all’altezza delle aspettative genitoriali.

La manipolazione è quindi a fondo cieco. Qualunque decisione prenda Linus, dovrà rinunciare a qualcosa e non sarà felice: se asseconda la madre abbandonerà la possibilità di scegliere, se non la asseconda perderà la sua approvazione. La critica può essere immediata:

“Come fa un bambino a sapere cosa sia giusto per lui? Sono le madri che si devono occupare del bene dei loro figli!”

Vero. Ma l’errore in cui talvolta si cade è quello di confondere il bene del figlio con i propri desideri, i propri gusti e i propri interessi.

Ad esempio, Linus potrebbe odiare stare al sole, oppure potrebbe essere timido e preferire essere chiamato dalla maestra piuttosto che offrirsi volontario. E’ vero che mangiare le carote fa bene, ma lui potrebbe preferire i pomodori.

La madre pone l’accento non sul gusto personale di Linus, ma sull’idea generalizzata che mangiare le carote sia giusto e necessario per raggiungere buoni risultati, ovvero fornisce le indicazioni come se fossero le uniche oggettivamente plausibili:

“Si fa così perché è giusto”

 

Tamponico - Mammese - Autore dell'immagine: Costanza Prinetti
Madri e manipolazioni

I bambini abituati a questa modalità rischiano di non saper più distinguere il loro punto di vista dalle aspettative altrui e di essere tiranneggiati dal senso di colpa, ovvero da una visione inadeguata e svalutante di sé, che si attiva nel momento in cui non si rispettano gli standard imposti dal contesto familiare.

Il tema del controllo psicologico come strategia genitoriale è stato oggetto di interessanti e recenti studi. E’ una strategia educativa finalizzata a indurre il figlio al raggiungimento di particolari risultati, spesso attraverso modalità intrusive e iperprotettive (Grolnick et al., 2002).

Quando i genitori utilizzano modalità controllanti, vengono meno le caratteristiche supportive in grado di sviluppare il senso di indipendenza nel bambino, che gli permette di esplorare da solo l’ambiente e di prendere decisioni in autonomia (Patrizi et al., 2010).

 

ARGOMENTI CORRELATI:

BAMBINIGENITORIALITA’

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Abraham J. Twerski. Su con la vita, Charlie Brown! Ed. Oscar Mondadori, 2000.pag.67
  • Patrizi C., Rigante L., De Matteis E., Isola L., Giamundo V. (2010). Caratteristiche genitoriali e stili di parenting associati ai disturbi internalizzanti in età evolutiva. Psichiatria e Psicoterapia, 29, 2, 63-77.
  • Grolnick W.S., Gurland S.T., DeCourcey W., Jacob K. (2002). Antecedents and consequences of mothers’ autonomy support: An experimental investigation. Developmental Psychology, 38, 143-155.

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

L’ansia e le sue manifestazioni – Introduzione alla psicologia NR. 14

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L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

 

Esistono periodi di vita in cui si è assaliti costantemente dalla tensione al punto da terminare le risorse fisiche e cognitive disponibili, note fonti di fronteggiamento di situazioni a forte stress. Quando viviamo queste situazioni siamo costantemente in allerta, quindi siamo in ansia.

L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. Per questo è necessario essere guardinghi di fronte agli eventi ritenuti pericolosi, presunti o reali, che potrebbero palesarsi anche senza nessun preavviso.

L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

Quindi, se l’ansia dura il tempo necessario ad affrontare una prestazione, è funzionale e adattiva e ci aiuta a perseguire al meglio l’obiettivo. Quando, invece, l’ansia perdura, supera una certa soglia e comincia ben prima di effettuare un compito mantenendosi nel tempo, allora diventa problematica o patologica. Succede che l’eccessiva ansia porta a superare il proprio autocontrollo, passando a una situazione altamente disfunzionale, perché si rimugina costantemente.

La sintomatologia con cui l’ansia si manifesta, può essere:

  • Fisica: tachicardia, aritmie, bocca asciutta, nausea, diarrea, stipsi, vampate di calore, vertigini, tensioni muscolari, nodo alla gola, palpitazioni, sudorazione, dispnea, sensazione di soffocamento, tosse, gonfiore addominale, difficoltà di minzione, perdita di desiderio sessuale, astenia, eruzioni, assenza di appetito, affaticamento e macchie cutanee, prurito;
  • Psichica o Cognitiva: disturbi dell’addormentamento, Insonnia, difficoltà di concentrazione, irritabilità, nervosismo, paure di non riuscire a farcela, di morire, di perdere il controllo, apprensione, incapacità a rilassarsi, emicrania, perdita di equilibrio e incoordinazione motoria.

Le persone affette da ansia patologica, invasiva in ogni campo, sono costantemente tese e impaurite, perché si preoccupano anche di un nonnulla e pensano che la catastrofe sia sempre dietro l’angolo.

Per questo evitano impegni relazionali, sociali, lavorativi e sentimentali, fino a rinunciare a vivere.

L’ansia, a questo punto, diventa insostenibile e angosciante limitando gravemente la vita quotidiana.

L’ansia è l’emozione comune a molti disturbi, ognuno dei quali ha caratteristiche sintomatologiche proprie. I principali sono:

  • Disturbo d’attacco di panico
  • Disturbo d’ansia generalizzata
  • Disturbo ossessivo-compulsivo
  • Disturbo di ansia sociale
  • Fobie specifiche
  • Disturbo da stress post-traumatico
  • Disturbi dell’alimentazione

Per concludere, i disturbi d’ansia possono essere curati ottenendo ottimi risultati che si mantengono stabili nel tempo. I trattamenti più diffusi sono la psicoterapia cognitivo-comportamentale coadiuvata, in alcuni casi, dall’assunzione di una terapia farmacologica con ansiolitici e antidepressivi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Effetti persistenti del trauma: i meccanismi ormonali e molecolari – Report dal Convegno SOPSI

Il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla.

Ormai è noto che trauma e stress sono due fenomeni distinti. Nella vita quotidiana viviamo molti eventi stressanti, sono parte della nostra esistenza, ad esempio un trasloco o il matrimonio, ma le conseguenze sull’ organismo sono a breve termine, gli effetti dello stimolo stressante (stressor) terminano quando cessa lo stimolo. Diversamente il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla. Gli effetti del trauma non terminano quando l’esperienza traumatica si conclude e possono durare anche tutta la vita.

La ricerca negli ultimi trent’anni ha cercato di rispondere alla domanda se gli effetti a lungo termine siano una continuazione della risposta o qualcosa di diverso. Dall’esperienza clinica sappiamo che il trauma opera una trasformazione profonda nel superstite, di tipo persistente e perdurante. I paradigmi classici dello stress non sono d’aiuto per spiegare questi processi. Grazie alla biologia molecolare e all’epigenetica ovvero lo studio delle alterazioni genetiche che modificano il funzionamento del gene stesso, abbiamo scoperto che il trauma influenza il DNA, l’espressione genica, la struttura cerebrale, gli ormoni, la cognizione, la personalità, il comportamento e le future risposte allo stress.

E’ solo a partire dagli anni Ottanta che si incomincia a parlare di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): un disturbo in cui gli effetti dello stress perdurano in assenza dello stressor. Le conoscenze che si hanno sul trauma fino a quel momento provenivano dalla cura dei reduci del Vietnam. Con l’apertura dell’ambulatorio per il trattamento dei PTSD presso il Mount Sinai Hospital di New York nel 1983, iniziano ad arrivare all’attenzione clinica della dr.ssa Yehuda e della sua equipe, i superstiti dell’Olocausto, ma anche i loro figli, questi ultimi presentavano sintomi riconducibili a un trauma come flashback, incubi, problemi relazionali e la pressione a dover compensare le perdite subite dai genitori. I sintomi, non venivano collegati direttamente, dai soggetti, con l’ Olocausto. Al contrario, riferivano che l’argomento era spesso oggetto di tabù nelle famiglie. Secondo i pazienti l’origine dei loro problemi era attribuibile all’ essere stati allevati da persone “danneggiate”, con problemi mentali.

Gli studi condotti sui superstiti e la loro prole confermano l’esperienza clinica: se è vero che non tutti quelli esposti al trauma sviluppano un PTSD è ormai accertato che gli effetti di un trauma possono essere intergenerazionali. Fino al 1983 la letteratura su ebrei e olocausto non si soffermava sulle conseguenze che l’esperienza aveva sulle generazioni successive, pochi erano gli studi in cui si sottolineava un legame tra l’essere sopravvissuti all’Olocausto e lo sviluppo di un PTSD, dalla letteratura emergeva solo la resilienza di questi superstiti e il successo sociale e lavorativo delle generazioni successive. La professoressa Yehuda ipotizza che, per gli ebrei, condividere quel dolore e i danni psicologici derivanti dall’internamento, avrebbe potuto costituire un’altra vittoria per il nazismo, la cosiddetta “politica della vittimizzazione”. Ma non si può lodare SOLO la resilienza, minimizzando le cicatrici che il trauma lascia.

Da allora sono state condotte diverse ricerche sui figli dei superstiti all’Olocausto. I quesiti a cui hanno cercato di rispondere la professoressa Yehuda e la sua equipe sono diversi: i figli dei superstiti vanno incontro a più disturbi mentali rispetto la popolazione generale? La vulnerabilità ai disturbi psichiatrici è qualcosa che viene trasmesso ai figli biologicamente oppure è il comportamento di questi genitori che ha modificato il genotipo dei figli rendendoli più vulnerabili verso le malattie mentali? Un trauma può portare modificazioni biologiche nel figlio, anche se non sono manifestate nel genitore?

I risultati delle ricerche sembrano confermare che i figli dei sopravvissuti all’Olocausto sono stati influenzati in molti modi dall’esperienza dei genitori.

Da uno studio condotto dalla dr.ssa Yehuda nel 1998 la probabilità di PTSD nei figli dei superstiti risulterebbe tre volte maggiore e presenterebbero una probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia maggiore del 50% rispetto alla popolazione generale. In un altro studio condotto in Ohio, su un gruppo di superstiti all’Olocausto, è stata rilevava una prevalenza del 50% di PTSD a 50 anni dall’evento, ma diversamente ai risultati del 1998, i figli di questi sopravvissuti presentavano il disturbo solo se uno dei due genitori aveva la stessa diagnosi, con un tasso di corrispondenza del 100%.

Per cercare di capire se le risposte acute al trauma sono universali o dipendono anche da caratteristiche soggettive, la dr.ssa Yehuda ha studiato i livelli di cortisolo in soggetti con PTSD. Il cortisolo è un ormone glucocorticoide, prodotto dalle ghiandole surrenali ed è coinvolto nel contenimento della risposta allo stress di tipo adrenalinico. Le ricerche hanno effettivamente mostrato una disregolazione in soggetti con PTSD dell’asse ipotalamico, da cui dipende il rilascio di questo ormone. In uno studio del 1998 è emerso che più bassi livelli di cortisolo dopo un trauma correlano con l’esordio del PTSD, perché non essendo contenuto l’arousal dal cortisolo, lo stato di eccitazione del sistema nervoso perdura nel tempo. I livelli di cortisolo nei campione testato sono stati significativamente più bassi, rispetto al campione di controllo (soggetti che avevano subito un trauma, ma non avevano sviluppato il PTSD). Nel 2000 lo stesso studio è stato replicato sui discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto: anche questi soggetti mostravano livelli più bassi di cortisolo anche senza PTSD, ma solo nel caso in cui il genitore aveva avuto un PTSD.

I soggetti testati nelle interviste cliniche riferivano di essersi sentiti trascurati durante l’infanzia, un dato che in letteratura risulta essere associato a livelli di cortisolo più bassi. Per stabilire quanto i livelli di cortisolo siano influenzati dall’esposizione all’ambiente (cioè un genitore con disturbo mentale) o siano dovuti ad un’alterazione biologica, la dr.ssa Yehuda ha condotto uno studio dopo la caduta delle Torri Gemelle su un campione di donne incinte. In follow up a 7 mesi dal parto i neonati di madri che avevano sviluppato un PTSD dopo l’11 settembre, avevano più bassi livelli di cortisolo. Ne deriverebbe che secondo questo studio il trauma influenza i figli prima della nascita.

Nel 2015 uno studio prospettico su superstiti dell’Olocausto e sopravvissuti all’11 settembre ha cercato di stabilire se il fenotipo per il PTSD sia trasmesso solo dalla madre o anche dal padre. I risultati mostrerebbero che effettivamente il fenotipo è diverso a seconda che il PTSD lo abbia la madre o il padre.

Le conclusioni a cui i ricercatori sono arrivati è che nello sviluppo di un PTSD abbiano un ruolo preponderante i meccanismi epigenetici, più che quelli genetici, non essendovi differenze a livello cromosomico, ma solo nella programmazione dei glutocorticoidi e che la programmazione epigenetica avvenga già nell’utero. Da ciò, conclude la dr.ssa Yehuda, non si sottintende che la madre abbia tutte le responsabilità, ma che anche il padre influisce nella trasmissione epigenetica, solo in maniera diversa, tramite meccanismi di modellamento durante lo sviluppo del bambino.

Questi studi si sono rivelati essenziali per la comprensione dei meccanismi alla base del trauma, mettendone in luce la natura epigenetica. Riuscire a capire l’interazione tra biologia ed esposizione ambientale potrebbe essere la chiave per definire il trattamento del disturbo in maniera più efficace.
Non possiamo cambiare il nostro DNA, ma possiamo cambiare il modo in cui funziona.

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