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Il vaccino MPR possibile causa dell’Autismo? Le risposte di uno studio americano

FLASH NEWS

La ricerca ha nuovamente smentito l’idea che ricevere una o due iniezioni possa causare un aumento del rischio di autismo. Tutto ciò dimostra che non esiste nessuna associazione tra il vaccino MPR e l’insorgere di patologie dello spettro autistico e fa si che anche questo studio si ponga in linea con quelli precedenti che hanno riportato dati di questo tipo in altre popolazioni.

Il vaccino MPR è un vaccino trivalente di immunizzazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia che normalmente è somministrato in due dosi, la prima tra 12 e  15 mesi e la seconda tra 4 e 5 anni. Nonostante le ricerche degli ultimi 15 anni non abbiamo mai riscontrato una correlazione o un legame causale tra il vaccino MPR e i disturbi dello spettro autistico, è opinione diffusa che l’aver ricevuto iniezioni del vaccino MPR possa significativamente aumentare il rischio di patologie di questo tipo.

A fronte quindi di dati che sottolineano come il tasso di diffusione dei disturbi dello spettro autistico non differisca tra i bambini che hanno ricevuto il vaccino e quelli che non sono stati sottoposti alle iniezioni, l’idea di un nesso tra i due aspetti è ancora sostenuta. Ciò è vero in particolare per i genitori che hanno già figli autistici i quali, in seguito anche all’evidenza che i secondogeniti presentano un rischio genetico maggiore di sviluppare un disturbo dello spettro autistico rispetto alla popolazione generale, tendono a limitare le vaccinazioni per i loro bambini più piccoli.

Lo studio in questione ha considerato 95 727 bambini americani, confrontando quelli che hanno un fratello maggiore affetto da patologie dello spettro autistico con quelli che hanno un fratello maggiore che non presenta il disturbo.

I risultati hanno dimostrato che la maggior parte dei bambini ha un fratello maggiore non affetto (93 798), mentre solo una piccola parte del campione è rappresentato dai bambini che hanno un fratello maggiore con autismo (1 929). La percentuale dei bambini con fratello affetto che a loro volta hanno ricevuto una diagnosi di autismo è maggiore rispetto a quella dei bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico ma con fratello sano (ciò potrebbe supportare anche il ruolo che i fattori genetici ricoprono nell’etiologia dei disturbi dello spettro autistico). Inoltre, e questo è il dato più significativo, i tassi di iniezione del vaccino MPR, sia alla prima che alla seconda vaccinazione, sono più bassi nel caso dei bambini che hanno un fratello con autismo e maggiori per quelli con fratello non affetto.

La ricerca ha infine smentito anche l’idea che ricevere una o due iniezioni possa causare un aumento del rischio di autismo. Tutto ciò dimostra che non esiste nessuna associazione tra il vaccino MPR e l’insorgere di patologie dello spettro autistico e fa si che anche questo studio si ponga in linea con quelli precedenti che hanno riportato dati di questo tipo in altre popolazioni.

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Disturbi alimentari & difficoltà economiche: quale legame?

Lo studio evidenzia una correlazione tra un’attitudine estrema verso il cibo e il mangiare e difficoltà finanziarie a breve termine per le studentesse femmine, suggerendo l’esistenza di un circolo vizioso.

Affrontare difficoltà economiche durante l’università può aumentare il rischio nelle studentesse di sesso femminile di sviluppare un Disturbo Alimentare, in accordo con una recente ricerca dell’Università di Southampton e Solent NHS Trust.

Al contrario, lo studio mostra che il fatto di avere un’attitudine estrema verso il cibo e il mangiare predice difficoltà finanziarie a breve termine per le studentesse femmine, suggerendo l’esistenza di un circolo vizioso.
In altre parole attitudini negative verso il cibo aumenterebbero il rischio di difficoltà finanziarie nel breve termine, e queste difficoltà potrebbero a loro volta esacerbare le attitudini alimentari negative nel lungo termine.

La ricerca, pubblicata nell’ International Journal of Eating Disorders, ha inoltre analizzato la relazione tra lo status socioeconomico e le attitudini alimentari, mostrando come siano più frequenti le attitudini alimentari negative nelle donne provenienti dalle famiglie meno ricche.
Circa 400 studenti universitari provenienti da diverse facoltà della UK hanno completato una indagine relativa al benessere familiare, recenti difficoltà economiche e attitudini verso il cibo e il magiare, attraverso l’uso dell’ Eating Attitudes Test (EAT). Questo strumento chiedeva ai partecipanti di rispondere a domande quali “mi sento estremamente colpevole dopo che mangio”, “ sono preoccupato dal pensiero di essere più magro” o “ho l’impulso di vomitare dopo che mangio”. Punteggi elevati a questa scala indicavano estreme attitudini alimentari e la potenziale presenza di un disturbo alimentare.

Ogni studente ha completato la ricerca 4 volte, ad intervalli di 3-4 mesi l’una. I principali risultati sono stati i seguenti:
* un elevato livello di difficoltà finanziarie nella prima somministrazione del test era associato con più gravi attitudini verso il cibo e il mangiare nella terza e quarta somministrazione del test;
* una minore ricchezza familiare registrata nella prima somministrazione del test era associata con più elevati punteggi all’EAT nell’ultima somministrazione del test;
* più elevati punteggi all’EAT alla prima somministrazione predicevano un aumento delle difficoltà economiche nella seconda somministrazione.

I risultati indicano quindi l’esistenza di una relazione tra la situazione finanziaria e i disturbi alimentari nelle donne, ma non negli uomini. È possibile infatti che coloro che sono più a rischio di sviluppare un disturbo alimentare percepiscano un minor controllo sugli eventi della loro vita, quali ad esempio la situazione finanziaria, e possano quindi restringere la loro alimentazione al fine di esercitare controllo in altre aree della loro vita. Future ricerche sono però necessarie al fine di approfondire il legame esistente tra disturbi alimentari e status finanziario.

 

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Burnout e insegnamento: come combattere lo stress dell’insegnante

Burnout: definizione e caratteristiche

Con il termine burnout (in inglese bruciato, fuso) si indica una condizione di stress lavorativo protratto e intenso che determina un logorio psicofisico ed emotivo, cui seguono demotivazione, svuotamento interiore, disinteresse e senso di inefficacia per l’attività lavorativa (con riduzione della produttività).

Particolarmente diffusa nelle professioni sanitarie ed educative (infermieri, medici, insegnanti), presenta numeri preoccupanti nel nostro Paese. Una ricerca condotta dal Comune di Milano per i casi di inabilità al lavoro, nel periodo 1992/2001, ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono le insegnanti, con una frequenza doppia di patologia psichiatrica rispetto ad altre categorie (Lodolo D’Oria, e coll., 2002).

I tipici sintomi del burnout interessano diversi livelli, da quello cognitivo a quello fisiologico.
Sintomi cognitivo/emotivi. Scoraggiamento, difficoltà di concentrazione, incubi notturni, irritabilità, sensi di colpa e fallimento (sia nella sfera professionale che privata), distacco emotivo (indifferenza verso gli utenti), cinismo, trascuratezza degli affetti e delle relazioni, iperinvestimento sul lavoro, che diventa il centro della propria vita, anche a dispetto dell’esaurimento delle energie. Esempi di distacco psicoemotivo in ambito scolastico riguardano l’adozione di forme d’insegnamento esclusivamente tradizionali, l’applicazione non flessibile della programmazione, l’attribuzione del fallimento scolastico dell’alunno al suo scarso impegno, a modeste capacità intellettive o alla famiglia e al ceto sociale di appartenenza, e l’abbandono di strategie didattiche quali il recupero individualizzato.
Sintomi comportamentali. Assenteismo, mancanza di iniziativa, aggressività verso gli utenti, aumento dei comportamenti di dipendenza (caffè, fumo o farmaci, con il serio pericolo di sviluppare malattie psichiatriche, come depressioni gravi).
Sintomi fisici. Disturbi intestinali (gastrite, stitichezza), senso di debolezza, emicrania, allergie e asma, insonnia, inappetenza. 
Chi soffre di burnout vuole dimostrare le proprie capacità a tutti i costi, ma nutre profonda sfiducia in se stesso, e spesso non si rende conto che il logoramento di cui è vittima gli imporrebbe di riposarsi e pensare al proprio benessere.

 

Fattori di rischio e fattori protettivi nel burnout

Recentemente, l’Inail – Dipartimento di medicina del lavoro – ha pubblicato una scheda su Burnout e insegnamento dove vengono affrontate le tematiche inerenti ai fattori di rischio e alle strategie per contrastare il burnout a scuola.
Fattori di rischio. Tra i fattori predisponenti a carattere individuale troviamo un’eccessiva dedizione al sacrificio, il bisogno di affermazione attraverso il lavoro (a discapito della vita privata), problematiche familiari o relazionali e la scarsa tolleranza dello stress. Esistono molteplici cause di carattere organizzativo, come le condizioni di lavoro (classi numerose, carenza di attrezzature), l’organizzazione scolastica (eccessive pratiche burocratiche, carenza di percorsi di aggiornamento significativi) e le “politiche” scolastiche (limitata possibilità di carriera, retribuzione insoddisfacente, precarietà e mobilità).
Fattori protettivi. All’interno della gamma degli “ammortizzatori” del burnout si possono citare le relazioni familiari solide e che offrono una rete di sostegno emotivo adeguata, il genere (le donne possiedono maggiori risorse emotive) e l’età di servizio (gli anziani hanno più esperienza lavorativa e strumenti per affrontare situazioni stressogene). Altre condizioni favorenti sono il supporto di colleghi e il livello di autoefficacia percepita, attraverso il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti.

 

Burnout: Trattamento e strategie didattico-organizzative 

La terapia cognitivo-comportamentale per il burnout

Nell’ ottica cognitivo-comportamentale, i pensieri che assorbono la vittima di burnout ruotano intorno a due convinzioni “l’utente è ingrato, insensibile ai miei sforzi di aiutarlo”, ma anche “sono abbandonato dall’azienda, non riconoscono i miei sforzi, e quindi mi sento inutile”.
Questo atteggiamento mentale determina risposte emotive e comportamentali di aggressività, che si alternano a disperazione e inutilità, “non riesco a raggiungere i miei obiettivi, devo impegnarmi di più”. L’obiettivo del trattamento è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative (e della conseguente tensione corporea) e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo.

Una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti è la Mindfulness, tecnica meditativa che si fonda sulla presa di coscienza (consapevolezza) delle sensazioni presenti che vengono accettate, senza giudizio, senza valutazioni, nel loro “naturale fluire” (Harris, 2009). Si impara a vivere nel presente, senza colpevolizzarsi per il passato né temendo il futuro, con benefici su molti disturbi emotivi e fisici, tipici del burnout (disturbi del sonno, cefalee, dolori muscolari, ansie, depressioni, paura del fallimento) (Gilbert, 2005).

Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare sia la tendenza alla passività “non sono in grado di aiutare nessuno” sia cinismo e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa.

Fulcro della terapia è la ristrutturazione cognitiva dei pensieri depressivi del tipo “l’alunno non apprende, sono un incompetente” con pensieri più razionali e positivi sul tono dell’umore come “farò del mio meglio con i mezzi a mia disposizione”. La collaborazione con i colleghi è poi fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento, e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri.

Mettere in primo piano i propri bisogni (coltivando hobby e interessi o riprendendo i contatti sociali che si erano persi concentrandosi troppo sul lavoro), servirà a non logorare le energie indispensabili per curare le persone che chiedono a loro volta aiuto.

Ad oggi sul burnout è possibile intervenire con ottimi risultati, ma è necessario rendersi conto che continuare a negare le proprie necessità primarie (riposo, svago, tranquillità) porta solo all’autodistruzione e che si ha urgente bisogno di aiuto per cambiare stile di vita e far riemergere il rispetto per sé, l’ottimismo, la gioia di vivere.
Uscire dal burnout è possibile, quindi, attraverso il controllo sulle proprie priorità di vita, sulle proprie emozioni e l’impegno per la riorganizzazione di un ambiente di lavoro in cui siano chiari ruoli, compiti da svolgere, aspettative realistiche di miglioramento delle difficoltà degli utenti, così da non superare i limiti personali ed esaurire le proprie energie interiori.

 

Prevenzione del burnout: Strategie professionali

Tra le strategie personali/professionali suggerite nel documento INAIL (Petyx, S. e coll., 2012) e che ogni insegnante può adottare troviamo:
– Considerare gli insuccessi lavorativi come momenti transitori e costruttivi.
– Creare una rete sociale all’ interno della scuola per migliorare la comunicazione all’ interno del contesto lavorativo.
– Individuare fonti di soddisfazioni e gratificazioni anche esterne al contesto lavorativo.
– Formulare al dirigente proposte per ottimizzare alcuni aspetti critici a livello organizzativo, insieme ad altri colleghi che sperimentano le stesse difficoltà.

Compiti dell’organizzazione scolastica

Secondo l’art. 6 dell’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato dell’8 ottobre 2004, spetta al datore di lavoro stabilire misure adeguate per la prevenzione e la riduzione dello stress, e attuarle con la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti, lungo tre direzioni:
1. Area gestione e comunicazione. Assicurare ascolto (valorizzare proposte, risorse umane e professionali) e sostegno (incoraggiamento a manifestare il disagio legato a fattori organizzativi, senza colpevolizzare l’insegnante), una maggiore flessibilità nell’applicazione di norme.
2. Area formazione. Stimolare la consapevolezza degli insegnanti rispetto ai motivi scatenanti dello stress, aiutarli a comprenderne le cause (screening dei vari fattori probabili) e il modo in cui affrontarlo (tecniche di gestione dello stress).
3. Informazione e consultazione dei lavoratori. Sottolineare le effettive risorse dell’organizzazione scolastica, coinvolgere i docenti nelle decisioni (gestire le criticità in team).

 

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Milano tra tradizione e innovazione, tra libertà e violenze

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 3/05/2015

 

È tempo di parlare bene di Milano, dopo le violenze di venerdì pomeriggio. È tempo di parlare di una città accogliente e aperta, come raccontò per anni Gaetano Afeltra sul Corriere della Sera con saggia ingenuità, parlando dei suoi sogni di giovane ambizioso proveniente da Amalfi, sogni che a Milano poterono realizzarsi senza dover soffrire l’usuale prezzo dell’emigrante: lo sradicamento, l’esclusione, la solitudine. A Milano, per fortuna, c’è tutta l’Italia e trovi sempre persone con le quali puoi ricreare il meglio della tua regione di provenienza, lasciando alle spalle le ristrettezze della vita di provincia.

Invece di Milano ci lamentiamo sempre, costantemente, crogiolandoci in un’eterna scontentezza, in un eterno e malmostoso rimuginio. Che va bene, la scontentezza è il sale della libertà, quando non sconfina nell’invocazione a buon mercato della violenza. È l’eterno rischio di degenerazione dello spirito critico in spirito autodistruttivo.
È vero: Milano non ti fa innamorare. Non ha il fascino della storia che avvolge Roma, Venezia o Firenze. Precocemente occupata dagli stranieri fin dal ‘500, è rimasta per secoli provincia spagnola e austriaca senza una signoria locale che la ingombrasse di monumenti come Mantova o Ferrara. Questo è stato anche un vantaggio: le ha consentito uno sviluppo moderno con viali e parchi e linee metro che non devono fare i conti con mille rovine del passato. Però i suoi viali non hanno la monumentalità di quelli di Parigi.

Milano non ha nemmeno il fascino metropolitano di New York. Il suo centro storico, stretto nel perimetro circolare delle mura medievali, è piccolo e conserva le proporzioni umane della città comunale, del borgo italiano. E nemmeno questa misura è però sentita un pregio, dato che toglie a Milano la disumanità sradicata della grande metropoli, della giungla urbana.
Oltre le mura medievali si stende la cerchia intermedia che arriva alle mura spagnole zeppa di palazzi umbertini, liberty o in stile “novecento” che non ti abbagliano e che sei portato a sottovalutare, come un po’ tutte le cose di Milano. A me piacciono il novecento della Torre Rasini al 61 di Porta Venezia e il liberty della Casa Galimberti al 3 di via Malpighi. Ma al giorno d’oggi è sufficiente cliccare wikipedia per avere un elenco completo dei palazzi milanesi.

Non sono qui però per lodare l’architettura e la sottovalutata bellezza di Milano, cose di cui poco m’intendo. Posso però scrivere di come l’insoddisfazione verso Milano sia una forma -attenuata, come si conviene a Milano- del disagio della modernità. Disagio a tratti impalpabile, poiché è il disagio della mancanza di senso e di direzione. L’individuo lasciato a se stesso e alla propria libertà può rischiare di scoprire di non saper che farsene, di questa libertà. Liberato da significati e da direzioni un tempo opprimenti, può scoprire che un’esistenza laica e senza sensi prefabbricati da una tradizione può disorientare. Poco consola sapere che in passato tradizione e sacralità hanno servito troppo spesso il male e il delitto. Ancora oggi le civiltà ancora pervase dal senso del sacro non sono affatto un modello ideale, e anzi si macchiano di violazioni dei diritti umani, i più elementari. Ma la pochezza umana non ci consente di non sentire la mancanza dei lati positivi di quegli orizzonti così ricchi di senso.

Uno dei sogni dell’uomo moderno è la liberazione dal fardello dei ceppi sociali, dei limiti, delle convenzioni morali e religiose. Probabilmente questo spinse il giovane Afeltra a lasciare Amalfi negli anni ’30 e tentare la fortuna a Milano. Il problema è che poi iniziamo a sentire la mancanza di questo fardello. Anche dietro la più violenta protesta, come ad esempio quella dei black bloc, c’è una richiesta d’ordine. Si potrebbe dire che ogni rivoluzionario non è altro che un conservatore impaziente, un uomo d’ordine un po’ impulsivo. Per questo, sebbene i ribelli talvolta indulgano a leggere e ammirare Nietzsche, nessuno è disposto a seguirlo fino in fondo. Va bene il sì alla vita, ma la bestia bionda, per fortuna, non tenta nessuno. Si persegue allora un ribellismo moderato e una devastazione ragionevole, qualche auto bruciata e qualche negozio devastato, ma niente dei massacri rivoluzionari della prima metà del novecento.

E nemmeno il delirio giovanile e terroristico della seconda metà del secolo scorso. Tutto oggi sembra ridursi a un periodico incresparsi della superficie borghese, con qualche scontro in piazza a cura dei Black Bloc testimoniato da mille selfie immediatamente diffusi per il mondo su uno degli innumerevoli social network. Il tutto che si alterna a vacanze low cost, magari a Cuba, sognando una seconda vita.

So che rischio di banalizzare tutto. È che manca il pathos della distanza. Vedere queste micro-rivoluzioni sui mille media che oggi abbiamo a disposizione dà questa sensazione che nulla sia davvero serio. Vi è tutta una serie di studi sulla psicologia dei new media che dimostra come l’immediata disponibilità della notizia la banalizzi irrimediabilmente, trasformando il tutto in un gioco apparentemente innocuo. D’altro canto non è affatto detto che il borghese in pantofole che assiste dalle sue finestre ai disordini per le strade sia impaurito dai rivolgimenti sociali. Può anche condividerli e improvvisamente gettare a terra la sua zimarra e scendere sui marciapiedi a manifestare, nella sempre crescente confusione dei ruoli che è anch’essa molto milanese, se pensiamo alle manifestazioni degli anni ’70 del novecento, in cui davvero non si capiva mai chi fossero i borghesi e chi i ribelli. Oppure accentuare il desiderio d’ordine e indossare una camicia nera e recarsi alla milanesissima piazza San Sepolcro dove fu fondato il fascio primigenio: rivoluzione si, ma conservatrice. La psicologia dell’aggressività rimane un campo confuso.

Insomma, nella storia il milanese rimane un eterno scontento che vuole al tempo stesso l’ordine e il casino. Riprendendo la passeggiata interrotta a inizio articolo, dopo la Torre Rasini possiamo imboccare il Corso Venezia già amato da Stendhal (abitò al numero 51, oggi c’è una targa) e incontrare in successione Il Planetario e il Museo Civico di Storia Naturale. Dopo aver ammirato il neo-classico Palazzo Saporiti sormontato dalle statue degli dei olimpici inoltriamoci nei giardini intitolati a Montanelli, un altro eterno scontento, toscano e milanese. Oppure andare al Lorenteggio fino al numero 50 della via Giambellino al bar del Cerrutti Gino. Oggi si chiama bar Masuri ed è gestito da cinesi. Che non sia più il Bar Gino e che sia oggi dai fratelli Hu va benissimo ed è una cosa molto milanese: il passato è passato. E peraltro anche lamentarsi che non si chiami più Bar Gino è una cosa molto milanese. Basta non incendiare le auto. Poi, se proprio si vuole, c’è la salumeria di fianco gestita dal nipote di Gino, Ferdinando Fiamenghi, che tiene esposte coppe vinte a biliardo dagli amici di Gaber. Insomma, tradizione e innovazione.

 

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Tracce del tradimento Nr. 07: Il traditore distratto e il traditore abituale

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO 07

La ricerca di tracce è meno importante sia nei casi in cui immediatamente un errore è scoperto sia nei casi in cui a nessuno viene in mente che un tradimento sarebbe possibile, e così anche le tracce più evidenti non sono viste dal tradito.

In letteratura il problema delle tracce del tradimento è spesso raccontato come una svista, una distrazione.  Questo ovviamente è possibile, è possibile e forse abbastanza frequente che chi lascia tracce lo faccia soltanto perché, non volendo realmente farlo, si sbaglia. Il caso esiste ma è anche ai margini di questa serie di articoli.

Il traditore può essere un tipo che ha fatto le cose maldestramente e di fretta, è un tipo che non ha mai tradito e non sa tenere segreti. Oppure è un traditore abituale fin troppo fiducioso delle sue capacità di nascondere, è un tipo superficiale o disordinato. Oppure il cercatore è minuzioso ed estremamente perfezionista nella ricerca, nulla gli sfugge. Esistono situazioni in cui veramente ci si sbaglia e ci si trova a dover affrontare le conseguenze dei propri errori.

La ricerca di tracce è meno importante sia nei casi in cui immediatamente un errore è scoperto sia nei casi in cui a nessuno viene in mente che un tradimento sarebbe possibile, e così anche le tracce più evidenti non sono viste dal tradito.

Vi sono poi i traditori abituali dove il tradimento è nel patto. Vi sono coppie dove per anni il tradimento reciproco o di uno dei due fa parte del gioco. La coppia è aperta e piena di incontri con persone che vengono amate, usate, con cui ci si diverte spesso in modo esplicito e con leggerezza. Vi è crisi in queste coppie soltanto quando qualcuno infrange in modo arbitrario il patto del tradimento. In questi casi uno dei due partner mette in discussione improvvisamente il vecchio patto che contemplava la coabitazione con molte altre storie parallele e ritenute non importanti.

Accade a un certo punto che il patto vada in crisi, perché uno dei due si sente vecchio e decide la preferenza improvvisa per la tranquillità. Oppure per una conversione o per il mutare dei propri desideri.  O per un’improvvisa paura di essere abbandonato, o per la nascita inaspettata di una gelosia che prima non si conosceva. Oppure perché dopo tanti incontri sessualmente leggeri vi è all’improvviso l’incontro con  una persona di cui ci si innamora e che fa decidere per l’abbandono del vecchio partner di tante navigazioni a vista. Insomma tanti motivi che portano a mettere in discussione l’apertura della coppia come paradigma fondante.

La risposta può essere una ridefinizione del patto se entrambi sono d’accordo nel rimanere insieme o l’abbandono se uno dei due non vuole accettare una coppia monogama dopo tanti anni di abitudini diverse.

Questi casi sono lontani dal focus di questa nostra serie di articoli perché non riguardano le tracce dei tradimenti ma il problema, a volte doloroso, della necessità di cambiare le regole del gioco durante il gioco. La fase di mutamento delle regole è una fase burrascosa, ma non è affatto impossibile che porti alla condivisione con reciproca soddisfazione di regole e scopi condivisi nuovi. Il periodo della messa in discussione del vecchio patto è spesso un periodo molto doloroso e pieno di angoscia per il partner che subisce o non condivide il passaggio al nuovo statuto.

 

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I maggiori esperti di autismo sono i genitori?

Sabrina Guzzetti

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Quello che ricercatori e medici non hanno forse fino ad ora tenuto nella dovuta considerazione, tuttavia, è la possibilità di avvalersi di un consulto da parte di una speciale categoria di esperti: i genitori dei bambini.

Le manifestazioni cliniche del disturbo autistico si osservano entro i 3 anni di età, talvolta già a partire dal primo anno di vita, con un’alterazione a livello delle abilità socio-relazionali, della comunicazione e del comportamento. Nello specifico si osserva una generale indifferenza rispetto al contesto relazionale, una marcata difficoltà nel comprendere emozioni e punti di vista altrui e una scarsa iniziativa nei rapporti diretti, anche con i coetanei. I comportamenti emotivo-affettivi nei confronti degli stessi genitori sono tendenzialmente scarsi, per i quali viene sviluppato un attaccamento spesso instabile e frammentario, specie nei primissimi anni di vita.

Le alterazioni delle competenze comunicative si manifestano attraverso la presenza di disturbi molto diversificati tra loro per tipologia e gravità, accumunati quasi sempre da una generale mancanza di intenzionalità comunicativa. Anche il comportamento si mostra alterato, con la presenza di ripetitività, stereotipie, autolesionismo, attività ritualistiche, interessi ristretti, rigidità nelle abitudini, ansia e agitazione. La diagnosi di autismo è prettamente clinica, coadiuvata dall’utilizzo di specifiche scale di valutazione che consentono una valutazione delle tre aree disfunzionali descritte.

Poiché la tempestività della diagnosi è generalmente associata ad una migliore prognosi, la ricerca sull’autismo si è sempre più concentrata sull’identificazione dei sintomi precoci del disturbo, presenti sin dal primo anno di vita del bambino. Quello che ricercatori e medici non hanno forse fino ad ora tenuto nella dovuta considerazione, tuttavia, è la possibilità di avvalersi di un consulto da parte di una speciale categoria di esperti: i genitori dei bambini. Questo è ciò che emerge da uno studio canadese pubblicato lo scorso marzo sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, condotto da Lori-Ann Sacrey e Vickie Armstrong, entrambe collaboratrici dell’Autism Research Centre del Glenrose Rehabilitation Hospital.

In questo studio, che ha coinvolto circa 300 famiglie, sono state raccolte le preoccupazioni espresse dai genitori rispetto allo sviluppo dei figli durante i  primi due anni di vita, ed è stata indagata la loro relazione rispetto alla presenza o meno della formalizzazione di una diagnosi di autismo a 3 anni di età. Tali preoccupazioni potevano riguardare vari ambiti, come sonno, dieta, comportamento sensoriale e motorio, comunicazione, abilità sociali e gioco. Sono stati reclutati sia genitori di bambini considerati ad alto rischio di sviluppare autismo (perché aventi un fratello più grande con tale disturbo), sia genitori di bambini a basso di rischio.

I risultati dello studio hanno dimostrato che i genitori di bambini ad alto rischio di autismo, per i quali è poi stata effettivamente formalizzata la diagnosi, presentano già a 12 mesi maggiori preoccupazioni sia rispetto ai genitori di bambini a basso rischio, sia rispetto a genitori di bambini ad alto rischio che però non sviluppano il disturbo. Le preoccupazioni riguardanti il comportamento sensoriale e lo sviluppo motorio si sono mostrati predittori efficaci addirittura a soli 6 mesi di età.

Questo studio mette in luce quanto possa essere importante ascoltare i genitori e prendere in più che seria considerazione le loro preoccupazioni: quando si parla di figli, forse i maggiori esperti sono davvero loro.

 

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La torta al cioccolato: cibo per l’animo e la mente

Le quantità di serotonina più elevate si trovano nel cioccolato all’85% di cacao, dove la concentrazione di questa molecola è pari a 2,9 microgrammi per grammo. Le varianti contenenti dal 70 all’85% di cacao sono, invece, ricche di triptofano. In ogni grammo di uno di questi tipi di cioccolato si trovano ben 13,3 microgrammi di questo precursore dell’ormone del buonumore. Perciò chi mangia cioccolato non solo per deliziare il palato, ma anche per aumentare i livelli di serotonina, dovrebbe scegliere del fondente contenente almeno il 70% di cacao.

Gli studi condotti fino ad oggi indicano che l’assunzione quotidiana di 50 grammi di cioccolato fondente per 3 giorni riduce i sintomi dello stress, dell’ansia e della depressione. In generale, il consiglio più diffuso sembra essere quello di non farsene mancare circa 28 grammi al giorno. Attenzione, però: per ottenere i massimi benefici è meglio non accompagnarli con un bicchiere di latte, che ne annullerebbe l’effetto.

Questa una informazione facilmente reperibile nel web, il cioccolato ha un effetto antidepressivo. Bene. Che emozione ho quando assaggio del cioccolato? Il cioccolato mi dà sensazioni completamente diverse da tutti gli altri sapori dolci. A me commuove, fino alle lacrime, non è tristezza, ma commozione amorosa per il sapore.

Questo sapore e questo sentimento mi distraggono dai pensieri tristi portando tutta l’attenzione al corpo, alla realtà presente, il cioccolato è mindful, meditativo. Un momento di profonda e intima meditazione corporale. Altro che attenzione al respiro. Attenzione al cioccolato.

Le torte al cioccolato sono buone. Tanti anni fa a Ginostra, una giovane e bravissima cuoca di origine torinese che aveva sposato un ragazzo siciliano e fondato il ristorante “Il puntazzo” foro di luce e garbo, in quella strana isola sassosa e aspra, aveva per prima portato la sua torta di cioccolata, semplice, in purezza, senza farina, impossibile da dimenticare. In una cucina senza luce, illuminata da candele, cucinava e poi presentava ogni sera una o due torte fatte a mano, che ben si accompagnavano alla malvasia di salina.

Ecco la torta, si diceva che la ricetta fosse di origine francese, io non so, ne ho assaggiate tante di torte al cioccolato, ma la torta di Loredana rimane l’archetipo a cui mi riferisco e va bene anche per i celiaci.

 

Ingredienti:

200 gr di cioccolato all’85%

3 uova dividendo tuorlo da chiare

100 gr di burro

3 cucchiai di zucchero

e basta

 

PREPARAZIONE:

si montano a lungo zucchero e tuorli

si fonde il burro con il cioccolato a bagnomaria

si uniscono i tuorli con il cioccolato e il burro quando il tutto è tiepido

si aggiunge con grazia la chiara montata a neve ferma, si mette

rapidamente in forno a 200 gradi per 20 minuti circa.

 

Se si vuole essere perversi ed estremi si cosparge di cacao amaro quando è pronta.

Se si vuole essere accomodanti si aggiungono lamponi cosparsi di zucchero a velo.

 

TASTE OF MIND: La rubrica della mente in cucina

 

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La Sigmund Freud University apre le iscrizioni ai Corsi di Laurea in Psicologia – Comunicato Stampa

Sigmund Freud Privat Universitat - Sede di Milano - LOGO

 

COMUNICATO STAMPA

100 posti disponibili e 5 borse di studio per i due corsi di Laurea in Psicologia

La Sigmund Freud University apre le iscrizioni

Iniziano i colloqui nella nuovissima sede di Milano dove l’Università viennese
offre lauree in Psicologia riconosciute in Italia

 

Milano, 10 aprile 2015 – Sono aperte le iscrizioni per i corsi di Laurea Triennale e Magistrale in Psicologia nella sede milanese della Sigmund Freud University, che conferisce una laurea riconosciuta in Italia, grazie a un accordo bilaterale fra il nostro Paese e l’Austria, diventato legge di Stato nel 2000 – legge n. 322 del 10 ottobre 2000.

I posti disponibili per ogni corso di laurea sono 50, numero che consente di studiare programmi personalizzati e su misura e di offrire un sistema di tutoraggio individuale, attento alle esigenze e alle attitudini dei singoli. Allineata ai migliori standard europei, l’Università garantisce allo studente, oltre a una solida preparazione teorica, una grande attenzione alla pratica – che copre circa il 40% delle ore di lezione – e un contatto diretto col mondo del lavoro, attraverso esercitazioni ed esperienze pratiche guidate (conduzione dei colloqui, gestione di gruppi…).

Per accedere alla Sigmund Freud University occorre sostenere entro il 30 settembre 2015 un colloquio individuale, che sostituisce il test di ammissione, nell’ottica di valutare l’idoneità del candidato, capirne la motivazione alle discipline psicologiche, la cultura generale e la comprensione della lingua inglese.

Sono previste 5 borse di studio per ognuno dei due corsi di Laurea: una per l’esenzione totale dalla retta base, 2 per l’esenzione dal 50% e 2 per l’esenzione dal 30%; le borse sono rinnovabili negli anni successivi se si superano tutti gli esami dell’anno con una media non inferiore a 27/30.

La graduatoria per il corso di Laurea Triennale è stilata in base al voto del diploma di Maturità conseguito nell’anno di iscrizione e al reddito familiare, mentre quella per il corso di Laurea Magistrale in base al voto del corso di Laurea Triennale e al reddito familiare.

Compreso nella retta annuale è il costo della trasferta e del soggiorno a Vienna, dove si tiene un periodo formativo full-immersion di circa tre settimane a semestre; nel nuovo Campus nello storico parco del Prater, gli studenti italiani, insieme a quelli delle altre sedi europee, colgono così una fondamentale e preziosa opportunità di crescita professionale e personale, seguendo corsi intensivi e prendendo parte a workshop e sessioni di ricerca in gruppi internazionali.  Nel soggiorno a Vienna i corsi sono tenuti in lingua inglese. Per questa ragione, ove necessario, l’Università offre corsi integrativi di lingua inglese.

La Sigmund Freud di Milano: informazioni utili

Due i corsi di laurea in Psicologia proposti:

Suddivisi negli 8 settori scientifico-disciplinari che rappresentano le principali branche della psicologia, la Sigmund Freud University di Milano offre diverse tipologie di corsi:

  • Lezioni Frontali (VO): corsi teorici per cui non è prevista frequenza obbligatoria
  • Esercitazioni Pratiche (UE): corsi pratici e professionalizzanti in piccoli gruppi. La valutazione avviene attraverso un esame pratico
  • Corsi Monografici (PS): approfondimento su una specifica area di interesse professionale, con frequenza obbligatoria. Valutazione attraverso elaborati scritti o esposizioni di una revisione personale del tema
  • Tirocinio: esercitato nelle cliniche di SFU e in strutture convenzionate

L’insegnamento unisce tradizione e modernità, conservando un approccio attento all’individuo e al suo sociale insieme agli sviluppi recenti della ricerca empirica.

La sede milanese della Sigmund Freud University è in un moderno edificio in Ripa di Porta Ticinese 77, nella zona dei Navigli di Milano.

La tassa di iscrizione per la laurea triennale si compone di una retta annua base di 4.850 Euro (2.425/semestre) più un contributo dipendente dal reddito variabile da zero a un massimo di 2.500 Euro (1.250/semestre). Per la Magistrale, la retta annua base è di 5.400 Euro (2.700/ semestre), mentre la quota variabile del reddito è la stessa della triennale.

La Sigmund Freud University di Vienna: un’eccellenza nella ricerca e nella didattica

Nata nel 2005 a Vienna con un programma di sviluppo internazionale, la Sigmund Freud University conta 2000 studenti, anche di diversi paesi europei ed extraeuropei. L’Università è impegnata in importanti progetti di ricerca e ha creato istituti dedicati a specifiche aree delle scienze psicologiche (Institute of Security Research, Institute for Ethical Wealth and Wealth Psychology, Institute for Counseling Sciences, Institute of Health Sciences).

Alle attività didattiche si affiancano interventi clinici che si sviluppano in ambulatori di psicologia per adulti, bambini e migranti, per un totale di circa 2500 utenti in cura: si tratta della più grande clinica ambulatoriale di intervento psicologico e di psicoterapia presente in Austria.

La Sigmund Freud University di Vienna – Università privata dedicata alle scienze psicologiche e istituzione di riferimento per la formazione, la ricerca e l’attività clinica – lo scorso autunno ha scelto di inaugurare una sede anche a Milano, dopo Parigi, Linz, Lubiana e Berlino.

Il nuovo campus, situato nello storico parco del Prater, è stato inaugurato il 24 aprile.

Per maggiori informazioni:

 

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Principi di neuroscienze di Kandel, Schwartz e Jassel (2014) – Recensione

Un libro impegnativo, ma scritto in maniera chiara, che parte dall’ABC per arrivare a spiegare il complesso funzionamento del sistema nervoso e come questo si rifletta sul comportamento.

Quando frequentai il corso di Laurea in Scienze Psicologiche, più di 10 anni fa, uno degli esami più tosti da affrontare fu “Fondamenti anatomo-fisiologici dell’attività psichica”. La strage di voti che il temutissimo scritto a crocette portava con sé era pari solo a quella perpetrata dall’esame di Statistica. Già il titolo del corso era tutto un programma e lasciava presagire che non sarebbe stata una passeggiata seguirlo, anche perché, curiosamente, era l’unico corso annuale. In effetti, l’arcano fu presto svelato: il testo di riferimento era un tomo di 1400 pagine che avremmo dovuto conoscere a menadito! Il libro in questione era la terza edizione de “Principi di Neuroscienze” di Kandel, Schwartz e Jessel (2003), affettuosamente chiamato da tutti, semplicemente, Il Kandel. 

Trovo che debba essere una soddisfazione indescrivibile per un autore scrivere qualcosa di talmente rilevante nel proprio ambito da far sì che la propria opera prenda nel linguaggio comune il proprio nome. Così come al liceo gli studenti non usano il vocabolario di latino per tradurre le versioni, bensì Il Castiglione Mariotti, e chi si prepara all’esame di stato di psicologia si procura Il Moderato-Rovetto (esiste qualcuno che chiama il testo “Psicologo: verso la professione”?), noi studiavamo sul Kandel.

Ho trascorso pomeriggi, serate e nottate col Kandel e a distanza di anni lo ricordo ancora come uno dei libri migliori su cui abbia mai studiato, nonché il testo che mi ha fatto appassionare allo studio del cervello e alle neuroscienze. Sicuramente un libro impegnativo, ma scritto in maniera chiara, che parte dall’ABC per arrivare a spiegare il complesso funzionamento del sistema nervoso e come questo si rifletta sul comportamento. Grazie a Principi di Neuroscienze ho imparato, per esempio, come funziona la trasmissione neuronale, sono rimasta affascinata dai microscopici meccanismi e processi che avvengono a livello cellulare, e letteralmente a bocca aperta di fronte alla complessità del processo di percezione delle immagini. È stato il libro che mi ha accompagnato alla scoperta di come funziona la nostra interazione con il mondo esterno attraverso la percezione e il movimento, il testo che mi ha fatto apprezzare quanto siamo meravigliosamente complessi.

La quarta edizione italiana (sulla quinta edizione inglese) di Principi di Neuroscienze, edito da Casa Editrice Ambrosiana (2014), è ancora più bella della precedente, già dalla copertina. Se è vero che non si giudica un libro dalla cover, è anche vero che l’occhio vuole la sua parte, e l’elegante copertina in cartonato rigido, su cui svetta un colorato neurone, fa la sua figura. Inoltre le pagine, le tavole e le immagini sono a colori e l’attenzione per la grafica è un altro dettaglio che contribuisce ad impreziosire il libro.

Ovviamente quello che conta più di tutto è il contenuto e vi assicuro che non delude le aspettative. Sebbene la struttura del libro sia rimasta tendenzialmente invariata rispetto alla terza edizione, il manuale si è arricchito di contenuti: 1620 pagine, una fitta bibliografia al termine di ciascun capitolo accompagnata da una lista di letture scelte, 6 appendici. Questa nuova edizione italiana, uscita a distanza di 12 anni dalla precedente, racchiude progressi, ricerche e nuove scoperte che sono state fatte in campo neuroscientifico negli ultimi tempi (es. il progetto Genoma).

Il testo è suddiviso in 9 parti ed ogni argomento è approfondito in maniera esauriente:

PARTE I: Uno sguardo generale sul rapporto tra cervello, geni e comportamento
PARTE II: Biologia cellulare e molecolare del neurone
PARTE III: La trasmissione sinaptica
PARTE IV: Le basi nervose dei processi cognitivi
PARTE V: La percezione
PARTE VI: Il movimento
PARTE VII: L’elaborazione inconscia e conscia delle informazioni neurali
PARTE VIII: Lo sviluppo del sistema nervoso e le origini del comportamento
PARTE IX: Il linguaggio, il pensiero, gli affetti e l’apprendimento

Principi di Neuroscienze rimane il testo di riferimento mondiale per chiunque sia interessato alle neuroscienze, un must per chi ha scelto di laurearsi in medicina, scienze psicologiche o scienze biologiche, la Bibbia per chi vuole studiare e approfondire i fondamenti anatomo-fisiologici dell’attività psichica.

Se dovessi concludere questa recensione di testa, in maniera razionale, vi direi che Principi di Neuroscienze è un libro stimolante, ben costruito, un manuale su cui si studia agevolmente tanto è fatto bene, ma la verità è che Principi di Neuroscienze è un libro a cui sono particolarmente affezionata, che mi porto nel cuore da più di 10 anni, e se mi doveste chiedere com’è vi risponderei di pancia semplicemente che Il Kandel è BELLO, è proprio un bellissimo libro, e vale davvero la pena averlo nella propria libreria personale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il cinema come lente di ingrandimento sulla società: la Nouvelle Vague e “Fino all’ultimo respiro”

 

Attraverso l’uso della profondità di campo, dei piani-sequenza, di inquadrature lunghissime, silenzi, lunghi dialoghi, il jump cut e non da meno l’utilizzo di camere leggere nasce la Nouvelle Vague che apre il sipario con “I quattrocento colpi” di Truffaut e “Fino all’ ultimo respiro” di Godard che ha come unica esigenza quella di voler fare film esorcizzando il “classico”.

Spesso quando si parla di cinema e psicologia, si tendono ad analizzare le pellicole che trattano di temi legati alle diverse e innumerevoli psicopatologie e deficit che affliggono l’uomo.

Il termine “psicologia” risale però al XV secolo, termine utilizzato dal teologo tedesco Philipp Schwarzed, che intendeva l’insieme delle conoscenze psicologiche, filosofiche, religiose, pedagogiche e letterarie di un essere umano. Su questa base il campo della psicologia è davvero molto ampio, ma in fondo essendo tutto dedicato alla mente umana non potrebbe essere altrimenti.

Il tema psicologia non si concentra solo sui contenuti delle pellicole ma a parer mio anche sul linguaggio cinematografico e la regia utilizzata nel voler esprimere determinati temi. Nella seconda metà del secolo scorso nascono diverse discipline, tutte da un solo grembo, quello appunto della psicologia: la mediazione famigliare, la psicologia di comunità, il counseling tutte pensate per un nuovo adattamento generazionale e sociale. La società cambia e ha l’esigenza di un riesame qualitativo con la prospettiva di un miglior adeguamento. In parallelo, nuove menti artistiche si sentono strette nell’ utilizzare canoni e canali comunicativi standardizzati.

Così quando Andrè Bazin, fonda e dirige la rivista “Quaderni di cinema” 1951, giornale dove scriveranno Truffaut, Godard, Rivette arriva una svolta anche nel campo cinematografico dove il fine ultimo non era altro che quello di utilizzare il mezzo cinema come espressione del reale, di un nuovo modo di pensare, vivere e percepire le cose, che senz’altro trae spunto dal neorealismo, imponendo però un proprio stile che non si rispecchia più nel modo classico di girare film, che non può utilizzare descrittori di una realtà che non esiste più o che per lo meno sta’ cambiando e vuole finalmente essere vista, ufficializzata. 

Si abbandona il classico e attraverso questo nuovo linguaggio cinematografico si mostra una nuova estetica, incongruente nella sua congruenza, che ha la necessità di dire, mostrare, chiarire un nuovo movimento che sta nascendo e che non vuole rimanere nascosto. Così attraverso l’uso della profondità di campo, dei piani-sequenza, di inquadrature lunghissime, silenzi, lunghi dialoghi, il jump cut e non da meno l’utilizzo di camere leggere nasce la Nouvelle Vague che apre il sipario con “I quattrocento colpi” di Truffaut e “Fino all’ultimo respiro” di Godard che ha come unica esigenza quella di voler fare film esorcizzando il “classico”.

“ Fino all’ultimo respiro” come già scritto, apre la pista alla nuovo movimento cinematografico. Goddard, nonostante la trama del film sia abbastanza classica, dona allo spettatore una certa perplessità. Pieno di discussioni esistenziali, apre una riflessione sul cinema, importa la nuova tecnica linguistica e introduce gli antieroi.

Micheal (Jean-Paul Belmondo) seppur assuma un atteggiamento “Bogartiano” (e ad un certo punto lo dichiarerà apertamente davanti un poster dell’attore dicendo “ vorrei essere come te”) tra sigarette a filtro bianco l’accarezzarsi le labbra , è un deliquentello che mentre ruba una macchina per tornare a Parigi è inseguito da un poliziotto. Nella macchina rubata è presente una pistola, così spara al poliziotto e lo uccide. Si dirige da Patricia (Jean Seberg) una studentessa americana con cui si era frequentato e di cui è innamorato. Cerca di convincerla a scappare con lui in Italia. La ragazza non vuole, ha altre aspirazioni e una volta interrogata dalla polizia, denuncia Michael che inseguito, verrà trafitto da una pallottola davanti agli occhi della ragazza.

L’arte cinematografica a volte pone il limite alla parola scritta ed esige di petto di essere vista per poter essere pienamente appresa. Questo è il caso.
La trama è semplice. Cosa c’è di strano? Forse che alla prima scena, che è l’elemento chiave del film e che di solito è posto centralmente nella trama, Micheal si gira verso la camera, verso di noi e dice “Se non amate il mare, se non amate la campagna, se non amate nemmeno la città andate a quel paese!” . Forse la camera non troppo stabile che riprende alcune scene? i lunghissimi dialoghi sulla vita, sull’esistenza, sulle aspettative, su un certo senso di inadeguatezza tra i protagonisti? L’interruzione di linearità nel montaggio che ci ricorda che stiamo vedendo un film? Il lunghissimo piano sequenza nella camminata sugli Champs Élysées, in cui i passanti si girano incuriositi non sapendo di essere entrati nella storia del cinema?

Come da introduzione, il grande occhio che va a posarsi sui cambiamenti della società, dei bisogni, delle percezioni, si poggia sull’ arte in genere e lo evidenzia con tutti i mezzi di cui dispone e così, che si voglia parlare di malati e malattie, di ingiustizie, devianze, criminalità, povertà ecc è bene non solo porre attenzione al contenuto, ma, per allargare le proprie vedute, anche al modo in cui il messaggio viene inviato che se ad una prima occhiata superficiale sembra privo di significato emozionale, psicologico e sociale in realtà, come in questo caso è un movimento cinematografico che entrerà nella storia del cinema e cambierà di molto il modo di vedere le cose e influenzerà i giovani, gli adulti del domani, la società futura.

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Mindfulness e tratti associati: un contributo empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Mindfulness e tratti associati: un contributo empirico

Autore: Robert Brumarescu (Università La Sapienza, Roma)

 

Abstract

Il presente studio si propone come obiettivo cardine quello di esaminare la relazione tra la concettualizzazione multidimensionale della mindfulness nelle attività quotidiane, misurata attraverso il questionario Five Facets e alcuni specifici costrutti quali l’Intelligenza emotiva, l’Alessitimia e la Regolazione emotiva nei 430 soggetti che hanno partecipato alla ricerca. I risultati dimostrano come la mindfulness sia strettamente legata e possa influenzare le competenze emotive.

English abstract

This study wants examine the relationship between the multidimensional conceptualization of mindfulness in daily activities, measured by the questionnaire Five Facets and some specific constructs such as emotional intelligence, the alexithymia and emotional regulation in 430 students that participated in the research. The results show that mindfulness is closely linked and can affect the emotional skills.

Keywords: Mindfulness; Emotional intelligence; Alexithymia; Emotional regulation; Cognitive psychology

 

 

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I forum di discussione online hanno effetti positivi sul benessere degli utenti

FLASH NEWS

Secondo uno studio recentemente effettuato, i forum di discussione online avrebbero effetti positivi sul benessere degli utenti, e sarebbero anche associati ad un aumento del coinvolgimento del soggetto nella vita sociale.

 

La ricerca pubblicata sul giornale Computers in Human Behavior mostra che i forum online portano significativi benefici sia all’individuo che alla comunità, molto più di quanto si fosse ipotizzato in passato. Per quanto si possa pensare che questi forum siano spariti, soppiantati dall’uso di social network quali, ad esempio, Twitter e Facebook, in realtà essi sono tuttora utilizzati da circa il 10% degli utenti online in Inghilterra, e da circa il 20% di tale popolazione negli Stati Uniti. Gli autori dello studio pensano che ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il forum rappresenta attualmente uno dei pochi spazi virtuali che consente interazione anonima tra gli utenti.

Nella ricerca effettuata, gli utenti erano contattati tramite svariati forum, riguardanti diversi interessi, hobby e stili di vita. Le persone coinvolte nello studio sono state suddivise in due gruppi: quelle che partecipano a forum il cui argomento di discussione è una situazione su cui si è creato un pregiudizio sociale (malattia mentale, depressione post-partum o una particolare scelta genitoriale …) e soggetti che invece partecipano a forum riguardanti argomenti su cui non esiste uno stigma sociale (sport, attenzione all’ambiente …).

A questi soggetti era posta una serie di domande riguardanti le motivazioni che li hanno spinti a frequentare il forum, la soddisfazione delle loro aspettative, l’identificazione con altri utenti, il benessere personale e il loro impegno nella società in merito ai temi discussi nel contesto del forum online.

La dottoressa Louise Pendry della Facoltà di Psicologia della University of Exeter, autrice principale di questo studio, afferma: “Le nostre scoperte dipingono un quadro ottimistico dei cari, vecchi, forum online. Spesso si scorrono questi forum in cerca di risposte, e si finisce col trovare un forte supporto da parte di queste comunità virtuali, specialmente per quel che riguarda utenti alla ricerca di sostegno per quel che riguarda le condizioni più stigmatizzate. Inoltre, dal nostro studio emerge che, in entrambi i gruppi di partecipanti, tanto più si è coinvolti nelle discussioni e negli scambi, tanto più si tende ad essere attivi sul proprio territorio in merito a tali temi, per esempio con attività di volontariato, donazioni …”.

La dottoressa Jessica Salvatore dello Sweet Briar College, negli USA, aggiunge: “Abbiamo anche scoperto che coloro che partecipano ai forum sviluppano forti relazioni tra di loro e un forte senso di identificazione. Inoltre, quanto è maggiore questa tendenza all’identificazione tanto più elevati sono i benefici per gli individui, sia in termini personali che di coinvolgimento sociale”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il lato positivo della paura! (VIDEO) – Psicologia

La paura, temuta e tiranneggiata, è una delle emozioni primarie a base innata che si esprime quando ci si trova in una situazione di pericolo.

E’ comune sia alla specie umana che a quella animale ed è caratterizzata da una serie di sintomi fisici: accelerazione del battito cardiaco, respiro affannoso, aumento del livello di adrenalina, dilatazione pupillare. Tutte queste caratteristiche sono tipiche dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, che prepara l’organismo alla reazione di attacco o di fuga dal pericolo in agguato. E’ quindi un’emozione necessaria alla sopravvivenza della specie perché induce delle risposte fisiologiche e comportamentali adattive (Oliverio Ferraris, 2013).

Quando non è scatenata dalla percezione di un pericolo reale, bensì dal timore che si verifichino determinate situazioni, la paura perde la sua funzione primaria e si innescano delle reazioni disadattive.

LEGGI: Il ruolo della paura nei disturbi d’ansia

Ciò accade ad esempio negli stati ansiosi o nelle fobie specifiche, in cui l’attivazione del sistema nervoso simpatico e le reazioni di evitamento/fuga sono determinate da un’interpretazione soggettiva della realtà. Ecco perché la psicologia del senso comune è spesso orientata alla ricerca di strategie che permettano di “sconfiggere” le paure, come se fossero acerrimi nemici di cui liberarsi.

Nel video di animazione la paura è rappresentata da un piccolo animale nero che ostacola i vari personaggi nella riuscita di alcune azioni tipicamente ansiogene: parlare in pubblico, prendere l’ascensore. Nella seconda parte viene invece evidenziato il lato positivo della paura, vista come alleata nelle situazioni di pericolo. Non sentire l’emozione di paura può infatti essere molto pericoloso per la nostra sopravvivenza.

 

 VIDEO:

 

RIFERIMENTO BIBLIOGRAFICO:

  • Oliverio Ferraris, A., (2013). Psicologia della paura. Ed. Bollati Boringhieri

Gli effetti del benessere psicologico sulla salute degli anziani

Giulia Cesetti, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Il benessere psicologico sembra avere un ruolo importante nella salute degli anziani ed esercita un fattore protettivo particolarmente significativo.

L’aumento dell’età media della popolazione in Italia e nel mondo rappresenta oggi un dato di fatto, che non può essere ignorato e che richiederà, nei prossimi anni, dei cambiamenti a livello economico e sociale, costringendo ad un ripensamento dell’assistenza sanitaria nella popolazione anziana. Porre l’attenzione al benessere psicologico dell’anziano sembra quanto mai necessario considerando gli effetti positivi che lo stesso esercita sulla salute.  Il benessere psicologico, infatti, sembra avere un importante ruolo protettivo in molti disturbi anche nella popolazione anziana. (Boehm & Kubzansky, 2012; Boyle, Buchman, Barnes & Bennett, 2010; Boyle et al, 2012;  Friedman, Hayney, Love, Singer & Ryff, 2007; Friedman & Ryff, 2012; Ryff, Singer & Love,  2004).

Quando si parla di benessere e si tenta di definirlo, data l’importanza che lo stesso riveste nella salute delle persone, ci si imbatte in un concetto multidimensionale e multideterminato che non prevede una definizione univoca, ma richiede uno sguardo più ampio e complesso. Due distinti approcci teorici hanno caratterizzato la ricerca sul benessere: il benessere edonico e il benessere e eudemonico. Il benessere edonico o soggettivo trova le sue radici in quella tradizione filosofica che incitava l’individuo a vivere il massimo piacere possibile e sosteneva che la felicità di ognuno potesse risultare dalla somma dei momenti edonici vissuti (Lieberg, 1958). In epoche più recenti e in ambito psicologico questo primo filone di ricerca ha avuto tra i suoi massimi esponenti Diener, Emmons, Larsen & Griffin (1985) e Bradburn (1969). Secondo il primo autore, il benessere soggettivo corrisponde alla soddisfazione della vita, ai giudizi cognitivi ed emotivi che le persone danno in riferimento alla loro vita. Bradburn (1969), invece, nella sua definizione di benessere soggettivo, sottolinea il ruolo delle emozioni positive; la felicità sarebbe il risultato, secondo l’autore, di un giudizio globale ottenuto confrontando aspetti positivi e negativi. Il benessere edonico o soggettivo può essere definito quindi come la ricerca del piacere e della felicità (Waterman, 2007) e, in un certo senso, la valutazione soggettiva della stessa operata dall’individuo.

Anche il secondo filone di ricerca, noto come benessere eudemonico, affonda le sue origini più antiche nella storia della filosofia. Aristotele, per primo, parlò di eudemonia definendola come la realizzazione del proprio potenziale, che è presente in ogni persona. Il daimon, essere divino, rappresentava, nella filosofia greca e nella cultura religiosa antica, un essere a metà strada tra l’uomo e la divinità. Secondo questa tradizione filosofica, ogni persona è dotata di alcune capacità uniche, conosciute come daimon; scopo dell’individuo è di riconoscere e sviluppare questi talenti. Aristotele quindi non intendeva negare il piacere, ma promuovere l’esercizio della virtù. Secondo tale pensiero, quindi, gli esseri umani gioirebbero nella realizzazione delle proprie potenzialità (che ognuno possiede) e tale contentezza, in un circolo virtuoso, accrescerebbe la capacità di sviluppare a pieno il proprio potenziale. In psicologia diversi autori hanno apportato contributi importanti a quello che può essere definito benessere psicologico o eudemonico. Tra questi troviamo: Maslow (1968) con la teoria dell’auto-realizzazione e Rogers (1961) con la teoria della persona pienamente funzionante.

Il modello di benessere eudemonico enfatizza non tanto il dover stare sempre bene, quanto piuttosto l’importanza di rafforzare quelle caratteristiche che, se presenti e sviluppate in ogni individuo, possono rappresentare risorse personali fondamentali per il raggiungimento di un funzionamento ottimale nella vita di tutti giorni. All’interno della cornice del benessere eudemonico, Carol Ryff (1989) ha creato il suo modello di benessere psicologico facendo riferimento a tre importanti ambiti della psicologia: la psicologia dello sviluppo e dell’arco di vita, quella umanistica e i criteri di salute mentale.

Ryff (1989) ha avuto il merito di saper riassumere e sviluppare al meglio contributi importanti di autori precedenti e di considerare il benessere non semplicemente come assenza di malessere. Tra i contributi che l’autrice ha utilizzato nella creazione del suo modello di benessere psicologico occorre per lo meno citare, nell’ambito della psicologia dello sviluppo e dell’arco di vita, Erikson (1959) e Buhler (1971). Per quanto riguarda la psicologia umanistica si è ispirata al lavoro di Rogers (1961) dove la persona tende a sviluppare il suo potenziale ed è caratterizzata da diverse qualità. Per quanto concerne i criteri di salute mentale è importante ricordare il contributo di Jahoda (1958) la quale propose alcuni indici di funzionamento mentale positivo. Il modello che ne è derivato si compone di sei dimensioni, che andrebbero a definire il benessere psicologico: l’auto-accettazione, le relazioni positive con gli altri, l’autonomia, il controllo ambientale, lo scopo nella vita e la crescita personale. Come sottolineato in precedenza il benessere psicologico sembra avere un ruolo importante nella salute degli anziani ed esercita un fattore protettivo particolarmente significativo (Boehm & Kubzansky, 2012; Boyle, Buchman, Barnes & Bennett, 2010; Boyle et al, 2012; Friedman, Hayney, Love, Singer & Ryff, 2007; Friedman & Ryff, 2012; Ryff, Singer & Love, 2004).

Uno studio che ha messo in luce i correlati biologici del benessere psicologico negli anziani è stato realizzato da Ryff, Singer & Love (2004). Al campione, composto da 135 donne di età compresa tra i 61 e i 91 anni, è stata somministrata la forma breve della Psychological Well Being Scale (Ryff & Keyes, 1995)  per la misurazione del benessere eudemonico, mentre per la valutazione di quello soggettivo sono state utilizzate due scale: la Positive and Negative Affect Schedule (Tellegen, Watson & Clark, 1988) e la versione breve della Mood and Anxiety Symptom questionnaire (Watson, Weber, Smith Assenheimer, Clark, Strauss & Mc Cormick, 1995).  Sono stati valutati alcuni indicatori biologici relativi a diversi sistemi e apparati: neuroendocrini, immunitari e cardiovascolari; inoltre sono state raccolte informazioni sul sonno.

I risultati di questo studio hanno evidenziato che livelli elevati di benessere eudemonico, nel campione di donne anziane, sono associati ad una riduzione del cortisolo salivare, un ormone steroideo maggiormente prodotto in presenza di condizioni stressanti e delle citochine pro infiammatorie, in particolare l’IL-6, spesso implicata in diverse malattie come il diabete, l’aterosclerosi e la sindrome metabolica. Dai risultati si evince inoltre che maggiori livelli di benessere eudemonico erano associati ad una riduzione del rischio cardiovascolare e ad una maggiore durata del sonno REM, rispetto a chi presentava bassi livelli di benessere eudemonico. Un indicatore dello stato di salute degli anziani, che è influenzato dal benessere psicologico è l’interleuchina-6 (IL-6), alti livelli di questa proteina sono associati, come descritto in precedenza, ad una serie di malattie. Persone con maggiore scopo nella vita, relazioni positive con gli altri e controllo ambientale tendono a riportare livelli significativamente più bassi di IL-6 (Friedman, Hayney, Love, Singer & Ryff, 2007).

Uno studio recente (Friedman & Ryff, 2012) ha esaminato alcuni aspetti psicologici in un campione di 998 anziani provenienti dall’indagine nazionale MIDUS che presentavano condizioni croniche multiple. Sono state raccolte informazioni circa le condizioni mediche croniche, i correlati biologi, in particolare l’interleuchina-6 e la proteina C reattiva (CPR) e i domini del funzionamento psicologico. I risultati hanno mostrato che sebbene l’IL-6 e il CPR aumentassero all’aumentare del numero delle malattie croniche, gli intervistati che presentavano livelli elevati di scopo nella vita, relazioni positive con gli altri e, nel caso della CPR, emozioni positive, mostravano minori livelli di indici infiammatori, rispetto a chi riportava bassi punteggi di benessere eudemonico. Considerando questi risultati gli anziani che presentano comorbilità mediche potrebbero comunque mantenere livelli elevati di funzionamento psicologico positivo e in un vero e proprio circolo virtuoso, quest’ultimo sarebbe a sua volta associato ad una riduzione del rischio biologico.

Un aspetto interessante riguarda il rapporto tra benessere psicologico e deterioramento cognitivo. Ricerche longitudinali hanno mostrato che un elevato livello di scopo nella vita è associato ad una riduzione del rischio di sviluppare Alzheimer e deterioramento cognitivo lieve in anziani residenti in comunità (Boyle, Buchman, Barnes & Bennett, 2010; Boyle et al, 2012). Un altro dato importante per la salute degli anziani riguarda il rapporto tra benessere e malattie cardiovascolari. Una recente review realizzata da Boehm & Kubzansky (2012) ha rilevato l’associazione tra il benessere psicologico e il rischio cardiovascolare, evidenziando i comportamenti salutari che mediano la relazione tra rischio cardiovascolare e benessere psicologico. Considerando il benessere un concetto ampio è stata operata, in questo studio, una distinzione tra benessere edonico, eudemonico, ottimismo e altre misure relative benessere presenti in letteratura. Lo studio ha evidenziato risultati molto interessanti; secondo quest’ultimi, infatti, il benessere psicologico ha un ruolo protettivo nei confronti delle malattie cardiovascolari, a parità di fattori di rischio e malattie. In particolare sembra che il benessere edonico sia maggiormente associato, rispetto a quello eudemonico, alla salute dell’apparato cardiovascolare. Tuttavia ciò potrebbe essere causato dalla minore presenza, in questa review, di ricerche disponibili relative al benessere eudemonico.

I risultati mostrano come l’ottimismo sia significativamente associato alla riduzione del rischio cardiovascolare. Inoltre, nella maggior parte dei casi, il benessere psicologico sembrerebbe associato positivamente ai comportamenti salutari e negativamente a quelli a rischio per la salute, ad esempio, fumo, consumo di alcol, attività fisica, qualità e quantità del sonno e alimentazione.

Per evidenziare l’importanza che dovrebbe essere attribuita alla promozione del benessere negli anziani, sembra utile presentare un ultimo studio che è stato realizzato su un campione di donne anziane (Ryff et al, 2006) e che si poneva l’obiettivo di valutare se il benessere e il malessere potessero essere considerati due concetti opposti o indipendenti.
Per supportare la prima ipotesi, i correlati biologici, legati al benessere e al malessere (che sono stati misurati), sarebbero dovuti essere gli stessi, ma, ovviamente, in direzioni opposte. Nel caso della seconda ipotesi, invece, ci si aspettava correlati biologici diversi associati al benessere e al malessere. Dei sette correlati biologici che sono stati valutati, relativi all’ambito cardiovascolare, immunitario e neurochimico, solo due di questi, e precisamente il peso e l’emoglobina glicosilata, supporterebbero la prima ipotesi. Il benessere potrebbe essere, per questo motivo, considerato come indipendente dal malessere, l’assenza di quest’ultimo non garantirebbe con certezza la presenza del primo. Tutto ciò sembrerebbe richiedere un ampliamento di prospettiva per assicurare, in termini di assistenza sanitaria alla popolazione anziana, non solo un’attenzione alla sintomatologia fisica, ma l’effettiva presenza di interventi di promozione del benessere psicologico, visto e considerato l’impatto che lo stesso esercita sulla salute.

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Deontologia: vi sono differenze di genere?

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Se fosse possibile ritornare indietro nel tempo, considerereste giusto uccidere Adolf Hitler, quando ancora era adolescente, per prevenire gli effetti tragici della Seconda Guerra mondiale?

Di fronte a un simile dilemma morale, le donne e gli uomini sembrerebbero avere atteggiamenti e risposte differenti.
Secondo una nuova ricerca gli uomini sarebbero più propensi ad accettare azioni altamente dannose su un singolo per un maggiore vantaggio della collettività (cioè salvare molte vite), rispetto alle donne.

Ai soggetti è stato chiesto di riflettere su 20 dilemmi morali rispetto ai quali si trovavano poi a decidere se fosse lecito uccidere, torturare, mentire, etc allo scopo di salvare vite umane. In particolare lo studio ha esaminato due differenti principi etici. Da una parte la deontologia secondo cui la moralità di un’azione dipende dalla sua coerenza con una norma morale. Dall’ altra l’utilitarismo per cui un’ azione può considerarsi moralmente giusta se si ha un effetto di massimizzazione dell’utilità, cioè si ottiene un effetto positivo per un maggior numero di individui: secondo questa prospettiva dunque la medesima azione può considerarsi moralmente corretta in una situazione ma non in un’altra circostanza.

I ricercatori hanno dimostrato che nelle donne sarebbero maggiormente presenti rispetto agli uomini inclinazioni deontologiche; anche se non vi sono differenze tra maschi e femmine nelle valutazioni razionali degli effetti e dei potenziali risultati positivi per la collettività di un’azione dannosa sul singolo. Dunque, secondo lo studio si riscontrano differenze di genere in termini di atteggiamenti e inclinazioni morali che però non rimandano all’ interferenza delle emozioni, almeno a livello delle valutazioni razionali degli aspetti utilitaristici. In altre parole, le donne prediligono la morale deontologica, pur mantenendo simili livelli di razionalità nell’ analisi degli esiti.

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Antidolorifici ed Emozioni: il Paracetamolo attenua ed offusca l’intensità delle emozioni

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Non sono solo le valutazioni cognitive degli eventi a impattare sulle nostre emozioni. Anche l’antidolorifico più comune, il paracetamolo, avrebbe un effetto indesiderato a livello psicologico: attenua e offusca l’intensità delle emozioni secondo una ricerca pubblicata su Psychological Science.

Nello studio i soggetti che avevano assunto paracetamolo riportavano emozioni di intensità significativamente minore alla vista di stimoli emotigeni (di valenza sia positiva che negativa) rispetto ai soggetti della condizione di controllo. Nello studio (con un campione di 82 soggetti) in una condizione veniva somministrata una dose di 1000 milligrammi di paracetamolo e nella condizione di controllo un’identica compressa placebo. Dopo 60 minuti ai soggetti venivano mostrate alcune fotografie selezionate dal famoso database IAPS (International Affective Picture System) validato come strumento per l’elicitazione emotiva delle emozioni sia a valenza negativa che positiva.

I partecipanti dovevano quindi riportare il proprio vissuto emotivo in termini di valenza (positiva o negativa) e in termini di intensità utilizzando delle scale Likert. I risultati evidenziano che i soggetti che avevano assunto il paracetamolo valutavano le fotografie emotigene – positive e negative-  come “meno intense”, riportavano emozioni di intensità significativamente minore rispetto al campione di controllo.

Una possibile spiegazione alternativa nella lettura dei risultati è che il paracetamolo influenzi il processo di valutazione in senso più ampio di stimoli anche non specificamente a contenuto emotivo. Un secondo studio prende in considerazione questo aspetto, aggiungendo alla procedura precedentemente descritta  un task di valutazione percettiva: i soggetti dovevano valutare cromaticamente le immagini. Ancora una volta, gli individui che avevano assunto il paracetamolo riportavano emozioni di minore intensità, ma non si sono riscontrate differenze significative nella valutazione cromatica delle fotografie. Non si tratterebbe dunque di un generico effetto di offuscamento delle valutazioni cognitive soggettive. Quindi il paracetamolo, influenzerebbe a breve termine l’intensità delle emozioni e la reattività agli stimoli emotigeni.

La ricerca si focalizza sull’assunzione di una dose media di paracetamolo e ne analizza gli effetti a breve termine: per conoscere quali siano le conseguenze emotive (anche in termini di regolazione emotive) a medio e lungo termine di un uso e di un abuso di paracetamolo sono comunque necessari ulteriori studi.

 

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Suicide by cop: l’omicidio indotto dalla vittima

Il termine “Suicide by Cops” (SBC) si riferisce ad una modalità di comportamento suicida iscrivibile all’ interno di una più ampia categoria che in letteratura viene denominata “Omicidio indotto dalla vittima” (Victim Precipitated Homicide): quelle situazioni in cui è la vittima stessa che istiga il soggetto a commettere il reato.

Il fenomeno del suicidio da poliziotto (SBC) è stato a lungo scritto nelle riviste di polizia e delle scienze forensi (Jenet e Segal, 1985): questa espressione fa riferimento a un metodo di suicidio in cui un individuo agisce deliberatamente in modo minaccioso con l’obiettivo di provocare una risposta letale da un funzionario di polizia (o da un altro individuo legittimamente armato), che viene indotto a porre fine alla vita della vittima per salvaguardare la propria o altrui incolumità da quest’ultima minacciata: la presa di ostaggi, la violenza domestica e la violenza sul posto di lavoro sono riconosciute come le situazioni più comunemente utilizzate per provocare o attirare gli agenti di polizia (Geller e Scott, 1992).

I soggetti che scelgono tale modalità suicida, intendono generalmente porre fine alla propria vita per le stesse motivazioni che caratterizzano i suicidi commessi con metodi più convenzionali. La differenza sostanziale consiste nel fatto che nel SBC, e più in generale nell’ omicidio indotto dalla vittima, l’individuo, per realizzare il suo fine, cerca di coinvolgere attivamente altre persone.

Ci sono due grandi categorie di SBC. La prima è il caso in cui qualcuno, dopo aver commesso un reato, viene inseguito dalla polizia e decide che preferisce morire piuttosto che essere arrestato: queste persone possono provocare gli agenti di polizia spinti dalla convinzione che una vita trascorsa in carcere non è degna di essere vissuta. Il secondo caso fa riferimento a persone che stanno già contemplando il suicidio: questi individui possono commettere un crimine con il preciso intento di provocare una risposta delle forze dell’ordine.

Anche se le caratteristiche individuali di un soggetto SBC sono determinate da personalità ed esperienze di vita uniche, la ricerca ha identificato alcune particolarità comuni di questi individui (Feuer, 1998; Kennedy, Homant, e Hupp, 1998; Lord, 2000; Perrou, e Farrell, 2004; Wilson, Davis, Bloom, Batten, e Kamara, 1998). Il tipico soggetto SBC è un uomo bianco con un’età media di 20 anni. Nella maggior parte dei casi ha già avuto un precedente contatto con la legge ma generalmente per reati minori, e questo potrebbe avergli dato una certa familiarità del modo in cui la polizia opera e delle loro reazioni a eventi critici.

Oltre all’abuso di sostanze (droghe, farmaci e alcol), il soggetto da SBC ha sofferto di altri problemi psicologici: i disturbi più comuni associati a tale condotta sono quello schizofrenico e il disturbo bipolare; in almeno uno dei casi documentati dagli studi presi in considerazione, è presente un tentato SBC a seguito di un trauma cranico (Bresler, Scalora, Elbogen, e Moore, 2003). L’episodio critico è comunemente accelerato dalla rottura di alcune importanti relazioni connesse con la sua autostima o il sostegno sociale (come per esempio una crisi famigliare o di lavoro) che induce sentimenti di disperazione, rabbia e angoscia. Naturalmente, a presenza di più episodi critici aumentano la vulnerabilità del soggetto e la probabilità di SBC.

La maggior parte di ciò che conosciamo sulle motivazioni delle diverse forme di suicidio proviene dallo studio di persone che hanno pensato al suicidio e poi cambiato idea, o sono state persuase a non farlo, o da persone che hanno effettivamente tentato il suicidio ma sono sopravvissute. Mohandie e Meloy (2000) hanno delineato una serie di motivazioni SBC che possono essere applicate a più tipi di suicidio, come sentimenti di disperazione, di rabbia, e / o di vendetta. Per tali soggetti, pare che non c’è via d’uscita alla loro disperazione e l’unica soluzione sembra quella di porre fine alla loro vita. Tuttavia, ciò che può essere unico nei casi SBC, è il modo in cui questi sentimenti sono agiti.

Sono diversi gli studi che si sono soffermati sulle motivazioni sottostanti i casi specifici di SBC. In alcuni individui la presenza di forti convinzioni religiose può precludere loro la possibilità di suicidarsi da soli: per questi soggetti risulta pertanto accettabile dal punto di vista religioso, che un altro ponga fine alla loro vita (Pinizzotto et al., 2005). Per altri, il SBC è un tentativo di evitare lo stigma sociale associato al suicidio: in tali casi il “morire per mano della polizia” rappresenterebbe una copertura del proprio intento suicida. Altre volte è la ricerca di una morte “da intrepidi” e/ o “sensazionale” (Van Zandt, 1993). In altri casi, le vittime vogliono assicurarsi una morte certa e, scegliendo un agente di polizia, sono convinti di poter conseguire tale obiettivo considerando il fatto che questi possiede un’arma da fuoco ed è addestrato ad utilizzarla (Hafenback e Nasiripour, 2005; Miller, 2005). Inoltre, l’agente di polizia potrebbe rappresentare una sorta di “coscienza sociale” che permetterebbe di porre fine, in modo definitivo, ad eventuali sensi di colpa provati dal soggetto. (Hutson et al., 1998).

In ogni caso, a prescindere dalle motivazione che induce i soggetti a scegliere tale modalità suicida, gli effetti psicologici e legali per gli agenti di polizia coinvolti sono spesso di notevole rilevanza: subito dopo il conflitto, questi possono manifestare una diminuzione del coordinamento motorio con tremori agli arti o addirittura spasmi incontrollabili, distorsioni percettive relative al tempo ed allo spazio, difficoltà nel recupero delle tracce mnemoniche relative all’evento traumatico a volte rivissuto come fosse al rallentatore e con suoni ovattati. A lungo termine, nei casi più gravi, gli effetti psicologici del conflitto possono far sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Sugimoto e Oltjenenbruns (citati in Pietrantoni, Prati, e Morelli, 2003) parlano di una reazione di shock psicologico agli stressor traumatici (direttamente legati alla morte) chiamata “angoscia traumatica” che può divenire patologica e irrisolta e scatenare quindi un DSPT cronico. Studi americani (Parent, e Verdun-Jones, 1998; Hutson et al., 1998; Mohandie, Meloy, e Collins, 2009) dimostrerebbero che, nel contesto statunitense, questo fenomeno avrebbe proporzioni non trascurabili con un conseguente impatto psicologico sul poliziotto.

Anche gli inevitabili aspetti legali e mediatici connessi all’evento traumatico contribuiscono a rinforzare il quadro sintomatologico sopra descritto. A proposito, diversi agenti di polizia hanno dichiarato di aver provato un netto miglioramento al termine dell’inchiesta giudiziaria che automaticamente viene svolta a seguito di questi accadimenti.

Tuttavia, individuare le condizioni che accertano un SBC può essere difficile. Di conseguenza, i poliziotti sono oggi addestrati ad esercitare il controllo imparando a riconoscere le caratteristiche che possono aiutarli ad evitare di coinvolgere persone che hanno tentazioni suicide.

Perrou (2006) ha individuato 15 indicatori che possono aiutare gli operatori delle forze di polizia nel riconoscere quelle situazioni operative nelle quali vi è un’elevata probabilità di esser di fronte ad un tentativo di SBC: 1. Il soggetto si è barricato e rifiuta di negoziare; 2. Il soggetto ha appena ucciso qualcuno, e, in particolare, un familiare; 3. L’individuo dichiara di avere una malattia incurabile; 4. Le richieste del soggetto agli agenti di polizia non includono aspetti relativi alla sua liberazione o vie di fuga; 5. Il soggetto ha da poco vissuto o sta vivendo esperienze di vita traumatiche (lutti, divorzio, gravi problemi economici ecc.); 6. Prima di causare l’episodio critico il soggetto ha donato i suoi beni; 7. Il soggetto ha registrato dichiarazioni relative al suo gesto; 8. Il soggetto dichiara le sue intenzioni 9. L’individuo sostiene di aver pensato di pianificare la sua morte; 10. Il soggetto ha espresso un interesse in una morte da “macho”; 11. L’individuo ha espresso un interesse in una “uscita di scena” sensazionale; 12. Il soggetto ha espresso sentimenti di perdita di speranza e di fiducia nell’aiuto altrui; 13.L’individuo formula l’elenco dei suoi desideri ai negoziatori; 14. Il soggetto dichiara di voler essere ucciso; 15. L’individuo stabilisce una “deadline” per essere ucciso.

L’autore sostiene che, in caso di situazioni operative altamente critiche, qualora dovessero esser presenti alcuni di questi indicatori, gli agenti di polizia dovrebbero esser consapevoli della possibilità di avere a che fare con un soggetto che vuole essere ucciso e che per raggiungere tale obiettivo non esiterebbe a fermarsi di fronte a nulla, compresa la possibilità di far fuoco sui poliziotti stessi.

Perrou ha inoltre individuato potenziali indicatori comportamentali comunemente presenti in caso di soggetto con intenzioni suicida: un atteggiamento iper-vigile (scanning), in cui il soggetto controlla con meticolosità l’intero campo visivo; un cambiamento della frequenza respiratoria riscontrato a livello visivo, uditivo o entrambi, e rappresenta spesso l’ultimo atto prima della morte; il “conto alla rovescia”, un conto cadenzato che spesso può aiutare il soggetto con intenzioni suicide a raggiungere la soluzione fatale, in cui il soggetto concentrerebbe la propria attenzione in larga parte sul conteggio precludendo l’elaborazione e/o l’analisi di soluzioni alternative, oltre che distogliere la propria attenzione dai tentativi di farlo desistere dal proprio intento da parte degli agenti intervenuti.

In tali situazioni di crisi, l’identificazione dei sopraelencati comportamenti pre-suicidio e la loro successiva interruzione attraverso opportune modifiche tattiche d’intervento, hanno spesso permesso agli agenti di impedire al soggetto di commettere l’atto fatale e quindi di farlo arrendere.

 

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Disturbi dell’umore: meno frequenti nelle donne afroamericane che vivono nelle aree rurali degli USA

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Le donne afroamericane che vivono nelle aree rurali degli Stati Uniti avrebbero una minore prevalenza di disturbo depressivo maggiore (MDD) e disturbi dell’umore rispetto alle donne della stessa etnia ma residenti nelle zone urbane.

Secondo JAMA Psychiatry questa differenza non si riscontra – sempre negli USA- in donne di altre etnie, come ad esempio le donne di origine ispanica, che presenterebbero la medesima prevalenza di disturbi dell’umore sia nelle aree urbane che nelle aree rurali.

Alcuni ricercatori della University of Michigan in uno studio epidemiologico statunitense hanno esaminato l’interazione tra il fattore residenza (area urbana vs. area rurale) e il fattore etnia nel’arco di 12 mesi e nel corso del lifetime nelle donne di etnia caucasica, afroamericana e ispanica. In generale, è emerso che rispetto alle donne afroamericane, le donne ispaniche avrebbero una prevalenza significativamente maggiore di disturbo depressivo maggiore (21.3 % vs. 10.1 %) e altri disturbi dell’umore.

Similmente anche le donne caucasiche avrebbero una prevalenza maggiore rispetto alle donne afromericane. Il dato interessante inoltre è che viene evidenziato un fenomeno plausibilmente legato all’urbanizzazione: nelle donne afromericane residenti in aree rurali vi sarebbe una minore incidenza di disturbo depressivo maggiore (10.4 % vs. 5.3%) rispetto a donne della medesima etnia residenti in aree urbane. D’altro canto, nelle donne caucasiche emergono dati opposti: sono le donne caucasiche residenti nelle zone rurali ad avere una maggiore prevalenza di disturbo depressive maggiore (nell’arco di 12 mesi) rispetto alle loro controparti residenti nelle città (10.3% vs. 3.7%).

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