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Conoscere se stessi (2022) di Stephen M. Fleming – Recensione

Fleming nella prima parte del libro “Conoscere se stessi” inizia un viaggio, che durerà per tutta la sua opera, fatto di esperimenti che ci illustrano come la nostra mente lavora quando la percezione del mondo o di un problema non è esaustiva o completa.

 

 Martin entra in studio trafilato, evitando il mio sguardo, va ad occupare l’angolo più remoto del divano. Ha l’aria stanca. Spesso è così quando passa le nottate a studiare.

“Non so se sono pronto per l’esame.”

Esordisce il ragazzo che viene da qualche mese in terapia e da qualche tempo ha un blocco nello studio. Ci vediamo abbastanza da sapere che Martin, il tempo sui libri, lo passa eccome, ma di andare a fare un esame non se ne parla.

Trascorriamo spesso intere sedute a discutere della materia che sta preparando, tanto quasi da avere io stesso la sensazione di cominciare a capirci qualcosa. Ma è come se Martin, per qualche motivo, non avesse accesso a determinate informazioni sulla sua preparazione, tanto da pensare di non presentarsi agli esami che prepara nelle notti trascorse su i libri.

Non è certo una situazione insolita in una seduta di terapia, anzi favorire l’accesso alla consapevolezza delle proprie capacità personali è, praticamente, una ricorsività. Avere una buona lettura delle proprie possibilità ci permette di compiere scelte in grado di farci esporre a una prova, fare un tentativo. Insomma è qualcosa che potrebbe fare la differenza tra il successo e l’insuccesso.

Ma che cosa ci impedisce di sapere se abbiamo studiato abbastanza per un esame?

Questa è una delle domande che fa riferimento al tassello di un puzzle molto più complesso e articolato e ci indirizza verso la comprensione di una funzione unica della nostra mente: la metacognizione.

Cos’è la metacognizione? Una domanda alla quale, Stephen M. Fleming, uno dei maggiori esperti mondiali di metacognizione, risponde diffusamente e con grande precisione, nella sua opera. L’autore attraverso le pagine di “Conoscere se stessi” ci porta negli studi del MetaLab, all’University College di Londra, del quale è direttore. Siamo nel campo delle neuroscienze dove si indagano le funzioni della mente umana e la loro architettura neurale. Gli studi legati alla consapevolezza del sé (l’autoconsapevolezza), passano per un crocevia di conoscenze dove si intersecano i saperi della psicologia, della psicoterapia, della medicina, della biologia evoluzionistica e della computer science. Dalla posizione di neuroscienziato Fleming ci illustra un prezioso aggiornamento scientifico in grado di aprire nuove e fondamentali riflessioni su un argomento sempre più in auge nell’evoluzione della psicoterapia moderna e ancor più del sapere umano.

A cosa serve l’autoconsapevolezza? È senz’altro una delle domande centrali da porsi mentre si mettono insieme i “mattoni” della comprensione di un aspetto così sofisticato e trasversale.

La condizione che descrivo del mio paziente Martin rientra perfettamente in uno degli esempi che fa l’autore. Tutto ciò che è analizzato dagli studi sulla metacognizione prende spunto dalla vita reale, ed è usato per rappresentare quanto la capacità di pensare il pensiero è parte integrante e fondamentale della nostra quotidianità.

È possibile accettare la testimonianza di un testimone oculare? Dovrei ascoltare i consigli del mio medico? Queste sono alcune delle domande a cui una mente difficilmente potrà dare risposta senza coinvolgere la metacognizione.

Come ha fatto Stanislav Petrov nel 1983 a scongiurare la terza guerra mondiale decidendo che le incerte informazioni che arrivavano dai satelliti russi erano un’interferenza dovuta al riflesso del sole e non dei missili americani? Con questo esempio Fleming ci fa comprendere quanto sia evolutivamente fondamentale l’uso della nostra autoconsapevolezza la quale ci permette di rintracciare e stimare il grado di incertezza nella percezione del mondo che ci circonda.

“Senza la capacità di stimare il grado di incertezza, è improbabile che riusciremmo a percepire il mondo”.

Ebbene si! Per prendere la giusta decisione spesso è fondamentale avere delle incertezze, sapere di non sapere, come diceva Socrate.

Fleming nella prima parte del libro inizia un viaggio, che durerà per tutta la sua opera, fatto di esperimenti che ci illustrano come la nostra mente lavora quando la percezione del mondo o di un problema non è esaustiva o completa.

Scopriremo appunto quanto possa essere necessaria l’incertezza per non cadere nelle illusioni a cui il nostro cervello è esposto. A tal proposito potremmo dire che ciò percepiamo del mondo è una sorta di “allucinazione controllata”, ovvero un’ipotesi plausibile di cosa possa esserci fuori da noi (Anil Seth), ma per svariati motivi dobbiamo essere pronti a mettere in discussione se non vogliamo prendere delle cantonate e compiere scelte sbagliate.

Affermando che il nostro cervello ha l’interessante proprietà di essere sensibile all’incertezza e quindi dubitare, abbiamo appena descritto il primo mattone della struttura della nostra metacognizione, che ci spinge a cercare nuove soluzioni o nuovi indizi per agire in modi diversi sulla realtà.

Sono abbastanza certo che questa prima componente non risulti solo a me familiare. È qualcosa che avviene in terapia quando il paziente inizia a mettere in discussione le sue idee sul mondo o su se stesso.

Ma questo è solo l’inizio. Fleming, sempre con il supporto di una salda evidenza sperimentale, ci guida verso un altro mattone della nostra autoconsapevolezza.

Avete mai provato a salire su una scala mobile spenta? Avrete sicuramente notato che il nostro cervello deve inibire il movimento di assestamento che attiviamo in pratica (e ormai inconsapevolmente) ogni volta che prendiamo una scala mobile funzionante. Questo aspetto di monitoraggio continuo delle nostre azioni è il secondo mattone che Flaming descrive: la capacità di monitorare le nostre azioni. Trovo centrale sottolineare un aspetto molto interessante, ovvero che tali processi non sono sempre presenti alla nostra coscienza.

…noi deleghiamo compiti bene appresi ai livelli inconsci e subordinati di controllo dell’azione, e interveniamo solamente al bisogno”.

Vediamo come è strutturata la funzione di automonitoraggio. Essa si divide tra metacognizione implicita (che potremmo definire inconscia) e metacognizione esplicita (che potremmo definire consapevole). La prima è quella che ci avvicina di più al mondo animale, ma è la metacognizione esplicita a renderci unici.

Per quale ragione abbiamo acquisito una straordinaria capacità di diventare consapevoli di noi stessi?

La prima risposta che mi è venuta in mente sorridendo: altrimenti noi terapeuti avremmo dovuto inventarci un altro lavoro.

Ci stiamo dirigendo verso il terzo mattone della metacognizione: la teoria della mente.

Il modello che Fleming ha sviluppato insieme a Nathaniel Daw (esperto di modelli computazionali) si ispira al lavoro del filosofo Gilbert Ryle il quale sosteneva che riflettiamo su noi stessi applicando gli stessi strumenti che utilizziamo per comprendere la mente altrui.

Per riconoscere che una credenza potrebbe essere falsa, dobbiamo destreggiarci tra due modelli del mondo distinti. In qualche modo il cervello umano ha risolto come farlo, acquisendo una capacità insolita di pensare su se stesso“. Ma dove risiede questa funzione? Studi di neuroimaging funzionale ci permettono di osservare quali aree celebrali si attivano quando ci è chiesto di pensare a noi stessi: la corteccia pre-frontale (PFC) mediale e la corteccia parietale mediale sono quelle più coinvolte.

Ma cosa ci permette di formulare invece un giudizio su noi stessi? Questa risposta mi potrebbe aiutare a riflettere su cosa può accadere al mio paziente Martin.

La risposta potrebbe essere “avere una buona sensibilità metacognitiva”. Tutti noi in pratica siamo in grado di quantificare quanto le nostre autovalutazioni ci possano condurre verso il successo o meno.

Il problema è che la nostra metacognizione può essere vulnerabile agli stati emotivi oppure subire delle illusioni. “Come ogni strumento potente, la metacognizione è insieme creatrice o distruttrice.

Il mio paziente Martin, pensando di non aver assimilato bene l’esame, potrebbe decidere di non andare a sostenerlo perdendo tempo prezioso per il suo progetto di studi. Viceversa, percependoci troppo sicuri dinnanzi a una prova, potremmo esporci a una prestazione imbarazzante.

Come ci si protegge da tali illusioni? Semplice (apparentemente), coltivando una conoscenza della nostra metacognizione, imparando a conoscere le sue fragilità, i suoi punti deboli e come invece coltivarla rendendola una risorsa.

Anche questo punto mi sembra sempre molto familiare al contesto della terapia, non trovate?

Nella seconda parte del libro Flaming sottolinea appunto quanto la metacognizione possa costituire una base fondamentale per l’apprendimento e come quindi sia fondamentare comprendere come evitare di incorrere in quelli che definisce “deficit metacognitivi”.

Quando ci poniamo in una condizione di insegnamento verso gli altri, assumiamo una prospettiva che ci permette di percepire il nostro grado di preparazione su un dato argomento, di conseguenza quindi sviluppiamo una conoscenza più solida sull’argomento. “Gli uomini mentre insegnano, imparano” (Seneca).

Ma torniamo nuovamente a Martin. Secondo quanto affermato da Fleming, cosa possiamo fare per tutelarlo dalle illusioni e distorsioni della sua metacognizione?

Flaming afferma che “Quando gli studenti sono incoraggiati ad adottare una prospettiva in terza persona sul proprio apprendimento e a insegnare agli altri, saranno con meno probabilità vittime di distorsioni metacognitive”.

Ed ecco qui allora che, memore di quanto la nostra metacognizione possa essere più funzionale in uno spazio di relazione sicuro, ho avuto modo di appendere sorprendenti nozioni sulle materie di studio del mio paziente.

 Ma che cosa ci fa modificare un’idea? Probabilmente il sopraggiungere di nuove informazioni. Ma questo è sempre sufficiente? In clinica abbiamo salde esperienze su quanto una tipologia di pazienti tenda a restare ancorata a personali visioni del mondo, lungi dal considerare punti di vista alternativi. Flaming presenta una serie di studi dove viene illustrata l’importanza della metacognizione al fine di mettere in ragionevole discussione le nostre certezze. Riflettere su come sappiamo di sapere ci mette in condizione di valutare quanto siamo realmente sicuri.

Una nota fondamentale è che questo non può avvenire restando da soli. L’ambiente e le interazioni ci permettono di confrontarci e accrescere la nostra autoconsapevolezza.

Quando acquisiamo una nuova capacità accade che la nostra mente tende ad essere attenta ai particolari. Premi la frizione, inserisci la prima, alza lentamente il piede dal pedale fino al punto di attacco ecc… Sono abbastanza sicuro che nessuno di noi andando a lavoro ormai ripete questa minuziosa procedura. Si chiama “amnesia indotta dall’abilità (Beilock). L’attenzione è sicuramente un grande vantaggio in fase di apprendimento, ma è meno utile quando utilizziamo la nostra esperienza nella routine. Non ci stupirà sapere che non tutti i grandi ex atleti divengono formidabili allenatori. Saper effettuare bene un compito e saperlo raccontare descrivendolo agli altri non sono sempre capacità che viaggiano insieme. I sessatori di pulcini, ad esempio, sviluppano la capacità di discriminare il sesso dei piccoli volatili, attraverso un affiancamento all’esperto senior; è così che acquisiscono tale abilità sorprendente, difficilmente trasmissibile attraverso un’articolata spiegazione.

Ma saper costruire un racconto delle nostre capacità è fondamentale per la nostra autoconsapevolezza. Questo aspetto diventa molto interessante se ci si occupa di problematiche cliniche in cui la nostra autonarrazione (quello che pensiamo di stare facendo) si discosta in modo importante da quello che stiamo realmente facendo (il nostro comportamento) e quindi da ciò che di fatto accade nella realtà. Questa è una caratteristica tipica dei deliri associati alla schizofrenia.

Il filosofo Frankfurt fa una divisione tra desideri di ordine superiore e di ordine inferiore. Secondo il filosofo quando le due dimensioni coincidono, la nostra autonarrazione è coerente, quindi ciò che vogliamo e ciò che scegliamo coincidono.

Immaginiamo per esempio quanto le nuove tecnologie possano rendere fragile il rapporto tra desideri di ordine superiore e inferiore, dove il voler leggere questa recensione è il vostro desiderio superiore. Ma siccome sono consapevole della mia prolissità e della mia difficoltà nel fare articoli più sintetici, la vostra mente sarà stata distratta e tentata più volte di guardare il telefonino, un social e via dicendo, cercando magari un collegamento con i vostri amici, ovvero il desiderio di second’ordine. Se volessimo difendere il desiderio superiore, la consapevolezza della presenza o del sopraggiungere, dentro di noi, di un conflitto, potrebbe permetterci di compiere delle azioni volte a tutelare il desiderio superiore (leggere l’articolo) come, ad esempio, lasciare il telefono fuori dalla stanza. Esattamente cosa ho fatto io per scrivere questa recensione, facendo un intervento sulla mia agentività.

La parte finale del libro ci conduce al problema dell’autoconsapevolezza nell’era delle macchine, dove il rapporto con la tecnologia è ormai divenuto parte integrante della nostra realtà.

Flaming sostiene che “talvolta, scaricare il controllo sui sistemi automatici può essere pericoloso.

Una tecnologia sempre più complessa che risponde ai nostri bisogni potrebbe farlo a discapito della nostra autoconsapevolezza che si impoverirebbe.

Quanti di voi hanno inveito almeno una volta contro il correttore automatico del telefono? Ora immaginate questo in un panorama dove è un algoritmo intelligente a scegliere il film da vedere questa sera o ancor peggio chi invitare a cena.

Se affidassimo interamente, in futuro, questi nostri bisogni a forme di Intelligenza Artificiale (AI) la nostra autoconsapevolezza, affievolendosi, potrebbe trasformare bisogni fondamentali della nostra vita in tecno-dipendenze.

La realtà è che fortunatamente i sistemi di silicio non hanno una vera e propria metacognizione.

A questo problema l’autore ipotizza due strade:

  • Progettare una forma di autoconsapevolezza nelle macchine;
  • Assicurare che, quando ci interfacceremo con future macchine intelligenti, lo faremo così da impiegare l’autoconsapevolezza umana.

Una soluzione suggerita è quella di creare un’interfaccia uomo-macchina in grado di poter monitorare l’operato delle macchine, ma la scienza (forse per fortuna) è ancora lontana da questo.

In conclusione questo libro ha un forte potere di sensibilizzazione sull’importanza della metacognizione, affermando quanto sia importante coltivarla e rafforzarla, ma ancor più quanto sia necessario conoscerla e comprenderla per preservarla. La nostra autoconsapevolezza è quanto mai minacciata dalla corsa alla produttività e dall’uso sfrenato della tecnologia, caratteristiche dell’epoca moderna.

Sollevando il velo, anche solo per un momento, sul funzionamento della metacognizione, possiamo acquisire un nuovo rispetto per la fragilità e il potere della mente riflessiva.”

 

Intervista alla Dott.ssa Daniela Rebecchi – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 8

Intervistiamo la Dott.ssa Daniela Rebecchi poiché è stata parte attiva del progetto della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione in qualità di Esperto, per conoscere il suo parere e la sua esperienza rispetto a questo importante progetto.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 8) Intervista alla Dott.ssa Daniela Rebecchi

 

La Dott.ssa Daniela Rebecchi è psicologa psicoterapeuta, è stata direttrice dell’U.O.C. Psicologia Clinica, del dipartimento di salute mentale della Ausl di Modena, ed è attualmente responsabile della sede di Studi Cognitivi Modena, Direttore scientifico della Clinica Disturbi di Personalità di Modena.

Intervistatrice: Buongiorno Dott.ssa Rebecchi, grazie per la sua disponibilità a rispondere alle nostre domande. Cosa l’ha spinta a prendere parte al progetto della Consensus Conference?

Dott.ssa Rebecchi: Buongiorno a voi. La motivazione alla partecipazione al progetto è nata, innanzitutto, dalla condivisione dell’obiettivo generale della Conferenza, ovvero promuovere la conoscenza e l’applicazione delle terapie psicologiche di efficacia dimostrata per ansia e depressione e favorire l’accesso della popolazione a cure psicologiche appropriate. L’obiettivo si basa su un problema reale: il gap di trattamento, ovvero l’elevato numero di persone che soffrono di ansia e depressione e la scarsa disponibilità di accoglienza da parte dei servizi pubblici di salute mentale. Questa situazione spinge inevitabilmente molti a ricorrere al mercato privato, che ha costi maggiori, e molti altri, che non dispongono di adeguate risorse finanziarie, a rinunciare alle cure, quindi al proprio benessere psicologico. Nel nostro Paese, essere costretti a rinunciare alla cura della propria salute è incostituzionale, alla luce dei dettami che ne sanciscono la tutela da parte dello Stato (si faccia riferimento all’articolo 32 della Costituzione e all’Art.1 della legge n. 833/78).

Dunque, l’adesione è stata data dal valore umanitario e scientifico del progetto e anche dalla curiosità nel partecipare ai lavori di una Consensus Conference in ambito psicologico.

La collaborazione al progetto è avvenuta in qualità di esperto in uno dei Tavoli di lavoro “Modelli organizzativi e gestionali per l’erogazione degli interventi psicoterapeutici per ansia e depressione” e oggi nel Comitato Promotore .

Intervistatrice: Nel documento viene citato spesso, come rationale –motivazione di base–, il fatto che alcune forme di psicoterapia sono comparabili all’efficacia dei farmaci nel trattamento di ansia e depressione. Pensa che diffondere una conoscenza più ampia sul tema possa essere utile per incrementare l’accesso alle cure?

Dott.ssa Rebecchi: Certamente, infatti tra le raccomandazioni della Consensus è presente quella di sensibilizzare l’opinione pubblica (e i potenziali utenti) circa l’efficacia e la disponibilità delle terapie psicologiche, per rendere praticabile l’effettiva possibilità di scelta delle terapie psicologiche rispetto a quelle farmacologiche.

La presentazione ai cittadini dell’efficacia delle terapie psicologiche, e conseguentemente quali altre terapie risultano efficaci, è fondamentale per favorire l’operare di scelte consapevoli nell’affrontare situazioni di disagio e disturbo. Nello specifico, le preferenze delle persone rispetto al trattamento per la propria sofferenza è un fattore etico che incide sull’alleanza terapeutica e quindi sulla sua efficacia. Infatti, lo studio di Swift e colleghi (2011) ha mostrato che le persone che seguono la terapia preferita (tra psicoterapia, farmaci e trattamento integrato) hanno una migliore aderenza, un minore drop-out e un risultato nettamente migliore nella cura.

Dunque, per far sì che la scelta dei pazienti sia appropriata per il tipo di disturbo, è necessario rendere maggiormente accessibili informazioni scientificamente attendibili e pertinenti al caso.

La scelta tra seguire una terapia psicologica e un trattamento farmacologico andrebbe fatta sulla base delle evidenze empiriche secondo cui per i Disturbi Mentali Comuni (DMC; come ansia e depressione) la psicoterapia è spesso più efficace dei farmaci, poiché vi sono più benefici a lungo termine, quali meno ricadute, effetti più duraturi e che aumentano nel tempo.

A questo proposito, da più studi è emerso che i pazienti assegnati –a prescindere dalle loro preferenze– ad un trattamento farmacologico hanno un rifiuto e un abbandono della cura più elevato (rispettivamente del 76% e del 20%) di quelli assegnati alla psicoterapia (Swift et al. 2017). Mediamente, quasi un paziente su quattro con disturbi depressivi ed ansiosi in cura solo con il trattamento farmacologico abbandona prematuramente il percorso. Un’interessante tendenza emersa da altri studi (per esempio, McHugh et al., 2013) evidenzia che tre pazienti su quattro preferiscono un trattamento psicologico alla farmacoterapia.

L’INTERVISTA CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

I percorsi clinici della psicologia 2018 Rebecchi Recensione.jpg

Imm. 1 – I percorsi clinici della psicologia – Libro a cura di D. Rebecchi

Intervistatrice: Come pensa che possa essere recepito questo documento dai cittadini e dagli organi di Governo? Quali meccanismi potrebbe generare?

Dott.ssa Rebecchi: Sicuramente porterà a un incremento dell’informazione rispetto ai contenuti presenti nel documento sia per il cittadino che per i professionisti. Infatti, ritengo che il documento finale della Consensus Conference, o meglio una sintesi sui contenuti del documento, possa essere recepito quale base di corretta informazione per effettuare una scelta di cura più informata e consapevole da parte dei cittadini, che oggi mostrano una sempre maggior richiesta di informazioni sulle terapie psicologiche in generale. Ciò auspicabilmente potrebbe generare un aumento dell’utenza della richiesta di cura sia nel pubblico che nel privato.

Allo stesso modo, per il  Governo, in particolare per Ministero della Salute, può essere utile per strutturare meglio quanto già indicato dalla normativa vigente; basti pensare ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) del 2017, ove viene espressamente richiesto un intervento sanitario appropriato ed efficace che deve essere supportato da evidenze scientifiche. La criticità si riscontra nelle scelte delle Regioni, che hanno il mandato del potere decisionale in materia di programmazione e gestione della sanità nell’ambito territoriale di loro competenza, avvalendosi delle aziende sanitarie locali (Asl) e delle aziende ospedaliere. Anche per le Regioni, dunque, questo documento può essere lo spunto per una riflessione nell’ottica di un miglioramento dei sistemi che erogano servizi sanitari in risposta alle problematiche d’ansia e depressione .

Intervistatrice: Quando si parla di stepped-care, ovvero interventi strutturati su livelli d’intensità in base alla gravità dei sintomi, spesso si fa riferimento al modello inglese. Pensa che si possa attuare in Italia un programma come l’IAPT?

Dott.ssa Rebecchi: Se ci riferiamo a una riproposizione dell’IATP nel SSN, non credo che possa essere attuabile. Principalmente perché in Gran Bretagna sono stati il sistema governativo e le forze economiche ad attivare il progetto su base nazionale, in Italia penso sia difficilmente realizzabile. A questo si aggiunge nel nostro Paese l’assenza di una cultura delle evidenze empiriche e del monitoraggio degli esiti degli interventi.

Ciò non significa che progetti similari con medesime finalità non possano essere proposti sia nel SSN che nel privato.

Penso che possano essere costruite e realizzate nel territorio forme organizzative diverse ma similari, volte a facilitare l’accesso, a favorire interventi precoci, a individuare interventi a differenti livelli di intensità in base alla gravità dei sintomi, a monitorare e valutare gli esiti. Questo in riferimento al fatto che in Italia sono già presenti e attivi alcuni servizi nel SSN che operano secondo questi obiettivi, anche se rappresentano realtà isolate in differenti Regioni (per esempio, nel territorio di Modena).

Intervistatrice: Nel caso in cui il SSN riesca a strutturare l’offerta di cure psicologiche per ansia e depressione in modo più adeguato, cosa pensa che possa accadere al settore privato, che ad oggi detiene il mercato delle cure psicologiche?

Dott.ssa Rebecchi: Proprio per il gap di trattamento citato precedentemente, ad oggi le terapie d’ansia e depressione sono effettuate più nel privato che nel pubblico. Da una recente indagine si evince che nel SSN vengano erogate una maggioranza di terapie brevi, al contrario di ciò che avviene nel privato. Quindi allo stesso cittadino vengono presentate due tipologie di terapie differenti.

Quello che si può auspicare è che nel SSN venga offerta una risposta terapeutica appropriata e percorsi clinici strutturati per intensità di cura, ma anche che nel privato la terapia offerta risponda a criteri di appropriatezza e sia basata sulle evidenze scientifiche. Perciò, anche se il SSN attuasse i suggerimenti della Consensus Conference non riuscirà a soddisfare l’intera domanda; pertanto, il mercato delle cure private non subirà una variazione del flusso di richieste. Si inizia a parlare oggi di forme di collaborazione tra pubblico e privato per l’erogazione dei trattamenti psicologici e psicoterapici.

Intervistatrice: Sebbene non siano disponibili dati accertati relativi all’Italia, si parla molto del fenomeno del drop-out, ovvero un abbandono prematuro del percorso di cura da parte del paziente. Nell’ottica di un modello stepped-care distribuito dalle Regioni nel nostro Paese, come pensa che si possa evitare o gestire tale fenomeno in Italia?

Dott.ssa Rebecchi: Penso che prima di affrontare il problema dell’abbandono delle cure, per il nostro Paese sia indispensabile lavorare per favorire e incrementare l’accesso alla cure, in primis nel SSN ma anche nel privato.

Una volta messi in atto strumenti come la differente intensità delle cure, un’offerta diversificata di terapie efficaci e il monitoraggio degli esiti degli interventi, può essere utile ragionare su come gestire l’interruzione delle cure da parte dei pazienti. In generale, penso che per gestire il drop-out si possa lavorare sull’ingaggio alla cura, effettuare una buona valutazione soprattutto nei casi complessi, discutere con il paziente i possibili scopi di cura e quali terapie possono essere più efficaci per la specifica difficoltà, per operare una scelta nella quale il paziente si senta protagonista, sempre guidata dal clinico.

Intervistatrice: Cosa ne pensa delle borse lavoro messe al bando da ENPAP?

Dott.ssa Rebecchi: Quella che sarà l’esperienza delle borse lavoro messe al bando dall’ENPAP, ma anche l’attuale attività psicoterapica legata alla decisione del Governo del Bonus Psicologico, possono rappresentare una sfida nella facilitazione degli accessi alle terapie, nell’offerta di terapie efficaci e al monitoraggio degli esiti.

Intervistatrice: Quali pensa che possano essere i limiti di un progetto come la Consensus Conference?

Dott.ssa Rebecchi: Sicuramente il progetto ha rappresentato un notevole e insolito sforzo culturale, oltre che di grande valore scientifico, tuttavia è possibile evidenziare dei limiti.

I limiti, dal punto di vista metodologico, risiedono nella pretesa della Consensus di non essere esaustiva nei lavori e di concentrarsi dunque solo sulle aree ritenute fondamentali dai quesiti individuati. Impostazione del lavoro che ha certamente una sua fondatezza e ragion d’essere pragmatica, poiché l’argomento di discussione deve necessariamente essere circoscritto ed è proprio il focus specifico che consente un lavoro puntuale, oltre che funzionale in termini di diffusione dei risultati.

I temi di ansia e depressione sono stati individuati perché rappresentano una sofferenza dei cittadini, evidenziata da dati epidemiologici, che non trova risposta in termini di assistenza pubblica nel SSN.

Tuttavia, la discussione in merito alla carenza dell’assistenza sanitaria pubblica riservata a questi disturbi ha riguardato una specifica fascia d’età: gli adulti.

Ciò che deve essere ancora approfondito riguarda la gestione dei servizi per ansia e depressione –epidemiologicamente presenti– nell’infanzia, nella terza e quarta età, come evidenziato anche nel report finale della Consensus.

Intervistatrice: Per concludere, cosa le ha lasciato questa esperienza?

Dott.ssa Rebecchi: Essendo i partecipanti al progetto affiliati a differenti enti e rappresentanti di diverse ambiti e prospettive, ed essendo l’obiettivo della Consensus proprio quello di trovare accordo tra i vari punti di vista, ho trovato il momento del confronto di grande valore, in alcuni casi anche acceso, ma sempre costruttivo e fonte di arricchimento personale.

Intervistatrice:  Ed è proprio sul valore del confronto che concludiamo questa interessante intervista. Il confronto con lei ci ha permesso di approfondire alcuni risvolti pratici della Consensus Conference e, allo stesso tempo, ha stimolato altre riflessioni in merito alla situazione dell’assistenza sanitaria per la salute mentale in Italia.

La ringraziamo per il suo tempo e per aver condiviso con noi la sua esperienza e il suo pensiero!

 

Le Kharjas: Frammenti di Letteratura Erotica Medioevale in Lingua Mozarabica (2018) di Paolo Azzone – Recensione

Paolo Azzone nel volume Le Kharjas: Frammenti di Letteratura Erotica Medioevale in Lingua Mozarabica” propone un punto di vista originale sulla fisiologia e la patologia delle relazioni di coppia. 

 

Si dice spesso che la vita di coppia attraversi nella società contemporanea una crisi senza precedenti. Ormai anche nel nostro paese quasi la metà dei matrimoni sono destinati a risolversi con un divorzio più o meno doloroso e giuridicamente litigioso. La crisi della coppia si associa a una non meno manifesta dissoluzione dei ruoli tradizionali, che la società attribuiva ai sessi, nella coppia e nella famiglia. Il marito e il padre hanno deposto la consueta funzione di autorevolezza e guida nella famiglia e nell’educazione dei figli, mentre la donna di oggi si realizza sempre più nella realtà lavorativa al di fuori della vita familiare.

La crisi della coppia è una frequente richiesta d’aiuto nei contesti psicologici e psicoterapeutici e, d’altra parte, il trattamento di molti casi con sintomatologia clinicamente significativa richiede anche un’esplorazione o un vero trattamento della coppia coniugale. In questa realtà difficile, Paolo Azzone propone un punto di vista originale sulla fisiologia e la patologia delle relazioni di coppia.

Un punto di vista che cerca le sue risposte nel passato. Con Le Kharjas” Azzone (Italic/Pequod, Ancona, 2018) cerca risposte per il presente interrogando la letteratura medievale. Sceglie di focalizzarsi sulla lirica d’amore, in particolare su una tradizione pressoché sconosciuta nel nostro paese. Offre la prima traduzione sistematica delle Kharjas, poesie andaluse in lingua mozarabica. Si tratta di antiche composizioni liriche, cantate dalle donne cristiane suddite degli arabi che dominarono l’Andalusia nei primi secoli del medioevo.

In un saggio psicologico e letterario introduttivo l’autore esplora questi testi alla ricerca di ruoli sociali e liturgie di corteggiamento che siano in qualche modo incontaminati dalla riflessione psicologica e sociologica a noi contemporanea. La prospettiva di Azzone è dunque quella psicoanalitica. Azzone sgombra il campo da ipotesi semplicistiche e ci avverte che il misterioso oriente non è il luogo della soddisfazione immediata o assoluta del desiderio. L’oriente è semmai il luogo di una specifica rappresentazione. E il protagonista indiscusso di questa rappresentazione è il desiderio, non la gratificazione. La società delle Kharjas è dominata dall’angoscia. E il focus di questa angoscia è la donna, il suo illimitato potere di seduzione. E accanto alla donna il corpo. Nella prospettiva freudiana di Azzone, i corpi, la fisiologia della riproduzione, i meccanismi dell’eccitazione e del desiderio, plasmano indelebilmente il sistema di fantasie inconsce che costituisce il mondo interno di ciascuno di noi. Per Azzone, il paradigma freudiano consente di illuminare in modo straordinario molteplici forme culturali e sociali attraverso cui l’umanità, nel corso della sua storia, ha rappresentato e nello stesso tempo concretamente organizzato le relazioni amorose.

Quel che è caratteristico delle Kharjas è che, con poche eccezioni, esse segnano l’ingresso improvviso di una voce nuova nel testo lirico: una voce femminile. Nelle Kharjas, ci raggiunge attraverso i secoli una voce di donna innamorata. Un tratto molto specifico della lirica erotica associata alla penisola iberica che sa accendere nel nostro cuore una risonanza emotiva intensa. La donna mozaraba leva il suo canto, apre il suo cuore al maschile. Per Azzone questa è la speranza di riconciliazione tra l’aspettativa d’amore della donna e il desiderio maschile che non sempre riescono a incontrarsi. Nelle liriche mozarabiche Azzone intravede la semplicità dell’amore fatto non di desideri inappagabili ma della gioia dell’incontro. Non vi è l’uso parassitario e onnipotente dell’oggetto, ma l’esitazione, la speranza, il potere della seduzione femminile nella sua inevitabile relazione con la dipendenza e il bisogno che caratterizzano in fondo l’amore maschile. Per Azzone, queste liriche, le suggestioni dell’orientalismo sono il punto di partenza per costruire una teoria della coppia e dell’amore idonea a illuminare il lavoro psicoterapeutico, in setting sia di coppia che individuali.

Completa il volume la postfazione di Giovanna Gigli, che offre un necessario punto di vista femminile. Gigli conferma alcune delle preoccupazioni e delle angosce delineate da Azzone sulle incomprensioni e le differenze che separano il sesso maschile dal femminile. Ammette che le Kharjas danno suono a una voce femminile. La sua prognosi è però meno speranzosa, poiché Gigli nota come nelle Kharjas non si parla delle conseguenze pratiche dell’amore. Lo si vagheggia come fonte di vita, sorgente di dolore per la separazione dall’amato, ma non si accenna alla gravidanza, al parto e ai figli. Per Gigli, le Kharjas ci rimandano a un amore idealizzato ma non realistico, privo degli affanni pratici della maternità che affliggono le donne. E su questa nota pessimistica che distingue Gigli da Azzone e, per l’ennesima volta, una femmina da un maschio (e forse la femmina dal maschio) chiudiamo questa recensione.

 

Il disturbo traumatico dello sviluppo: la necessità di una nuova diagnosi

Il Disturbo Traumatico dello Sviluppo integra più forme di disregolazione (affettiva, comportamentale, cognitiva, relazionale, psicosomatica), tutte legate all’esposizione a più traumi interpersonali nel contesto familiare durante l’infanzia (Spinazzola et al., 2018).

 

Disturbo Traumatico dello Sviluppo, Trauma Interpersonale e Polivittimizzazione

La diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo (Developmental Trauma Disorder, DTD) è stata proposta da Bessel van der Kolk nel 2005 con l’obiettivo di classificare la sintomatologia presente in bambini e adolescenti esposti a traumi interpersonali, superando i criteri diagnostici del Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder, PTSD; D’Andrea et al., 2012; van der Kolk, 2015; van Der Kolk et al., 2019).

Il termine “trauma interpersonale”, anche detto “vittimizzazione interpersonale” (Haahr-Pedersen et al., 2020), racchiude in sé quelle forme di maltrattamento a cui gli individui possono essere sottoposti durante l’infanzia. Ne fanno parte, per esempio, il maltrattamento fisico e gli abusi sessuali, ma anche situazioni di abuso emotivo o di abbandono, o il deterioramento della relazione primaria con il caregiver. Attualmente, in letteratura, manca una diagnosi specifica per spiegare l’impatto negativo sullo sviluppo conseguente all’esposizione a queste situazioni traumatiche (D’Andrea et al., 2012; Spinazzola et al., 2018).

Nel 2005, Finkelhor e collaboratori hanno introdotto il concetto di “polivittimizzazione” per indicare l’esperienza di molteplici e differenti traumi interpersonali, e le rispettive conseguenze in bambini e adolescenti (Finkelhor et al., 2005; Haahr-Pedersen et al., 2020). I bambini polivittimizzati presentano una sintomatologia più acuta rispetto a chi ha vissuto solo un momento potenzialmente traumatico: il numero totale di traumi interpersonali risulta essere un predittore significativo della pervasività dei sintomi di stress post-traumatico (Finkelhor et al., 2005).

Le ricerche condotte sui bambini polivittimizzati hanno portato alla proposta di una nuova diagnosi, quella del Disturbo Traumatico dello Sviluppo.

Criteri proposti per il Disturbo Traumatico dello Sviluppo

Il Disturbo Traumatico dello Sviluppo integra più forme di disregolazione (affettiva, comportamentale, cognitiva, relazionale, psicosomatica), tutte legate all’esposizione a più traumi interpersonali nel contesto familiare durante l’infanzia (Spinazzola et al., 2018).

Nel febbraio 2009 è stata presentata una bozza dei criteri diagnostici proposti per il DTD dal National Child Traumatic Stress Network (NCTSN). Poiché il Disturbo Traumatico dello Sviluppo non è ancora stato inserito nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association [APA], 2013), è importante considerare i seguenti criteri come delle semplici descrizioni dei sintomi più comuni manifestati dai bambini che hanno fatto esperienza di traumi interpersonali (Spinazzola et al., 2021; van der Kolk, 2015; van Der Kolk et al., 2019).

Caratteristica fondamentale per una diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo è che il bambino o l’adolescente abbia vissuto o assistito sia a una vittimizzazione interpersonale, sia ad un’interruzione dell’attaccamento con il caregiver primario (a causa, per esempio, di una separazione prolungata, di negligenza, o di abuso verbale/emotivo).

Sono poi stati individuati 15 sintomi specifici per il Disturbo Traumatico dello Sviluppo, suddivisi in tre differenti domini: disregolazione emotiva/somatica, disregolazione cognitiva/comportamentale e disregolazione auto/relazionale (Spinazzola et al., 2021).

  • Disregolazione psicosomatica o emotiva: 1) Incapacità di tollerare o superare stati emotivi difficili (per esempio, paura, rabbia, vergogna); 2) Avversione al tatto o ai suoni, o presenza di un disagio psicosomatico non meglio spiegato da un punto di vista medico; 3) Diminuita consapevolezza delle proprie emozioni e stati fisici; 4) Compromissione della capacità di descrivere emozioni o stati fisici.
  • Disregolazione comportamentale e attenzionale: 5) Mancato o eccessivo allarme verso stimoli minacciosi, sia ambientali che relazionali; 6) Alterazione della capacità di proteggersi e/o esposizione a situazioni rischiose; 7) Manovre di autoconforto disfunzionali (per esempio, dondolio e altre stereotipie motorie, masturbazione compulsiva); 8) Comportamenti automutilanti senza tendenze suicidarie; 9) Compromissione della capacità di avviare o sostenere un comportamento orientato all’obiettivo.
  • Disregolazione della percezione di sé e delle relazioni interpersonali: 10) Avversione verso se stessi, senso di inaiutabilità, convinzione di mancanza di valore, di essere sbagliati o difettosi; 11) Disturbi nella relazione di attaccamento (difficoltà di separazione o timore nel ricongiungimento con il caregiver); 12) Senso di sfiducia nei propri o altrui confronti, con atteggiamenti ipercritici o di rifiuto nei confronti delle persone più vicine, sia adulti che pari; 13) Comportamenti aggressivi (verbali e fisici) verso le persone più vicine, sia adulti che pari; 14) Comportamenti inappropriati (eccessivi o promiscui) di vicinanza e fiducia verso estranei; 15) Difficoltà o incapacità nel regolare il contatto empatico (eccessivo coinvolgimento o distacco nelle situazioni sociali).

Mancato riconoscimento della diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo

In vista della stesura della quinta edizione del DSM, si era proposto di introdurre ufficialmente la diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo. La richiesta è stata però rifiutata a causa della mancanza, in quel momento storico, di prove empiriche che sostenessero la necessità di questa diagnosi, la quale sembrava essere solo il risultato di “un’intuizione clinica” piuttosto che il prodotto di ricerche scientifiche validate (Spinazzola et al., 2021; van der Kolk, 2015).

Similitudini e differenze tra Disturbo Traumatico dello Sviluppo e PTSD

Affinché la diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo venga approvata dall’American Psychiatric Association è importante dimostrare le differenze che la rendono una problematica distinta rispetto al più comune e riconosciuto PTSD (Spinazzola et al., 2021).

La diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo è stata inizialmente proposta come un adattamento per bambini parallelo alla diagnosi per adulti di Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (Complex Post-Traumatic Stress Disorder, CPTSD; Ford et al., 2018). Ciononostante nel Disturbo Traumatico dello Sviluppo sono stati poi inclusi altri sintomi, diversi da quelli tipici del PTSD o del CPTSD, e per questo motivo è importante considerarlo come un disturbo con caratteristiche proprie, e non come il sottotipo di altre diagnosi (van Der Kolk et al., 2019).

Sia il Disturbo Traumatico dello Sviluppo che il PTSD vengono associati a una storia di esposizione a diversi tipi di trauma interpersonale e attaccamento insicuro, eppure solo il Disturbo Traumatico dello Sviluppo può essere associato all’esposizione ad ambienti violenti con presenza di caregiver non responsivi alle richieste del bambino (Spinazzola et al., 2018; van Der Kolk et al., 2019). Il Disturbo Traumatico dello Sviluppo viene quindi associato specificatamente a vissuti di abuso emotivo e a una separazione traumatica/rottura del legame di attaccamento con il caregiver primario (Spinazzola et al., 2021). Altre tipologie di trauma interpersonale, come le aggressioni e gli abusi fisici, o il vivere una perdita traumatica, risultano invece essere associate solamente a un possibile esordio di PTSD (Spinazzola et al., 2018, 2021).

Utilità clinica di una diagnosi di Disturbo Traumatico dello Sviluppo

Bambini che hanno sperimentato una serie di traumi interpersonali e un attaccamento insicuro potrebbero esordire con una manifestazione sintomatologica simile a quella del PTSD, ma che si estende ulteriormente, andando a includere sintomi identificati come tipici del Disturbo Traumatico dello Sviluppo, come difficoltà nella regolazione delle emozioni, difficoltà di controllo comportamentale e difficoltà relazionali (Spinazzola et al., 2018). Per questo motivo, secondo questa prospettiva applicare una diagnosi di PTSD a dei bambini che presentano sintomi differenti, oltre che risultare impreciso, riduce anche le possibilità di somministrare loro un trattamento efficace (D’Andrea et al., 2012). Risulta quindi necessario integrare un quadro diagnostico proprio per il Disturbo Traumatico dello Sviluppo, così da poter pianificare dei trattamenti specifici per bambini e adolescenti polivittimizzati (DePierro et al., 2019; van Der Kolk et al., 2019).

 

Effetto spettatore: quando un omicidio viene ripreso ma non impedito

L’assassino di Alika Ogorchukwu non era armato, poteva essere fermato, poteva essere evitata una morte così ingiusta. Perché nessuno è intervenuto? La spiegazione sembra risiedere nell’effetto spettatore.

 

 “Nigeriano ucciso a Civitanova Marche. I passanti riprendono senza intervenire”. Questo è uno dei tanti titoli degli articoli di giornale pubblicati di recente, dove a far scalpore, oltre alla morte cruda ed ingiusta di Alika Ogorchukwu, un venditore ambulante, è stata l’incuranza e la passività dei passanti.

L’episodio “White Bear” della serie Black Mirror sembrerebbe quasi predire il fatto di cronaca, dove cittadini filmano attraverso i propri dispositivi telefonici una donna inseguita da persone mascherate e minacciose con l’intenzione di ucciderla. L’inespressività dei cittadini, la passività e l’incapacità di empatizzare ciò che stavano filmando drammatizza ancora di più la scena della serie.

Come si può essere spettatori e riprendere momenti simili senza remora alcuna?

Bibb Latané e John Darley, psicologi sociali Statunitensi, a seguito di un altro simile fatto di cronaca avvenuto nel 1964 in America, diedero una spiegazione a questa domanda.

Catherine Susan “Kitty” Genovese, ventinovenne americana, venne stuprata ed aggredita con pugnalate alle spalle da Winston Moseley, lungo le strade della città. Così come quei 38 abitanti di un paese periferico di New York non intervennero (Manning, R., Levine, M. & Collins, A, 2007), anche nel 2022 cittadini e passanti sono rimasti inermi dietro a uno schermo del telefono come ai concerti, attenti ad inquadrare perfettamente, non un artista, ma una scena orribile, dove urla e sangue non erano finzione cinematografica.

L’assassino di Alika Ogorchukwu non era armato, poteva essere fermato, poteva essere evitata una morte così ingiusta, nessuno è riuscito ad agire, se non premendo il tasto “rec” sul proprio telefono.

Perché chi assiste non interviene?

I due psicologi indagarono sul fatto che maggiore è il numero di spettatori, minore è la probabilità che uno o più di loro agisca, fenomeno che viene definito “effetto spettatore” (o apatia degli astanti, in inglese Bystander Effect).

Quando più persone si trovano ad assistere a scene di cronaca come quelle sopra descritte, i singoli spettatori credono che gli altri abbiano più informazioni riguardo a ciò che sta accadendo e che sappiano come sia giusto comportarsi. Si conformano dunque al comportamento altrui, senza avere la consapevolezza del fatto che, adottando tutti quel tipo di comportamento, si corre il rischio di rimanere inermi senza fare ciò che è adeguato fare, dando spazio all’“ignoranza pluralistica infragruppo” e alla diffusione di responsabilità. (Brown, R.,2000).

Latané e Darley hanno ritenuto sbagliato dunque comprendere le caratteristiche delle singole persone in una situazione di mancato soccorso, ma piuttosto studiare le relazioni che si creano tra chi è testimone.

 La prima fase che affronta uno spettatore di un gruppo che osserva l’avvenimento è quella di entrare nella consapevolezza che si sta assistendo ad un accaduto, successivamente decidere se ciò che si osserva richiede aiuto, assumersi dunque la responsabilità di un eventuale soccorso che si intende fornire ed in conclusione stabilire come intervenire e concretizzare la decisione. Tutta questa sequenza comportamentale trova maggiore difficoltà nell’assunzione di responsabilità, la quale inibisce l’eventualità che le persone facciano qualcosa per intervenire (Palmonari, A. e Cavazza, N.,2003).

Gli studiosi Latané e Darley per confermare la veridicità dell’effetto spettatore, nel 1968 alla Columbia University misero in atto un esperimento.

Studenti universitari avevano il compito di compilare un questionario tutti all’interno della stessa stanza. Solo uno era il soggetto sperimentale che in alcune situazioni si trovava solo, in altre in compagnia di altri soggetti consapevoli dell’esperimento.

Dopo un po’, in entrambe le situazioni, all’interno della stanza veniva sprigionato un evidente fumo non nocivo. Il 63% dei soggetti che si trovavano soli in stanza si resero conto del fumo immediatamente, mentre, la maggior parte dei soggetti che si trovavano in compagnia, non se ne interessavano. Questo a conferma del fatto che trovarsi in compagnia di altre persone inibisce la percezione e la reazione ad eventuali pericoli per i quali invece dovremmo agire (Palmonari, A. e Cavazza, N., 2003).

Concludendo, dunque, quando le nostre scelte si basano sulle azioni degli altri, se nessuno reagisce allora non riteniamo necessario intervenire: se pensiamo che è solo grazie al nostro aiuto se una situazione può migliorare allora siamo propensi a prestarlo, viceversa se sono presenti altre persone che possono offrirsi, allora saremo meno disposti ad offrirci come aiutanti (Hogg, M.A. e Vaughan, G.M., 2016). La conoscenza di questo fenomeno, però, potrebbe fare la differenza nei momenti più critici.

 

L’ansia da competizione nello sport

Anche se un atleta ha seguito un percorso di allenamento impegnativo e ha preparato particolari strategie per una determinata prova, è possibile che non riesca a eseguire una performance ottimale a causa dell’ansia da competizione.

 

Introduzione all’ansia da competizione

 L’ansia da competizione è stata identificata da vari ricercatori come una delle tematiche più studiate nel campo della psicologia sportiva (Ong e Chua, 2021). Viene definita come uno stato di ansia in risposta a una situazione legata al contesto sportivo che l’individuo percepisce come stressante e che comporta un’attivazione fisiologica e cognitiva, accompagnata a delle risposte comportamentali.

L’ansia da competizione è stata concettualizzata per la prima volta nella teoria dell’ansia multidimensionale di Martens, Vealey e Burton, nel 1990 (Ong e Chua, 2021). Questa teoria vede l’ansia da competizione come un costrutto composto da una parte cognitiva e una somatica. L’ansia cognitiva rappresenta l’aspetto mentale dell’ansia, e comprende aspetti legati al pensiero come rimuginio e pensieri negativi. L’ansia somatica, invece, è la manifestazione fisiologica dell’ansia da competizione, che implica segnali di attivazione corporea, come tensione e nervosismo.

Gran parte delle ricerche si è sempre concentrata sull’ansia da competizione di stato, ovvero una tipologia di ansia caratterizzata da un’attivazione temporanea e contesto-specifica legata a una prestazione sportiva, come una partita o un incontro.

Lo strumento utilizzato per misurare l’ansia competitiva di stato è la Revised Competitive State Anxiety Inventory-2 (Cox et al., 2003; Ong e Chua, 2021), che contiene sottoscale specifiche per l’ansia cognitiva, l’ansia somatica e la fiducia in sé stessi.

Le conseguenze dell’ansia da competizione

Le conseguenze dell’ansia da competizione possono essere numerose e possono risultare altamente problematiche per gli atleti (HasanaH e Refanthira, 2020). Questo tipo di ansia è legata al mondo dello sport, e non compromette solamente la qualità della performance dei professionisti, ma anche degli atleti amatoriali. Infatti, anche se un atleta ha seguito un percorso di allenamento impegnativo e ha preparato particolari strategie per una determinata prova, è possibile che non riesca a eseguire una performance ottimale proprio a causa dell’ansia da competizione. La componente psicologica risulta quindi fondamentale, infatti, secondo alcune ricerche, proprio la componente psicologica ha determinato la vittoria di circa l’80% delle vittorie professionistiche in numerosi sport. Ciò è dovuto proprio al fatto che l’ansia da competizione ha una forte influenza sulla motivazione dell’individuo.

 Questo tipo di ansia compare spesso poco prima che l’individuo abbia un incontro o una partita, e tende a compromettere la performance dell’atleta (HasanaH e Refanthira, 2020). In questi casi, il solo focus sull’allenamento fisico e sulla strategia da seguire non è sufficiente ad incoraggiare l’atleta, che non riuscirà a dimostrare al meglio le proprie capacità. Infatti, qualora un individuo esperisse ansia da competizione, si presenterebbero una serie di conseguenze sia fisiche, come battito cardiaco e respirazione accelerati o tensione muscolare, sia psicologiche, come basso morale, paura di perdere, valutazione negativa dell’ambiente e scarsa autostima. Questo sistema di sintomi è circolare e causa disagio nell’atleta, il quale esperirà ansia a causa dell’eccessiva preoccupazione verso i sintomi fisici, che a loro volta vengono causati da quelli psicologici.

Come gestire l’ansia da competizione?

La soluzione che fino ad oggi sembra essere la più efficace nella gestione dell’ansia da competizione è un percorso di supporto psicoterapeutico integrato con tecniche fisiche di rilassamento (Ong e Chua, 2021). Alcuni strumenti che possono supportare l’atleta nel gestire l’ansia da competizione riguardano l’utilizzo di una serie di tecniche mentali, come il self-talk motivazionale, la pianificazione di obiettivi, la ristrutturazione cognitiva e tecniche di respirazione. Una particolare attenzione va data alle tecniche che enfatizzano la protezione della fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità, in quanto è vista come un fattore chiave che aiuta a gestire i sintomi negativi dell’ansia e a promuovere l’interpretazione di tali sintomi.

Tutte queste tecniche, insieme al percorso psicoterapeutico, hanno lo scopo di permettere all’atleta di raggiungere una performance ottimale. Inoltre, il supporto psicoterapeutico può essere anche rivolto verso eventuali allenatori o compagni di squadra, con incontri di psicoeducazione, al fine di fornire così un ulteriore strumento nell’affrontare l’ansia da competizione.

 

Psicologia Politica e analisi della personalità dei politici: intervista al Dr. Aubrey Immelman

Si riporta l’intervista al Dr. Aubrey Immelman, esperto in psicologia politica e nell’analisi della personalità di figure politiche.

Ndr: dopo l’intervista in Italiano, segue la versione originale in Inglese

 

 Intervistatrice: Abbiamo il piacere di intervistare il Dr. Aubrey Immelman, Ph.D., Professore Associato di Psicologia presso il College of Saint Benedict e la Saint John’s University in Minnesota, dove dirige l’Unità per lo Studio della Personalità in Politica (USPP), un programma di ricerca collaborativo dedicato alla valutazione psicologica dei candidati presidenziali e dei leader mondiali.

Cosa l’ha portata a sviluppare l’idea di un metodo di profilazione politica?

Dr. Aubrey Immelman: Sono entrato nel campo nascente della psicologia politica alla fine degli anni ’80, alla ricerca di metodologie per valutare la personalità in politica come veicolo per prevedere il comportamento dei leader politici. Essendo stato formato professionalmente come clinico, sono rimasto sconcertato nello scoprire che gli approcci esistenti alla valutazione della personalità politica avevano poca somiglianza con gli strumenti e le tecniche del mio mestiere. Mi sono sempre più convinto che, sia concettualmente che metodologicamente, gran parte del lavoro in corso sulla personalità politica fosse psicodiagnosticamente ritenuto periferico, se non irrilevante. Questo non vuol dire che questi studi fossero del tutto inutili: in realtà le loro formulazioni politico-psicologiche erano spesso perspicaci e convincenti. Tuttavia, mi sembrava che alcuni di questi modelli di valutazione non misurassero esattamente ciò che pretendevano di misurare – la personalità – sollevando preoccupanti domande sulla validità del costrutto. In altre parole, i principali problemi erano — a livello concettuale — che lo studio della “personalità” politica era stato tradizionalmente più politico che psicologico o personologico; mentre — a livello metodologico – un certo grado di consenso ha iniziato a emergere a partire dagli anni ’70, convergendo verso l’idea che il percorso corretto per la valutazione della personalità politica fosse l’analisi del contenuto del materiale verbale piuttosto che l’analisi psicodiagnostica dei dati biografici.

Mi ero chiesto: in primis cosa potrebbe spiegare lo scisma sconcertante tra la pratica clinica convenzionale e la valutazione della personalità politica? E perché, ad esempio, qualcuno avrebbe dovuto voler dedurre la personalità indirettamente dall’analisi del contenuto dei discorsi e delle interviste pubblicate, quando una ricchezza di osservazioni dirette da più fonti – comunemente indicate come informazioni collaterali nel gergo della psicodiagnostica – esisteva già nella documentazione pubblica, pronta da estrarre ed elaborare?

Ma, soprattutto, perché qualcuno avrebbe dovuto costruire, ex novo, tassonomie della personalità politica – come se i politici costituissero una sottospecie dell’Homo sapiens – quando esistevano già sistemi di classificazione con riferimento alla popolazione generale? Ho sviluppato il mio metodo di profilazione politica a partire da George Marcus (2002), che ha lanciato un appello a “teorie completamente nuove, nuovi concetti e nuovi dati” al fine di riabilitare la psicologia politica, rimasta alla deriva ed avulsa da sfere più ampie della conoscenza scientifica come dai progressi attuati dalle neuroscienze e dalla teoria evolutiva, e dalla prospettiva di Theodore Millon, che prima ha gettato le basi e, poi, ha indicato la strada per il procedere della psicologia politica, consentendo così di abbandonare quello che lui stesso definiva un “patchwork di concetti e domini di dati”, avanzando una teoria integrativa della personalità e della leadership politica, dove la persona in politica viene considerata come un’entità bio-psicosociale.

Intervistatrice: In Italia, sebbene Theodore Millon sia celebre, la sua teoria, così come i suoi inventari di personalità, non sono così conosciuti ed utilizzati. Ce ne vuole parlare brevemente? E perché ha scelto il suo modello?

Dr. Aubrey Immelman: Camara, Nathan e Puente (2000) hanno riferito che il Millon Clinical Multiaxial Inventory è uno dei 10 dispositivi di valutazione più utilizzati nella psicologia forense. L’utilità dimostrata dell’approccio di Millon in ambito forense – probabilmente l’area di applicazione nella pratica clinica che si avvicina di più alle preoccupazioni della valutazione della personalità politica – suggerisce fortemente che dovrebbe essere altrettanto adatto all’esame psicologico dei leader politici.

Un vantaggio degli inventari della personalità di Millon è che sono congruenti con i disturbi della personalità catalogati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association. Inoltre, il modello di Millon ha una solida base teorica (nella psicologia evolutiva), a differenza, ad esempio, del popolare modello di personalità a cinque fattori (FFM), che è una tassonomia costruita matematicamente senza forti basi teoriche.

Ho sviluppato il mio Millon Inventory of Diagnostic Criteria, basato sul modello di Millon, per le ragioni sopra esposte, così come per il fatto che accoglie i disturbi di personalità così come le loro varianti normali; in altre parole, ogni pattern di personalità rappresenta una categoria diagnostica che include un aspetto dimensionale (che comprende varianti normali, esagerate e patologiche di ogni pattern di personalità).

Intervistatrice: Secondo lei, come stanno assieme tratti di personalità e politica?

Dr. Aubrey Immelman: Il politologo della Princeton University Fred Greenstein (1992), forse, lo ha detto meglio nel sostenere lo studio della personalità in politica:

Le istituzioni ed i processi politici operano attraverso l’azione umana. Sarebbe notevole se non fossero influenzati dalle proprietà che distinguono un individuo dall’altro (p. 124).

Il modo in cui tratti della personalità e politica vanno insieme, secondo me, è che i tratti della personalità ed il comportamento politico sono manifestazioni superficiali di proprietà psicodinamiche sottostanti comuni, forse non osservate. Una possibile metafora di ciò potrebbe essere la distinzione tra fenotipo e genotipo. Un’altra similitudine riguarda il modello correlazionale, in cui la variabile x è la personalità, la variabile y è il comportamento politico (o di leadership) e la variabile z indica le proprietà sottostanti comuni. Come implica questa analogia, la relazione tra tratti della personalità e comportamento politico non esiste come fenomeno causa-effetto (variabile indipendente – variabile dipendente).

Intervistatrice: Nonostante i limiti di una valutazione indiretta, in che modo il suo metodo potrebbe essere d’aiuto?

Dr. Aubrey Immelman: Come anticipato nella risposta alla prima domanda (alla fine degli anni ’80), rimasi sorpreso di come gli approcci esistenti alla valutazione della personalità in politica assomigliassero ben poco agli strumenti e ai metodi di valutazione della mia professione clinica: ad esempio, al modo di avvicinarsi ad una valutazione psicologica in un contesto forense.

All’epoca, l’approccio dominante alla valutazione della personalità politica a distanza si basava sulla deduzione indiretta della personalità dall’analisi del contenuto dei discorsi e delle interviste pubblicate. Ero convinto che la personalità potesse essere valutata più direttamente mediante l’estrazione di contenuti di rilevanza psicodiagnostica dalle osservazioni di giornalisti e biografi; e che la trasposizione di tali osservazioni potesse essere oggetto di una valutazione di rilevanza psicodiagnostica mappando i tratti della personalità su una tassonomia di modelli di personalità congruenti con i disturbi di personalità descritti nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali e le loro varianti normali, come previsto dal modello concettuale di Theodore Millon.

Un altro aspetto utile del mio approccio Milloniano, chiamato “meta-analisi psicodiagnostica”, è che evita le ricostruzioni psicogenetiche, a volte capziose, che sono state prevalenti dall’inizio nella psicologia politica (comprese la psicostoria e la psicobiografia). Queste ricostruzioni genetiche, per lo più orientate alla psicoanalisi possono essere approssimative e non falsificabili come, ad esempio, l’articolo della Psychohistory Review “François Mitterand: Personality and Politics” dove la rigidità, l’ostinazione, la timidezza, l’ansia e l’orientamento al potere dell’ex leader francese, vengono attribuite da Guiton (1992) al toilet training e alla separazione durante il periodo pre-edipico.

La metanalisi psicodiagnostica non cerca di costruire un profilo di personalità sulla base del tentativo di ricostruire la psicogenesi infantile del soggetto ma, invece, privilegia un approccio descrittivo alla valutazione della personalità, con l’obiettivo primario di collegare i tratti della personalità al comportamento di leadership. In breve, “la ricostruzione genetica non costituisce una base ottimale per la valutazione e la descrizione della personalità”.

Intervistatrice: Lei ha analizzato diverse personalità politiche americane e non. In un nostro articolo, qualche settimana fa, abbiamo raccontato il suo studio su Putin che cerca di dare una chiave di lettura indiretta del suo possibile funzionamento. In tutto il mondo sono state fatte le più disparate interpretazioni sulla mente di Putin (dalla pazzia.. alla malattia). Dall’epoca della sua analisi empirica, pensa sia cambiato qualcosa in Putin e se sì cosa? Per par condicio ci vuol dire qualcosa su Joe Biden?

Dr. Aubrey Immelman: A partire dal mio lavoro del 2018 ritengo che, considerando che Putin ha aderito alla visione del mondo “Russkiy Mir” per almeno due decenni, la sua cognizione politica sembra essere più un’ossessione incorporata nel suo modello di personalità Coscienziosa, piuttosto che un’illusione in comorbidità con i suoi modelli di personalità Dominante e Ambizioso. Detto in altre parole, l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin può essere vista più come guidata da una compulsione che da una spinta delirante o “paranoica”.

Pertanto, sarebbe un errore attribuire le azioni di Putin esclusivamente a determinanti personologiche (P) del comportamento politico (C). Sulla base di una ricerca condotta presso l’USPP, è plausibile che una determinante situazionale significativa (S) – di fatto una variabile precipitante – della decisione di Putin di invadere l’Ucraina sia il passaggio dall’amministrazione di Donald Trump (il presidente degli Stati Uniti più aggressivo e meno accomodante studiato sotto gli auspici dell’USPP negli ultimi tre decenni) a quello di Joe Biden (il presidente meno aggressivo, più accomodante/conciliante, qui). Se, in effetti, il calcolo politico di Putin fosse stato informato dalla sua percezione dell’attuale occupante della Casa Bianca come un comandante in capo avverso al rischio, conciliante e non conflittuale, quella percezione avrebbe potuto essere rafforzata dal fiasco del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan ad agosto 2021.

Intervistatrice: Anche in Italia avremmo tanti personaggi politici interessanti.. l’aspettiamo per un’analisi approfondita. La ringraziamo moltissimo per il suo tempo.

Dr. Aubrey Immelman: Sarei felice di collaborare con ricercatori in Italia a studi di politici italiani utilizzando il MIDC. Negli ultimi due decenni ho collaborato a lungo con Christ’l De Landtsheer all’Università di Amsterdam e all’Università di Anversa.

Original english version of the interview

With enormous pleasure we have the opportunity to conduct an interview with Dr. Aubrey Immelman, Ph.D., Associate Professor of Psychology at the College of Saint Benedict and Saint John’s University in Minnesota, where he is the director of the Unit for the Study of Personality in Politics (USPP), a collaborative faculty–student research program dedicated to the psychological assessment of presidential candidates and world leaders.

Interviewer: Thank you, Professor Immelman, for agreeing to be interviewed by State of Mind. What brought you to develop a political profiling method?

Dr. Aubrey Immelman: I entered the fledgling field of political psychology in the late 1980s in search of methodologies for assessing personality in politics as a vehicle for predicting the behavior of political leaders. Having been professionally trained as a clinician, I was baffled to discover that extant approaches to the assessment of political personality bore little resemblance to the tools and techniques of my trade. Increasingly, I became convinced that, both conceptually and methodologically, much of the work ongoing in political personality was psychodiagnostically peripheral, if not irrelevant. That is not to say that these studies were entirely worthless; indeed, their political-psychological formulations were frequently insightful and compelling. However, it seemed to me that some of these assessment models, particularly those relying on content analysis, did not exactly measure what they purported to measure — personality — raising troubling questions of construct validity. In other words, the main problems were: — on a conceptual level — it was evident that the study of the political “personality” had traditionally been more political than psychological or personological; while – at the methodological level – a certain degree of consensus began to emerge starting from the 70s, converging towards the idea that the correct path for the evaluation of political personality was the analysis of the content of verbal material rather than the psychodiagnostic analysis of biographical data; while— on a methodological level — a degree of consensus began to emerge in the 1970s, converging around the notion that the proper route to political personality assessment was content analysis of verbal material rather than psychodiagnostic analysis of biographical data.

I wondered: firstly, what could possibly account for the perplexing schism between conventional clinical practice and political personality assessment? Why, for example, would anyone want to infer personality indirectly from content analysis of speeches and published interviews when a wealth of direct observations from multiple sources — commonly referred to as collateral information in the parlance of psychodiagnostics — already existed in the public record, ready to be mined, extracted, and processed? And why would anyone construct, de novo, political personality taxonomies — as though politicians comprised a subspecies of Homo sapiens — when classification systems already existed with reference to the general population? Starting with George Marcus (2002), who has issued a call for “entirely new theories, new concepts, and new data” capable of rehabilitating political psychology, which has remained adrift and divorced from broader spheres of scientific knowledge as well as from the advances made by neuroscience and evolutionary theory; and from the perspective of Theodore Millon, who first has both built the foundations and pointed the way for political psychology to proceed, thus allowing to abandon what himself called a “patchwork quilt of concepts and data domains”, advancing an integrative theory of personality and political leadership performance, where the person in politics is considered as a bio-psychosocial entity. Based on this, I developed my own method of political profiling.

Interviewer: Despite the prominence of Theodore Millon, in Italy his theory, as well as his personality assessment tools, are not widely known and used. Would you like to briefly introduce them and explain why did you choose Millon’s theory?

Dr. Aubrey Immelman: Camara, Nathan, and Puente (2000) reported that the Millon Clinical Multiaxial Inventory counts among the 10 most frequently used assessment devices in forensic psychology. The demonstrated usefulness of Millon’s approach in forensic settings – arguably the area of application in clinical practice that most closely approximates the concerns of political personality assessment — strongly suggests that it should be similarly well suited to the psychological examination of political leaders.

An advantage of Millon’s personality inventories is that they are congruent with personality disorders cataloged in the American Psychiatric Association’s Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. In addition, Millon’s model has a strong theoretical foundation (in evolutionary psychology), unlike – for example – the popular five-factor model of personality (FFM) that is a mathematically constructed taxonomy without strong theoretical underpinnings.

I developed my Millon Inventory of Diagnostic Criteria, based on Millon’s model, for the reasons stated above, as well as the fact that it accommodates personality disorders as well as their normal variants; in other words, each personality patterns represents a diagnostic category that includes a dimensional aspect (encompassing normal, exaggerated, and pathological variants of each personality pattern).

Interviewer: In your opinion, how do personality traits and politics go together?

Dr. Aubrey Immelman: Princeton University political scientist Fred Greenstein (1992) perhaps said it best in making the case for studying personality in politics:

Political institutions and processes operate through human agency. It would be remarkable if they were not influenced by the properties that distinguish one individual from another (p. 124).

How personality traits and politics go together, in my opinion, is that personality traits and political behavior are surface manifestations of common, perhaps unobserved, underlying psychodynamic properties. A possible analogy for this might be the distinction between phenotype and genotype. Another simile involves the correlational model, in which variable x is personality, variable y is political (or leadership) behavior, and variable z signifies the common underlying properties. As implied by this analogy, the relationship between personality traits and political behavior does not exist as a cause–effect (independent variable–dependent variable) phenomenon.

Interviewer: Despite the limitations of an indirect assessment of personality, how do you think your method of psychodiagnostic meta-analysis could be useful?

Dr. Aubrey Immelman: As mentioned in the first question, i was surprised to discover more than 30 years ago (in the late 1980s) that existing approaches to the assessment of personality in politics at the time bore little resemblance to the tools and assessment methods of my profession – for example, the way I would approach psychological assessment in a forensic setting.

For example, the dominant approach to at-a-distance political personality assessment at the time relied on inferring personality indirectly from content analysis of speeches and published interviews. I was convinced that personality could be more directly assessed by means of extracting psychodiagnostically relevant content from the observations of journalists and biographers and transposing those observations into a psychodiagnostically relevant assessment by mapping personality traits onto a taxonomy of personality patterns congruent with the personality disorders described in the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders and their normal variants, as provided for in Theodore Millon’s conceptual model.

Another useful aspect of my Millonian approach, labeled “psychodiagnostic meta-analysis”, is that it avoids the sometimes-specious psychogenetic reconstructions that have been prevalent in political psychology (including psychohistory and psychobiography) from the outset. These mostly psychoanalytically oriented genetic reconstructions can be impressionistic and unfalsifiable, for example, the Psychohistory Review article “François Mitterand: Personality and Politics” (Guiton, 1992), which attributed the former French leader’s stiffness, obstinacy, shyness, anxiety, and power orientation to toilet training and separation during the pre-Oedipal period.

Psychodiagnostic meta-analysis does not attempt to construct a personality profile on the basis of attempting to reconstruct the subject’s childhood psychogenesis, but instead favors a descriptive approach to personality assessment, with the primary goal of linking personality traits to leadership behavior. In short, genetic reconstruction does not constitute an optimal basis for personality assessment and description.

Interviewer: You have analyzed various presidential candidates and world leaders. In our article, a few weeks ago, we tried to summarize your method, taking as example your study on Putin, that tries to give a reading key on his possible functioning. All over the world, the most disparate hypotheses were made about him (from his madness … to his illness). Since your empirical study, do you think something in Putin has changed and if it is, what? Par condicio, would you tell us something about Joe Biden?

Dr. Aubrey Immelman: Since my previous work i believe that, considering that Putin has subscribed to the “Russkiy Mir” worldview for at least two decades, his political cognition appears to be more an obsession embedded in his Conscientious personality pattern than a delusion comorbid with his Dominant and Ambitious personality patterns. Stated differently, Putin’s invasion of Ukraine may be viewed more as compulsion driven than as delusional or “paranoidal.”

Thus, it would be a mistake to attribute Putin’s actions exclusively to personological determinants (P) of political behavior (B). Based onresearch conducted at the USPP, it is plausible that a significant situational determinant (S) – effectively, a precipitating variable – of Putin’s decision to invade Ukraine is the transition from the administration of Donald Trump (the most aggressive and least accommodating U.S. president studied under the auspices of the USPP in the past three decades) to that of Joe Biden (the least aggressive, most accommodating/conciliatory president, here for further information). If, indeed, Putin’s political calculus was informed by his perception of the current occupant of the White House as a risk-averse, conciliatory, nonconfrontational commander-in-chief, that perception could have been reinforced by the fiasco of the U.S. withdrawal from Afghanistan in August 2021.

Interviewer: Even in Italy we would have many interesting political personalities, so, we are waiting for your analysis! Meanwhile, we thank you for your time.

Dr. Aubrey Immelman: I would be happy to collaborate with researchers in Italy on studies of Italian politicians using the MIDC. In the past two decades I have collaborated extensively with Christ’l De Landtsheer at the University of Amsterdam and the University of Antwerp.

 

 

Il fenomeno del malingering: l’intenzionalità del soggetto di ingannare

Gli elementi costitutivi del malingering sono due: l’intenzionalità del soggetto di ingannare producendo sintomi falsi e il raggiungimento di incentivi o vantaggi esterni.

 

Il malingering e la simulazione

 Il termine simulare deriva dal latino simulatio e significa ingannare, fingere che qualcosa sia ciò che non è (Ciallella e Rinaldi, 2009). All’interno della simulazione distinguiamo dei fenomeni di faking: il faking bad, ossia l’alterazione in senso peggiorativo, e il faking good, per mostrare un’immagine di sé migliore rispetto a quella reale (Ellingson e McFarland, 2011). Nella letteratura scientifica il faking bad è conosciuto con il termine, di derivazione militare, “malingering”, che va ad indicare l’atto per cui il soldato richiede di essere sottoposto a visita medica e viene così riconosciuto dal medico tra i malati.

La simulazione è quindi un processo psicologico caratterizzato dalla decisione cosciente di un individuo di riprodurre dei sintomi fisici o psicologici falsi e di mantenere tale imitazione per un tempo più o meno lungo, fino al conseguimento di uno scopo prefissato (Callieri e Semerari, 1959). L’obiettivo, di solito, è quello di ottenere determinati benefici, come un compenso finanziario, oppure evitare la scuola o il lavoro, ottenere droghe e sostanze o avere condanne penali più leggere (Pancheri e Cassano, 1999; Fornari, 2018).

Il DSM-5 (APA, 2013), tuttavia, non annovera la simulazione tra le diagnosi, ma la riporta come una condizione, ossia come “simulazione di malattia”.

Perciò, gli elementi costitutivi del malingering sono due: l’intenzionalità del soggetto di ingannare producendo sintomi falsi e il raggiungimento di incentivi o vantaggi esterni (Ferracuti, Parisi e Coppitelli, 2007).

Il tema della simulazione è legato a quello della dissimulazione. Secondo Ekman (1995) simulazione e dissimulazione rappresentano due strategie attraverso cui un soggetto mente e si differenziano in quanto chi dissimula nasconde delle informazioni senza dire nulla di falso; chi simula, invece, presenta un’informazione alterata come se fosse vera.

Simulazione, sindrome di Ganser e disturbi fittizi

Vi sono alcune patologie che, apparentemente, possono avere degli elementi comuni con la simulazione, ma in realtà sono differenti da essa.

Tra queste abbiamo la sindrome di Ganser, che prende il nome proprio dallo psichiatra tedesco che la descrisse per la prima volta nel 1898. Essa è definita come uno “stato crepuscolare isterico”, il cui sintomo fondamentale è il “rispondere di traverso” (Ganser, 1897; Carney et al., 1987). La sindrome di Ganser è classificata dal DSM-5 (APA, 2013) come “disturbo dissociativo con altra specificazione” (Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007) e viene distinta dalla simulazione, come avviene nell’ICD-10 (WHO, 1992).

La differenza fondamentale tra la simulazione e la sindrome di Ganser risiede nello stato di coscienza. Il simulatore, infatti, è completamente o quasi completamente lucido; mentre nella sindrome di Ganser la componente intenzionale sembra essere più sfumata e prevarrebbe quella dissociativa, con evidenti e accentuati aspetti crepuscolari e confusionali (Latcham, White e Sims, 1978).

A distinguersi dalla simulazione vi sono anche i disturbi fittizi, che vengono categorizzati dal DSM-5 (APA, 2013) come “simulazione di malattia, provocata a sé o ad altri”, caratterizzata dalla falsificazione di sintomi fisici e/o psichici che l’individuo produce o simula intenzionalmente con lo scopo di mostrarsi malato, o di mostrare agli altri come un’altra persona sia malata, sempre per motivazioni interne e non legate ad una finalità medico-legale (Slick e Sherman, 2012; Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007). In poche parole, gli individui “scelgono” di rendersi malati per una loro “necessità psicologica”, ma non per ottenere dei vantaggi riconoscibili (Eisendrath, 1996; Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007).

Quindi, a differenza del malingering, in alcuni disturbi fittizi l’incentivo sta semplicemente nello svolgere il ruolo di paziente, piuttosto che nell’ottenere un incentivo esterno (Pankratz, 1981), aspetto che rappresenta la principale distinzione dalla simulazione.

Una forma peculiare dei disturbi fittizi è la sindrome di Münchausen (APA, 2013), caratterizzata da frequenti ricoveri, dove questi pazienti di solito arrivano lamentando malattie e sintomi inesistenti. Componenti essenziali di tale sindrome sono il mentire in maniera patologica e, soprattutto, consapevole, e l’autolesionismo (Pankratz, 1981).

 Parallelamente alla sindrome di Münchausen, vi è la sindrome di Münchausen per procura (Münchausen Syndrome by Proxy – MSbP; Meadow, 1977; Rosenber, 1987), che viene ormai denominata come “disturbo fittizio provocato ad altri”, tra i disturbi fittizi del DSM-5 (APA, 2013). Questa sindrome ha ricevuto particolare attenzione in quanto, di solito, coinvolge la figura di accudimento, la quale “fa ammalare” deliberatamente un’altra persona, di solito il proprio figlio, procurandogli o simulando un danno fisico e/o psicologico, oppure convincendo gli altri che questa persona sia malata (Carriero et al., 2020; Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007).

Simulare una psicopatologia è molto difficile, in quanto i sintomi devono essere prolungati nel tempo e spesso vengono manifestati sintomi e segni incongrui (Cialella e Rinaldi, 2009).

Malingering e simulazione in ambito forense

Esistono patologie la cui simulazione è particolarmente diffusa nei contesti psicoforensi e ciò è dovuto probabilmente al fatto che alcune sindromi sono particolarmente intuitive, per le loro manifestazioni e per la disponibilità di risorse informative, e questo potrebbe facilitare la simulazione. Non potendo però controllare le variabili che portano un soggetto a simulare una patologia piuttosto che un’altra, è necessario porre almeno attenzione ai quadri clinici simulati di solito, da quelli più comuni a quelli più controversi.

La simulazione di schizofrenia è relativamente rara, e di solito si osserva in contesti psichiatrico-forensi di carattere penale, per reati gravi come omicidio. Simulare con efficacia una condizione psicotica è complicato, richiede tempo e conoscenze che oggigiorno un soggetto può aver acquisito o attraverso l’esperienza con familiari con una tale patologia simile o con precedenti ricoveri in TSO (Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007).

Invece, sono molteplici le situazioni in cui sono simulate o esagerate le condizioni amnesiche. Molto spesso gli indagati o imputati possono dichiarare semplicemente di non ricordare il fatto e, meno di frequente, sostengono di non essere in grado di ricordarlo per farsi dichiarare incapaci a livello processuale. Si osserva una compromissione amnesica anche in altre patologie, per esempio di tipo neurologico, per condizioni epilettiche, etc., quindi questa enorme eterogeneità di possibili cause di sviluppo di un disturbo di memoria pone problemi di valutazione di una simulazione di amnesia (Ferracuti, Parisi e Coppotelli, 2007).

Infine, sebbene sembrerebbe che la falsificazione di sintomi di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) sia più difficile da trovare, allo stesso modo sono stati fatti molti studi sulle motivazioni alla falsificazione di tali sintomi per motivi come il risarcimento, la vendetta, il voler attirare l’attenzione o semplicemente la sottrazione di responsabilità penale, e queste sono anche valutate nel contesto di eventi diversi, per esempio per evitare la responsabilità di un omicidio o per richiedere un risarcimento per un infortunio sul lavoro (Peace e Masliuk, 2011).

In conclusione, possiamo dire che, ad oggi, individuare la simulazione con successo è diventata una questione sempre più di crescente preoccupazione per i professionisti (McCaffrey e Weber, 1999). E, sebbene la maggior parte di questi abbia familiarità con la definizione di malingering, rimane un fenomeno complicato da identificare con precisione (Rogers et al., 2004).

 

Consumo di alcol, binge drinking e discriminazione razziale

Il 55% delle persone multirazziali subisce discriminazioni, molto più frequentemente rispetto agli individui monorazziali ed è probabile che la discriminazione razziale vada ad influenzare il consumo eccessivo di alcol o altre sostanze. 

NDR – La terminologia usata nell’articolo rispetta la traduzione dei termini e delle espressioni utilizzate dai ricercatori dello studio e dalla letteratura specialistica di riferimento di area anglosassone

 

 L’abuso di alcol può causare cambiamenti cognitivi, sociali, emotivi, neurofisiologici e spesso provoca malattie croniche (Toumbourou et al., 2007).

Alcuni studi in letteratura hanno dimostrato che gli individui multirazziali sono soggetti più a rischio di un consumo elevato di alcol e a conseguenze negative rispetto a quelli monorazziali (Chavez e Sanchez, 2010).

L’affiliazione all’identità razziale è la forza con la quale un individuo si identifica con uno o più gruppi razziali (Hud-Aleem e Countryman, 2008); talvolta può accadere che per alcune persone sia difficile stabilire con quale razza si identificano e con quale forza. L’affiliazione razziale promuove una maggiore autostima e autoefficacia, riducendo la vulnerabilità alla discriminazione e influenzando il modo in cui le persone vedono se stesse. Vengono definiti multirazziali coloro che hanno genitori appartenenti a due etnie differenti e che dichiarano di avere due o più appartenenze razziali (Wang e Taylor, 2012).

Il consumo pesante di alcol, definito anche come binge drinking dal National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism (NIAAA), prevede un consumo di cinque drink in due ore per i maschi e quattro per le femmine per almeno cinque giorni al mese. È causa di conseguenze negative per la salute fisica e mentale e costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo da uso di alcol (Oesterle et al., 2004).

Alcuni studiosi hanno osservato che l’affiliazione razziale può influire nello sviluppo di un consumo di alcolici (Cheng e Lee, 2009).

Un forte senso di appartenenza all’identità razziale sembra infatti essere un fattore protettivo contro l’abuso di sostanze per le persone provenienti da contesti minoritari ed è relazionato al benessere generale. Nei contesti multirazziali sembra essere un fattore protettivo anche per l’ansia e la depressione e sembra anche aumentare l’autostima (Lusk et al., 2010). Diverse ricerche hanno dimostrato che una forte appartenenza a un’identità razziale era associata ad un utilizzo meno frequente sia di droghe come cocaina o marijuana, sia di alcol. Questo sembra essere dovuto al fatto che le persone multirazziali percepiscono maggiori discriminazioni rispetto a individui monorazziali.

Il legame tra discriminazione razziale e consumo di alcol

Il Pew Research Center ha riscontrato che il 55% delle persone multirazziali subisce discriminazioni, molto più frequentemente rispetto agli individui asiatici, di colore o bianchi (Greig, 2014), sebbene una maggiore discriminazione razziale sia fortemente correlata a un maggiore consumo di alcol anche tra gli individui appartenenti a gruppi minoritari monorazziali. È probabile che la discriminazione razziale influenzi il consumo eccessivo di alcol o altre sostanze.

Uno studio di Franco e O’Brien del 2018, per esempio, ha mostrato come l’invalidazione razziale –tipologia di discriminazione che implica la negazione da parte degli altri dell’etnia in cui si identifica un individuo– influisce negativamente sulla percezione di sé e sull’affiliazione all’identità razziale tra gli individui multirazziali. Tali discriminazioni condizionano e influenzano anche l’adattamento psicologico: coloro che subiscono discriminazioni razziali risultano essere meglio integrati e adattati psicologicamente se hanno un’affiliazione all’identità multirazziale più forte (Jackson et al., 2012).

Dato che in letteratura è presente soltanto uno studio che esamina il ruolo della discriminazione razziale vissuta e la sua associazione con il binge drinking, soprattutto in relazione all’appartenenza all’identità razziale, l’argomento richiede approfondimenti per gli individui multirazziali (Gale, 2017).

La discriminazione e il consumo di alcol tra le persone multirazziali

 Uno studio di Nalven e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di confrontare i livelli di discriminazione razziale vissuta, l’appartenenza all’identità razziale e il consumo pesante di alcol tra gli adulti multirazziali e monorazziali, e verificare se l’appartenenza all’identità razziale, la discriminazione razziale vissuta e la loro interazione fossero significativamente associate al binge drinking tra gli individui multirazziali. Nello specifico, gli autori ipotizzavano che le persone multirazziali avessero più probabilità di riportare alti livelli di discriminazione, punteggi inferiori nell’affiliazione all’identità razziale, e una maggiore probabilità di fare utilizzo elevato di alcolici. Inoltre, ipotizzavano che l’affiliazione all’identità razziale, la discriminazione razziale subita e la loro interazione fossero significativamente associate al consumo pesante di alcol negli adulti multirazziali.

Sono stati analizzati i dati del National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions-III (NESARC-III; Grant et al., n.d.) e intervistati 36.309 adulti, ai quali è stato somministrato l’AUDADIS-5 (Ruan et al., 2008). Nello studio sono state incluse persone asiatiche, bianche, di colore e 598 individui multirazziali.

I risultati mostrano che gli individui multirazziali hanno sperimentato una discriminazione razziale significativamente maggiore rispetto agli individui bianchi o asiatici, ma minore rispetto agli individui di colore. Inoltre, gli individui multirazziali hanno riferito una minore affiliazione alla propria razza rispetto agli individui di colore o asiatici; ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che lo sviluppo dell’identità multirazziale può essere complesso e gli individui multirazziali possono avere difficoltà a decidere quale tra i molteplici gruppi razziali li rappresenta maggiormente (Renn, 2008). In aggiunta, gli individui multirazziali avevano una probabilità significativamente maggiore di un consumo eccessivo di alcol rispetto agli asiatici, ma non differivano dagli individui bianchi o di colore. Infine, la discriminazione razziale subita è risultata significativamente correlata al binge drinking negli adulti multirazziali, sebbene né l’appartenenza all’identità razziale né l’interazione tra l’appartenenza all’identità razziale e la discriminazione razziale subita siano risultate significativamente correlate al consumo pesante di alcol.

Considerazioni conclusive

In conclusione, i risultati mostrano che gli individui multirazziali, rispetto ad altri individui appartenenti ad alcune minoranze monorazziali, sperimentano elevati livelli di discriminazione razziale. Quest’ultima è correlata al binge drinking, anche a causa della scarsa affiliazione all’identità razziale.

Ulteriori approfondimenti sugli effetti dell’appartenenza all’identità razziale e della discriminazione razziale vissuta potrebbero contribuire a sviluppare interventi per ridurre l’eccessivo consumo di alcol nelle persone multirazziali.

 

Il disgusto nell’umorismo, nella sessualità e nell’estetica

Il disgusto è sempre disgustosamente negativo? … A volte può essere disgustosamente piacevole!

 

 Il disgusto è un’emozione primaria universalmente condivisa e osservabile (Ekman, 1992). Come tutte le emozioni, ha una funzione legata all’adattamento e alla sopravvivenza dell’organismo, ovvero l’avvisarci della potenziale pericolosità di alcuni stimoli (come agenti patogeni contenuti nei cibi). Infatti, tipicamente il disgusto implica una sensazione di repulsione e pensieri di potenziale contaminazione, accompagnati da comportamenti di evitamento o rifiuto dello stimolo che si ritiene potenzialmente contaminante.

Noi esseri umani siamo altamente suscettibili a provare disgusto se consideriamo che il nostro corpo è un deposito di entità disgustose, oltre al fatto che viviamo in un ambiente costantemente e altamente contaminato (Rozin et al., 2016).

Nonostante riusciamo a ignorare molti dei fattori che elicitano disgusto intorno a noi, grazie all’abituazione o all’interpretazione dello stimolo, ci possono essere alcune situazioni in cui siamo proprio noi a cercare il disgusto. Infatti, la potente negatività del disgusto sembra attivare qualcosa di particolare nell’essere umano, basti vedere la sua presenza in almeno tre diversi ambiti: umorismo, relazioni romantiche e arte (Strohminger, 2014).

Umorismo e disgusto

Per quanto riguarda l’umorismo, il disgusto gioca un ruolo significativo nella comicità attraverso l’uso di battute e giochi di parole (Rozin et al., 2016). Mediante il cosiddetto umorismo nero (“black humor”), il disgusto è presente anche in cartoni animati famosi, come per esempio “I Griffin”, “American Dad” e “South Park”. Per black humor s’intendono battute che spesso causano un mix di sentimenti come shock, disgusto, vergogna e ovviamente gioia (Gubanov et al., 2018).

Non è il tipo di humor che condividiamo subito con una persona sconosciuta. Se l’umorismo normale segnala all’altro l’intenzione di far evolvere la comunicazione a un livello più amichevole, il black humor è molto più intimo. Questo perché tocca argomenti tabù, che hanno la stessa valenza in tutte le epoche e per tutti i popoli, come morte e violenza, gravi malattie e deformità fisiche, devianze sessuali e discriminazione, tragedie umanitarie e catastrofi naturali. A volte, nella cornice del black humor, le battute su questi temi così sensibili sfruttano proprio l’emozione di disgusto, che si prova nell’immaginare la scena, per suscitare divertimento e risate.

Bloom (2004) sottolinea l’aspetto distruttivo nei riguardi della dignità del disgusto, e vede l’umorismo sul disgusto come la capacità di approfittare del fatto che il corpo umano è di base disgustoso.

Il piacere del disgusto è stato descritto come un esempio di “masochismo benigno”, ovvero il piacere di un’esperienza normalmente negativa vissuta in maniera differente, quando percepita come non minacciosa e lontana dalla propria persona (Rozin et al., 2013).

Sessualità e disgusto

Nell’intimità, spesso le sostanze che derivano dai rapporti sessuali possono essere viste come disgustose, soprattutto se appartenenti ad altri (Rozin et al., 2016; de Jong et al., 2014). Infatti, i prodotti corporei sono tra i più forti elicitors – specifici stimoli che suscitano le emozioni – di disgusto. Dato che il disgusto è un’emozione difensiva che protegge l’organismo dalla contaminazione, focalizzata sul confine tra sé e l’altro, con la bocca e gli organi riproduttivi che sono le parti del corpo che mostrano la più forte sensibilità al disgusto, e dato il ruolo centrale di questi organi nel comportamento sessuale, come è possibile che le persone riescano ad avere rapporti sessuali piacevoli?

 Alcuni autori hanno ipotizzato che i prodotti corporei derivanti da atti sessuali possono diventare attraenti ed eccitanti se emesse dalla persona amata (Rozin et al., 2016). Inoltre, godere degli odori e delle sostanze delle persone amate in alcuni casi è visto come devozione, attrazione e dissoluzione del normale confine tra se stessi e un’altra persona.

Estetica e disgusto

L’associazione tra arte e disgusto affonda le sue radici nelle leggende classiche che vedono come protagonisti creature quali, per esempio, Polifemo, Medusa e il Minotauro (Carrol e Contesi, 2019). Invece, nel bestiario contemporaneo delle creature abominevoli possiamo citare, per esempio, il personaggio di Stephen King Pennywise, di Clive Barker Rawhead Rex e di J.R.R. Tolkien Gollum.

Anche nell’arte visiva ritroviamo questa emozione, per esempio rimaniamo disgustosamente estasiati dalla rappresentazione dell’Inferno nel Giudizio Universale di Michelangelo (Carrol e Contesi, 2019).

Questo accostamento può essere notato specialmente nei film horror, in cui spesso sono presenti immagini o sequenze disgustose elaborate appositamente per intrattenere il pubblico (McCauley, 1998). Infatti, la cultura popolare ha interi generi cinematografici i cui oggetti predominanti sono disgustosi, come lo splatter-punk (ad esempio, “Family Tradition”) e le onnipresenti apocalissi zombie, rappresentate da famosi programmi televisivi come “The Walking Dead” e tanti altri (Carrol e Contesi, 2019).

Questo gusto –per così dire– per il disgusto suggerirebbe che il suo fascino nell’arte si sia evoluto a partire da un curiosità del genere umano verso le stranezze e le anomalie (Carrol e Contesi, 2019). Eppure, nonostante la vasta evidenza dell’esistenza del disgusto come tema significante nell’arte, la tradizione nega che sia un legittimo soggetto di vera arte, data l’associazione secolare tra arte e bellezza, a sua volta associata al piacere. In questi termini il dibattito rimane aperto.

Per alcuni studiosi, questo tipo di intrattenimento può essere un esempio del “masochismo benigno” citato precedentemente (Rozin et al., 2016).

Quindi il disgusto non è sempre un’emozione negativa, in alcuni casi può divertirci o intrattenerci piacevolmente!

 

Gaslighting, una forma di manipolazione psicologica subdola e insidiosa

Il gaslighting è una forma di violenza psicologica che cerca di seminare dubbi in un individuo, facendogli mettere in discussione i propri ricordi, sentimenti e la propria sanità mentale. 

 

 Usando la negazione persistente, il depistaggio, la contraddizione e la menzogna, il manipolatore tenta di destabilizzare la vittima innescando sentimenti di colpa (Dorpat, 1994). Segni di gaslighting sono nascondere informazioni alla vittima, abusi verbali anche in presenza di terzi (non sai fare niente, non capisci niente, sei una stupida) e isolare la vittima dalle figure affettive di riferimento. Tutto ciò non fa altro che indebolire gradualmente la sua autostima (Greenberg, 2017). Queste tecniche di manipolazione sono usate da narcisisti e psicopatici i cui tratti principali sono la mancanza di empatia, il disinteresse circa le conseguenze del proprio comportamento e l’instaurare delle relazioni solo se da queste possono trarne vantaggi per se stessi (Stout, 2005).

Il gaslighting può verificarsi nelle relazioni private, nella scuola come forma di bullismo e sul lavoro come forma di mobbing. Il gaslighting sul posto di lavoro può verificarsi quando gli individui eseguono azioni che portano i colleghi a mettere in discussione se stessi e le loro azioni in un modo dannoso per la loro carriera (Portnow, 1997). La vittima può essere deliberatamente esclusa, oggetto di pettegolezzi o persistentemente screditata nel tentativo di distruggere la sua autostima (Young, 2016). Il gaslighting può essere commesso da qualsiasi collega e può essere particolarmente dannoso quando l’autore è qualcuno che riveste una posizione di potere. Il gaslighting, soprattutto quando è di lunga durata, può causare ansia, depressione e persino psicosi. I gaslighters inoltre proiettano i loro difetti sulla vittima e le rubano idee creative e meriti. Ad esempio, un capo abusivo incompetente cercherà di presentare la vittima come incompetente e si approprierà dei suoi meriti (Simon, 2011).

Dinamica del gaslighting

I tre modelli comportamentali più comuni che si presentano nelle relazioni di gaslighting sono il love-bombing, l’isolamento della vittima e l’atteggiamento caldo/freddo (Willis 2022).

Il Love-Bombing è presente all’inizio della relazione, tuttavia è difficile differenziarlo dal love-bombing che caratterizza le prime fasi di relazioni sane: i contatti colloquiali sono sempre più gratificanti e frequenti, non mancano complimenti, lusinghe e attenzioni. Possono tuttavia emergere comportamenti insoliti, ad esempio nello studio condotto da Willis et al. (2022), un partecipante ha riferito: “Dopo tre giorni ha detto di amarmi, il che mi è sembrato un po’ strano, ma non ci ho dato molto peso perché anche io sono stata travolta da lui poiché è piuttosto affascinante”. Questo dimostra come il love-bombing può confondere le vittime, facendo perdere loro la capacità di giudizio. Occasionalmente le manifestazioni di affetto inadeguate erano di natura materiale: “Ha continuato a inondarmi di regali costosi come gioielli, fiori e cene”. Il love-bombing svolgerebbe diverse funzioni. In primo luogo, indurrebbe le vittime a non dar credito al comportamento abusivo attuale e futuro del partner. Servirebbe inoltre a far sentire le vittime grate ma anche confuse sulla natura del loro partner e della relazione. Infine potrebbe essere usato come mezzo per isolare le vittime: “La stessa settimana in cui mi ha isolato dai miei amici ha detto di amarmi”.

L’isolamento della vittima. I tentativi di isolamento delle vittime da parte dei perpetratori spesso si  concretizzano attraverso l’espressione di opinioni negative sulle persone frequentate dalle vittime (amici, colleghi, familiari). L’isolamento delle vittime sembra svolgere tre funzioni. Innanzitutto aiuterebbe i gaslighter a evitare responsabilità, poiché le vittime essendo isolate non possono ricevere consigli da amici o familiari sul comportamento del partner. In secondo luogo, renderebbe le vittime più facili da controllare, poiché non hanno più una vita sociale. Infine, l’isolamento sociale contribuirebbe ad alimentare nelle vittime il senso di “perdere la presa” sulla realtà (Willis, 2022).

L’atteggiamento caldo/freddo consiste in un cambiamento imprevedibile del comportamento del gaslighter che passa da un estremo emotivo all’altro: “Ha smesso di parlarmi dal nulla, senza spiegazioni dopo che avevamo trascorso una notte insieme, un paio di mesi dopo l’inizio della relazione”. Questo modello comportamentale ha una varietà di cause, inclusi tentativi intenzionali di manipolazione o disturbi della personalità, inoltre genera incertezza e confusione nella vittima (Willis, 2022).

 I manipolatori accusano la vittima di essere “pazza”, “eccessivamente emotiva”, “troppo sensibile” o di essere “poco intelligente”, frequenti sono anche le accuse di infedeltà e di problemi di memoria. I gaslighters inoltre rivolgono alle vittime critiche riguardo il loro fisico e aspetto esteriore, così come definiscono i loro obiettivi “stupidi” ed “egoisti” e attribuiscono loro la colpa delle loro azioni al fine di evitare di assumersi la responsabilità. La vittima in un primo momento cercherà di difendersi, provando a far cambiare idea al partner, ma successivamente inizierà a sentirsi in colpa, entrando in uno stato di ansia e di allerta per paura di sbagliare di nuovo. Le conseguenze per le vittime sono insicurezza, perdita di fiducia in se stesse e nelle proprie capacità di giudizio, sensazione di confusione, inutilità, maggiore cautela e sfiducia negli altri, crollo dell’autostima (Willis, 2022). Stern (2018) afferma che il processo di gaslighting avviene in più fasi che talvolta si sovrappongono. La prima fase si caratterizza per l’incredulità della vittima che non riesce a comprendere il comportamento del gaslighter, che risulta ingiusto e anomalo, la vittima prova disorientamento. La seconda fase si caratterizza per il tentativo della vittima di difendersi cercando di convincere il partner che quello che dice è falso. La terza fase è quella della depressione. La vittima si convince che ciò che l’abusante dice riguardo se stessa è la verità, gli dà ragione e lo idealizza, emergono in questa fase sentimenti di rassegnazione, insicurezza e dipendenza. Il desiderio tipico delle vittime, che le cose prima o poi miglioreranno e che la persona cambierà è inutile e distruttivo, perché il gaslighter non cambierà mai per nessuno (Perdighe et al., 2022).

Profilo delle vittime

Leonore Walker (1979) attraverso il concetto di impotenza appresa di Seligman (1975) sviluppa la sua teoria sul “ciclo della violenza”: il soggetto dopo ripetute esperienze di violenza imprevedibili e difficilmente controllabili, apprende che non può fare niente per cambiare la situazione e si arrende. Questo stato di impotenza acquisita è caratterizzato da livelli elevati di paura, ansia e depressione che inducono il soggetto a non lasciare il partner. Le motivazioni a restare in una relazione abusante sono inoltre rintracciabili nella personalità dipendente, si tratta di individui bisognosi di accudimento, protezione e che temono l’abbandono e proprio per evitare che ciò accada assumono comportamenti sottomessi (Safran et al., 1990).

Il comportamento abusivo può assumere varie forme, ma la motivazione è quasi sempre la stessa: potere e controllo sulla vittima. L’abuso psicologico, specie se di lunga durata, può causare gravi danni psicologici e anche fisici alla vittima. Da una indagine condotta dall’Instat è emerso che a seguito di ripetute violenze psicologiche e/o  fisiche, più  della metà  delle vittime soffre di perdita di fiducia ed autostima, ansia, fobiaattacchi di panico, sensazione di impotenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione, difficoltà a concentrarsi, deficit della memoria, dolori ricorrenti nel corpo, difficoltà nel gestire i figli, autolesionismo o idee di suicidio (Dati Instat, 2015). La società dovrebbe essere più consapevole degli effetti dannosi del comportamento umano abusivo nella sua varietà di forme ed essere pronta a offrire un adeguato aiuto medico, psicologico e legale alla vittima (Petric, 2022).

 

Percorsi di riabilitazione. Calcolo a mente e calcolo scritto – Recensione

“Percorsi di riabilitazione: calcolo a mente e calcolo scritto” è un manuale per aiutare clinici e riabilitatori nel rapido inquadramento valutativo e nell’individuazione di una linea d’intervento attraverso specifiche schede operative.

 

Da chi e per chi è scritto?

 Il manuale “Percorsi di Riabilitazione: Calcolo a Mente e Calcolo Scritto” di C. Caciolo, logopedista, E. Mariani e M. Pieretti, logopediste e pedagogiste, e A. Biancardi, psicologo e psicoterapeuta, fa parte della collana “Logopedia in età evolutiva” curata da L. Marotta e T. Rossetto. Il Comitato Scientifico della collana “Logopedia in Età Evolutiva” coinvolge diverse figure professionali, che lavorano in ambiti disciplinari differenti ma tutti attinenti all’età evolutiva, con una significativa esperienza in ambito riabilitativo e di tutela della salute. La collana comprende una serie di manuali di intervento riabilitativo che consentono ai destinatari, ovvero clinici specializzati, di inquadrare il caso in modo rapido e preciso, e in cui vengono proposti progetti e attività di intervento. Inoltre, permette un dialogo tra aspetti teorici e pratici all’interno dell’attività riabilitativa, estremamente funzionale al benessere della persona e alla crescita della disciplina attraverso la condivisibilità e replicabilità dei risultati in ottica evidence based.

Qual è l’obiettivo?

Il manuale, come si può evincere dal titolo, si occupa del trattamento della discalculia, e offre strumenti funzionali alla definizione degli interventi dal punto di vista metodologico, temporale e procedurale. L’intervento riabilitativo proposto pone al centro la persona, come individuo con proprie capacità, volontà e uno specifico contesto in cui è inserito; in base a tutte queste variabili può essere costruito un percorso personalizzato al fine di guidare il paziente verso il raggiungimento del suo potenziale individuale.

Overview sul contenuto

Strutturalmente il manuale comprende una prima parte teorica aggiornata sugli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche e rimanda ai principali modelli di sviluppo neuropsicologico esistenti. La seconda parte è dedicata all’intervento e propone flow chart operative. Infine, sono illustrate schede operative con attività di apprendimento, che il clinico può utilizzare nel percorso riabilitativo. Tali schede non necessariamente devono essere somministrate in ordine o nella loro totalità; tuttavia, è richiesta un’attenta valutazione del clinico rispetto alle difficoltà della persona in carico per l’individuazione di schede che possano essere più funzionali per una particolare esigenza.

Nello specifico, la prima parte del manuale si occupa di spiegare quali sono gli aspetti di difficoltà che si trovano ad affrontare ragazzi con discalculia, evidenziando la possibilità di apportare dei miglioramenti in tale abilità. Vengono suggeriti alcuni metodi di lavoro per incrementare le capacità di calcolo, con l’obiettivo di insegnare ai bambini a gestire queste sfide, nonostante l’esistenza della calcolatrice. Gli autori, inoltre, propongono un’ulteriore modalità di intervento che non si concentra sul miglioramento delle abilità, bensì pone il focus proprio sull’utilizzo della calcolatrice e dello smartphone come supporto in situazioni quotidiane.

 Le schede proposte si focalizzano su due macro aree, lavorando dunque su processi differenti: il calcolo a mente e il calcolo scritto. Nella prima parte sono presenti attività mirate a stimolare calcoli a mente, sia con numeri inferiori alla decina sia con numeri superiori alla decina, moltiplicazioni a mente, selezione dell’algoritmo, esercizi di approssimazione del risultato ed esercizi con il denaro. La seconda parte, invece, include attività focalizzate sulle tipologie di errore che il bambino compie nel momento in cui si trova a svolgere un calcolo scritto come le addizioni, le sottrazioni e le moltiplicazioni.

Il lavoro degli autori si rifà a modelli teorici come quelli di McCloskey e Dehaene, per supportare l’impostazione degli interventi definendo dei limiti di metodo e tempistiche. Vengono delineate tre cornici di intervento nella gestione della riabilitazione: la prima è basata sull’età, l’esigenza dei ragazzi e su quali aree specifiche intervenire; la seconda si concentra maggiormente sui processi alla base dell’elaborazione numerica e delle componenti attentive; la terza sfrutta la conoscenza del linguaggio e dei simboli per riabilitare il calcolo. Le modalità di intervento vengono suddivise tra interventi ad ampio spettro e interventi più specifici in base a età e contenuti, in modo che i riabilitatori possano agire a seconda delle necessità del caso e si individuano quattro modalità operative: la prima ha come obiettivo un intervento precoce nelle abilità di lettura e scrittura per arginare l’insorgenza di dislessia e discalculia; la seconda consiste in un intervento più ampio che coinvolge il calcolo e ne prevede un potenziamento; la terza riguarda la transcodifica numerica, necessaria per poter leggere e scrivere i numeri; la quarta, infine, prevede l’implementazione di strategie di cui i ragazzi con conclamata discalculia possano usufruire, dandogli maggiore sicurezza.

Conclusioni

Concludendo, gli autori evidenziano come gli aspetti che vengono riabilitati siano diversi e vari, a partire dal senso del numero, per collegarsi alla capacità di calcolo, all’attribuzione di significato, alla competenza nel valutare le quantità e all’individuazione di procedimenti non plausibili; spiegando questo schema, attribuiscono importanza al senso del numero come elemento chiave per comprendere il calcolo. Sulla base di ciò, il volume si propone di riabilitare i ragazzi con discalculia offrendo numerose attività.

 

Cosa influenza il benessere degli italiani?

Il costrutto del Benessere Soggettivo (Subjective Well-Being; SWB) si riferisce al modo in cui le persone sperimentano e valutano la propria vita in specifici ambiti, ed è composto da: soddisfazione per la vita (Life Satisfaction; LS), che rappresenta un giudizio globale; affetti positivi e affetti negativi (Diener, 2006).

 

Quali fattori influenzano il benessere percepito?

 Si pensa che il concetto di benessere sia definito culturalmente, il che significa che anche i fattori legati al benessere variano da Paese a Paese (Ryan e Deci, 2001).

Scoppa e Ponzo (2008), analizzando le determinanti della felicità come componenti del benessere soggettivo in Italia da una prospettiva micro-econometrica, hanno scoperto che il reddito e la ricchezza giocano un ruolo fondamentale. Inoltre, anche i livelli di istruzione, il vivere in piccole città e il capitale sociale influenzano il benessere percepito. Per quanto riguarda poi la distribuzione per età e genere, un recente studio di Petrillo et al. (2015) ha rilevato valori di benessere soggettivo più elevati per i maschi rispetto alle femmine, e per le persone più giovani (di età compresa tra i 18 e i 30 anni) rispetto a quelle più anziane (di età superiore ai 61 anni). Anche l’attaccamento al luogo si è dimostrato un predittore della soddisfazione per la vita (Tartaglia et al.,2015).

In un ampio lavoro sulla qualità della vita in Italia basato sui risultati ISTAT (Maggino e Nuvolati, 2012), le persone con forti relazioni sociali hanno mostrato un livello più alto di soddisfazione per la vita, una salute migliore e una maggiore probabilità di trovare lavoro rispetto a quelle con relazioni sociali deboli. Il tipo di impiego e le condizioni contrattuali si sono rivelati fattori cruciali per il benessere soggettivo dei lavoratori italiani: studi mostrano che le persone impiegate nel settore pubblico sembrano essere molto più felici dei dipendenti privati (ad es, Capone e Petrillo, 2016).

Il benessere soggettivo in Italia

Con lo scopo di identificare i predittori della soddisfazione per la vita nella popolazione italiana, uno studio di Capone e colleghi (2021) ha cercato di ampliare questa linea di ricerca utilizzando i dati del Gallup World Poll (GWP; che analizza le questioni più importanti a livello mondiale, come l’accesso al cibo, l’occupazione, le prestazioni della leadership e il benessere).

Gli autori, utilizzando un campione rappresentativo di grandi dimensioni, si sono basati su una prospettiva psicosociale, includendo una serie di dati demografici e aspetti psicologici e sociali della soddisfazione per la vita.

I risultati rivelano che le donne riferiscono punteggi significativamente più bassi degli uomini per quanto riguarda la Life Satisfaction: esse riportano livelli significativamente più alti di stress, tristezza e preoccupazione, soprattutto dopo la mezza età. Le donne più anziane avevano livelli di istruzione più bassi e ciò è in linea con i risultati di Eurostat, che mostrano che le donne dell’UE, in particolare quelle di età superiore ai 65 anni, abbiano maggiori barriere economiche e psicologiche rispetto agli uomini. Inoltre, l’Italia è un Paese con un alto tasso di disoccupazione, nello specifico il tasso di disoccupazione femminile è superiore a quello maschile (Eurostat, 2017).

 Il predittore più importante della soddisfazione per la vita degli italiani è stato il reddito, seguito dall’istruzione e dallo stato occupazionale. Il reddito, permettendo il consumo e il soddisfacimento dei desideri (Jebb et al., 2018), influenza il benessere. Tuttavia, un’altra possibile interpretazione è che le politiche di austerità attuate dai governi italiani che si sono succeduti in seguito alla crisi economica del 2008 (Demetriou, 2015) e l’insicurezza per il futuro associata agli alti tassi di disoccupazione, hanno rafforzato l’importanza di questo fattore per per il benessere degli italiani.

Il tenore di vita sembra predire la soddisfazione per la vita degli italiani e ciò risulta essere in linea con i risultati di Diener e colleghi (2010) che affermano che i benefici materiali sono più fortemente associati ai giudizi riflessivi che le persone danno alla loro vita rispetto a come vorrebbero che fosse.

Inoltre, la soddisfazione per la vita degli italiani è correlata al supporto sociale, in linea con la letteratura precedente (ad es, Capone e Petrillo, 2016). I partecipanti che hanno ricevuto un maggiore sostegno sociale hanno dichiarato di essere più soddisfatti della propria vita. Soprattutto per gli anziani, ricevere sostegno sociale sembra aiutare le persone a raggiungere condizioni di vita stabili, a soddisfare i bisogni sociali e a rafforzare l’aspettativa di poter contare su qualcuno in caso di necessità.

È interessante notare che si sono verificate alcune differenze tra età e sesso. Ad esempio, nelle donne e negli anziani i problemi di salute sono stati un predittore negativo di soddisfazione per la vita. Negli adulti di età compresa tra i 25 e i 44 anni, la soddisfazione della città in cui si vive è stata un predittore di soddisfazione per la vita, mentre per il gruppo più giovane è stata la libertà. Questi dati confermano quanto emerso da ricerche precedenti, secondo le quali il passaggio all’età adulta porta gli individui a cercare città vivibili per sé e per le proprie famiglie e il rapporto delle persone con l’ambiente in cui vivono è un aspetto fondamentale per il loro benessere (Rollero et al. 2014). Per quanto riguarda il desiderio di libertà, così importante per i più giovani, è importante sottolineare che concetti come libertà e sicurezza globale e reciproca sono strettamente correlati (Federici et al. 2012).

Considerazioni conclusive

In conclusione, per comprendere e migliorare la soddisfazione per la vita in Italia è necessario prestare attenzione a un’ampia gamma di fattori economici e psicosociali e, data l’importanza degli aspetti economici rivelati dallo studio, la lotta alla disoccupazione deve essere un aspetto centrale per il Governo Italiano.

 

Che fatica le relazioni! Meccanismi della dipendenza relazionale – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Che fatica le relazioni! Meccanismi della dipendenza relazionale.

 

Alcune persone hanno difficoltà sia a descrivere e comprendere cosa abbia scatenato in loro un’emozione sia a comprendere cosa gli altri pensano e sentono, e a utilizzare tale conoscenza per migliorare la propria vita relazionale e formare legami stabili. Nella vita di relazione siamo spesso guidati da un insieme di aspettative su come gli altri risponderanno a desideri, speranze, piani, bisogni e ambizioni.

Durante l’episodio del podcast verranno discusse alcune modalità relazionali disfunzionali e verranno date indicazioni per imparare a gestire meglio alcune dinamiche sociali complicate.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

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