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La soppressione del peso e le sue implicazioni

Per un breve periodo è possibile introdurre un controllo esogeno sul proprio peso (una dieta, regole alimentari…) ottenendo un cambiamento, ma, a lungo andare, questi meccanismi sono alla base di quello che viene definito recupero del peso.

 

La variazione del peso

La massima altezza a cui possiamo arrivare è “scritta” nel nostro DNA. È così per la forma e la lunghezza del naso, delle ciglia, delle dita della mano; per la misura del piede; per il colore dei capelli e degli occhi… ma per il peso?

Siamo abituati a pensare di poter modificare il nostro peso corporeo a piacimento, semplicemente mangiando di più se desideriamo che aumenti e di meno se, al contrario, desideriamo che diminuisca. Ma allora perché, una volta interrotti questi comportamenti atti alla sua modificazione, il peso tende a tornare al livello iniziale? Perché non è possibile cambiarlo in maniera “definitiva”?

La regolazione del peso corporeo è un meccanismo complesso che ha come obiettivo l’omeostasi, ovvero la tendenza biologica a conservare invariate le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne: in questo caso particolare, il peso percepito come sano dall’organismo.

Questo sistema di autoregolazione coinvolge diverse molecole che agiscono prevalentemente sull’ipotalamo e modificano tanto l’assetto metabolico quanto il comportamento dell’individuo proprio per garantire il mantenimento di questo status quo.

Possiamo dividere i segnali biologici in due categorie:

  • Segnali anoressizanti, ovvero in grado di ridurre la fame, sono prodotti in risposta ad un aumento del peso e del numero e/o volume degli adipociti. Tra essi troviamo l’ormone leptina, prodotto dal tessuto adiposo, il quale ha la funzione di ridurre l’appetito, stimolando la lipolisi e la termogenesi, e inducendo così sia una riduzione della fame sia l’aumento dei consumi energetici. Anche l’insulina, ormone prodotto dalle cellule beta del pancreas in risposta all’ingestione di cibo, è in grado di ridurre l’appetito;
  • Segnali oressizzanti, il cui scopo è quello di aumentare l’appetito, vengono prodotti quando il peso corporeo scende e quando numero e/o volume degli adipociti si riduce. Fanno parte di questa categoria il neuropeptide Y, sintetizzato a livello ipotalamico in risposta anche al digiuno, e la grelina, ormone prodotto dalle cellule dello stomaco per stimolare l’appetito.

Per un breve periodo, è possibile “silenziare” questi messaggi biologici introducendo un controllo esogeno (una dieta, regole alimentari…) e appellandosi alla volontà, ed ottenere in questo modo una modifica del peso ma, a lungo andare, questi meccanismi sono alla base di quello che viene definito weight regain – recupero del peso – così come anche della difficoltà nell’aumento ponderale degli individui con un peso biologicamente basso.

In entrambi i casi, il ritorno del peso allo status iniziale viene spesso attribuito erroneamente ad una mancanza di forza di volontà e può creare nell’individuo un grande senso di frustrazione.

Quanto maggiore è la differenza tra il peso per così dire biologico e quello raggiunto, tanto più importanti saranno le risposte dell’organismo per ristabilire lo stato di omeostasi e, di conseguenza, gli sforzi che l’individuo dovrà fare per mantenere il nuovo peso.

I meccanismi di regolazione del peso andrebbero sempre presi in considerazione da dietologi, dietisti e nutrizionisti che affiancano una persona che desidera dimagrire o aumentare in peso: ignorare la spinta biologica al ripristino dello status quo, infatti, significherebbe abbandonare il paziente a se stesso nel momento più difficile del percorso, ovvero il mantenimento dei risultati raggiunti.

Peso e obesità

In particolare, nel caso di pazienti affetti da obesità, occorre ricercare una perdita di peso che sia tollerabile per l’organismo ma, allo stesso tempo, sufficiente affinché si possa ottenere un miglioramento dello stato di salute.
Diversi studi hanno dimostrato che una perdita di circa il 5-10% del peso, sebbene spesso non permetta di rientrare in una classificazione di normopeso, determini significativi miglioramenti delle condizioni di salute e delle complicanze mediche associate all’obesità (Dalle Grave – “Il primo passo per perdere peso”) ed è perciò questo un peso ragionevole a cui puntare.

Il modo migliore per ottenerlo è sicuramente una terapia che punti alla modificazione dello stile di vita e che implichi un cambiamento a lungo termine di:

  • Alimentazione, attraverso l’introduzione di una dieta moderatamente ipocalorica, che consenta la perdita di circa 0,5-1 kg a settimana prima e il mantenimento poi;
  • Attività fisica, con la riduzione della sedentarietà e la creazione di abitudini più attive, da mantenere nel tempo;
  • Fattori di mantenimento, ovvero meccanismi psicologici e comportamentali che favoriscono il mantenimento della condizione di obesità.

Peso e anoressia nervosa

Un’altra situazione in cui il meccanismo del weight regain costituisce un problema da non ignorare è quello dell’anoressia nervosa: nel caso di questo disturbo del comportamento alimentare, il peso soppresso può essere di così tanti kg da spingere il corpo a meccanismi estremi per il recupero e l’autoconservazione.

Molti pazienti, infatti, dopo un periodo di restrizione e dimagrimento iniziano a sperimentare momenti di perdita di controllo sul cibo, fino ad avere in alcuni casi vere e proprie abbuffate.

Lo scopo di questi comportamenti è, metabolicamente parlando, proprio quello di evitare la morte per fame e permettere all’organismo di riottenere il peso di partenza.

Visti come comportamenti egodistonici, le perdite di controllo portano ad un aumento delle preoccupazioni e ad un senso di colpa tali che il paziente spesso arriva ad amplificare ulteriormente la propria restrizione alimentare e talvolta mettere in atto strategie di compenso (vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo, abuso di lassativi…).

Una corretta terapia per i disturbi alimentari dovrebbe dunque tenere conto della soppressione del peso e della necessità di un recupero di questo, proprio perché parte integrante dei fattori di mantenimento del problema. Educare a questi meccanismi e all’importanza di ottenere un peso salutare, ovvero quello che può essere mantenuto con uno stile di vita sano ed un’alimentazione varia e flessibile, può essere un passo importante per una buona compliance e la prevenzione delle ricadute.

 

L’imagery rescripting (2022) di Remco van der Wijngaart – Recensione

Nel testo, Remco van der Wijngaart, psicoterapeuta e supervisore/trainer di Terapia cognitivo-comportamentale e Schema Therapy, illustra in maniera dettagliata la tecnica dell’Imagery Rescripting.

 

 Come indica il termine stesso, si tratta della riscrittura in immaginazione: tutti siamo in grado di immaginare, ovvero di portare alla mente ricordi o fatti già accaduti o proiettati nel futuro.

L’immaginazione e la visualizzazione sono pratiche utilizzate fin dall’antichità, con fini disparati; solo recentemente esse sono impiegate nel contesto di cura, con finalità diagnostica, per indagare ed elaborare eventi traumatici pregressi o come metodo per affrontare paure relative a stimoli o situazioni temute futuri.

La ricerca ha dimostrato come “immaginarsi” in una determinata azione attivi le stesse aree cerebrali di quando svolgiamo realmente la medesima attività: “la rappresentazione e l’esperienza di un’informazione sensoriale in assenza di uno stimolo diretto esterno” (Pearson et al., 2015) coinvolge i diversi canali sensoriali, vista, udito, tatto, gusto, olfatto, motricità, attivi nella percezione.

Centrale nel processo di immaginazione è l’utilizzo della memoria autobiografica, ovvero la capacità di accedere ad elementi che risiedono nella nostra memoria: “quando la gente ricorda sta immaginando e quando immagina sta usando la memoria” (Conway and Loveday, 2015, pag. 574).

L’elemento fondante l’efficacia di tale tecnica è l’accesso all’emotività del paziente e diversi studi hanno sottolineato come l’elaborazione delle informazioni a livello immaginativo abbia un impatto maggiore sull’esperienza emotiva, rispetto all’elaborazione a livello puramente verbale.

Non è ancora chiaro quale sia l’effettivo meccanismo di funzionamento dell’Imagery Rescripting, che ne garantisce l’efficacia, ovvero se essa intervenga nella formazione di un ricordo ex novo, in competizione con quello immagazzinato in memoria, reso meno accessibile, o se, invece, intervenga nella modifica diretta del ricordo iniziale. Il fine è, comunque, la modifica, in immaginazione, del ricordo doloroso verso un esito maggiormente favorevole.

Sia se utilizzata con finalità diagnostica, sia come parte dell’intervento terapeutico, il terapeuta mira ad accedere ai bisogni emotivi fondamentali del paziente, ripetutamente frustrati.

I bisogni emotivi fondamentali individuati dalla Schema Therapy sono:

  • sicurezza, stabilità e protezione
  • vicinanza, cura, nutrimento ed empatia
  • libertà di esprimere emozioni, bisogni e opinioni
  • accettazione, stima e lode
  • autonomia, senso di competenza e di identità
  • limiti realistici e auto-controllo
  • spontaneità e gioco
  • coerenza del sé, lealtà/giustizia (quest’ultimo aggiunto da recenti studi di Arntz et al. 2021).

Una volta identificato il bisogno per il quale il paziente non ha ricevuto congrua risposta, l’obiettivo è creare un’esperienza correttiva dello stesso tramite imago: a tal fine non ci sono regole in immaginazione ed è possibile ricorrere a diversi escamotages per contrastare l’antagonista abusante, punitivo, assente, violento, imprevedibile, esigente, colpevolizzante.

L’autore presenta due casi clinici, Hans e Greg, e ciascun passaggio metodologico viene affrontato in chiave teorica e attraverso esemplificazioni di sedute, tali da chiarire il modus operandi, nonché le eventuali difficoltà che paziente e terapeuta possono incontrare.

Favorisce l’accesso all’esperienza emotiva il focalizzarsi sul qui ed ora e per tale motivo occorrerà utilizzare il tempo presente, tramite accurate domande quali:

  • Cosa vede?
  • Chi è presente?
  • Cosa sta facendo?
  • Come si sente?
  • Di cosa avrebbe bisogno adesso?

Il debriefing rappresenta una fase fondamentale dell’imagery rescripting perché permette di inquadrare l’esperienza appena vissuta su un piano cognitivo, consentendo di associare l’evento originale a un’emozione più positiva, rispondente al bisogno che ha trovato appagamento in immaginazione.

L’imagery rescripting non mira, e non può, cambiare il decorso degli eventi reali, ma persegue l’obiettivo di fortificare la parte Adulto sano del paziente, al fine di ascoltare il proprio Bambino vulnerabile e prendersene cura, nonché favorire un atteggiamento maggiormente funzionale verso eventi futuri temuti.

 Ampiamente utilizzata per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), nel testo viene descritto come applicare l’imagery rescripting nelle dipendenze, nel disturbo da incubi e nei flashforward, ovvero nelle immagini intrusive, indesiderabili e dolorose di eventi collocati nel futuro. I flashforward sono comuni nei Disturbi d’Ansia, nella Schizofrenia e nella Depressione e hanno per oggetto contenuti catastrofici: nella depressione, in particolare, il paziente può anche arrivare ad immaginare il momento del suicidio.

A seconda dello specifico disturbo e della fase trattamentale, il terapeuta guiderà il paziente nel rivivere l’esperienza dolorosa, riscrivendone il finale, per giungere ad uno stadio successivo in cui sarà il paziente stesso ad assumere parte attiva nel rescripting.

Oltre alla riscrittura degli eventi negativi, alla fine del testo viene presentata un’ulteriore forma di imagery: l’immaginazione positiva, caratterizzata dal fatto che si creano immagini positive sin dall’inizio della visualizzazione, senza intervenire prima su ricordi negativi. La sua efficacia è nota da decenni nel mondo dello sport, dove viene ampiamente praticata.

In appendice sono riportati, inoltre, i diversi passaggi metodologici, che possono rappresentare un utile canovaccio per il terapeuta, da seguire fintantoché non si è raggiunta un’expertise nella tecnica.

 

Una panoramica sulla paralisi nel sonno in Italia

La paralisi del sonno è un disturbo del sonno che comporta uno stato di immobilità involontaria, definita atonia muscolare, che avviene tipicamente durante il momento dell’inizio del sonno o subito prima al risveglio (Jalal et al., 2021).

 

Cos’è la paralisi del sonno

Questo disturbo del sonno è caratterizzato dal fatto che lo stato di immobilità ha una durata di tempo moderata e, nonostante sia impossibile per l’individuo muovere i muscoli, i movimenti oculari e respiratori sono intatti, come anche la capacità di percezione (Sharpless e Barber, 2011). È inoltre stato riscontrato come questi episodi accadano più frequentemente in individui che dormono in posizione supina (Sharpless e Barber, 2011).

Dato che durante la fase REM (Rapid Eye Movement) dello stato di sonno possono accadere sogni intensi, il nostro cervello paralizza il corpo durante tale fase, al fine di evitare che il corpo si muova durante questi sogni con il rischio che si faccia male (Jalal et a., 2021). La paralisi avviene tramite l’inibizione del tono muscolare scheletrico grazie ai neurotrasmettitori GABA e glicina. Tuttavia, durante questa fase, è possibile che avvengano delle percezioni allucinatorie che causano l’interruzione del sonno dell’individuo, che però si trova in una situazione di totale immobilità muscolare. Nel caso in cui le allucinazioni avvengano all’inizio del sonno, si parla di allucinazioni ipnagogiche; invece, nel caso in cui avvengano al risveglio, si tratta di allucinazioni ipnopompiche. Queste possono avvenire in tutte le modalità sensoriali, e alcune tra le esperienze più comuni riguardano l’udire passi e sussurri che non si verificano nella realtà, oppure esperire una sensazione di levitazione o autoscopia, ovvero un’esperienza dissociativa dove l’individuo vede il suo corpo dall’esterno.

Una sensazione terrificante che gli individui che soffrono di paralisi del sonno possono esperire, è quella di percepire o, addirittura vedere, nel buio una presenza/sagoma buia con fattezze simil-umane che scivola sul corpo dell’individuo, una sorta di intruso la cui visione terrorizza la persona che dorme. In Italia, la figura oscura che viene incontrata durante l’esperienza di paralisi nel sonno è stata chiamata “Pantafica”, una figura spettrale appartenente al folklore abruzzese e marchigiano (Jalal et al., 2021).

Gli episodi di paralisi del sonno sono stati studiati e interpretati in molte culture e con diverse spiegazioni, dalle motivazioni scientifiche a quelle spirituali e sovrannaturali (Sharpless e Barber, 2011). Questo fenomeno è stato collegato a diverse condizioni mediche, come la narcolessia, l’ipertensione e disturbi epilettici, ma sono associati anche a disagi riguardanti la qualità del sonno, jet lag, mancanza di sonno e più generalmente una condizione di stress. Quando l’esperienza di paralisi del sonno si verifica solamente una volta o sporadicamente, si parla di paralisi del sonno isolata.

Le allucinazioni nella paralisi del sonno

Jalal e colleghi (2021) hanno ipotizzato che in Italia, in particolare nella regione Abruzzo, le persone esperissero episodi di paralisi del sonno più frequentemente, con un periodo di immobilità maggiore e una paura più intensa, rispetto alle culture dove non viene considerata così tanto la figura della “presenza oscura”, come per esempio in Danimarca (Jalal et al., 2021). Sono stati reclutati 67 individui che hanno esperito almeno una volta nella vita la paralisi del sonno. Ai partecipanti è stato somministrato lo Sleep Paralysis Experiences and Phenomenology Questionnaire (SP-EPQ; Jalal et al., 2015), uno strumento che indaga una serie di elementi che sono legati all’esperienza della paralisi del sonno, ovvero la presenza, il tempo di durata, la posizione tenuta durante il sonno, le sensazioni somatiche associate, l’esperienza allucinatoria, il significato culturale dell’allucinazione, la ricerca di aiuto e le fonti di informazione usate per comprendere l’episodio. I risultati hanno riportato che la popolazione italiana osservata sembra avere un periodo di paralisi muscolare più prolungato rispetto ad altre culture (la durata media è di circa 5 minuti). Inoltre, il 42% dei partecipanti ha riportato una intensa paura di morire. In aggiunta, sembra che la componente culturale abbia avuto un ruolo centrale in questa ricerca, dato che circa un terzo dei partecipanti ha riferito di essere convinto che l’esperienza della paralisi del sonno è stata causata dalla creatura denominata “Pantafica”.

I risultati di questa ricerca suggeriscono che sia possibile che l’aspetto culturale possa in qualche modo intervenire sull’esperienza del fenomeno, incrementando la sensazione di terrore (Jalal et al., 2021). Sarebbe interessante esplorare se il fenomeno della paralisi del sonno possa essere vissuto in modi diversi in Italia, e come questa esperienza possa essere in qualche misura correlata con la psicopatologia, considerando nello specifico ansia e depressione.

 

La mente bugiarda, come i bias cognitivi ci mentono sulla realtà

I bias cognitivi sono presenti e ineliminabili in ognuno di noi, sono indipendenti dalla cultura e dall’intelligenza individuale, sono la dotazione base di ogni cervello umano che ha sviluppato questi meccanismi nel corso della sua evoluzione con il fine di adattarsi il meglio possibile ad un ambiente complesso e pericoloso.

 

Il funzionamento della mente

Il termine inconscio indica genericamente tutte le attività mentali che si svolgono senza che l’individuo ne sia cosciente, più precisamente, nell’accezione moderna si riferisce a pensieri, emozioni, rappresentazioni, modelli comportamentali che sono alla base dell’agire umano di cui il soggetto non è consapevole.

Sebbene il termine sia stato coniato dal filosofo romantico Friedrich Schelling nel XVIII secolo, le sue origini concettuali si possono rintracciare già nei filosofi greci; Platone parlava di un sapere nascosto all’interno dell’anima umana; successivamente Leibniz, in opposizione alla dottrina cartesiana che identificava la coscienza con la totalità della vita pensante evidenziava l’esistenza di pensieri di cui non siamo coscienti, le “percezioni insensibili”, ma è certamente con Freud ed i successivi psicologi del profondo che questo concetto è stato portato a livelli di diffusione mai raggiunti prima.

Purtroppo tale diffusione ha caratterizzato il significato del termine connotandolo come il contenitore dei contenuti psichici rimossi che tendono a riaffiorare in forma simbolica nei sogni, nei lapsus o negli atti mancati, quali espressioni di una serie di istinti e di desideri il cui contenuto non si manifesta in forma cosciente.

Sebbene già lo psicanalista Alfred Adler abbia utilizzato il termine in modo più riduttivo rispetto a Freud, più per designare quegli automatismi del pensiero e del comportamento che sono stati interiorizzati al punto da non essere più riconosciuti dalla coscienza che per definire una zona psichica vera e propria, collocandosi quindi come un antesignano del cognitivismo (non a caso fu l’autore di riferimento di Albert Ellis), è soltanto negli ultimi decenni che si è potuta sviluppare una concezione scientifica che ha reciso i legami teorici con la psicoanalisi portando nel 1987 lo psicologo cognitivista J.F. Kihlstrom ad introdurre il concetto di inconscio cognitivo che definisce l’interesse delle scienze cognitive volto a comprendere le dinamiche interne delle attività mentali come la percezione, il ragionamento, la comprensione del linguaggio, dei processi decisionali ecc. studiandone i meccanismi procedurali e le strutture categoriali.

L’inconscio cognitivo e i bias cognitivi

Ma quindi oggi concretamente quando parliamo di inconscio cognitivo a cosa ci riferiamo? Quali implicazioni concrete ha questa modalità di funzionamento?

Dobbiamo tener presente che l’approccio alla teoria dell’elaborazione delle informazioni prevede una memoria permanente sufficientemente ampia, una memoria di lavoro, molto più piccola, in cui buona parte dell’informazione proveniente dai canali sensoriali viene elaborata e di componenti funzionali, cioè di meccanismi necessari a far funzionare il modello procedurale.

In sostanza l’ipotesi è che la memoria a lungo termine per funzionare debba possedere degli schemi per elaborare l’informazione al fine di poter disporre rapidamente di conclusioni operative fondate prevalentemente sulle esperienze passate; vedremo più avanti il motivo di questa condizione.

L’idea suggerita è che i bias, al pari delle euristiche, non sono delle percezioni errate o pregiudizi cognitivi, ma dei veri e propri procedimenti mentali intuitivi che strutturano e definiscono la nostra percezione della realtà inducendoci a costruire una idea, anche indefinita o generica, su un argomento, per giungere rapidamente a delle conclusioni che ci consentano di agire.

Sono quindi delle vere e proprie “regole generali” che ognuno di noi utilizza per interpretare le nostre esperienze.

Prendiamo ad esempio il bias del pensiero dicotomico, la tendenza cioè ad interpretare il mondo in bianco o nero. Tale modello concettuale tende ad essere applicato automaticamente in moltissime situazioni; se una persona ci appare simpatica generalizzeremo questa impressione assumendo che lo sarà sempre, in quasi tutte le situazioni, parimenti se ci appare antipatica ci aspetteremo un comportamento coerente con la nostra visione e conseguentemente saremo propensi a rilevare e ad interpretare i comportamenti dell’altro in modo da confermare la nostra visione.

È evidente che tali procedure, attuandosi in modo sistematico, producono necessariamente una distorsione della realtà, nessuno è antipatico o simpatico sempre o per tutti; assumendo e concettualizzando le informazioni in questo modo si determinano nel tempo pensieri e convinzioni altamente disfunzionali, poco realistiche, che possono causare una vasta gamma di disagi e di sofferenze emotive.

I vantaggi dei bias

Ma perché allora ci affidiamo a questi processi che sfuggono alla nostra coscienza, che si attuano automaticamente, che inoltre appaiono grossolani ed imprecisi?

La prima risposta ci viene dall’evoluzione, la coscienza così come la conosciamo si è evoluta lentamente, affiancandosi gradualmente alle procedure “intuitive” che necessariamente dovevano essere utilizzate per decidere quali comportamenti attuare. Edelman propone che la coscienza di ordine superiore sia stata preceduta da una coscienza primaria dove si è mentalmente consapevoli delle cose del mondo, in cui si hanno immagini mentali del presente, ne sono dotati gli essere umani e anche animali privi di capacita linguistiche. “La coscienza primaria è coscienza di una scena composta da risposte ad oggetti ed eventi, non tutti collegati necessariamente da una relazione di causalità. Un animale dotato di coscienza primaria può discriminare e collegare tali oggetti ed eventi mediante la memoria della esperienze precedenti.” Ecco il perché della comparazione delle nuove esperienze con quelle che le hanno precedute, che risulta essere il modo più semplice e diretto per dare velocemente un senso agli avvenimenti; paragonare le nuove esperienze con situazioni simili già avvenute ci consente di disporre di soluzioni già sperimentate.

Teniamo presente che il primo livello di analisi di uno stimolo esterno effettuato dal nostro sistema nervoso riguarda le proprietà fisiche dello stimolo. Se ci viene chiesto di dire quale tra due oggetti è il più vicino a noi possiamo farlo senza difficoltà, ma non siamo in grado di spiegare quali operazioni siano state svolte per arrivare a quella conclusione, di fatto abbiamo un accesso cosciente al risultato della computazione, ma non a quest’ultima.

Questo a ben vedere non deve apparirci strano, il nostro cervello per decine di migliaia di anni si è visto costretto ad elaborare delle procedure che lo aiutassero a comprendere ed organizzare la complessità del mondo. Tutti gli atti percettivi ad esempio sono condizionati dalle procedure adottate per raggruppare gli stimoli in dati interpretabili ed anche in questo caso il confronto avviene con i modelli memorizzati. Prendiamo ad esempio l’illusione di Muller-Lyer.

Bias cognitivi cosa influenza la nostra percezione della realta Imm 1

Classico esempio di errore dello stimolo, l’errore percettivo che consiste nel vedere le cose del mondo non secondo le loro mere caratteristiche fisiche, ma secondo le specifiche conoscenze che gli individui dispongono al riguardo.

Infatti nel caso citato assumiamo automaticamente che la linea che presenta l’apertura verso l’esterno sia più lunga perchè gli angoli interni vengono confrontati con il modello a disposizione che ci suggerisce che la loro presenza caratterizza una maggiore lontananza, mentre al contrario gli angoli esterni appaiono generalmente più vicini.

Bias cognitivi cosa influenza la nostra percezione della realta imm 2

Il dato rilevante è che la “convinzione“ che le due linee siano diverse permane anche dopo che le abbiamo misurate più volte, a dimostrazione del fatto che i dati percepiti (ed elaborati), inconsapevolmente mantengono una costante resistenza all’esame di realtà.

Se la sterminata mole di evidenze scientifiche ci ha portato ad accettare l’idea che molte attività percettive importanti vengono svolte “automaticamente” dal nostro cervello non deve poi stupirci se troviamo modalità analoghe anche nel sistema concettuale.

Pensare consapevolmente richiede infatti molto tempo e molto impegno, se dovessimo essere consapevoli di tutte le nostre attività procedurali saremmo così tanto indaffarati ad elaborare informazioni da non riuscire a fare altro.

Quindi la tendenza alla semplificazione, all’utilizzo cioè di bias, che ci consentono di attivare risposte rapide senza perdere troppo tempo nell’attività computazionale e lo svolgimento di tale attività in modo automatico, si dimostra un ottimo modo di funzionamento, almeno nella maggior parte delle situazioni.

Immaginate che mentre camminate in una foresta vedete sul sentiero una forma snella e curva, solo la corteccia può capire se si tratta di un bastone o di un serpente, ma per svolgere questa analisi deve raccogliere ulteriori informazioni, magari si deve avvicinare alla sagoma ecc. L’amigdala invece, la ghiandola deputata a mantenere l’archivio emozionale sulla base della elaborazione primaria, si attiva subito senza avere il problema di capire esattamente se lo stimolo percepito è realmente un serpente, per il suo modello stereotipato è sufficiente che gli somigli, che possa essere potenzialmente un pericolo per attivarsi ed indurre la paura e la fuga.

Di fatto, in genere, tale comportamento risulta più efficace dell’eventuale analisi dettagliata svolta dalla corteccia.

Dal punto di vista della sopravvivenza è meglio reagire alle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero piuttosto che non reagire affatto.

A lungo termine confondere un’ombra con un orso è molto più conveniente del contrario.

Il processo automatico è così radicalizzato che il significato emotivo di uno stimolo può essere valutato dal cervello prima che i sistemi percettivi abbiano finito di elaborarlo. Il cervello utilizza infatti un’estensione del falso positivo; generalizzando a dismisura le situazioni potenzialmente pericolose cerca di salvaguardare la nostra vita anche a scapito del nostro benessere.

Le conseguenze dei bias cognitivi

Una delle conseguenze più perturbanti è che la nostra mente non ha fra i suoi compiti quello di immagazzinare la realtà come fosse una macchina fotografica, o un registratore di suoni; tale compito gli è impedito dai limiti sensoriali della nostra specie, noi non abbiamo la capacità di percepire tutti gli stimoli presenti nella realtà, tant’è che dobbiamo applicare una selezione anticipatoria che ci porta a cogliere solo alcuni degli aspetti rilevabili, in genere in base alle nostre esperienze convinzioni o aspettative. Essa infatti si è sviluppata per svolgere un compito molto più complesso, adattarsi cioè rapidamente a situazioni nuove o impreviste, valutarle rapidamente sulla base delle nostre necessità e garantire una risposta veloce, anche se i dati a disposizione sono pochi o incompleti; questo non ci garantisce necessariamente l’emissione della risposta migliore, piuttosto quella più rapida finalizzata a commettere l’errore meno dannoso.

L’idea secondo cui abbiamo un accesso limitato al funzionamento della nostra mente è difficile da accettare, poiché è ovviamente estranea alla nostra esperienza; assumere l’idea che molte delle nostre azioni e delle nostre emozioni siano innescate da eventi di cui non siamo consapevoli, meccanismi psichici che agiscono su di noi a nostra insaputa, che hanno effetti tangibili e spesso indesiderabili utilizzando delle procedure “automatiche” che non conosciamo, ci appare particolarmente gravosa perché apparentemente indebolisce il senso di continuità e solidità della nostra personalità, percepita come un continuum lineare e coerente.

Questa visione non rende però completamente giustizia alla nostra complessità ed anche alle nostre potenzialità; se è vero infatti che nell’elaborazione primaria il processamento dell’informazione per soddisfare il criterio della velocità si vincola il prima possibile ad una particolare interpretazione a scapito di tutte le altre possibili interpretazioni producendo errori piuttosto gravi di comprensione e giudizio, va evidenziato che siamo in grado di recuperare le linee di pensiero tagliate fuori, di ampliare e migliorare le connessioni concettuali, di sviluppare strategie ed interpretazioni più articolate e complesse.

Possiamo quindi affrancarci da questi processi distorsivi a condizione però di accettare che i bias cognitivi sono presenti e ineliminabili in ognuno di noi, che sono indipendenti dalla cultura e dall’intelligenza individuale che, in quanto strutturali, sono la dotazione base di ogni cervello umano che ha sviluppato questi meccanismi nel corso della sua evoluzione con il fine di adattarsi il meglio possibile ad un ambiente complesso e pericoloso.

Per farlo dobbiamo confrontarci con la principale di tutte le illusioni cognitive: il bias del punto cieco, un termine introdotto dalla psicologa Emily Pronin dell’Università di Princeton, che si riferisce alla difficoltà di rilevare i nostri stessi pregiudizi.

Questa distorsione consiste nell’attribuire a se stessi un’oggettività e un’affidabilità superiore a quella riconosciuta alle altre persone, riguarda cioè la nostra incapacità di prendere atto dei nostri pregiudizi cognitivi e la tendenza a pensare di essere meno prevenuti degli altri. Pensiamo di vedere le cose in modo più oggettivo e razionale, come sono veramente “nella realtà” a differenza degli altri ai quali attribuiamo un giudizio limitato, ritenendo che le nostre esperienze e circostanze di vita ci abbiano dato una prospettiva più ampia, ricca e saggia rispetto a quella sviluppata dalle altre persone.

Quanto sia diffusa questa tendenza ce lo indica chiaramente una recente ricerca condotta dall’Università di Stanford secondo la quale l’87% delle persone riteneva di avere una visione della realtà superiore alla media e il 63% giudicava se stesso oggettivo e privo di pregiudizi.

Accettare la nostra parzialità, accettare l’idea che non vediamo le cose come sono ma per come siamo, che tendiamo a creare una propria realtà soggettiva non necessariamente corrispondente all’evidenza data è il primo e più importante passo da compiere per poterci liberare, almeno parzialmente, dal dominio delle distorsioni cognitive.

Dobbiamo abbandonare il realismo ingenuo che ci induce a credere che vediamo il mondo intorno a noi in modo obiettivo, che esista una realtà oggettiva e da noi percepibile, che i nostri sensi ci garantiscono di percepire la realtà direttamente per come è senza alcun processo interposto. Dovremmo inoltre sforzarci anche di accettare di non essere in grado di pensare razionalmente, che i nostri processi di ragionamento si fondano su schemi intuitivi piuttosto che su modelli logici che utilizzano regole precise e che portano a conclusioni incontrovertibili, come invece siamo portati comunemente a credere, e che sviluppare la nostra limitata capacità razionalizzante rappresenta per noi un impegno particolarmente gravoso.

Solo così facendo potremmo lavorare fattivamente su un miglioramento dei nostri sistemi concettuali sviluppando euristiche più articolate e funzionali, abbastanza complesse da riuscire a definire ed affrontare efficacemente la complessità della realtà.

A ognuno quel che si merita (2022) di Dennett e Caruso – Recensione

Libero arbitrio, si o no? Nel libro “A ognuno quel che si merita” ne discutono i due autori.

 

Siamo responsabili delle nostre azioni? Oppure è l’ambiente che ci circonda ad indirizzarci, senza lasciarci la possibilità di scegliere diversamente? E dunque, è giusto essere puniti se le nostre azioni sono considerate moralmente sbagliate, oppure meritiamo le attenuanti di chi non può essere considerato pienamente responsabile?

Il punto di partenza

Il libro è impostato come un dialogo che intercorre tra i due autori, Dennett e Caruso, ed è un confronto sul tema del libero arbitrio partendo da posizioni divergenti.

Per cominciare si introducono alcuni concetti base: il determinismo, secondo il quale ogni evento presente è determinato da altri eventi accaduti in passato, e l’indeterminismo, che considera gli eventi che si verificano non determinati da condizioni sufficienti al loro verificarsi.

Tra queste due correnti si posizionano i compatibilisti, che ritengono il libero arbitrio conciliabile con il determinismo. Di questo avviso è Dennett, in contrapposizione a Caruso.

Nel corso del libro i due autori sostengono ed argomentano le loro diverse posizioni.

Il merito di base

Uno dei primi temi introdotti è quello del merito di base, secondo il quale chi ha agito scorrettamente merita di essere rimproverato e punito solo in quanto ha agito per motivi moralmente cattivi, al contrario chi ha agito correttamente merita elogi e ricompense solo per aver agito per motivi moralmente buoni. Questa valutazione sembra quindi non basarsi su altre considerazioni, quali la previsione di vantaggi futuri.

La discussione che ne consegue si basa sull’assunto che le punizioni sono legate ad un concetto di merito che va oltre il merito di base e sono utili per benefici futuri quali una migliore convivenza tra gli individui.

Libero arbitrio e responsabilità morale

Se per Caruso il nostro comportamento è fortemente influenzato da fattori che sfuggono al nostro controllo, Dennett sostiene che crescendo assumiamo l’identità di agenti autonomi, dotati quindi di capacità decisionale che ci rende pienamente responsabili delle nostre azioni.

Come motivazione della necessità di infliggere punizioni si introduce il concetto di giustificazione retributiva, secondo la quale chi si comporta in modo scorretto è meritevole di essere punito. Questo si rende necessario perché tutti dipendiamo dalla possibilità di far conto sul comportamento degli altri, che deve quindi rientrare in ciò che è considerato moralmente corretto, e tutti capiamo che saremo chiamati a rendere conto di ciò che facciamo, essendo pertanto consapevoli delle conseguenze negative a cui possiamo andare incontro.

Al contrario di Dennett, Caruso sostiene il ruolo determinante della fortuna nelle nostre vite. La domanda che si pone è sostanzialmente questa: “Abbiamo la libertà o la capacità di volere, o di scegliere diversamente?”. Condizioni sociali, economiche, talenti naturali, concorrono a farci vivere situazioni molto differenti e indipendenti da una scelta personale. Sarebbero quindi queste condizioni, e non una nostra scelta, a determinare il nostro comportamento. Tesi che Dennett non respinge in assoluto ma che mitiga sostenendo che l’effetto della fortuna si neutralizza nel lungo periodo. La sua idea è che la vita somigli più ad una maratona che ad uno sprint e che, quindi, sulla lunga distanza, le predisposizioni individuali contino più dei fattori ambientali. Ritiene inoltre che il determinismo non escluda la capacità di fare scelte, correggersi e cambiare il proprio modo di agire.

Le argomentazioni

Caruso sostiene che sia possibile avere una società che possa ritenersi sicura senza che questa si basi su un sistema di merito da usare per incolpare o punire i suoi individui, che si trovano ad agire spinti da manipolazioni esterne di cui sono spesso inconsapevoli e che non possono contrastare. Dennett obietta che nessuno nasce moralmente responsabile ma che la formazione orienta il proprio modo di agire rendendoci consapevoli, e quindi responsabili, di quello che facciamo.

Secondo Caruso le circostanze in cui ci si trova determinano il modo di essere, se ne deduce che nessuno può essere ritenuto ultimamente responsabile del suo modo di essere e di quello che fa. Sia il nostro comportamento, che un’eventuale decisione di modificarlo, sarebbero quindi da imputare a fattori esterni. Sintetizzando potremmo dire che se non abbiamo merito nell’essere nati in una società moderna, relativamente stabile e con determinati valori, così non abbiamo colpe nel nascere in una realtà violenta dove i delitti sono all’ordine del giorno. Il nostro modo di agire sarà molto probabilmente diverso a seconda della realtà in cui ci troveremo, ma il nostro grado di responsabilità non cambierà.

Dennett ribatte asserendo che la vita non è sempre giusta e non ci sono garanzie che la sfortuna non si metterà sulla nostra strada, ma se in una gara vince il meno forte perché il migliore è stato sfortunato, questo non mette in discussione il risultato finale.

La differenza fondamentale tra le due posizioni è che per Caruso “la fortuna inghiotte tutto”, mentre per Dennett formazione ed educazione permettono di andare oltre gli effetti che essa può esercitare.

Pena, morale, merito

Se in alcuni momenti le posizioni dei due autori sembrano avvicinarsi, resta una divergenza di base sul concetto di pena, morale e merito e di conseguenza sul modello da adottare per regolare al meglio la vita nella società.

Interessante notare il modello della quarantena di salute pubblica proposto da Caruso. Se un individuo contrae una malattia contagiosa e pericolosa per il suo prossimo è legittimo limitare la sua libertà con un sistema di quarantena obbligatoria, non per punirlo di una colpa che non ha, ma per tutelare il suo prossimo. Ma, secondo l’autore, è importante notare che alla base della necessità di una quarantena c’è il fallimento del sistema di salute pubblica nella sua funzione primaria. E su questa sarebbe quindi opportuno intervenire per evitare che si verifichino diseguaglianze. Stesso discorso varrebbe quindi per altri aspetti a cui si rivolge la giustizia penale. Il fulcro del discorso è che il diritto di difendere se stessi e gli altri (sia in caso di epidemie che di comportamenti potenzialmente dannosi) va attuato infliggendo la minima afflizione necessaria per ottenere una protezione adeguata. La quarantena non è una pena poiché non cerca intenzionalmente di causare danni. Il concetto di pena implica invece che i danni a chi la subisce siano intenzionalmente inflitti, inoltre a una funzione stigmatizzante che funziona da messaggio e ammonimento per tutti.

Dennett è contrario ad una politica generale di scusanti, porta ad esempio il bambino che cresce con genitori che lo giustificano e non puniscono i suoi cattivi comportamenti e accusa questi stessi genitori di essere responsabili di creare un adulto moralmente incapace, concludendo con un passaggio che invita a riflettere:

È interessante il fatto che noi in realtà troviamo spazio per ammonire o punire in totale segretezza i nostri figli, segnatamente sulla base del fatto che in questo modo ne proteggiamo la reputazione con i coetanei e con gli altri, dando loro una seconda (o terza, o decima) possibilità di migliorarsi prima di assumere la piena responsabilità morale. Questi accordi privati dovrebbero sempre portare con sé una tacita comprensione del fatto che viene concessa una possibilità di scelta: “Vuoi la mia pietà o il mio rispetto? Fammi sapere quando sei pronto per il secondo. Nella misura in cui io ti scuso, esigendo meno da te in termini di comportamento morale e autocontrollato, esprimo il giudizio che non sei ancora un agente morale affidabile, che non sei ancora qualcuno su cui si può contare”:

 

Caratteristiche psicopatologiche e tratti di personalità nell’ortoressia nervosa

L’Ortoressia Nervosa (ON) si riferisce a una preoccupazione eccessiva per l’alimentazione sana che implica l’evitamento di generi alimentari valutati «non salutari», un’eccessiva quantità di tempo dedicata ad acquisire informazioni sulla composizione del cibo e a preparare specifici alimenti sulla base di criteri percepiti come salutari (Novara et al., 2017).

 

Ortoressia nervosa e disturbi alimentari

In letteratura si evidenziano sovrapposizioni tra ortoressia nervosa e sintomatologia dei Disturbi Alimentari (ad es, Novara et al., 2021) e correlazioni moderate tra ortoressia nervosa e caratteristiche ossessivo-compulsive (Poyraz et al., 2015), perfezionismo non adattivo (ad es, Barrada & Roncero, 2018), ansia e depressione (ad es, Strahler et al., 2018).

Bratman (2017) considera l’ortoressia nervosa un fenomeno suddivisibile in due fasi: in un primo momento, la persona sceglie di seguire una dieta sana, successivamente, le abitudini alimentari sane si intensificano e diventano problematiche. Infatti, se adottare uno stile di vita sano e seguire una dieta equilibrata non è considerato un comportamento problematico, le cognizioni distorte potrebbero in seguito portare a dedicare una grande quantità di tempo a rigide abitudini salutari, aderendo così a una dieta rigorosa e inflessibile.

Ovviamente, non tutte le diete sono associate all’ortoressia nervosa; quando sono correlate ad altri fattori come l’eccessiva preoccupazione per il cibo, i problemi di funzionamento sociale, le carenze nutrizionali o la perdita di peso, possono essere considerate comportamenti alimentari problematici (Bratman, 2017). Sulla base di quanto descritto, la dieta potrebbe essere considerata un elemento centrale nell’eziologia della ortoressia nervosa nonostante le tendenze ortoressiche possono essere presenti anche in coloro che non seguono alcuna dieta.

L’obiettivo principale di uno studio di Novara e colleghi (2022) è stato quello di verificare se le persone ad alta tendenza ortoressica che seguono una dieta (HIGH-D) presentassero differenze nelle caratteristiche psicopatologiche (disturbi alimentari, sintomi ossessivo-compulsivi, perfezionismo, ansia e depressione) rispetto alle persone ad alta tendenza ortoressica che non seguono una dieta (HIGH) e alle persone con bassa tendenza ortoressica che seguono una dieta (LOW-D).

L’Ortoressia Nervosa è stata valutata attraverso la scala EHQ (Eating Habits Questionnaire), un questionario composto da 3 sottoscale che valutano le conoscenze rispetto all’alimentazione sana (Convinzioni), i relativi problemi associati (Problemi), le sensazioni e le emozioni correlate (Emozioni).

I risultati hanno dimostrato che il gruppo HIGH-D ha ottenuto un punteggio significativamente più alto rispetto agli altri gruppi nella sottoscala delle conoscenze rispetto all’alimentazione sana. Per quanto riguarda invece le scale “Problemi” ed “Emozioni”, non ci sono state differenze tra i gruppi con alte tendenze ortoressiche (HIGH e HIGH-D), ed entrambi hanno ottenuto punteggi più alti rispetto al gruppo LOW-D. Questi risultati sono coerenti con la letteratura che suggerisce che la dieta rappresenta un possibile fattore di rischio per l’ortoressia nervosa (Barthels et al., 2018). Tuttavia, i gruppi di persone con elevate tendenze ortoressiche – sia a dieta che non a dieta – mostrano differenze nelle caratteristiche ortoressiche, nei tratti di personalità, nelle caratteristiche dei disturbi alimentari e in altri aspetti. Di conseguenza, la dieta da sola non può spiegare le tendenze sopra descritte. Per questi motivi, sono stati indagati anche alcuni aspetti psicopatologici correlati all’ortoressia nervosa.

Per quanto riguarda il perfezionismo, il gruppo HIGH-D ha mostrato punteggi più alti rispetto al gruppo LOW-D. Gli standard personali elevati e un’organizzazione rigida potrebbero spiegare la stretta aderenza a un’alimentazione sana. Inoltre, il gruppo HIGH-D ha mostrato livelli più elevati di depressione rispetto al gruppo LOW-D; si potrebbe per cui pensare che l’eccessiva attenzione al cibo sano potrebbe compromettere il funzionamento sociale e portare così ad una deflessione dell’umore.

Sia il gruppo HIGH-D che il gruppo HIGH presentavano una sintomatologia ansiosa maggiore rispetto al gruppo LOW-D; questo risultato è coerente con gli studi che evidenziano la presenza di una maggiore ansia nei gruppi ortoressici (Strahler et al., 2018). Questi gruppi non hanno mostrato differenze nei tratti ossessivo-compulsivi.

Il gruppo HIGH ha mostrato punteggi più alti nelle sottoscale “Disregolazione emotiva”, “Perfezionismo” e “Ascetismo” del test EDI (Eating Disorder Invenotory) rispetto agli altri due gruppi. Queste dimensioni sono correlate con la sintomatologia dei disturbi alimentari, ma non ne rappresentano gli aspetti nucleari, evidenziando così una possibile coesistenza tra alte tendenze ortoressiche e alcuni aspetti secondari, ma comunque problematici, dei disturbi alimentari.

Ortoressia e tratti di personalità

I gruppi con alta tendenza ortoressica presentavano tratti di personalità più disfunzionali rispetto al gruppo LOW-D. In particolare, il gruppo HIGH-D aveva punteggi più alti nei domini “Affettività negativa” e “Distacco”.

L’affettività negativa è un tratto caratterizzato da esperienze intense e frequenti di alti livelli di emozioni negative e da manifestazioni comportamentali associate (APA, 2013). Questo potrebbe spiegare le intense emozioni negative provate ogni volta che viene meno la stretta aderenza a una dieta sana.

Il distacco si riferisce invece all’evitamento delle esperienze socioemotive, alla mancanza di relazioni interpersonali, alla difficoltà di dare/ricevere empatia (APA, 2013). I tratti legati a questa dimensione della personalità si manifestano in concomitanza con le convinzioni e i problemi legati alle maggiori tendenze ortoressiche nel gruppo HIGH-D, per cui l’atteggiamento di superiorità e l’insegnamento delle abitudini alimentari potrebbero portare al ritiro, all’isolamento e alla compromissione sociale.

Inoltre, entrambi i gruppi con alte tendenze ortoressiche hanno evidenziato livelli più elevati di “psicoticismo” che prevede pensieri incongruenti, bizzarri, eccentrici o insoliti e da disregolazione cognitiva e percettiva (APA, 2013). Come dimostrato anche nei disturbi alimentari, le persone con un’elevata tendenza ortoressica potrebbero presentare credenze bizzarre e insolite sull’alimentazione e sui cibi sani e distorsioni cognitive/pensieri disadattivi che potrebbero spiegare l’eccessiva fissazione sul mangiare sano.

In conclusione, lo studio dimostra che le persone con un’elevata tendenza ortoressica possono presentare abitudini alimentari disfunzionali, anche se non seguono alcuna dieta. Nell’insorgenza dell’ortoressia nervosa è fondamentale sottolineare il ruolo delle caratteristiche psicologiche; infatti, in linea con l’ipotesi dello studio presentato, i gruppi con maggiori tendenze ortoressiche hanno mostrato più caratteristiche psicopatologiche e tratti di personalità disadattivi rispetto al gruppo con minori tendenze ortoressiche.

 

Terapia di coppia e genitorialità in coppie LGBTQ+ – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo Terapia di coppia e genitorialità in coppie LGBTQ+.

 

Quali sono le difficoltà di una coppia LGBTQ+? E com’è essere genitore LGBTQ+? Un bambinӘ che cresce con due genitori gay avrà problemi in futuro? Queste sono alcune delle domande e preoccupazioni che ci si pone quando si pensa alla famiglia LGBTQ+. Senza fronzoli ideologici o politici, in questo episodio del podcast sono analizzate le varie difficoltà che una famiglia LGBTQ+ vive a causa del minority stress, lo stress cronico che ogni persona LGBTQ+ esperisce a causa dell’interazione con episodi di discriminazione, o di vissuti interni come l’omonegatività interiorizzata.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologa, Educatrice Pedagogica, Collaboratrice presso il Centro Età Evolutiva delle Cliniche Italiane di Psicoterapia e Docente presso Sigmund Freud University Milan e dal Dott. Luca Daminato, Dottore in Psicologia, Dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Figli di Internet (2022) di M. Lancini e L. Cirillo – Recensione

“Figli di internet” è un libro divulgativo e stimolante pubblicato nel 2022 da Matteo Lancini e Loredana Cirillo, entrambi psicologi e psicoterapeuti, docenti e specialisti nel campo della psicologia dell’adolescente. 

 

 Viviamo in un’epoca in cui vita online e offline sembrano essersi intrecciate al punto da risultare quasi indistinguibili. Il ruolo di internet nello sviluppo dei giovani è ormai da tempo centrale sia in ambito clinico che in ambito di ricerca: come può internet influenzare la salute mentale dei ragazzi? In che modo si articola il rapporto tra i giovani e i nuovi media? E soprattutto, in che modo gli adulti possono aiutare i figli a sviluppare una relazione sana con questi mezzi? Sono queste le domande a cui Figli di Internet cerca di dare risposta.

Il volume si rivolge principalmente a genitori di ragazzi adolescenti e, in generale, a tutti quegli adulti che si interrogano su come gestire il rapporto tra i giovani, la rete, i social network e i device tecnologici. Non è un manuale di istruzioni per l’uso, poiché secondo gli autori non ci sono consigli adatti a tutti i casi: ogni adolescente ha una storia e delle caratteristiche particolari che lo rendono unico e irriducibile a precetti generalizzati. Dunque, ciò che tentano di fare gli autori è guidare gli adulti verso la riflessione, stimolando domande utili alla comprensione dell’adolescente con il quale si stanno relazionando, che tengano conto della complessità della realtà in cui viviamo e in cui vivono figli e studenti. Gli autori partono dal presupposto che, attraverso il comportamento che un giovane mette in atto, anche nel caso di Internet e strumenti tecnologici, si rivelino questioni complesse come gli ostacoli e i conflitti che sta affrontando in questa specifica fase evolutiva. Proprio con l’obiettivo di aiutarli in modo concreto e rappresentare per loro delle figure di riferimento, secondo gli autori è necessario imparare a capire quali significati comunicano le loro scelte, le loro ragioni e i loro comportamenti.

Figli di internet risponde soprattutto al bisogno dei genitori di ragazzi adolescenti che si stanno confrontando con i cambiamenti di questa fase di crescita, tentando di far comprendere cosa si cela dietro a determinati comportamenti dei loro figli e quali bisogni stanno cercando di soddisfare.

Nello stimolare la comprensione di questi aspetti della crescita, gli autori descrivono il contesto culturale attuale, con i relativi modelli predominanti e conseguenti implicazioni comportamentali da parte dei ragazzi, a lettori adulti in una realtà con caratteristiche diverse rispetto quella della loro gioventù. Nel libro, tale comprensione è guidata da domande a cui gli autori tentano di rispondere riguardo l’interpretazione e la gestione degli aspetti psicologici e affettivi coinvolti nel rapporto con i videogiochi, il sexting, i selfie, i social network, il cyberbullismo e tutti i vari rischi che si possono incontrare nel web.

 Tutte queste domande rappresentano i temi che vengono affrontati nei diversi capitoli del volume. Il manuale si apre contestualizzando l’adolescenza all’interno della cultura e della società odierne e delineandone le tappe evolutive. Viene dato ampio respiro alla tematica delle relazioni virtuali e del ruolo che i social network stanno avendo nel modificare il modo di entrare in relazione con l’Altro. Nello specifico, si sottolinea come internet e i social non rappresentino solo un pericolo, ma siano talvolta delle risorse fondamentali per permettere, ad esempio, a ragazzi più socialmente inibiti, di sperimentarsi all’interno di relazioni di varia natura. Un altro tema fondamentale che viene affrontato è quello della rappresentazione del corpo attraverso i selfie, che diventa uno strumento per esplorare la propria immagine, ma talvolta mina l’autostima. Viene poi preso in esame il fenomeno del sexting e di come questo sia percepito più sicuro e protettivo rispetto ai rapporti sessuali reali. Vengono illustrate le varie forme di bullismo e di cyberbullismo, con lo scopo di aiutare il lettore a comprendere chi sono i “veri” bulli e le vittime. Riguardo ai rischi del web viene approfondito il tema della challenge, talvolta pericolose e diventate un nuovo mezzo per assolvere al compito di mentalizzare il proprio corpo come mortale e delimitato nello spazio. Infine, viene affrontato il fenomeno del ritiro sociale, inteso come una reazione fobica nei confronti dei coetanei e del loro possibile giudizio. In questo caso, la rete viene descritta come “incubatrice psichica virtuale”, a indicarne la funzione difensiva che consente di ridurre l’angoscia e la solitudine provata. Rispetto a ciò, vengono forniti una serie di consigli rivolti ai genitori per capire come comportarsi quando il proprio figlio si ritira entro le mura della propria stanza.

Il principale punto di forza da sottolineare è il linguaggio chiaro e diretto utilizzato dagli autori, che permette di divulgare in maniera facilmente comprensibile anche temi clinicamente importanti e complessi come quello del narcisismo e del senso di inadeguatezza. I capitoli sono brevi e concisi, ricchi di esemplificazioni e disegni rappresentativi che hanno lo scopo di rendere più accessibili i contenuti e focalizzare l’attenzione del lettore su concetti chiave. Si aggiungono parti più “interattive” come questionari e schede di approfondimento affiancate a sezioni dedicate a strategie efficaci per i genitori per relazionarsi con il mondo dei social network in cui i loro figli sono immersi.

Figli di internet risulta quindi un valido aiuto per stimolare negli adulti la comprensione dei significati e dei bisogni che sottostanno ai comportamenti degli adolescenti di oggi, immersi in un contesto sociale in cui i modelli educativi e relazionali influenzano le loro scelte e le loro azioni. Anche rispetto all’utilizzo di Internet e dei device tecnologici, queste pagine offrono strumenti di riflessione che accompagnano il lettore verso una visione di tali fenomeni più completa e consapevole.

 

Dieta vegetariana e disturbi alimentari: un modo per controllare il peso?

La dieta vegetariana esclude l’uso di alimenti animali mentre la dieta vegana è un’espressione estrema del vegetarianismo, che esclude anche i derivati animali quali ad esempio latte, burro, uova, miele ecc (Appleby & Key, 2016). Queste diete potrebbero essere un modo socialmente accettabile per legittimare l’evitamento di un certo tipo di cibo: esiste dunque un’associazione tra diete vegetariane/vegane e disturbi alimentari?

 

La dieta vegetariana

 Negli ultimi anni, il numero di persone che optano per un’alimentazione vegetariana è sempre più alto; negli Stati Uniti è stato stimato che il 32% degli adolescenti tra gli 8 e i 18 anni dichiara di consumare almeno un pasto vegetariano alla settimana, mentre il 4% di questa fascia di età risulta seguire completamente una dieta vegetariana. Per quanto riguarda gli adulti (>18 anni) negli Stati Uniti, il 3,3% riferisce di essere vegetariano e la metà di loro segue un’alimentazione vegana. Le motivazioni maggiormente riferite in merito alla decisione di seguire diete vegetariane o vegane sono: iniziativa personale, motivi etici e/o fattori sociali (Segovia-Siapco et al., 2019).

Sebbene esista una correlazione tra dieta vegetariana e benefici per la salute, ad esempio per quanto riguarda la diminuzione del rischio di malattie cardiovascolari (Craig & Mangels, 2009; Key et al., 1999), l’eliminazione dei prodotti animali dalla dieta quotidiana potrebbe potenzialmente influenzare la salute, soprattutto quella degli adolescenti il cui sviluppo non è ancora completo. Inoltre esiste un’ampia controversia sugli effetti della dieta vegana sulla salute mentale (Beezhold et al., 2015). Il vegetarianismo è stato sempre più considerato come un modo per controllare il peso, in quanto la dieta si basa su una riduzione dei grassi animali (Bardone-Cone et al., 2012). I disturbi alimentari (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo alimentare non altrimenti specificato) sono solitamente associati a diete ristrette e sono più comunemente osservati negli adolescenti e nei giovani adulti.

Nei casi di disturbi alimentari, il disturbo stesso porta all’esclusione o alla restrizione di prodotti specifici. Secondo la letteratura disponibile, il 45-54% degli adolescenti e dei giovani adulti affetti da anoressia nervosa segue una qualche forma di dieta vegetariana, soprattutto le donne. Inoltre, in alcuni casi (circa il 6%), i pazienti hanno riferito di essere stati vegetariani diversi anni prima dell’insorgenza del disturbo alimentare (Bardone-Cone et al., 2012).

Alcuni autori hanno suggerito che, quando i soggetti con un disturbo alimentare (sospetto o diagnosticato) seguono una dieta vegetariana, gli operatori sanitari che li seguono dovrebbero preoccuparsi del fatto che questo comportamento possa essere usato come un modo socialmente accettabile per legittimare l’evitamento del cibo e di certi tipi in particolare (Gilbody et al., 1999).

Controversie nella relazione tra dieta vegetariana e disturbi alimentari

I risultati in letteratura sono controversi: una review di Sergentanis e colleghi (2020) ha analizzato l’associazione tra diversi tipi di dieta vegetariana e disturbi alimentari in adolescenti e giovani adulti.

I risultati di alcuni studi inclusi nella review hanno sottolineato la presenza di correlazioni tra il vegetarianismo e i disturbi alimentari, in particolare con l’anoressia nervosa. Soprattutto per gli adolescenti, il vegetarianismo e i comportamenti malsani ed estremi per il controllo del peso sembrano essere molto interconnessi. Le donne, inoltre, sembrano essere più inclini a tali comportamenti. Tuttavia, nella review sono presenti anche studi che non riportano alcuna correlazione tra disturbi alimentari e vegetarianismo.

La prevalenza delle ragioni alla base delle scelte vegetariane varia da uno studio all’altro. In media, la salute/nutrizione (37,5%) è la ragione più comune del vegetarianismo, seguita dal controllo del peso (18,8%) e dall’etica animale (14,6%).

 Per quanto riguarda le potenziali associazioni causali, molte persone con disturbi alimentari e una storia di vegetarianismo riferiscono che l’adozione di una dieta vegetariana ha seguito il loro disturbo. Sembra quindi che, in un paziente con disturbo alimentare e vegetarianismo, vi sia un’alta probabilità che il vegetarianismo possa rappresentare una modalità di restrizione delle abitudini alimentari, come parte della patologia. Non si può comunque escludere il perpetuarsi della patologia in un circolo vizioso in cui la restrizione genera restrizione. In ogni caso, è necessario che futuri studi prospettici facciano luce sull’aspetto della temporalità, corollario per la definizione di eventuali associazioni eziologiche.

Gli individui affetti da disturbi alimentari possono diventare vegetariani come mezzo per controllare il peso, come strategia di evitamento del cibo, ma anche per motivi non legati al peso. In particolare, visto lo stigma dei disturbi alimentari, nella pratica clinica può essere difficile identificare il motivo per cui si segue il vegetarianismo. Per un paziente con un disturbo alimentare, dichiarare di essere vegetariano per motivi legati ai diritti degli animali sembrerebbe socialmente più accettabile e meno scomodo che rivelare esplicitamente la volontà di perdita di peso come motivazione. In questo caso, la distorsione dell’accettabilità sociale indicherebbe che un paziente con disturbo alimentare darebbe apparentemente la priorità ai diritti/etici degli animali, mentre in realtà il comportamento potrebbe essere guidato dal desiderio di dimagrire.

Considerazioni conclusive

In conclusione, questa review evidenzia una potenziale associazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari. Alla luce di questa associazione, emerge l’importanza di analizzare e valutare i comportamenti alimentari generali, per valutare la presenza di atteggiamenti estremi di controllo del peso e la cronicizzazione dei disturbi alimentari stessi. Il dibattito sulle diete vegetariane e sugli eventuali effetti sulla salute mentale rimane aperto, mentre la ricerca futura dovrebbe concentrarsi su studi prospettici per far luce sui modelli temporali della relazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari.

 

Infortuni sul lavoro: un modello di prevenzione cognitivo-comportamentale applicata al mondo del lavoro

Le conoscenze del mondo industriale si possono integrare con le competenze di psicoterapia cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di ridurre gli infortuni sul lavoro e gli incidenti ambientali.

 

Gli infortuni sul lavoro

 In ambito lavorativo impiegatizio ed ancor più in quello operativo, gli incidenti e gli infortuni (o mancati) segnano giornalmente la vita di molti lavoratori e di molte aziende. Chi è legato alla Gestione del Personale e della Sicurezza, impegna numerose energie per la riduzione degli infortuni. È possibile farlo tramite una serie di interventi che hanno un aspetto psicologico di tipo cognitivo-comportamentale: la formazione, le azioni disciplinari, l’intervento di Sistemi di coinvolgimento, la premiazione, l’emulazione e così via in base ai budget economici, al tempo disponibile e all’interesse manifestato dai lavoratori.

Purtroppo e nonostante tutto, i lavoratori, come dimostrano le statistiche, spesso non assimilano il messaggio trasmesso durante la formazione e, come conseguenza, attuano dei comportamenti rischiosi che portano ad incidenti. È possibile proporre in azienda strumenti di gestione e valutazione finalizzati alla riduzione degli infortuni, degli incidenti, dei near miss, degli incidenti ambientali? Esistono strumenti utili per supportare sia le aziende che i lavoratori? È possibile integrare le conoscenze del mondo industriale con le competenze di psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, questo con l’obiettivo di ridurre gli infortuni e gli incidenti ambientali.

Questi strumenti si basano su un assunto facile da comprendere quanto difficile da raggiungere: il lavoratore deve “maturare cognitivamente”. Per meglio comprendere questo concetto va riportato l’esempio dell’adolescente che è statisticamente più propenso ad indossare slacciato il casco in motorino mentre, quando raggiunge un’età più matura lo porta allacciato. Questa modificazione del comportamento spesso non deriva ad esempio dal timore di punizioni, come una multa comminata dal vigile, ma da rinforzi e ricompense ricevute, da maggiore formazione effettuata negli anni, e anche da rimproveri ricevuti. Su questi fattori comportamentali si innesta la maturazione cognitiva che permette all’individuo di vedere la stessa situazione da un punto di vista differente. Quindi, la psicoterapia cognitivo-comportamentale, unita a strumenti di gestione della Sicurezza, conduce alla maturazione del lavoratore che, da quel momento, rispetta la Sicurezza per suo interesse personale.

Tuttavia, questo processo di maturazione è un problema complesso sia perché, nel mondo del lavoro, non si possono attendere anni per un risultato completo sia perché non si tratta con adolescenti, ma con lavoratori che hanno un’età tale per cui sono già maturati cognitivamente. Il che li può rendere più ragionevoli e disponibili al cambiamento, ma anche più rigidi nelle loro abitudini radicate. Per questo, infatti, nel mondo del lavoro si agisce con un insieme di strategie come ad esempio:

  • Contestazioni disciplinari e/o squadre di controllo: per meglio garantire il rispetto delle richieste aziendali in ambito Sicurezza ci sono sia lo strumento delle contestazioni disciplinari che il predisporre delle squadre di controllo che monitorino e verifichino i corretti comportamenti. Tuttavia, se spingiamo su controlli e contestazioni sappiamo che, quando il “Vigile” interiore si distrae, una parte del contesto trasgredisce, e sappiamo che le contestazioni effettuate inaspriscono l’atmosfera lavorativa. Inoltre nessun “Vigile”, benevolo o intransigente che sia, riesce ad essere sempre presente in tutti i punti dell’azienda contemporaneamente.
  • Premi: premiare i lavoratori (con denaro o altro) per rispettare la Sicurezza e l’Ambiente, sicuramente può portare risultati ma, spesso, come dimostrato da alcuni approcci, una volta interrotta l’applicazione della metodologia accade che spesso i lavoratori regrediscano parzialmente o totalmente verso il comportamento precedente, meno sicuro ed attento.
  • Formazione: in ambito lavorativo è effettuato un ammontare significativo di formazione Sicurezza e Ambiente, sia per obblighi di legge, che per desiderio delle aziende. Tuttavia, spesso sono gli stessi lavoratori che non l’apprezzano o non la metabolizzano studiandola accuratamente. Infatti, molte volte, non leggono attentamente o con eccessivo interesse il materiale didattico e tendono a tralasciare passaggi anche importanti.

 Quindi, chi opera in ambito Sicurezza ed Ambiente, spesso, si interroga su quale sia il miglior modo (anche riguardo a tempistiche e costi) che possa portare alla riduzione degli infortuni o mancati infortuni o incidenti ambientali. Una modalità adeguata potrebbe essere applicare uno strumento condiviso e volontario dove partecipano lavoratori, vertici aziendali, RSU (rappresentanti sindacali dei lavoratori), RLS (rappresentanti della sicurezza dei lavoratori) e Sindacati esterni. Il programma è basato su una sequenza standardizzata e semplificata di azioni che hanno l’obiettivo finale di far migliorare la Sicurezza e l’Ambiente incrementando lo sviluppo cognitivo dei lavoratori.

Alcuni passaggi per ridurre gli infortuni sul lavoro

Alcuni dei passaggi possono essere i seguenti:

  • Questionari: utilizzati per avere a disposizione la fotografia dello stato iniziale, monitorare l’andamento, stratificare e gestire i sotto-gruppi, ragionare su azioni da implementare per “dirigere” correttamente l’evoluzione.
  • Stratificare i gruppi in sotto-gruppi: questo, da un lato, permette di identificare la corretta allocazione dei lavoratori nei sotto-gruppi e dall’altro favorisce l’intervento mirato per la reale tipologia di necessità. Trattare tutti i lavoratori nello stesso modo sarebbe un dispendio di energie, costi, tempi e non porta ai reali risultati voluti. È come utilizzare un solo farmaco per decine di patologie differenti senza nemmeno comprendere e stratificare le singole patologie.
  • Impostazione “emotivamente visual” tramite una sequenza a spirale stringente che porta da un lato a ragionare sulle attività che vengono effettuate e dall’altro a fornire al contesto lavorativo un metodo di emulazione tra colleghi o di vincolo emotivo. Per questo non è stata prevista nel programma nemmeno la presenza o necessità di squadre di verifica in quanto sono gli stessi lavoratori inseriti nel progetto che vengono immersi nel processo di cambiamento e si auto-sostengono ed auto-verificano. Per meglio rendere l’idea basti pensare, ad esempio, al fumatore che entra in un locale (ovviamente non fumatori) dove all’interno vi siano tutti fumatori che, naturalmente, stanno rispettando il divieto. Se questo fumatore entra fumando sarà una parte degli stessi fumatori presenti a farglielo notare, senza necessità che intervenga un controllore o una sanzione. Il Sistema predisposto favorisce un insieme di azioni similari.
  • Cartellino al petto: ogni lavoratore che aderisce volontariamente si mette un cartellino al petto. Una specie di segnale, un semaforo che mostra a tutti la propria situazione relativamente alla Sicurezza ed Ambiente e crea una catena di azioni ed atteggiamenti consci ed inconsci finalizzati al coinvolgimento e alla canalizzazione delle informazioni. Questo consente ad ognuno di meglio comprendere il coinvolgimento nella Sicurezza ed Ambiente che ha il collega che gli lavora vicino. Se un collega che lavora al nostro fianco mostra che deliberatamente non lavora in Sicurezza noi ci preoccupiamo non solo perché possa lui avere un incidente lavorativo, quanto per il fatto che possa far male a noi e, a quel punto, ci sentiamo personalmente ed emotivamente ingaggiati nel rischio.
  • Formazione e addestramento: il Sistema supporta la formazione e l’addestramento volontari ma secondo un metodo che tende a coinvolgere i lavoratori tentando di farli interessare maggiormente. Una delle chiavi di lettura è far loro comprendere che possa anche essere utile nella vita personale, come ad esempio l’utilizzo di un cutter è similare al metodo con cui si taglia una pagnotta di pane. Entrambe le casistiche potrebbero portare, ad esempio, a ferirsi qualora il taglio venga effettuato dall’esterno verso il petto ed il coltello o il cutter sfuggisse dal controllo nell’azione del tagliare.
  • Minimalismo: lo Strumento è stato volontariamente impostato per essere poco dispendioso sia in termini economici che di ore di investimento. Questo perché, nella realtà dei fatti, diverse Aziende non desiderano investire troppo tempo, troppi costi, troppe energie, troppe persone, troppi consulenti. Le varie fasi sono state, quindi, impostate eliminando passaggi utili ma non indispensabili e concentrandosi solo su quelli indispensabili, questo per raggiungere l’unico obiettivo veramente indispensabile: far maturare cognitivamente lavoratori. Inoltre rende lo Strumento applicabile anche in gruppi lavorativi (sia industriali che non) di soli 3-5 lavoratori.

Questi programmi, con la metodologia a partecipazione volontaria, ma cognitivamente incanalata, permettono un incremento della cultura, della formazione, dell’interesse e permettono che le persone, man mano progredendo e comprendendo, facilitino quel balzo dell’adolescente che matura per il proprio interesse. Essi metabolizzeranno meglio le dinamiche del rischio e porranno maggiore attenzione per la propria salute (come l’adolescente che, da un certo punto della sua vita, allaccia il casco “semplicemente” perché è maturato cognitivamente e vede la stessa cosa da un punto di vista differente).

Le resistenze negli interventi per ridurre gli infortuni sul lavoro

Lo Strumento ha un ciclo di implementazione dell’intera sequenza di 4-6 mesi, poi ricomincia da capo come una canzone o una poesia e, ogni volta, più persone migreranno tra i vari sotto-gruppi fino a maturare cognitivamente e, ogni volta, saranno sempre più evidenti i resistenti indisciplinati o disinteressati che, per qualsiasi loro motivo, non aderiranno al Sistema. Ed è su questi lavoratori che vanno effettuati interventi one-to one per comprendere le reali motivazioni che possono essere le più disparate come, ad esempio, non comprendere bene l’italiano, non essere adeguatamente interessati o motivati, sentirsi già sicuri, pensare che si stiano chiedendo sempre le stesse cose. Infatti, solo comprendendo le reali motivazioni di queste persone “scremate” dallo Strumento potremo intervenire per mitigare o gestire quel reale tipo di comportamento che, a quel punto, è chiaro ed identificato. E, solo così, anche questi “resistenti” potranno essere supportati in maniera pertinente per un percorso di presa di coscienza e maturazione cognitiva. Ogni volta che lo Strumento riparte da zero è come se venisse inserito un setaccio a grana più fina che supporta “spintaneamente” (la i in spontaneamente è inserita di proposito) ulteriori lavoratori alla maturazione cognitiva.

La psicologia Cognitivo-Comportamentale supporta ogni step del processo evolutivo dello Strumento sperimentato con un percorso di presa di coscienza, maturazione individuale e supporto canalizzato. Ma dove apporta il massimo supporto è nell’azione one-to-one di quelli che permangono nel sotto-gruppo dei resistenti-ostili perché sono loro che hanno il massimo benefico derivante da percorsi strutturati ed efficaci quanto brevi, economici e risolutivi esattamente come serve al mondo industriale. In tal modo la psicologia Cognitivo-Comportamentale esce dal suo “canonico” ambito per aiutare concretamente i lavoratori e le aziende al fine di ridurre infortuni, near miss, incidenti ambientali, perseguendo anche un obiettivo etico, sociale, morale.

Ognuno di noi deve sempre utilizzare il massimo delle energie e degli strumenti a disposizione per ridurre giornalmente gli infortuni e gli incidenti ambientali e questi nuovi studi con base cognitivo-comportamentale, ma legati al mondo industriale in campo, sembrano andare verso una direzione di interesse sia per le aziende che per i lavoratori.

 

Articolo a cura di Fabio Falino, Plant Director – HSE Safety 361°.  Per informazioni e approfondimenti sui programmi: [email protected]

 

Privacy online: internet non dimentica?

La privacy indica la vita personale, privata, dell’individuo o della famiglia, costituisce un diritto e va perciò rispettata e tutelata; questa definizione vale anche per la privacy online ma con una piccola eccezione, dopo aver condiviso dei propri dati in rete non sono più in nostro possesso.

 

La privacy online è un tema delicato e attuale che, nonostante abbia acquisito molta rilevanza per i vari scandali che si sono susseguiti in questi anni (e.g., Cambridge Analytica), non ha prodotto nessuna effettiva modifica nei comportamenti degli utenti online. La poca attenzione data a una tematica così sensibile può provocare una serie di conseguenze negative dirette al futuro utilizzo di internet per ognuno di noi. A questo punto è importante chiedersi perché le persone tendono a dare poca importanza a un problema che le interessa direttamente?

Cosa si intende con privacy e con privacy online?

La privacy, secondo la Treccani (2022), indica la vita personale, privata, dell’individuo o della famiglia, in quanto costituisce un diritto e va perciò rispettata e tutelata. È possibile traslare questa definizione anche per la privacy online ma con una piccola eccezione, dopo aver condiviso dei propri dati in rete non sono più in nostro possesso. La tutela, il rispetto e il diritto vengono totalmente violati, ma con il nostro consenso.

Infatti, ogni qual volta accediamo su un sito o ci registriamo su una piattaforma ci compaiono delle scritte (e.g., “accetta le condizioni” o “accetta termini e condizioni” oppure “ accetta e chiudi”) che ci consentono di scegliere se accettare e continuare il nostro “navigare” oppure fermarci e leggere l’informativa sulla privacy. Chiaramente nessuno ha il tempo e la voglia di leggere articoli, commi e condizioni quindi tutti noi decidiamo di accettare e andare avanti.

Ogni volta che accettiamo non facciamo altro che dare il nostro consenso ai siti per i trattamenti dei nostri dati. Questi dati possono essere utilizzati dai siti che visitiamo per personalizzare la nostra esperienza (cookie di prime parti) oppure possono essere venduti e usati da altri siti (cookie di terze parti). Dopo lo scandalo di “Cambridge Analytica” ci sono stati dei cambiamenti in favore di una maggiore tutela dei dati degli utenti, ma si è ancora molto lontani dalla definizione citata inizialmente.

Navigare e visitare qualche sito non è l’unico modo di fornire dati. Ogni volta che condividiamo una foto, un video, un articolo o ci registriamo per ottenere la “carta fedeltà” non stiamo facendo altro che dare il consenso per l’utilizzo dei nostri dati a chi fornisce il servizio di cui vogliamo usufruire. Tutte queste informazioni, una volta condivise online, non ci appartengono più. Infatti, nonostante il cosiddetto diritto all’oblio (European Commission, 2014) la cancellazione dei dati non implica la completa eliminazione delle nostre informazioni da internet.

Per questo, prima di condividere qualcosa online, bisogna ricordare che internet non è altro che una rete fatta di una fitta unione di collegamenti e nodi che distribuiscono i dati in tutto il mondo online. Quindi anche se l’informazione non è più presente in una specifica sezione di internet, non vuol dire che non sia reperibile (in forma disgregata) in altre zone online.

Se l’uso di internet è così pericoloso perché, ancora oggi, tendiamo a prendere decisioni che vanno contro la nostra stessa sicurezza?

La risposta a questa domanda deriva dagli studi della psicologia e dell’economia decisionale.

Kahneman (2001) durante i suoi studi con Tversky e Smith ha descritto il nostro processo decisionale come diviso in due sistemi. Il sistema 1 (veloce e intuitivo) che ci consente di elaborare velocemente le informazioni, con un minimo consumo delle risorse cognitive, ma che non ci assicura sempre il miglior risultato e il sistema 2 (analitico) che è più lento, consuma molte più risorse, ma è completo nell’elaborazione. I due sistemi collaborano insieme per darci la possibilità di prendere le migliori decisioni ma non va sempre tutto nel verso giusto. Infatti, si possono presentare degli errori che vanno a precludere la correttezza delle decisioni.

In realtà, il processo decisionale è molto più complesso di come è stato descritto precedentemente, ma ciò che conta è capire che non siamo sempre analitici e razionali (sistema 2) durante la nostra quotidianità e tendiamo a prendere delle decisioni poco accurate senza tenere in considerazione tutte le informazioni necessarie (sistema 1). Per questo, ogni qual volta che ci viene chiesto online di accettare e chiudere o leggere e capire, preferiamo la prima opzione, perché è meno onerosa da un punto di vista di risorse cognitive e siamo maggiormente predisposti ad assecondare il nostro bisogno di navigare con un semplice tocco rispetto al dover posticipare il piacere per leggere e comprendere.

Un’ulteriore spiegazione alla nostra noncuranza deriva dallo studio di Tam et al (2009) che propone l’idea del compromesso di convenienza-sicurezza. Questo fenomeno descrive la propensione delle persone a preferire la convenienza alla sicurezza, in gran parte delle situazioni (e.g., preferiamo avere un login veloce rispetto a mettere tutti i dati necessari ogni volta che effettuiamo un accesso).

Chiaramente non siamo sempre attratti dalla convenienza, molto dipende dal grado di minaccia percepito dall’utente come già evidenziato da Rogers (1975) nella teoria della motivazione alla protezione. In realtà, conoscere il grado della minaccia è una condizione necessaria ma non sufficiente per reagire al pericolo. Infatti, a partire dallo studio di Johnston & Warkentin (2010) si è compreso come per l’applicazione di una buona sicurezza online è necessario avere un buon livello di autoefficacia (Bandura, 1997), cioè bisogna percepirsi come competenti e capaci nel gestire la privacy così da far fronte a qualsiasi minaccia si presenti durante la nostra navigazione.

Esiste una soluzione alla nostra difficoltà nel gestire la privacy online?

La soluzione unica e funzionale per gestire in maniera ottimale la privacy online non esiste, ma avendo visto alcune delle cause di questa nostra difficoltà è possibile intervenire durante la nostra attività quotidiana online. La soluzione, in questi casi, è la consapevolezza di ciò che si sta facendo, che può essere alimentata praticando e riconoscendo i propri errori. Infine, è vero che internet non dimentica, ma noi possiamo imparare a non fare gli stessi errori e cambiare il nostro modo di usare questo incredibile strumento che molto spesso viene sottovalutato diventando il nostro principale nemico. Infatti:

Il problema non è la tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa. Ogni cosa comporta dei rischi, l’importante è essere consapevoli e valutare se il prezzo che paghiamo (meno privacy) è adeguato a quanto riceviamo in cambio (Nasetti, 2021).

 

Prima della schizofrenia. La vulnerabilità schizofrenica in età evolutiva – Recensione

“Prima della schizofrenia. La vulnerabilità schizofrenica in età evolutiva: esperienze, fenotipi, traiettorie” è un libro di Michele Poletti edito da Fioriti Editore a dicembre 2021. 

 

L’autore è dirigente psicologo presso la AUSL di Reggio Emilia, è psicoterapeuta specialista in neuropsicologia dello sviluppo e svolge attività clinica e di ricerca.

Il libro di Poletti è un testo per gli specialisti che si occupa di un tema importante in ambito psichiatrico, vuole colmare un vuoto presente nella lettura del settore concentrandosi sull’evoluzione della schizofrenia.

Poletti conduce il lettore in un viaggio che parte dai fattori di rischio genetici ed ambientali presenti nell’infanzia e prosegue cercando le possibili correlazioni con il rischio schizofrenico che si manifesta in adolescenza. L’autore segue quindi un’ottica prospettica considerando sia gli aspetti fenomenologici della schizofrenia sia il vissuto dei giovani pazienti. Si tratta di un’opera corposa, che ha richiesto un lungo lavoro di stesura.

La schizofrenia è un disturbo caratterizzato, secondo i criteri diagnostici del DSM-5, dalla presenza, per un periodo di tempo significativo nell’ambito di un mese, di almeno due tra i seguenti sintomi: deliriallucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente organizzato o catatonico e sintomi negativi come, ad esempio, la riduzione dell’espressione delle emozioni. L’esordio può essere difficile da stabilire poiché la scarsa conoscenza dei sintomi può ritardare la diagnosi. L’esordio può avvenire in modo improvviso od essere preceduto da sintomi prodromici. La schizofrenia generalmente si manifesta in età adolescenziale, può manifestarsi anche in età più avanzata, ma i segnali iniziali possono essere presenti già dall’infanzia; tuttavia, l’esordio in età infantile è raro. La prognosi a lungo termine è variabile e fortemente condizionata dall’aderenza al trattamento farmacologico.

Come dichiarato da Poletti, durante un’intervista rilasciata al Gazzetino Santilariese:

sono disponibili numerose statistiche sul fenomeno, che è presente tanto nei paesi e nelle aree più industrializzate quanto nei paesi in via di sviluppo e nelle zone rurali, senza distinzione di classe sociale. Si stima che nella popolazione generale tra lo 0,4 e lo 0,7% presenti questo disturbo: sembra un numero basso, ma significa 4-7 individui ogni 1000, ovvero tra le 2000 e le 3600 persone nella sola provincia di Reggio Emilia. Se poi si allarga il dato a chi presenta una vulnerabilità ma non arriva alla forma del disturbo manifesta, il dato aumenta notevolmente.

Poletti distingue tra la schizofrenia che esordisce in età adulta, in adolescenza e quella che si manifesta in età infantile. La schizofrenia ad esordio adolescenziale presenta sintomi molto simili alla schizofrenia con esordio in età adulta, tuttavia la sua evoluzione clinica è più complessa. Quella ad esordio infantile ha caratteristiche peculiari che la rendono differente dalle altre forme. L’autore evidenzia come nella schizofrenia infantile i fattori genetici abbiano un peso rilevante, poiché in questi casi le alterazioni genetiche sono di maggiore gravità rispetto a quelle riscontrate nelle forme di schizofrenia ad esordio tardivo.

Anche i sintomi quali le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero ed i disturbi del comportamento si differenziano in funzione del periodo d’esordio della malattia. In particolare la disorganizzazione del pensiero, nella schizofrenia ad esordio precoce, non può essere considerata come nella schizofrenia che si manifesta in età adulta, dove il sintomo rappresenta un deterioramento di funzioni emotive, affettive e comportamentali presenti precedentemente. Al contrario nell’esordio precoce potrebbe manifestarsi con caratteristiche molto simili ai disturbi dello spettro autistico anche se, generalmente, l’autismo ha un esordio ancor più precoce ed alla disorganizzazione del pensiero si associano le difficoltà comunicative e le stereotipie.

L’opera di Poletti sistematizza molte delle conoscenze sulla schizofrenia con l’obiettivo di comprendere cosa succede in quei bambini e quegli adolescenti che da adulti presentano il rischio di sviluppare la schizofrenia, concentrandosi sui segnali importanti da riconoscere.

 

Le possibili difficoltà nella coppia quando uno dei partner ha un disturbo dello spettro autistico

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni.

 

Le relazioni di coppia

Trovare un partner e avere una relazione romantica è considerato da molti uno dei principali obiettivi della vita. Le relazioni romaniche sono infatti esperienze importanti e possono fornire sicurezza, senso di appartenenza e influiscono positivamente sulla salute e sul benessere mentale e fisico, riducendo la mortalità, il rischio di depressione, e di sviluppare malattie croniche e malattie mentali (Karney 2014). Inoltre le relazioni forniscono sostegno sociale, intimità fisica, compagnia e hanno un impatto positivo sull’autostima e sulla fiducia in se stessi (Rhoades et al. 2011). Sostenere una relazione solida a lungo termine, può però essere impegnativo; alcuni degli indicatori che rendono una relazione di qualità sono la soddisfazione e la stabilità. Quest’ultima si riferisce alla sicurezza che ciascun individuo percepisce nella relazione, mentre la soddisfazione fa riferimento a quanto un partner è soddisfatto (Shafer et al. 2014). La comunicazione e la capacità di risolvere i conflitti sono quindi fondamentali per avviare e mantenere le relazioni così come la capacità di dimostrare empatia: entrambi i partner devono essere solidali e comprensivi delle mutevoli esigenze dell’altro.

Disturbo dello spettro autistico e relazioni di coppia

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni che cominciano durante l’infanzia e persistono durante l’adolescenza e l’età adulta, momenti cruciali per la formazione di relazioni a lungo termine (APA, 2013). La maggior parte delle persone con autismo riferisce infatti di avere difficoltà a iniziare e sviluppare relazioni intime, tanto che per alcuni di loro le difficoltà nella comunicazione e nell’interpretazione dei segnali sociali possono tradursi in interazioni sociali limitate e minori opportunità di sviluppare relazioni sentimentali (Cunningham et al. 2016). Soltanto il 14% di loro, infatti, è sposato o ha una relazione a lungo termine, sebbene numerose ricerche abbiano dimostrato che desiderano impegnarsi sentimentalmente (Strunz et al. 2017). Talvolta accade che persone con diagnosi dello spettro autistico abbiano relazioni con partner che invece non presentano nessuna diagnosi; tali relazioni presentano diverse sfide a cui entrambi i membri della coppia devono adattarsi (Strunz et al. 2017). Le principali sono le difficoltà di comunicazione, evidenziate come una tensione centrale: i soggetti con autismo adottano uno stile di comunicazione più diretto, letterale e logico, che talvolta è mal interpretato. Alcuni studi hanno riportato che molte persone si aspettano che il partner con un disturbo dello spettro autistico cambi il modo di comunicare con il progredire della relazione, cosa che quest’ultimo spesso ritiene di non essere in grado di fare (Hode 2014). Una ricerca che ha esplorato la soddisfazione delle donne in una relazione con un partner con sindrome di Asperger, ad esempio, ha mostrato che le donne hanno sperimentato un declino nella loro salute e nel loro benessere generale, principalmente a causa dell’incapacità del compagno di comunicare in modo efficace, di fornire supporto emotivo e di impegnarsi in attività condivise (Bostock-Ling et al. 2012). Un ulteriore studio ha sottolineato l’importanza che entrambi i partner imparino ad adattarsi alle differenze dell’altro ma questo richiede delle competenze e delle conoscenze che non tutti hanno; molti infatti hanno bisogno di aiuto per affrontare queste sfide nella loro relazione (Lewis 2017).

Poiché non esistono ricerche che abbiano esplorato le relazioni sentimentali dal punto di vista del partner con diagnosi dello spettro autistico e i bisogni di ciascun membro della coppia, uno studio di Smith e colleghi del 2021 ha tentato di esplorare le sfide e i facilitatori sperimentati sia dai partner neurotipici (NT), sia da quelli autistici (neurodiversità; ND) in una relazione intima (relazione ND). Un ulteriore obiettivo era quello di esplorare le esperienze delle coppie ND in merito ai servizi di supporto alla relazione a cui hanno avuto accesso durante quest’ultima. Gli autori hanno quindi utilizzato un approccio fenomenologico per intervistare tredici persone che avevano una relazione di questo tipo. I risultati suggeriscono che queste relazioni iniziano e si sviluppano in tre fasi: luna di miele, inizio e fine, come proposto da Reese-Weber nel modello teorico di sviluppo delle relazioni (2015).

Le difficoltà nelle relazioni di coppia quando è presente un disturbo dello spettro autistico

Le principali sfide all’interno delle coppie sono risultate le difficoltà soprattutto iniziali di comunicazione tra i partner, sebbene con il progredire della relazione le coppie abbiano trovato modi più efficaci per comunicare. Inoltre sono emerse alcune caratteristiche idiosincratiche come la sensibilità alla luce ai suoni o al tatto che creavano problemi nella relazione. Un’ulteriore sfida è stata la grande differenza nell’interpretazione e nell’espressione delle emozioni. I facilitatori sono risultati invece il concentrarsi su aspetti positivi della relazione acquisendo comprensione reciproca e supportando l’altro nei contesti sociali e il ricevere una diagnosi, sebbene per i partecipanti dello studio sia avvenuto tardivamente: questa ha fornito a entrambi i partner una spiegazione per le caratteristiche idiosincratiche che erano sempre presenti nella relazione e nelle situazioni sociali. Infine è stato chiesto ai soggetti di raccontare le loro esperienze con i professionisti della salute e con i servizi di supporto alle relazioni a cui hanno avuto accesso in merito alle sfide affrontate nelle loro relazioni; tutte le coppie hanno riferito di aver cercato un supporto relazionale o gruppi di sostegno sia a livello locale che online, con scarso successo. In conclusione sembra che le relazioni ND si sviluppino nelle medesime fasi delle altre relazioni, ma includono una serie di sfide comunicative e sociali uniche in tutte queste fasi. Sono importanti quindi la comprensione e l’adattamento alle differenze di comunicazione e l’utilizzo dei punti di forza dell’altro. Infine i risultati mostrano una mancanza di supporto per le coppie ND e la necessità che gli operatori sanitari siano istruiti sulle difficoltà che possono emergere in queste relazioni, al fine di comprendere come sostenere al meglio entrambi i partner.

 

Disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel sesto episodio si parla di disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte con il Dott. Sarracino.

 

 

Dove ascoltare il sesto episodio:

Mindfulness per i disturbi del comportamento (2022) – Recensione

“Mindfulness per i disturbi del comportamento” è un manuale che guida il clinico nella conduzione di un percorso terapeutico di gruppo basato sulla mindfulness, per i genitori e i loro figli in età evolutiva con difficoltà comportamentali.

 

 Il libro “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori”, pubblicato nel 2022 ed edito da Erickson, è stato scritto da P. Muratori, didatta presso la Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale e la Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, R. Ciacchini, psicologa e ricercatrice che si occupa di applicazione e verifica dell’efficacia degli interventi mindfulness-based in ambito clinico, C. Convesano e S. Villani, psicologi, psicoterapeuti e insegnanti di Mindfulness.

Qual è l’obiettivo del libro e a chi è rivolto

Il manuale illustra un percorso terapeutico basato sulla mindfulness in un setting gruppale per bambini con difficoltà di comportamento e per i loro genitori. Le problematiche comportamentali contemplate dagli autori riguardano la sintomatologia da deficit di attenzione e iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]), da disturbo oppositivo-provocatorio (DOP), da disturbo della condotta, oppure un’associazione tra i disturbi del controllo degli impulsi (DCI).

Il libro è stato pensato per essere usato da professionisti operanti nell’area della salute mentale, nello specifico per coloro che si occupano dei disturbi del comportamento. L’intento è quello di indicare al clinico un modo per supportare i bambini e i loro genitori, che possono trovarsi in difficoltà nella quotidianità a causa della disregolazione emotiva e comportamentale, e delle interazioni sociali dei propri figli. Secondo gli autori, un approccio basato sulla mindfulness per i genitori può essere utile non per ottenere un cambiamento del comportamento, bensì per fornire uno stimolo per osservare in modo nuovo e creativo le caratteristiche del proprio bambino, fronteggiare gli errori che inevitabilmente si compiono essendo genitori, e imparare a essere compassionevoli verso se stessi. Per i bambini, invece, può essere utile per conoscere un modo nuovo di approcciarsi alle proprie irrequietezze, alle emozioni intense, alle distrazioni e all’impulso incontenibile di reagire immediatamente a queste spinte.

Gli autori consigliano di utilizzare il manuale come spunto sulla base del quale creare un intervento mindfulness-based ad hoc in base alle esigenze del gruppo e del contesto clinico in cui opera il professionista che vuole applicare il programma. Tuttavia, la durata ideale di questi percorsi non dovrebbe essere inferiore ai due mesi. Inoltre, alcune attività descritte nel libro possono essere integrate in percorsi di terapia cognitivo comportamentale standard, sia di gruppo che individuale, oppure in percorsi di parent training standard.

Rispetto ai requisiti dell’insegnante, gli autori sottolineano l’importanza di una formazione specifica e pratica quotidiana della mindfulness come parte integrante della propria vita, per una maggiore efficacia del percorso.

Perché la Mindfulness?

È stato osservato che l’esercizio della mindfulness e delle pratiche meditative danno esito a cambiamenti significativi e positivi a carico del Sistema Nervoso Centrale e del Sistema Nervoso Autonomo in termini strutturali e funzionali, sia a breve sia a lungo termine. Tali modificazioni cerebrali sostengono il potenziamento di uno specifico set di funzioni, come il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza del presente. Infatti, i programmi d’intervento basati sulla mindfulness contribuiscono allo sviluppo individuale della consapevolezza del momento presente e forniscono le fondamenta per lo sviluppo di un’osservazione non giudicante, diminuendo così i comportamenti attuati in modo automatico.

 Perciò, l’obiettivo del percorso proposto dagli autori è quello di favorire una nuova modalità attraverso la quale poter osservare e vivere nel presente le proprie difficoltà, senza sovraccaricarle di previsioni negative o di senso di inefficacia che proviene dal passato. Inoltre, incrementando l’accettazione delle proprie difficoltà e acquisendo nuove strategie di regolazione emotiva e comportamentale, il bambino potrà allenare la capacità di fermarsi prima di agire, per riflettere ed esplorare i propri pensieri, emozioni e sensazioni e scegliere con consapevolezza ed empatia l’azione migliore da mettere in atto. In generale, gli effetti principali che la mindfulness produce in chi la pratica, siano essi bambini o adulti, si concretizzano in una migliore qualità di vita, un incremento della capacità attentiva e una riduzione dello stress.

Com’è organizzato il libro

Il manuale consta di due capitoli teorici introduttivi, cui segue la descrizione dettagliata dei due percorsi d’intervento proposti (per i genitori e il loro bambino). Infine, viene inserita una sezione di appendice in cui sono contenute schede di approfondimento sulle tecniche yoga e un prontuario sulla meditazione.

Nel primo capitolo vengono descritti i profili e il funzionamento dei bambini con fragilità comportamentali, unitamente alle cause e alle sfide evolutive che queste comportano, oltre a cercare di delineare come i deficit prodotti dalle caratteristiche di tali disturbi del comportamento possono essere compensati attraverso le attività proposte.

Il secondo capitolo introduce la pratica della mindfulness e stabilisce che i protocolli di mindfulness pensati per i bambini hanno il fine di incrementare in loro le capacità di controllo e regolazione delle emozioni, nonché le capacità attentive. Contemporaneamente, attraverso protocolli ad hoc per i genitori, la pratica della mindfulness esercita un’influenza indiretta, poiché li aiuta a ridurre lo stress generato dalle difficoltà dei loro figli e insegna delle tecniche definite come mindful parenting.

Nella sezione dei due percorsi d’intervento gruppale, vengono illustrate tutte le attività da proporre durante i dodici incontri, chiamati “classi”, del percorso per i bambini e gli otto incontri del percorso per i genitori. Gli autori spiegano che, sebbene per tradizione sia stato usato il termine “classe”, che riflette l’intenzione di apprendere nuove modalità di percezione di se stessi ogni volta, con i bambini è consigliato utilizzare il termine “incontri”, per evitare di richiamare il concetto di scuola fatto di obblighi e giudizi. Il motivo per il quale il percorso per i bambini presenta più incontri rispetto a quello per i genitori consiste nel proporre un maggior numero di esempi di attività da fare insieme ai bambini, in quanto gli autori ritengono che la varietà sia un elemento importante da considerare quando si vuole avvicinare il bambino alla pratica della consapevolezza.

Tutti gli incontri sono dettagliatamente descritti e corredati da consigli e linee guida per il clinico, oltre alle schede che guidano alla pratica meditativa presentata nello specifico incontro e letture per bambini e genitori. Ad ogni classe vengono associate anche “assegnazioni pratiche a casa”, ovvero attività da svolgere in una dimensione quotidiana, per rinforzare le nuove consapevolezze e il nuovo atteggiamento che sta maturando.

Nello specifico, il percorso per i bambini comprende pratiche di meditazione e yoga, i cui obiettivi sono favorire uno stato di calma della mente e del corpo, l’acquisizione di un atteggiamento più consapevole del proprio mondo emotivo, dei meccanismi di autoregolazione emotiva, e degli effetti dello stress sulla qualità del sonno e della vita.

Invece, il percorso per i genitori si configura come tempo per il genitore da dedicare alla cura di sé e alla conoscenza del proprio funzionamento. Attraverso la proposta di pratiche di mindfulness e semplici esercizi yoga, l’obiettivo è quello di aiutare il genitore ad acquisire un atteggiamento più consapevole dei propri stati emotivi, dei meccanismi di autoregolazione emotiva e del funzionamento del sistema di attivazione dello stress. Si genera così una consapevolezza in grado di rompere schemi abituali e ormai automatici di risposta che permettono di vivere in modo nuovo ogni relazione, inclusa quella con il figlio. Coltivando la sensazione di essere connessi con il proprio bambino con uno sguardo presente e non giudicante, ci si apre a cambiamenti sostanziali che nutrono il processo di “genitorialità consapevole”, caratterizzato da consapevolezza, accettazione e compassione verso sé stessi.

A completare il volume vi è l’Appendice, in cui sono allegate schede sulle tecniche yoga e su come questa disciplina, attraverso esercizi e sequenze volti alla centratura mente-corpo, possa essere d’aiuto nel tentativo di ridurre lo stress e l’affaticamento cognitivo. Viene inoltre proposto un Prontuario per la meditazione, indirizzato all’operatore, con la spiegazione e le indicazioni delle tecniche meditative da presentare nel percorso per i genitori.

In conclusione, “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori” si rivela essere uno strumento utile e versatile per il clinico che si occupa della gestione di bambini con disturbi comportamentali e i suoi genitori. Un approccio di tipo mindful può mostrare nuovi aspetti di sè stessi e delle problematiche stesse. Gli autori citano Emmanuel Carrère che a proposito del progetto basato sulla meditazione afferma che «[…] somiglia a un trekking, che a sua volta assomiglia alla vita, ci sono tappe, paesaggi che cambiano a mano a mano che si sale, c’è il sole, c’è la pioggia, ci sono giorni sì e giorni no… siamo tutti mutevoli, il mondo è mutevole, l’unica cosa che non muterà mai è il fatto che tutto muta in continuazione».

 

Sigarette e disturbi mentali: un legame pericoloso

Secondo i dati epidemiologici, alcune patologie si associano frequentemente ai disturbi mentali, tra queste l’obesità, l’osteoporosi e il tabagismo.

 

 Sono stati condotti diversi studi epidemiologici riguardo all’abitudine del fumo tra i pazienti psichiatrici (Emerson e Turnbull, 2005). Per quel che concerne l’abitudine al fumo e il tabagismo le ricerche rivelano che la percentuale di fumatori nelle patologie psichiatriche è alta, in particolare per gli individui psicotici e quelli depressi (Cooper et al., 2007), ma esiste anche una correlazione con i disturbi d’ansia (Galletti, 2021).

L’osservazione clinica porta a ritenere che esista un legame forte tra disturbi mentali e tabagismo.

Nei pazienti psichiatrici la dipendenza dal fumo rappresenta, oltre che un fattore di rischio per malattie polmonari, cardiovascolari e neoplastiche, con una riduzione dell’aspettativa di vita, anche un ostacolo all’effetto della terapia farmacologica (Prochaska, 2011)

Nel fumo di sigaretta sono contenute alcune sostanze che possono interferire con il metabolismo degli antipsicotici e degli antidepressivi, con conseguente diminuzione della loro concentrazione ematica. Il fumo determina l’induzione dell’isoenzima CYP1A2. L’aumento di  questo isoenzima determina un incremento del metabolismo di alcuni farmaci. Il farmaco che va incontro all’interazione più importante è l’antipsicotico clozapina, ma l’interazione esiste anche per alcuni antidepressivi e ansiolitici (Chiamulera e  Velo, 2013).

I dati disponibili in letteratura mostrano che gli schizofrenici tabagisti presentano un maggior tasso di ospedalizzazione e che le loro terapie richiedono alti dosaggi di farmaci antipsicotici, rispetto agli schizofrenici non fumatori. Inoltre il tabagismo, nei disturbi mentali, rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di condotte suicidarie (Emerson, 2011).

Grazie all’uso di tecniche neuroradiologiche è stato possibile evidenziare che l’abitudine al fumo determina una riduzione delle molecole trasportatrici della dopamina, e sono interessati da questa alterazione anche i circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione dell’umore (Leroy et al., 2011).

 La presenza di disturbi mentali rende maggiormente complicata la risoluzione della dipendenza da tabacco (Prochaska, 2011). Tale risoluzione è ostacolata anche da alcune convinzioni di tipo socioculturale. L’idea che porta a ritenere che il problema del fumo sia l’ultima cosa di cui ci si debba preoccupare, nel quadro della malattia mentale, è piuttosto diffusa. Così come la convinzione che la nicotina possa essere una sostanza che il paziente usa come automedicamento (Lugoboni et al., 2011). Infine, si ritiene che i pazienti che soffrono di disturbi mentali non siano in grado di smettere di fumare. In realtà, i dati disponibili in letteratura indicano che per questi pazienti risolvere la dipendenza da fumo non è impossibile, anche se più complicato rispetto ai soggetti non psichiatrici (Gilbody et al., 2019).

Simon Gildody, docente di psichiatria all’Università di New York, ha condotto con i suoi collaboratori un lavoro di ricerca che ha coinvolto 500 pazienti psichiatrici adulti fumatori. Sono stati formati due gruppi, a uno di questi è stato fornito un trattamento farmacologico e psicologico volto a risolvere la dipendenza dal tabacco. In questo gruppo è stata evidenziata una riduzione della dipendenza, una maggiore motivazione a smettere di fumare e una migliore condizione fisica generale. I risultati raggiunti non sono stati però mantenuti a distanza di un anno. Secondo l’autore della ricerca è quindi possibile che i pazienti psichiatrici possano smettere di fumare, ma lo sforzo per mantenere il risultato raggiunto deve essere costante nel tempo (Gilbody et al., 2019).

 

Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) il Disturbo Autistico e quello di Asperger vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 1) Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

 

I coniatori: Kanner e Asperger

 Dal punto di vista storico, l’utilizzo del termine Autismo nel suo senso clinico trae origine negli Anni ’40, quando Leo Kanner (1943) e Hans Asperger (1944), in maniera totalmente indipendente l’uno dall’altro, definiscono due quadri sintomatologici apparentemente molto simili, ma con alcune differenze sostanziali. Kanner (1943) descrive i bambini da lui osservati e definiti autistici come caratterizzati da ecolalia, paura ossessiva dei cambiamenti ambientali e solitudine autistica, definita come una sorta di chiusura e ritiro, come se stessero felicemente in un guscio, ignorando gli stimoli che giungono loro dall’esterno. Ciò che differenzia la Sindrome osservata da Asperger (1944; la quale prenderà successivamente il suo nome; Wing, 1981), sono i seguenti elementi: un eloquio più scorrevole, una difficoltà nell’eseguire movimenti grossolani, ma non quelli fini, e una diversa capacità di apprendere (Jeffrey e Baker, 2013).

Inquadramento nelle varie edizioni del DSM

L’Autismo è stato poi associato alla schizofrenia fino all’arrivo della terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III; American Psychiatric Association [APA], 1980/1983), che lo distingue chiaramente da essa e lo classifica per la prima volta come entità nosografica indipendente in qualità di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (Jeffrey e Baker, 2013). Con la pubblicazione del DSM-IV (APA, 1994/1995), sono stati poi aggiunti a questa categoria altri disturbi, tra cui quello di Asperger. Tale distinzione diagnostica tra Disturbo Autistico e Sindrome di Asperger è stata mantenuta nel DSM-IV-TR (APA, 2000/2001) e nella decima edizione dell’International statistical Classification of Diseases and related health problems (ICD-10; World Health Organization [WHO], 2016) e ha a che fare principalmente con il ritardo globale del linguaggio e dello sviluppo cognitivo, necessario per la diagnosi di Autismo ma assente in quella di disturbo/sindrome di Asperger (APA, 1994/1995; 2000/2001; WHO, 2016).

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) avviene un’altra importante rivoluzione per l’Autismo: la categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo viene scomposta e ricostituita diversamente, perdendo il suo nome. Il Disturbo Autistico e quello di Asperger (insieme al Disturbo disintegrativo dell’infanzia e al Disturbo pervasivo dell’infanzia non altrimenti specificato, precedentemente inclusi nei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo) vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014). Questa classificazione è stata poi mantenuta nella versione Text Revision del DSM-5 (DSM-5-TR, recentemente pubblicata; APA, 2022) e adottata anche dall’ultima edizione dell’ICD (WHO, 2022).

Il passaggio dal DSM-IV al DSM-5: da un disturbo a uno “spettro”

Durante l’evoluzione del DSM dalla sua quarta edizione (APA, 1994/1995) alla quinta (APA, 2013/2014), la diagnosi di Autismo ha subìto notevoli variazioni, a partire dall’etichetta diagnostica. L’espressione “Disturbi dello Spettro Autistico” non è in realtà così recente: già nel 1991, infatti, Happé e Frith avevano suggerito questa denominazione diagnostica per definire i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Questa terminologia, seppur inizialmente ignorata dall’APA, è stata rapidamente adottata dai professionisti e si è diffusa nel linguaggio comune (Ozonoff, 2012). Diversi autori si sono soffermati a studiare la relazione tra Autismo e Asperger e la maggior parte di questi (per esempio, Prior, 1998; Frith, 2004) non ha trovato differenze empiriche significative tra i due disturbi e, quando sono state trovate, si trattava di differenze di tipo quantitativo (es. intensità dei sintomi, grado di compromissione funzionale, cognitiva e linguistica), più che qualitativo (Ozonoff, 2012). Con il tempo, anche l’APA (come citato in Jeffrey e Baker, 2013) ha cominciato a sostenere che Autismo e Asperger rappresentassero due condizioni talmente simili, da costituire parti dello stesso continuum; il DSM-5 (APA, 2013/2014; 2022) recita pertanto: “le manifestazioni del Disturbo [dello Spettro Autistico] variano molto anche in base al livello di gravità della condizione autistica, al livello di sviluppo e all’età cronologica; da qui il termine spettro” (p. 61).

 Il secondo fondamentale cambiamento avvenuto con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) concerne i sintomi necessari alla diagnosi, i quali, da tre domini (sociale, comunicativo e dei comportamenti ripetitivi), sono stati riformulati in due: (1) interazione e comunicazione sociale e (2) comportamenti ristretti o ripetitivi. L’unione dei domini “sociale” e “comunicativo” in un unico dominio sintomatologico è avvenuta a causa dello stretto legame empirico che si è dimostrato esserci tra i due e, inoltre, per migliorare la specificità e diminuire la sovrapposizione dei criteri diagnostici (King et al., 2014). Ciò che si è mostrato essere fondamentale per la diagnosi di ASD è la compromissione della componente pragmatica (e quindi sociale) della comunicazione, pertanto è stato aggiunto il deficit nella comunicazione come specificatore opzionale alla diagnosi (King et al., 2014). L’adeguatezza di tale modello, detto bi-fattoriale, è stata confermata da vari studi (es. Guthrie et al., 2013).

Sono stati, inoltre, accorpati i sintomi simili tra loro che costituivano causa di sovrapposizione e sono stati eliminati quelli non specifici dello spettro autistico, rendendo i criteri diagnostici più precisi e coerenti (APA, 2022; Ozonoff, 2012).

Infine, nella quinta edizione del DSM (APA, 2013/2014), sono stati introdotti diversi specificatori, in modo da cogliere meglio la natura del disturbo e le sue variazioni individuali, in termini di intensità dei sintomi, grado di compromissione e sofferenza causata (Ozonoff, 2012).

Tutte queste modifiche sono state apportate al fine di rendere la diagnosi e la definizione di Autismo più chiare, precise e adatte a tutti quei quadri sintomatologici che venivano diagnosticati attraverso diverse etichette categoriali durante gli anni passati, ma che in realtà si presentavano estremamente simili, se non, appunto, per la gravità della compromissione funzionale. La creazione di uno spettro diagnostico che raccolga questi disturbi permette di evitare sovrapposizioni diagnostiche e diagnosi differenti in base all’età del soggetto, alle strategie compensatorie apprese e al clinico che lo osserva. Dovrebbe, inoltre, consentire la diffusione di un linguaggio comune tra le diverse comunità scientifiche, tra i professionisti di ogni tipo e tra le varie associazioni, e permettere l’emissione di servizi più adeguati e l’avanzamento della ricerca nel campo dell’Autismo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014; 2022).

Attuale definizione dell’ASD: DSM-5 e DSM-5-TR

Il DSM-5 (APA, 2013/2014) e il DSM-5-TR (APA, 2022) definiscono il Disturbo dello Spettro dell’Autismo come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da “compromissione persistente della comunicazione sociale reciproca e dell’interazione sociale (Criterio A), e pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi (Criterio B)” (APA, 2013/2014, p. 61). I sintomi limitano o compromettono il funzionamento quotidiano in diversi ambiti (Criterio D) e devono essere presenti durante la prima infanzia (Criterio C), ma è possibile che siano mascherati da strategie di compensazione apprese nel tempo o che non si manifestino finché le esigenze sociali non superano le capacità del soggetto. Tali alterazioni non sono altrimenti spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo (Criterio E; APA, 2013/2014; 2022).

Sono previsti degli specificatori al fine di una descrizione più completa del caso. Essi riguardano la presenza aggiuntiva di: compromissione intellettiva e/o del linguaggio, di una condizione medica, genetica o ambientale nota, di un altro disturbo mentale o comportamentale, di catatonia. Esistono, inoltre, tre livelli di gravità riferiti a entrambi i domini sintomatologici, che indicano la significatività del supporto necessario nell’area della comunicazione sociale e di quello necessario nell’area dei comportamenti ristretti e ripetitivi (APA, 2013/2014; 2022).

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Il lettore che decidesse di iniziare il libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro, di Ruggiero, Caselli e Sassaroli (2022), sappia che non si troverà di fronte a un’asettica illustrazione di concetti, ma a un vero e proprio dibattito tra esperti. 

 

 La formulazione del caso è qui intesa come un elemento costituente la terapia cognitivo comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), una parte necessaria per la buona pratica clinica. Fin dal principio gli autori sottolineano l’aspetto, forse prioritario, della formulazione del caso in CBT, cioè la condivisione con il paziente. Non parlano di un processo messo in atto esclusivamente dal clinico, ma di una procedura di co-costruzione e di continuo interscambio all’interno della coppia terapeutica, grazie alla quale l’individuo assume, fin da subito, un ruolo attivo nella comprensione e nel trattamento delle proprie difficoltà. La formulazione condivisa del caso ha la funzione di intervenire sia sugli aspetti specifici sia su quelli aspecifici del processo terapeutico. Per aspetti specifici si intendono quelli riguardanti le peculiarità della sofferenza del paziente, mentre gli aspetti aspecifici si riferiscono alla gestione dell’alleanza e della relazione terapeutiche, che fanno parte del processo terapeutico in sé più che del caso specifico. Gli utilizzi e gli scopi della condivisione della formulazione del caso risultano quindi essere molteplici: dichiarare un modello esplicativo della sofferenza emotiva del paziente; creare una base comune del razionale di strategia di trattamento; monitorare i progressi del trattamento, il che consente l’apporto di eventuali aggiustamenti e modifiche; gestire la relazione e l’alleanza terapeutiche.

Si può affermare che l’obiettivo primario del volume sia concettualizzare la “formulazione condivisa del caso clinico come intervento centrale e distintivo delle principali forme di CBT”. Si parla di forme al plurale per contraddistinguere le varie terapie di tipo cognitivo comportamentale, sottolineandone analogie e differenze non solo tra di esse, ma anche rispetto ad alcuni approcci non CBT di tipo relazionale e psicodinamico. Per fare questo, gli autori ripercorrono la storia e l’evoluzione della formulazione condivisa del caso, accompagnando il lettore a conoscerne la realizzazione nelle specifiche cornici cliniche, riportando anche descrizioni pratiche ed esempi di possibili interventi. La divisione del volume in capitoli dedicati alle varie terapie permette al lettore di averne una visione ben chiara, esaminando caratteristiche, confini e zone di sovrapposizione. Con questo tipo di strutturazione, gli autori perseguono l’ulteriore obiettivo di dividere gli approcci terapeutici in due categorie: una propone che la formulazione condivisa del caso sia possibile fin dall’inizio del lavoro, l’altra ritiene che sia un risultato da raggiungere nel corso del processo terapeutico. Alla fine di ogni capitolo sono, inoltre, aggiunte riflessioni di altri autori ben noti nel panorama della psicoterapia, che approfondiscono il capitolo stesso o che ne prendono spunto per aggiungere elementi di interesse.

Il primo capitolo è incentrato sulla Terapia Cognitiva standard di Beck (Cognitive Therapy; CT), dove la formulazione condivisa del caso è la mossa di apertura del processo terapeutico, che ne permette la gestione momento per momento. L’utilizzo del CCD (Cognitive Conceptualization Diagram), ovvero l’identificazione di credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, permette al clinico e al paziente di trovare congiuntamente un’interpretazione psicopatologica e una ristrutturazione terapeutica delle situazioni problematiche riferite. Spazio viene dato a quella che forse è la principale critica rivolta alla CT, di basarsi cioè su un’eccessiva razionalità e di relegare il paziente a un ruolo di apprendimento passivo, il che offre l’opportunità di aprire, in risposta, un’ampia riflessione sull’empirismo collaborativo e sulla co-operazione intrinseca alla condivisione della concettualizzazione.

Il secondo capitolo si sposta sul Comportamentismo, che, sottolineano gli autori, ha il merito di aver per primo proposto la formulazione condivisa del caso, in particolare con il contributo di Meyer. La tradizione comportamentista propone l’uso della formulazione come un razionale di trattamento e pone l’enfasi sulla natura provvisoria dell’inquadramento del caso. Il focus è posto sulle funzioni esecutive volontarie, quali elementi cruciali del processo psicoterapeutico, in quanto forniscono al paziente la capacità di fare una scelta volontaria nel qui e ora e di distaccarla da qualsiasi fattore antecedente, incluso lo stesso ragionamento cognitivo. L’idea è che il paziente possa acquisire una consapevolezza del suo disagio da utilizzare nelle situazioni di vita quotidiana per attuare un comportamento differente.

Il terzo capitolo indaga la formulazione condivisa del caso nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy; REBT) di Ellis. Attraverso l’illustrazione della procedura di base ABC-DEF, viene mostrato come vi sia un continuo interscambio tra clinico e paziente, in particolare durante le fase di connessione pensieri-comportamento (B-C), di disputing (D) e di negoziazione dell’obiettivo emotivo (F). Si parla qui di formulazione condivisa del problema, più che del caso, per sottolineare che l’attenzione è rivolta alle molteplici situazioni difficili sperimentate dal paziente nell’attuale contesto di vita.

Il quarto capitolo discute la formulazione condivisa del caso negli approcci CBT più recenti focalizzati sui processi. Nello specifico, vengono prese in considerazione: la Acceptance and Commitment Therapy (ACT), in cui la valutazione e la condivisione con il paziente del suo funzionamento mentale si fonde con l’intervento terapeutico basato, appunto, sul funzionamento più che sul contenuto; la Process Based Cognitive Behavioral Therapy (PB-CBT), recente approccio, ancora in via di sviluppo, che nasce dallo sforzo di integrare la CT standard e gli approcci CBT basati sul processo, considerandoli come due possibili livelli differenti di un unico intervento; la Schema Therapy, in cui il caso è formulato in termini di modelli del sé che non sono puramente cognitivi; la Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy; MCT), che attribuisce grande importanza alla condivisione precoce con il paziente del modello di funzionamento, in quanto si concentra sulla funzione della scelta esecutiva cosciente dell’individuo, che può diventare disfunzionale a causa di distorsioni metacognitive.

Il quinto capitolo è dedicato agli approcci costruttivisti. Gli autori illustrano come, in questi modelli, la condivisione della formulazione del caso sia il risultato di un processo esplorativo più che la partenza della terapia. Un importante contributo del costruttivismo è aver introdotto, nel processo di inquadramento clinico, il concetto di significato soggettivo che le persone attribuiscono a se stesse, agli altri e agli eventi della loro vita. L’attenzione è quindi posta sull’esplorazione sistematica e attenta delle interpretazioni che il soggetto fa della sua esperienza. Uno spazio viene riservato anche al modello di Liotti, che risalta l’importanza della relazione sia per la comprensione della sofferenza del paziente, sia come campo prioritario di lavoro e cambiamento terapeutico, attraverso cioè la promozione di un atteggiamento cooperativo, il monitoraggio accurato e la gestione degli episodi di crisi relazionale. Tale visione rimanda al modello di Safran e Muran basato sui concetti di rotture e riparazioni della relazione terapeutica. La formulazione del caso sarebbe quindi il risultato della gestione di questi episodi di rottura e riparazione.

 Proseguendo il discorso, il sesto capitolo si occupa dei modelli di formulazione del caso che si basano sul ruolo della relazione terapeutica. In questi modelli la formulazione del caso è il risultato del processo terapeutico e avviene senza essere dichiarata e condivisa apertamente. Gli autori presentano la Psicoanalisi Relazionale di Mitchell e Aron, paradigma di tipo psicodinamico distaccatosi dalla tradizione classica, dove il focus diventa la costruzione di una nuova esperienza interpersonale significativa che permetterebbe al paziente di assimilare nuovi modelli relazionali. Viene poi illustrato il modello della Mentalization Based Therapy (MBT) di Bateman e Fonagy, dove la mentalizzazione è promossa e incoraggiata dal terapeuta senza che ve ne sia un’esplicita spiegazione al paziente. Il capitolo prosegue riprendendo il modello di Safran e Muran e spiega in modo più approfondito come la formulazione del caso non possa avvenire inizialmente, in quanto mancherebbe la condizione su cui si basa la terapia, ovvero la rottura della relazione e la sua gestione. L’idea della formulazione del caso come risultato, continuano gli autori, è applicabile anche alla Control Mastery Theory (CMT), che si concentra sui test relazionali, fattori interpersonali ed esperienziali innescati da processi relazionali, non pienamente rappresentabili nella coscienza del paziente ma percepiti emotivamente e motivazionalmente.

Il settimo capitolo presenta il modello di formulazione del caso LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased beliefs, elicitation and treatment), ideato dagli autori del volume, e ne sottolinea il carattere innovativo di integrazione tra elementi cognitivi della CT standard (credenze sul sé e coping strategies), elementi evolutivi, che giustificherebbero la vulnerabilità emotiva come esperienza appresa durante la storia di vita dei pazienti, ed elementi processuali, che giocano un ruolo di mantenimento patologico delle coping strategies. L’integrazione si traduce nel concepire la psicopatologia come una gestione rigida del disagio emotivo, verso cui il paziente ha una sensibilità, volta a ottenere la soppressione del dolore. La vulnerabilità individuale corrisponde a uno o più temi di vita appresi in esperienze e relazioni significative percepite come intollerabilmente dolorose. Per questo l’individuo mette in atto una rigida gestione della sofferenza attraverso strategie di coping evitanti, controllanti e/o impulsive, chiamate piani semi-adattivi. Temi di vita e piani semi-adattivi sono costantemente mantenuti attivi da aspetti processuali, di necessità e incontrollabilità percepite, e questo determinerebbe la psicopatologia.

L’ultimo capitolo è dedicato alla presentazione di nuovi scenari di psicoterapia nell’ambito della E-healt, che si riferisce all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communication Technologies; ICT) per facilitare la prevenzione, la diagnosi, il trattamento, il monitoraggio e l’amministrazione nel sistema sanitario.

È doveroso sottolineare e apprezzare il tono esplorativo che contraddistingue l’intero testo e che denota l’intento di promuovere la conoscenza e la discussione critica della formulazione condivisa del caso all’interno del mondo della psicoterapia. La proposta di diverse visioni relative ai vari approcci terapeutici con relativi limiti e punti di forza, l’aggiunta di riflessioni di altri autori, nonché la presentazione di critiche e risposte, predispongono sicuramente la mente del lettore a quell’atteggiamento di apertura e curiosità fondamentale sia per lo sviluppo soggettivo individuale, sia per quello della globale comunità scientifica.

 

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