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Oltre i genitali. Introduzione alla fluidità di genere

Il termine fluidità di genere indica un genere che non è né maschile né femminile o che può identificarsi come maschio e come femmina contemporaneamente

Di Sabino Mutino

Pubblicato il 21 Gen. 2022

Aggiornato il 30 Giu. 2022 12:22

Cosa si intende per fluidità di genere? Possiamo parlare di un binarismo di genere quando ci riferiamo al cervello? Come vivono le persone gender fluid nella società contemporanea? Possiamo dire che l’identità di genere ci è involontariamente assegnata da una cultura eterocentrica? Passando in rassegna il dibattito neuroscientifico e alcuni contributi psicodinamici si è cercato di rispondere a queste domande.

 

Per iniziare

È necessario definire quelli che sono dei termini utili ad una migliore comprensione del seguente articolo.

Sesso e genere sono due termini che, nel linguaggio comune, potevano essere visti come intercambiabili, eppure c’è una sostanziale differenza. Il termine “sesso” include le caratteristiche strutturali, fisiologiche e funzionali degli individui determinate dai cromosomi sessuali, sottintendendo dunque una divisione dicotomico-organica del tipo maschio/femmina; “genere” viene invece a riferirsi al modo in cui una persona può auto-rappresentarsi come maschio o femmina (Torgrimson & Minson, 2005).

Il “ruolo di genere” è definibile come ciò che in una società ci si aspetta da una persona appartenente ad un determinato sesso biologico (Ordine degli Psicologi del Lazio, 2015): però questo concetto di per sé esclude sia tutte le persone “intersessuali” – in cui caratteristiche considerate maschili o femminili possono essere presenti in una certa misura in uno stesso individuo e non possono essere attribuibili a una condizione medica: una caratteristica che non preclude né l’“orientamento sessuale” (cioè poter avere attrazione romantica e/o sessuale di tipo etero, gay, lesbica, bisessuale, asessuale etc.) né l’identificazione con un genere preciso – (United Nation for LGBT Equality, 2017) che le persone “transgender” – cioè che sentono di appartenere ad un genere diverso dal loro sesso.

I termini “genderqueer”, “fluidità di genere” o “non binary” indicano un genere che non è né maschile né femminile o che può identificarsi sia come maschio che come femmina contemporaneamente (Richards, Bouman et al., 2016). Il concetto di “espressione di genere” è individuabile in quei comportamenti associati a un’espressione di modi culturalmente definiti di comunicare la mascolinità e/o la femminilità, o un rifiuto di questi stereotipi (magari tramite abbigliamento, acconciatura, linguaggio) (Matsuno & Budge, 2017).

L’influenza dell’ambiente: cervello dimorfico o intersessuale?

Consultando la letteratura, si riscontrano proliferanti studi neuroscientifici circa un’eventuale dicotomia: possiamo dire che il cervello è maschile o femminile?

Cahill (2006) ha riportato come non ci fossero prove del fatto che le influenze sessuali potessero differire dall’effetto che in media altre varianti potrebbero avere sulle funzioni cerebrali e che, quindi, non si potessero sottostimare le differenze tra cervelli di sessi diversi. Una maggiore proporzione di materia bianca e di ippocampo nei maschi, di materia grigia nelle femmine, l’amigdala più grande nei maschi e la corteccia ventrofrontale più grande nelle femmine potrebbero però rivelare differenze funzionali non chiare: il cervello non opererebbe secondo circuiti neurali già definiti alla nascita, ma selezionerebbe le sue connessioni sinaptiche in base all’ambiente sociale, fisico e sensoriale nel quale sono immersi secondo un processo di plasticità neurale (Eliot, 2013).

Penn Medicine nel 2013 ha riportato come da uno studio sia risultato che le femmine avessero un punteggio più alto in compiti di attenzione, memoria di parole e volti e test di cognizione sociale; i maschi invece avevano mostrato risultati migliori nell’elaborazione spaziale e nella velocità sensomotoria: differenze che si andavano ad evidenziare particolarmente dopo i 14 anni.

Si è pensato che i livelli di testosterone prenatale potessero influenzare le capacità cognitive e quindi intervenire nelle modalità di apprendimento generale, nel successo nella matematica, nell’uso della parola (Hines, 2007) o ad un aumento della densità della materia grigia nelle strutture diencefaliche del lato destro nei maschi (Lenroot & Giedd, 2010). In un esperimento, però, studenti universitari maschi e femmine con background matematico equivalente sono stati testati in una condizione di deindividuazione – cioè di anonimato: ad un gruppo di partecipanti fu detto che il test di matematica al quale sarebbero stati sottoposti aveva mostrato precedentemente delle differenze tra i sessi, mentre ad un altro gruppo era stato comunicato che il test si era dimostrato non essere soggetto a queste differenze. L’esperimento mostrò come nella condizione in cui i partecipanti sapevano del test equo non si rivelarono differenze tra maschi e femmine nelle prestazioni, differentemente da quanto emerso nel gruppo di coloro che si aspettavano queste discordanze. Questa manipolazione del contesto dimostrò come le differenze nelle prestazioni possano in un qual modo dipendere dall’ambiente nel quale il soggetto è inserito e che non siano differenze stabili (Hyde, 2005).

Le differenze nella struttura neurale degli adulti possono risultare da una vita di esperienze differenziate in base al sesso piuttosto che da una diversa e più rigida struttura di connessioni. Quando gli ambienti etichettano gli individui, si potrebbero dunque andare a evidenziare le differenze e a sviluppare maggiori pregiudizi intergruppo, inibendo l’interazione positiva e cooperativa con membri di altri gruppi, che potrebbe migliorare invece le relazioni (Halpern, 2011). Il modo in cui l’ambiente influenzerebbe le strutture cerebrali andrebbe rivalutato: numerosi sono infatti gli studi (Gurvits et al., 1996; Gilbertson et al., 2002; Woodward et al., 2006; Morey et al., 2012; Knutson et al., 2013; Henigsberg et al., 2019) che hanno rilevato una riduzione della dimensione dell’ippocampo negli individui che sono stati soggetti a forti stress e che hanno sviluppato PTSD, come ad esempio i veterani del Vietnam; inoltre, si è visto come i tassisti londinesi in pensione che avevano memorizzato 25mila percorsi, mostrassero un cervello più grande di tassisti apprendisti che lavoravano su tragitti fissi o come giocare a videogiochi sia un predittore più affidabile delle abilità spaziali rispetto al sesso biologico: le esperienze che cambiano il cervello possono essere diverse per uomini e donne perciò, se un gruppo è più propenso a impegnarsi in un’attività rispetto a un altro, ciò determinerà il successo in un’abilità (Rippon, 2019).

Nonostante questo, continuano ad emergere studi sulle differenze di funzionamento dei cervelli. Ad esempio mentre il cervello maschile svilupperebbe connessioni per aumentare la comunicazione intraemisferica, in quello femminile la comunicazione sarebbe maggiormente interemisferica: seppur non si riscontri una differenza statisticamente significativa nell’interazione età-sesso (cioè non si rilevano differenze nella traiettoria degli effetti dello sviluppo maschile o femminile), si riscontra comunque una divergenza nella dimensione delle varie zone cerebrali e nella creazione di reti neurali (più dense nei maschi e a lungo raggio nelle femmine) (Ingalhalikara et al., 2014). Ancora, è risultato come i maschi, in media, abbiano un cervello di taglia maggiore delle femmine ma è stato ipotizzato come le differenze tra i sessi nelle dimensioni del corpo calloso (che permette la connessione tra i due emisferi) possano essere conseguenze di variazioni allometriche e non di caratteri sessuali specifici: queste differenze morfologiche, che potrebbero influenzare le funzioni esecutive, l’intelligenza o la connettività, potrebbero essere associate a fattori intrinseci, come modelli di connettività e volumi delle fibre neurali, ma possono essere anche conseguenze di componenti estrinseche, come l’influenza di pressioni esercitate dagli elementi cerebrali circostanti (Bruner et al., 2012).

Si è ipotizzato come le interpretazioni dei vari risultati emersi dalle analisi di fMRI potessero in un qual modo essere distorte per andare a favore degli stereotipi di genere: quando si attribuirono le funzioni cognitive superiori ai lobi frontali, quest’area è stata trovata più grande negli uomini che nelle donne; quando invece si suggerì che la cognizione avveniva nelle aree parietali, i nuovi dati mostrarono come questi fossero più piccoli nelle donne. In alcuni studi, dunque, si sarebbe stati soggetti al fenomeno della “profezia che si autoavvera”, andando a confermare degli stereotipi come quello che le donne siano più emotive degli uomini (Bluhm, 2014).

In quanto documentate, le differenze nella dimensione e morfologia del cervello, nella composizione dei neuroni, nel contenuto di neurotrasmettitori, non possono che evidenziare una presenza di divergenze ma l’idea che le differenze di sesso nel cervello portino a differenze di sesso nel comportamento può essere messa in discussione. Un cervello dimorfico non considera le manipolazioni prenatali e postnatali (ad esempio, l’esposizione allo stress da sbarramento, la separazione materna, le condizioni di allevamento, stress postnatale acuto e cronico, esposizione a farmaci psicoattivi, anestesia) che si sono dimostrate invertire, abolire, creare o esagerare le differenze di sesso in esperimenti sul cervello di topi. Questi fattori quindi possono cambiare alcune caratteristiche ma non altre, creando un mosaico cerebrale talmente eterogeneo che non è possibile nemmeno inserirlo in un continuum tra un “cervello maschile” e un “cervello femminile”. Si possono perciò avere diverse combinazioni di caratteristiche cerebrali tanto da poter definire il cervello come “intersessuale” (Joel, 2011). Il modo più appropriato per riferirsi alle varie conformazioni del cervello non può limitarsi ad una terminologia quantitativa quanto piuttosto qualitativa – forma maschile, forma femminile. Anche se ci sono differenze tra i sessi nella struttura cerebrale, i cervelli non possono rientrare in due classi dicotomiche rigide perché ogni cervello è unico (Joel et al., 2015).

È però importante notare come l’esistenza di differenze nell’incidenza di un disturbo, ci imponga di approfondire le influenze del sesso nella ricerca per trattare i vari disturbi (Cahill, 2006): la prevalenza, l’età di insorgenza e la sintomatologia di molte condizioni neurologiche e psichiatriche differiscono sostanzialmente tra maschi e femmine, come nei casi di autismo, disturbo da deficit di attenzione/iperattività, disturbo della condotta, disturbo specifico del linguaggio, sindrome di Tourette, depressione, disturbo d’ansia e anoressia nervosa (Baron-Cohen et al., 2011; Ruigrok et al., 2014). A questo proposito andrebbe fatto un appunto: nel caso della maggiore vulnerabilità del sesso femminile a sintomi d’ansia e depressione, si è visto come in questo caso i fattori socio-culturali possano causare sintomi depressivi maggiormente nelle donne a causa delle discriminazioni di genere che subiscono (Kuehner, 2017). Infatti, in un gruppo sociale eterogeneo le donne possono essere soggette a certi fattori sociali che creeranno una vulnerabilità alla depressione; in un gruppo di carattere omogeneo nel quale le differenze di genere non hanno un peso rilevante, questo divario può essere meno marcato (Parker & Brotchie, 2010).

Verso un’identità di genere più fluida: una panoramica psicodinamico-analitica e culturale

Freud (1905) inizialmente ritenne l’omosessualità come un’inibizione del normale sviluppo psicosessuale ma ciò non avrebbe rappresentato un ostacolo allo sviluppo di altri aspetti della personalità del soggetto: l’orientamento omosessuale era riscontrabile infatti sia in persone che si distinguevano per uno sviluppo intellettuale ed una cultura etica particolarmente elevati, sia in coloro che non mostravano discostarsi dalla norma. Sempre in Freud, gli esseri umani nascerebbero tutti bisessuali e poi, con lo sviluppo, la maggior parte sarebbe diventata eterosessuale, seppur tali tendenze rimarrebbero a livello latente: tale disposizione bisessuale deriverebbe dall’identificazione inconscia con aspetti dei genitori di entrambi i sessi e, una volta sublimate, le tendenze omoerotiche costituirebbero la base delle amicizie tra persone dello stesso sesso (Crapanzano, 2019).

Parlando dell’universalità della tendenza bisessuale, Freud esprime più di una perplessità circa la cura degli omosessuali e ammette di considerare la scelta dell’oggetto eterosessuale come un fenomeno altrettanto enigmatico quanto quella omosessuale, tanto che l’interesse sessuale esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno anch’esso di essere chiarito poiché non è affatto cosa ovvia, sottolineando inoltre quanto il mondo contemporaneo guardi più all’oggetto dell’amore piuttosto che alla pulsione amorosa (Lingiardi, 1997). Non possiamo dunque dire che esista il tipo psicologico dell’omosessuale: “Esistono gli omosessuali, cioè persone, dei tipi più svariati, che desiderano e amano persone anatomicamente dello stesso sesso. Un problema degli psicoanalisti è proprio quello di continuare a pensare all’omosessualità senza riuscire a pensare agli omosessuali” (Lingiardi, 1997 pg. 2).

Allontanando l’idea della perversione o parafilia, “l’omosessualità implicherebbe una disposizione sessuale e un insieme di attività sessuali che possono essere tanto ampie, flessibili e ricche quanto l’impegno eterosessuale; e così come esiste negli omosessuali uno spettro clinico che va dalla salute alla psicopatologia, questo è riscontrabile anche negli eterosessuali” (Kernberg, 2002 pg. 4). Inoltre, il genere è biologicamente determinato, così come lo è culturalmente. Il nucleo dell’identità di genere, dato dal senso soggettivo di essere maschio o femmina, è identificato dalla società e, sebbene l’identità di genere inizi con l’assegnazione del sesso, alcune ricerche ricondurrebbero l’identificazione del genere ai fattori biologici (Kernberg 2002).

Riprendendo la tesi del Complesso di Edipo freudiano (secondo la quale il bambino si identificherebbe nel genitore dello stesso sesso per provare attrazione nei confronti del genitore del sesso opposto per sviluppare, dunque, un orientamento eterosessuale), Mario Mieli introdusse il termine “transessualità” intendendola come “la disposizione erotica polimorfa e indifferenziata infantile, che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni essere umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione” (Mieli, 1977 pg.19). Per lui, il bambino non conosce limiti fin quando la cultura etero-normativa non lo induce a considerare l’eterosessualità la normalità delle cose, secondo un processo che definisce di “educastrazione”. L’adulto perciò dovrebbe riappropriarsi del bambino-rimosso in modo da potersi riappropriare di un eros polimorfo. Il transessualismo di Mieli va oltre la semplice bisessualità e non è intendibile come il transessuale che non si riconosce nel corpo in cui è nato, ma come una persona che vive il suo eros indipendentemente dal corpo nel quale vive (Mieli, 1977): eliminando dunque una distinzione tra generi, apre ad un proto-queer.

Il genere serve come principio che organizza gli individui per elaborare informazioni su sé stessi e sul mondo esterno. Un’identità di genere che si basi esclusivamente sulla mascolinità implicherebbe la netta separazione dal suo opposto femminile e viceversa. Tuttavia, quelli con una identità di genere femminile possono dirsi non interessati ad argomenti quali moda o al semplice interagire con altri: elementi, questi, che rientrerebbero nei ruoli e comportamenti che ci si aspetta sulla base del loro genere femminile; allo stesso modo, individui con un’identità di genere maschile potrebbero essere visti come poco mascolini se non interessati al calcio o se non particolarmente aggressivi (Spence, 1993).

I confini etero-normativi e patriarcali, ritenuti troppo stretti dalle nuove generazioni, hanno fatto sì che alcuni soggetti potessero sentirsi non accuratamente descritti dai termini maschile/femminile oppure descritti da entrambi. In Jung si potrebbe riscontrare infatti come l’offuscamento del binarismo di genere, sia una manifestazione di un’energia archetipica androgina (Gosling, 2018): prendendo in prestito il mito degli androgini di Platone vedremmo come “l’androgino era un’unità per forma e per nome, essendo costituito dal maschio e dalla femmina insieme” e come inizialmente “tre erano i generi degli uomini, e non due come ora, maschio e femmina, ma c’era anche un terzo genere che metteva in comune gli altri due: l’androgino” (Platone, IV secolo a.C., in Veneziani, 2012 pgg.13-15). Poiché le norme culturali, come il genere, posso essere definite fluide, gli individui dunque starebbero esprimendo in maniera più fluida e creativa l’energia archetipica junghiana (Gosling, 2018).

Ma è giusto dire che la fluidità di genere è una questione solo delle nuove generazioni? Se pensassimo a David Bowie, no: i personaggi di Bowie rappresentavano già negli anni ‘70 la sua lotta contro le restrizioni della regolamentazione culturale mettendo in atto un cambiamento che potesse essere utile ad ampliare le numerose sfaccettature dell’identità (Bradley & Page, 2017).

Mancanza di riconoscimento identitario e salute mentale

Classificare le azioni e attribuire la condotta e le pratiche umane all’interno di categorie ben precise consente una regolazione culturale: c’è una pressione culturale sul soggetto perché si comporti secondo le aspettative in modo da essere sanzionato per comportamenti inappropriati (Bradley & Page, 2017).

Nel corso degli anni si sono sviluppati degli approcci riparativi dell’omosessualità per rinforzare le attività e lealtà tipiche del genere, sollevando non poche questioni etiche e non considerando il genere come uno spettro fluido e la non conformità di genere al sesso come una normale variazione umana (Malpas, 2011). Riguardo ciò, l’American Psychological Association (APA) si è espressa raccomandando terapie accoglienti e supportive nel rispetto dei valori sociali, religiosi e relazionali, volte a ridurre stigmi, pregiudizi e discriminazioni degli individui e delle loro famiglie: la forte preoccupazione verso queste terapie riparative ha fatto sì che venisse espresso un parere contrario ad esse (Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, 2010).

Quando persone dall’identità fluida giungono in terapia, si dovrebbe tener conto delle loro esperienze come più complesse e moltiplicate e solo in tal modo si potrebbero avere risultati sulla loro salute mentale. Si dovrebbe tenere a mente di come alcuni omosessuali, transessuali o gender fluid possano essere a rischio di sviluppare “stress da minoranza” perché maggiormente discriminati, con conseguenti problemi di apprezzamento del proprio corpo (Richards et al., 2016; Becker et al., 2017; Tabaac et al., 2018).

Gli individui con un’identificazione non binaria possono manifestare maggiori vulnerabilità a problemi psicologici rispetto agli individui con identità binaria (cis- o trans-): questo perché, non conformandosi alle aspettative di un contesto sociale che prevede un binarismo di genere, provano maggiori difficoltà nel relazionarsi con gli altri e sono sottoposti a un maggiore stress (de Graaf et al., 2021). È proprio la mancanza di riconoscimento della propria identità di genere che alimenta sentimenti di insicurezza, bassa autostima e problemi emotivi (Nicholas, 2019). L’invalidazione identitaria alla quale sono soggetti, aumenta anche il dubbio su sé stessi e la vergogna interiorizzata (Johnson et al., 2019).

È bene ripetere come l’identificazione in un genere fluido (non-binario) è un concetto diverso dalla transessualità, che prevede che l’individuo non si senta a suo agio nel corpo in cui è nato. Infatti si sono riscontrate differenze tra questi due gruppi: gli appartenenti al genere fluido hanno mostrato punteggi più alti rispetto ai soggetti cis-gender nella disforia di genere, ma più bassi rispetto a individui transgender binari; inoltre, transessuali binari hanno riscontrato preoccupazioni riguardo il corpo maggiori rispetto ai soggetti fluidi (Kennis et al., 2021).

Il rispetto per l’identità di genere altrui passa anche dal linguaggio: si sono portate avanti proposte lodevoli che possano aumentare l’inclusività e la sensibilità verso l’argomento in questione, ma al momento non ci sono proposte che non comportino ripercussioni sulla grammatica o sulla lingua parlata (Jones & Mullany, 2016; Moser & Devereux, 2016).

 

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Sabino Mutino
Sabino Mutino

Laureato in Psicologia Clinica

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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