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Identità sessuale liquida

L’etichetta eterosessuale può considersi così rigida ed esclusiva? Desiderio e comportamento sessuale definiscono necessariamente l’identità sessuale?

Di Rosario Privitera

Pubblicato il 01 Dic. 2020

Aggiornato il 05 Ago. 2022 19:20

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come tante persone che fanno incontri omosessuali, o semplicemente li desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale. Perché questa discrepanza tra il loro comportamento/desiderio sessuale e la loro identità?

 

Siamo sempre convinti che le persone che sono impegnate in una relazione sessuale con persone dello stesso sesso o che lo sono state in passato siano omosessuali o che si definiscano apertamente o meno entro tale categoria. La verità è molto meno “scontata” di quanto si vuole pensare. Tendiamo spesso a cadere in quest’errore perché sottovalutiamo la flessibilità dell’identità.

Parlando di identità sessuale sono molti gli studi che sottolineano come molte persone che fanno incontri omosessuali o semplicemente lo desiderano, continuano a mantenere un’identità eterosessuale (Seidman et al., 1999; Walker, 2014). Allo stesso modo persone che fino ad un determinato periodo della loro vita si sono definite come gay, lesbiche o bisessuali, possono finire per considerarsi eterosessuali (Diamond, 2003; Hamilton, 2007).

Così uno studio condotto da Hoburg, Konik, Williams, & Crawford (2004) in un college mostra come il 30% degli studenti e il 19% delle studentesse che si definivano eterosessuali dichiaravano di provare attrazione sessuale verso individui dello stesso sesso.

Allo stesso modo Savin-Williams & Ream (2007), in uno studio rappresentativo della popolazione americana dai 18 ai 26 anni, mostrarono come nonostante il 5% dei ragazzi e il 13% delle ragazze dichiarasse di provare attrazione sessuale verso persone dello stesso sesso, rispettivamente solo il 2% e il 4% si identificavano come gay, lesbiche o bisessuali (Savin-Williams & Ream, 2007).

L’esperimento che ora vedremo mostra come l’etichetta eterosessuale non sia così rigida ed esclusiva e che desiderio e comportamento sessuale non definiscono necessariamente l’identità sessuale della persona: in poche parole la persona non è il suo desiderio o il suo comportamento ma la definizione che dà di sé stessa.

L’identità infatti è un insieme di caratteristiche usate per auto-definirsi o per definire cosa si intende essere in una particolare situazione. Tale autodefinizione non è stabile, ma flessibile, e proprio per questo può cambiare nel corso della propria vita in base all’esperienza, alla crescita personale, alle relazioni che sviluppiamo e all’ambiente in cui viviamo (Rupp et al., 2013).

L’esperimento compiuto da Kuperberg e Walker (2018) ha coinvolto 24’000 studenti di 22 college diversi; di questo campione è stata presa in considerazione solo la percentuale di studenti che hanno dichiarato di aver avuto come ultimo rapporto un’esperienza con persone dello stesso sesso.

I reali protagonisti di questo studio sono perciò 718 studenti, di cui i ragazzi che hanno avuto una precedente relazione omosessuale sono 398, mentre 320 sono invece le ragazze che hanno dichiarato di aver avuto un rapporto con membri dello stesso sesso come ultima esperienza sessuale.

Di questi 718 studenti, il 12% dei ragazzi ed il 25% delle ragazze continuano ad autodefinirsi eterosessuali.

Ma perché questa discrepanza tra il loro comportamento sessuale e la loro identità?

Diverse teorie o variabili possono concorrere a rispondere a tale quesito: la variabile sociale gioca sicuramente un ruolo importante nella definizione di sé stessi. Un soggetto può infatti aver interiorizzato alcuni preconcetti circa il modo “giusto” di essere all’interno della società, in questo caso, rispetto alla sfera sessuale.

Conseguentemente a tale modo di pensare, l’esistenza del “giusto” presuppone l’esistenza del “non giusto”, e viceversa. Tutto ciò che non viene perciò incluso entro la categoria “giusto” è ciò che ne differisce per le sue caratteristiche intrinseche.

È a queste caratteristiche differenti e, soprattutto alla considerazione del soggetto circa queste differenti caratteristiche che esulano dal “giusto”, che ci si riferisce quando parliamo di omofobia interiorizzata o eterosessismo interiorizzato (internalized heterosexism).

Studiosi del campo come Kaufman & Johnson (2004) e Taylor (1999) hanno mostrato come alla base dell’incongruenza tra comportamenti sessuali e definizione sessuale di sé vi fossero dei sentimenti negativi e dei giudizi dispregiativi verso l’omosessualità.

Altri autori come Boykin (2005) e Ford, Whetten, Hall, Kaufman, e Thrasher (2007) hanno invece evidenziato il fatto che molte persone preferiscono nascondere o mantenere in maniera più discreta le loro relazioni o attività omosessuali.

Molto spesso la definizione di sé nell’ambito della sessualità avviene dopo una fase di squilibrio e sperimentazione: solo dopo aver ristabilito un senso di stabilità del proprio orientamento, una persona può definirsi a sé stesso e agli altri. Così, autori come Cass (1996), Horowitz & Newcomb (2002) e Kaufman & Johnson (2004) parlano del modello dello sviluppo in stadi dell’identità sessuale, mediante il quale il soggetto arriva a definire sé stesso attraverso un percorso graduale, in cui si passa da una confusa idea di sé nell’ambito sessuale, alla sperimentazione e, mediante questa, ad una definizione finale ma non per forza definitiva della propria identità sessuale.

Tornando alla domanda che ci siamo posti, per provare a rispondervi gli sperimentatori Kuperberg e Walker (2018) hanno cercato di identificare gli aspetti che differivano tra il gruppo di studenti che si sono autodefiniti eterosessuali ed il gruppo di studenti che si sono autodefiniti gay, lesbiche o bisessuali (o LGB), dopo aver avuto l’ultima esperienza sessuale con persone dello stesso genere.

Confrontando le risposte emerge che i soggetti del primo gruppo sono generalmente più conservatori, hanno alle spalle minori esperienze omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, e descrivono l’esperienza omosessuale in maniera diversa e con sentimenti differenti: lo sperimentatore ha potuto dividere questo campione di soggetti “eterosessuali” in 6 sottogruppi, in base alle loro risposte.

Il 60% del totale rientra nei primi tre gruppi nominati rispettivamente “wanting more”, “drunk and curious” e “little enjoyment”. Il primo è anche il gruppo più numeroso ed include i soggetti che hanno trovato molto piacevole l’esperienza sessuale, è il secondo gruppo in ordine di percentuale ad aver dichiarato di voler avere una relazione con il partner sessuale e solo il 30% di questo gruppo dichiara di aver avuto altre esperienze omosessuali precedenti.

Il secondo gruppo, “drunk and curious”, è il gruppo con una più alta percentuale di soggetti che dichiarano di essere stati ubriachi durante il rapporto, oltre a non volere, nella maggior parte dei casi, continuare la relazione. Il terzo gruppo, chiamato “little enjoyment”, è composto dalle persone che non hanno trovato piacevole l’esperienza e che non vogliono proseguire la relazione.

Questi tre primi gruppi sono accomunati dal fatto di aver avuto le loro esperienze in contesti privati, per il fatto di non considerare l’omosessualità sbagliata e per il fatto che non sono particolarmente religiosi. Il ricercatore evidenzia come i soggetti di questi primi tre gruppi, date le loro risposte, possono essere considerati “sperimentatori” della loro sessualità, o meglio, soggetti al primo stadio del modello dello sviluppo dell’identità sessuale prima descritto. Si può pensare infatti che la loro sperimentazione in privato possa contribuire a cambiare nel tempo la loro definizione di sé come soggetti eterosessuali o, al contrario, com’è più probabile per i soggetti del terzo gruppo, contribuire a rinforzare la propria identità eterosessuale.

Il quarto gruppo è stato nominato “maybe for show”: la totalità del gruppo è composto da sole ragazze e rappresenta il gruppo meno religioso. Sono state definite in questo modo perché i loro comportamenti erano dettati dall’intenzione di attrarre i ragazzi. Queste ragazze dichiaravano infatti di aver manifestato i loro comportamenti sessuali con persone dello stesso sesso pubblicamente, di fronte ad altri ragazzi. Tale atteggiamento sembra seguire il senso comune, in cui si considera la bisessualità della donna nei suoi comportamenti espliciti piacevole ed eccitante agli occhi degli uomini. Tuttavia, un terzo di queste donne hanno dichiarato di essersi “divertite molto” e circa una su 10 ha ammesso di voler una futura relazione con lo stesso partner sessuale. In accordo con Ward (2015), quindi, alcune ragazze possono usare questi comportamenti provocatori come opportunità per sperimentare sentimenti di attrazione verso persone dello stesso sesso.

Gli ultimi due gruppi si differenziano dal resto del campione di riferimento per i loro maggiori legami con la religione e per il fatto di aver dichiarato che questa gioca un ruolo importante nell’orientare i loro comportamenti e la loro identità. Tanto nel gruppo “love it, but religion”, quanto nel “just not who I can be”, l’identità sessuale si scontra con l’identità religiosa.

Nel quinto gruppo, composto per il 92% da donne, è stata riscontrata la più alta percentuale di soggetti interessati ad una relazione con il partner sessuale, la più alta percentuale di persone che hanno dichiarato di essersi “divertite molto”, e la più alta percentuale di persone che hanno avuto il rapporto da sobrie. Queste infatti differiscono dal primo gruppo “wanting more” solo per l’impegno religioso e per essere più giovani.

L’ultimo gruppo, che rappresenta anche il gruppo meno numeroso, è quello denominato “just not who I can be”. Questo è composto per il 98% da uomini, con un alto grado di religiosità anche se il loro impegno religioso è meno frequente di quello dichiarato dal quinto gruppo. Per questi l’omosessualità è sempre condannabile perché considerata sbagliata. Inoltre, al contrario del quinto gruppo, questi non descrivono la loro esperienza omosessuale con la stessa intensità positiva, dichiarando di aver avuto “poco piacere” o di aver considerato l’esperienza piacevole solo “qualche volta”. Questi due gruppi, meglio degli altri, ci mostrano come la costruzione dell’identità implichi anche aspetti legati alla sfera sociale e, nel sesto gruppo, come l’interiorizzazione dei giudizi omofobici possa influenzare direttamente anche la definizione che un soggetto dà di sé.

L’identità sessuale, oltre ad essere perciò un percorso che fa il singolo, è anche una strada che si fa insieme alla comunità, in un determinato tempo ed in un determinato spazio. Ciò che è considerato giusto o che è stato ormai nel tempo interiorizzato nella società in cui si vive influenza fortemente la propria identità. A riprova di questo possiamo vedere come in nazioni dove l’omosessualità è divenuta socialmente più accettabile anche l’identità sessuale delle persone ha avuto un importante mutamento. Una ricerca compiuta dopo la legalizzazione dei matrimoni gay in diverse nazioni americane come in Vermont nel 2000 ed in Massachusetts nel 2004, mostrò come tra un campione di ragazzi tra i 13 ed i 20  anni scelti in maniera casuale, solo il 48% di loro si definiva come “completamente eterosessuale”, mentre la percentuale saliva al 65% tra i ragazzi più grandi, compresi tra i 21 ed i 34 anni (Laughlin, 2016).

Il fatto che i valori dominanti in una determinata società influenzino l’educazione, il modo in cui ci comportiamo e il modo in cui consideriamo i nostri o altrui comportamenti non ci stupisce. Perciò non dovremmo stupirci neanche quando in base alla società in cui viviamo definiamo noi stessi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Boykin, K. (2005). Beyond the down low: Sex, lies, and denial in Black America. New York: Avalon. ISBN-10: 0786714344
  • Cass, V. C. (1996). Sexual orientation identity formation: A western phenomenon. In R. P. Cabaj & T. S. Stein (Eds.), Textbook of homosexuality and mental health (pp. 239–266). Washington, DC: American Psychiatric Press.
  • Diamond, L. M. (2003). Was it a phase? Young women’s relinquishment of lesbian/bisexual identities over a 5-year period. Journal of Personality and Social Psychology, 84, 352–364.
  • Ford, C. L., Whetten, K., Hall, S., Kaufman, J., & Thrasher, A. (2007). Black sexuality, social construction, and research targeting “The down low” (“The DL”). Annals of Epidemiology, 17, 209–216.- Savin-Williams & Ream, 2007).
  • Hamilton, L. (2007). Trading on heterosexuality: College women’s gender strategies and homophobia. Gender & Society, 21, 145–172.
  • Hoburg, R., Konik, J., Williams, M., & Crawford, M. (2004). Bisexuality among self-identified heterosexual college students. Journal of Bisexuality, 4(1–2), 25–36.
  • Horowitz, J. L., & Newcomb, M. D. (2002). A multidimensional approach to homosexual identity. Journal of Homosexuality, 42, 1–19.
  • Kaufman, J. M., & Johnson, C. (2004). Stigmatized individuals and the process of identity. Sociological Quarterly, 45, 807–833.
  • Kuperberg, A., & Walker, A. M. (2018). Heterosexual college students who hookup with same-sex partners. Archives of sexual behavior, 47(5), 1387-1403.
  • Laughlin, S. (2016). Gen Z goes beyond gender binaries in new innovation group data. J. Walter Thompson Intelligence.
  • Rupp, L. J., Taylor, V., Regev-Messalem, S., Fogarty, A. C. K., & England,P. (2013). Queer women in the hookup scene: Beyond the closet? Gender & Society, 28, 212–235.
  • Seidman, S., Meeks, C., & Traschen, F. (1999). Beyond the closet? The changing social meaning of homosexuality in the United States. Sexualities, 2, 9–34.
  • Taylor, B. (1999). “Coming out” as a life transition: Homosexual identity formation and its implications for health care practice. Journal of Advanced Nursing, 30, 520–525.
  • Walker, A. (2014). “Our little secret”: How publicly heterosexual women make meaning from their “undercover” same-sex sexual experiences. Journal of Bisexuality, 14, 194–208.
  • Ward, J. (2015). Not gay: Sex between straight white men. New York: New York University Press. ISBN-10: 9781479825172
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