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Disturbo dell’Identità di Genere – Disforia di Genere

La disforia di genere, prima nota come disturbo dell'identità di genere, porta a un disagio profondo verso le caratteristiche sessuate del proprio corpo

Il concetto di disforia di genere è stato introdotto nel DSM 5 per indicare una nuova classe diagnostica e riflette un cambiamento nella concettualizzazione della definizione del disturbo: esso evidenzia il fenomeno dell ‘”incongruenza di genere” piuttosto che l’identificazione tra i sessi di per sé, così come accadeva nel caso disturbo dell’identità di genere nel DSM-IV.

La disforia di genere è una condizione che si presenta con malessere e disagio profondo nei confronti delle caratteristiche sessuate del proprio corpo, sentito come estraneo; lo stesso senso di estraneità viene provato per i comportamenti e gli atteggiamenti che sono tipici del proprio sesso, all’interno del quale il soggetto non si riconosce.

Disturbo dell’Identità di Genere (DIG) e Transessualismo erano i termini usati per descrivere la condizione di un soggetto (senza alcuna anomalia fisica) che desidera vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto e che mostra un’intensa e persistente identificazione con l’altro sesso.

Il Disturbo dell’Identità di Genere è apparso fra i disturbi mentali nel DSM-IV, che indicava come criteri diagnostici per identificare il disturbo i seguenti:

  • Deve essere evidente una intensa e persistente identificazione col sesso opposto, che è il desiderio di essere, o l’insistenza sul fatto di essere, del sesso opposto.
  • L’identificazione con l’altro sesso non deve essere solo un desiderio per qualche presunto vantaggio culturale derivante dall’appartenenza al sesso opposto. Inoltre deve esserci prova di un persistente malessere riguardo alla propria assegnazione sessuale, oppure un senso di estraneità riguardo al ruolo di genere del proprio sesso.
  • La diagnosi non va fatta se il soggetto ha una concomitante condizione fisica intersessuale (per es., sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia surrenale congenita).
  • Per fare diagnosi deve esservi prova di un disagio significativo sul piano clinico, oppure di compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree importanti del funzionamento.

Nel DSM-IV, il capitolo Disturbi sessuali e Disturbi dell’Identità di Genere comprendeva tre categorie diagnostiche relativamente disparate: Disturbi dell’Identità di Genere, Disfunzioni sessuali e Parafilie. Si è successivamente giunti alla riflessione che, tuttavia, il Disturbo dell’Identità di Genere non è né una disfunzione sessuale, né una parafilia, motivo per cui, nel DSM 5, si è riservata una categoria a sé stante alla Disforia di Genere.

Riferendosi alla Disforia di genere, anziché al Disturbo dell’Identità di Genere, si punta finalmente l’attenzione più al disagio affettivo e cognitivo provato in relazione al genere assegnato e inoltre ci si concentra sulla disforia come problema clinico e non sull’identità in sé. Esattamente come per i disturbi d’ansia (solo per citare un esempio) l’entità del disagio avvertito e le sue ripercussioni sono ciò che determinano la presenza di un quadro clinicamente significativo. Questo è un grande cambiamento, se consideriamo che nella precedente versione del DSM il Disturbo dell’Identità di Genere si focalizzava sulla percezione di una identità diversa dal sesso biologico, senza considerare il disagio del soggetto.

Nel DSM 5 i criteri diagnostici si distinguono in criteri riferiti a bambini e criteri riferiti ad adolescenti e adulti. In linea di massima, i criteri per individuare la disforia di genere sono i seguenti:

  • Marcata incongruenza tra genere esperito e caratteristiche sessuali primarie/secondarie.
  • Forte desiderio di liberarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie a causa della marcata incongruenza col genere esperito.
  • Forte desiderio per le caratteristiche sessuali del genere opposto.
  • Forte desiderio di appartenere al genere opposto.
  • Forte desiderio di essere trattato come un membro del genere opposto.
  • Forte convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici del genere opposto.
  • La condizione dev’essere associata inoltre a sofferenza clinicamente significativa o a compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

Le psicopatologie associate alla Disforia di Genere

Per quanto riguarda il legame tra disforia di genere e la psicopatologia associata, tendenzialmente si riteneva, soprattutto in passato, che la disforia di genere fosse associata molto spesso a gravi Disturbi di Personalità.

Dalla lettura delle varie ricerche svolte in tale ambito, soprattutto delle meno recenti, si intuisce che le problematiche psichiatriche o psicologiche erano considerate più un fattore eziologico che una conseguenza del disturbo.

Gli psicoanalisti hanno postulato che le persone con disforia di genere fossero gravemente psicopatologiche; per esempio Sperber (1973) dichiarava che quanti mostravano una Disforia di Genere presentavano personalità di tipo Borderline; di recente Colette Chiland (2000) ha considerato il transessualismo come un Disturbo Narcisistico con un profondo disturbo della costituzione di sé. Hoening e coll. (1971) affermavano che il 70% dei transessuali mostrava una diagnosi psichiatrica, sebbene solo il 13% fosse francamente psicotico. Meyer (1974) e Steiner (1985) riscontrarono Personalità Narcisistica, Borderline e Antisociale, a cui il Meyer sommava tratti schizoidi, Depressione, Ansia, tendenze suicidiarie e omicide. Anche Gosselin e Wilson (1980) rilevarono prove di introversione ed elevato Nevroticismo rispetto ai maschi senza DIG.

Questa letteratura riguardava soprattutto transessuali e travestiti maschi, e ne evidenziava l’associazione con la patologia psichiatrica; nel contempo evidenziava come nei transessuali di sesso femminile la comorbilità psichiatrica fosse in genere minore (Dèttore, 2005).

Lothstein, invece, (1983,1984) rilevò pesanti associazioni psichiatriche anche nelle donne transessuali. Bockting e Coleman (1992), rilevarono la presenza di Ansia e Depressione e Disturbi dell’Asse II, nel DIG. Hartmannn e coll. (1997) rilevarono importanti aspetti psicopatologici e una notevole disregolazione in senso narcisistico.

Sulla base di queste ricerche e dati, è importante comprendere se la patologia mostrata dalle persone con un disforia di genere sia dovuta alla disforia stessa, oppure sia dovuta alla pesante esposizione a fattori stressanti e alle difficoltà derivanti dal trovarsi a vivere in una società omofobica e impreparata ad accogliere le diversità.

La Lev (2004) sostiene che considerando che le ricerche sulla varianza di genere e sui transessuali sono condotte su persone che si rivolgono ai centri clinici specializzati, si tratta di soggetti più sofferenti e più disperati e quindi con più probabili e rilevabili patologie, connesse o secondarie alla loro condizione.

Alla luce di queste considerazioni, è bene mettere in luce tutta un’altra letteratura che rileva, invece, come le persone con varianza di genere non debbano mostrare necessariamente gravi aspetti di comorbilità psicopatologica. 

Holtzman e coll. (1961) sostenevano che i soggetti con disforia di genere erano tendenzialmente ben organizzati e con processi di pensiero intellettivamente adeguati. Bentler e Prince (1970) non osservarono importanti diversità sulle scale nevrotiche o psicotiche fra transessuali e soggetti di controllo. Cole e coll. (1997) più recentemente, avevano evidenziato che meno del 10% di 435 transessuali primari mostrava precedenti disturbi mentali. Carroll (1999) affermò che le persone transgender non evidenziavano necessariamente livelli di disturbi mentali più elevati della popolazione non clinica. Analoghi dati furono riportati da Brown e coll.(1995) rispetto alle caratteristiche di personalità di un gruppo non clinico di persone con varianza di genere confrontato con un gruppo altrettanto non clinico di controllo.

Anche Schaefer e coll. (1995) dichiararono che nei transessuali non vi è prova di frequente comorbilità; risultati simili sono stati ottenuti da uno studio italiano (Menichini e coll. 1998) condotto su 8 MtF e 5 FtM. Haraldsen e Dahl (2000), dopo aver condotto un confronto fra pazienti transessuali con soggetti con Disturbi di Personalità e con adulti non clinici, conclusero che i primi mostravano bassi livelli di psicopatologia. Miach e coll. (2000) rilevarono in soggetti definiti come transessuali bassi livelli di psicopatologia; mentre riscontrarono disturbi mentali da moderati a gravi in quei soggetti che erano stati diagnosticati come ‘Disturbo dell’Identità di Genere dell’adolescenza e dell’età adulta, tipo non transessuale’. Non trovarono comunque Disturbi di Personalità. Cohen-Kettins e van Goozen (1997,2002) non evidenziarono particolari problemi mentali in adolescenti che chiedevano la RCS (riattribuzione chirurgica di sesso).

Altra area di interesse è quella dell’uso e abuso di sostanze e alcol. Anche in questo settore vi sono state interessanti ricerche. Xavier (2000) riferisce casi frequenti di Abuso da sostanze. Valentine (1998) sostiene che il 27% degli utenti delle cliniche per la rimozione chirurgica del sesso manifesta abuso di alcolici e il 23% consumo di droghe.

Si osserva una ulteriore comorbilità tra disforia di genere e i Disturbi Alimentari, i quali richiedono un attento inquadramento, in quanto talora l’ossessione di modificare il proprio corpo può essere legata a temi dismorfofobici tipici di tali disturbi (Dèttore, 2005).

In letteratura recente sono stati riportati alcuni casi interessanti di comorbilità fra disforia di genere, quasi esclusivamente in soggetti maschi, e Disturbi Alimentari (soprattutto Anoressia Nervosa), che suggeriscono l’ipotesi che la disforia di genere possa essere un fattore di rischio per l’Anoressia Nervosa e che comunque, nel caso di pazienti maschi che si presentano con tale Disturbo Alimentare, si dovrebbero tenere presenti nell’assessment anche aspetti legati all’identità di genere (Hepp e Milos, 2002; Hepp e coll., 2004; Wintson e coll., 2004).

Importante inoltre, è sottolineare il rischio elevato di suicidio nei transessuali. Mathy (2002) confrontò a questo proposito 73 transgender con donne (1083) e maschi (1077) eterosessuali, donne (73) e uomini (73) appaiati sotto l’aspetto psicosociale, e donne (256) e uomini (356) omosessuali. I transgender riferirono significativamente maggiori ideazioni e comportamenti suicidiari rispetto a tutti gli altri gruppi, con l’eccezione delle donne omosessuali. Quanti avevano presentato tali aspetti evidenziavano con maggiore probabilità problemi psichiatrici pregressi e attuali, uso di farmaci e difficoltà con alcol e droghe.

L’intervento psicologico nella Disforia di genere

La pianificazione del trattamento di problemi legati al genere dipende da numerosi fattori tra cui la fase di sviluppo dell’identità transessuale, la conoscenza che il paziente ha delle diverse opzioni di gestione del problema e la presenza di eventuale comorbilità o problemi psicosociali. E’ importante infatti che, prima di trattare le questioni relative all’identità transessuale, si affrontino eventuali condizioni più urgenti che possono in qualche modo ostacolare il corretto svolgimento del trattamento della Disforia di genere (Bockting, Knudson e Goldberg, 2006).

Secondo Bocking e Coleman (1993) il miglior modello di trattamento dei pazienti con Disforia di genere dovrebbe comprendere cinque compiti fondamentali: assessment; management della comorbilità; facilitazione della formazione dell’identità; management dell’identità sessuale; valutazione dopo la cura.

La letteratura disponibile (Green e Fleming, 1990; Michel et al., 2002; Pfafflin e Junge, 1998) indica che un’adeguata psicoterapia a pazienti con Disforia di genere prima dell’intervento della chirurgia è predittiva di un positivo esito post-chirurgico.

Alcuni transessuali richiedono assistenza psicoterapeutica volontariamente, ad altri può essere raccomandata in previsione di una terapia ormonale o della chirurgia, anche se bisogna ricordare che negli Standards of Care della World Professional Association for Transgender Health (WPATH) la psicoterapia non è considerata un requisito necessario per ottenere l’intervento chirurgico (Meyer e coll., 2011).

Bockting et al. (2007) offrono degli spunti per la valutazione e il trattamento dei problemi di genere e delle difficoltà psicologiche associate. Le loro osservazioni si basano su un modello di “approccio transgender-affermativo, cura centrata sul cliente e riduzione del danno”.

Secondo la letteratura disponibile, non vi sarebbe un modello psicoterapeutico migliore rispetto ad un altro per il lavoro con pazienti transessuali; comunque è possibile identificare le questioni verso cui si deve indirizzare la terapia.

I professionisti della salute mentale, in base al loro orientamento teorico, possono usare diversi approcci terapeutici (Fraser, 2005) con lo scopo non di curare la Disforia di genere, ma di accompagnare il paziente nell’esplorazione della propria identità (Fenelli e Volpi, 1997), per garantirgli uno stile di vita stabile a lungo termine con probabilità realistiche di successo nelle relazioni interpersonali, nel lavoro e nell’espressione dell’identità di genere (Dèttore, 2005). Fondamentale è che il terapeuta sappia stabilire una relazione autentica in cui la persona possa sentirsi compresa e non giudicata (Bockting, Knudson e Goldberg, 2006).

All’interno del percorso terapeutico con i pazienti con Disforia di genere viene data particolare rilevanza all’esplorazione della storia di genere e dello sviluppo dell’identità transessuale per dare l’opportunità al soggetto di ristrutturare cognitivamente eventi significativi, validare le sue emozioni e rafforzare il senso di Sé. In alcuni casi il transessuale può chiedere di coinvolgere la famiglia nella terapia per esplorare e risolvere conflitti sorti in infanzia (Bockting, Coleman, Huang et al., 2006).

Un’altra area su cui è bene focalizzarsi in terapia è la transfobia interiorizzata, cioè quell’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi che una persona può provare nei confronti della propria transessualità. Le caratteristiche associate alla transfobia interiorizzata sono scarsa accettazione e stima di sé, sentimenti di inferiorità, vergogna, senso di colpa e l’identificazione con gli stereotipi denigratori. In questi casi l’obiettivo del terapeuta è rendere il paziente consapevole e promuovere l’accettazione di sé (Lingiardi e Nardelli, 2013).

Una volta che sono stati trattati questi aspetti e che il cliente ha deciso come gestire la sua disforia e la sua espressione di genere, la terapia si focalizza sul supporto dell’individuo nell’attuazione del suo progetto.

I risultati riportati da uno studio di Rachlin (2002) presentano cambiamenti positivi in seguito alla psicoterapia nell’87% dei soggetti intervistati; inoltre il livello di soddisfazione dopo il processo di transizione è migliore nel caso in cui la persona presenti una buona vita professionale, buone relazioni familiari, supporti sociali e stabilità emotiva.

Sebbene l’attuale normativa italiana non preveda la consulenza psicologica quale passaggio obbligato nell’iter per l’ottenimento della rettificazione anagrafica del sesso, è ormai prassi consolidata, nella maggior parte dei casi, il ricorso a essa. Bisogna infatti considerare la sofferenza di chi si trova a vivere il proprio corpo come un estraneo, i vissuti di incertezza e le sensazioni di confusione che possono accompagnare tale condizione; a tutto ciò si aggiunge la presenza di vicende dolorose e traumatiche che spesso costellano la vita delle persone transessuali.

Non sempre però il lavoro psicologico nel campo del transessualismo si rivela praticabile. Le difficoltà sembrano potersi ascrivere al fatto che, raramente, il paziente transessuale porta allo psicologo spontaneamente una domanda di esplorazione di sé, ma si rivolge ad esso su richiesta di un terzo, ossia dell’istituzione incarnata nel giudice. In questa situazione si crea, tra soggetto e operatore, una difficoltà relazionale di fondo in cui il lavoro psicologico viene inteso solo come una sorta di test. L’obiettivo è quindi superare la costante impasse iniziale, spostando l’asse del dialogo da quello “corpo sociale/giudice-psicologo” a quello “utente-psicologo”. Da una parte la persona transessuale dovrebbe essere aiutata a percepire l’operatore come qualcuno con cui, stabilendo un dialogo, prendere contatto con parti di sé confuse e sofferenti, dall’altra lo psicologo dovrebbe andare al di là della logica del sospetto (Alzati, 2004) che rischia di inficiare il suo lavoro (Vitelli et al., 2006).

Modelli di intervento con i familiari

Gli studi che si propongono di analizzare i vari aspetti del transessualismo dalla prospettiva dei cosiddetti SOFFAs (Significant Others, Family, Friends or allies of transgender persons) sono ancora molto limitati e di conseguenza più che dei trattamenti, esistono delle linee guida a cui fare riferimento per aiutare la famiglia del paziente transessuale ad affrontare le varie fasi del percorso.

Raj (2008) ha proposto un modello di trattamento, il Trans-formative Therapeutic Model (TfTM), specifico per questa popolazione che comprende diverse strategie educative e terapeutiche. La parola “trans-formative” vuole dare maggiore enfasi al concetto di cambiamento inteso come modificazione della struttura interna ma anche della forma esteriore e in questo caso si riferisce alla trasformazione della coppia e della famiglia.

Il modello si focalizza sul trattamento e sull’aspetto supportivo più che sul processo vissuto da coppie e famiglie in trasformazione, nonostante questi siano legati insieme inestricabilmente.

Raj (2008) per sviluppare la sua ipotesi di trattamento ha utilizzato altri due modelli di riferimento, il Family Emergent Stages Model (Lev, 2004) e il modello di Tuckman (1965), che invece si concentravano maggiormente sulle fasi affrontate dalle famiglie dei pazienti con Disforia di genere durante tutto il periodo della transizione.

Un ulteriore approccio è quello proposto da Zamboni (2006), psicologo clinico del Minnesota, che ha ideato un seminario per aiutare chi sta accanto al paziente transessuale.

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