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Le possibili difficoltà nella coppia quando uno dei partner ha un disturbo dello spettro autistico

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni.

 

Le relazioni di coppia

Trovare un partner e avere una relazione romantica è considerato da molti uno dei principali obiettivi della vita. Le relazioni romaniche sono infatti esperienze importanti e possono fornire sicurezza, senso di appartenenza e influiscono positivamente sulla salute e sul benessere mentale e fisico, riducendo la mortalità, il rischio di depressione, e di sviluppare malattie croniche e malattie mentali (Karney 2014). Inoltre le relazioni forniscono sostegno sociale, intimità fisica, compagnia e hanno un impatto positivo sull’autostima e sulla fiducia in se stessi (Rhoades et al. 2011). Sostenere una relazione solida a lungo termine, può però essere impegnativo; alcuni degli indicatori che rendono una relazione di qualità sono la soddisfazione e la stabilità. Quest’ultima si riferisce alla sicurezza che ciascun individuo percepisce nella relazione, mentre la soddisfazione fa riferimento a quanto un partner è soddisfatto (Shafer et al. 2014). La comunicazione e la capacità di risolvere i conflitti sono quindi fondamentali per avviare e mantenere le relazioni così come la capacità di dimostrare empatia: entrambi i partner devono essere solidali e comprensivi delle mutevoli esigenze dell’altro.

Disturbo dello spettro autistico e relazioni di coppia

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni che cominciano durante l’infanzia e persistono durante l’adolescenza e l’età adulta, momenti cruciali per la formazione di relazioni a lungo termine (APA, 2013). La maggior parte delle persone con autismo riferisce infatti di avere difficoltà a iniziare e sviluppare relazioni intime, tanto che per alcuni di loro le difficoltà nella comunicazione e nell’interpretazione dei segnali sociali possono tradursi in interazioni sociali limitate e minori opportunità di sviluppare relazioni sentimentali (Cunningham et al. 2016). Soltanto il 14% di loro, infatti, è sposato o ha una relazione a lungo termine, sebbene numerose ricerche abbiano dimostrato che desiderano impegnarsi sentimentalmente (Strunz et al. 2017). Talvolta accade che persone con diagnosi dello spettro autistico abbiano relazioni con partner che invece non presentano nessuna diagnosi; tali relazioni presentano diverse sfide a cui entrambi i membri della coppia devono adattarsi (Strunz et al. 2017). Le principali sono le difficoltà di comunicazione, evidenziate come una tensione centrale: i soggetti con autismo adottano uno stile di comunicazione più diretto, letterale e logico, che talvolta è mal interpretato. Alcuni studi hanno riportato che molte persone si aspettano che il partner con un disturbo dello spettro autistico cambi il modo di comunicare con il progredire della relazione, cosa che quest’ultimo spesso ritiene di non essere in grado di fare (Hode 2014). Una ricerca che ha esplorato la soddisfazione delle donne in una relazione con un partner con sindrome di Asperger, ad esempio, ha mostrato che le donne hanno sperimentato un declino nella loro salute e nel loro benessere generale, principalmente a causa dell’incapacità del compagno di comunicare in modo efficace, di fornire supporto emotivo e di impegnarsi in attività condivise (Bostock-Ling et al. 2012). Un ulteriore studio ha sottolineato l’importanza che entrambi i partner imparino ad adattarsi alle differenze dell’altro ma questo richiede delle competenze e delle conoscenze che non tutti hanno; molti infatti hanno bisogno di aiuto per affrontare queste sfide nella loro relazione (Lewis 2017).

Poiché non esistono ricerche che abbiano esplorato le relazioni sentimentali dal punto di vista del partner con diagnosi dello spettro autistico e i bisogni di ciascun membro della coppia, uno studio di Smith e colleghi del 2021 ha tentato di esplorare le sfide e i facilitatori sperimentati sia dai partner neurotipici (NT), sia da quelli autistici (neurodiversità; ND) in una relazione intima (relazione ND). Un ulteriore obiettivo era quello di esplorare le esperienze delle coppie ND in merito ai servizi di supporto alla relazione a cui hanno avuto accesso durante quest’ultima. Gli autori hanno quindi utilizzato un approccio fenomenologico per intervistare tredici persone che avevano una relazione di questo tipo. I risultati suggeriscono che queste relazioni iniziano e si sviluppano in tre fasi: luna di miele, inizio e fine, come proposto da Reese-Weber nel modello teorico di sviluppo delle relazioni (2015).

Le difficoltà nelle relazioni di coppia quando è presente un disturbo dello spettro autistico

Le principali sfide all’interno delle coppie sono risultate le difficoltà soprattutto iniziali di comunicazione tra i partner, sebbene con il progredire della relazione le coppie abbiano trovato modi più efficaci per comunicare. Inoltre sono emerse alcune caratteristiche idiosincratiche come la sensibilità alla luce ai suoni o al tatto che creavano problemi nella relazione. Un’ulteriore sfida è stata la grande differenza nell’interpretazione e nell’espressione delle emozioni. I facilitatori sono risultati invece il concentrarsi su aspetti positivi della relazione acquisendo comprensione reciproca e supportando l’altro nei contesti sociali e il ricevere una diagnosi, sebbene per i partecipanti dello studio sia avvenuto tardivamente: questa ha fornito a entrambi i partner una spiegazione per le caratteristiche idiosincratiche che erano sempre presenti nella relazione e nelle situazioni sociali. Infine è stato chiesto ai soggetti di raccontare le loro esperienze con i professionisti della salute e con i servizi di supporto alle relazioni a cui hanno avuto accesso in merito alle sfide affrontate nelle loro relazioni; tutte le coppie hanno riferito di aver cercato un supporto relazionale o gruppi di sostegno sia a livello locale che online, con scarso successo. In conclusione sembra che le relazioni ND si sviluppino nelle medesime fasi delle altre relazioni, ma includono una serie di sfide comunicative e sociali uniche in tutte queste fasi. Sono importanti quindi la comprensione e l’adattamento alle differenze di comunicazione e l’utilizzo dei punti di forza dell’altro. Infine i risultati mostrano una mancanza di supporto per le coppie ND e la necessità che gli operatori sanitari siano istruiti sulle difficoltà che possono emergere in queste relazioni, al fine di comprendere come sostenere al meglio entrambi i partner.

 

Disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel sesto episodio si parla di disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte con il Dott. Sarracino.

 

 

Dove ascoltare il sesto episodio:

Mindfulness per i disturbi del comportamento (2022) – Recensione

“Mindfulness per i disturbi del comportamento” è un manuale che guida il clinico nella conduzione di un percorso terapeutico di gruppo basato sulla mindfulness, per i genitori e i loro figli in età evolutiva con difficoltà comportamentali.

 

 Il libro “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori”, pubblicato nel 2022 ed edito da Erickson, è stato scritto da P. Muratori, didatta presso la Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale e la Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, R. Ciacchini, psicologa e ricercatrice che si occupa di applicazione e verifica dell’efficacia degli interventi mindfulness-based in ambito clinico, C. Convesano e S. Villani, psicologi, psicoterapeuti e insegnanti di Mindfulness.

Qual è l’obiettivo del libro e a chi è rivolto

Il manuale illustra un percorso terapeutico basato sulla mindfulness in un setting gruppale per bambini con difficoltà di comportamento e per i loro genitori. Le problematiche comportamentali contemplate dagli autori riguardano la sintomatologia da deficit di attenzione e iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]), da disturbo oppositivo-provocatorio (DOP), da disturbo della condotta, oppure un’associazione tra i disturbi del controllo degli impulsi (DCI).

Il libro è stato pensato per essere usato da professionisti operanti nell’area della salute mentale, nello specifico per coloro che si occupano dei disturbi del comportamento. L’intento è quello di indicare al clinico un modo per supportare i bambini e i loro genitori, che possono trovarsi in difficoltà nella quotidianità a causa della disregolazione emotiva e comportamentale, e delle interazioni sociali dei propri figli. Secondo gli autori, un approccio basato sulla mindfulness per i genitori può essere utile non per ottenere un cambiamento del comportamento, bensì per fornire uno stimolo per osservare in modo nuovo e creativo le caratteristiche del proprio bambino, fronteggiare gli errori che inevitabilmente si compiono essendo genitori, e imparare a essere compassionevoli verso se stessi. Per i bambini, invece, può essere utile per conoscere un modo nuovo di approcciarsi alle proprie irrequietezze, alle emozioni intense, alle distrazioni e all’impulso incontenibile di reagire immediatamente a queste spinte.

Gli autori consigliano di utilizzare il manuale come spunto sulla base del quale creare un intervento mindfulness-based ad hoc in base alle esigenze del gruppo e del contesto clinico in cui opera il professionista che vuole applicare il programma. Tuttavia, la durata ideale di questi percorsi non dovrebbe essere inferiore ai due mesi. Inoltre, alcune attività descritte nel libro possono essere integrate in percorsi di terapia cognitivo comportamentale standard, sia di gruppo che individuale, oppure in percorsi di parent training standard.

Rispetto ai requisiti dell’insegnante, gli autori sottolineano l’importanza di una formazione specifica e pratica quotidiana della mindfulness come parte integrante della propria vita, per una maggiore efficacia del percorso.

Perché la Mindfulness?

È stato osservato che l’esercizio della mindfulness e delle pratiche meditative danno esito a cambiamenti significativi e positivi a carico del Sistema Nervoso Centrale e del Sistema Nervoso Autonomo in termini strutturali e funzionali, sia a breve sia a lungo termine. Tali modificazioni cerebrali sostengono il potenziamento di uno specifico set di funzioni, come il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza del presente. Infatti, i programmi d’intervento basati sulla mindfulness contribuiscono allo sviluppo individuale della consapevolezza del momento presente e forniscono le fondamenta per lo sviluppo di un’osservazione non giudicante, diminuendo così i comportamenti attuati in modo automatico.

 Perciò, l’obiettivo del percorso proposto dagli autori è quello di favorire una nuova modalità attraverso la quale poter osservare e vivere nel presente le proprie difficoltà, senza sovraccaricarle di previsioni negative o di senso di inefficacia che proviene dal passato. Inoltre, incrementando l’accettazione delle proprie difficoltà e acquisendo nuove strategie di regolazione emotiva e comportamentale, il bambino potrà allenare la capacità di fermarsi prima di agire, per riflettere ed esplorare i propri pensieri, emozioni e sensazioni e scegliere con consapevolezza ed empatia l’azione migliore da mettere in atto. In generale, gli effetti principali che la mindfulness produce in chi la pratica, siano essi bambini o adulti, si concretizzano in una migliore qualità di vita, un incremento della capacità attentiva e una riduzione dello stress.

Com’è organizzato il libro

Il manuale consta di due capitoli teorici introduttivi, cui segue la descrizione dettagliata dei due percorsi d’intervento proposti (per i genitori e il loro bambino). Infine, viene inserita una sezione di appendice in cui sono contenute schede di approfondimento sulle tecniche yoga e un prontuario sulla meditazione.

Nel primo capitolo vengono descritti i profili e il funzionamento dei bambini con fragilità comportamentali, unitamente alle cause e alle sfide evolutive che queste comportano, oltre a cercare di delineare come i deficit prodotti dalle caratteristiche di tali disturbi del comportamento possono essere compensati attraverso le attività proposte.

Il secondo capitolo introduce la pratica della mindfulness e stabilisce che i protocolli di mindfulness pensati per i bambini hanno il fine di incrementare in loro le capacità di controllo e regolazione delle emozioni, nonché le capacità attentive. Contemporaneamente, attraverso protocolli ad hoc per i genitori, la pratica della mindfulness esercita un’influenza indiretta, poiché li aiuta a ridurre lo stress generato dalle difficoltà dei loro figli e insegna delle tecniche definite come mindful parenting.

Nella sezione dei due percorsi d’intervento gruppale, vengono illustrate tutte le attività da proporre durante i dodici incontri, chiamati “classi”, del percorso per i bambini e gli otto incontri del percorso per i genitori. Gli autori spiegano che, sebbene per tradizione sia stato usato il termine “classe”, che riflette l’intenzione di apprendere nuove modalità di percezione di se stessi ogni volta, con i bambini è consigliato utilizzare il termine “incontri”, per evitare di richiamare il concetto di scuola fatto di obblighi e giudizi. Il motivo per il quale il percorso per i bambini presenta più incontri rispetto a quello per i genitori consiste nel proporre un maggior numero di esempi di attività da fare insieme ai bambini, in quanto gli autori ritengono che la varietà sia un elemento importante da considerare quando si vuole avvicinare il bambino alla pratica della consapevolezza.

Tutti gli incontri sono dettagliatamente descritti e corredati da consigli e linee guida per il clinico, oltre alle schede che guidano alla pratica meditativa presentata nello specifico incontro e letture per bambini e genitori. Ad ogni classe vengono associate anche “assegnazioni pratiche a casa”, ovvero attività da svolgere in una dimensione quotidiana, per rinforzare le nuove consapevolezze e il nuovo atteggiamento che sta maturando.

Nello specifico, il percorso per i bambini comprende pratiche di meditazione e yoga, i cui obiettivi sono favorire uno stato di calma della mente e del corpo, l’acquisizione di un atteggiamento più consapevole del proprio mondo emotivo, dei meccanismi di autoregolazione emotiva, e degli effetti dello stress sulla qualità del sonno e della vita.

Invece, il percorso per i genitori si configura come tempo per il genitore da dedicare alla cura di sé e alla conoscenza del proprio funzionamento. Attraverso la proposta di pratiche di mindfulness e semplici esercizi yoga, l’obiettivo è quello di aiutare il genitore ad acquisire un atteggiamento più consapevole dei propri stati emotivi, dei meccanismi di autoregolazione emotiva e del funzionamento del sistema di attivazione dello stress. Si genera così una consapevolezza in grado di rompere schemi abituali e ormai automatici di risposta che permettono di vivere in modo nuovo ogni relazione, inclusa quella con il figlio. Coltivando la sensazione di essere connessi con il proprio bambino con uno sguardo presente e non giudicante, ci si apre a cambiamenti sostanziali che nutrono il processo di “genitorialità consapevole”, caratterizzato da consapevolezza, accettazione e compassione verso sé stessi.

A completare il volume vi è l’Appendice, in cui sono allegate schede sulle tecniche yoga e su come questa disciplina, attraverso esercizi e sequenze volti alla centratura mente-corpo, possa essere d’aiuto nel tentativo di ridurre lo stress e l’affaticamento cognitivo. Viene inoltre proposto un Prontuario per la meditazione, indirizzato all’operatore, con la spiegazione e le indicazioni delle tecniche meditative da presentare nel percorso per i genitori.

In conclusione, “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori” si rivela essere uno strumento utile e versatile per il clinico che si occupa della gestione di bambini con disturbi comportamentali e i suoi genitori. Un approccio di tipo mindful può mostrare nuovi aspetti di sè stessi e delle problematiche stesse. Gli autori citano Emmanuel Carrère che a proposito del progetto basato sulla meditazione afferma che «[…] somiglia a un trekking, che a sua volta assomiglia alla vita, ci sono tappe, paesaggi che cambiano a mano a mano che si sale, c’è il sole, c’è la pioggia, ci sono giorni sì e giorni no… siamo tutti mutevoli, il mondo è mutevole, l’unica cosa che non muterà mai è il fatto che tutto muta in continuazione».

 

Sigarette e disturbi mentali: un legame pericoloso

Secondo i dati epidemiologici, alcune patologie si associano frequentemente ai disturbi mentali, tra queste l’obesità, l’osteoporosi e il tabagismo.

 

 Sono stati condotti diversi studi epidemiologici riguardo all’abitudine del fumo tra i pazienti psichiatrici (Emerson e Turnbull, 2005). Per quel che concerne l’abitudine al fumo e il tabagismo le ricerche rivelano che la percentuale di fumatori nelle patologie psichiatriche è alta, in particolare per gli individui psicotici e quelli depressi (Cooper et al., 2007), ma esiste anche una correlazione con i disturbi d’ansia (Galletti, 2021).

L’osservazione clinica porta a ritenere che esista un legame forte tra disturbi mentali e tabagismo.

Nei pazienti psichiatrici la dipendenza dal fumo rappresenta, oltre che un fattore di rischio per malattie polmonari, cardiovascolari e neoplastiche, con una riduzione dell’aspettativa di vita, anche un ostacolo all’effetto della terapia farmacologica (Prochaska, 2011)

Nel fumo di sigaretta sono contenute alcune sostanze che possono interferire con il metabolismo degli antipsicotici e degli antidepressivi, con conseguente diminuzione della loro concentrazione ematica. Il fumo determina l’induzione dell’isoenzima CYP1A2. L’aumento di  questo isoenzima determina un incremento del metabolismo di alcuni farmaci. Il farmaco che va incontro all’interazione più importante è l’antipsicotico clozapina, ma l’interazione esiste anche per alcuni antidepressivi e ansiolitici (Chiamulera e  Velo, 2013).

I dati disponibili in letteratura mostrano che gli schizofrenici tabagisti presentano un maggior tasso di ospedalizzazione e che le loro terapie richiedono alti dosaggi di farmaci antipsicotici, rispetto agli schizofrenici non fumatori. Inoltre il tabagismo, nei disturbi mentali, rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di condotte suicidarie (Emerson, 2011).

Grazie all’uso di tecniche neuroradiologiche è stato possibile evidenziare che l’abitudine al fumo determina una riduzione delle molecole trasportatrici della dopamina, e sono interessati da questa alterazione anche i circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione dell’umore (Leroy et al., 2011).

 La presenza di disturbi mentali rende maggiormente complicata la risoluzione della dipendenza da tabacco (Prochaska, 2011). Tale risoluzione è ostacolata anche da alcune convinzioni di tipo socioculturale. L’idea che porta a ritenere che il problema del fumo sia l’ultima cosa di cui ci si debba preoccupare, nel quadro della malattia mentale, è piuttosto diffusa. Così come la convinzione che la nicotina possa essere una sostanza che il paziente usa come automedicamento (Lugoboni et al., 2011). Infine, si ritiene che i pazienti che soffrono di disturbi mentali non siano in grado di smettere di fumare. In realtà, i dati disponibili in letteratura indicano che per questi pazienti risolvere la dipendenza da fumo non è impossibile, anche se più complicato rispetto ai soggetti non psichiatrici (Gilbody et al., 2019).

Simon Gildody, docente di psichiatria all’Università di New York, ha condotto con i suoi collaboratori un lavoro di ricerca che ha coinvolto 500 pazienti psichiatrici adulti fumatori. Sono stati formati due gruppi, a uno di questi è stato fornito un trattamento farmacologico e psicologico volto a risolvere la dipendenza dal tabacco. In questo gruppo è stata evidenziata una riduzione della dipendenza, una maggiore motivazione a smettere di fumare e una migliore condizione fisica generale. I risultati raggiunti non sono stati però mantenuti a distanza di un anno. Secondo l’autore della ricerca è quindi possibile che i pazienti psichiatrici possano smettere di fumare, ma lo sforzo per mantenere il risultato raggiunto deve essere costante nel tempo (Gilbody et al., 2019).

 

Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) il Disturbo Autistico e quello di Asperger vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 1) Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

 

I coniatori: Kanner e Asperger

 Dal punto di vista storico, l’utilizzo del termine Autismo nel suo senso clinico trae origine negli Anni ’40, quando Leo Kanner (1943) e Hans Asperger (1944), in maniera totalmente indipendente l’uno dall’altro, definiscono due quadri sintomatologici apparentemente molto simili, ma con alcune differenze sostanziali. Kanner (1943) descrive i bambini da lui osservati e definiti autistici come caratterizzati da ecolalia, paura ossessiva dei cambiamenti ambientali e solitudine autistica, definita come una sorta di chiusura e ritiro, come se stessero felicemente in un guscio, ignorando gli stimoli che giungono loro dall’esterno. Ciò che differenzia la Sindrome osservata da Asperger (1944; la quale prenderà successivamente il suo nome; Wing, 1981), sono i seguenti elementi: un eloquio più scorrevole, una difficoltà nell’eseguire movimenti grossolani, ma non quelli fini, e una diversa capacità di apprendere (Jeffrey e Baker, 2013).

Inquadramento nelle varie edizioni del DSM

L’Autismo è stato poi associato alla schizofrenia fino all’arrivo della terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III; American Psychiatric Association [APA], 1980/1983), che lo distingue chiaramente da essa e lo classifica per la prima volta come entità nosografica indipendente in qualità di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (Jeffrey e Baker, 2013). Con la pubblicazione del DSM-IV (APA, 1994/1995), sono stati poi aggiunti a questa categoria altri disturbi, tra cui quello di Asperger. Tale distinzione diagnostica tra Disturbo Autistico e Sindrome di Asperger è stata mantenuta nel DSM-IV-TR (APA, 2000/2001) e nella decima edizione dell’International statistical Classification of Diseases and related health problems (ICD-10; World Health Organization [WHO], 2016) e ha a che fare principalmente con il ritardo globale del linguaggio e dello sviluppo cognitivo, necessario per la diagnosi di Autismo ma assente in quella di disturbo/sindrome di Asperger (APA, 1994/1995; 2000/2001; WHO, 2016).

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) avviene un’altra importante rivoluzione per l’Autismo: la categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo viene scomposta e ricostituita diversamente, perdendo il suo nome. Il Disturbo Autistico e quello di Asperger (insieme al Disturbo disintegrativo dell’infanzia e al Disturbo pervasivo dell’infanzia non altrimenti specificato, precedentemente inclusi nei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo) vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014). Questa classificazione è stata poi mantenuta nella versione Text Revision del DSM-5 (DSM-5-TR, recentemente pubblicata; APA, 2022) e adottata anche dall’ultima edizione dell’ICD (WHO, 2022).

Il passaggio dal DSM-IV al DSM-5: da un disturbo a uno “spettro”

Durante l’evoluzione del DSM dalla sua quarta edizione (APA, 1994/1995) alla quinta (APA, 2013/2014), la diagnosi di Autismo ha subìto notevoli variazioni, a partire dall’etichetta diagnostica. L’espressione “Disturbi dello Spettro Autistico” non è in realtà così recente: già nel 1991, infatti, Happé e Frith avevano suggerito questa denominazione diagnostica per definire i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Questa terminologia, seppur inizialmente ignorata dall’APA, è stata rapidamente adottata dai professionisti e si è diffusa nel linguaggio comune (Ozonoff, 2012). Diversi autori si sono soffermati a studiare la relazione tra Autismo e Asperger e la maggior parte di questi (per esempio, Prior, 1998; Frith, 2004) non ha trovato differenze empiriche significative tra i due disturbi e, quando sono state trovate, si trattava di differenze di tipo quantitativo (es. intensità dei sintomi, grado di compromissione funzionale, cognitiva e linguistica), più che qualitativo (Ozonoff, 2012). Con il tempo, anche l’APA (come citato in Jeffrey e Baker, 2013) ha cominciato a sostenere che Autismo e Asperger rappresentassero due condizioni talmente simili, da costituire parti dello stesso continuum; il DSM-5 (APA, 2013/2014; 2022) recita pertanto: “le manifestazioni del Disturbo [dello Spettro Autistico] variano molto anche in base al livello di gravità della condizione autistica, al livello di sviluppo e all’età cronologica; da qui il termine spettro” (p. 61).

 Il secondo fondamentale cambiamento avvenuto con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) concerne i sintomi necessari alla diagnosi, i quali, da tre domini (sociale, comunicativo e dei comportamenti ripetitivi), sono stati riformulati in due: (1) interazione e comunicazione sociale e (2) comportamenti ristretti o ripetitivi. L’unione dei domini “sociale” e “comunicativo” in un unico dominio sintomatologico è avvenuta a causa dello stretto legame empirico che si è dimostrato esserci tra i due e, inoltre, per migliorare la specificità e diminuire la sovrapposizione dei criteri diagnostici (King et al., 2014). Ciò che si è mostrato essere fondamentale per la diagnosi di ASD è la compromissione della componente pragmatica (e quindi sociale) della comunicazione, pertanto è stato aggiunto il deficit nella comunicazione come specificatore opzionale alla diagnosi (King et al., 2014). L’adeguatezza di tale modello, detto bi-fattoriale, è stata confermata da vari studi (es. Guthrie et al., 2013).

Sono stati, inoltre, accorpati i sintomi simili tra loro che costituivano causa di sovrapposizione e sono stati eliminati quelli non specifici dello spettro autistico, rendendo i criteri diagnostici più precisi e coerenti (APA, 2022; Ozonoff, 2012).

Infine, nella quinta edizione del DSM (APA, 2013/2014), sono stati introdotti diversi specificatori, in modo da cogliere meglio la natura del disturbo e le sue variazioni individuali, in termini di intensità dei sintomi, grado di compromissione e sofferenza causata (Ozonoff, 2012).

Tutte queste modifiche sono state apportate al fine di rendere la diagnosi e la definizione di Autismo più chiare, precise e adatte a tutti quei quadri sintomatologici che venivano diagnosticati attraverso diverse etichette categoriali durante gli anni passati, ma che in realtà si presentavano estremamente simili, se non, appunto, per la gravità della compromissione funzionale. La creazione di uno spettro diagnostico che raccolga questi disturbi permette di evitare sovrapposizioni diagnostiche e diagnosi differenti in base all’età del soggetto, alle strategie compensatorie apprese e al clinico che lo osserva. Dovrebbe, inoltre, consentire la diffusione di un linguaggio comune tra le diverse comunità scientifiche, tra i professionisti di ogni tipo e tra le varie associazioni, e permettere l’emissione di servizi più adeguati e l’avanzamento della ricerca nel campo dell’Autismo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014; 2022).

Attuale definizione dell’ASD: DSM-5 e DSM-5-TR

Il DSM-5 (APA, 2013/2014) e il DSM-5-TR (APA, 2022) definiscono il Disturbo dello Spettro dell’Autismo come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da “compromissione persistente della comunicazione sociale reciproca e dell’interazione sociale (Criterio A), e pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi (Criterio B)” (APA, 2013/2014, p. 61). I sintomi limitano o compromettono il funzionamento quotidiano in diversi ambiti (Criterio D) e devono essere presenti durante la prima infanzia (Criterio C), ma è possibile che siano mascherati da strategie di compensazione apprese nel tempo o che non si manifestino finché le esigenze sociali non superano le capacità del soggetto. Tali alterazioni non sono altrimenti spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo (Criterio E; APA, 2013/2014; 2022).

Sono previsti degli specificatori al fine di una descrizione più completa del caso. Essi riguardano la presenza aggiuntiva di: compromissione intellettiva e/o del linguaggio, di una condizione medica, genetica o ambientale nota, di un altro disturbo mentale o comportamentale, di catatonia. Esistono, inoltre, tre livelli di gravità riferiti a entrambi i domini sintomatologici, che indicano la significatività del supporto necessario nell’area della comunicazione sociale e di quello necessario nell’area dei comportamenti ristretti e ripetitivi (APA, 2013/2014; 2022).

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Il lettore che decidesse di iniziare il libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro, di Ruggiero, Caselli e Sassaroli (2022), sappia che non si troverà di fronte a un’asettica illustrazione di concetti, ma a un vero e proprio dibattito tra esperti. 

 

 La formulazione del caso è qui intesa come un elemento costituente la terapia cognitivo comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), una parte necessaria per la buona pratica clinica. Fin dal principio gli autori sottolineano l’aspetto, forse prioritario, della formulazione del caso in CBT, cioè la condivisione con il paziente. Non parlano di un processo messo in atto esclusivamente dal clinico, ma di una procedura di co-costruzione e di continuo interscambio all’interno della coppia terapeutica, grazie alla quale l’individuo assume, fin da subito, un ruolo attivo nella comprensione e nel trattamento delle proprie difficoltà. La formulazione condivisa del caso ha la funzione di intervenire sia sugli aspetti specifici sia su quelli aspecifici del processo terapeutico. Per aspetti specifici si intendono quelli riguardanti le peculiarità della sofferenza del paziente, mentre gli aspetti aspecifici si riferiscono alla gestione dell’alleanza e della relazione terapeutiche, che fanno parte del processo terapeutico in sé più che del caso specifico. Gli utilizzi e gli scopi della condivisione della formulazione del caso risultano quindi essere molteplici: dichiarare un modello esplicativo della sofferenza emotiva del paziente; creare una base comune del razionale di strategia di trattamento; monitorare i progressi del trattamento, il che consente l’apporto di eventuali aggiustamenti e modifiche; gestire la relazione e l’alleanza terapeutiche.

Si può affermare che l’obiettivo primario del volume sia concettualizzare la “formulazione condivisa del caso clinico come intervento centrale e distintivo delle principali forme di CBT”. Si parla di forme al plurale per contraddistinguere le varie terapie di tipo cognitivo comportamentale, sottolineandone analogie e differenze non solo tra di esse, ma anche rispetto ad alcuni approcci non CBT di tipo relazionale e psicodinamico. Per fare questo, gli autori ripercorrono la storia e l’evoluzione della formulazione condivisa del caso, accompagnando il lettore a conoscerne la realizzazione nelle specifiche cornici cliniche, riportando anche descrizioni pratiche ed esempi di possibili interventi. La divisione del volume in capitoli dedicati alle varie terapie permette al lettore di averne una visione ben chiara, esaminando caratteristiche, confini e zone di sovrapposizione. Con questo tipo di strutturazione, gli autori perseguono l’ulteriore obiettivo di dividere gli approcci terapeutici in due categorie: una propone che la formulazione condivisa del caso sia possibile fin dall’inizio del lavoro, l’altra ritiene che sia un risultato da raggiungere nel corso del processo terapeutico. Alla fine di ogni capitolo sono, inoltre, aggiunte riflessioni di altri autori ben noti nel panorama della psicoterapia, che approfondiscono il capitolo stesso o che ne prendono spunto per aggiungere elementi di interesse.

Il primo capitolo è incentrato sulla Terapia Cognitiva standard di Beck (Cognitive Therapy; CT), dove la formulazione condivisa del caso è la mossa di apertura del processo terapeutico, che ne permette la gestione momento per momento. L’utilizzo del CCD (Cognitive Conceptualization Diagram), ovvero l’identificazione di credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, permette al clinico e al paziente di trovare congiuntamente un’interpretazione psicopatologica e una ristrutturazione terapeutica delle situazioni problematiche riferite. Spazio viene dato a quella che forse è la principale critica rivolta alla CT, di basarsi cioè su un’eccessiva razionalità e di relegare il paziente a un ruolo di apprendimento passivo, il che offre l’opportunità di aprire, in risposta, un’ampia riflessione sull’empirismo collaborativo e sulla co-operazione intrinseca alla condivisione della concettualizzazione.

Il secondo capitolo si sposta sul Comportamentismo, che, sottolineano gli autori, ha il merito di aver per primo proposto la formulazione condivisa del caso, in particolare con il contributo di Meyer. La tradizione comportamentista propone l’uso della formulazione come un razionale di trattamento e pone l’enfasi sulla natura provvisoria dell’inquadramento del caso. Il focus è posto sulle funzioni esecutive volontarie, quali elementi cruciali del processo psicoterapeutico, in quanto forniscono al paziente la capacità di fare una scelta volontaria nel qui e ora e di distaccarla da qualsiasi fattore antecedente, incluso lo stesso ragionamento cognitivo. L’idea è che il paziente possa acquisire una consapevolezza del suo disagio da utilizzare nelle situazioni di vita quotidiana per attuare un comportamento differente.

Il terzo capitolo indaga la formulazione condivisa del caso nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy; REBT) di Ellis. Attraverso l’illustrazione della procedura di base ABC-DEF, viene mostrato come vi sia un continuo interscambio tra clinico e paziente, in particolare durante le fase di connessione pensieri-comportamento (B-C), di disputing (D) e di negoziazione dell’obiettivo emotivo (F). Si parla qui di formulazione condivisa del problema, più che del caso, per sottolineare che l’attenzione è rivolta alle molteplici situazioni difficili sperimentate dal paziente nell’attuale contesto di vita.

Il quarto capitolo discute la formulazione condivisa del caso negli approcci CBT più recenti focalizzati sui processi. Nello specifico, vengono prese in considerazione: la Acceptance and Commitment Therapy (ACT), in cui la valutazione e la condivisione con il paziente del suo funzionamento mentale si fonde con l’intervento terapeutico basato, appunto, sul funzionamento più che sul contenuto; la Process Based Cognitive Behavioral Therapy (PB-CBT), recente approccio, ancora in via di sviluppo, che nasce dallo sforzo di integrare la CT standard e gli approcci CBT basati sul processo, considerandoli come due possibili livelli differenti di un unico intervento; la Schema Therapy, in cui il caso è formulato in termini di modelli del sé che non sono puramente cognitivi; la Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy; MCT), che attribuisce grande importanza alla condivisione precoce con il paziente del modello di funzionamento, in quanto si concentra sulla funzione della scelta esecutiva cosciente dell’individuo, che può diventare disfunzionale a causa di distorsioni metacognitive.

Il quinto capitolo è dedicato agli approcci costruttivisti. Gli autori illustrano come, in questi modelli, la condivisione della formulazione del caso sia il risultato di un processo esplorativo più che la partenza della terapia. Un importante contributo del costruttivismo è aver introdotto, nel processo di inquadramento clinico, il concetto di significato soggettivo che le persone attribuiscono a se stesse, agli altri e agli eventi della loro vita. L’attenzione è quindi posta sull’esplorazione sistematica e attenta delle interpretazioni che il soggetto fa della sua esperienza. Uno spazio viene riservato anche al modello di Liotti, che risalta l’importanza della relazione sia per la comprensione della sofferenza del paziente, sia come campo prioritario di lavoro e cambiamento terapeutico, attraverso cioè la promozione di un atteggiamento cooperativo, il monitoraggio accurato e la gestione degli episodi di crisi relazionale. Tale visione rimanda al modello di Safran e Muran basato sui concetti di rotture e riparazioni della relazione terapeutica. La formulazione del caso sarebbe quindi il risultato della gestione di questi episodi di rottura e riparazione.

 Proseguendo il discorso, il sesto capitolo si occupa dei modelli di formulazione del caso che si basano sul ruolo della relazione terapeutica. In questi modelli la formulazione del caso è il risultato del processo terapeutico e avviene senza essere dichiarata e condivisa apertamente. Gli autori presentano la Psicoanalisi Relazionale di Mitchell e Aron, paradigma di tipo psicodinamico distaccatosi dalla tradizione classica, dove il focus diventa la costruzione di una nuova esperienza interpersonale significativa che permetterebbe al paziente di assimilare nuovi modelli relazionali. Viene poi illustrato il modello della Mentalization Based Therapy (MBT) di Bateman e Fonagy, dove la mentalizzazione è promossa e incoraggiata dal terapeuta senza che ve ne sia un’esplicita spiegazione al paziente. Il capitolo prosegue riprendendo il modello di Safran e Muran e spiega in modo più approfondito come la formulazione del caso non possa avvenire inizialmente, in quanto mancherebbe la condizione su cui si basa la terapia, ovvero la rottura della relazione e la sua gestione. L’idea della formulazione del caso come risultato, continuano gli autori, è applicabile anche alla Control Mastery Theory (CMT), che si concentra sui test relazionali, fattori interpersonali ed esperienziali innescati da processi relazionali, non pienamente rappresentabili nella coscienza del paziente ma percepiti emotivamente e motivazionalmente.

Il settimo capitolo presenta il modello di formulazione del caso LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased beliefs, elicitation and treatment), ideato dagli autori del volume, e ne sottolinea il carattere innovativo di integrazione tra elementi cognitivi della CT standard (credenze sul sé e coping strategies), elementi evolutivi, che giustificherebbero la vulnerabilità emotiva come esperienza appresa durante la storia di vita dei pazienti, ed elementi processuali, che giocano un ruolo di mantenimento patologico delle coping strategies. L’integrazione si traduce nel concepire la psicopatologia come una gestione rigida del disagio emotivo, verso cui il paziente ha una sensibilità, volta a ottenere la soppressione del dolore. La vulnerabilità individuale corrisponde a uno o più temi di vita appresi in esperienze e relazioni significative percepite come intollerabilmente dolorose. Per questo l’individuo mette in atto una rigida gestione della sofferenza attraverso strategie di coping evitanti, controllanti e/o impulsive, chiamate piani semi-adattivi. Temi di vita e piani semi-adattivi sono costantemente mantenuti attivi da aspetti processuali, di necessità e incontrollabilità percepite, e questo determinerebbe la psicopatologia.

L’ultimo capitolo è dedicato alla presentazione di nuovi scenari di psicoterapia nell’ambito della E-healt, che si riferisce all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communication Technologies; ICT) per facilitare la prevenzione, la diagnosi, il trattamento, il monitoraggio e l’amministrazione nel sistema sanitario.

È doveroso sottolineare e apprezzare il tono esplorativo che contraddistingue l’intero testo e che denota l’intento di promuovere la conoscenza e la discussione critica della formulazione condivisa del caso all’interno del mondo della psicoterapia. La proposta di diverse visioni relative ai vari approcci terapeutici con relativi limiti e punti di forza, l’aggiunta di riflessioni di altri autori, nonché la presentazione di critiche e risposte, predispongono sicuramente la mente del lettore a quell’atteggiamento di apertura e curiosità fondamentale sia per lo sviluppo soggettivo individuale, sia per quello della globale comunità scientifica.

 

L’aggressività alla guida

Guidare è un’attività praticata quotidianamente da milioni di persone e può essere molto stressante (Karimi et al., 2021); infatti, accade spesso che, durante la guida, il conducente del veicolo esperisca delle sensazioni di rabbia.

 

 Sembra che i guidatori che esperiscono rabbia mentre guidano aumentino esponenzialmente il rischio di incidenti. Ad esempio, alcuni tendono a guidare più velocemente quando sono arrabbiati, oppure manifestano la loro rabbia con comportamenti aggressivi. Sembra che l’età sia una variabile importante in questo contesto. I guidatori più giovani, infatti, tendono a emettere comportamenti aggressivi alla guida e a infrangere le regole stradali molto più frequentemente rispetto a individui adulti.

Nel 2016, il numero di vittime causate da incidenti stradali è stato di 1,35 milioni e i numeri sono destinati ad aumentare (Brandenburg e Ohel, 2021). Ad esempio, in Germania comportamenti rischiosi e inadeguati attuati alla guida hanno mostrato una correlazione del 91% con gli incidenti mortali. Oltre a una guida più veloce, tra i comportamenti negativi causati dalla rabbia riscontrabili nell’attività della guida si annoverano il tagliare la strada, il fare sorpassi pericolosi e il tailgating, ovvero il “tallonare” inteso come l’atto di accorciare drasticamente e bypassare la distanza di sicurezza rispetto alla macchina davanti, cercando di causare agitazione nell’altro conducente.

L’espressione della rabbia alla guida

Sono state condotte numerose ricerche sui comportamenti aggressivi alla guida (Karimi et al., 2021). Deffenbacher e colleghi (1994) hanno sviluppato la Driving Anger Expression Inventory (DAX), che contiene 4 macro aree di espressione aggressiva: 3 aree si occupano di indagare le modalità aggressive con cui viene espressa la rabbia (aggressione verbale, aggressione fisica e utilizzo della macchina come mezzo per esprimere aggressività) e un’area indaga le modalità costruttive con cui esprimere aggressività e rabbia (Deffenbacher et al., 1994; Karimi et al., 2021). La DAX è uno strumento che è stato validato in molti paesi, come Francia, Turchia, Brasile, America e Nuova Zelanda (Karimi et al., 2021).

La DAX è risultata essere molto utile per misurare le conseguenze dei comportamenti aggressivi alla guida, poichè misura le frequenze di diversi tipi di risposta (Karimi et al., 2021). Inoltre, la DAX è utile anche perché riesce a individuare i guidatori che tendono a emettere più frequentemente comportamenti rischiosi alla guida (Karimi et al., 2021). In aggiunta, la DAX vede l’aggressività nella guida come un tratto di personalità associato a un’intensa e più frequente rabbia esperita mentre si guida (Brandenburg e Oehl, 2021).

Chi sperimenta rabbia alla guida?

 Nel loro studio, Brandenburg e Oehl (2021) hanno condotto una ricerca su un campione di popolazione di 1136 individui tedeschi somministrando la DAX insieme al State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI; Spielberger, 1999), con lo scopo di esaminare quali variabili demografiche possono influenzare l’esperienza della rabbia alla guida e di vedere se in Germania la tendenza a esperire rabbia alla guida è differente dagli altri paesi. I risultati hanno mostrato una moderata associazione tra l’espressione della rabbia alla guida e l’espressione della rabbia in generale, suggerendo l’ipotesi secondo la quale la rabbia esperita alla guida possa essere una caratteristica della personalità legata a come un individuo esperisce ed esprime la rabbia. Inoltre, l’esperienza della rabbia alla guida per la popolazione tedesca sembra essere differente dai guidatori di altri paesi. Infatti, i guidatori tedeschi hanno riportato una minore rabbia alla guida rispetto ai guidatori spagnoli o neozelandesi, livelli simili ai guidatori turchi e americani, e livelli maggiori rispetto ai guidatori francesi, australiani, inglesi e cinesi.

Tale ricerca è stata utile per tarare i livelli di rabbia alla guida nella popolazione tedesca, in modo da validare il test DAX in Germania (Brandenburg e Oehl, 2021). Sarebbe utile e interessante replicare la ricerca in Italia, per osservare i livelli di rabbia e aggressività alla guida tra i guidatori italiani e ottenere così uno strumento di valutazione specifico per il nostro Paese.

 

Social network, cognizioni e benessere – PARTECIPA ALLA RICERCA

Lo scopo dello studio è quello di indagare la relazione tra uso dei social network, pensiero ripetitivo e livelli di benessere psicologico. 

Social network

 Con il passare del tempo, il mondo dei social network si è arricchito, vedendo lo sviluppo di nuove piattaforme volte a soddisfare diverse esigenze, interessi e scopi: attraverso i social network, oggi è ad esempio possibile divertirsi, instaurare o mantenere relazioni, cercare lavoro o organizzare il proprio tempo libero. Queste molteplici possibilità sostengono l’intenso uso dei social network, che sono diventati parte rilevante della quotidianità di moltissime persone.

Pensiero ripetitivo

Col termine “pensiero ripetitivo” ci si riferisce a uno stile di pensiero analitico, astratto, perseverante e, per l’appunto, ripetitivo, che è incentrato su contenuti negativi (Borkovec, 1994; Caselli et al., 2011, 2017). A seconda dei contenuti dei pensieri e delle emozioni ad essi associate, è possibile distinguere quattro diverse forme di pensiero ripetitivo: la ruminazione depressiva, la ruminazione rabbiosa, il rimuginio ansioso, il rimuginio desiderante (Caselli et al., 2017).

 Il pensiero ripetitivo è un processo disfunzionale presente trasversalmente sia in diversi disturbi psicopatologici sia in condizioni non-patologiche. Inoltre, esso è considerato uno dei processi che maggiormente determina e mantiene la sofferenza psicologica (Caselli et al., 2017; Wells, 2018). Per tali motivi, l’indagine scientifica sul pensiero ripetitivo è urgente e in forte crescita.

Uso dei social network e pensiero ripetitivo: lo studio

La letteratura scientifica ha indagato il rapporto tra uso dei social network e pensiero ripetitivo, ma sono necessari ulteriori approfondimenti a tal proposito. Il presente studio ha dunque l’obiettivo di analizzare le associazioni tra l’utilizzo dei social network, il pensiero ripetitivo e i livelli di benessere psicologico.

Per partecipare alla ricerca basta compilare un questionario che richiede circa 10 minuti di tempo. Lo studio è rivolto a persone maggiorenni utenti di Facebook, Instagram, o TikTok. I dati verranno trattati in forma completamente anonima. I questionari non hanno alcuna finalità diagnostica o terapeutica.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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La funzione sociale dello psicoterapeuta (2020) di Luigi D’Elia – Recensione

Il volume La funzione sociale dello psicoterapeuta descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio.

 

 Avrei dovuto recensire il libro di Luigi D’Elia almeno un anno fa e sono in colpevole ritardo. Non è la pigrizia l’unica responsabile. Il ritardo è rivelatore: ero disorientato di fronte all’argomento perché, come molti di noi, non conosco a fondo la psicologia sociale e ancor meno quale sia la funzione sociale dello psicoterapeuta. Un’ignoranza inquietante, perché non generava curiosità ma confusione. La stessa che mi ha accompagnato in questi mesi in cui il libro giaceva sulla mia scrivania. Lo avevo lasciato lì a ricordarmi che prima o poi avrei dovuto decidermi a leggerlo.

Il libro di D’Elia parte dalla consapevolezza di questa lacuna e tenta di colmarla, istruendoci sugli aspetti sociali della nostra professione. Inizia con una panoramica della condizione dello psicoterapeuta italiano, della sua singolare condizione di figura professionale formata quasi sempre nel servizio privato e destinata a lavorare privatamente. Di qui la trascuratezza per l’aspetto sociale di questa professione. Da questa osservazione parte la riflessione di D’Elia sullo psicoterapeuta, la cui funzione sociale è quella di superare la dicotomia mondo-mente in termini che vadano al di là delle consuete opposizioni che rimangono individuali, anch’esse da superare ma al fondo più ristrette: mente-corpo, ragione-emozione e così via. Occorre andare sulla sponda sociale, magari per incontrare nuove opposizioni.

L’intento di D’Elia è di porre la sofferenza mentale al centro di un disagio che non è solo mentale e nemmeno è solo individuale. L’individuo soffre, scrive D’Elia, perché la società soffre, e la società soffre perché non è abbastanza sociale. Essa è deteriorata dalla tendenza all’individualismo e all’aggregazione puramente funzionale dell’organizzazione economica, non solo privata ma anche pubblica. D’Elia connette, per tutto il libro, il malessere emotivo a queste disfunzioni sociali: i disturbi di personalità sono espressione primaria di questo deterioramento ma anche le psicosi, pur colpite da un fattore biologico, presentano un decorso meno ottimale a causa del degrado della società. Lo psicoterapeuta ha quindi un mandato sociale, non può limitarsi a lavorare nel suo studio, ma deve andare negli ambienti dove è nato il disturbo e può farlo non solo quando gli è richiesto dal ruolo, ad esempio quando lavora in comunità o nei servizi sociali, ma anche quando potrebbe rinchiudersi nell’attività privata.

Dopo questo quadro iniziale, D’Elia descrive vari scenari lavorativi e sociali in cui lo psicoterapeuta potrebbe assumere questo ruolo sociale ed evadere dalla gabbia della psicoterapia individuale. Lo studio di psicoterapia diventa un osservatorio sociale privilegiato da cui cogliere le modificazioni individuali facilitate dal cambiamento sociale. La società atomizzata, lacerata e povera di basi comunitarie crea disagi psicologici specifici che D’Elia descrive con esattezza, dai disturbi alimentari ai casi di violenza giovanile fino agli hikikomori, tutti malesseri che partono dall’isolamento, dalla spersonalizzazione funzionale ed economica dei rapporti fino alla competizione sempre più aspra che può poi sfociare nella violenza fisica.

 Per questo D’Elia descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio. Ecco che conosciamo le difficoltà lavorative e aziendali di Doriana, Isabella e Luciano e quelle sociali e familiari di Pietro, Ivana e Nadia. Nella sezione successiva troviamo i casi dell’amore esitante, ovvero la difficoltà di tante persone, non solo pazienti, a impegnarsi in progetti affettivi a lungo termine, il cui contraltare apparentemente opposto ma complementare è quello delle coppie di quarantenni che iniziano a desiderare i figli in età avanzata in uno stile superficiale e naif che non sembra tenere conto dei limiti biologici. Infine, troviamo interessanti considerazioni sull’incagliarsi del femminismo, dopo i successi dell’inizio e degli anni ’60 del ‘900, in una incompiutezza della realizzazione individuale delle donne, spesso arenatesi in atteggiamenti evitanti e poco assertivi dopo aver ottenuto i diritti pubblici.

A tutto questo D’Elia risponde proponendo una impostazione che va oltre la diagnosi individuale per generare una formulazione sociale del caso che si fonda su un’analisi dei rapporti economici e politici del tardo capitalismo, incapace di assicurare quella parallela crescita sociale che fino agli anni ’60 accompagnava quella economica e, anzi, incancrenitosi in una crescita senza limiti che non fornisce progresso intellettuale e morale e al tempo stesso minaccia il clima e il benessere del pianeta. Come scrive D’Elia a pag. 59, “lo psicoterapeuta con formazione psicosociale legge il materiale del paziente non solo come elemento intrapsichico e relazionale (…) ma come elemento della realtà sociale”. I vari interventi sono riletti in questa luce sociale: ecco che l’ansia non è curata solo nei termini individuali della tolleranza dell’apprensione e dell’adattamento, ma anche come insegnamento all’assertività, nella rivendicazione dei propri diritti sociali compromessi dal degrado sociale e lavorativo, così come l’accettazione dei propri limiti diventa anche la capacità di sottrarsi alle sirene del successo individualistico vissuto in misura parossistica. L’ambiente sociale del paziente è analizzato con puntualità per comprenderne l’effetto sull’emotività del paziente stesso e per immaginare strade per fuoriuscirne. Il repertorio di interventi sociali proposto da D’Elia va ad arricchire l’armamentario dello psicoterapeuta.

Naturalmente limitarsi a sviluppare l’aspetto sociale dell’intervento psicoterapeutico sarebbe stato limitante per gli obiettivi del libro. Ecco che D’Elia, per rispondere a questo bisogno, propone un intervento sociale diretto che vada al di là della seduta e individua nella rete il mezzo sociale più potente messo a disposizione dalla società. D’Elia progetta un portale che: 1) colleghi la domanda e l’offerta di psicoterapia secondo logiche che non siano di mercato, bensì di aiuto sociale praticato a tariffe ridotte oppure finanziato dallo stato sociale; 2) stimoli l’intervento pubblico a incrementare l’investimento in psicoterapia, storicamente trascurato a favore di quello farmacologico e comunitario; 3) censisca gli operatori e le strutture che già propongono le tariffe ridotte. Il tutto è finalizzato a creare una sorta di contro-mercato sociale e non economico in cui la psicoterapia sia davvero intervento sociale a favore del debole e del bisognoso. Il progetto è iniziale ma non acerbo: il portale, consultabile cliccando qui, era giunto al suo secondo anno di vita al momento della pubblicazione del libro di D’Elia nel 2020 e ora è quindi al suo quarto anno di vita e continua a inseguire i suoi sogni.

 

Felicità, benessere soggettivo e comportamenti pro-sociali 

La maggior parte di noi desidera essere felice e nel tentativo di esserlo si ritrova alla ricerca costante di nuove modalità con cui raggiungere la propria felicità

 

 In Occidente, la ricerca della felicità è vista come un’impresa personale che richiede un’azione finalizzata al raggiungimento di obiettivi e programmi personali (Oishi et al., 2013). Tuttavia, la letteratura sembra dimostrarci che, piuttosto che focalizzarsi su sé stessi, il focus dovrebbe essere riposizionato, forse in modo controintuitivo: per essere veramente felici può essere necessario “dimenticarsi” di se stessi e preoccuparsi principalmente della felicità degli altri.

A sostegno di tale ipotesi, uno studio di Dunn e colleghi (2008) ha riscontrato che i soggetti che spendevano denaro per gli altri si sentivano più felici rispetto a quelli che spendevano la stessa somma di denaro per se stessi. Nelson e colleghi (2016) hanno dimostrato invece che l’essere gentili con gli altri porta a sperimentare più emozioni positive, meno emozioni negative e più benessere psicologico, rispetto agli atti di gentilezza focalizzati su se stessi.

La felicità nel Modello delle Attività Eudaimoniche

Questi risultati sono ben inquadrati nel Modello delle Attività Eudaimoniche (EAM; Sheldon et al., 2019), il quale ipotizza che i miglioramenti del benessere soggettivo e della felicità possono essere ottenuti attraverso l’impegno in attività eudaimoniche, come le attività legate alla crescita e allo sviluppo, alla promozione di valori intrinseci e alla pro-socialità. Pertanto, secondo l’EAM, rendere felici gli altri dovrebbe rivelarsi più efficace per il proprio benessere, poiché non mira direttamente alla felicità del soggetto in questione, ma porta a benefici attraverso il comportamento pro-sociale.

La domanda che sorge è quindi: qual è il meccanismo alla base di questi benefici?

Un risposta logica potrebbe essere il sentimento di connessione che si crea tra chi dona e chi riceve. Molte teorie propongono, e molti studi hanno riscontrato, che le relazioni strette sono un importante determinante del benessere delle persone (ad es., Lyubomirsky et al., 2005) e che le persone più felici di solito hanno reti sociali più ampie rispetto a quelle meno felici (Myers, 2000). La teoria dell’autodeterminazione (Self-Determination Theory; SDT) suggerisce che tutte le persone hanno bisogno di relazionarsi con gli altri, mostrando che i sentimenti di relazionalità, insieme ai sentimenti di competenza e di autonomia, sono importanti predittori di benessere (Reis et al., 2000; Sheldon et al., 1996). Inoltre, esaminando le tendenze prosociali, Martela e Ryan (2016b) hanno scoperto che la relazione tra comportamento pro-sociale e benessere può essere spiegata dal soddisfacimento dei bisogni psicologici di base. Sembra ragionevole che il tentativo di rendere felice un’altra persona ispiri sentimenti di vicinanza nella persona che compie il gesto. Questi sentimenti potrebbero quindi spiegare gli effetti positivi dell’attività focalizzata sull’altro sul benessere della persona.

Tuttavia, l’aumento del benessere non deriva da qualsiasi esperienza sociale, ma dalle esperienze in cui siamo concentrati sulla felicità degli altri piuttosto che sulla nostra.

Alcuni esperimenti sulla ricerca della felicità

Sulla base di quanto riportato, uno studio condotto da Titova e Sheldon (2021) ha analizzato l’effetto del “cercare di rendere felice se stessi” e “cercare di rendere felice un’altra persona” sulla felicità e il benessere percepiti in 5 progetti sperimentali differenti.

 Nei primi 3 studi i risultati hanno dimostrato che, sia retrospettivamente (quindi ricordando di aver cercato di rendere qualcun’altro più felice) che al momento attuale dello studio (facendo qualcosa per rendere più felice un’altra persona) impegnarsi per la felicità degli altri portava a un aumento del benessere soggettivo maggiore, rispetto al tentativo di rendere più felice se stessi o di passare del tempo a socializzare.

Nei successivi esperimenti gli autori hanno utilizzato una condizione di confronto diversa: essere resi più felici dagli altri. Anche in questo caso, i risultati hanno dimostrato che cercare di rendere felici gli altri è un modo più efficace per raggiungere la propria felicità, anche più di quando gli altri cercano di rendere felici noi.

Riassumendo, ciò che lo studio ha riportato sembra confermare l’ipotesi che rendere felici gli altri sia un modo più funzionale per raggiungere la propria felicità, anche rispetto all’essere resi felici dagli altri.

È interessante notare che non è necessaria un’azione faccia a faccia con l’altra persona: i partecipanti dello studio hanno comunque sperimentato benefici dal tentativo di rendere felici gli altri anche senza averli mai visti o senza mai averci parlato. Inoltre, nello studio presentato, le persone non si conoscevano tra loro, quindi anche il livello di familiarità con le persone oggetto dell’attività di aumento della felicità non è necessariamente importante per ottenere l’effetto indagato.

Le reazioni ottenute in tutte e cinque le condizioni sperimentali erano mediate dal soddisfacimento del bisogno di relazione. Come suggerito dalla STD, le persone hanno bisogno di soddisfare tutti e tre i bisogni fondamentali per vivere una vita soddisfacente (Ryan e Deci, 2000a; 2000b). Non sorprende che la soddisfazione del bisogno di relazione, in particolare, derivi da un’attività progettata per far sentire bene un’altra persona.

Sebbene questo studio non sia longitudinale, quindi non sono stati osservati cambiamenti nel tempo, sembra confermare l’ipotesi per la quale impegnarsi in azioni che puntano a migliorare l’umore e la felicità degli altri invece che la propria, aumenti il proprio benessere soggettivo. Lo studio presentato sembra inoltre supportare il Modello delle Attività Eudaimoniche, il quale afferma che lavorare per migliorare direttamente la propria felicità non è una strada percorribile per diventare più felici nella vita (Sheldon, 2016; Sheldon et al., 2019). Invece, concentrarsi su sforzi eudaimonici, che includono lo spostamento dell’attenzione da sé agli altri, è un modo funzionale per raggiungere il benessere personale.

 

Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità”.

 

Negli ultimi anni la mindfulness ha ricevuto crescente attenzione non soltanto come pratica meditativa in grado di migliorare la salute fisica e psicologica, ma anche come stile di vita e come mezzo per approcciarsi in maniera più consapevole al mondo del lavoro, dello studio e delle relazioni interpersonali. La mindfulness può essere descritta come “il processo di prestare attenzione in modo particolare, di proposito, al momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento” (J. Kabat-Zinn, 1994).

Il protocollo più diffuso e conosciuto è quello per la riduzione dello stress basata sulla mindfulness (Mindfulness Based Stress Reduction) validato da test e studi scientifici a partire dagli anni ’70, da cui si sono sviluppati diversi interventi e protocolli in ambito preventivo e clinico. Tra questi, per aiutare e sostenere i genitori nel difficile compito parentale, la psicologa e ricercatrice olandese Susan Bogels ha strutturato un protocollo molto efficace, validato da oltre un decennio di ricerca. La mindfulness nel parenting aiuta a divenire più consapevoli delle risposte stressanti, a gestire la naturale reattività di fronte alla frustrazione che la relazione con i figli genera e a diventare maggiormente capaci di scegliere risposte personali ai bisogni dei figli piuttosto che reagire allo stress o secondo schemi noti dalla nostra infanzia.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Nicoletta Serafini, Psicologa, Psicoterapeuta.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Tre caratteri (2022) di Cristopher Bollas – Recensione del libro

Il testo di Bollas, Tre caratteri, raccoglie il materiale di conferenze tenute dai partecipanti al Chicago Workshop e alla Arild Conference, lungo un arco temporale piuttosto esteso (dal 1983 al 2010), consentendo un dialogo trasversale con psicoanalisti, psicologi e psicoterapeuti facenti parte dei progetti. 

 

 Ciascun incontro si focalizzava su un singolo caso clinico, permettendo una discussione puntuale e precisa, ma soprattutto di viverne per interposta persona l’evoluzione lungo gli anni. Come quasi ogni lavoro di Bollas, nonostante l’estrema chiarezza di pensiero e di espressione, sarebbe bene affrontarne la lettura avendo quantomeno presente alcuni termini o tematiche di stampo psicoanalitico.

La particolarità di questa raccolta è che ogni capitolo, dedicato a una struttura specifica del carattere (quelli che nel DSM vengono definiti disturbo di personalità Borderline, Narcisistico, Disturbo Bipolare), si conclude con un racconto in prima persona, scritto e ideato dall’autore, consentendoci (e consentendogli) di vivere pensieri ed emozioni “in diretta”.

Già questo potrebbe essere un “suggerimento” clinico: esprimere i pensieri e le emozioni dei propri pazienti in prima persona aiuta non solo a comprenderli maggiormente, ma soprattutto a definirli laddove spesso ci capita di lavorare con persone in “via di definizione” o che non si conoscono e che si rivolgono a noi per aprire finestre su un mondo interno sconosciuto.

Come ci ricorda Bollas, nonostante nel libro siano raccolte riflessioni specifiche per tre disturbi differenti, nessun caso sarà uguale all’altro.

Si possono evincere e definire degli argini comuni all’interno dei quali la mente, i pensieri e le emozioni di pazienti che condividono una stessa diagnosi si muovono, ma questo non limita e non definisce la loro persona.

La radice di ogni disturbo è il dolore mentale e avere uno “schema noto” consente di rendere individuabile la sofferenza della persona, che – come già detto – spesso è vissuta, ma difficile da raccontare.

Non è da dimenticare che ciascun disturbo costituisce un tentativo intelligente di trovare una soluzione a un problema esistenziale, e questo va prima di tutto rispettato e in secondo luogo “indagato”: spogliare una persona delle proprie soluzioni (per quanto disfunzionali o distoniche) senza averne prima create insieme di nuove, equivarrebbe a una violenza.

Per ogni “disturbo del carattere” Bollas porta riferimenti culturali (es: il mito di Narciso), storici (il testo è ricco di note che rimandano ad articoli e terapeuti) che aiutano a contestualizzare l’evoluzione del pensiero analitico in merito a quello specifico disturbo.

Bollas è un autore generoso e lineare: minuziosamente e senza annoiare coinvolge il lettore in una disamina ricca e puntuale, offrendo un “buffet teorico” che può valere la pena riprendere a più riprese.

 Vengono sottolineati i rischi e i passi falsi più comuni della terapia con determinati soggetti, ma anche le cosiddette autorizzazioni del carattere. Bollas utilizza questa metafora: ogni disturbo porta con sé un’autorizzazione, una sorta di distintivo che ha lo scopo di spiegare all’altro cosa è accaduto. Il Borderline ha un’autorizzazione che dichiara: “Fuori controllo”. Il Narcisista: “Concordo prontamente con te”, perché abbiamo fatto un patto tale per cui io rispecchio te e tu rispecchi me senza in realtà comprendere appieno, e così via. Può sembrare che stia comunicando con gli altri o che stia cercando di aiutarli, ma in realtà si sta occupando semplicemente di ripristinare la propria idealizzazione.

Come già sottolineato, risultano preziosi gli “esempi di vita quotidiana” che consentono al lettore di trovare tradotti concetti complessi in parole molto semplici, nei quali ritrovare non solo i propri pazienti, ma anche cogliere nell’immediato cosa si intenda per “contratto borderline” e/o “festival del dolore”.

Ogni macro capitolo si conclude, inoltre, con “gli assiomi di logica” di quello specifico disturbo. Frasi semplici che riassumono quanto esposto nei paragrafi precedenti e che possono fungere da “piccolo manuale sintetico” per il clinico.

Interessante, infine, la riflessione di Bollas rispetto alle terminologie eziologiche: quando un disturbo diventa largamente conosciuto, si rischiano categorizzazioni e generalizzazioni che nulla hanno a che vedere con il disturbo specifico, generando non solo confusione ma anche – e soprattutto – un “appiattimento” del disturbo.

L’esempio più semplice è il dichiarare Bipolare una persona che non ha mai manifestato episodi maniacali nell’arco della vita, rischiando non solo ovviamente una diagnosi (e, di conseguenza, una terapia) errata, ma anche di sottovalutare il dolore mentale provato da quello specifico paziente.

Infine, nell’ultima parte del testo è presente un interessante dialogo-intervista tra Sacha Bollas (clinico, ricercatore) e l’autore, che ripercorre i temi trattati e i punti salienti discussi.

In conclusione, Tre Caratteri non vuole essere, e non si limita a essere, un “manuale” di clinica psicoanalitica, bensì un testo tecnico scritto con un linguaggio professionale ma chiaro, avvolgente e coinvolgente che può funzionare da bussola per l’attività di ogni terapeuta. La premessa, già sottolineata, è la conoscenza degli assiomi psicoanalitici e la condivisione di un modello che non si limita a ragionamenti legati alla causa-effetto, ma che mette in luce i meccanismi fondanti della mente di ciascuno.

 

Le conseguenze della separazione dal proprio cane guida per una persona con disabilità visiva

In uno studio del 2021, Lloyd e colleghi hanno esaminato come i sentimenti alla fine della collaborazione con un cane guida possano influenzare le relazioni dei loro padroni con i cani successivi.

 

La relazione con un cane guida

 I cani guida sono ausili primari per la mobilità destinati a migliorare lo stile di vita delle persone con disabilità visiva (cieche o ipovedenti), facilitando gli spostamenti in autonomia. Tra gli ulteriori vantaggi offerti al proprietario del cane guida vi sono l’amicizia, la compagnia, l’aumento delle funzioni sociali e il miglioramento dell’autostima e della fiducia in sé stessi (Lloyd et al., 2008). La letteratura scientifica si è occupata di studiare molti aspetti di questo rapporto, tra cui i benefici per la mobilità e il benessere, il funzionamento degli addestramenti, la salute e la riproduzione, ma pochissimi studi hanno esplorato l’esperienza di possedere un cane guida (York e Whiteside, 2018).

I pochi studi presenti sono stati condotti da Lloyd e colleghi (2008), che hanno valutato la compatibilità, il successo o l’insuccesso della relazione tra una persona e il suo primo cane guida e la complessità degli abbinamenti tra cani guida e padroni. Tali studi affermano che è necessario considerare alcuni fattori, oltre alle abilità di orientamento e mobilità, come il comportamento sociale del cane all’interno e all’esterno dell’ambiente domestico.

Esistono pochissimi studi, però, che analizzano le conseguenze della separazione di un proprietario cieco o ipovedente dal suo cane guida, a causa della sua morte, della restituzione all’istituto di addestramento o qualsiasi altro motivo. La fine di una collaborazione così intensa può portare non solo a una riduzione dell’orientamento e della mobilità di una persona, ma potrebbe avere anche effetti psicosociali a causa della perdita di autostima e dell’esperienza del lutto (Schneider, 2005).

La fine del rapporto con un cane guida

Uno studio di Nicholson e colleghi del 1995, per esempio, dopo aver esaminato i sentimenti causati dal termine di un rapporto con un cane guida, ha concluso che le emozioni provate dal proprietario potessero essere paragonabili a quelle sperimentate per la perdita di un amico, un parente stretto o addirittura al momento in cui hanno perso la vista. Talvolta queste emozioni sono esperite anche dopo la morte di un cane da compagnia. Un ulteriore studio che ha analizzato le conseguenze del lutto nei proprietari dei cani, ha evidenziato come molto frequentemente questi animali vengono umanizzati tanto che la loro perdita può causare una visione negativa della vita.

La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969) fornisce un modo per comprendere le relazioni degli esseri umani con gli animali da compagnia, ovvero il concetto che ci leghiamo emotivamente ai nostri animali in modo simile a quanto facciamo con le persone. Il legame uomo-animale esiste da migliaia di anni, tanto che l’American Veterinary Medical Association (AVMA, 2021) lo definisce come “una relazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa tra persone e animali, influenzata da comportamenti essenziali per la salute e il benessere di entrambi. Ciò comprende, tra l’altro, le interazioni emotive, psicologiche e fisiche tra persone, animali e ambiente”. Infatti, i cani (e altri animali) aiutano da secoli le persone con disabilità fisiche e forniscono supporto emotivo.

Uno studio sulla perdita del proprio cane guida

 Sebbene quindi la reazione a un lutto per la perdita di un cane, sia di assistenza sia da compagnia, sia ancora sottovalutata, visto il numero crescente di cani guida o da servizio utilizzati in tutto il mondo, comprenderla è di grande importanza per il benessere delle persone che ne scelgono la compagnia (Zapf e Rough, 2002). Per tali ragioni, uno studio di Lloyd e colleghi del 2021, ha esaminato come i sentimenti alla fine della collaborazione con un cane guida possano influenzare le relazioni dei loro padroni con i cani successivi. Gli autori hanno esplorato inoltre come la perdita di un cane assistenziale influenzi la qualità della vita delle persone cieche o ipovedenti. Nello studio sono state analizzate le esperienze e i sentimenti di 36 persone che hanno vissuto la fine di una o più collaborazioni con un cane guida (77 coppie in totale), al fine di esplorare i problemi che emergono al termine della collaborazione e il modo in cui ciò può influire sulle relazioni con i cani successivi. I risultati dello studio dimostrano che l’esistenza del legame cane-padrone è importante per il benessere sia di uno che dell’altro, in quanto influenza il modo in cui le persone si sentono riguardo all’acquisto di un successivo cane guida e la relazione che si forma nella diade, oltre ad avere un impatto diretto sul benessere dei proprietari al termine della collaborazione. I dati indicano infatti che la maggior parte dei padroni ha sperimentato una riduzione della qualità della vita dopo la fine della relazione a causa della diminuzione della mobilità indipendente, seguita da sentimenti di perdita di un amico o compagno, da una riduzione delle interazioni sociali, e una perdita di autostima o fiducia in se stessi. La fine della relazione ha colpito le persone in modi diversi: alcuni hanno “accettato” la fine della collaborazione, altri si sono sentiti in colpa o arrabbiati, soprattutto con gli allevamenti dei cani che glieli avevano sottratti. La maggior parte ha richiesto subito un altro cane, poiché il bisogno di mobilità era elevato, mentre altri hanno preferito aspettare e un numero minore non ha ripresentato la domanda. I sentimenti provati dopo il primo allontanamento hanno influenzato anche le relazioni dei padroni con i cani guida successivi: oltre un quarto di loro ha sperimentato un effetto negativo. Inoltre, sembra che il ritiro di un cane guida (per qualsiasi motivo) non sia difficile solo per il conduttore, ma anche per la sua famiglia, gli amici, i colleghi e, infine, per il cane. In aggiunta, molti proprietari hanno espresso sentimenti di estremo dolore quando la collaborazione è finita, indipendentemente dal fatto che abbia avuto successo o meno. Infine, dopo la perdita del primo cane i partecipanti hanno sperimentato sentimenti di estremo dolore e la profondità dell’emozione è risultata essere paragonabile alla perdita di un familiare o di un’altra persona cara, come emerso in alcune relazioni tra persone e animali domestici.

Una migliore comprensione dei problemi legati alla fine di tale relazione, compreso il legame uomo-animale, aiuterà il settore dei cani guida a capire come supportare al meglio i clienti in questo periodo e nel passaggio da un cane all’altro.

 

Il ruolo della co-ruminazione tra gli operatori sanitari durante la pandemia – Report

Al Forum di Ricerca in Psicoterapia la Dott.ssa Chiara Mariani ha riportato lo studio condotto con le colleghe Dott.ssa Jessica Anselmi e Dott.ssa Isabella Egidi dal titolo L’impatto psicologico della pandemia Covid-19 sugli operatori sanitari: uno studio sul ruolo svolto dai processi di ruminazione e co-ruminazione sulla regolazione emotiva a seguito di eventi di vita stressanti.

 

 La ricerca è stata svolta tra il 2020 e il 2021, quindi nel pieno dell’emergenza da Covid-19, che ha comportato per tutti profondi cambiamenti relativi a lavoro, famiglia, tempo libero, vita sociale. Non sorprende, dunque, che possano esserci delle ripercussioni a livello psicologico. Sperimentare emozioni spiacevoli come ansia, paura, rabbia o tristezza è comprensibile ma, se non riconosciute o mal gestite, queste possono facilitare la comparsa di sintomi legati allo stress. A questo proposito, diventano molto importanti l’autoconsapevolezza emotiva e la regolazione emotiva.

Sebbene tutti noi siamo stati colpiti dalla pandemia, gli operatori sanitari sono stati tra i più a rischio e, essendo impegnati in prima linea, sono stati esposti ad un maggiore carico emotivo. Se cronicizzate e prolungate nel tempo, le condizioni di stress possono avere un impatto sulla salute, come problemi di concentrazione e memoria, disturbi somatici e alterazioni del comportamento, fino a sintomi di ansia e depressione, senso di impotenza e stati di sofferenza conclamata, come il disturbo da stress post traumatico (PTSD).

La ricerca è nata dalla spinta a capire come gli operatori sanitari stessero vivendo e affrontando la pandemia, focalizzando l’attenzione sul vissuto emotivo e su come e quanto i processi di ruminazione e co-ruminazione incidano sulla regolazione emotiva a seguito di eventi di vita stressanti, come quello attuale.

Dalla letteratura scientifica è emerso che nelle situazioni di emergenza come la pandemia, il personale sanitario è esposto a una serie di fattori di rischio, come l’esposizione agli agenti patogeni e quindi al potenziale contagio, lo stigma sociale che deriva da questa esposizione, la paura di essere contagiati e di contagiare i pazienti e i propri familiari, un distanziamento sociale maggiore e in alcuni casi l’isolamento e, infine, il contatto con la morte di pazienti e colleghi. Inoltre, sono stati necessari orari di lavoro più prolungati, una richiesta di reperibilità sempre crescente, l’attivazione di procedure straordinarie, la fatica fisica legata all’indossare continuamente i dispositivi di protezione, oltre al fatto che nelle fasi iniziali tali dispositivi erano carenti.

Tutto questo ha portato a un sovraccarico emotivo e psichico e a condizioni di stress che, se prolungate nel tempo e cronicizzate, possono avere un impatto sulla salute mentale degli operatori sanitari.

In un contesto così complesso è fondamentale regolare le proprie emozioni. La regolazione emotiva è un aspetto fondamentale del benessere psicologico e si riferisce a tutti quei processi attraverso i quali riconosciamo le emozioni che proviamo e le esprimiamo. Alcune strategie di regolazione emotiva, come ristrutturazione cognitiva, problem solving e accettazione, sono adattive, mentre altre, come la soppressione dell’esperienza emozionale, l’evitamento, il rimuginio e la ruminazione, sono meno adattive.

La ruminazione, il processo preso in considerazione dalla ricerca in oggetto, è un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero astratto, ripetitivo, focalizzato su sensazioni e pensieri negativi e sulle loro conseguenze. A differenza del rimuginio e della sua emozione predominante di ansia, la ruminazione è associata tipicamente alla perdita, al fallimento e allo sviluppo di pensieri depressivi. La co-ruminazione viene invece definita come una discussione eccessiva e ripetitiva dei problemi personali con un amico intimo. Questi problemi personali vengono discussi frequentemente, dettagliatamente e ripetitivamente all’interno di una relazione diadica, nella quale vi è mutuo incoraggiamento nel parlare di tali problemi, individuandone cause e conseguenze, e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano.

 Per quanto riguarda la co-ruminazione, la ricerca scientifica ha evidenziato che tale strategia non funziona come fattore di protezione per il distress emotivo, ma anzi si associa a livelli più alti di ansia e depressione. La co-ruminazione condurrebbe da un lato a vicinanza e soddisfazione relazionale, dall’altra a una compromissione del funzionamento psicologico, in particolare ansia, depressione, disturbi psicosomatici e accresciuta risposta allo stress.

Il campione della ricerca era formato da:

  • un gruppo sperimentale di operatori sanitari che lavoravano in reparto covid,
  • un gruppo di controllo di operatori sanitari che lavoravano in reparto non covid,
  • un gruppo di controllo di persone appartenenti alla popolazione generale.

Ai partecipanti sono stati somministrati i questionari Difficulties in Emotion Regulation Scale sulla regolazione emotiva, Ruminative Response Scale (RRS) sulla ruminazione, Co-Rumination Questionnaire (CRQ) per la coruminazione e Impact of Event Scale – Revised (IES-R), per misurare l’impatto psicologico degli eventi di vita stressanti.

Dalle analisi emergono differenze significative tra il gruppo sperimentale e i gruppi di controllo in diverse sottoscale dei questionari DERS, RRS, CRQ. Emergono correlazioni tra sottoscale dell’impatto di eventi di vita stressanti (IES) e sottoscale della difficoltà nella regolazione emotiva (DERS), ruminazione (RRS) e co-ruminazione (CRQ). Sottoscale di DERS e CRQ sono risultate, inoltre, predittori di sottoscale IES.

Ruminazione e co-ruminazione comportano difficoltà nella regolazione emotiva, peggiorando l’impatto degli eventi di vita stressanti. La difficoltà di accettazione, riconoscimento e controllo delle emozioni, il desiderio di discutere continuamente del problema e la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività, inoltre, sono risultati predittori di pensieri intrusivi.

Quindi tra i sanitari impegnati in reparti Covid i predittori di pensieri intrusivi sono risultati essere la difficoltà di distrazione e uno stile di pensiero negativo, ripetitivo e astratto, come lo sono i processi di ruminazione e co-ruminazione.

Lo studio ha contribuito a chiarire e ad approfondire l’impatto della pandemia da Covid-19 sul benessere psicologico degli operatori sanitari. Come sottolineato durante la presentazione, sarebbe interessante indagare quanto rilevato anche nel lungo termine con un’osservazione longitudinale dei soggetti.

Infine, sarebbe utile mettere in atto interventi volti a fornire un supporto psicologico agli operatori sanitari, soprattutto nei contesti in cui il carico emotivo è più alto, rendere le strategie di regolazione delle emozioni più adattive e gli operatori sanitari più consapevoli dei processi di ruminazione e co-ruminazione che mettono in atto, per permettere loro di riconoscerli e interromperli, visti gli effetti negativi sulla salute mentale.

 

Amore online (2021) di Federica Sibilla e Chiara Imperato – Recensione

Come la rete condiziona le modalità di approccio e di conoscenza di potenziali partner sentimentali? Il volume Amore online affronta e approfondisce questa tematica, ad oggi di particolare interesse.

 

 L’uso di internet e dei social media è divenuto negli anni uno strumento a cui sempre più utenti fanno ricorso per la ricerca di un partner sentimentale. L’isolamento imposto nei mesi della pandemia ha ulteriormente favorito l’imporsi della rete come mezzo elettivo per stabilire contatti, fare nuove conoscenze e mantenere quelle già esistenti.

Questo processo di ampliamento delle possibilità di conoscenza interpersonale è reso più rapido e intuitivo non solo dai social media, ma anche dai numerosi siti dedicati agli incontri online, a cui un numero sempre crescente di utenti affida la ricerca di un partner.

Il libro Amore online analizza le modalità attraverso cui si strutturano e nascono le relazioni sentimentali di partner che si sono conosciuti e incontrati attraverso la rete. Questa analisi si declina ripercorrendo le tappe di un rapporto sentimentale a partire dalla conoscenza reciproca e dall’innamoramento, analizzando la vita di coppia on line, fino al subentrare di criticità relazionali e alla conseguente rottura sentimentale.

Le tappe delle relazioni nate e mantenute online non differiscono da quelle che nascono in contesti interpersonali reali, se non per alcuni aspetti legati all’impiego del mezzo virtuale.

Come la rete condiziona le modalità di approccio e di conoscenza di potenziali partner sentimentali?

La conoscenza reciproca tramite il mezzo virtuale consente, almeno nelle fasi iniziali della relazione, di proporre un’immagine di sé migliorata. Spesso l’utente alla ricerca di un potenziale partner crea strategicamente una rappresentazione di sé lievemente migliorata, in cui viene data enfasi alle caratteristiche personali alle quali si desidera che il potenziale interlocutore presti attenzione. La selezione di alcune caratteristiche personali rispetto ad altre rappresenta una prima forma di filtro nella ricerca del partner. Dando enfasi ad alcuni tratti implicitamente le persone si rivolgono a coloro per i quali quei tratti sono significativi e/o interessanti.

L’aspetto che più caratterizza la modalità di ricerca di un partner on line è determinato dalla natura stessa del mezzo a cui ci si affida, il computer o più genericamente la rete. La comunicazione mediata dal computer (CMC) differisce significativamente dalla comunicazione faccia a faccia (FtF) per quattro aspetti.

  • La dimensione temporale. Le comunicazioni CMC possono avvenire in maniera asincrona, sono cioè slegate da vincoli di natura temporale. L’utente decide quando connettersi alla rete, senza che vi sia obbligo o condizionamento sociale nel farlo. L’utente può così decidere di rispondere alle comunicazioni dell’interlocutore secondo i propri tempi, valutando l’opportunità di rispondere e decidendo come farlo.
  • La comunicazione non verbale. Nella comunicazione FtF sono presenti molti segnali non verbali (espressione del viso, tono della voce, postura) che arricchiscono e sostengono lo scambio verbale. Nella comunicazione CMC tali segnali si declinano in modo diverso, ad esempio attraverso l’uso delle emoticon che mirano a simulare graficamente lo stato d’animo associato alle parole scritte. Tuttavia l’assenza dello sguardo proprio dell’interazione FtF rende la comunicazione CMC meno impegnativa dal punto di vista emotivo, consentendo spesso maggiori gradi di libertà espressiva.
  • L’anonimato. Se nella comunicazione FtF l’identità dell’interlocutore è sempre nota, così non è – almeno nelle fasi iniziali di conoscenza – nella CMC, dove spesso l’identità è nascosta attraverso l’uso di un nickname. L’anonimato conferisce spesso un senso di maggiore libertà espressiva all’utente, in quanto svincolato dall’esigenza di dare coerenza alla propria immagine sociale e dalle preoccupazioni rispetto a ripercussioni future del proprio atto comunicativo.
  • Le norme sociali. Se nella FtF sono socialmente condivise, nella CMC restano più ambigue e indefinite. Questo determina la percezione di un maggior grado di libertà espressiva, con due possibili esiti antitetici: l’utente può comportarsi in maniera più autentica e sincera di quanto non farebbe nella modalità FtF; al contrario, può anche agire in maniera più irresponsabile o aggressiva di quanto non farebbe in un contesto di interazione reale.

La rete è un canale comunicativo potenzialmente sempre aperto fra i partner. Questo, da una parte, può sostenere la relazione, consentendo una comunicazione svincolata da limiti temporali e di distanza; dall’altra, la potenzialità comunicativa illimitata può rendere necessario negoziare all’interno della coppia regole comunicative che normino lo scambio di messaggi fra i partner.

 Le relazioni sentimentali, sia online che offline, sono spesso contraddistinte da sentimenti di curiosità per la vita privata del partner e non di rado da sentimenti di gelosia nei confronti di quest’ultimo. La rete offre strumenti di “sorveglianza” elettronica (status, accessi on line), che, se da una parte possono ridurre l’incertezza della relazione, dall’altra possono alimentare l’insicurezza e il malessere legati a questa incertezza, attivando fantasie di infedeltà e dubbi sulle intenzioni del partner.

L’uso della rete aumenta significativamente la possibilità di contatti con potenziali partner alternativi: questo di per sé è spesso inteso come un rischio che minaccia la solidità di una coppia. Tuttavia, le autrici sottolineano che non vi sono sufficienti evidenze per determinare se sia la rete ad aumentare le probabilità di rottura relazionale o se invece siano le coppie in crisi a fare maggiormente ricorso alla rete proprio perché insoddisfatte della loro relazione.

Nelle relazioni, sia in quelle nate online sia offline, sempre più spesso la rottura viene sancita attraverso una comunicazione online. Per quanto ritenuta dai più una scelta non adeguata, spesso è preferita, in quanto riduce al minimo su di sé l’impatto emotivo della propria decisione di interrompere la relazione.

Chi riceve la comunicazione circa la decisione del partner di chiudere la relazione si trova così a dover gestire in modo individuale le conseguenze emotive di tale rottura, senza che questo gravi emotivamente su chi ha agito la scelta.

Le autrici evidenziando le potenzialità, ma anche i rischi, connessi alla ricerca di un partner sentimentale in rete, forniscono tre utili suggerimenti per destreggiarsi nella ricerca dell’amore online.

  • Essere chiari e negoziare. La comunicazione online può essere più ambigua di quella reale. Pertanto, l’uso di modalità comunicative chiare e trasparenti preserva la relazione da incomprensioni ed erronee attribuzioni di significato. Nello specifico, le autrici sottolineano che “appare piuttosto chiaramente l’importanza di trovare accordi che si rivelino funzionali per entrambi i partner in merito ai comportamenti online e ai loro significati, al fine di evitare la delusione delle reciproche aspettative” (Sibilla e Imperato, 2021).
  • Essere equilibrati e flessibili. La relazione deve declinarsi in entrambe le forme possibili: sia quella online, sia quella offline. L’alternanza dei due ambiti impedisce che le dinamiche relazionali online si sostituiscano a quelle offline e permette che le modalità comunicative della CMC si alternino con quelle della FtF.
  • Essere consapevoli e prendersi cura. “La consapevolezza delle difficoltà che potrebbe incontrare una coppia nata online, consente di mettere in atto strategie compensative (…); comportamenti quali la ruminazione e la sorveglianza hanno origine in stati di incertezza e spesso favoriscono un incremento del malessere, anche innescando circoli viziosi” (Sibilla e Imperato, 2021).

 

Quando potrò ricominciare a dormire? Come variano i ritmi del sonno delle mamme nelle fasi di vita di un bambino

Alcuni fattori psicologici che insorgono con la gravidanza e nel periodo perinatale possono causare difficoltà nell’addormentamento delle madri, anche dopo che i figli hanno raggiunto un ritmo del sonno accettabile.

 

 Quando nasce un bambino entrambi i genitori cominciano una nuova fase della vita, caratterizzata da numerosi cambiamenti fisiologici, psicologici e comportamentali che scombussolano la loro quotidianità. Tra questi vi è il ritmo del sonno che risulta frammentato e di scarsa qualità, per un periodo di tempo non ben definito. Il fatto che tale periodo sia di durata estremamente variabile, spesso non consente ai membri della coppia di prendere decisioni, come ricorrere a un aiuto supplementare oppure stabilire quando tornare a lavorare o a studiare. Inoltre, la maternità porta con sé diverse aspettative positive, per esempio quella che i bambini “dormano bene”, che generano frustrazione quando non vengono soddisfatte. Tali aspettative, però, sono spesso irrealistiche, dal momento che provengono da fonti informali come amici o parenti. Quindi, potrebbe essere utile determinare in modo più accurato la durata del periodo di alterazione del sonno, per poter consentire ai genitori di affrontarla al meglio.

Le alterazioni del sonno dopo il parto

Le stime rispetto al tempo che un genitore impiega per tornare ai ritmi di sonno che aveva prima del parto corrispondono al periodo post-partum, quindi circa 6 mesi. Questo periodo inizia con il parto e l’espulsione della placenta, responsabile della secrezione di molti ormoni che alterano i ritmi del sonno; prosegue durante l’allattamento fino a quando il sonno del bambino non si regolarizza seguendo un ritmo prevedibile del ciclo sonno-veglia (Lee, 1998).

Alcuni studi, però, si sono occupati di analizzare il sonno di alcune madri due anni dopo il periodo post-partum e hanno osservato che molte di loro soddisfacevano ancora i criteri per l’insonnia (Sivertsen et al., 2015). Sembra quindi che, nonostante i fattori interni che determinano il ciclo sonno-veglia del bambino si sviluppino tra i 3 e i 6 mesi di vita, e che progressivamente le madri comincino a dormire un numero di ore maggiore, vi siano anche alcuni fattori esterni da tenere in considerazione che influenzano il benessere delle donne, tra cui l’allattamento, l’organizzazione generale della famiglia e il lavoro. In aggiunta, alcuni fattori psicologici che insorgono con la gravidanza e nel periodo perinatale possono causare difficoltà nell’addormentamento delle madri, anche dopo che i figli hanno raggiunto un ritmo del sonno accettabile (Fallon et al., 2016).

 Esistono alcune tappe fondamentali nello sviluppo di un bambino dopo i 6 mesi che contribuiscono a ridurre il carico dei genitori. Tra queste, le principali sono lo sviluppo del linguaggio dopo il decimo mese e l’imparare a camminare ed esplorare l’ambiente circostante al quattordicesimo. Inoltre a 24 mesi i bambini sono più indipendenti, hanno competenze linguistiche sufficienti per comunicare, che li aiutano a gestire le emozioni negative, e sono in grado di focalizzare la loro attenzione lontano dagli stimoli stressanti per gestire più efficacemente il disagio (Dennis, 2006). Sarebbe quindi opportuno estendere fino ai 24 mesi dal parto la ricerca sui disturbi del sonno nelle madri. Tali disturbi possono essere di vario genere, tra cui riduzione o frammentazione del sonno, oppure sonnolenza diurna. L’interruzione del sonno notturno causa sonnolenza diurna, che influisce sulle attività quotidiane delle madri o causa bassa produttività sul lavoro (Lee, 1998). Il problema più comune è la privazione del sonno durante i primi mesi di vita del figlio, spesso associato all’alimentazione, alle cure e ai ritmi di sonno del neonato stesso, che non sono ancora consolidati e i suoi bisogni di nutrimento, affetto, pulizia e attività che non sono ancora sincronizzati con il ritmo dei genitori; sia la madre che il padre sono quindi spesso privati del sonno, in termini di quantità e qualità. Questo porta a svariati effetti negativi sulle relazioni sociali e la salute psicofisica dei genitori (Sharma e Mazmanian, 2003). Uno studio di Okun e colleghi (2018), per esempio, ha riscontrato che i sintomi depressivi e ansiosi di un gruppo di donne erano correlati alla scarsa qualità del sonno.

Il sonno delle madri dopo il primo semestre

Comprendere e mitigare l’impatto che i disturbi del sonno hanno sulla vita delle mamme è quindi importante per la loro salute; per tali ragioni, uno studio di Sánchez-García e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di verificare se la quantità e la qualità del sonno in un campione di madri di neonati nei primi 2 anni di vita del bambino differissero da quelle di donne con caratteristiche simili senza un figlio a carico, e analizzare se le differenze fossero limitate al primo semestre o proseguissero oltre questo periodo. È stato reclutato un campione di 113 donne, alcune delle quali con un bambino di 2 anni, altre invece con un figlio di età superiore ai 6 anni. Queste hanno riferito la durata, le interruzioni e la qualità del sonno, e hanno risposto a questionari sulla qualità del sonno e sulla sonnolenza diurna. Le risposte sono state analizzate al fine di valutare l’ipotesi che sia la qualità sia la quantità del sonno goduto dalle donne con un bambino a carico fossero ridotte rispetto alle altre donne, non solo durante il primo semestre di vita del neonato, ma anche successivamente.

I risultati dimostrano che le madri con neonati hanno il sonno disturbato rispetto ad altre donne: è emersa una relazione positiva tra l’età del bambino e la durata del sonno delle madri, inoltre la durata del sonno per loro era simile a quella delle donne del gruppo di controllo circa 6 mesi dopo la nascita. Tuttavia, la frammentazione del sonno, la sonnolenza diurna e i problemi di sonno erano più elevati per le madri con bambini di età compresa tra 6 e 12 mesi. In conclusione, i risultati evidenziano che i problemi di sonnolenza di una madre non si risolvono entro il primo semestre di vita del bambino. Infatti, sembrerebbe che le madri con figli di 12 mesi sono quelle che necessitano di maggiore aiuto.

 

Attaccamento e vulnerabilità in un’ottica LIBET – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel quinto episodio si parla di attaccamento e vulnerabilità in un’ottica LIBET con il Dott. Walter Sapuppo.

 

Dove ascoltare il quinto episodio:

 

 

Captology: la persuasione 4.0

B. J. Fogg ha approfondito il tema dell’applicazione della captologia evidenziando i ruoli che le macchine possono ricoprire per essere considerate persuasive durante l’interazione con gli umani.

 

Cos’è la captology?

 Il termine captology (o captologia) è stato coniato da B.J. Fogg nel 1996 (dal 2005 l’autore non utilizza più questo termine ma ancora oggi viene usato) a partire dall’acronimo CAPT che sta per “Computers As Persuasive Technologies”. Esprime la possibilità di persuadere le persone mediante l’uso di computer o di tecnologie. In particolare, per comprendere a pieno questo concetto è necessario conoscere cosa vuol dire persuadere.

Cos’è la persuasione?

La persuasione, nell’uso comune del termine, è influenzare le persone facendo fare o pensare loro quello che si vuole. In realtà, da un punto di vista psicologico, questo termine presenta delle difficoltà nella definizione e varia in base allo specifico campo di applicazione. Considerando il campo della captologia, Fogg (2003) ha definito la persuasione come il tentativo di modificare gli atteggiamenti, i comportamenti o entrambi senza l’uso di coercizione o inganno. Quindi, non è necessario obbligare o ingannare qualcuno per promuovere il cambiamento del suo comportamento, è possibile farlo anche attraverso altre modalità come, ad esempio, l’uso di computer, app e altri dispositivi. (Da qui in avanti verrà usato il termine “macchine” per indicare tutte le applicazioni e dispositivi che possono essere usati per persuadere).

Come è possibile persuadere le persone mediante l’uso delle tecnologie?

Una risposta parziale a questa domanda è stata fornita già da Khalil e Abdallah (2013), che hanno esaminato l’efficacia dell’uso di motivatori e avatar personalizzati per incoraggiare le persone a fare più esercizio fisico, a mangiare i cibi giusti e a impegnarsi in stili di vita più sani, evidenziando come questi tipi di applicazioni possano ottenere dei risultati importanti per quanto riguarda la promozione di un cambiamento del comportamento.

Una risposta completa è stata data da B. J. Fogg, che ha elencato le principali proprietà che rendono le macchine più persuasive delle persone.

  • Persistenza. Possono essere molto più persistenti nel tempo e nella richiesta rispetto alle persone. Ad esempio, richiedere più e più volte di registrarsi per accedere a un servizio.
  • Anonimato. Offrono anonimato agli utenti che possono navigare senza che “nessuno” sappia cosa stiano facendo. Un esempio sono le app di dating che consentono di ricercare persone senza la possibilità di essere rintracciati.
  • Dati. Hanno un’enorme quantità di dati da utilizzare per persuadere gli utenti (big data), rispetto a una persuasione fatta da persone in cui si dispone di pochi dati e informazioni.
  • Modalità. Le modalità utilizzabili dalle tecnologie per persuadere sono molteplici e si adattano alle persone mediante l’uso dei big data (video, immagini, musica, etc.), mentre le modalità utilizzabili dalle persone sono molte meno, sia in quantità che qualità.
  • Scalabili. Le macchine possono contare su una rete diffusa che consente loro di trasmettere un messaggio in modo ampio ed efficace. Mentre le persone hanno risorse inferiori e poco efficaci.
  • Ubiquità. L’uso della tecnologia è molto diffuso, ciò implica che la persuasione può avvenire ovunque, mentre le persone non hanno questa capacità.

Mediante queste proprietà appare chiaro come l’uso massivo di tecnologie degli ultimi anni abbia aumentato la possibilità e la facilità nel persuadere le persone. In particolare, B. J. Fogg approfondisce il tema dell’applicazione della captologia evidenziando i ruoli che le macchine possono ricoprire per essere considerate persuasive durante l’interazione con gli umani.

Cosa si intende con “triade di Fogg”?

B. J. Fogg propone la cosiddetta “triade funzionale”, cioè tre principali modalità attraverso cui le macchine riescono a essere persuasive. In particolare, l’autore descrive le macchine come tool, medium e social actor.

1. Tool. Le macchine sono persuasive perché sono viste come strumenti attraverso cui è possibile:

  • Ridurre, ovvero semplificare il più possibile procedure complesse o che richiedono tempo per essere svolte. Un esempio è l’inserimento del tasto “acquista subito” che riduce i tempi necessari per il pagamento, in favore della rapidità e della minore complessità della fase di acquisto.
  • Canalizzare, o “tunneling”, cioè consentono di accompagnare l’utente durante una specifica procedura presentando i passi successivi necessari per portarla a termine. Questo accade, ad esempio, quando bisogna installare un programma e si presentano una serie di passaggi da confermare che semplificano il compito, sviluppando un senso di sicurezza nell’utente, come se entrasse in un “tunnel” in cui può solo proseguire andando avanti.
  • Personalizzazione, o “tailoring tech”, cioè sviluppare tecnologie che diano informazioni su misura e specifiche per la persona. Personalizzare l’esperienza con la tecnologia, proporre informazioni specifiche per la persona invece di quelle generali (ad esempio, scorecard, conoscere in modo specifico l’ambiente prima di andare nel luogo ricercato).
  • Suggerire, o “suggestion tech”, consiste nel fornire un “consiglio” nel momento giusto, così da facilitare e massimizzare la persuasione (viene ripresa l’idea del Dio Kairos, principio del Kairos studiato molto in psicologia, secondo cui, specifiche situazioni rendono le persone facilmente suggestionabili, persuase). Per massimizzare l’effetto ci vuole tempismo e quindi bisogna riconoscere le situazioni adatte ed essere presenti nelle stesse (le macchine sono ubique quindi possono fornire sempre questi suggerimenti).
  • Auto-monitorare, le tecnologie che offrono feedback sono molto persuasive, in quanto le persone usano questi riscontri per direzionare il proprio comportamento per arrivare al cambiamento sperato.
  • Sorvegliare, usare tecnologie per osservare il comportamento delle persone con il loro consenso. In questo modo, le persone attueranno il comportamento desiderato quindi saranno persuase al cambiamento e al mantenimento dello stesso. L’importante è che le persone sappiano di essere “monitorate”, per far sì che l’effetto persuasivo possa presentarsi.
  • Condizionare, indica l’utilizzo di tecnologie con lo scopo di attuare un condizionamento operante, così da poter modificare il comportamento dei soggetti mediante la presentazione di rinforzi positivi una volta raggiunto il comportamento desiderato. (Per esempio: Telecycle, cioè bici collegata alla TV, più si aumenta il passo, maggiore è la nitidezza dell’immagine, viceversa la qualità peggiora).

2. Medium. Le macchine possono essere utilizzate come mediatrici dell’esperienza, ovvero fornire la possibilità di simulare comportamenti o esperienze. Questa simulazione può avvenire in tre modi:

  • Causa-effetto: possibilità di utilizzare le tecnologie per comprendere fin da subito quali potrebbero essere le conseguenze di una specifica causa. Questo consente di poter modificare il comportamento prima che si abbiano delle conseguenze nella “realtà” incentivando un comportamento corretto (esempio: Hiv roulette).
  • Di ambienti: possibilità di ricreare ambienti e poter attuare dei comportamenti in esso. Questo consente di poter replicare alcuni comportamenti anziché altri, così da incentivarne alcuni ed eliminarne altri (esempio: Tectix Vr Bike).
  • Di oggetti:  consiste nell’utilizzare degli oggetti che possono essere usati anche nella realtà e che consentono di simulare l’esperienza, in maniera sicura e controllata, così da comprendere le possibili conseguenze di un dato comportamento (esempio: Drunk Drive).

3. Social actor. Le macchine possono essere anche costruite e percepite come attori sociali. I primi studi di Clifford Nass (2000) hanno dimostrato come le persone traslano dei comportamenti protoumani alle macchine quando interagiscono con esse. Questo senso di reciprocità tra macchina e persona è alla base del terzo fattore della triade di Fogg. Infatti, è possibile persuadere le persone con macchine che diventano attori sociali e quindi sempre più “vicini” alla persona. Questo è possibile mediante l’uso di specifici cue (indizi) sociali.

  • Fisici. La presenza di stimoli fisici quali occhi, faccia, movimenti e corpo nelle “macchine” può indurre una maggiore persuasione (esempio: “Baby take over it”). Questa maggiore persuasione aumenta rendendo la macchina “attraente”. Infatti, l’attrattività sviluppa una serie di comportamenti umani propensi alla fonte di attrazione. Anche se tutto ciò ancora non è ben chiaro, a partire da studi dell’Università di Boston (Parise et al. 1999), si è scoperto che le persone apprezzano in modo “protoumano” che un avatar sia attraente e sono più propensi ad aiutarlo per questo motivo.
  • Psicologici. Le persone attribuiscono delle emozioni, delle preferenze, degli umori e delle personalità alle macchine; ciò può favorire o meno la persuasione. In particolare, studi della Stanford University (Fogg, 2003) sulla collaborazione con macchine, hanno progettato una di queste per avere un “modo di fare” dominante, mentre l’altra aveva un approccio più collaborativo; i risultati finali hanno mostrato che le persone si ritrovano maggiormente con la macchina che è più simile a loro, ampliando quello che è il principio della similarità (siamo più propensi ad aiutare e “stare bene” con persone che sono più simili a noi, in questo caso bisogna aggiungere “le macchine” che sono più simili a noi).
  • Linguaggio. Il linguaggio utilizzato può influire in modo determinante sulla persuasione esercitata tra persone, ma lo stesso può accadere tra macchina e umano. Ad esempio, ricevere un messaggio di avviso “direttamente” dal computer in modo direttivo (“Fai la pulizia del disco”) o in modo non direttivo (“È necessario fare la pulizia del disco, riavvia in seguito?”) può far variare il comportamento applicato dagli utenti.
  • Dinamiche sociali. Le macchine possono persuadere mediante l’utilizzo delle dinamiche sociali. In uno studio di Clifford Nass (2000) si sono formati due gruppi che avevano il compito di portare a termine un compito mediante l’utilizzo di un computer. Attraverso alcuni accorgimenti un computer è stato reso “più collaborativo”, mentre l’altro “meno collaborativo”. Dopo aver concluso il primo compito, si chiedeva a entrambi i gruppi, di aiutare il computer a scegliere alcuni colori per il proprio desktop. Il gruppo che aveva lavorato con il computer “collaborativo” era maggiormente disposto a dare una mano mentre il gruppo con il computer “poco collaborativo” era più restio a portare a termine il secondo compito. Questo mostra come ci possa essere una reciprocità anche tra umani e macchine.
  • Ruolo sociale. Ultimo cue sociale, utile alla persuasione, è il ruolo sociale “rappresentato” dalla macchina. Si è scoperto che le persone vengono influenzate da immagini, titoli o testi che rimandano a ruoli sociali rilevanti (dottore, ingegnere, etc.) quando sono associati a software o a tecnologie che hanno funzioni simili ai ruoli sociali di riferimento (esempio: Dottor Norton).

La captologia è pericolosa o può essere utilizzata per promuovere il benessere delle persone?

 I principi della captologia, così come qualsiasi tecnologia e strumento utilizzato dall’umano, possono essere usati sia per promuovere il benessere delle persone sia per persuadere il comportamento per altri scopi. Nel primo caso, i principi della captologia sono stati e vengono tuttora applicati per la progettazione di dispositivi wearable (indossabili), che consentono di ottenere un feedback riguardo a diversi parametri fisiologici con la possibilità di salvaguardare il proprio benessere (ad esempio, i principi usati in questo caso sono la personalizzazione, l’auto-monitoraggio, la sorveglianza e il condizionamento). Quando invece lo scopo è diretto ad altri risultati è possibile usare questi principi, per esempio, per invogliare il consumo di cibo e bevande, come venne ipotizzato nel laboratorio di Stanford (the Mc Bear Experiment). L’idea era di sfruttare un geo-localizzatore contenuto dentro a un orsetto venduto dalla nota catena di fast food che consentisse di emettere una richiesta ogni qual volta la persona si avvicinasse nei paraggi di un fast food, applicando il principio di Kairos così da suggestionare la persona.

Concludendo, l’utilizzo della captologia è nelle mani di tutti noi, quindi sia chi produce questi dispositivi sia chi li utilizza è bene che tenga a mente la possibilità di essere persuasi da delle macchine.

 

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