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Improving Public Access to effective Psychological Therapies (IAPT): lezioni dal programma inglese – Report

Lo IAPT (Improving Public Access to effective Psychological Therapies) mira a formare un gran numero di psicoterapeuti per erogare i trattamenti psicoterapici di consolidata efficacia indicati dal NICE per le problematiche comuni di salute mentale su tutto il territorio inglese.

 

Recentemente ha avuto luogo online il Forum Biennale di Ricerca in Psicoterapia delle Scuole della rete nazionale di Studi Cognitivi – Formazione, che ha visto protagonisti gli specializzandi e alcuni ospiti speciali internazionali. Nello specifico, il keynote del Dott. David Clark ha aperto la giornata del 7 Maggio 2022.

L’intervento del Dott. Clark, introdotto dal Prof. Ruggiero, ha riguardato la discussione dell’esperienza inglese del programma pubblico IAPT per l’erogazione di cure psicologiche, di cui il Dott. Clark è il principale fautore.

Le necessità per le quali nasce il programma IAPT

Il dato preoccupante, con cui il Dott. Clark motiva l’importanza del programma riguarda la percentuale di popolazione adulta che, nel 2007, nel Regno Unito, ha ricevuto assistenza psicologica basata su evidenze empiriche per problematiche di salute mentale legate ad ansia e depressione, che equivale a meno del 5%. In aggiunta, gli utenti avrebbero atteso in molti casi più di un anno prima di iniziare il trattamento. A livello socioeconomico, invece, ansia e depressione non trattate producono un decremento del PIL del 4%, causato dall’assenteismo sul luogo di lavoro, e un incremento dei costi per la sanità pubblica nazionale.

Tali dati acquistano rilevanza alla luce di quanto raccomandato dalle linee guida cliniche del National Institute for Health and Care Excellence (NICE), ente di autorevolezza globale che si occupa proprio di revisionare gli studi di efficacia dei vari interventi psicologici. Dunque, le linee guida NICE, come interventi di prima scelta per problemi di salute mentale comuni (ovvero disturbi d’ansia e depressivi), indicano terapie psicologiche basate su prove di efficacia scientifica (es., Cognitive and Behavioral Therapy; CBT) di breve durata, fino a 14-20 incontri. Inoltre, sembra che alcuni sondaggi abbiano mostrato che le persone preferiscono le psicoterapie ai farmaci, in un rapporto di 3:1. Tuttavia, sembra che in nessun paese del mondo le terapie psicologiche siano più diffuse di quelle farmacologiche.

La soluzione IAPT: in cosa consiste?

Lo IAPT è il servizio attuato in Inghilterra per promuovere l’accesso alla psicoterapia, in modo da sopperire alle necessità appena citate. Il programma, nato da una coalizione di clinici, ricercatori ed economisti, è attivo dal 2008 ed è stato implementato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.

Lo IAPT mira innanzitutto a formare un gran numero di psicoterapeuti (attualmente sono 9.800 gli specialisti che fanno parte del programma) per erogare i trattamenti di consolidata efficacia indicati dal NICE, valutando e monitorando le loro competenze nel corso del tempo. L’obiettivo primario è quello di distribuire i servizi di assistenza psicologica in base a livelli di gravità (modello Stepped Care) per le problematiche comuni di salute mentale su tutto il territorio inglese. Il modello Stepped Care prevede una gradazione degli interventi in funzione dell’entità dei bisogni del paziente e implica differenti condizioni di trattamento che vanno da quelli a bassa intensità (es., interventi psicoeducativi o gruppi di auto-mutuo-aiuto) a quelli ad alta intensità (es., psicoterapia o integrazione di farmaci). Ciò consente di trattare il maggior numero di persone possibile e raggiungere il più alto grado di remissione della sintomatologia (NCCMH, 2021), oltre che monitorare, e quindi misurare, l’andamento clinico di tutti i pazienti che gravitano nel sistema di cure psicologiche.

Attualmente questo sistema registra oltre 1 milione di accessi ogni anno, 640.000 persone hanno completato un ciclo di trattamento, l’attesa media è di 20 giorni e si hanno importanti dati clinici (pre-post intervento) per il 99% dei pazienti. Inoltre, la soddisfazione degli utenti rispetto all’ascolto e all’aiuto ricevuto è molto alta (91-98%).

Cosa si può imparare dai dati a oggi?

L’accesso ai dati clinici riguardanti l’andamento di tutte le tipologie di intervento del programma e la loro conseguente analisi consente di migliorare l’erogazione delle cure fornite.

Per esempio, è stato osservato che seguire le raccomandazioni delle linee guida NICE per la scelta del trattamento garantisce una maggiore percentuale di remissione. Così come una descrizione accurata del problema e bassi tempi di attesa (<6 mesi) aumentano la probabilità di guarigione dei pazienti. Inoltre, sono stati registrati risultati migliori laddove era maggiore il numero medio di sessioni (>10). Un altro dato interessante è il divario emerso in termini di risultati del percorso terapeutico in base alle diverse aree sociali: nelle zone più socialmente svantaggiate del Paese il grado di remissione era inferiore; perciò, l’obiettivo è stato quello di incrementare la qualità delle cure erogate.

Poi il Covid-19. Il programma IAPT, come tutti i servizi, non era preparato a una pandemia. Tuttavia, prevedendo che le misure pandemiche e il virus stesso avrebbero influito sulla salute mentale dei cittadini, i professionisti hanno deciso di mantenere attivo il programma, adattandolo rapidamente alle nuove misure di sicurezza. Dunque, sono stati implementati servizi di terapia da remoto (es., video e telefonate) e formazione online (es., webinar e risorse web) per i clinici rispetto alle nuove modalità. Ciò ha consentito al programma di assistere e curare lo stesso numero di pazienti trattati nella condizione non-pandemica. Nonostante l’efficacia delle modalità remoto-in presenza sia quasi equiparabile, il Dott. Clark riporta che alcuni pazienti da subito hanno rifiutato il format da remoto, per i quali sono state mantenute le forme in presenza; invece, altri pazienti dopo la fine della pandemia, potendo scegliere la modalità, hanno preferito tornare alla modalità faccia-a-faccia.

Un ulteriore aspetto rispetto al quale il programma si sta organizzando riguarda la gestione della comorbilità tra psicopatologie e condizioni fisiche a lungo termine, poiché attualmente non sono previsti interventi coordinati tra salute fisica e mentale. Infatti, i dati mostrano un’elevata percentuale di comorbilità (40%) nelle persone con depressione o ansia che presentano anche una malattia fisica a lungo termine (es., diabete, problemi cardiovascolari o respiratori). Ciò ha ricadute economiche importanti in termini di assistenza sanitaria fisica.

I primi risultati dello IAPT-LTC (IAPT-Long Term Conditions) hanno mostrato dei buoni risultati in termini di recupero (48%) e miglioramento (65%), una significativa riduzione dei costi di assistenza sanitaria fisica e un aumento del 9% dell’occupazione in termini lavorativi dei pazienti. Questo specifico programma adesso diventa utile anche per la gestione del long-covid.

Cosa può essere migliorato?

Nonostante i risultati soddisfacenti e promettenti ottenuti in 14 anni di attività del progetto, il dott. Clark sostiene che, migliorando la strutturazione del programma, si possa superare il tasso di remissione, che attualmente rispetto al numero di sessioni è in media del 50%. Infatti, è stato osservato che la maggior parte degli utenti ha ricevuto da 2 a 7 incontri di trattamento. Tuttavia, per coloro che hanno ricevuto solo 2 sessioni (perché magari hanno deciso di interrompere la terapia) i tassi di remissione e miglioramento sono molto bassi; invece, all’aumentare del numero di sessioni vi è un incremento anche delle percentuali di remissione e miglioramento, che raggiungono picchi rispettivamente del 65% e 75% circa. Un dato interessante, emerso dalle analisi condotte sulle informazioni acquisite dai monitoraggi clinici, rivela che i tassi di remissione e miglioramento diminuiscono oltre 29-30+ sessioni terapeutiche.

La discussione avviata dal dott. Clark sul tema della diffusione delle terapie psicologiche evidence-based ha contribuito ad arricchire il dibattito che si sta svolgendo attualmente anche in Italia (es., pubblicazione del documento della Consensus Conference, la conferenza sulle terapie psicologiche efficaci per i disturbi d’ansia e depressivi e il loro implemento sul territorio). Il tema della discussione è stato successivamente ripreso dallo stesso David Clark, da Steven Hollon e da Giovanni Maria Ruggiero durante l’interessante Tavola Rotonda.

Come as you are. Risveglia e trasforma la tua sessualità – Recensione

Il libro Come as you are parla senza filtri di sesso, piacere, eccitazione e desiderio al femminile provando a rispondere, senza tabù e senza utilizzare ricette preconfezionate, alle tante domande che frequentemente le donne si fanno, animate dalla volontà di migliorare la propria vita sessuale.

 

 L’autrice, Emily Nagoski, ha lavorato come educatrice e docente presso il Kinsey Institute for Research in Sex, Gender, and Reproduction, tenendo corsi universitari e specialistici inerenti alla sessualità umana, alle relazioni e alla comunicazione.

Alla luce delle competenze maturate nel suo percorso professionale e formativo –dottorato sui comportamenti legati alla salute, in riferimento alla sessualità umana, conseguito presso la Indiana University e laurea in Psicologia presso l’Università del Delaware– si occupa di tematiche legate al benessere della vita sessuale da diversi anni, adottando un taglio divulgativo, condito da una sana dose di ironia, senza tuttavia banalizzare temi complessi o rinunciare al rigore scientifico.

Il testo in esame propone alle lettrici di promuovere il benessere sessuale attraverso la conoscenza di sé e del proprio corpo. La parola d’ordine è rifuggire dalle generalizzazioni, per poter imparare a capire qual è il proprio modo, unico per ogni donna, di vivere la sessualità in modo spontaneo e soddisfacente.

I sensi di colpa, il timore di non essere “come le altre”, la vergogna, vengono alleggeriti dalla consapevolezza che il sesso non è riconducibile ad una prestazione da adempiere, ma è, a partire dalla fase di eccitazione, un comportamento complesso influenzato da numerosi fattori, legati alla persona, al contesto e alla relazione.

 In questo senso ogni donna può provare a intraprendere un viaggio alla scoperta del proprio corpo e delle proprie emozioni, un viaggio non giudicante per poter capire cosa le piace, cosa la fa stare bene e cosa la mette a disagio. Invece di criticare sé stessa nella errata convinzione che le sensazioni e le emozioni che prova non siano adeguate, perché non corrispondono alle aspettative, proprie e/o altrui.

Nagoski, attraverso esempi e storie cliniche di sue pazienti, spiega, rassicura e incoraggia le lettrici a vivere bene nel proprio corpo, offrendo informazioni tecniche, risposte a dubbi più frequenti, spunti di riflessione utili a identificare i messaggi interiori ed esteriori che impattano, in senso positivo o negativo, su come il sesso viene vissuto.

Nove capitoli di prosa scorrevole per sfatare falsi miti e per aiutare ogni donna a comprendere meglio quale sia il suo personale modo di trarre piacere e benessere dal proprio corpo, concedendosi di vivere una sessualità serena e appagante.

 

Il ruolo del trasporto mentale nella nostalgia

La nostalgia, nei film o nei contenuti mediatici, solitamente è caratterizzata dal tema del rivivere momenti passati o da flashback.

 

 Il rivivere sembra essere una componente importante dell’esperienza nostalgica. Nel corso degli anni sono state date differenti definizioni alla nostalgia, la quale talvolta è descritta come un’emozione che implica sentimentalismo e malinconia (Sedikides et al., 2015), a cui altre volte vengono aggiunte componenti cognitive come riflettere e rivivere (Hepper et al., 2012). Sebbene spesso sia descritta come negativa, perché associata a una sensazione di mancanza, la nostalgia può includere invece gioia e contentezza ed è un’emozione universale che tutti sperimentano nell’arco della vita. Comporta una riflessione tenera e affettuosa su eventi importanti del passato, accompagnata da un sentimento di rimpianto.

I benefici della nostalgia

Diversi studi in letteratura hanno scoperto che provare nostalgia può avere tre benefici psicologici:

  • il primo è un aumento della connessione sociale e il senso di accettazione e appartenenza (Sedikides e Wildschut, 2019);
  • il secondo è il rafforzare la percezione che la propria vita abbia un significato personale (Routledge et al., 2012);
  • l’ultimo è invece un aumento dell’autostima, dell’ottimismo, dell’aspirazione e in particolare della continuità del sé ovvero la connessione tra sé passato e sé presente (Sedikides e Wildschut, 2020).

Tuttavia, non è ancora chiaro il modo tramite il quale provare l’emozione nostalgica possa conferire tali benefici (Van Tilburg et al., 2015). Inoltre, alcuni studi hanno evidenziato che ricordare eventi passati non nostalgici non porta gli stessi risultati (Van Tilburg et al., 2015).

Una possibile spiegazione è quella che la nostalgia non coinvolga soltanto la memoria, e quindi il ricordo di dettagli di alcuni eventi importanti, ma includa anche un viaggio mentale nel tempo che consente di rivivere l’esperienza come se si fosse lì tramite la coscienza autonoetica. Quest’ultima è una forma di traslazione mentale basata sull’immaginazione e associata al recupero della memoria episodica e quella autobiografica. Durante la codifica di un ricordo di un evento importante, immagini dettagliate associate all’evento (suoni, sapori, ecc) diventano parte dello schema di memoria per quell’evento e al momento del recupero vengono riattivate tramite un processo di attivazione diffusa; tale attivazione permette di rivivere il ricordo in modo fluente (Conway e Pleydell-Pearce, 2000). A causa della loro importanza personale, infatti, questi eventi sono stati debitamente apprezzati e dunque è più probabile che siano impregnati di immagini, codificati in modo più elaborato e con maggiore probabilità di essere ricordati in maniera dettagliata (Abeyta et al., 2015).

Trasporto mentale e nostalgia

Tra i processi di memoria basati sull’immaginario vi è il trasporto mentale, nel quale gli individui lasciano mentalmente il loro spazio fisico attuale e si trasferiscono in una narrazione (Green e Brock, 2000). Dal momento che il trasporto mentale svolge funzioni simili a quelle della nostalgia, è possibile che sia richiamato da quest’ultima. Quando un evento nostalgico viene rievocato si attivano dapprima le conoscenze specifiche codificate come parte di quell’evento, incluse le immagini; successivamente, rivivendo l’evento, le persone vengono sempre più trasportate mentalmente in esso, immaginandolo con tutti i suoi dettagli. Grazie al trasporto mentale, infatti, i benefici della nostalgia sopra menzionati aumentano. Un esempio di collegamento tra nostalgia e trasporto mentale è ben espresso nel libro di Proust, “La strada di Swann” (1992, pp. 36-39) in cui l’autore assaggiando una madleine ricorda le fette di torta con cui la zia lo accoglieva da bambino, nella sua camera da letto. Tale ricordo nostalgico lo trasporta in quelle visite, trasformandosi in un’esplosione di immagini, suoni e profumi.

 Nel 2021 Evans e colleghi hanno voluto approfondire il ruolo del trasporto mentale utilizzando il diario giornaliero e due esperimenti, in un campione di 514 soggetti. Nel primo studio gli autori hanno ipotizzato che le esperienze quotidiane di nostalgia e di trasporto mentale fossero positivamente correlate. In particolare, che la propensione alla nostalgia fosse positivamente associata alle esperienze nostalgiche quotidiane e al trasporto mentale quotidiano e che nei giorni in cui i partecipanti avessero riferito di essere più nostalgici, essi avrebbero riportato un trasporto mentale più elevato. Nei successivi studi, invece, hanno ipotizzato che il ricordo di un evento autobiografico nostalgico (rispetto a quello ordinario) fosse collegato a un aumento del trasporto mentale auto-riferito e che il ricordo nostalgico (rispetto a quello ordinario) conferisse più benefici psicologici. I partecipanti hanno completato la Southampton Nostalgia Scale (SNS; Sedikides et al., 2015) che misura la propensione alla nostalgia, alcune domande sul trasporto mentale giornaliero derivate dalla scala di Green e Brock (2000), e la scala del trasporto mentale (Green e Brock, 2000). Inoltre, i soggetti hanno completato valutazioni giornaliere che misuravano i pensieri, i sentimenti, i comportamenti e gli eventi quotidiani dei partecipanti.

I risultati mostrano che esiste un legame tra la nostalgia e il trasporto mentale: la propensione alla nostalgia era associata positivamente alla frequenza delle esperienze di trasporto mentale giornaliero e, nello specifico, la nostalgia giornaliera prediceva il trasporto mentale giornaliero. Inoltre, negli studi in cui sono stati utilizzati i due esperimenti è emerso che il ricordo di un evento nostalgico della propria vita (rispetto a quello autobiografico ordinario) era associato a una maggiore fluidità del trasporto mentale. Dall’ultimo esperimento il trasporto mentale è risultato essere associato positivamente agli stessi benefici psicologici della nostalgia. È stato osservato infatti che il trasporto mentale media l’influenza benefica della nostalgia sulla connessione sociale, sul significato della vita, sull’ottimismo, sull’ispirazione e sull’auto-continuità.

Il trasporto mentale sembra essere quindi un meccanismo chiave alla base dei benefici psicologici della nostalgia e può contribuire a influenzare atteggiamenti, emozioni e intenzioni (Murphy et al., 2013).

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Nel libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale si percorre un viaggio all’interno della Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), dai suoi esordi fino ad arrivare agli sviluppi più recenti.

 

Ciascun approccio viene presentato sostenendo l’importanza della formulazione condivisa del caso, base unica per una efficace gestione dell’alleanza terapeutica e della relazione, da cui dipende il risultato del trattamento.

Se è vero che per raggiungere obiettivi clinici è necessario intervenire a livello trattamentale, ciò risulta impossibile senza una chiara visione, nella mente del terapeuta, del caso clinico, ovvero delle cause della sofferenza del paziente. L’orientamento CBT è basato sulla collaborazione ed il paziente gioca un ruolo attivo nel percorso del suo cambiamento: senza una chiara visione del suo disturbo, difficilmente riuscirà a muoversi consapevolmente verso obiettivi chiari.

Per tale motivo non si può prescindere da una preliminare formulazione condivisa del caso clinico. Inizialmente utilizzata all’interno della psicoterapia comportamentale, che applicava i principi della teoria dell’apprendimento, essa veniva schematizzata in antecedenti, risposte comportamentali e conseguenze, fornendo un’analisi funzionale del comportamento. In tal modo era possibile identificare specifiche situazioni attivanti il comportamento disfunzionale e ciò che lo rinforzava, mantenendolo attivo.

Aspetto centrale di tutti gli approcci CBT è il principio clinico cognitivo per il quale i disturbi emotivi dipendono da contenuti mentali distorti che possono essere rielaborati attraverso la riattribuzione verbale cosciente. Ciò presuppone che ciascun evento, interno o esterno, venga elaborato e valutato in termini cognitivi, conducendo, di conseguenza, a specifiche risposte, emotive e comportamentali. Non è, dunque, l’evento specifico, come erroneamente spesso il paziente crede, a condurre alla risposta, in quanto quest’ultima è mediata dal soggetto stesso, ovvero dal suo sistema di credenze e convinzioni. Laddove si verifica un cambiamento comportamentale, si presuppone, pertanto, uno shift cognitivo verso sistemi di pensiero maggiormente funzionali.

Tali punti vengono approfonditi nei vari approcci CBT in maniera differente, al punto da condurre a diverse formulazioni del caso.

Beck, padre della Terapia Cognitiva, attenziona le ‘credenze negative sul sé’, quali colpevoli dirette del disturbo psicologico: rendere il paziente cosciente dei suoi bias cognitivi lo porterebbe, nel lavoro clinico, a poter togliere le lenti distorte, per guardare il mondo con occhi differenti. Sebbene Beck abbia parlato fin dall’inizio di empirismo collaborativo, le critiche mossegli dai costruttivisti riguardano la matrice eccessivamente direttiva e meccanicistica, nonché razionalista, di tale modus operandi, che vedrebbe, almeno all’inizio, il paziente essere spettatore passivo di tale disvelamento. Beck ha, comunque, il merito di aver incluso, fin dall’inizio, la formulazione condivisa del caso nella procedura terapeutica, pur utilizzando un nome differente. Il terapeuta utilizza le componenti del Diagramma di Concettualizzazione Cognitiva (Cognitive Conceptualization Diagram [CCD]; Beck, 2011), focalizzando credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, al fine di condividere con il paziente un modello della psicopatologia, volto a favorire la defusione dai pensieri.

A partire dall’identificazione dei pensieri automatici, in seno a situazioni specifiche, si procede con la tecnica del downward arrow (freccia verso il basso), per disvelarne il significato personale e profondo, ovvero per identificare i bisogni dell’individuo.

La CBT standard, almeno nella sua formulazione esplicita, sembra trascurare il ruolo svolto dagli scopi, ovvero dalle motivazioni e dai piani, senza i quali le credenze svolgerebbero una mera funzione epistemica. Particolarmente rilevanti sono, in tale ottica, gli anti-scopi sovrainvestiti, ovvero gli scenari temuti, inaccettabili nella mente del paziente. Un caso ben formulato deve individuare non solo l’anti-scopo, che blocca il paziente, ma anche gli obiettivi sani, che fungono da bussola per la psicoterapia.

Senza conflitti tra scopi, le credenze perdono qualsiasi colore emotivo e non possono acquisire potere patogeno.

L’essere umano disinveste uno scopo laddove questo viene percepito come improduttivo, troppo costoso, o quando è legittimo o doveroso ridurlo.

Nella Terapia Emotiva Razionale del Comportamento (Rational-Emotive Behaviour Therapy; REBT) di Ellis, il terapeuta condivide sin da subito i principi ed il razionale del trattamento, ovvero la procedura ABC-DEF, sottolineando la connessione B-C (pensieri-comportamenti). A partire dall’analisi degli obiettivi funzionali (F), il terapeuta mette in discussione, attraverso la disputa (D), le credenze irrazionali, al fine di perseguire il pensiero funzionale, o nuovo effetto (E).

A differenza della CBT, nella REBT siamo di fronte ad una formulazione del problema, piuttosto che a una formulazione del caso: ogni singolo ABC-DEF è relativo ad una singola situazione e non ricondotto ad una struttura di credenze di base.

Dalla fine degli anni Novanta si assiste ad una svolta nel panorama delle scienze cognitive applicate alla psicoterapia, con l’affermarsi delle terapie di processo di ‘terza ondata’, quali l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la Functional Analysis Psychotherapy (FAP).

A differenza di quanto pensava Beck, i modelli di processo della terza ondata suggeriscono che i disturbi emotivi non dipendono da rappresentazioni mentali distorte di sé, bensì sono il frutto dell’interazione disfunzionale tra processi volontari e regolatori, quali attenzione e controllo esecutivo, e processi associativi automatici, carichi emozionalmente.

Se nella CBT tradizionale il focus terapeutico era il cambiamento, tali approcci raccomandano flessibilità nel bilanciare accettazione e cambiamento.

Nella Schema Therapy di Jeffrey Young la formulazione del caso assorbe elementi processuali, mantenendo un forte interesse per gli schemi del sé, che, tuttavia, mostrano anche un forte aspetto emotivo ed interpersonale. Tali caratteristiche interpersonali, i cosiddetti modes, risultano modelli stereotipati e inflessibili, nati dalle esperienze infantili. In tal modo l’attenzione si sposta dal momento presente alla storia di apprendimento del paziente, con lo scopo di identificare i momenti salienti in cui ha interiorizzato credenze patogene, che verranno trattate in terapia con l’imagery, il role playing, la rieducazione esperienziale.

Il testo propone nella parte finale il modello LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased Beliefs, Elicitation and Treatment; Sassaroli et al., 2016). Con l’obiettivo di fornire al paziente una spiegazione del suo disturbo emotivo e al fine di monitorare i progressi della terapia vengono analizzati tre diversi ABC:

  • ABC del presente (problema attuale);
  • ABC di apprendimento (episodi di esperienza e apprendimento di temi e piani);
  • ABC di invalidazione (episodi precipitanti e/o insorgenza del problema).

Una volta raccolti gli episodi, questi vengono riassunti in temi di vita (stati mentali di attenzione focalizzata sulle sensibilità emotive rappresentate nella coscienza come credenze di sé) e piani semi-adattivi (rigide strategie di gestione dei temi di vita).

Dunque, il processo di concettualizzazione consiste nella costruzione del modello clinico, e questa è tra le più sofisticate abilità del terapeuta. Negli approcci CBT, i clinici, spesso assorbiti dall’esplorazione delle credenze irrazionali e delle distorsioni cognitive, hanno potuto sottovalutare la condivisione esplicita della formulazione del caso, dandola per scontata.

Nel corso del tempo, una crescente consapevolezza sembra essere emersa nella letteratura CBT: è necessario istruire esplicitamente il terapeuta a condividere la formulazione del caso con il paziente. È facile perdere questa consapevolezza perché troppi passi possono sembrare ovvi agli occhi del terapeuta, il quale quindi rischia di non condividerli con il paziente.

La formulazione del caso deve essere il primo passo nella presa in carico del paziente e deve essere condivisa, al fine di favorire l’alleanza di lavoro; tuttavia, non è da intendersi come uno schema definitivo, ma, al contrario, può essere revisionato, modificato, arricchito in corso d’opera. Al suo interno occorre includere fattori predisponenti, precipitanti, di mantenimento e fattori protettivi: occorre capire cosa ha generato lo scompenso e su quali risorse può contare il paziente.

 

Uno sguardo sul ruolo dei social media nei disturbi alimentari

Un terzo degli adolescenti affetti da disturbi alimentari hanno riportato di aver visualizzato contenuti inerenti al fitness sui social media, e di aver imparato nuove tecniche per perdere peso o per compensare l’assunzione di cibo.

 

Social media e fitspiration

 I social media sono tra gli strumenti di comunicazione più utilizzati dai giovani (Carrotte et al., 2015). Il lavoro di influencer è diventato oramai una vera e propria professione, soprattutto sui social media più famosi, come Instagram e TikTok dove, tramite alcune funzioni come il like o i tag, si possono condividere con gli altri alcuni contenuti che gli influencer inseriscono sulle proprie pagine. Navigando sui social media, infatti, si possono trovare un’infinità di contenuti diversi, molti di questi relativi al fitness. Grazie alla possibilità di utilizzare questi strumenti per diffondere informazioni rapidamente, anche l’ambiente del fitness ha iniziato a espandersi digitalmente, rendendo i social media una diffusa fonte di informazioni riguardo ad allenamenti, diete e forma fisica in generale. Tra i contenuti che si possono trovare, uno di questi è chiamato “fitspiration”, che rappresenta la tendenza a ispirare le persone a raggiungere obiettivi inerenti alla forma fisica o alla salute, quasi sempre attraverso l’esercizio fisico o la dieta. I tipici contenuti che gli influencer del fitness condividono con i propri followers sono immagini o video che contengono dei corpi muscolosi e quasi totalmente privi di massa grassa, uniti a frasi motivazionali che hanno lo scopo di attivare, in chi visualizza questi post, la voglia di raggiungere la forma fisica che viene mostrata. Un altro contenuto a scopo motivazionale che viene spesso utilizzato è la strategia del “prima e dopo”. Attraverso questa storia l’influencer racconta come, da una iniziale condizione di disagio verso il proprio corpo in sovrappeso o estremamente magro, sia riuscito a raggiungere la forma fisica a cui tanto aspirava attraverso il duro allenamento o una particolare dieta. Altri messaggi che si possono trovare sui social media riguardano alcune diete particolari che permettono di perdere molto peso in poco tempo proponendo dei regimi alimentari “detox”. Infine, è possibile che siano anche le stesse aziende che producono determinati prodotti relativi al fitness a pubblicizzare l’efficacia dei propri prodotti sui social media.

I contenuti che si possono trovare sui social media sono quindi moltissimi e spesso possono essere delle armi a doppio taglio (Carrotte et al., 2015). Infatti, i social media possono avere un ruolo fondamentale nel modellare la credenza che ha un individuo riguardo il proprio corpo e il proprio peso. Queste credenze possono essere indotte e/o alimentate dalla continua esposizione dell’individuo a contenuti con immagini e video di fisici ideali con i quali inevitabilmente ci si compara, con il rischio che si giunga a esperire sentimenti negativi verso il proprio corpo o body shaming rivolto verso sé stessi. È inoltre frequente che gli individui che decidono di condividere con i propri followers i successi raggiunti in realtà non concentrino l’attenzione sul progresso, bensì su aspetti negativi che secondo loro sono ancora presenti. Un esempio potrebbe essere un individuo che condivide la propria foto dopo alcuni mesi di allenamento e, nonostante un miglioramento generale della forma fisica, come descrizione scrive “sono ancora molto grasso”, puntando il focus non sugli obiettivi raggiunti ma su ciò che ancora c’è da migliorare. Quello che non risulta essere di conoscenza comune, è che i contenuti che vengono condivisi dagli influencers sono quasi sempre immagini o video che vengono modificati o ritoccati per mostrare solamente il meglio.

Dalla fitspiration ai disturbi alimentari

 Circa un terzo degli adolescenti affetti da disturbi alimentari hanno riportato di aver visualizzato contenuti inerenti al fitness sui social media, e di aver imparato nuove tecniche per perdere peso o per compensare l’assunzione di cibo (Carrotte et al., 2015). Secondo alcuni studiosi (Holland e Tiggermann, 2017) la crescente espansione di questi fenomeni è preoccupante, soprattutto alla luce di alcuni siti web in cui vengono condivisi messaggi riguardanti la perdita di peso, con lo scopo di indurre sensazioni di colpa nei lettori. Così come la continua promozione e normalizzazione di comportamenti estremi legati all’ambito alimentare, con frasi come “digiunare va bene, vomitare va bene, le lacrime vanno bene, il dolore va bene, rinunciare è inaccettabile” (Holland e Tiggermann, 2017). Un interessante studio condotto da Holland e Tiggermann (2017) ha dimostrato che molte donne che condividono messaggi legati alla fitspiration, e che quindi condividono contenuti apparentemente “sani”, hanno in realtà riportato un punteggio maggiore per quanto riguarda la presenza di disturbi alimentari ed esercizio compulsivo.

Anche se il messaggio iniziale di allenarsi e mangiare correttamente per stare in salute ha uno scopo positivo, non sono state pienamente considerate tutte le conseguenze negative che possono derivare dalla condivisione di tale contenuto a un pubblico non informato (Holland e Tiggermann, 2017). L’associazione tra disturbi alimentari e social media è molto forte, e i crescenti numeri di persone che sviluppano disturbi alimentari a causa dei social media è un fatto preoccupante, che necessita di maggiore attenzione e sensibilizzazione soprattutto per i giovani utenti.

 

Diventare un professionista certificato della Mindfulness: intervista alla Federazione Italiana Mindfulness

Conosciamo la Federazione Italiana Mindfulness, la comunità italiana degli istruttori di mindfulness il cui Presidente è il prof. Gioacchino Pagliaro, psicologo e psicoterapeuta, direttore dell’U.O.C. di Psicologia Clinica Ospedaliera dell’AUSL di Bologna, già docente di psicologia clinica dell’Università di Padova.

 

Perché è nata la Federazione Italiana Mindfulness?

La Federazione Italiana Mindfulness è nata per tutelare i professionisti della Mindfulness con lo scopo di diffondere e promuovere cultura, pratiche e protocolli Mindfulness di qualità sul territorio italiano.

In Italia, nell’ultimo decennio è notevolmente cresciuto l’interesse per questa pratica e per la sua applicazione in ambito clinico, sanitario e del benessere per la persona. In risposta a questa crescente attenzione, si sono diffusi numerosi corsi di formazione in Mindfulness, spesso poco professionali, che hanno contribuito al dilagare di professionisti non preparati adeguatamente.

La Federazione ha inoltre l’obiettivo di riconoscere la formazione a coloro che abbiano conseguito percorsi certificati con un’elevata qualità formativa. Per assolvere a questo compito, la Federazione si avvale di un Comitato Tecnico Scientifico composto da professori e professionisti che lavorano nel campo della Mindfulness da più di vent’anni.

La Federazione è l’ente che certifica la formazione per ottenere le Certificazioni e gli Open Badge Nazionali ed Internazionali. Di cosa si tratta nello specifico?

La Federazione è referente per l’Italia di protocolli Mindfulness tutelati da copyright. Inoltre garantisce gli Open Badge Nazionali ed Internazionali che sono sistemi di certificazioni utilizzati dalle più importanti università del mondo e che vengono riconosciuti ai professionisti che acquisiscono competenze in relazione a determinati ambiti della Mindfulness, riconoscono la competenza attraverso la formazione secondo determinate linee guida.

A seconda dei percorsi formativi svolti, siano essi master di ampio respiro piuttosto che corsi su specifici protocolli, i professionisti possono vedersi riconosciuti uno o più Open Badge attestanti la competenza acquisita.

I protocolli della Mindfulness su cui formarsi sono svariati, ricordiamo tra i più importanti l’MBSR – Mindfulness Based Stress Reduction, per la riduzione dei livelli di stress generali, per il trattamento dei disturbi d’ansia, dolore cronico e numerosi disturbi medici e l’MBCT – la Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per la riduzione dei sintomi depressivi e per prevenire il rischio di una ricaduta depressiva.

Com’è possibile farsi riconoscere Certificazioni e Open Badge?

Grazie alla collaborazione con prestigiosi enti di formazione e università italiane abbiamo iniziato a certificare e accreditare corsi e master di elevato livello, la cui frequenza consentirà automaticamente l’ottenimento di specifiche certificazioni e Open Badge.

Nel caso di formazione tramite altri percorsi di studio, il Comitato Tecnico Scientifico dei docenti e del programma e valuterà il grado di conoscenza di protocolli e pratiche Mindfulness al fine di assegnare le relative Certificazioni e Open Badge. Il professionista così riconosciuto avrà quindi diritto ad essere inserito nell’Albo Nazionale Mindfulness.

A proposito di questo, perché l’esigenza di un Albo Nazionale Mindfulness?

L’Albo Nazionale Mindfulness è uno strumento a tutela del professionista e dell’utenza in quanto registra solo i professionisti certificati. L’inserimento e l’aggiornamento dei dati sull’Albo Nazionale Mindfulness sono gratuiti. Da quando è nato, stiamo osservando le molte potenzialità dell’Albo: oltre a essere una vetrina pubblicitaria per il professionista e uno strumento di promozione, aiuta gli utenti a trovare un professionista della Mindfulness in relazione all’area geografica e alle specifiche competenze di cui ha necessità.

Oltre all’impegnativo compito di cui si sta facendo carico la Federazione, ci sono altri obiettivi sul piano di lavoro?

Certamente. La Federazione si impegna ogni giorno nella promozione della cultura della Mindfulness attraverso i suoi canali divulgativi (social e web), proponendo news e aggiornamenti ai propri professionisti e a tutte le persone interessate alla Mindfulness. Inoltre, si impegna nell’accreditamento di seminari, workshop e percorsi per promuovere la formazione continua dei professionisti certificati.

Siamo inoltre già al lavoro per la realizzazione, nel 2023, del Congresso Nazionale di Mindfulness, che vedrà la partecipazione di grandi professionisti e farà il punto della situazione sulle più recenti teorie e pratiche in uso.

Per il resto, il nostro desiderio costante è creare una realtà che appartenga ai suoi membri, in cui ci sia un continuo scambio di idee, in cui ciascuno si senta vicino agli altri e possa condividere le sue esperienze per crescere insieme come professionista e come persona.

Un’ultima domanda. Dove è possibile trovare informazioni relative alla Federazione Italiana Mindfulness?

È possibile accedere a tutte le informazioni relative alla Federazione Italiana Mindfulness sul sito federmindfulness e sulla Pagina Facebook federmindfulness.

Consultando il sito potrete rimanere aggiornati su tutti gli eventi, i corsi di formazione e le news della Federazione. È inoltre possibile consultare il sito dell’Albo Nazionale Mindfulness.

 

La psiche del serial killer – Intervista all’autore del libro

La psiche del serial killer: Leonardo Abazia ci parla del suo libro in cui esplora quali sono gli aspetti che hanno destato nelle menti dei serial killer una destabilizzazione tale da portarli a togliere la vita ad altri esseri umani.

 

 Leonardo Abazia ci presenta in un’intervista il suo nuovo libro La psiche del serial Killer. Analisi psicopatologica nelle storie degli assassini seriali, che offre al lettore un viaggio nelle storie di tredici noti serial killer, proponendo per ciascuno di loro un intrigante approfondimento dei profili psicologici e descrivendo, così, alcune psicopatologie attraverso le quali il male può mostrarsi.

Intervistatrice: Come è nata l’idea di affrontare un tema così complesso? 

Dr L. Abazia: L’idea nasce da un corso in criminologia che ho tenuto per diversi anni. L’argomento mi ha molto affascinato e ho notato come manchi, in letteratura, un libro che descriva il serial killer nelle sue rappresentazioni psicodiagnostiche. Proprio per questo ho voluto soffermarmi  sull’aspetto prettamente psicologico piuttosto che su quello criminologico di questi killer, indicando per ciascuno di loro una specifica patologia prevalente, attraverso la descrizione del comportamento, il racconto delle storie di vita e l’analisi degli atti.

Si è tentato di spiegare la cornice teorica e i costrutti sottostanti che sono alla base del comportamento deviante. La peculiarità di questo libro è che è lo stesso serial killer a rappresentare la sua patologia, attraverso la ricostruzione della sua storia di vita, del suo background socio-culturale e della sua carriera criminale.

Intervistatrice: Quali sono le ragioni che spingono un individuo a diventare serial killer?

Dr L. Abazia: Mi pone una domanda molto complessa, che implica una serie di piani di riflessione: filosofici, psicologici, criminologici e sociologici.

Freud affermò più di cent’anni fa “Proprio l’imperiosità del comando “non uccidere” ci assicura che discendiamo da una serie lunghissima di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere”.

Gli aspetti morali del Super-Io non possono mai essere sottostimati, poiché l’aggressività e il piacere dell’uomo di uccidere sono sempre pronti a emergere in ogni individuo. Ciò ha spinto l’uomo, nel corso dello sviluppo della civiltà, a porre dei limiti al proprio istinto amorale.

Del resto i recenti avvenimenti di cronaca, come il conflitto contro il popolo ucraino, ci mostrano continuamente come le persone siano capaci delle più malvagie atrocità e barbarie nei confronti dei loro simili… Anche nella maggior parte delle storie criminali, contenute nel libro, ritroviamo l’attuazione di sevizie, torture, soprusi e violenze, di cui, molto spesso, sono stati gli stessi serial killer vittime. Si potrebbe quindi supporre che tali individui abbiano interiorizzato quel tipo di modalità di relazione violenta con l’altro, giungendo a ritenerla perfino normale.

Intervistarice: È possibile individuare dei segnali che ci permettano di riconoscere che siamo di fronte a una mente pericolosa? 

Dr L. Abazia: Non esistono segnali specifici che ci permettono di capire di essere in presenza di un serial killer. Si possono riscontrare, infatti, psicopatologie, presenti nei criminali seriali, anche in individui che non manifestano comportamenti devianti e non intraprendono carriere criminali vere e proprie. Nel corso degli anni molti studiosi hanno cercato di individuare delle caratteristiche salienti comuni ai serial killer. In particolare, nel libro riporto le classificazioni di Newton e Keniston, i quali si focalizzano rispettivamente sui segnali riscontrabili nell’infanzia-adolescenza e nella vita adulta. Nel primo caso Newton sottolinea l’importanza di manifestazioni quali l’isolamento sociale, il comportamento irregolare, l’attività sessuale precoce e bizzarra, il comportamento autodistruttivo. Keniston, invece, evidenzia l’aspetto relazionale deficitario e introduce il concetto di “sindrome dell’alienazione”, le cui caratteristiche principali sono sfiducia, pessimismo, alienazione interpersonale, sociale e culturale, disprezzo di sé ecc.

Senza dubbio un elemento che accomuna le diverse personalità descritte nel libro è la storia di abusi e violenze subiti nell’infanzia, che non hanno permesso lo sviluppo di quella che Bowlby chiama “base sicura”, che si configura come modello delle future relazioni dell’individuo.

Non si può, quindi, mai parlare di segnali specifici ma di segnali aspecifici, riscontrabili anche in altre situazioni al limite.

Intervistatrice: C’è tra le storie esplorate una che l’ha colpita di più? Se sì quale?

Dr L. Abazia: Nonostante tutte le storie presentate nel libro suscitino molto fascino, poiché ognuna mette in luce aspetti e patologie differenti, senza dubbio quella che più mi ha colpito è la coppia West. La ricostruzione dell’infanzia e della relazione di questi spietati serial killer permette di comprendere l’influenza che diversi fattori e situazioni possono avere sull’escalation del comportamento criminale. Fred e Rosemary hanno un’infanzia simile, entrambi sono cresciuti in una famiglia in cui l’incesto era una pratica normale, perché i figli appartenevano ai genitori che potevano fare di loro ciò che volevano. Hanno subito abusi e violenze arrivando a credere che questo modo di fare fosse quello comune, assumendolo come proprio insieme di valori e norme apprese e interiorizzate. I due si conoscono alla fermata dell’autobus e da lì inizia la loro relazione che ben presto avrà come oggetto sevizie, torture e violenze ai danni di donne sconosciute e delle stesse figlie.

 La peculiarità di questa storia è che ci mostra come due personalità, fortemente disturbate, quando si trovano e si legano insieme creano una danza dove ognuno trascina e porta l’altro nelle sue fantasie violente, macabre e impensabili.

Questo fenomeno viene chiamato “foliè a deux”, termine introdotto da due psichiatri francesi Lasègue e Farlet. La patologia si contraddistingue dalla presenza di due personalità agli antipodi: una persona dominante (in questo Rosemary) e una persona sottomessa (Fred), che si fondono l’un l’altra fino a divenire un’unica entità.

Questa danza, infatti, non ha fine fino a quando Rosemary non riconosce più Fred come suo partner, scomponendo l’entità creata precedentemente. A causa della rottura dell’incantesimo Fred non ha più senso di esistere e pone fine alla sua vita, interrompendo definitivamente la loro danza perversa.

Intervistatrice: Quanta responsabilità ha la società nella nascita di un serial killer? Si potrebbe trovare secondo lei un modo per aiutare questi individui ed intervenire prima che diventino pericolosi per gli altri? 

Dr L. Abazia: Considerato che nelle società moderne si è molto accentuato il fenomeno, soprattutto in quelle in cui c’è anomia sociale possiamo rispondere che sicuramente la società ha una responsabilità elevata. La globalizzazione ha accentuato la mobilità, eliminando un po’ il controllo sociale, che permetteva di sorvegliare/sostenere “l’altro”, diminuendo così il rischio di efferatezze. La società dovrebbe assumersi maggiore responsabilità, sia rispetto al contesto di riferimento di una persona sia rispetto al sostegno e supporto di un individuo a seguito di violenze e abusi subiti; elementi spesso alla base del comportamento criminale futuro.

Per quanto attiene la modalità di aiuto di un individuo prima che diventi pericoloso, quindi per ciò che riguarda attività di prevenzione primaria e/o secondaria, le rispondo ancora una volta con la difficoltà di trovare una risposta ed una spiegazione esauriente; anche perché spesso il disturbo è ego sintonico, nel senso che il reo non lo percepisce come un qualcosa di cui liberarsi, quindi non chiede aiuto. A volte è una sfida che fa verso le forze dell’ordine, verso la società, ma non un vero e proprio aiuto che chiede verso l’esterno. Se consideriamo che una parte, quelli più organizzati, hanno una vita simile alla nostra, ci rendiamo conto che non sono persone che vogliono essere aiutate ma spesso tendono a mantenere una doppia vita. È comunque estremamente difficile. Per spiegare al meglio quanto la società può essere influente, riporto una citazione di Aileen Wurnous “Non ho avuto un processo giusto. Mi avete sabotata. La società, la polizia, una donna stuprata è stata giustiziata. Siete disumani (…) e vi faranno saltare in aria molto presto e succederà. Non si prende così una vita umana, sabotandola e distruggendola come dio in croce. Grazie tante, società per avermi fatto il culo. Avete preso una donna stuprata e mandata al creatore.”

 

La difficile relazione tra adolescenti e videogiochi – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo La difficile relazione tra adolescenti e videogiochi

 

Tra i vari media di intrattenimento, i videogames sono senz’altro quelli più giovani, ma allo stesso tempo anche quelli che negli ultimi decenni hanno avuto il più rapido sviluppo. L’interattività è ciò che ha sempre distinto i videogames da altre forme d’intrattenimento, ma è proprio tale caratteristica, che permette al videogame di esercitare un potenziale di immersività e attrazione, che altri media non hanno, che ad oggi potrebbe costituire un rischio per gli adolescenti; oltre al fatto che spesso si parla di pericolosità di emulazione.

Tutto ciò, sin dagli anni 90’, ha portato ad un dibattito scientifico e sociale riguardo al ruolo dei videogames nella società, e ai loro effetti sulla psiche umana, tanto da portare ad oggi a parlare di dipendenza da videogames (gaming disorder).

Ma è realmente così complicata e difficile la relazione tra adolescenti e videogames? Lo scopriamo in questo episodio del podcast State of Mind, condotto dal Dott. Fabrizio Goffredo, Psicologo, Psicoterapeuta:

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Fame. Trattare i disturbi alimentari con la mentalizzazione (2022) – Recensione

I disturbi alimentari rappresentano una delle patologie più complesse nell’ambito dei disturbi mentali. Diversi ricercatori hanno evidenziato difficoltà di autoregolazione in questa tipologia di disturbi, che si manifestano nei pazienti come deficit nell’identificazione e descrizione delle proprie emozioni; una compromissione delle capacità di mentalizzare le esperienze emotive degli altri; problemi di attenzione e deficit della funzione esecutiva.

 

Creando un ponte tra la tradizione psicodinamica, quella cognitivo-comportamentale e quella sistemica e narrativa, l’orientamento basato sulla mentalizzazione aiuta il clinico a elaborare un protocollo di intervento che permetta di affrontare i molteplici fattori alla base del disturbo alimentare, offrendo un trattamento centrato sulla persona e fondato sulla relazione terapeutica, per riuscire a stabilire un contatto anche con il paziente apparentemente più irraggiungibile e difficile.

Il libro presentato può essere definito un manuale, in quanto illustra un modello di trattamento per i disturbi della condotta alimentare, partendo da una introduzione teorica e storica. Tuttavia, non include descrizioni dettagliate di tecniche e strategie seduta per seduta, perché il focus principale di questo trattamento risiede nella creazione di una relazione terapeutica stabile e sicura; andrà dunque ad approfondire, nello specifico, “l’arte dell’incontro”, perché “solo un paziente che si sente al sicuro trova il coraggio di cambiare” (pag. 29).

Gli autori iniziano definendo i disturbi del comportamento alimentare come “gravi forme di compromissione della capacità di mentalizzare le esperienze emotive proprie e altrui” (pag. 8). Cosa si intende per mentalizzazione? Si intende una forma di conoscenza emotiva e consiste nella normale capacità di attribuire intenzioni e significati al comportamento umano e di riflettere sulla propria mente e su quella degli altri. Invece di agire in modo impulsivo, trainati da forti emozioni, possiamo utilizzare la mente per valutare la situazione e per agire modalità di comportamento più adattive e costruttive. Un’adeguata capacità di mentalizzare è dunque alla base della flessibilità mentale, dell’autoregolazione e della costruzione di relazioni significative.

Secondo gli autori di questo trattato, il nucleo psicopatologico dei disturbi dell’alimentazione consiste in un “senso del sé deficitario” (pag. 19); si tratta di pazienti che mancano di consapevolezza delle proprie esperienze interiori e sono incapaci di affidarsi ai propri pensieri, sentimenti e sensazioni corporee, arrivando dunque a sperimentare una enorme angoscia interiore. In questa tipologia di pazienti ci sono vari aspetti del funzionamento mentale che presentano delle anomalie; in particolare, la difficoltà nell’espressione e nel riconoscimento delle emozioni, deficit della mentalizzazione e distorsioni del pensiero, che possono avere conseguenze negative sulla capacità di risoluzione dei problemi, sulla gestione delle relazioni interpersonali e sul coinvolgimento in terapia. Utilizzando il linguaggio della mentalizzazione si può dunque affermare che questi disturbi sono il risultato di deficit dell’autoregolazione e della regolazione affettiva.

All’interno del volume viene descritto il trattamento basato sulla mentalizzazione applicata ai disturbi alimentari (Mentalization Based Therapy for Eating Disorders; MBT-ED), il quale pone l’accento sull’incontro terapeutico, creando le condizioni affinché il paziente si senta sufficientemente al sicuro; in questo modello, la terapia è quindi un legame di attaccamento, e si pone l’obiettivo di aiutare il paziente a provare meno solitudine e di accompagnarlo nella co-costruzione di nuove narrazioni su di sé e sugli altri. Da quanto scritto si evince che il modello della mentalizzazione affonda sicuramente le sue radici nella tradizione psicodinamica, ma si concentra anche sui processi cognitivi ed emotivi, stabilendo quindi un ponte tra la tradizione psicoanalitica e quella cognitiva.

Stabilire un’alleanza terapeutica soddisfacente è una delle principali difficoltà da affrontare nel lavoro con questi pazienti, molti dei quali interrompono la terapia o presentano una motivazione al trattamento molto instabile. Nonostante l’attenzione di molti trattamenti per i disturbi alimentari si sia concentrata su questa tematica, gli studi continuano a rilevare un alto tasso di abbandono della terapia; il trattamento basato sulla mentalizzazione si focalizza dunque sulla creazione di un’alleanza terapeutica sana, e dedica dunque molta attenzione alle capacità che il terapeuta deve maturare. Ma quali sono le abilità e competenze del terapeuta MBT? Esse consistono, in primo luogo, nella capacità di adottare un atteggiamento indagatore e una posizione del “non sapere”, che comunica al paziente un interesse sincero e genuino, poi nella capacità di comunicare al paziente in maniera diretta, autentica e trasparente e infine nell’abilità di accompagnare il paziente nella mentalizzazione, aiutandolo a esplorare i suoi stati mentali. Non meno importanti risultano essere la capacità di stabilire una relazione basata sul sostegno e sull’empatia e quella di adottare un atteggiamento positivo e incoraggiante, stimolando il paziente al cambiamento. Anche le capacità di chiarificazione, esplorazione e confutazione degli stati emotivi interni risultano fondamentali per sostenere il paziente nel processo di riconoscimento, accettazione e cambiamento dei vissuti e dei pensieri ad essi correlati.

La seconda parte del volume descrive proprio la struttura del trattamento MBT-ED, il quale è costruito con l’esplicita intenzione di stimolare la mentalizzazione da una parte, dall’altra di ridurre la sintomatologia alimentare (terapia “a doppio binario”, pag. 134). Deve essere considerato un trattamento a lungo termine, che prevede una combinazione di lavoro psicoeducativo di gruppo, terapia individuale, terapia di gruppo, uso attivo di formulazioni del caso scritte, di piani di crisi e di bilanci periodici.

Il lavoro psicoeducativo di gruppo è il lavoro iniziale, di “preparazione al trattamento”. Lo scopo in questa fase è quello di preparare i pazienti e di accrescere la loro motivazione. All’interno di queste sedute verranno approfondite le tematiche inerenti al concetto di mentalizzazione e di disturbo alimentare. La terapia di gruppo, che per molti pazienti è considerata la parte di trattamento più complessa, è un setting imprescindibile all’interno del quale praticare la mentalizzazione. I terapeuti hanno il ruolo di promuovere attivamente le interazioni, monitorando le attivazioni e le modalità non funzionali, spronando sempre i pazienti a “tenere a mente la mente dell’altro” (pag. 202). Un ruolo rilevante è rivestito sicuramente dalla terapia individuale, spazio all’interno del quale il paziente può portare le tematiche che emergono nei gruppi, discuterle e rielaborarle. La formulazione del caso è una narrazione che contribuisce a dare coerenza alla storia del disturbo, collegando il presente al futuro, mentre il piano d’azione/crisi è un documento che suggerisce come gestire le forti attivazioni fisiche ed emotive. Entrambi sono strumenti che promuovono il lavoro multidisciplinare e contribuiscono alla chiarificazione degli obiettivi del trattamento e del percorso di cura, essendo stesi in collaborazione con il paziente.

Anche il lavoro con le famiglie è fondamentale, dal momento in cui verosimilmente all’interno del nucleo familiare i pazienti hanno imparato modalità non-mentalizzate, e rappresenta dunque il contesto ideale per promuoverla. La terapia familiare basata sulla mentalizzazione (MBT-F) utilizza pratiche derivate da diverse tradizioni sistemiche e pratiche più prettamente psicodinamiche. Lo scopo del trattamento è trasformare i circoli viziosi in circoli costruttivi per le interazioni familiari, promuovendo la mentalizzazione genitoriale, lavorando molto anche sulla coppia (si tratta dunque di una terapia combinata).

Come si è detto più volte, il lavoro nel campo dei disturbi alimentari mette a dura prova la capacità di metalizzazione del terapeuta stesso, il quale può venire a contatto con emozioni intense (paura, rabbia, frustrazione, impotenza), motivo per cui risulta di fondamentale importanza un costante lavoro di supervisione. La qualità del trattamento è collegata non solo alla capacità del terapeuta di applicare l’MBT nelle sedute, ma anche all’efficacia del lavoro di squadra tra i vari membri dell’équipe coinvolti. La funzione essenziale della supervisione è di stimolare i terapeuti e l’équipe a riflettere sui pazienti, sulla pratica clinica e sul lavoro di squadra.

Dopo aver esposto i contenuti del manuale, vorrei concludere questo articolo con alcune considerazioni. Secondo il modello di intervento descritto in questo libro è sicuramente importante prestare attenzione a livello sintomatologico ai meccanismi che mantengono il disturbo alimentare, ma è altrettanto importante che la persona apprenda a “conoscersi meglio, a sperimentare sé stesso e a potenziare le sue abilità” (pag. 275). L’area della socialità, infatti, è terribilmente compromessa nella maggior parte delle persone che soffrono di queste problematiche, si può quindi assistere a gravi situazioni di isolamento e solitudine. Queste situazioni possono protrarsi anche dopo la remissione del disturbo, motivo per cui è fondamentale intervenire anche su questo aspetto delle competenze e delle abilità relazionali. Gli autori del volume sostengono che la mentalizzazione rappresenti il nucleo centrale di qualsiasi intervento psicologico; nel libro si sono concentrati sui disturbi del comportamento alimentare, evidenziando come il trattamento di queste patologie potenzialmente fatali sia stato ostacolato da una serie di fattori, come la paura delle critiche nei sistemi sanitari o le preoccupazioni relative alla sicurezza dei pazienti. Tali influenze hanno condotto i professionisti a restringere la loro prospettiva, concentrandosi esclusivamente sulla sfera somatica e focalizzando gli interventi sul corpo e sul peso. Lo scopo degli autori è invece quello di educare i professionisti a un approccio duplice, che tenga in considerazione non solo le conseguenze fisiche dei disturbi alimentari, ma anche i processi psicologici e gli stati emotivi che li accompagnano. Gli autori sostengono che “il modello della mentalizzazione possa rispondere appieno a questa esigenza, perché è essenzialmente non cartesiano e riconosce l’integrazione tra mente e corpo” (pag. 257).

 

Disturbi Alimentari e uso di sostanze nei giovani

Gli anni dell’università, spesso ricondotti al passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta, comportano un elevato rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari e uso di sostanze stupefacenti (Sawyer et al., 2018).

 

Studi sperimentali infatti dimostrato che i disturbi alimentari insorgono generalmente prima dei 25 anni (ad es., Silén et al., 2020) e, allo stesso modo, il consumo di sostanze, fatta eccezione per la marijuana, si sviluppa generalmente dopo l’inizio dell’università e può continuare fino all’età adulta (Arria et al., 2017). Entrambe le condizioni comportano gravi conseguenze per i giovani: i disturbi alimentari, ad esempio, sono spesso associati a complicazioni di salute fisica (Demmler et al., 2020), a comorbilità psichiatriche (Udo e Grilo, 2019) e a una diminuzione del rendimento scolastico (Eisenberg et al., 2009). Il consumo di droghe è associato a lesioni e overdose non intenzionali, autolesionismo e suicidio, malattie infettive, disturbi cognitivi e diminuzione dei risultati accademici e lavorativi (Hall et al., 2016). In forma grave, entrambi possono portare alla morte (Centers for Disease Control and Prevention, 2018).

Tra gli studenti universitari, le stime di prevalenza dei sintomi di disturbi alimentari sono comprese tra il 9 e il 29% per le donne, tra il 3 e il 16% per gli uomini (Ganson et al., 2020) e circa il 14% per gli studenti transgender (Lipson e Sonneville, 2017). Analogamente, circa il 30% degli adulti in età universitaria (19-28 anni) riferisce di fare uso di sostanze stupefacenti (Schulenberg et al., 2019). Spesso i disturbi alimentari e i disturbi da uso di sostanze si presentano in comorbilità, complicando il trattamento e, spesso, portando a scarsi risultati (Udo e Grilo, 2019).

È stato ipotizzato che l’associazione tra i due risieda in aspetti biologici, psicologici e sociali, tra cui la storia familiare, le caratteristiche di personalità, le difficoltà di regolazione delle emozioni (Gregorowski et al., 2013).

L’associazione tra disturbi alimentari e uso di sostanze tra gli studenti universitari

Uno studio di Ganson e colleghi (2021) è tra i pochi ad aver esplorato le associazioni presenti tra i disturbi alimentari (misurati sia attraverso strumenti di screening che attraverso diagnosi auto-riferite) e il consumo specifico di droghe in un campione ampio e diversificato di studenti universitari.

Complessivamente, i risultati hanno mostrato che i partecipanti con disturbi alimentari avevano maggiori probabilità di fare uso di droghe. In particolare, tra le sostanze più utilizzate era presente la marijuana. L’uso della marijuana non desta particolare stupore data la facile reperibilità e l’uso ormai comune di questa sostanza. Infatti, nonostante essa sia classificata come sostanza illegale, l’uso di marijuana a fini ricreativi e medici è legale in molti Paesi negli Stati Uniti. Dal 2014 al 2019 il consumo di marijuana è aumentato costantemente tra i giovani adulti, con oltre un quarto (26,7%) che ne ha riferito l’uso nel 2019 (Schulenberg et al., 2019). Tuttavia, l’utilizzo di marijuana da parte di persone con disturbi alimentari incuriosisce visti i comuni effetti collaterali dell’aumento dell’appetito. Saranno necessarie ulteriori ricerche per esplorare la relazione tra sintomi di disturbi alimentari (ad esempio, abbuffate) e uso di marijuana.

È stata inoltre riscontrata una forte associazione tra disturbi alimentari e uso di oppioidi, di benzodiazepine ed ecstasy: le probabilità di farne uso tra persone con disturbi alimentari è oltre due volte maggiore rispetto a persone senza disturbi alimentari.

Anche la cocaina e le metanfetamine si sono rivelate particolarmente utilizzate in questo campione; in particolare, coloro che sono risultati positivi allo screening per i disturbi alimentari avevano una probabilità quasi quattro volte maggiore di consumare tali sostanze. Alla base dell’utilizzo di queste sostanze potrebbe esserci la ben dimostrata e tipicamente precipitosa perdita di peso associata all’uso di queste due sostanze dati i loro effetti collaterali di soppressione dell’appetito (Bruening et al., 2018). Visti gli esiti di perdita di peso associati all’uso di specifiche droghe (ad esempio, stimolanti, cocaina, metanfetamine), la ricerca futura dovrebbe indagare l’uso di sostanze stupefacenti tra i soggetti con disturbi alimentari nelle diverse categorie di BMI (Body Mass Index [Indice di massa corporea]).

L’impulsività come punto in comune tra i disturbi alimentari e l’uso di sostanze

L’associazione tra disturbi alimentari e consumo di sostanze stupefacenti può essere spiegata a livello teorico e biologico. Ad esempio, è stato proposto che gli individui che soffrono di disturbi alimentari, in particolare di bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata, e quelli che fanno uso di sostanze condividono il tratto comune dell’impulsività (Dawe e Loxton, 2004). Allo stesso modo, le difficoltà di regolazione delle emozioni sono comuni tra le persone che soffrono di disturbi alimentari e fanno uso di sostanze, questi comportamenti possono essere utilizzati come meccanismi di coping (Aldao et al., 2010).

Esistono anche fattori di rischio genetici che sono associati sia ai disturbi alimentari sia all’uso di sostanze (Munn-Chernoff et al., 2020). Pertanto, è probabile che esistano fattori multipli che collegano i disturbi alimentari e il consumo di sostanze stupefacenti. Tuttavia, ciò che potrebbe essere meno chiaro è la direzione di questa relazione. Ad esempio, è possibile che i comportamenti alimentari disfunzionali insorgano per primi e portino solo in seguito all’uso di droghe. In questo caso, l’uso di droghe può essere un mezzo per regolare ulteriormente le emozioni o per sostenere i comportamenti disfunzionali nell’alimentazione (per esempio, sopprimere l’appetito). Allo stesso modo, è possibile che l’uso di droghe avvenga prima e che il ricorso ad alcuni comportamenti (per esempio, abbuffate e purghe) avvenga successivamente a causa della mancanza di controllo dell’impulsività.

Saranno necessarie ricerche longitudinali per comprendere meglio la natura della relazione esistente tra disturbi alimentari e uso di sostanze. È importante che nella pratica clinica i professionisti effettuino valutazioni approfondite per i giovani che si presentano in strutture sanitarie per comportamenti alimentari disfunzionali o per uso di droghe, per garantire l’identificazione e il trattamento adeguati del problema. Inoltre, la prevenzione nei confronti dei disturbi alimentari dovrebbe essere accompagnata da contenuti relativi all’uso di sostanze, poiché se si cerca di prevenire uno solo di questi problemi si rischia di non affrontare la natura co-occorrente di questi comportamenti potenzialmente ad alto rischio.

 

Le metacredenze influenzano i sintomi depressivi e ansiosi nel Parkinson

Al Forum di Ricerca in Psicoterapia è stato presentato il lavoro delle Dott.sse Viviana Cereda, Giulia Anchora, Marta Fanfoni e Cristina Ferretti dal titolo “Metacredenze e processi cognitivi influenzano i sintomi depressivi e ansiosi nella Malattia di Parkinson”.

 

La Malattia di Parkinson (MP) è una patologia neurodegenerativa ad andamento lento e progressivo e di eziologia multifattoriale. È caratterizzata da sintomi motori, tremore che esordisce a riposo, bradicinesia e rigidità muscolare, e non motori, tra i quali disturbi vegetativi, deficit cognitivi, depressione e ansia, che sono il focus dello studio presentato.

Depressione e ansia nella malattia di Parkinson

La depressione è presente in circa il 40% dei pazienti con malattia di Parkinson, anche se la diagnosi è complicata dal fatto che diversi sintomi tipici della depressione, come la fatica, l’insonnia, le alterazioni dell’appetito, l’alessitimia e il rallentamento psicomotorio, si sovrappongono a sintomi della malattia di Parkinson. Anche per quanto riguarda l’ansia l’occorrenza è elevata, in quanto si presenta nel 30% circa dei pazienti. I disturbi d’ansia più frequenti nella malattia di Parkinson sono l’ansia generalizzata, gli attacchi di panico e le fobie.

I sintomi ansiosi e depressivi possono presentarsi in diverse fasi della malattia: possono essere prodromici, quindi precedenti alla comparsa di sintomi motori, reattivi alla diagnosi oppure possono comparire lungo il decorso di malattia.

Ansia e depressione si associano a una prognosi più sfavorevole. Un’area di ricerca non ancora del tutto compresa è quella che indaga l’impatto dei processi psicologici, come ruminazione e rimuginio, sulla sintomatologia di questi pazienti.

Lo studio presentato si è basato sulla formulazione teorica di Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva (MCT), che ha posto al centro del suo modello la metacognizione, ovvero il pensiero applicato al pensiero, che monitora, controlla e valuta il processo e il prodotto della coscienza, ponendo come centrale nei disturbi affettivi la presenza di un pensiero perseverante e pervasivo chiamato Sindrome Cognitivo Attentiva (CAS).

Malattia di Parkinson e metacredenze: lo studio

La ricerca presentata ha indagato nella malattia di Parkinson la relazione tra sintomi depressivi e ansiosi, processi di ruminazione e rimuginio e metacredenze, partendo da due ipotesi fondamentali: i sintomi depressivi nella malattia di Parkinson sono associati alla presenza di metacredenze e processi ruminativi, e i sintomi ansiosi nella malattia di Parkinson sono associati alla presenza di metacredenze e processi rimuginativi. Il fine ultimo dello studio era il corretto inquadramento dei sintomi affettivi caratterizzati da componenti cognitive nella malattia di Parkinson, all’interno della pratica clinica.

È stato condotto uno studio osservazionale, correlazionale e multicentrico nel quale i soggetti hanno compilato una batteria testale comprendente BDI-II, BAI, RRS, PSWQ, MCQ-30. Sono state poi condotte analisi descrittive, correlazionali e regressioni multiple.

È emersa un’associazione positiva tra metacredenze, processi (ruminazione e rimuginio) e sintomatologia ansioso-depressiva, con una forte influenza delle metacredenze negative sui sintomi affettivi.

Data la prevalenza della depressione e dell’ansia nella malattia di Parkinson è utile riflettere sulla relazione tra sintomatologia, metacredenze e ruminazione. Si tratta del primo studio che esamina il ruolo di processi, metacredenze e sintomi affettivi nella malattia di Parkinson. Emerge il ruolo predominante della CAS nell’ingravescenza e nel mantenimento dei sintomi depressivi e ansiosi aprendo quindi al possibile utilizzo di un nuovo protocollo CBT sui sintomi affettivi nella malattia di Parkinson, comprendente il trattamento di processi e metacredenze, come la Terapia Metacognitiva.

Riassumendo, questo studio ha dimostrato una forte correlazione tra i sintomi depressivi e ansiosi e le metacredenze negative. Le componenti cognitive di questi disturbi dell’umore caratterizzano la gravità dei sintomi stessi e pertanto possono diventare l’obiettivo principale del trattamento cognitivo-comportamentale. Al fine di ridurre la sintomatologia depressiva e ansiosa nella Malattia di Parkinson, potrebbe essere utile stilare un protocollo specifico sui processi e le metacredenze associati alle caratteristiche depressive e ansiose.

 

La Sindrome Premestruale nei paesi in via di sviluppo e la sua relazione con lo stile di vita e le variabili psicosociali

La donna, prima delle mestruazioni, necessarie per il rinnovamento del rivestimento uterino ai fini di una gravidanza, può sperimentare la Sindrome Premestruale (Premenstrual syndrome; PMS).

 

La Sindrome Premestruale

 La Sindrome Premestruale è un disturbo che include sintomi comportamentali, fisiologici ed emotivi che si manifestano durante l’ultima settimana della fase luteale, di solito dopo il tredicesimo giorno del ciclo mestruale. I sintomi possono insorgere in qualsiasi periodo dell’età riproduttiva e possono influenzare negativamente la vita delle donne per diversi giorni (Begum et al., 2016). La Sindrome Premestruale è stata descritta per la prima volta come una “tensione premestruale” (Frank, 1931), termine che poi è stato modificato in “sindrome” in quanto alcuni studiosi hanno notato come comportasse molti più sintomi di una tensione emotiva (Richardson, 1995). I sintomi infatti possono essere più di 100 e i più comuni sono sbalzi d’umore, irritabilità, cefalea, crampi addominali, gonfiore addominale, gonfiore e tensione mammaria, e variazioni dell’appetito. A seconda dell’intensità, delle caratteristiche e della gravità dei disagi che una donna esperisce nella fase premestruale si distinguono: la Sindrome Premestruale di grado lieve, la Sindrome Premestruale di grado moderato, la Sindrome Premestruale grave e infine il Disturbo Disforico Premestruale (DDPM). Quest’ultimo è caratterizzato da irritabilità, disforia e ansia, accompagnate da sintomi comportamentali e fisici che hanno un effetto negativo sul lavoro o sul funzionamento sociale; la qualità della vita di una donna può quindi peggiorare drasticamente, compromettendo le sue capacità relazionali e sociali (APA, 2013). Poiché non esiste un biomarcatore chimico oggettivo della PMS, la diagnosi della Sindrome Premestruale dipende dai sintomi e dalla relazione con la fase luteale.

Sebbene ci siano diverse teorie inerenti l’eziologia della Sindrome Premestruale, nessuna tra queste è scientificamente provata (Thys-Jacobs, 2006); si è riscontrato, però, che fattori sociodemografici e psicosociali possono influenzarla, così come l’indice di massa corporea (BMI) che spesso può influire sulla presenza della PMS

Diversi studi mostrano che la Sindrome Premestruale colpisce un numero molto elevato di giovani donne: una ricerca sulla prevalenza della PMS nei vari Paesi ha riportato che il 47,8% delle donne in tutto il mondo ne soffre; tra queste, le stime epidemiologiche indicano che il 75% in età riproduttiva manifesta alcuni dei sintomi, mentre dal 3% all’8% riportano sintomi estremamente gravi (Steiner, 2000). Non tutte le donne quindi soffrono di Sindrome Premestruale con la stessa intensità: coloro che soffrono di PMS lieve o moderata presentano sintomi soprattutto fisici e poco invalidanti; mentre nella Sindrome Premestruale grave si riscontra una ciclica comparsa di tristezza e irritabilità associate asintomi somatici durante la tarda fase luteale e premestruale. Inoltre, le donne tra i 30 e i 40 anni sono colpite più intensamente in quanto spesso hanno impegni che comportano maggiori carichi di stress, tra i quali famiglia e lavoro. 

Alcuni sintomi della PMS possono essere gestiti tramite diversi cambiamenti nello stile di vita, tra cui le abitudini alimentari, imparare a gestire lo stress, registrare quotidianamente i sintomi, fare esercizio fisico, pratiche di rilassamento e igiene del sonno (Malik e Bhat, 2018). Oltre a ciò, ci sono alcune sostanze come sale, caffeina, cioccolato, tabacco e alcol che, se ridotti o eliminati, portano a un miglioramento della sintomatologia. 

La Sindrome Premestruale nei Paesi in via di sviluppo

La letteratura sulla PMS dimostra che spesso tale problema è molto trascurato, soprattutto in alcuni Paesi in via di sviluppo dove le circostanze economiche, politiche e sociali hanno un forte impatto sullo stato psicosociale delle donne che può influire sulla loro salute. Uno studio trasversale del 2021, di Abu Alwafa e colleghi, ha tentato quindi di colmare questa lacuna indagando la prevalenza della Sindrome Premestruale tra le studentesse universitarie palestinesi e la sua relazione con la depressione, l’ansia, lo stress e lo stile alimentare. L’obiettivo dei ricercatori era quello di sottolineare l’esigenza di preparare e implementare programmi di supporto ed educativi per le donne con Sindrome Premestruale da parte di università, centri comunitari e altri enti. 398 studentesse sono state quindi incluse per partecipare allo studio e sono state loro sottoposte l’Arabic Premenstrual Scale (A-PMS; Algahtani e Jahrami, 2014) per valutare la Sindrome Premestruale; il Depression Anxiety and Stress Scale (DASS-21; Moussa et al., 2017) per valutare alcune variabili psicosociali e un questionario che comprendeva domande sulle informazioni personali e sulle abitudini alimentari. I risultati mostrano che tutte le partecipanti (100%) soffrivano di qualche sintomo della Sindrome Premestruale: ciascuna di loro (100%) aveva sintomi fisici, di cui più della metà moderati (53%), mentre il 18% aveva sintomi fisici gravi. In aggiunta, l’85% aveva sintomi psicologici e comportamentali. I sintomi più frequenti sono stati quindi: letargia o affaticamento o calo di energia; dolori muscolari, articolari, addominali e alla schiena; mancanza di interesse, sensazione di rabbia e senso di colpa.

Tutti i sintomi della Sindrome Premestruale sono risultati significativamente associati allo stato psicosociale delle studentesse, mentre il seguire una dieta è risultato significativamente correlato ai sintomi fisiologici e comportamentali. Il consumo di tisane è risultato essere utilizzato per alleviare i sintomi più intensi, sembra infatti che anch’esso sia significativamente correlato ai sintomi fisici e comportamentali del campione. Infine, non è stata riscontrata nessuna associazione tra le categorie di BMI delle partecipanti e i sintomi della PMS. Allo stesso modo, non è stata trovata alcuna relazione significativa tra le ore di attività fisica e i sintomi della sindrome premestruale; eccezion fatta per le ore di cammino, queste erano significativamente correlate ai sintomi comportamentali. 

In conclusione, sembra quindi che la prevalenza della PMS tra le ragazze nei paesi in via di sviluppo come la Palestina sia elevata e richieda aiuto e sostegno per coloro che ne soffrono. Si ritengono necessari interventi educativi tradizionali o innovativi per una sensibilizzazione nei confronti di tale sindrome (Abu Alwafa et al., 2021).

 

Dal campo analitico al campo archetipico (2021) – Recensione del libro

Il testo Dal campo analitico al campo archetipico si inserisce nel solco dell’integrazione tra punti di vista differenti e propone una riflessione condivisa proprio attorno a uno dei più interessanti trait d’union tra le psicoterapie.

 

 Se si osserva la storia della psicologia è difficile non notare momenti di conflitto e divergenza di vedute. Ne sono esempi le storiche scissioni tra quelli che, a torto o a ragione, vengono considerati i padri della moderna psicologia. Per fortuna, spesso questi conflitti hanno permesso di ampliare la nostra gamma di conoscenze circa il funzionamento della psiche umana, tracciando strade sempre nuove anche se talvolta lontane, almeno in apparenza.

Perché spesso accade che, osservando più da vicino il diverso da sé, si scopre che le assonanze sono più forti delle differenze.

Tra i punti di contatto tra le diverse scuole di psicoterapia, uno è sicuramente l’importanza data alla relazione terapeutica. Si pensi, ad esempio, che l’alleanza di lavoro è considerato uno dei migliori indici predittivi del trattamento (Gabbard, 2015). È indubbio, inoltre, che l’intervento psicoterapico si articola sempre all’interno di una relazione, per poi tararsi maggiormente sugli automatismi del pensiero, sul conflitto, sul tempo passato o presente, sulle modalità comunicative e interattive, sulle relazioni familiari e quant’altro, a seconda dell’orientamento e della visione del terapeuta.

Il testo Dal campo analitico al campo archetipico. Dialoghi e trasformazioni nei luoghi di ricerca della cura, si inserisce nel solco dell’integrazione tra punti di vista differenti e propone una riflessione condivisa proprio attorno a uno dei più interessanti trait d’union tra le psicoterapie.

 Nel volume edito da Liguori, il campo, inteso come lo spazio relazionale tra terapeuta e paziente, è al centro di un percorso che permette al lettore di conoscere più da vicino i capisaldi della prospettiva junghiana, per scoprire le numerose consonanze con le idee di studiosi afferenti ad altri ambiti della cura psicologica.

Nel testo, temi di derivazione junghiana come archetipo, inconscio collettivo, funzione trascendente, vengono messi in parallelo con le intuizioni di altri profondi conoscitori della psiche, da Bion, a Merlau-Ponty, a Lacan, accostandosi a concetti come funzione alfa, protomentale, significante. Non mancano, poi, riferimenti ad autori più vicini alla prospettiva sistemica, sebbene si intravedano più da lontano.

Scarpelli e Testa, pur costeggiando un’ottica analitica e psicodinamica, hanno curato questa collettanea con l’ambizioso proposito di esplorare le convergenze tra prospettive diverse, entro un dialogo stimolante ed utile tanto al lettore appassionato che voglia approfondire alcuni aspetti centrali della psicoterapia e dell’analisi, quanto agli addetti ai lavori interessati alla loro applicazione clinica e all’esplorazione di nuove linee di ricerca.

 

Presentazione del libro ‘Percorsi Clinici’ – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel quarto episodio la presentazione del libro ‘Percorsi Clinici’ presentato dalla Dott.ssa Rebecchi.

Dove ascoltare il quarto episodio:

 

 

“Se tu sei grassa allora io sono enorme”: esplorazione del fat talk

Il fat talk si riferisce alle normali conversazioni in cui molte donne e ragazze adolescenti si impegnano, caratterizzate da discorsi negativi su cibo, peso o corpo.

 

 Negli ultimi anni le ricerche si sono sempre più interessate al tema della consapevolezza del corpo, con i disturbi ad esso correlati (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Una percezione alterata del proprio corpo è un sintomo frequente nei pazienti con disturbi alimentari, infatti questo sintomo è spesso osservato e descritto nell’anoressia nervosa (AN) e nella bulimia nervosa (BN), ma recentemente anche nel disturbo da alimentazione incontrollata – binge eating disorder (BED) (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Sebbene l’insoddisfazione corporea sia oggetto di ricerche approfondite da decenni, i ricercatori hanno iniziato solo di recente a indagare su un fenomeno noto come fat talk, letteralmente “parlare di grasso”, che sembra contribuire a mantenere o aumentare il malcontento provato verso il proprio corpo (Nichter e Vuckovic, 1994).

Cos’è il fat talk

Il fat talking è un fenomeno sociale, per definizione uno scambio diadico o di gruppo (cioè non semplicemente un dialogo interiore privato e negativo) e si può ragionevolmente presumere che sia legato alla cultura (ovvero si verifica maggiormente nelle culture che idealizzano i corpi sottili). Generalmente, è limitato a un particolare gruppo demografico, ovvero la popolazione femminile. Il fat talk si riferisce ora in modo più ampio alle normali conversazioni in cui molte donne e ragazze adolescenti si impegnano, caratterizzate da discorsi negativi su cibo, peso o corpo. Sia donne che uomini vedono questo tipo di conversazione come un dialogo normativo nel mondo femminile e si aspettano, persino, che la risposta di una donna che si ritrova in una conversazione legata al peso sarà una di tipo auto-denigrante (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Queste “chiacchiere” però, sebbene normative, non sono innocue. Infatti il fat talking è positivamente correlato a punteggi elevati di patologia alimentare (Clarke, Murnen e Smolak, 2010) e la frequenza del fat talk ha differenziato un campione di studentesse universitarie in due gruppi distinti: soggetti con disturbi alimentari e soggetti senza (Ousley, Cordero e White, 2008). Non sorprende, quindi, che le donne che mostrano più angoscia per i loro corpi si impegnino più frequentemente in questa pratica (Ousley, Cordero e White, 2008). Il fat talk è quindi una forma di auto-degradazione in quanto colei/colui che la pratica in genere critica il proprio peso corporeo, l’alimentazione o la forma fisica. Esempi comuni di fat talk includono affermazioni come “sono così grassa” o “le mie cosce sembrano enormi con questi jeans” (Nichter, 2000). Gli argomenti comunemente associati ai discorsi sul grasso includono l’auto-confronto con le abitudini alimentari e esercizi ideali, le paure di diventare sovrappeso, il confronto tra le proprie abitudini alimentari e di esercizio con quelle degli altri, la valutazione dell’apparenza degli altri, i sostituti dei pasti e le strategie di costruzione muscolare (Ousley, Cordero e White, 2008).

Il lavoro originale di Nichter e Vuvkovic (1994) sul fat talking era principalmente etnografico e si concentrava sulle ragazze delle scuole medie e superiori. Successivamente Nichter (2000) ha ipotizzato che il fat talking possa essere visto come una richiesta di affermazione e di rassicurazione sul fatto di non essere grassi, come una richiesta di sostegno sociale da parte dei coetanei. I fat talks possono essere visti come una manifestazione comportamentale della vergogna del proprio corpo e dell’ansia per il modo in cui il proprio corpo non è all’altezza dell’ideale della società. Si sostiene dunque che commenti autocritici sul proprio corpo o peso possono effettivamente servire a placare la colpa o la vergogna, come se non avere un corpo perfetto possa essere qualcosa da riconoscere in modo che le altre persone siano meno dure nelle loro potenziali critiche (Ousley, Cordero e White, 2008).

Fat talk e confronto sociale

Alcuni ricercatori, come per esempio Corning e Gondoli (2012), indicano come fattore centrale del fat talking il confronto sociale. Il confronto sociale è il processo di utilizzo delle informazioni sugli altri per trarre conclusioni sul sé (Festinger, 1954). Nonostante sia comunque un processo che più o meno tutti attuano (perlopiù inconsciamente), alcune persone sono molto più inclini a operarlo (Corning e Gondoli, 2012). Le persone che si confrontano molto con gli altri in genere sono più insicure di se stesse e quindi hanno una bassa autostima e più ansia sociale, nevroticismo e sensibilità ai comportamenti delle altre persone (Corning e Gondoli, 2012). Inoltre, soggetti con sintomi di disturbo alimentare hanno una maggiore tendenza a utilizzare il confronto sociale rispetto ai loro coetanei (Corning e Gondoli, 2012). Il confronto sociale in questo senso viene indicato come parte integrante del processo di fat talking, in quanto esso è intrinsecamente un’affermazione sulla propria forma corporea percepita rispetto ad altri reali o immaginari. In effetti, nella maggior parte dei casi, quando i soggetti si impegnano in fat talk, lo fanno letteralmente scambiandosi dichiarazioni comparative. Uno scambio tipico di fat talking veicolato dal confronto sociale potrebbe essere il seguente: Soggetto 1: “Le mie braccia sono così grasse e flaccide: non importa quello che faccio, sono così imbarazzanti.” Soggetto 2: “Almeno puoi indossare un normale costume da bagno in piscina. Devo indossare pantaloncini lunghi per coprire le mie cosce enormi”. In una conversazione di questo tipo si possono dedurre altri sottotemi di comparazione sociale, dove il primo soggetto, attraverso le sue parole, fa intendere che le sue braccia siano “peggiori” di quelle degli altri, mentre il secondo sposta il focus su un’altra parte del corpo sottolineandone l’inadeguatezza.

 I ricercatori che si occupano dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione stanno recentemente ponendo grande attenzione alle conseguenze generate dal fat talk sulla soddisfazione del corpo. Tale preoccupazione è giustificata perché l’insoddisfazione del corpo è stata dimostrata predittiva di patologie di carattere nutrizionale e alimentare (Stice e Shaw, 2002). Gli studi di correlazione, fino ad oggi effettuati, sull’associazione tra fat talking e immagine corporea problematica hanno mostrato relazioni significative e positive tra queste variabili. In particolare è stato dimostrato che il fat talk è correlato a una maggiore vergogna e preoccupazione per il proprio corpo e a una peggiore stima del proprio aspetto fisico (Clarke et al., 2010). La maggior parte della ricerca esistente sul fat talk si è concentrata sull’analisi di questo fenomeno in gruppi di pari; tuttavia, questa linea di ricerca è stata recentemente ampliata per includere anche i contesti familiari, coerentemente con gli studi a sostegno dell’importanza della famiglia nella prima infanzia nell’influenzare l’immagine corporea successiva (Rodgers, 2012). In uno studio qualitativo che ha coinvolto 27 individui (26 donne e un uomo) negli Stati Uniti, di età compresa tra 17 e 64 anni, prevalentemente caucasici, si è scoperto che il fat talk, in particolare tra i membri della famiglia, è un potenziale fattore di rischio per un’alimentazione disordinata (Rodgers, 2012). I discorsi su corpo, alimentazione ed esercizio fisico nell’ambiente familiare erano correlati all’insorgenza di disturbi alimentari. Alcuni partecipanti hanno indicato che sentivano di essere diventati più critici nei confronti del proprio corpo a causa del fat talk di altri membri della famiglia. Non è raro che i genitori si impegnino in fat talking quando sono con i loro figli; ascoltando i genitori che sottolineano l’importanza dell’apparenza e di avere un tipo di corpo magro, i figli possono sviluppare insoddisfazione corporea e alimentazione disordinata (Rodgers, 2012).

Come intervenire sul fat talk

Sebbene il fat talk sia stato identificato come un fattore importante nello sviluppo dei disturbi alimentari, pochissimi interventi hanno cercato di trattare specificamente il fenomeno. Un programma che include un focus sulla riduzione della frequenza del fat talk è il Body Project (Becker e Stice, 2017). Il Body Project è un intervento di gruppo, targato per ragazze delle scuole superiori e donne in età universitaria, che fornisce una opportunità di confronto e psicoeducazione su temi quali ideali di bellezza irrealistici, corpo e alimentazione. Lo scopo principale delle attività proposte dal programma è sviluppare un’immagine corporea sana e rinforzare l’autostima. Il Body Project è uno dei programmi più ampiamente studiati, supportati e progettati per affrontare le norme socio-culturali disadattive (come appunto il fat talking) e l’insoddisfazione corporea (Becker e Stice, 2017). Il Body Project comprende molteplici attività che mettono in discussione il fat talk e identificano le conseguenze negative del coinvolgimento in questa pratica creando dissonanza, aiutando i partecipanti a ridurre la frequenza con cui si impegnano in fat talk. Un’attività di esempio inclusa nel Body Project sono i giochi di ruolo in cui i partecipanti si esercitano su come potrebbero mettere in discussione o rispondere alle affermazioni di fat talk di altre persone. La ricerca futura potrebbe includere un’analisi delle componenti e variabili per identificare le attività specifiche nel Body Project, che guidano la riduzione della frequenza del fat talk. Queste attività specifiche potrebbero quindi essere utilizzate come un breve intervento per ridurne la frequenza tra individui e gruppi.

Conclusione

L’insoddisfazione corporea sta emergendo come una preoccupazione centrale per la salute pubblica a causa del suo ruolo nello sviluppo dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (Stice, 2002), così come la sua associazione con una serie di altri esiti negativi, tra cui umore basso, bassa autostima, eccesso/diminuzione di esercizio fisico, obesità e pratiche malsane di controllo del peso. Una comprensione dei percorsi eziologici che guidano l’insoddisfazione del corpo è essenziale per lo sviluppo di interventi preventivi teoricamente ed empiricamente supportati. L’insoddisfazione corporea è tipicamente concettualizzata come derivante da pressioni socioculturali che promuovono la magrezza da una serie di fonti, come mass media, membri della famiglia e coetanei (Stice e Shaw, 2002). Elemento di questa pressione socioculturale, che ha ricevuto un’attenzione crescente, il fat talk è un fenomeno trasversale per tutte le culture, i generi e le fasce di età, nonostante sia più comune osservarlo nelle ragazze caucasiche adolescenti e giovani adulte. Sebbene sia socialmente accettato, il fat talk non è privo di rischi e conseguenze per la salute psicofisica sia di chi lo mette in atto sia di chi partecipa anche soltanto attraverso l’ascolto. Infatti il fat talk è associato fortemente all’insoddisfazione corporea con conseguenze psicologiche numerose, come sintomi o patologie della nutrizione e dell’alimentazione, diminuzione dell’autostima e aumento dell’ansia sociale (Stice, 2002). Sebbene la maggior parte della ricerca esistente sul fat talk si sia concentrata sull’analisi di questo fenomeno in gruppi di pari, questa linea di ricerca è stata recentemente ampliata per includere anche i contesti familiari. Numerose ricerche hanno infatti identificato il contesto familiare, in cui i discorsi negativi sono incentrati sul corpo, sulla dieta e sull’attività fisica, come un fattore importante nel rischio di sviluppo di disturbi dell’immagine corporea e di un’alimentazione disordinata tra bambini, adolescenti e giovani adulti (Rodgers, 2012). Questi discorsi nell’ambiente familiare, dunque, possono essere particolarmente dannosi e meritano un’attenzione speciale. A causa della natura diffusa di questo stile di conversazione all’interno dell’ambiente familiare e dell’importante ruolo dei caregiver nell’impatto sull’immagine corporea e sui comportamenti alimentari (Rodgers, 2012), affrontare questo tema potrebbe aiutare nel portare consapevolezza nel riconoscimento di questa espressione disadattativa di immagine corporea, al fine di stimolare la prevenzione anche all’interno di questo specifico contesto. Scoprire le cause profonde del fat talk, comprendere perché è diventato così pervasivo e socialmente accettabile e indagare su cosa si possa fare per contrastare questa norma sociale malsana è importante dal punto di vista scientifico, etico e clinico. Se vista alla luce della sua associazione con noti fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari, la natura normativa e reciproca del fat talk è particolarmente allarmante. In quanto tale, è importante ricercare il motivo per cui le persone si impegnano in tali discorsi e cosa si può fare per diminuirli.

Le fate ignoranti. Lutto, amore, amicizia e resilienza – Recensione

Carica di emotività, Le fate ignoranti si presta a riflessioni e considerazioni di matrice clinica; si osservano: la tristezza, la gelosia, la rabbia e le fasi del lutto sino all’elaborazione e al reinvestimento che, salvifico, scioglie il dolore negato, favorendo l’accettazione di un dolore consapevole.

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

 

 Le fate ignoranti, serie TV che ripercorre le tracce del celebre film di Ferzan Ozpetek, diretta dallo stesso regista, ne ricostruisce i momenti più salienti, i dettagli trascurati dalla pellicola originaria, delineando i personaggi nel profondo della loro psicologia e storia, e stimolando riflessioni psicologiche ad ampio raggio.

La serie offre una fotografia di come il mondo degli affetti sia cambiato: attraverso l’immediatezza dei suoi personaggi, aiuta lo spettatore ad empatizzare e conoscere l’intimità psichica delle vicende narrate.

Così come avviene durante la psicoterapia, il regista consente di ricostruire lo stato mentale e partecipare al mondo emotivo di ciascun personaggio. Proprio per questa ragione, riflettere a partire da dipinti cinematografici ci allena a sentire, integrare e dunque comprendere.

Fra tutti i temi trattati in modo collaterale nella serie TV in questione, certamente il nucleo pulsante della storia è l’Eros come amore, sentimento, poesia, sessualità. Quest’ultima viene rappresentata con delicatezza e gioia, libera da pregiudizi, tabù e sovrastrutture mentali. Il mero piacere sessuale passa in secondo piano, superato da una forza affettiva che, anche se nata dal desiderio, si mostra libera di bypassare le paure, gli ancoraggi culturali, i pregiudizi e il concetto di identità di genere.

Una sorta di intervento di normalizzazione ben riuscito quello del regista.

Un antidoto all’ignoranza spregiudicata, una sberla creativa destinata a coloro che ancora additano la diversità, praticano psicoterapie riparative e predicano omofobia, ipocrisia e stigma: vince l’amore in ogni sua forma.

Carica di emotività, Le fate ignoranti certamente si presta a riflessioni e considerazioni di matrice clinica; si osservano: la tristezza, la gelosia, la rabbia e le fasi del lutto sino all’elaborazione e al reinvestimento che, salvifico, scioglie il dolore negato, favorendo l’accettazione di un dolore consapevole.

Erotismo e perdita come temi centrali che si snodano in un crocevia di avventure esistenziali, bisogni di base e scenari temuti che si alternano: il bisogno di appartenenza, di amore e accudimento, la paura di esser soli al mondo, inadeguati e non accettati, l’amore, il tradimento e la morte.

Proprio la perdita sembra innescare la ricerca dell’antagonista, dell’avversario, dell’amante, in qualche senso “dell’altro” che svela parti di sé.

Antonia ricerca la fata ignorante del marito morto in un incidente stradale e insiste a volerlo conoscere fino in fondo, per partecipare alla sua vita, sino a scoprire quanto siano affini, fino a sfiorarlo, ad amarlo cercando di elaborare l’assenza, il silenzio, i ricordi.

La morte, come ogni fine, contiene anche un inizio. Per una storia che finisce, un’altra sta per cominciare, ed è la storia di un incontro tra due persone che pensano di non avere niente in comune, ma poi scopriranno di assomigliarsi moltissimo. (Ozpetek, 2022)

La fata ignorante sembra rappresentare i bisogni primitivi, la mancanza di regole e convenzioni, il desiderio che esplode e irrompe, scompone quei fragili equilibri, rompe lo status quo e pretende attenzione.

 Le relazioni diventano centrali, fra amicizia ed eros. Sono trattati i temi della solitudine, di quel tentativo di riempire vuoti emotivi con moti sessuali, oltre che del perfezionismo e della ricerca di approvazione e riconoscimento che, seppure in modo collaterale, appaiono cruciali nella psicologia di alcuni dei personaggi proposti.

Il tutto in un’ottica positiva in cui i protagonisti risolvono i loro dilemmi e le loro paure attraverso condivisione, riflessione e collaborazione.

Tre osservatrici popolari attendono la vita degli altri, da una panchina sorvegliano i movimenti dei protagonisti con ironia e semplicità popolana, senza cattiveria ma con affetto.

Inganno e angoscia da separazione come trame che si muovono dietro le quinte; la pittura come mestiere creativo e psicologico che ricostruisce sentimenti e ricordi.

La pittura svela segreti, ritrae desideri e paure.

Tutti abbiamo un segreto, una parte di noi che dedichiamo solo a noi stessi. A volte per egoismo, a volte per vigliaccheria. (Ozpetek, 2022)

In generale, vince il gruppo che consola e ironizza, dimensione centrale della serie, una famiglia allargata che contiene e provoca e, proprio nella sua identità gruppale, protegge.

La famiglia supplementare che elargisce affetto e cure. La mamma istrionica che svaluta in modo maldestro la figlia, ambivalente nel suo modo di fornire cura, ma sorprendente nella sua capacità di recupero. Il gruppo come elemento di trasformazione e poi l’amicizia come valore portante ed assoluta resilienza che tutto tiene e consola.

Abbandono – perdita – lutto – e scoperta del tradimento mediante una pittura che ritrae la fata ignorante che disvela la bisessualità del personaggio principale: controverso e maledettamente persuasivo.

La psichiatra, sensibile e vulnerabile, in coppia con una donna astrologa che si rivolge alle stelle e ai pianeti per spiegarsi la realtà e si rimprovera per non essere madre, ma si scopre tradita e in conflitto fra voglia di recuperare il rapporto o scappare in cerca di evasione. Da qui la crisi di coppia che si ricompone e richiede cambiamento e apertura. La transizione di ruolo come fattore che rigenera e scompone equilibri. L’amante, l’esule, una sommatoria di lutti, rifiuti temuti, traumi che si ricompongono, si risolvono. Si evidenzia la resilienza, le risorse e la positività della vita.

Il tema della famiglia biologica e della famiglia logica, l’omosessualità e la mancanza dei figli nelle coppie gay come tema trasversale che batte sulle sponde della storia principale.

Gli episodi proposti: amore, assenza, segreto, tradimento, famiglia, mondo fuori, viaggio, altrove, forniscono fotografie dettagliate di stati d’animo, sentimenti – emozioni, pensieri, credenze, sofferenza psicologica, risorse e fattori di protezione.

Una scenografia a tratti radical-chic in cui si muovono personaggi carichi di emotività e vita, complessi, contemporanei, fortemente rappresentativi di una realtà che viviamo. Il confine fra fiction e realtà si confonde; la rappresentazione fornita dal regista riflette talmente bene la realtà dei sentimenti trattati che certamente si mostra un utile esercizio per spiegarsi al meglio la complessità della psicologia e delle differenze individuali, e nello specifico le motivazioni e le paure delle storie raccontate che spesso si riscontrano nella nostra pratica clinica.

 

LE FATE IGNORANTI – Guarda il trailer della serie TV:

Alessitimia: quale relazione con traumi infantili e rischio suicidario

Gli individui con alta alessitimia sperimentano deficit nel controllare il loro eccitamento emotivo e sono più inclini ad utilizzare strategie di coping meno adattive come autolesionismo e tentativi di suicidio.

 

 Il suicidio è un problema di salute pubblica globale che comporta oltre 800.000 morti ogni anno (OMS, 2014). La ricerca attuale suggerisce che il trauma infantile e le esperienze avverse giocano un ruolo importante nella suicidalità (Alli et al., 2019; Fjeldsted et al., 2019); a loro volta, il trauma e le esperienze avverse mostrano associazioni con lo sviluppo di alessitimia (Terock et al., 2018).

L’alessitimia è un costrutto multidimensionale che comprende difficoltà nell’identificare e descrivere i sentimenti, nel distinguere i sentimenti dalle sensazioni corporee, una diminuzione della fantasia e pensiero concreto e scarsa introspettività (Taylor, 1984).

Studi empirici hanno dimostrato che l’alessitimia è positivamente correlata con livelli più elevati di rischio suicidario (De Berardis et al., 2017a). Alcuni autori ipotizzano che questo costrutto possa mediare la relazione tra trauma e suicidio (Bucci, 2007; Di Trani et al.,  2018).

Questa ipotesi è in linea con la Teoria dei Codici Multipli, la quale sottolinea che gli individui con alta alessitimia sperimentano deficit nel controllare il loro eccitamento emotivo e sono più inclini a utilizzare strategie di coping meno adattive come autolesionismo e tentativi di suicidio (Bucci, 2007; Di Trani et al., 2018). A testare questa ipotesi di mediazione è stato uno studio di Xie e colleghi (2021), che ha selezionato un campione di studenti suddivisi in studenti con left-behind experience (LBE) e studenti senza left-behind experience (NLBE).

Alessitimia e left-behind experience

Cosa si intende però per “left-behind experience”? Questo fenomeno nasce nel contesto del rapido sviluppo economico della Cina e della migrazione di un gran numero di lavoratori dalle campagne alle città. Proprio a causa di queste situazioni lavorative, alcuni bambini vivono separazioni dai genitori (o da almeno uno dei due caregiver) e crescono nelle aree rurali del paese accuditi da altri membri della famiglia, come i nonni (Jia e Tian, 2010). Questo “abbandono” delle figure genitoriali è associato a un aumento di problemi di salute mentale nei bambini cinesi (Zhao e Yu, 2016) con punteggi di trascuratezza fisica e psicologica più alti rispetto ai bambini che non vivono questa separazione. I bambini e ragazzi LBE, inoltre, mostrano punteggi più alti per quanto riguarda l’ideazione suicidaria e per l’alessitimia rispetto agli studenti NLBE (Xie et al., 2021).

Sulla base di queste differenze tra i due gruppi, gli autori dello studio hanno ipotizzato che l’effetto mediatore dell’alessitimia potesse essere diverso per gli studenti LBE rispetto agli studenti NLBE. I risultati dimostrano che gli studenti LBE, cresciuti con figure vicine alla famiglia (es. i nonni) oppure unicamente dalle madri, mostrano punteggi totali più alti sulla scala del trauma infantile rispetto agli studenti NLBE. Questa differenza si rifletteva principalmente nelle tre dimensioni di abuso emotivo, trascuratezza fisica e trascuratezza emotiva. La letteratura indica che le donne che rimangono a casa a prendersi cura dei figli, tendono a sfogare la loro insoddisfazione su di essi perché non sono state in grado di soddisfare i loro personali bisogni economici, emotivi e fisiologici (Jingzhong e Huifang, 2010). Questa potrebbe essere una valida spiegazione per l’alto punteggio di abuso emotivo di questi bambini. Inoltre, anche se i nonni amano i propri nipoti, i bisogni emotivi dei bambini sono spesso trascurati a causa del divario generazionale e delle vite impegnate degli adulti (Hu et al., 2014).

 Gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti anche per l’alessitimia. Ciò non sorprende, dato che la capacità di regolazione degli affetti è facilitata, nei primi anni di vita, dall’esperienza di condivisione e dal rispecchiamento delle espressioni affettive con il caregiver primario (Krystal, 1988); inoltre, per i genitori che lavorano fuori casa tutto l’anno può essere difficile dare ai figli l’attenzione e le cure necessarie.

Per quanto riguarda il rischio suicidario, gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti rispetto agli studenti NLBE e questo potrebbe essere dovuto a due fattori: livelli più elevati di trauma infantile e alessitimia (entrambi fattori di rischio per il suicidio) e scarso supporto interpersonale. Di conseguenza, rispetto agli studenti NLBE, il rischio di suicidio di questo gruppo deve essere seriamente valutato e trattato.

Alessitimia e rischio suicidario

I risultati mostrano inoltre un’associazione positiva tra alessitimia e rischio di suicidio per l’intero campione, indipendentemente dal fatto che appartenessero al gruppo LBE. Tuttavia, un effetto di mediazione dell’alessitimia sul trauma infantile e il rischio di suicidio è stato riscontrato solo negli studenti non LBE. La ragione di questo risultato potrebbe essere dovuta all’alta resilienza degli studenti LBE. Uno studio di Liang e colleghi (2018) ha scoperto infatti che la resilienza degli studenti LBE era notevolmente più alta rispetto ad altri gruppi di studenti e questo costrutto, a sua volta, gioca un ruolo nel mediare l’alessitimia e l’ideazione suicidaria agendo come un buffer contro l’alessitimia, che ha un effetto negativo sull’ideazione e il comportamento suicidario.

Questo risultato appare coerente anche con la Teoria dei Codici Multipli: con la resilienza come strategia di controllo, l’arousal può funzionare come motivazione per il raggiungimento di obiettivi personalmente rilevanti (Bucci, 2007). Pertanto, anche se gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti per l’alessitimia, il percorso dall’alessitimia al rischio di suicidio potrebbe essere stato distorto dalla resilienza caratteristica del gruppo.

In conclusione, lo studio conferma che l’alessitimia media la relazione tra trauma infantile e rischio di suicidio negli studenti NLBE ma non negli studenti LBE, probabilmente a causa dell’elevata resilienza. Per questi ultimi è necessaria una maggiore assistenza psicologica e un supporto per aumentare la consapevolezza delle loro emozioni. La ricerca futura potrebbe concentrarsi su soggetti di età differenti, come gli studenti della scuola primaria e secondaria, senza tralasciare l’influenza del genere e dei diversi tipi di trauma.

 

Suicidio in carcere e psicoterapia

È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato?

 

I suicidi in carcere dipendono da una serie di fattori, non ultimi le pessime condizioni e la sovrappopolazione delle strutture. All’interno della popolazione carceraria a noi preme soprattutto segnalare il disagio di chi soffre di disturbi emotivi e mentali, con particolare attenzione a quei disturbi che aumentano il rischio suicidario come il disturbo di personalità borderline. Com’è noto, chi soffre di queste patologie non andrebbe indirizzato al carcere ma a una REMS, una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture che dal 2014 sono andate a sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari.

È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato? Come riporta il Post, le REMS al momento sono poche e i posti disponibili sono meno di quelli necessari. Inoltre, e questo è in teoria un merito, le REMS sono a numero chiuso per impedire i fenomeni di sovrappopolazione che già affliggono le carceri. La conseguenza di questa correttezza è che, tuttavia, i detenuti sofferenti di disturbi mentali e in sovrannumero rispetto ai posti delle REMS finiscono in carcere.

La soluzione è ovviamente moltiplicare al più presto le REMS e dotarle dei mezzi di cura necessari per non ridurle a essere dei neo-manicomi con pazienti sedati e imbottiti di farmaci. Per la verità, le norme che stabiliscono i requisiti strutturali ed organizzativi delle REMS paiono rigorose: esse prescrivono che, oltre la già citata accoglienza di un massimo di 20 pazienti, nelle REMS il personale va organizzato come équipe di lavoro multi professionale, comprendente medici psichiatri, psicologi, infermieri, terapisti della riabilitazione psichiatrica/educatori e operatori socio-sanitari che seguono procedure scritte riguardanti i compiti di ciascuna figura professionale, le modalità di accoglienza del paziente, la definizione di programmi individualizzati, i criteri per il monitoraggio e la valutazione periodica dei trattamenti terapeutico-riabilitativi.

I detenuti sofferenti (o internati) presso le REMS ricevono, entro 45 giorni dall’ingresso, sulla base del Progetto Terapeutico Riabilitativo Integrato (PTRI) formulato dal Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di competenza territoriale, un Progetto Terapeutico Riabilitativo (PTR) concordato con l’Ospite e il Centro di Salute Mentale (CSM) competente che descrive gli obiettivi ed i trattamenti e tempi necessari per realizzarli.

Si tratta di un percorso decisionale rigoroso che dovrebbe facilitare l’adozione di trattamenti di provata efficacia per i problemi dei detenuti, come la Terapia Dialettico Comportamentale che è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato specificamente per pazienti cronicamente suicidari con diagnosi di Disturbo Borderline di personalità ed è stata la prima terapia a rivelarsi efficace per questo rischio (Linehan, 1983). L’opportunità di questa scelta è confermata dal dato che i pazienti psichiatrici forensi rappresentano la più a rischio di comportamenti aggressivi di tutte le popolazioni psichiatriche ospedaliere (Bowers et al., 2011).

È confortante apprendere che questa procedura facilita l’adozione di trattamenti confermati scientificamente, come ad esempio è avvenuto nelle R.E.M.S. “CASTORE” di Subiaco e “MEROPE” di Palombara Sabina dove è stato adottato un protocollo di Terapia Dialettico Comportamentale in pazienti autori di reato internati (Ortenzi, 2016). I risultati di quello studio confermano i dati presenti in letteratura sull’efficacia della Terapia Dialettico Comportamentale, rispetto al trattamento psichiatrico usuale a base di farmaci antipsicotici. Questo vale per l’aggressività, l’impulsività e la disregolazione emotiva nelle popolazioni psichiatriche forensi delle due REMS. La conclusione è che l’inserimento negli ospedali psichiatrici forensi di trattamenti empiricamente confermati aiuta la realizzazione dell’obiettivo principale di queste strutture, ovvero la riabilitazione e il reinserimento nella società. È Importante che tutte le figure presenti collaborino e che non si dia – come a volte accade – maggiore valore soltanto ad alcune figure, come gli psichiatri. È tranquillizzante osservare che l’organizzazione dei PTR delle REMS già consente queste scelte cliniche efficienti; forse occorrerebbe renderne ancora più obbligatoria l’adozione invece di limitarsi a facilitarla come accade ora. Questo ulteriore passo avanti, insieme all’ancora più necessaria moltiplicazione del numero delle REMS, aiuterebbe ad contrastare la tragedia dei suicidi dei detenuti.

 

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