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Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Emozioni incontrollabili: l’aiuto dei genitori e dei familiari.

 

Vivere con una persona che ha difficoltà a gestire le emozioni intense può essere molto difficile. Chi non è in grado di affrontare le proprie emozioni può reagire in modi differenti: può comportarsi in maniera impulsiva oppure può mettere in atto degli evitamenti o, ancora, può diventare particolarmente controllante; questo con l’obiettivo di scappare da ciò che si sta provando e che si sente di non saper gestire.

Genitori e familiari possono essere una risorsa preziosa e possono aiutare la persona a loro cara a stare meglio.

Durante l’episodio si parlerà di cosa si intende per difficoltà nella gestione delle emozioni, quali possono esserne le cause, quali sono le tecniche per imparare a gestire in maniera efficace le proprie emozioni e soprattutto in che modo genitori e familiari possono essere di supporto e sostenere chi sta male per migliorare il clima in famiglia.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dr.ssa Alessandra Brugnoni, psicoterapeuta, e dalla Dr.ssa Antonella Gemelli, psicoterapeuta.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Che cos’è il Disgusto?

Il disgusto è una delle sei emozioni di base, quindi universalmente condivise, teorizzate da Paul Ekman nel 1992.

 

Come tutte le emozioni, il significato principale del disgusto è legato all’adattamento e alla sopravvivenza dell’organismo, dato che spesso ci avvisa della potenziale pericolosità di alcuni stimoli, come agenti patogeni contenuti nei cibi. Il disgusto, infatti, implica una sensazione di repulsione e pensieri di potenziale contaminazione, accompagnati da comportamenti di evitamento dello stimolo che si ritiene potenzialmente contaminante, che in alcuni casi possono salvarci!

Ma come si manifesta il disgusto, e quali sono i sintomi osservabili e quali quelli non osservabili?

La reazione a qualcosa che ci disgusta non è solo di tipo comportamentale, ma anche fisiologica ed espressiva.

Vediamo quindi quali sono le componenti dell’emozione disgusto osservate nel corso degli anni dagli studiosi, che ci permettono di rispondere alla domanda “che cos’è il disgusto?”.

Componente comportamentale del disgusto

La componente comportamentale è quella più semplice e tendenzialmente inequivocabile da osservare, perché visibile da più persone. Il disgusto si manifesta come un allontanamento dall’oggetto, dall’evento o dalla situazione (quindi dagli stimoli) che lo genera, caratterizzato da un rifiuto (di un cibo per esempio), dal ritiro o dall’evitamento (come la visione di un film horror; Rozin et al., 2016).

Componente fisiologica del disgusto

Il disgusto è associato a uno specifico stato fisiologico, la nausea, che viene tipicamente misurata attraverso domande rivolte direttamente alla persona (Rozin et al., 2016). Il disgusto è l’unica emozione primaria che ha una specifica firma fisiologica, viscerale per l’esattezza. La speciale relazione tra disgusto e attivazione viscerale è stata studiata approfonditamente analizzando le misure elettrofisiologiche della nausea, con l’elettrogastrogramma, in relazione alla sensibilità al disgusto e al grado di disgusto riportato in risposta alla visione di immagini disgustose (Meissner et al., 2011). Questo tipo di studi, non solo hanno confermato l’esistenza della firma viscerale caratteristica del disgusto, ma hanno permesso di capire che la nausea si manifesta maggiormente in risposta al cibo e prodotti di scarto umani o animali (come urine, sudore, muco, vomito) e meno in risposta a stimoli come sangue, lesioni o altri correlati al dolore (Shenhav e Mendes, 2014).

Componente espressiva del disgusto

La componente espressiva del disgusto viene valutata negli studi sul riconoscimento delle emozioni utilizzando molto spesso stimoli statici invece che dinamici, focalizzati sull’espressione del volto. Tuttavia, alcuni studiosi sottolineano l’esistenza di molteplici manifestazioni dinamiche del disgusto, che riguardano il movimento delle mani, il viso e l’intero corpo.

Dagli studi e dalle osservazioni di importanti studiosi come Darwin (1872) è emerso che le caratteristiche della “faccia disgustata” sono principalmente quattro: l’apertura della bocca, l’estensione della lingua, la retrazione del labbro superiore e la ruga del naso. In genere si verifica anche la contrazione dei muscoli intorno all’occhio, ma non è un sintomo tipico del disgusto poichè tende a manifestarsi anche in risposta ad altre emozioni negative (Vrana, 2009).

Dato che, come dicevamo, il disgusto può aiutarci, l’apertura della bocca e la protrusione della lingua sono azioni che servono proprio a liberare la bocca da una sostanza sgradevole.

Tuttavia, Ekman e Friesen (1978) sostengono che la retrazione del labbro superiore e la ruga del naso sono quasi esclusivamente utilizzate nella ricerca del disgusto. Infatti, mentre la faccia a bocca aperta è tipicamente selezionata dagli adulti occidentali in relazione alla sensazione di disgusto legata al cibo e al corpo (per esempio ai prodotti di scarto), il labbro superiore sollevato invece è più comunemente selezionato in risposta alle offese morali che sono etichettate come disgustose (Rozin et al., 2016). Inoltre, sebbene il rialzo del labbro superiore sia usato come indicatore standard del disgusto, è anche parte di una delle due espressioni di rabbia. Dal punto di vista funzionale, rappresenta l’apertura dei denti nella mascella superiore. Emerge quindi una sovrapposizione, in termini di espressioni facciali, tra due emozioni: disgusto e rabbia. Cosa le accomuna? Sembrerebbero accomunate dall’aspetto morale, tuttavia la differenziazione del disgusto e della rabbia come “emozioni morali” è una questione complessa che richiede ancora approfondimento.

Qualia

Innanzitutto, cosa sono i qualia?

Il termine qualia deriva dal latino qualis, cioè qualità, attributo, modo.

Il concetto dei qualia appartiene alla branca della filosofia della mente e rappresenta gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti, come le emozioni. Ogni emozione ha i suoi qualia, ovvero le sensazioni qualitative specifiche che arrivano alla coscienza nel momento in cui facciamo esperienza, per esempio, di un’emozione.

I qualia, dunque, sono la componente mentale o sentimentale dell’emozione, e possono essere allo stesso tempo la componente centrale del disgusto e l’aspetto più difficile da studiare (Rozin et al., 2016). La qualità del disgusto è spesso descritta come repulsione. Inoltre, sappiamo che rispetto ad altre emozioni, l’esperienza del disgusto sembra essere piuttosto breve nella durata (Scherer e Wallbott, 1994).

Quindi che cos’è il disgusto?

Possiamo dire che è un emozione primaria multisfaccettata, i cui sintomi si osservano nel comportamento di allontanamento, inteso come evitamento, rifiuto o ritiro da qualcosa che ci disgusta; ma anche attraverso espressioni facciali come l’apertura della bocca, l’estensione della lingua e la retrazione del labbro superiore, caratteristica condivisa anche dalla rabbia. È accompagnata anche da sensazione di repulsione generalmente di breve durata e… ha una sua firma fisiologica: la nausea!

 

Neurobiologia della volontà (2022) di A. Benini – Recensione

Il volume Neurobiologia della volontà presenta due posizioni ideologiche, da un lato un paradigma che ha nel libero arbitrio il suo archetipo fondante e dall’altro lato un paradigma che vede nella genesi neurobiologica il punto di origine di ogni volontà umana.

 

L’uomo è da sempre stato considerato un’entità sociale, che trova l’attuazione di sé nell’ambito della dimensione sociale. Affinché questa contestualità possa divenire fonte di benessere interviene il supporto dell’etica sociale, ovvero quella branca della filosofia morale, che detta lo statuto per una relazionalità con l’alterità che sia connotata dall’attenersi ai fondamenti delle categorie morali classiche (bene e male, liceità e illiceità ecc.) e faccia in maniera che ognuno si prenda la responsabilità della propria vita, dirigendola verso un polo etico.

Tale analisi contiene un episteme di fondo, ossia l’uomo è in grado di esercitare la propria volontà attraverso il libero arbitrio o le sue condotte discendono dai determinanti neurobiologici, che diventano gli agenti motivanti delle sue azioni?

A questo riguardo si sono fronteggiate, nel corso degli ultimi tempi, soprattutto in seguito alle conquiste delle neuroscienze, due posizioni ideologiche, da un lato un paradigma che ha nel libero arbitrio il suo archetipo fondante e dall’altro lato un paradigma che vede nella genesi neurobiologica il punto di origine di ogni volontà umana.

In sostanza, ci sarebbe il primo assioma che vede nell’uomo abitare il libero arbitrio, che conferisce fondamento spirituale alla volontà e alla facoltà di scelta e, quindi, spinge l’essere umano a decidere quotidianamente e ad assumersi la responsabilità delle proprie progettualità di vita.

La seconda affermazione assiomatica assegna un ruolo preponderante alla fisioneurobiologia, che in questa maniera condiziona pesantemente le scelte di vita e la psicobiologia della quotidianità antropologica.

Secondo quest’ultima prospettiva il comportamento umano e la volontà che è alla base di esso dipendono da una serie di variabili, ovvero aspetti genetici, fisico-chimici, ormonali, fattori legati alla sensorialità, allo sviluppo prenatale, alle esperienze di vita e ai contesti culturali, nei quali si è cresciuti.

In questa ottica:

l’uomo s’illude di decidere, mentre in realtà non fa ciò che vuole, ma vuole ciò che fa
(Benini, 2022, pp. 11).

A corroborare questa tesi intervengono diverse sperimentazioni compiute in ambito neurocognitivo.

Le neuroscienze cognitive, con gli studi su coscienza e autocoscienza, hanno dimostrato con una miriade di esperimenti che prima di ogni azione, meccanica o mentale, le aree cerebrali specifiche di quella attività sono attive prima che si sia coscienti di quel che succederà. Nel momento in cui le aree dell’autocoscienza nei lobi prefrontali ricevono l’informazione di ciò che le aree specifiche hanno deciso di fare, si diventa non solo consapevoli di quel che il cervello ha disposto, ma anche sicuri che la nostra volontà abbia compiuto quella scelta in modo totalmente libero dai meccanismi fisico-chimici delle aree del cervello. E ciò è un’illusione, perché noi siamo ciò che il cervello ci fa essere e niente di più
(Benini, 2022, pp. 117 – 118).

In conclusione, il libro del prof. Benini aiuta il lettore a sviluppare una visione personale dei costrutti sopra delineati, offrendo degli spunti riflessivi sulle tematiche dell’etica, del libero arbitrio, delle neuroscienze e della volontà antropologica.

 

Cambiamenti nelle relazioni familiari degli adolescenti durante il Covid

La letteratura scientifica si è occupata di studiare le variazioni e i cambiamenti che la pandemia COVID-19 ha causato nella vita dei giovani, in particolare degli adolescenti.

 

Questi ultimi, infatti, affrontano quotidianamente diverse sfide come risultato di tali cambiamenti. Alcune ricerche suggeriscono che la pandemia e le restrizioni ad essa correlate siano associate a un funzionamento psicosociale peggiore, una maggiore solitudine (Janssens et al., 2021), disagio mentale (Pierce et al., 2020) e sintomi depressivi. Altre ricerche, invece, suggeriscono pochi cambiamenti nell’adattamento, come nel caso dell’ansia (Barendse et al., 2021) o addirittura alcuni miglioramenti in aree come l’irritabilità (Janssens et al., 2021). Studiare e comprendere la qualità delle relazioni durante il Coronavirus è importante in quanto questo aspetto si associa alla variabilità nel funzionamento psicosociale degli adolescenti. Durante la quarantena, soprattutto nelle fasi iniziali della pandemia, le restrizioni volte a contenere la diffusione della malattia richiedevano spesso che gli adolescenti trascorressero più tempo a casa; molte ricerche hanno dimostrato che, per la maggior parte di essi, ciò significava trascorrere più tempo in famiglia e meno con gli amici (Bülow et al., 2020; Rogers et al., 2021). La letteratura recente dipinge un quadro complesso di come il cambiamento percepito nella qualità delle relazioni può avere importanti implicazioni per la comprensione del benessere degli adolescenti e del modo in cui i giovani vivono l’impatto della pandemia, visto l’importante ruolo che la qualità delle relazioni con i familiari ha per lo stress legato al COVID-19.

La qualità delle relazioni familiari in adolescenza

Con qualità delle relazioni si fa riferimento alla misura in cui le relazioni soddisfano i bisogni di un individuo, includendo le dimensioni delle relazioni interpersonali che promuovono (e.g. affetto, sostegno e calore) o impediscono (e.g. conflitti, critiche e antagonismo) un funzionamento psicosociale positivo (Furman & Buhrmester, 2009). Ogni relazione può essere caratterizzata contemporaneamente sia da qualità positive che negative e ciascuna di queste è associata in modo differente ad esordi di disturbi o sintomi in adolescenza (Branje et al., 2010) o al possibile uso di sostanze (Yap et al., 2017). Una maggiore qualità delle relazioni negative e una minore qualità delle relazioni positive familiari è associata a esiti psicosociali peggiori per gli adolescenti (Ebbert et al., 2018).

Svolgendo un’analisi longitudinale, con l’inizio dell’adolescenza è possibile osservare una diminuzione delle qualità positive come sostegno e calore e un aumento del conflitto e del controllo tra i ragazzi e i loro genitori o fratelli. Successivamente, dalla metà alla fine dell’adolescenza, sembra che la relazione con i genitori si stabilizzi e migliori. Rispetto ad un periodo specifico, il tempo trascorso dall’inizio della pandemia è caratterizzato da alcuni eventi salienti per i giovani tra cui la chiusura delle scuole e l’attuazione di linee guida sulla salute pubblica che possono influenzare il tempo trascorso con la propria famiglia. Uno studio di Rogers e colleghi del 2021 sulla percezione del cambiamento della qualità delle relazioni ha trovato che gli adolescenti in generale hanno riportato livelli più elevati di sostegno e livelli leggermente inferiori di conflitto rispetto a prima della pandemia. I risultati mostrano come l’esperienza degli adolescenti in merito al cambiamento della qualità delle relazioni durante la pandemia differisce dalle narrazioni comunemente ipotizzate sul peggioramento della qualità delle relazioni.

Le relazioni famigliari in adolescenza nel periodo Covid

Per tali ragioni, uno studio di Martin-Storey e colleghi del 2021 aveva come obiettivi quelli di identificare come gli adolescenti percepissero il miglioramento, il peggioramento o il mantenimento delle relazioni con i genitori e i fratelli dall’inizio del lockdown; di valutare come una maggiore esposizione al virus, l’appartenenza a minoranze sessuali e di genere, l’essere stranieri, e avere bassi livelli di influenza familiare influissero sulla qualità delle relazioni; infine di collegare il cambiamento percepito nella qualità della relazione con i sintomi somatici e l’uso di sostanze, tenendo conto dei fattori demografici, dei fattori del COVID-19 e dei fattori familiari. I risultati mostrano che sono stati identificati quattro gruppi con differenti percezioni: i giovani che hanno percepito un lieve cambiamento, quelli che hanno percepito un miglioramento, quelli che hanno provato una moderata instabilità e infine quelli che hanno notato un’alta instabilità nella qualità della relazione. Non è stato identificato però alcun peggioramento, il che è sorprendente, dato l’impatto negativo che la pandemia ha avuto su molti adolescenti e sulle loro famiglie (Janssens et al., 2021). Una maggiore instabilità percepita è stata associata a un peggioramento del funzionamento, un miglioramento è associato invece a livelli alti nel funzionamento complessivo. Riguardo alle variabili demografiche, gli individui con moderata instabilità sono risultati più propensi a riferire un’identità di minoranza sessuale, in particolare rispetto agli individui che avevano percepito un miglioramento. Inoltre lo status di minoranza sessuale è stato associato a livelli più elevati di sintomi somatici e all’uso di sostanze. I risultati, sebbene la ricerca passata abbia trascurato il modo in cui gli adolescenti percepiscono i cambiamenti nella qualità delle relazioni, mostrano che la percezione negli adolescenti del cambiamento nella qualità delle relazioni con i genitori e i fratelli è legata al loro funzionamento psicosociale durante la pandemia COVID-19; in futuro sarebbe interessante indagare come, nel tempo, i profili di cambiamento percepito nella qualità delle relazioni individuati, siano associati al funzionamento individuale.

 

La Sala Multiculto all’Ospedale Cotugno di Napoli: un progetto di civiltà

Nelle scorse settimane, è stata inaugurata presso l’Ospedale Cotugno di Napoli la prima Sala Multiculto realizzata all’interno di una struttura sanitaria della Regione Campania.

 

Negli ultimi anni in diversi ospedali italiani sono stati realizzati ambienti analoghi, ove i pazienti di altra fede o confessione, diversa da quella cattolica, possono trovare raccoglimento e accoglienza spirituale. Le prime sono state realizzate tra il 2013 e il 2014 a Ferrara e a Prato. Sono prevalentemente organizzati come spazi vuoti, arredati solo con alcune sedie lungo le pareti, talvolta con dei tappeti e una bussola a disposizione dei cittadini di fede musulmana. Dal punto di vista architettonico, quella del Cotugno è connotata da 11 grandi pannelli monocromatici, che richiamano indirettamente al raccoglimento, alla riflessione e alla pace.

La Sala Multiculto e del Silenzio è stata inaugurata da Maurizio di Mauro, Direttore Generale degli Ospedali dei Colli, alla presenza dei rappresentanti di numerose comunità religiose. Tra essi, il Vescovo vicario, responsabile per l’Ecumenismo della Curia Arcivescovile di Napoli, il Segretario Generale della Confederazione Islamica Italiana, un rappresentante dell’UCOII, Unione delle Comunità Islamiche Italiane, rappresentanti della Chiesa Taoista Italiana, della Soka Gakkai e di altre comunità buddiste, della Comunità Baha’i, della Chiesa Evangelica, della Chiesa Valdese-Metodista. In seguito, anche la Comunità ebraica napoletana ha condiviso le finalità del progetto. Inoltre, è intervenuta la Vice Presidente dell’Ordine degli Psicologi campano. I partecipanti hanno ringraziato per l’iniziativa, vista come risposta adeguata ai cambiamenti in atto nella nostra società, apprezzando la riconosciuta importanza della presa in carico della dimensione spirituale durante il ricovero ospedaliero. La Direzione strategica aziendale negli scorsi mesi aveva approvato la proposta del responsabile dell’U.O.S.D. di Psicologia Clinica dando mandato agli Uffici Tecnici di progettare e realizzare un ambiente dedicato alla preghiera e alla meditazione per tutti.

La consapevolezza che la salute debba comprendere necessariamente non solo il benessere psicologico e relazionale dell’individuo ma anche la dimensione spirituale della salute è ormai condivisa. Gli operatori sanitari sanno bene quanto nell’esperienza di malattia emergano più forti i bisogni spirituali. Chi osserva senza pregiudizi riconoscerà che mai come in tale momento emergono con più vigore le domande di senso esistenziale e, per molti, il bisogno di pregare. Ovviamente, l’importanza dei bisogni spirituali deve valere per tutti e, presa atto della dimensione sempre più multietnica e multiculturale della nostra società e della città di Napoli in particolare, la creazione di spazi condivisi utilizzabili per pregare e meditare appare una risposta adeguata ai bisogni di accoglienza.

Reputo che la creazione di Sale Multiculto possa essere inteso in modo ampio come progetto di psicologia ospedaliera, se si vuole affidare a tale disciplina in modo specifico il compito di favorire la presa in carico globale del paziente, curando non solo la malattia, ma la persona. Ovviamente, sono consapevole che i bisogni spirituali hanno una dimensione propria, del tutto autonoma da quella psicologica. A questo proposito, va osservato come, sebbene in passato siano stati spesso erroneamente contrapposti i bisogni e le prassi psicologiche con quelle adottate dai ministri di culto, negli ultimi anni, siano sorte, proprio a partire dagli ospedali, proficue alleanze e collaborazioni tra sacerdoti e psicologi. In tal modo, gli operatori sanitari riconoscono il ruolo attivo che svolgono i bisogni soggettivi, inclusi quelli spirituali, talvolta bistrattati per ragioni di miopia culturale, nel percorso terapeutico del paziente affetto da patologia organica. Credo che un ospedale moderno non sia tale solo se dotato di apparecchiature tecnologiche sempre più sofisticate, ovviamente indispensabili, ma deve possedere anche la capacità di presa in carico di tutti i bisogni soggettivi dei pazienti e dei familiari.

Infine, non è un caso se questa esperienza si realizza presso l’Ospedale Cotugno. Esso, a vocazione infettivologica, ha da sempre curato non solo pazienti di diverse continenti, ma anche di diverse condizioni sociali ed esistenziali, con doppia o tripla diagnosi, costituendo negli anni un modello di accoglienza e di attenzione all’umanizzazione delle cure. Pertanto, la creazione della Sala Multiculto mi pare in assoluta continuità con la storia pluridecennale di questo Ospedale. Oggi l’attenzione alla pandemia di covid può apparentemente rendere marginali tali iniziative, ma in realtà occorre più che mai ribadire la necessità di una cura globale delle persone da noi assistite, proprio come segno distintivo della nostra cultura e civiltà.

In conclusione, assicurare a tutti, a prescindere dalla fede religiosa, uno spazio per la preghiera, la meditazione o il raccoglimento è un segnale di civiltà importante, che arricchisce la nostra capacità di garantire accoglienza. Ovviamente, la creazione di Sale Multiculto non va a scapito dei cattolici e l’appartenenza della religione cattolica nella nostra quotidianità è un dato di fatto (non a caso nella nostra esperienza napoletana la Curia ha condiviso il progetto). Inoltre, molti pazienti stranieri sono cattolici, così come sono diversi gli italiani con altri orientamenti spirituali. Esse sono espressione di una medicina “olistica”, attenta ai vissuti emotivi dei pazienti e all’integrazione dei saperi interdisciplinari da opporre a una iperspecializzazione medica, spesso tecnologicamente all’avanguardia ma fredda e spersonalizzante.

Chi è interessato a tale tematica può far riferimento al Gruppo nazionale di Lavoro per La stanza del Silenzio e dei Culti.

 

Come si è svolta la Consensus Conference – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 3

Lo scopo di questo numero è ripercorrere il processo di svolgimento che ha riguardato la Consensus Conference sulle Terapie Psicologiche per Ansia e Depressione, a fronte degli obiettivi e dell’iter consueto illustrati precedentemente, e introdurre la struttura della relazione finale.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 3) Come si è svolta la Consensus Conference

 

La necessità di questa Conferenza di Consenso è emersa alla fine di un convegno tenutosi a novembre 2016 dal titolo “Le terapie psicologiche per ansia e depressione: costi e benefici”. L’evento ha avuto come ospite il professor David Clark (Oxford University), il quale ha illustrato l’esperienza inglese con il programma Improving Access to Psychological Therapies (IAPT). Lo IAPT è un sistema pubblico per l’erogazione di cure psicologiche basate su prove di efficacia empirica, che offre trattamenti a diversi livelli di intensità, tarati sulla gravità del disturbo che affligge il paziente. Tale modello aveva già prodotto risultati interessanti e ispirato altre nazioni a varare programmi simili (es., Australia, Canada, Giappone, Norvegia, Olanda, Svezia). Quel convegno si è concluso con un documento sui costi e i benefici delle psicoterapie per i disturbi dello spettro ansioso e depressivo (Research Group for treatment for Anxiety and Depression, 2017).

Nel 2018, la stessa Università degli Studi di Padova, che aveva ospitato il convegno in veste di Ente Promotore, ha organizzato la Consensus Conference, in maniera indipendente (ovvero senza finanziatori) e in collaborazione con l’ISS. Dunque, è stato costituito il Comitato Promotore, che ha poi designato il Comitato Tecnico-Scientifico. Inizialmente, quest’ultimo ha identificato gli Esperti, selezionandoli in base alle loro qualifiche dal mondo accademico, professionale, scientifico e delle associazioni. I quesiti da porre agli Esperti sono stati discussi dal Comitato Promotore e dal Comitato Tecnico-Scientifico. Dunque, sono state identificate 12 domande, organizzate in 4 temi; perciò gli Esperti sono stati suddivisi in 4 “Tavoli di Lavoro”, che quindi si sono occupati degli argomenti corrispondenti agli obiettivi e temi descritti precedentemente. I gruppi di lavoro hanno operato in teleconferenza per oltre 20 riunioni, producendo numerosi documenti, discutendoli e revisionandoli. Oltre a formulare delle raccomandazioni per ogni quesito, ai Gruppi di Esperti è stato richiesto di sintetizzare le prove scientifiche e le informazioni accessibili al pubblico riguardo a ogni tema, fornire alla Giuria le relazioni prodotte, presentare i dati raccolti durante tutto il lavoro e partecipare alla discussione nella conferenza finale. Successivamente, il Comitato Promotore ha istituito la Giuria che si è occupata dell’esame del documento, completo di risposte e allegati prodotti dai Tavoli di Lavoro. Il panel Giuria ha avviato la procedura di esaminazione a gennaio 2021, si è articolato in sotto-gruppi di lavoro, ha tenuto 5 riunioni collegiali e infine ha approvato la relazione elaborata dal Gruppo di Esperti. L’ultimo step di questo lungo percorso è avvenuto il 7 giugno 2022 presso l’Università di Padova, dove è stata celebrata, in modalità mista (sia in presenza che in diretta streaming), la conferenza finale in cui sono stati presentati e discussi i lavori della Consensus.

Struttura del documento finale della Consensus Conference

La relazione finale della Consensus Conference, composta da 121 pagine, si apre con una sintetica delucidazione rispetto all’organizzazione del documento e della Conferenza stessi, cui seguono la Premessa del Prof. Silvio Brusaferro, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, e la Presentazione del Prof. Silvio Garattini, Presidente dell’Istituto Mario Negri e della Giuria della Conferenza.

Successivamente, il report si divide in due sezioni. Nella prima parte viene riportata la relazione preparata dal Comitato Promotore e dal Comitato Scientifico della Consensus Conference per i membri della Giuria, in modo da presentare loro gli obiettivi di detta Conferenza, la metodologia da seguire e gli specifici quesiti per i quali è chiamata a costruire le risposte in forma di raccomandazioni. Inoltre, questa prima sezione è dotata di un glossario per inquadrare i termini di riferimento e una serie di allegati per fornire ai membri della Giuria informazioni essenziali per assolvere il loro compito. Gli allegati sono utili, per esempio, per conoscere la storia e le finalità della Conferenza, le linee guida stilate dall’ente inglese National Institute for Health and Care Excellence (NICE) per il trattamento dei disturbi ansiosi e depressivi, e il risvolto economico della gestione di tali psicopatologie. Inoltre, attraverso uno di questi allegati (Allegato 2, p. 46) è possibile conoscere la composizione di Comitati, Gruppi di Esperti e Giuria, ed enti di afferenza di tutti i partecipanti.

La seconda sezione raccoglie le risposte create dalla Giuria per ciascun quesito. Nello specifico, le risposte sono riportate in corrispondenza delle rispettive domande, che sono state suddivise in 4 aree tematiche, tante quante i Gruppi di Esperti. Le raccomandazioni stilate sono dense di informazioni importanti e possono anche essere consultate singolarmente, ecco perché è stato ritenuto utile, nella seconda parte della rubrica, focalizzarsi su ognuna di esse sintetizzandole.

 

GUARDA IL VIDEO DELLA CONFERENZA FINALE:

 

Cambiamento climatico antropogenico: una prospettiva psicologica

Stiamo iniziando ad assistere, purtroppo, alle prime catastrofi generate dal cambiamento climatico antropogenico. Nonostante le previsioni drammatiche, ancora oggi c’è molta ambivalenza riguardo alla reale portata di questo problema. Allora è bene chiedersi perché c’è ancora questo scetticismo? La psicologia può in qualche modo fornire una spiegazione?

 

Uno dei temi “caldi” degli ultimi anni è il cambiamento climatico, un tema che nasconde numerose insidie e che accende le più grandi discussioni in tutto il mondo. Per quanto questo argomento possa essere ormai stato trattato in tutti i modi, ancora oggi una parte della popolazione italiana e mondiale non ha chiaro cosa effettivamente stia accadendo. Quindi è doveroso chiedersi perché le persone, nonostante l’estrema sensibilizzazione a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, non hanno le idee chiare riguardo al cambiamento climatico? In questo articolo cercheremo di rispondere a questa domanda.

Cos’è il cambiamento climatico antropogenico?

I cambiamenti climatici sono fenomeni del tutto naturali che causano il cambiamento, nel lungo termine, delle temperature e degli schemi metereologici. Se sono del tutto naturali allora cosa c’entriamo noi umani? A partire dal XIX secolo con l’aumento della produzione industriale e dell’utilizzo di combustibili fossili (carbonio, petrolio e gas), l’attività umana è diventata la principale fonte del cambiamento climatico (Nazioni Unite, n.d). Per questo motivo oggi si utilizza l’espressione cambiamento climatico antropogenico, cioè generato dall’uomo.

Inoltre, negli ultimi anni sono stati ipotizzati scenari futuri sulle possibili conseguenze prodotte da questo fenomeno e gran parte di esse evidenziano come nei prossimi anni potremmo iniziare ad assistere alle prime catastrofi generate dal cambiamento climatico antropogenico. Nonostante le previsioni drammatiche, ancora oggi c’è molta ambivalenza riguardo alla reale portata di questo problema. Allora è bene chiedersi perché c’è ancora questo scetticismo? La psicologia può in qualche modo fornire una spiegazione?

La psicologia ambientale e il cambiamento climatico antropogenico

Le risposte alle domande precedenti sono state fornite dagli studi della psicologia ambientale, una branca della psicologia che si occupa di studiare l’interazione bidirezionale che intercorre tra umano e ambiente (naturale e non). In particolare, gli psicologi ambientali hanno evidenziato due principali incognite associate alla relazione che intercorre tra umano e cambiamenti climatici:

  1. Le persone hanno capito che cosa sono i cambiamenti climatici?
  2. Le persone sanno valutare il rischio effettivo dei cambiamenti climatici?

1. Comprensione del problema

La popolazione mondiale negli ultimi anni ha acquisito maggiori conoscenze riguardo ai cambiamenti climatici, ma ancora oggi non ha una conoscenza adeguata a comprendere le molteplici cause e le possibili conseguenze di questi fenomeni. Inoltre, è importante sottolineare che non si tratta semplicemente di una scarsa conoscenza scientifica, quanto più di una divulgazione inadeguata.

Infatti, sembra che le principali fonti di informazioni sull’ambiente accessibili alla popolazione derivino dal partito politico di fiducia (Hornsey et al. 2016). Per quanto i politici possano essere informati su varie questioni, spesso a causa delle campagne elettorali confermano quello in cui “credono” i propri sostenitori (Corner et al. 2012), divulgano informazioni parziali a scapito della conoscenza scientifica che si basa su prove e dati. Tutto ciò crea una serie di false credenze e false informazioni che distorcono la realtà delle persone andando a sviare l’attenzione da ciò che è realmente rilevante. La distorsione viene ulteriormente alimentata dall’uso malsano di internet e dei nuovi mezzi di comunicazione, che consentono di condividere informazioni di dubbia provenienza senza nessuna base scientifica. Per concludere, la comprensione del problema è molto superficiale ed è continuamente messa a repentaglio dalla poca capacità di discernere le informazioni da parte della popolazione.

2. Valutazione del rischio

La valutazione del rischio senza una conoscenza completa dell’evento rischioso non può avvenire in modo adeguato. Di conseguenza, anche i comportamenti generati dalla valutazione sono il frutto della poca conoscenza del fenomeno. Chiaramente esistono anche persone informate e che quindi agiscono in funzione delle proprie informazioni. Sia le persone poco informate che quelle informate comunque agiscono confermando le proprie credenze. Ma come fa una persona a valutare un rischio? Rispondiamo a questa domanda usando l’analogia della risposta di emergenza divisa in tre fasi:

a. Rilevare il problema

Prima di tutto bisogna rilevare l’evento che si vuole valutare. Nel nostro caso, la rilevazione appare complessa per tre principali motivi:

  • I cambiamenti climatici sono invisibili agli occhi dei “non scienziati”. Uno scioglimento di un ghiacciaio con possibili vittime fa più clamore di un aumento minimo della temperatura mondiale;
  • Le persone sono confuse quando si parla di riscaldamento globale. Ad esempio, alcune persone possono avere difficoltà nel comprendere il legame tra l’aumento della temperatura e la presenza di nevicate copiose;
  • Le persone che vivono meno a contatto con la natura fanno più fatica a rilevare i piccoli cambiamenti in atto.

b. Interpretare il problema

Secondo Capstick et al (2015) le persone tendono a interpretare il cambiamento climatico come un evento poco minaccioso e preoccupante. Perché nonostante tutte le sensibilizzazioni in atto ci sono ancora persone che valutano tutto ciò come poco rilevante?

  • Ambiguità attributiva. L’ambiguità attributiva indica la difficoltà delle persone nel riuscire a individuare la causa di un fenomeno. Nel caso del cambiamento climatico questo è amplificato dalla presenza di numerose ipotesi plausibili che cercano di comprendere le cause e le possibili conseguenze di questo fenomeno. Tutto questo crea ulteriore confusione e ambiguità che facilita la sottovalutazione del problema.
  • Distanza psicologica. Indica la distanza percepita dalle persone rispetto a un problema. In questo caso la distanza è riferita alla geografia (effetti dei cambiamenti climatici lontani da dove mi trovo), al tempo (gli effetti dei cambiamenti climatici si presenteranno tra molti anni) e al fattore sociale (gli effetti dei cambiamenti climatici accadono agli altri non a me). Tutto ciò influenza e riduce la percezione di pericolo della popolazione (McDonald 2016). Infine, questo fenomeno è associato al bias dell’ottimismo, una distorsione cognitiva che porta le persone a valutare una conseguenza negativa distante da sé (e.g. “in Italia in media ci sono 324 incidenti automobilistici al giorno, sicuramente io non farò mai un incidente”). Per ridurre questo falso ottimismo è necessario che gli effetti negativi colpiscano direttamente la persona interessata;
  • Avversione alla soluzione. Quando la soluzione a un problema non ci piace tendiamo a negare il problema. L’avversione alla soluzione è molto presente in politica. Per via delle ideologie politiche si tende a negare un problema, perché le soluzioni vanno contro la propria ideologia. Lo stesso accade con i cambiamenti climatici. Ci sono fazioni politiche interessate al problema e che propongono delle soluzioni, ma che vengono schermate da altre fazioni che non accettano la soluzione negando il problema (e.g. i conservatori invece di accettare il ruolo primario della propria nazione nella produzione di energia –la principale causa del riscaldamento globale– tendono a negare il problema oppure spostano l’attenzione su altri paesi o altri capri espiatori).

c. Accettare la responsabilità e agire

Terzo e ultimo punto della risposta all’emergenza. Nel nostro caso specifico la riduzione della percezione della minaccia porta le persone a non considerare le proprie responsabilità. Di conseguenza, le azioni messe in atto sono compromesse e non sono dirette alla risoluzione del problema. Ma quali potrebbero essere le possibili soluzioni al cambiamento climatico? E quale apporto può dare la psicologia?

Le due principali azioni che possono essere messe in atto sono:

  1. Mitigation. Ridurre la produzione di energia e il consumo di combustibili fossili così da intervenire direttamente sul riscaldamento globale. In realtà, questa soluzione non è più attuabile in quanto siamo già a un punto di non ritorno. Al momento, la riduzione può solo tamponare e mantenere la temperatura stabile (non considerando possibili altri eventi esterni che possono influire sulla temperatura del pianeta).
  2. Adaptation. Fornire aiuti psicologici così da preparare le persone ai possibili eventi negativi futuri potenziando la loro resilienza (sociale, fisica e mentale). Il principio di fondo è quello dei training svolti dalla protezione civile per preparare le persone a situazioni di emergenza. Conoscere le procedure di base utili ad affrontare un problema consente di prevenire e ridurre i danni.

Conclusioni

Dopo i recenti fatti di cronaca il tema appare evidente. Ciò che è evidente però non è sempre chiaro e compreso da tutti. Tendiamo a minimizzare, a pensare che questi eventi non ci possano capitare e di conseguenza lasciamo decantare l’ennesimo evento esterno dal nostro mondo interno. Infatti, il nostro mondo più intimo viene scosso solo se, come abbiamo visto, l’evento ci riguarda in prima persona o di sbieco. Questa volta è bene fare più di una semplice critica al bar o limitarsi a postare qualcosa sui social. Questa volta è bene tenere a mente quello che potrebbe essere un chiaro segnale di cambiamento. Siamo tutti interessati dai cambiamenti che stanno avvenendo. Sono radicali e casuali e possono colpire chiunque, in qualsiasi momento. Essere preparati a un livello conoscitivo e psicologico è uno dei possibili strumenti che può aiutare a sviluppare la consapevolezza necessaria per accettare le nostre responsabilità e agire di conseguenza. Non permettiamo che questo evento drammatico lasci solo tante parole buttate al vento dei mass media e dei social media.

 

Affrontare il cancro (2022) di Cohn Stuntz e Linehan – Recensione

“Affrontare il cancro” presenta un uso della DTB, già di dimostrata efficacia nelle situazioni di disregolazione emotiva e comportamentale, anche per la gestione delle emozioni legate alla diagnosi di cancro.

 

Nel volume “Affrontare il cancro. Come gestire le emozioni con la DBT” gli autori Elizabeth Cohn Stuntz e Marsha M. Linehan, individuano nella risposta che proviene dall’uso delle abilità della Dialectical Behavior Therapy, un’accettazione profonda della realtà così come è, quale presupposto della mindfulness, intesa come capacità di vivere appieno il presente, momento dopo momento, mettendo sullo sfondo il rimuginio e la ruminazione che fa spesso vivere nel passato o nel futuro.

La DBT è stata fondata tra gli anni Ottanta e Novanta da Marsha Linehan, docente di Psicologia clinica presso la Washington University di Seattle con l’intenzione di proporre un trattamento psicoterapico specifico per soggetti affetti da disturbo borderline di personalità. Trattamento rivelatosi efficace nelle situazioni caratterizzate da intensa disregolazione emozionale e comportamentale, che si avvale di sedute individuali e di gruppo a carattere psico-educazionale e di skills training, il cui obiettivo è insegnare l’utilizzo di comportamenti adattivi, eliminando quei tentativi di controllo delle emozioni dolorose che si rivelano, a lungo andare, un rimedio peggiore del male.

Rispetto alle modalità di affrontare una diagnosi di cancro, al capitolo uno viene offerto un quadro di orientamento per aiutare la persona a dare una risposta adattiva più equilibrata alla diagnosi.

Vengono poi descritti al capitolo successivo gli strumenti che possono aiutare a prendere decisioni efficaci e ad avere fiducia nelle proprie risorse, includendo le abilità di mindfulness.

Il capitolo tre mira ad offrire strategie concrete da poter usare per gestire anche l’apprensione di vivere con il continuo alternarsi di sentimenti intensi e la preoccupazione per l’impatto dello stress sulla malattia. Da qui i successivi contenuti offerti nei capitoli successivi, approfondiscono le emozioni specifiche di paura e ansia, dolore e rabbia.

I capitoli sette e otto presentano strategie per comunicare in modo costruttivo con la famiglia, gli amici, i colleghi e i medici, trattando le abilità essenziali per comunicare le proprie necessità, preservando contestualmente le relazioni.

L’ultimo capitolo si concentra poi sulle fonti di significato e di conforto più profondo, poiché molte persone, quando sentono minacciata la propria sopravvivenza, cercano la connessione con qualcosa di più grande di loro.

Il messaggio che il testo vuole veicolare in conclusione è che quando non si può avere tutto sotto controllo, i propri sentimenti hanno ancora un valore altissimo e le proprie azioni sono in grado di fare la differenza.

Come? Concentrandosi sul presente e affrontando quello che sta accadendo, essendo in grado di regolare emozioni e pensieri, dando voce ai propri pensieri, emozioni e sensazioni fisiche e adottando i principi e le tecniche descritte nel presente volume al fine di gestire la situazione in modo diverso.

Anche se non potete conoscere il futuro, avete la possibilità di affrontare
le alternative della vita restando saldamente ancorati al presente e
scegliere di vivere questo momento nel modo più completo e significativo
possibile.

 

Il desiderio della genitorialità per le persone omosessuali nei contesti eteronormativi

Nonostante numerosi studi abbiano dimostrato l’assenza di una relazione tra il benessere dei bambini e l’orientamento sessuale dei loro genitori, le credenze negative sulla genitorialità lesbica e gay rimangono ancora molto diffuse. 

 

Sebbene il processo di “omonormalizzazione” (Roseneil et al., 2013) abbia contribuito a mettere in discussione la nozione tradizionale di “famiglia”, a molti individui viene ancora negata la possibilità di diventare genitori a causa della non conformità al modello eteronormativo di famiglia. È il caso, ad esempio, delle coppie gay e lesbiche.

Le famiglie lesbiche e gay rappresentano un tasso di incidenza tale da non poter più essere considerate una minoranza silenziosa. Negli Stati Uniti, ad esempio, fin dai primi anni 2000, il National Survey of Family Growth (Chandra et al., 2005) ha rivelato che il 35% delle donne lesbiche e il 16% degli uomini gay avevano figli biologici o adottati.

Tuttavia, nonostante numerosi studi (ad es, Carneiro et al., 2017) abbiano dimostrato l’assenza di una relazione tra il benessere dei bambini e l’orientamento sessuale dei loro genitori, le credenze negative sulla genitorialità lesbica e gay rimangono ancora molto diffuse.

La legislazione riguardo la genitorialità gay e lesbica

Per quanto riguarda il panorama legislativo, la maggior parte dei Paesi occidentali ha ormai riconosciuto i diritti di queste coppie e dispone di normative dettagliate in materia di matrimoni o unioni civili tra persone dello stesso sesso e di genitorialità gay e lesbica.

L’Italia, fino a maggio 2016, era uno dei pochi Paesi europei in cui le coppie omosessuali non ricevevano alcun riconoscimento giuridico. L’approvazione della legge 76/2016 (Gazzetta Ufficiale, 2016) ha riconosciuto le unioni civili tra persone dello stesso sesso e ha esteso loro la maggior parte dei diritti delle coppie eterosessuali sposate. Ma prima dell’approvazione, un lungo dibattito si è focalizzato sulla sezione numero 5 del disegno di legge, che avrebbe riconosciuto il diritto di un partner di adottare i figli biologici dell’altro partner introducendo la cosiddetta step-child adoption. A causa delle profonde divisioni all’interno del governo, la sezione 5 è stata eliminata con il fine di far passare la legge, negando così a molti bambini che crescono in famiglie con genitori dello stesso sesso la stessa tutela giuridica dei loro coetanei (Lampis et al., 2017).

I dati dell’Istituto Nazionale di Statistica rivelano che nel 2012 le coppie omosessuali erano 7.513 con 529 figli (ISTAT, 2012), forse sottostimati dato che molte coppie preferiscono non dichiararsi e che il censimento si riferisce solo alle coppie conviventi (Baiamonte & Bastianoni, 2015). Nonostante la sottostima, ciò sottolinea quanto le genitorialità lesbica e gay rappresentino una realtà consolidata nel Paese. Eppure, nonostante ciò, l’eteronormatività continua a porre il veto a qualsiasi espressione di sessualità non convenzionale e a far apparire l’eterosessualità come la scelta più ovvia (Weston, 1991). Secondo l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (2012), la percentuale di italiani che ritiene che la genitorialità gay e lesbica danneggi i bambini è tra le più alte in Europa. Come hanno sostenuto molti autori (Baiocco et al., 2013; Bertone, 2017), questi pregiudizi persistono anche a causa di tradizioni religiose e culturali che incoraggiano opinioni e sentimenti omofobici.

Le barriere culturali, sociali e istituzionali che le persone con orientamento omosessuale si trovano ad affrontare possono giocare un ruolo cruciale nei loro desideri e nelle loro intenzioni di crescere dei figli. Per questo motivo, uno studio di Lasio e colleghi (2020) ha cercato di analizzare i desideri e le intenzioni di diventare genitori in un campione di persone gay e lesbiche italiane.

I risultati hanno rivelato che l’84,6% dei partecipanti ha dichiarato il desiderio di diventare genitore e che il 64,6% ha dichiarato l’intenzione di avere un figlio. Questo ci dimostra che, nonostante i pregiudizi prevalenti e il sistema legislativo italiano, gli individui gay e lesbiche tendono a riferire la volontà di diventare genitori.

Bisogna anche considerare che in Italia è presente una forte cultura orientata alla famiglia; il desiderio di avere figli può dipendere in gran parte dall’idea che “fare famiglia” sia un valore importante enfatizzando gli aspetti positivi del diventare genitori.

Le barriere alla genitorialità gay e lesbica

Gli autori evidenziano inoltre un divario significativo tra i desideri e le intenzioni genitoriali: il desiderio di avere un figlio non sempre si traduce nell’effettiva intenzione di averne. Ciò riflette le profonde contraddizioni del contesto culturale, sociale e politico italiano che, da un lato, enfatizza i valori della famiglia e della genitorialità ma, dall’altro, nega il riconoscimento di questi diritti ai genitori dello stesso sesso. A causa del contesto, la decisione di diventare genitori per queste persone, rispetto alle persone eterosessuali, può essere più difficile.

Per comprendere meglio questi risultati, bisogna concentrarsi sulle barriere specifiche per le persone gay e lesbiche che cercano di avere figli.

In Italia, il pregiudizio nei confronti della genitorialità lesbica e gay continua. Come dimostra la letteratura esistente (Costa et al., 2014; Whitley, 2009), il pregiudizio può avere radici nelle diverse tradizioni religiose e culturali che incoraggiano opinioni e sentimenti omofobici (Baiocco et al., 2013). Gli atteggiamenti negativi basati sulla religione potrebbero essere interiorizzati anche da individui gay, lesbiche e bisessuali, che possono persino arrivare ad avallare le argomentazioni religiose sostenendo loro stessi che non sono adatti a diventare genitori (Lasio et al., 2019).

Proprio sulla base di quanto detto, gli autori hanno preso in considerazione anche la pratica religiosa e il posizionamento politico e ideologico. Tuttavia, contrariamente ai risultati di altri studi (ad es, Petruccelli et al., 2015), il posizionamento politico, l’affiliazione e il coinvolgimento religioso non hanno mostrato alcun effetto significativo né sui desideri né sulle intenzioni genitoriali.

L’età è l’unica variabile ad aver avuto un effetto significativo sull’intenzione di diventare genitore: in età più elevata si dichiarano maggiori intenzioni di avere figli. Questi dati sono in linea con i risultati sulla popolazione LGBT, ma anche con la tendenza generale che in Italia è quella di avere figli quando si superano i 31 anni per le donne e i 35 per gli uomini (ISTAT, 2012).

Infine, i desideri e le intenzioni genitoriali potrebbero essere influenzati da una serie di variabili diverse non presenti in questo studio. I risultati ottenuti, ad esempio, potrebbero essere mediati da fattori specifici, come gli atteggiamenti personali, i valori familiari, le motivazioni verso la genitorialità e il livello di supporto sociale disponibile. Toccherà a future ricerche approfondire questi aspetti.

La depressione perinatale

Tra i principali fattori di rischio per l’insorgenza di depressione perinatale rientra la presenza di psicopatologia ansioso e/o depressiva durante la gravidanza.

 

Cos’è la depressione perinatale

Secondo alcuni studi l’incidenza di nuovi casi di depressione nei primi mesi successivi alla nascita di un figlio risulta essere tripla rispetto ad altre fasi di vita della donna (Grussu, Bramante, 2016; Ross, Dennis, 2009).

Con il termine depressione perinatale si fa riferimento a un disturbo dell’umore, definito come episodio depressivo maggiore o minore, che esordisce in gravidanza e nel periodo del postparto, e quest’ultimo caso viene generalmente definito come “depressione post-parto”.

Alcune ricerche considerano che la depressione che esordisce nel post-parto possa definirsi tale se l’esordio si colloca entro 4 settimane dal parto, ma la maggior parte degli studi in letteratura concorda nel considerare un margine temporale molto più ampio (fino a 12 mesi successivi al parto) (Gavin et al., 2005).

Il termine depressione perinatale trova riscontro clinico nella continuità della manifestazione dell’episodio depressivo che esordisce in gravidanza e che prosegue nel periodo del postparto (depressione post-parto). Ricordiamo infatti che uno tra i fattori di rischio per l’insorgenza di un episodio depressivo nel post-parto è proprio la presenza di psicopatologia ansioso e/o depressiva in gravidanza. Questo non significa che non possa insorgere la sintomatologia depressiva esclusivamente nel periodo successivo al parto.

I sintomi della depressione perinatale

La depressione post-parto è definibile come un disturbo depressivo maggiore caratterizzato da alcuni dei seguenti sintomi che perdurano per più di due settimane, appunto in tale fase di vita della donna. La gamma dei sintomi include: umore deflesso, tristezza, pessimismo (a volte anche disperazione) pianto persistente e immotivato; irritabilità; senso di solitudine; perdita di interesse in varie attività quotidiane e piacevoli; affaticamento e mancanza di energie; agitazione o rallentamento psicomotorio; scarsa capacità di concentrazione e difficoltà di memoria; difficoltà nel prendere decisioni anche semplici, nella quotidianità; credenza di autosvalutazione, bassa autostima e senso di incapacità; senso di colpa e tendenze all’autorimprovero; disturbi del sonno, dell’appetito e della sfera sessuale; in alcuni casi possono esservi pensieri di morte e ideazioni suicidarie. Spesso si riscontrano in comorbilità sintomi ansiosi. Può avere diversi livelli di gravità (lieve, medio, grave) e va accuratamente distinta dal cosiddetto maternity-blues o baby blues, fenomeno abbastanza comune che insorge nei primi giorni dopo il parto e che si rimette spontaneamente entro circa due settimane.

Fattori di rischio e conseguenze della pressione perinatale

Tra i fattori di rischio per l’insorgenza della depressione dopo il parto (o depressione post-parto) la letteratura evidenzia l’esperienza di eventi stressanti in gravidanza e nel post-parto, la psicopatologia pregressa (donne che hanno avuto nel loro passato episodi depressivi sono più a rischio di sviluppare depressione perinatale, anche se tale condizione può esordire anche in donne con anamnesi psicopatologica muta), la sindrome premestruale, la percezione di un inadeguato supporto sociale da parte della rete socio-familiare e del partner.

La depressione perinatale può comportare conseguenze negative sia a livello individuale per la donna che ne soffre, sia a livello di diade madre-bambino e dell’intero sistema familiare, alterando la funzionalità materna nella relazione madre bambino e impattando sulla qualità dell’attaccamento.

Per questo motivo, risulta fondamentale l’individuazione e il trattamento precoce delle donne a rischio di sviluppare una depressione perinatale. Nell’ambito materno infantile sempre più attenzione si sta ponendo allo screening preventivo per identificare precocemente le donne a rischio e poter agire tempestivamente offendo supporto a livello psicoterapico, e se necessario anche psicofarmacologico. Ad esempio, un questionario autosomministrato ampiamente utilizzato per lo screening delle neomamme è l’Endinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS) che include 10 items, avente la finalità di identificare le donne con elevati profili di rischio.

 

Meditazione mindfulness (2022) di Daniel J. Siegel – Recensione

Il libro di Daniel Siegel “Meditazione mindfulness. Un programma in 21 giorni” è una guida pratica che ha come obiettivo risvegliare il lettore da una vita vissuta in automatico e di sviluppare una maggiore consapevolezza verso gli aspetti dell’esperienza.

 

Il riferimento è la ruota della consapevolezza, una pratica ideata dall’autore per costruire una mente mindful. Il testo si occupa di tre abilità: attenzione focalizzata; consapevolezza aperta; intenzione gentile. Secondo l’autore “In base ai risultati della ricerca scientifica, con lo sviluppo dell’attenzione focalizzata, della consapevolezza aperta e dell’intenzione gentile saremo meglio equipaggiati per affrontare le tempeste della vita grazie a un maggiore senso generale di calma e felicità”. Inoltre, gli effetti di questa pratica si riverberano anche sul corpo con una serie di benefici di cui usufruisce il sistema immunitario, la regolazione epigenetica e la connettività cerebrale.

La ruota della consapevolezza è una metafora di come funziona la mente. L’oggetto della consapevolezza (propriocezioni, sensazioni, pensieri, emozioni, connessioni con il mondo esterno) è rappresentato dal cerchio della ruota, mentre l’esperienza di essere consapevoli è rappresentata dal mozzo. Quest’ultimo è il conoscere, l’altro il conosciuto e l’attenzione focalizzata sui diversi elementi è come un raggio della ruota. “Il raggio dell’attenzione collega dunque il mozzo del conoscere al cerchione dei conosciuti”. In questo modo, differenziando e poi collegando, si procede all’integrazione dell’esperienza della coscienza.

Il programma si svolge in tre settimane, ventuno giorni complessivi, la prima è dedicata a prepararsi alla pratica della ruota della consapevolezza. Sono proposti due esercizi, descritti nel primo capitolo del libro, focalizzati sul respiro. Dopo l’esposizione degli esercizi sono presenti alcune pagine vuote in cui ciascuno potrà descrivere le proprie esperienze, annotare riflessioni e tenere traccia dei propri progressi in relazione soprattutto ai tre fattori che favoriscono benessere e felicità: l’attenzione focalizzata per mantenere la concentrazione, la consapevolezza aperta per avere un atteggiamento ricettivo, la compassione e l’intenzione gentile per cum-patire, prestare aiuto e provare amore per gli altri e per sé stessi.

Nella seconda settimana Siegel propone l’esercizio base della ruota della consapevolezza da eseguire ogni giorno. Si tratta di avere un’immagine chiara della ruota, mozzo cerchione e raggio, per poi spostare di volta in volta il raggio dell’attenzione sui quattro segmenti del cerchio: le sensazioni dei cinque sensi; le propriocezioni del corpo, le attività mentali, il senso relazionale.

La terza, e ultima, settimana prevede l’esercizio della ruota della consapevolezza da svolgere tutti i giorni. All’esercizio di base praticato durante la seconda settimana si aggiungono le dichiarazioni di intenzione gentile riferite a sé stessi, agli altri e al MOI, l’integrazione tra me interiore e il noi interconnesso.

L’autore sottolinea che si tratta di una pratica personale, durante la quale si trascorre del tempo in compagnia della mente e invita a farla propria nel modo che ad ognuno risulti più congeniale.

Chiunque volesse sviluppare un senso di presenza, di connessione e di consapevolezza in ogni singolo momento della propria vita non ha che da cimentarsi.

 

C’è una connessione tra i disturbi alimentari e i disturbi del sonno?

Sonno e nutrizione sono strettamente collegati tra loro e spesso in chi soffre di disturbi alimentari sono presenti anche disturbi del sonno.

 

La sopravvivenza umana, a livello elementare, dipende sia dai comportamenti legati alla nutrizione sia da quelli legati al sonno (Allison et al., 2016). Infatti, alterazioni ad almeno uno di questi due comportamenti possono causare delle complicazioni fisiche e psicologiche. Storicamente, le ricerche che si sono concentrate sulla relazione tra disturbi del sonno e disturbi alimentari hanno sempre avuto come focus lo studio degli effetti della malnutrizione sul sonno e di come essi ne possono impattare la qualità. Sonno e nutrizione sono molto collegati tra loro, un esempio è il fatto che esistono dei disturbi alimentari legati al sonno, come la sindrome da alimentazione incontrollata notturna.

I disturbi del sonno nell’anoressia nervosa

L’anoressia nervosa (AN) è caratterizzata dall’incapacità di mantenere un peso del corpo adeguato, manifestando invece un peso inferiore a quello che dovrebbe essere in base alle caratteristiche individuali di altezza ed età, accompagnato dalla paura di guadagnare peso o diventare “grassi” e dal disagio riguardo il peso (Allison et al., 2016). Inoltre, l’individuo collega il peso e la forma del corpo alla propria percezione di autoefficacia, tende a negare la pericolosità del basso peso o comunque a restringere l’alimentazione nonostante spesso sia a conoscenza di tale pericolosità. Nell’anoressia nervosa sono stati riscontrati dei comportamenti negativi legati all’alimentazione, come il digiuno, il conteggio calorico o l’esercizio compulsivo, l’abuso di diuretici e lassativi e l’induzione del vomito. Inoltre, l’anoressia nervosa mostra un’importante comorbilità (circa il 75%) con episodi di depressione maggiore. A causa di questa comorbilità, ed essendo l’insonnia o l’ipersonnia dei sintomi della depressione maggiore, la presenza di disturbi del sonno è quindi frequente. Il disturbo del sonno più frequentemente riferito dai pazienti con diagnosi di anoressia nervosa è l’insonnia, che include l’insoddisfazione riguardo la qualità del sonno a causa dell’incapacità dell’individuo di addormentarsi o di mantenere un sonno lungo e ristoratore.

È stato osservato che gli individui che soffrono di anoressia nervosa hanno difficoltà al risveglio, una ridotta qualità del sonno e la fase REM del loro sonno dura meno rispetto agli individui che non sono affetti da disturbi alimentari (Allison et al., 2016). Inoltre, è stato osservato che tali pazienti hanno dei risvegli più frequenti e lunghi rispetto agli individui che soffrono solamente di depressione. Ciò può essere spiegato dal fattore della malnutrizione. L’orexina, un neuropeptide rilasciato dall’ipotalamo, è coinvolto sia nella regolazione del ritmo sonno-veglia, sia nella regolazione dell’appetito. La funzione dell’orexina è quella di mantenere attivo, quindi sveglio, l’organismo per consentirgli di cercare cibo quando ha fame. Di conseguenza, dato che gli individui che soffrono di anoressia nervosa assumono scarsi nutrienti, hanno anche alti livelli di orexina che dunque compromette un corretto funzionamento del sonno per consentire al corpo di reperire del cibo.

I disturbi del sonno nella bulimia nervosa

La componente principale della bulimia nervosa (BN) sono gli episodi di perdita di controllo, ovvero un’ingestione di una grande quantità di cibo accompagnata dalla sensazione di perdita di controllo, e il seguente uso di condotte compensatorie inappropriate che hanno lo scopo di evitare l’aumento di peso, come l’autoinduzione del vomito, l’uso di lassativi o l’esercizio fisico eccessivo (Allison et al., 2016). Diversamente dal caso dell’anoressia nervosa, sembra che le persone che soffrono di bulimia abbiano una qualità di sonno maggiore se messe a confronto con individui che soffrono di depressione. Sebbene la letteratura a riguardo sembra essere limitata, una possibile spiegazione potrebbe essere il fatto che a causa delle perdite di controllo e quindi dell’assunzione di cibo, l’individuo non è generalmente così malnutrito come lo è chi soffre di anoressia. Abdou e colleghi (2018) hanno osservato che i sintomi di insonnia erano frequenti nelle donne con diagnosi di bulimia, e che c’erano delle alterazioni marcate nell’architettura del sonno, come una significativa riduzione della durata e della qualità del sonno.

I disturbi del sonno e il disturbo da alimentazione incontrollata

Il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder; BED) è caratterizzato da episodi di assunzione di grandi quantità di cibo in un breve periodo, associati alla perdita di controllo, e ciò rende generalmente i pazienti affetti da questo disturbo in sovrappeso (Allison et al., 2016). A differenza della bulimia nervosa però, non sono presenti condotte compensatorie per rimediare all’abbuffata. Gli individui che soffrono di questa psicopatologia spesso mangiano anche se non hanno fame, e spesso esperiscono sensazioni di stress dopo aver mangiato.

Relativamente alla qualità del sonno, è stato osservato che individui che soffrono di BED hanno una possibilità tre volte maggiore di sviluppare insonnia rispetto a individui che non soffrono di BED (Mehr et al., 2021). Inoltre, è stato ipotizzato un legame tra insonnia e BED, in quanto alcuni pazienti che soffrono di insonnia hanno poi riportato episodi di BED. A questo proposito, Vardar e colleghi (2004) hanno condotto una ricerca mettendo a confronto due gruppi: uno composto da pazienti in sovrappeso/obesi, l’altro composto da individui sovrappeso/obesi che soffrivano anche di BED (Vardar et al., 2004). Gli individui sovrappeso che soffrivano anche di BED hanno riportato una qualità del sonno peggiore, con maggiore difficoltà e tempo impiegato per addormentarsi (Vardar et al., 2004). Questo aspetto potrebbe anche essere legato agli effetti di alcune terapie farmacologiche utilizzate per trattare il BED, che sembra abbiano un impatto negativo proprio sulla qualità del sonno (Allison et al., 2016).

In conclusione, sonno e alimentazione sono funzioni fondamentali per lo stato di salute degli esseri umani e, sebbene diversi studi abbiano osservato l’esistenza di un legame tra i disturbi del sonno e i disturbi alimentari (per esempio, Allison et al., 2016), è necessario condurre ulteriori ricerche per approfondire tale associazione, al fine di incrementare la conoscenza del fenomeno e così migliorare i piani d’intervento.

 

Attaccamento e Trauma: le nuove frontiere della ricerca e della pratica clinica – Congresso 2022

Congresso “Attaccamento e Trauma”: evento dal vivo con Suzette Boon, Mary Jo Barrett, Diana Fosha, Roger Solomon, Vincenzo Caretti, Elizabeth Warner, Jonathan Baylin, Skip Rizzo, Alessandro Carmelita, Marina Cirio, Ronald D. Siegel, Christiane Sanderson, Deb Dana

 

Date: da Venerdì 30 Settembre a Domenica 2 Ottobre 2022
Orario: dalle 09:30 alle 18:30

Accesso alla videoregistrazione dell’evento senza limiti di tempo. Questo evento si svolgerà a Roma presso l’Auditorium Antonianum e sarà trasmesso in diretta streaming online

Accreditamento ECM: 45 crediti ECM +100 in omaggio

Link alla pagina del Congresso >> CLICCA QUI

 

Negli ultimi decenni, la crescente sinergia tra metodi di ricerca sempre più innovativi – sviluppati grazie alle scoperte neuroscientifiche – e rispettive applicazioni cliniche ha contribuito significativamente alla realizzazione di importanti progressi nell’ambito della Psicoterapia. Se, da un lato, la ricerca neuroscientifica è diventata sempre più sofisticata e precisa, consentendo agli Esperti di identificare nuove funzioni cerebrali e nuove interazioni tra aree diverse del nostro cervello, gli studi clinici, dall’altro lato, hanno esaminato sia i possibili campi di applicazione della ricerca che gli interventi terapeutici più efficaci per affrontare la psicopatologia e promuovere il benessere psicofisico dell’individuo.

Le conoscenze sempre più approfondite riguardo al trauma e ai suoi effetti non soltanto sul cervello, ma anche sui comportamenti, le emozioni, le cognizioni e le interazioni sociali dell’essere umano stanno ampliando notevolmente gli orizzonti sia in ambito di ricerca che in ambito clinico, evidenziando la necessità di concepire l’uomo come un tutt’uno, come il risultato della combinazione tra esperienze di vita, predisposizioni genetiche, temperamento, aspetti culturali ed educativi.

Oggi, gli interventi clinici focalizzati sul trauma hanno la possibilità di consolidare la propria efficacia in base alle più recenti scoperte in ambito neuroscientifico. Dalla trasmissione intergenerazionale degli eventi traumatici descritta dall’Epigenetica ai cambiamenti cerebrali indotti dagli interventi terapeutici riparativi, la correlazione tra studi clinici e di ricerca apre la strada a nuovi outcome di trattamento ancora inesplorati, incrementando le possibilità di guarigione dalla psicopatologia.

La dodicesima edizione del celebre Congresso “Attaccamento e Trauma”, organizzato dall’ Istituto di Scienze Cognitive, offrirà l’opportunità di integrare gli aspetti più innovativi degli studi di ricerca in ambito neuroscientifico agli interventi clinici più efficaci. Il Congresso punterà, inoltre, a favorire una comprensione più mirata di come il trauma può compromettere lo sviluppo sano non solo dell’individuo ma anche di intere comunità, e di come è possibile guarire le esperienze traumatiche in modo profondo e duraturo.

Dopo due anni segnati dalle difficoltà causate dalla pandemia, il Congresso “Attaccamento e Trauma” torna finalmente a Roma: sul palcoscenico del prestigioso Auditorium Antonianum, a pochi passi dal Colosseo, saliranno nuovamente Esperti di fama internazionale, pronti a offrire una panoramica completa e variegata sulla ricerca neuroscientifica e sulla pratica clinica nell’ambito del trattamento del trauma e dei disturbi dell’attaccamento.

Il Congresso sarà trasmesso anche in diretta streaming, consentendo la partecipazione online di tutti coloro che non potranno (o preferiranno evitare di) partecipare di persona. La videoregistrazione del Congresso sarà disponibile sul sito dell’Istituto di Scienze Cognitive e accessibile senza limiti di tempo.

Oltre a essere un’importante opportunità di formazione, la dodicesima edizione del Congresso “Attaccamento e Trauma” sarà anche un prezioso momento di incontro e di condivisione per tutti i professionisti della salute mentale che, stanchi di seguire corsi online, sentono la necessità di ritrovare i propri colleghi di persona e vivere un’esperienza formativa arricchente e coinvolgente. Partecipare al Congresso “Attaccamento e Trauma” sarà, infine, un’esperienza unica e immersiva, grazie alle performance di artisti (attori, musicisti, cantanti e ballerini) che si esibiranno durante le pause, nonché a sessioni di meditazione e yoga guidate da istruttori professionisti.

 

Gli obiettivi e i destinatari della Consensus Conference – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 2

Dopo aver sommariamente affrontato il tema della Consensus Conference, in questo secondo articolo sono riportate le finalità e i destinatari della Conferenza sulle Terapie Psicologiche per Ansia e Depressione esplicitati nel documento finale.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 2) Gli obiettivi e i destinatari della Consensus Conference

 

Sostanzialmente, gli obiettivi su cui i Gruppi della Conferenza oggetto di questa rubrica sono stati chiamati a discutere e trovare accordo riguardano la promozione della conoscenza e l’applicazione delle terapie psicologiche di efficacia dimostrata per ansia e depressione, oltre le proposte di metodi per favorire l’accessibilità della popolazione a cure psicologiche appropriate, così da modulare l’attuale problema rispetto ai trattamenti (ISS, 2022). L’aspetto critico dell’accesso a trattamenti psicologici adeguati (ovvero efficaci) risiede nel fatto che questi ultimi risultano sottorappresentati nel sistema assistenziale italiano; pertanto, come sottolineato nella relazione finale della Consensus e dal Dott. Ezio Sanavio, “i pazienti che necessitano di una psicoterapia sono indotti a ricorrere al mercato privato con una discriminazione di censo intollerabile in tema di salute e irrispettosa del dettato costituzionale” (p. 41 ISS, 2022).

I temi che sono stati affrontati hanno riguardato: l’efficacia e l’applicabilità al contesto italiano delle linee guida, delle terapie e dei modelli organizzativi attualmente disponibili come riferimento; le modalità, gli strumenti e le procedure per individuare le persone che possono aver bisogno di terapie psicologiche per ansia e depressione; la formazione e l’aggiornamento sulle terapie psicologiche efficaci dei professionisti che operano nel settore; le risorse necessarie, i modelli organizzativi e i percorsi diagnostico-terapeutici per facilitare l’accesso alle terapie psicologiche (ISS, 2022).

Di conseguenza, gli obiettivi, a partire dai quali sono stati articolati i quesiti, si sono concretizzati in quattro aree: (1) la formazione nei corsi di laurea di Medicina e di Psicologia e nelle scuole di specializzazione; (2) l’aggiornamento professionale, la formazione continua e l’editoria scientifica; (3) la pratica professionale, i servizi socio-sanitari e gli aspetti organizzativi ed economici; (4) la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, la collaborazione con chi è interessato e con chi detiene il potere decisionale (ISS, 2022).

La Consensus Conference si rivolge a un pubblico variegato. Anzitutto, è diretta a coloro che non conoscono la psicoterapia, le malattie mentali o come opera il sistema sanitario nazionale in merito, ma che tuttavia hanno avuto esperienza diretta o indiretta di problematiche ansiose e/o depressive (ISS, 2022). Inoltre, è indirizzata al mondo della formazione, intesa sia come sistema universitario sia di aggiornamento professionale, che non sempre provvede a fornire contenuti aggiornati in materia di protocolli d’intervento. Soprattutto, è diretta al Servizio Sanitario Nazionale che, sebbene sia elemento di pregio internazionale per l’Italia, attualmente non possiede le risorse necessarie per sopperire alle dimensioni di tali problemi. Infine, si rivolge al mondo della ricerca scientifica, il quale è necessario che conduca sempre più studi di efficacia pratica (effectiveness) e analisi di efficienza (efficiency), al fine di valutare i percorsi di cura già esistenti e crearne anche di nuovi.

 

Il ruolo del farmaco nel setting psicoterapico: confini e potenzialità 

Lo stile di attaccamento può risultare un possibile fattore discriminante nel rapporto con lo psicofarmaco all’interno del setting così come il funzionamento a livello personologico.

 

Impostare un piano farmacologico all’interno del setting può mostrarsi opportuno per il raggiungimento di un risultato terapeutico efficace e generalizzabile, anche sul lungo termine. Il farmaco si mostra un valido aiuto per la gestione del sintomo, soprattutto in riferimento a quadri psicopatologici che prevedono un coinvolgimento organico importante (ad esempio il disturbo bipolare, il DOC, la schizofrenia, ma anche la stessa depressione maggiore), la cui presenza può porsi come elemento ostruttivo di un buon esito terapeutico.

In particolare l’assunzione del farmaco è risultata positivamente correlata con la costruzione di una più solida compliance terapeutica e con lo sviluppo di un atteggiamento egodistonico verso il sintomo, aspetti necessari ad un più agevole ripristino dell’insight, del contatto con la realtà e della funzionalità di pensiero. Fattori che possono comportare altresì un miglioramento delle risorse psicologiche supplementari – ad esempio memoria e attenzione – un rafforzamento del processo cognitivo globale e un aumento dell’assertività, oltre a contribuire ad un indebolimento delle resistenze nei confronti della relazione terapeutica, e alla riduzione dei vissuti patologici di impotenza e passività (Gabbard, 2014).

Introdurre in un setting psicoterapico un piano farmacologico condiviso non si mostra tuttavia un’operazione semplice, soprattutto a causa dei consolidati pregiudizi che vedono nell’assunzione del farmaco un fattore “etichettante”. Non è poi da tralasciare il valore simbolico affettivo allo stesso attribuito in via transferale, che può renderlo ora oggetto di una valutazione supportiva – in ragione della quale lo stesso paziente ne ritiene necessaria l’assunzione – ora di una visione diffidente e stigmatizzante, che ne rende impossibile l’inserimento terapeutico, anche ove necessario.

Psicofarmaci e stile di attaccamento

Lo stile di attaccamento può risultare un possibile fattore discriminante nel rapporto con il farmaco all’interno del setting (Ciechanowski, 2001): in particolare i soggetti evitanti – che mostrano una certa riluttanza nella costruzione di legami affettivi – accettano con la medesima diffidenza l’introduzione del farmaco proprio perché identificano in esso un possibile strumento di legame oggettuale da cui dipendere.

Soggetti con attaccamento ansioso possono rifiutarne l’assunzione, nel timore di venire danneggiati da possibili effetti collaterali. Pazienti con attaccamento disorganizzato possono invece mostrare nei confronti del farmaco convinzioni incoerenti e mutevoli, in grado di rendere altrettanto incostante l’organizzazione della terapia farmacologica.

Anche le connotazioni personologiche sono in grado di influenzare la valutazione di una terapia con psicofarmaci. Soggetti con un nucleo di personalità paranoide possono ritenere il farmaco una fonte di danneggiamento del Sé, in grado di mettere in pericolo il loro stesso nucleo identitario; soggetti fobici con modalità difensive controdipendenti sono invece propensi ad interpretare l’integrazione farmacologica come un attacco alla propria autonomia, e questo li porta a rifiutarne l’assunzione mediante una serie di condotte sabotanti, collusive con la convinzione di “bastare a se stessi” (Gabbard, 2014). Questa aggressività passiva e l’indefesso rifiuto di ogni sostegno terapeutico derivano da un risentimento arcaico maturato verso figure genitoriali poco attente o abbandoniche, che vengono ritorsivamente respinte proprio attraverso il ripudio della terapia: in particolare, rifiutando il sostegno del farmaco, il paziente rinnova il rifiuto verso i genitori, preservando un senso di integrità e indipendenza, ma anche sperimentando un innegabile senso di trionfo, di meditata vendetta, di vissuto autoconfermante (Gabbard, 1988) che trova il proprio fondamento nell’operato di un Sé sabotante e autodistruttivo; sono quelli che Grove chiama i “pazienti respingi aiuto” (1978).

Soggetti con tendenze narcisistiche potrebbero vedere nella prescrizione del farmaco l’implicita ammissione del fallimento del clinico, che non è riuscito, con le sue sole risorse professionali, a raggiungere un risultato produttivo. In questo caso non è escluso che il ricorso all’assunzione del farmaco possa essere utilizzata come un’occasione di squalifica dell’operato del terapeuta, nell’ottica disconfermante invidiosa e distruttiva tipica di questa personalità (Klein, 1957).

Soggetti con tendenze dipendenti potrebbero trovare nel farmaco una sorta di oggetto transizionale, e riversare su di esso una gratificazione anaclitica frustrata nell’infanzia (Book, 1987). Toccare la pastiglia o anche solo guardarla può avere degli effetti positivi su questa tipologia di pazienti, che, ricorda Gabbard, in certi casi mostrano un transfert dipendente anche nei confronti del terapeuta, in cui tendono ad identificare la figura idealizzata di un genitore accudente e premuroso dal quale non vogliono separarsi (1988).

Ancora, pazienti con tratti antisociali possono manifestare un inflessibile rifiuto non soltanto verso l’assunzione dello psicofarmaco, ma verso la terapia in toto, che giudicano con insofferenza soprattutto a causa delle modalità con le quali vi hanno avuto accesso. Si tratta infatti di soggetti che, nella maggior parte dei casi, non sono giunti di fronte al clinico in seguito ad una deliberazione consapevole, ma a causa di un provvedimento prescrittivo imposto dall’autorità (spesso detenuti o individui sottoposti a programmi riabilitativi): in tutti questi casi il rifiuto del farmaco si mostra coerente con il rifiuto di una terapia ritenuta inutile ed etero imposta, vessillo di una violazione del Sé volitivo.

In altre occasioni il rifiuto dell’integrazione farmacologica può mostrarsi il frutto di una sfiducia generalizzata nei confronti del farmaco, maturata a seguito di una serie di devastanti insuccessi terapeutici: è il caso di soggetti che hanno assunto una serie di sostanze psicotrope senza trarne alcun beneficio e che ormai ritengono inutile qualsiasi ulteriore tentativo (Groves, 1978).

Ulteriore elemento in grado di condizionare la gestione farmacologica all’interno del setting è riconducibile allo specifico stadio evolutivo del paziente; ad esempio i soggetti inseriti in una fase senile o adolescenziale, sotto l’influenza dei rispettivi bisogni emotivi e fisiologici, possono mostrarsi particolarmente suscettibili a sviluppare un totale rifiuto del farmaco o un eccessivo attaccamento allo stesso. Gli adolescenti, in particolare, possono identificare nel farmaco una prescrizione eteroindotta da sfuggire a priori, in quanto limitativa del Sé, o al contrario possono vedere in esso un fattore stimolante in grado di appagare la sensation seeking tipica di questa fase evolutiva; di converso l’anziano può prospettare nell’assunzione farmacologica un pericolo per la propria salute, soprattutto a causa degli effetti collaterali da cui si sente particolarmente minacciato, o può alternativamente considerarla una risoluzione salvifica delle sue problematiche, un oggetto buono idealizzato in grado di ripristinare magicamente il benessere e la sicurezza perdute (Bellantuono, Vampini, 2002). Da qui l’instaurarsi di una pericolosa politica di “autogestione” del farmaco, in grado di compromettere la psicoterapia e il benessere stesso del paziente.

Il rifiuto dello psicofarmaco

Un rifiuto totale del farmaco può porre la terapia in uno stadio di autentica impasse, soprattutto perché allo stesso consegue, nella maggior parte dei casi, una reazione piuttosto negativa da parte del terapeuta, che si sente squalificato nelle proprie competenze e nel proprio ruolo professionale. Questo rifiuto del Sé professionale, andando a collidere immancabilmente con il Sé identitario, può provocare in lui vissuti di insicurezza, disistima o rabbia, inducendolo o ad interrompere anzitempo la terapia o a mostrare atteggiamenti autoritari volti a far valere la propria volontà su quella del paziente (Groves, 1978). L’asimmetricità dei ruoli di per sé posta salvaguardia del setting, viene utilizzata in questo frangente come un fattore in grado di incrementare la non negoziabilità del conflitto.

Come osservato anche da studi di settore (Bush and Sandberg, 2007), una condotta impositiva da parte del terapeuta ottiene sulla volontà del paziente l’effetto totalmente opposto, rendendo ancora più difficile l’instaurazione di una compliance produttiva. Spesso i pazienti provano vergogna di fronte al loro bisogno di psicofarmaci, così come della loro paura di assumerne: un atteggiamento oppositivo e autoritario del medico non può che incrementare questo senso di disagio, aumentando le insicurezze del paziente e la fragilità dell’alleanza terapeutica.

Un approccio assai più produttivo è quello volto ad accogliere con empatia le perplessità individuali, nel tentativo di comprenderne il senso, la natura e l’origine, anche attraverso il racconto anamnestico di esperienze maturate in modalità vicariante, e che possono aver svolto un ruolo condizionante nel rifiuto. Sarà inoltre importante indagare le convinzioni della famiglia circa la prescrizione e l’assunzione dei farmaci, al fine di inquadrare le insicurezze in un’ottica relazionale (Groves, 1978).

Anche la decisione di modificare il farmaco o di sospenderne la somministrazione non dovrà mostrarsi unilateralmente gestita dal medico, bensì equamente discussa e ragionata, affinché il paziente non decida di sottrarsi alla stessa in un’ottica transferale difensiva. In particolare, l’autorità del clinico può venir sovrapposta alla rigida volontà genitoriale che il paziente è stato costretto ad introiettare, in modalità non negoziabile, a scapito dell’assertività e dell’autonomia del Sé (Gabbard, 2014). Una gestione farmacologica non negoziabile e in totale gestione del medico può inoltre incrementare nel paziente un senso di dipendenza, impedendo quel processo di rafforzamento consapevole e assertivo del Sé che costituisce uno dei principali obiettivi terapeutici.

Lo psicofarmaco nel setting psicoanalitico

Nell’ottica psicodinamica che identifica il rapporto terapeutico con una diade materna, una sorta di bozzolo esistenziale in cui l’Io del paziente si appoggia a quello Ausiliario del clinico per trarre dallo stesso elementi di stabilità, integrità e coesione, la prescrizione di una terapia farmacologica può essere interpretata come un’intromissione indebita, un’aggressione all’intimità di un legame spesso costruito a fatica.

In particolare il farmaco viene visto come un elemento in grado di recidere il binomio relazionale di setting, imponendo improvvisamente una realtà oggettuale triadica. Incursione che, neppure tanto indirettamente, richiama l’inserimento dell’elemento maschile nella diade materna, fattore differenziante ritenuto indispensabile ai fini della costruzione di un senso del Sé funzionale e assertivo, ma il cui graduale inserimento deve risultare favorito dai due elementi della diade, per non risultare potenzialmente distruttiva del legame simbiotico idealizzato nella stessa.

La prescrizione del farmaco può venir accolta con favore da quei pazienti che sperimentano fantasie persecutorie transferali nei confronti del terapeuta. Il ricorso al farmaco fungerà in questo caso da fattore in grado di diluire l’esclusività di un legame soffocante, contrastandone la presenza con l’attivazione ego difensiva di fantasie schizoidi finalizzate ad impedire qualsiasi invasione oggettuale.

In altri contesti terapeutici il farmaco viene reso oggetto di un iperinvestimento compensativo, conseguenza di un condensato relazionale non gratificato. In questo caso lo psicofarmaco può fungere da oggetto transizionale, un oggetto metaforizzato che aiuta a depotenziare il dolore luttuoso per una separazione materna mai del tutto rielaborata.

Il desiderio di assunzione del farmaco può essere ispirato da un intento puramente delegante: a testimonianza di come la fragile struttura egoica del paziente sia alla ricerca di elementi cui affidare passivamente la responsabilità dell’esito abilitante della terapia, e dunque di un oggetto sul quale riversare in modalità evacuativa proiezioni di aggressività latente che non vuole riconoscere come appartenenti al Sè. È come se il paziente affermasse: se non ce la faccio a migliorare è colpa del farmaco. Da qui una totale autoassoluzione, ma anche la testimonianza di un impulso anedonico che spinge a mettersi totalmente nelle mani di un altro, a lasciarsi agire anziché gestire attivamente gli spazi e i confini del Sé all’interno del setting.

Anche il clinico può percepire il farmaco come un oggetto invasivo, una presenza incistante alla quale sacrificare l’esclusività di un rapporto affettivo che tanto richiama il legame diadico. Da qui lo sviluppo di angosce di differenziazione o di perdita oggettuale (Klein, 1957) in cui il farmaco viene visto come un elemento intrusivo in grado di mettere in pericolo l’esistenza di un rapporto relazionale ritenuto inviolabile. Ma anche di ferire l’identità professionale del terapeuta che, vittima di un inevitabile vulnus narcisistico, se ne sente controllato, esaminato e per certi aspetti surclassato (Gabbard, 2014). Questa percezione invasiva può mostrarsi ulteriormente incrementata in tutti i casi in cui il clinico che prescrive il farmaco non è lo stesso che conduce la psicoterapia. Il rapporto di stretta collaborazione professionale che si richiede in tali circostanze comporta un inevitabile ampliamento dei confini psichici e logistici del setting, la cui gestione non risulta sempre agevole.

Lo psicofarmaco e il pensiero scissionale nel setting

In definitiva, la presenza del farmaco all’interno del setting risulta tutt’altro che scevra da elementi di condizionamento emotivo. Questo non senza conseguenze dannose per la terapia, in cui l’integrazione farmacologica dovrebbe risultare bonificata da ogni investimento affettivo, in favore di una valutazione professionale, emotiva e relazionale che ne potenzi le capacità supportive.

Lontano da categorizzazioni euristiche e collusive, il farmaco non deve essere né sempre evitato né puntualmente prescritto. Non si tratta di un oggetto salvifico o persecutore, quanto meno non a priori: qualsiasi valutazione differente rischia di attivare meccanismi deleganti- in senso idealizzante o colpevolizzante- in grado di accrescere gli investimenti patologici del paziente e di impedire la nascita di un Sé autentico.

Si è inoltre visto come in alcune categorie psicopatologiche la prescrizione del farmaco si ritenga il presupposto per l’avvio e il mantenimento del rapporto terapeutico, e come la gestione di una terapia integrata sia in grado di agevolare un risultato terapeutico più efficace e duraturo, che recenti stime attestano intorno al 70% (Favorelli, 2010).

Tuttavia, soprattutto all’interno di un setting psicoanalitico, l’introduzione del farmaco non può non risultare oggetto della diffidenza dal paziente e talvolta anche dal terapeuta, che nello stesso riconoscono connotati di intrusività potenzialmente distruttiva, in grado di frammentare quella percezione di holding environment (Winnicott, 1947) che permea il vissuto transferale e controtransferale.

Ove ambedue saranno capaci di gestire al meglio lo stress di questo nuovo ingresso, riconoscendone gli aspetti produttivi e cercando di metterli a frutto per raggiungere obiettivi più stabili e condivisi, il farmaco potrà mostrarsi un elemento supportivo non soltanto dal punto di vista terapeutico, ma anche sotto l’aspetto più strettamente oggettuale, divenendo un elemento trasformativo, polisemico (Ogden, 1982), in grado di ridisegnare adattivamente distanze e confini relazionali, e di gettare le basi per la costruzione di nuovi spazi psichici.

 

Cos’è la Sindrome delle Gambe Senza Riposo?

Per poter effettuare la diagnosi di sindrome delle gambe senza riposo è necessario che vengano osservati specifici sintomi, come l’intenso bisogno di muovere le gambe, spesso accompagnato da/in risposta a una sensazione di disagio alle gambe.

 

La sindrome delle gambe senza riposo (Restless Leg Syndrome; RLS), conosciuta anche come la malattia di Willis-Ekbom, è una patologia che ha come sintomo principale un irrefrenabile bisogno di muovere le gambe a causa di una forte sensazione di disagio che diminuisce o sparisce proprio nel momento in cui l’individuo muove le gambe (Gossard et al., 2021). Il movimento delle gambe avviene tipicamente di sera o durante la notte, e quando l’individuo è a riposo. Nonostante questo disturbo riguardi prevalentemente le gambe, è stato notato come anche altre parti del corpo vengano colpite, come la bocca, il collo, le braccia, l’addome e in alcuni casi anche i genitali.

La diagnosi di sindrome delle gambe senza riposo

La sindrome delle gambe senza riposo è un disturbo che appartiene alla categoria dei disturbi del sonno, presente nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association [APA], 2013/2014). Per effettuare tale diagnosi è necessario che vengano osservati specifici sintomi, come l’intenso bisogno di muovere le gambe, spesso accompagnato da/in risposta a una sensazione di disagio alle gambe; con la caratteristica che (1) il bisogno di muovere le gambe compare o peggiora quando l’individuo è a riposo, (2) la sensazione di disagio passa in parte o svanisce totalmente quando le gambe vengono mosse e (3) il bisogno di muovere le gambe compare o peggiora solamente alla sera o durante la notte. Inoltre, tali sintomi devono manifestarsi almeno 3 volte a settimana ed essere presenti da almeno 3 mesi; devono essere associati a forte stress o causare difficoltà nell’ambiente sociale, occupazionale, educativo, comportamentale o in altre importanti aree del funzionamento dell’individuo. Per questa diagnosi è importante anche accertare che i sintomi citati non siano causati da altre condizioni mediche (ad esempio artrite, ischemia periferica, crampi alle gambe), effetti fisiologici di sostanze o farmaci, altri disturbi mentali, o una particolare condizione comportamentale (ad esempio postura scorretta).

Studi epidemiologici hanno riportato che la sindrome delle gambe senza riposo ha una prevalenza tra il 7 e il 10% nella popolazione adulta generale europea e americana (Gossard et al., 2021). Sembra inoltre che il genere femminile abbia una predisposizione a essere soggetto a questa sindrome con maggiore frequenza rispetto al genere maschile. In aggiunta, i sintomi della sindrome delle gambe senza riposo sembrano essere prevalenti negli adulti con più di 40 anni; alcuni studi hanno addirittura suggerito che il disturbo sia presente per il 18-23% solo nella popolazione anziana. Sembra quindi esserci una correlazione tra la presenza dei sintomi e l’invecchiamento. Tuttavia, è interessante notare come la sindrome delle gambe senza riposo sia presente anche in bambini e adolescenti, affliggendo circa l’1-4% della popolazione infantile. Eppure, nonostante l’alta prevalenza del disturbo, la maggior parte degli individui riferisce sintomi lievi o moderati, mentre solamente l’1-3% delle persone esperisce sintomi gravi o molto frequenti.

Sintomi e comorbilità della sindrome delle gambe senza riposo

I sintomi della sindrome delle gambe senza riposo spesso impediscono o rendono difficile lo svolgimento dei normali ritmi circadiani, e ciò può avere delle ricadute negative sia per quanto riguarda l’umore, come la deflessione del tono dell’umore, sia per quanto riguarda le energie cognitive, come stanchezza e rallentamento (Gossard et al., 2021). L’intensità della compromissione viene misurata da alcune scale come la International Restless Legs Syndrome Study Group rating scale (IRLS; International Restless Legs Syndrome Study Group; 2003), che misura l’intensità dei sintomi in relazione all’umore del paziente, il suo funzionamento quotidiano, la qualità del sonno, la frequenza dei sintomi e il disagio che causano.

Alcune ricerche hanno riscontrato dei legami anche con alcune patologie fisiologiche, come diabete, emicranie, disturbi cardiovascolari, ipertensione e anemia (Gossard et al., 2021). Sembra inoltre che la sindrome delle gambe senza riposo possa essere associata alla malattia di Parkinson. Un’altra importante condizione di comorbilità è risultata essere il deficit di ferro, e proprio grazie a questa scoperta, alcune terapie ora includono la somministrazione di ferro, soprattutto nelle donne in gravidanza.

In conclusione, la sindrome delle gambe senza riposo è una sindrome che necessita sicuramente di attenzione clinica, ed è necessario reperire ulteriori dati al fine di programmare dei trattamenti biologici efficaci (Gossard et al., 2021).

 

Figli di internet (2022) di Lancini e Cirillo – Recensione del libro

“Figli di Internet” è un repertorio di riflessioni e istruzioni su come gestire il rapporto che i giovani hanno con l’universo virtuale. Senza la pretesa di proporre ricette preconfezionate, ma con la volontà di offrire spunti di riflessione, costituisce una guida di facile lettura e comprensione, pur mantenendo la sua scientificità. 

 

Le domande a cui si tenta di fornire risposta, a detta degli autori, riguardano le prospettive e le modalità con cui leggere, interpretare, approcciare e gestire gli aspetti psicologico-affettivi implicati nel rapporto con i videogiochi, i social network, le relazioni virtuali, il cyberbullismo e tutta la vasta gamma di rischi presenti nel mondo del web.

Essenziale il concetto di società “onlife” (Floridi, 2017), che illustra efficacemente la nuova forma di esistenza in cui siamo immersi, dove i confini tra reale e virtuale sono abbattuti.

Il secondo capitolo è dedicato ad analizzare i compiti evolutivi adolescenziali, ossia il processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, la mentalizzazione del sé corporeo in cambiamento durante la fase puberale, la nascita sociale, quindi la costruzione di un ruolo socialmente accettato tra i coetanei, la definizione e formazione dei valori personali.

Tali passaggi si realizzano in ogni epoca storica, sebbene il contesto socioculturale influenzi in modo decisivo le modalità in cui i compiti si declinano e realizzano. Nella società contemporanea, la diffusione di Internet e soprattutto le trasformazioni dei modelli educativi familiari, in direzione affettivo-relazionale, e dei modelli sociali, ora fondati sull’individualismo e la liberalizzazione delle scelte, hanno contribuito a inquadrare la fase adolescenziale in un’ottica sempre più narcisistica, ovvero centrata sul sé più che sull’altro.

Il testo dedica uno spazio importante all’analisi dei social network, ovvero delle reti sociali virtuali diffusesi negli ultimi anni, soffermandosi sui significati evolutivi dei social (capitolo 5), sulle relazioni virtuali che è possibile intrecciare grazie a essi (capitolo 6), sulla presentazione della propria immagine pubblica, mediante foto, video e post (capitolo 7).

Molto utile la sezione FAQ, dove è possibile consultare alcune domande frequenti dei genitori sul mondo social: “Esiste un’età «giusta» per aprire il profilo social? Cosa fare quando si scoprono immagini erotiche nel cellulare del proprio figlio o della propria figlia?” (Lancini e Cirillo, 2022)

Nella fase adolescenziale, l’immagine costituisce il canale privilegiato attraverso cui il corpo esprime al mondo le proprie verità estetiche, affettive e relazionali (Lancini e Cirillo, 2022). In particolare, nella società contemporanea, narcisisticamente orientata, il culto della bellezza è centrale, quindi mostrare e mostrarsi diventa essenziale. A tal scopo, il selfie – moderna forma di autoritratto – costituisce il comportamento più diffuso per dare voce al bisogno di valorizzazione e riconoscimento. Lancini e Cirillo (2022) evidenziano come, secondo alcuni studi, la pratica del selfie correla con la tendenza di attribuire all’aspetto fisico la principale fonte di valore personale.

Per gli adolescenti, le foto di sé assumono una funzione particolare di supporto alla costruzione dell’identità personale: scattarsi un selfie diventa l’occasione per un “laboratorio della propria immagine”, in cui si tenta di studiare il proprio corpo e l’effetto che può fare sugli altri, provando diversi look e/o tipologie di make-up (Lancini e Cirillo, 2022).

Il rapporto con la propria immagine risulta maggiormente complesso, pensando ai rischi che spesso gli adolescenti corrono quando l’autoscatto avviene in situazioni di pericolo per la propria incolumità fisica – per esempio, mettendosi a cavalcioni su un davanzale o sul cornicione di un grattacielo per scattare una foto da postare immediatamente sui social, in virtù del timore di piombare nell’invisibilità sociale – o quando l’autoscatto conduce a sovraesporre il proprio corpo denudato, in uno scambio di immagini intime con i coetanei (il cosiddetto sexting), mossi dall’urgenza di ricevere sguardi di approvazione, riconoscimento e valorizzazione (Lancini e Cirillo, 2022).

L’ottavo capitolo esamina attentamente il fenomeno del bullismo, come insieme di comportamenti fisici, verbali e relazionali, reiterati nel tempo, messi in atto da uno o più individui ai danni di un altro soggetto percepito come più debole, e il suo corrispettivo social, il cyberbullismo, come insieme di azioni aggressive, intenzionali, realizzate mediante strumenti elettronici, come i social network, foto e video, e-mail, chat e telefonate (Lancini e Cirillo, 2022). Gli autori tratteggiano diverse forme di cyberbullismo: i messaggi violenti e offensivi in flaming, harassment e cyberstalking, la denigration (pettegolezzi, dicerie), il cyberbashing (video di atti di bullismo), l’impersonation (furto dell’identità), outing e trickery (rivelare informazioni personali o ingannare la vittima), exclusion (l’esclusione da chat, gruppi social).

Viene proposta una specifica definizione e classificazione delle diverse forme di bullismo – diretto (offese, minacce, furto) e indiretto (esclusione dal gruppo, maldicenza) –, per poi dedicarsi alla dinamica bullo-vittima e al ruolo degli adulti (Lancini e Cirillo, 2022).

Il capitolo nono – prove estreme in internet – affronta più nello specifico l’incontro con sfide, comportamenti pericolosi e disfunzionali che vengono inneggiati in rete, una questione delicata che allarma fortemente i genitori delle nuove generazioni.

 Oltre a selfie estremi che ritraggono ragazzi e ragazze alle prese con comportamenti pericolosi, postati sui social network al fine di garantirsi visibilità e acquisire popolarità tra i coetanei, anche a costo di rischiare la vita, si assiste alla diffusione nel web di una serie di sfide, o challenge, piuttosto rischiose, una tra tutte è la «thin inspiration challange», fondata sull’istigazione alla magrezza e al controllo del corpo (Lancini e Cirillo, 2022).

È altrettanto preoccupante il fenomeno dei gruppi estremi, ovvero comitive di scambio e discussione su tematiche di sofferenza e disagio estremi: i gruppi noti al pubblico come “pro-Ana”, per l’anoressia, o “pro-Mia” per la bulimia, raccolgono soprattutto ragazze e giovani donne che si ritrovano a discorrere sul sintomo alimentare, sino ad assegnargli un nome (Ana o Mia); i gruppi sull’autolesionismo e il suicidio sono il ritrovo di chi vuole comunicare le possibili modalità con cui praticarsi tagli e ferite, l’ora e il giorno in cui pensa di darsi la morte, sino a speculare intorno all’idea del suicidio, sul piano filosofico-morale (Lancini e Cirillo, 2022).

“Ciò che avviene in questi gruppi è soprattutto una condivisione della propria sofferenza, riuscendo a superare il senso di vergogna grazie all’anonimato garantito dalla rete.” (Lancini e Cirillo 2022).

Dalle tradizionali sfide in strada ci si sposta sulla rete Internet, che diventa il nuovo territorio in cui gli adolescenti sfidano i limiti e sperimentano la fine dell’onnipotenza infantile. Tuttavia, è bene sottolineare come la partecipazione a sfide altamente pericolose di contatto con la morte arrivi dai ragazzi più vulnerabili, magari con difficoltà evolutive più marcate o privi di prospettive future (Lancini e Cirillo, 2022).

L’insuccesso amoroso, sociale, scolastico e il profondo vissuto di vergogna che ne deriva, possono rappresentare ferite narcisistiche intollerabili per gli adolescenti, capaci di dare avvio a forme di disagio psicologico anche molto severe come i disturbi alimentari, i tentativi di suicidio e il ritiro scolastico e sociale, a cui è dedicato l’ultimo capitolo (Lancini e Cirillo, 2022).

La decisione di ritirarsi dalla scuola e dalle scene sociali più in generale, molto spesso conduce questi ragazzi a sviluppare un rapporto strettissimo con la rete: la propria stanza diventa un bunker inaccessibile e l’ambiente virtuale l’unico canale di contatto con se stessi e con il mondo, consentendo una mediazione tra aspetti ideali e grandiosi del Sé e la realtà concreta.

Un accento particolare viene posto al fenomeno degli Hikikomori, termine coniato agli inizi degli anni Ottanta dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki per indicare una fetta di popolazione giovanile, soprattutto maschile, che intraprendeva la volontaria strada dell’autoreclusione domestica, isolandosi dal contesto sociale, rinunciando a qualsiasi forma di relazione (Lancini e Cirillo, 2022).

A tal proposto, il testo propone un’analisi puntuale del mondo videoludico, dove spesso gli adolescenti ritirati si rifugiano, riportando una serie di evidenze scientifiche sui rischi, ma anche sulle risorse implicate nell’uso di videogiochi (per esempio, la valenza di palestra relazionale del videogame online insieme ad altri utenti), per poi soffermarsi sull’internet gaming disorder e concludere con qualche indicazione ai genitori.

In conclusione, Figli di Internet” invita a tenere in considerazione il valore dei comportamenti in rete e il rapporto che gli adolescenti hanno con i device tecnologici, in quanto estremamente significativi per comprendere maggiormente le complesse vicende affettive e relazionali che i giovani stanno vivendo in famiglia, a scuola e in tutti gli ambienti di crescita (Lancini e Cirillo, 2022).

 

“Ero una maestra molto stanca…” – Il burnout degli insegnanti

Tra le condizioni di lavoro che determinano un fattore di rischio per il burnout degli insegnanti rientrano le classi “pollaio” e la carenza di spazi idonei per svolgere l’attività di insegnamento sia da un punto di vista didattico (assenza di attrezzature) che logistico (spazi ristretti o fatiscenti).

 

La sveglia era diventata un incubo oramai. Era come se ogni mattina mi preparassi a svolgere un lavoro per cui avevo sempre meno energia, meno risorse, meno interesse.

Svolgevo le mie lezioni ‘meccanicamente’, l’obiettivo era terminare la mattinata a scuola e questo stava rendendo impossibile ogni tipo di rapporto sereno con i miei alunni, con i colleghi ma anche a casa con la mia famiglia. Ero una maestra “molto stanca”.

Sindrome “stress lavoro correlato”

Il termine burnout definisce una sindrome da stress lavoro correlato che pone il soggetto in una condizione di esaurimento psicofisico, che coinvolge più aspetti di vita dell’individuo: personale, lavorativo e relazionale.

Inizialmente tale sindrome veniva legata esclusivamente alle professioni socio-sanitarie, mentre oggi coinvolge tutte quelle professioni basate sui rapporti interpersonali, dunque anche a quelle appartenenti all’ambito educativo.

Caratteristiche del burnout

La sindrome, in generale, interessa più aspetti di funzionamento dell’individuo: cognitivi, emotivi, comportamentali e fisici.

L’esito di queste alterazioni determina nell’individuo un iperinvestimento professionale a dispetto delle proprie risorse che possono a loro volta generare difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno e vissuti di ansia e depressione.

Tali difficoltà tendono ad indurre nel soggetto un graduale distacco emotivo sino ad un senso di vera a propria “trascuratezza” relazionale, sia in ambito personale che professionale.

A livello comportamentale queste alterazioni possono tradursi in: assenteismo, calo della produttività in termini qualitativi e quantitativi, richiesta di trasferimento o abbandono della posizione lavorativa.

Si rileva anche il ricorso, che pone a rischio di dipendenza, all’uso di caffeina, tabacco, alcol e farmaci.

In ultimo non per importanza, i sintomi fisici, trovano un’espressione psicosomatica della sofferenza causando disturbi intestinali, del sonno ed emicrania.

Cosa osservare nel contesto lavorativo

Trattandosi di una sindrome stress lavoro correlata è indispensabile guardare a tutti quei fattori di rischio presenti nel contesto lavorativo, ovvero:

  • condizioni di lavoro
  • organizzazione del contesto
  • politiche scolastiche.

Nelle condizioni di lavoro che determinano un fattore di rischio rientrano le classi “pollaio” e la carenza di spazi idonei per svolgere l’attività di insegnamento sia da un punto di vista didattico (assenza di attrezzature) che logistico (spazi ristretti o fatiscenti).

Negli aspetti organizzativi rientrano: il monte ore lavorativo, la cadenza delle riunioni, l’eccessiva burocrazia e la carenza di percorsi di formazione realmente significativi.

In ultimo, osserviamo le “politiche scolastiche” nelle quali rientrano sia le limitate possibilità di carriera che una retribuzione insoddisfacente, spesso secondaria ad un clima di prolungata precarietà.

Prevenzione e intervento nel contesto lavorativo e alla persona

Con il decreto legislativo 81/2008, in termini di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il datore ha l’obbligo di valutare tutti i rischi che possono compromettere sia la salute che la sicurezza del lavoratore, compreso lo stress lavoro correlato.

L’obiettivo è arginare il passaggio da rischio di stress lavoro correlato all’emergere della sindrome di burnout.

A tal proposito sono state evidenziate tre linee direttrici mediante l’accordo Europeo (art. 6) che prevedono interventi nell’area della:

  • gestione e comunicazione
  • formazione
  • informazione e consultazione

Nell’area della gestione e comunicazione diventa indispensabile esplicitare gli obiettivi della didattica, assicurare l’ascolto e il sostegno. Questi ultimi due aspetti devono essere intesi come valorizzazione dell’insegnante come risorsa non solo professionale, ma anche umana e come incoraggiamento alla manifestazione dell’eventuale disagio legato allo svolgimento della professione stessa.

Nell’area della formazione risulta utile aumentare il grado di consapevolezza dell’insegnante rispetto allo stato di stress esperito aiutando non solo a comprenderne le cause, ma offrendo loro la possibilità, con personale qualificato, di acquisire strategie utili per affrontarlo in maniera efficace.

Nell’area dell’informazione e della consultazione è utile fornire informazioni aggiornate sia rispetto al contesto scolastico in cui si opera in termini di risorse, potenzialità ma anche criticità, nonché coinvolgere attivamente il team docenti stesso nei processi decisionali e gestionali del mondo scuola.

Benessere psicologico a scuola: autoefficacia ed autostima

Esistono una serie di risorse personali che permettono, nell’ambito scolastico, un lavoro di intervento psicologico, di prevenzione e promozione del benessere. Tali interventi si pongono come obiettivo il potenziamento di risorse psicologiche atte a diminuire l’impatto dello stress lavoro correlato e dunque ad arginare il rischio di burnout.

Nello specifico parliamo di autoefficacia ed autostima, che insieme garantiscano buone capacità di adattamento al contesto lavorativo.

L’autoefficacia, o self-efficay, si riferisce alla percezione che l’insegnante ha della sua competenza educativa. Essendo questa funzione diretta agli alunni, determinerà: il comportamento dell’insegnante verso gli studenti, inteso come capacità di coinvolgerli nel processo educativo, la gestione della classe, intesa come l’abilità degli insegnanti di guidare gli studenti agli obiettivi stabiliti, ed infine le strategie di istruzione.

La scuola oggi dovrebbe tener conto di quanto l’istituzione scolastica sia diventata complessa per organizzazione e difficoltosa per reali risorse a disposizione. Pensare ad una scuola che ignora la dimensione di benessere psicologico degli insegnanti significa esporre gli stessi al rischio di sindrome di burnout ed indirettamente una crescita, didattica e relazionale, difficoltosa degli studenti.

 

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